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1 febbraio
2007
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GRANDANGOLO:
QUANDO IDEALE E REALTÀ SONO LONTANI
a cura di Laura Barbieri
Come ci piacerebbe che fossero gli altri e come vorremmo essere noi? Cosa ci aspettiamo
davvero dagli altri e da noi stessi? Quando la realtà idealizzata e quella concreta fanno a
cazzotti, la prima può essere difficile da accettare, ma è l'unica possibilità per intervenire
sui fatti. Solo partendo da quello che si ha di fronte si può influenzarlo in meglio.
Un giorno, dopo aver spiegato energicamente a mia madre per l'ennesima volta che cosa
avrebbe dovuto fare per risolvere un annoso problema, mio marito, rimasti soli, mi ha
detto: «L'importante è che non ti aspetti che tua madre lo faccia, perché non lo farà mai».
Queste parole hanno aperto un varco nel muro di aspettative che nutrivo nei confronti dei
miei genitori. Allora ho recitato tanto Daimoku, più di tre ore consecutive, per comprendere
finalmente che erano le mie aspettative a impedirmi di apprezzare i miei genitori e quindi
mi arrabbiavo, li rimproveravo, li evitavo ogni volta che non dicevano o facevano ciò che
avrei desiderato, cioè, dal mio punto di vista, ciò che era giusto, ciò che era meglio.
L'immagine ideale di genitori di cui ero inconsapevolmente portatrice si scontrava
continuamente con la realtà, producendo ogni volta collera o delusione. Di fatto alimentavo
una grande lamentela, quella di avere genitori impegnativi, problematici, ben diversi da
quelli che avrei desiderato e, in fondo, meritato. Il passo successivo, dopo la prima
rivelazione, è stato quello di vederli e di conseguenza apprezzarli per quello che sono, di
liberarmi e liberarli dal peso delle mie aspettative. Così sono emersi la gratitudine, la
tenerezza, il piacere di incontrarli e di aiutarli. La nostra relazione non è più
contrassegnata da tumultuosi alti e bassi, che erano di mia esclusiva creazione. Eppure
loro non sono cambiati anzi, nel corso degli anni tanti aspetti della loro vita sono diventati
davvero difficili.
Niente di nuovo, un'acquisizione che dovrebbe essere ovvia per "un buddista": è la
trasformazione della causa interna che scioglie le tensioni delle relazioni umane e che fa
rinascere tutte le potenzialità che una relazione contiene. Questo principio mi ha
impegnato per tanti anni prima di diventare evidente nel "beneficio" meraviglioso che è:
apprezzare e amare i propri genitori e sentirsi grati nei loro confronti, comunque essi
siano. Dato che mettere a fuoco il carico di aspettative di cui sono portatrice
inconsapevole è stato così utile in questo ambito, ho deciso di estendere la ricerca ad altri
aspetti della vita.
Nell'attività buddista mi sono resa conto di avere una quantità esagerata di aspettative:
come dovrebbe essere chi pratica da uno, dieci, venti, trenta e quarant'anni e quindi come
dovrebbe essere la comunità buddista, infine come dovrebbe "funzionare" l'attività nel
luogo dove vivo e in Italia. Il problema di tutto questo armamentario è che il modello ideale
di comunità buddista, tutto pervaso di concordia e virtù, mi impediva di apprezzare la
realtà, pervasa di conflitti e tensioni, ma popolata di persone come me, difettosamente
determinate a realizzare la pace. Per cui ogni volta che decidevo di organizzare qualcosa
finivo per sprecare una quantità enorme di risorse solo per non soccombere nella
lamentela provocata dall'impatto fra il mondo delle idee e le difficoltà di comprendersi,
accordarsi e muoversi insieme.
Forse tutti hanno pensato che sarebbe bello "fare attività" altrove, che la zona in cui si è
nati sia particolarmente oscurata, che si potrebbe essere meravigliosamente uniti se non
ci fosse lui, lei o loro. Il problema sorge nel momento in cui non si riesce ad apprezzare ciò
che c'è in nome di ciò che non esiste, di un modello ideale. Allora non ci si rende conto
che il problema è nella visione delle cose di cui siamo portatori, non nell'"attività" o nei
compagni di fede.

Il confronto con gli altri

Nella proposta di pace 2004, Daisaku Ikeda ha messo a fuoco in maniera chiara e
semplice, senza utilizzare termini in uso nella comunità buddista, la dinamica che regola i
rapporti fra le persone: «L'io richiede l'esperienza dell'altro. Non possiamo impegnarci con
l'altro in maniera efficace e produttiva se manchiamo di tensione interiore, della volontà e
della forza spirituale per guidare e controllare le nostre emozioni. È riconoscendo ciò che è
esterno da noi, percependo la resistenza che offre, che siamo ispirati a esercitare
l'autocontrollo che permette alla nostra umanità di realizzarsi» (BS, 103, 15). In sostanza
la nostra umanità si manifesta concretamente e si espande, quando la resistenza offerta
dagli altri ci stimola a migliorare noi stessi, a cercare le risorse interiori per affrontare
questa difficoltà in maniera efficace e produttiva. Perché ciò avvenga sono necessari tre
requisiti: la "tensione interiore", la "volontà" e la "forza spirituale" per guidare e controllare
le proprie emozioni. Occorre dunque essere consapevoli che la relazione con gli altri è
difficoltosa per definizione, perché mette in contatto due mondi diversi. Spesso invece si
parte dal presupposto contrario: la cosa più facile e naturale è comprendersi e accordarsi,
quindi se l'altro non è all'unisono con noi, sbaglia, soffre o ha un problema da risolvere. In
questa prospettiva rovesciata rispetto a quella illustrata da Ikeda, ogni volta che ci si
incaglia in un conflitto si è soccorsi dal potere della recitazione del Daimoku. Recitando
sinceramente Nam-myoho-renge-kyo finché non si risolve, si scopre inevitabilmente qual è
il contributo che si può dare per sciogliere il conflitto e si esce migliorati dalla crisi.
Tornando ai tre requisiti individuati da Ikeda, si può verificare che quando coesistono si
sviluppano davvero relazioni pacifiche.
Comunque tutto ciò avviene nel momento in cui si fa ricorso al potere del Daimoku. Come
scrive Daisaku Ikeda: «Attraverso la fede possiamo trasformare tutto ciò che di negativo
esiste nella nostra vita in qualcosa di positivo. Possiamo trasformare qualunque problema
in felicità, qualunque sofferenza in gioia, e qualunque preoccupazione nella pace della
mente. Non ci troveremo mai davanti a un muro che non siamo in grado di oltrepassare.
Nichiren scrive: "Myo significa rivitalizzare, rivitalizzare significa resuscitare." È l'immenso
potere della Legge mistica che infonde nuova vita in ogni cosa, inclusi gli individui, le
organizzazioni, le società e le nazioni» (Il Gosho e la vita quotidiana, Esperia, 2006, 37). Il
potere rivitalizzante di myo consente di guardare le proprie difficoltà in una prospettiva del
tutto nuova, proprio mentre le si sta vivendo. E questa nuova prospettiva, guarda caso,
coincide sempre con quella "buddista" e fornisce una soluzione concreta e praticabile per
ogni problema: cambiare se stessi. In questo incessante processo di trasformazione, nel
miglioramento che il potere della Legge mistica è in grado di imprimere nella vita di ogni
persona, si verifica un parallelo e naturale cambiamento nel modo di percepire gli altri.
Rivitalizzare se stessi è allora la chiave per vedere gli altri sotto una luce positiva.
Il nesso fra questi due aspetti è evidenziato da Ikeda: «La vita è dotata di un potenziale
incalcolabile. Per questo motivo non dovremmo giudicare mai nessuno come
irrecuperabile. In particolare non dobbiamo mai porre limiti alle nostre possibilità. Nella
maggior parte dei casi, i nostri cosìddetti limiti ce li siamo posti noi stessi» (La saggezza
del Sutra del Loto, Milano, Mondadori, 2005, vol. 1, pag. 112). Il giudizio che discrimina e
che limita è rivolto alla vita in qualunque forma si manifesti, senza alcuna differenza fra la
propria e quella altrui. Pensare che qualcuno non cambierà significa pensarlo di se stessi,
quindi diventa necessario rivitalizzare il proprio approccio alla vita attraverso il potere di
Myoho-renge-kyo.
Anche rispetto a se stessi le aspettative giocano un ruolo determinante. In settembre,
quando è iniziato l'anno scolastico, ho pensato che non sarei più riuscita a collaborare con
Il Nuovo Rinascimento. Dal punto di vista dell'organizzazione pratica della giornata si
trattava di un'aspettativa ragionevole. Tuttavia, soffrendone, mi sono rivolta al Gohonzon.
Recitando ho compreso che non era necessario praticare il Buddismo per eliminare un
impegno quando ne sopraggiunge un altro. Avevo già anteposto la sconfitta alla sfida,
decidendo che non era possibile aumentare le risorse invece che limitare gli impegni.
Anche senza scomodare la straordinaria opportunità che Ikeda ha preparato per noi,
quella di rinnovarci completamente in questi cinque anni per costruire una solida base al
movimento di kosen-rufu nel mondo, le mie aspettative erano davvero lontanissime dalla
prospettiva con cui il Buddismo ci aiuta ad affrontare la vita. Una volta compreso che così
avrei sciupato un'occasione per aprire, trasformare, rivitalizzare la fede, è stato sufficiente
recitare Daimoku con convinzione perché questa difficoltà si rivelasse per ciò che era: un
limite posto da me stessa.

Specchiarsi nel Gohonzon

Come scrive Nichiren Daishonin: «Noi comuni mortali non possiamo vedere le nostre ciglia
che sono vicine né il cielo che è lontano. Ugualmente non sappiamo che il Budda esiste
nel nostro cuore» (Gosho di Capodanno, SND, 4, 271-272), quindi la condizione di non
vedere se stessi è del tutto naturale. Proprio per questo il Daishonin ci ha lasciato il
Gohonzon, lo specchio per vedere la propria vita, e lo strumento per lucidarlo, che è Nam-
myoho-renge-kyo. Così, recitando Daimoku al Gohonzon, possiamo vedere distintamente
le nostre sopracciglia, cioè che cosa sta manifestando la nostra vita in quel momento, e
partendo da questo, sperimentare che il Budda esiste nel nostro cuore. Allora ogni volta
che una sofferenza o una difficoltà si manifesta, si può ricorrere allo specchio per vedere
se stessi e decidere di cambiare e proseguire. A volte anche le persone che ci sono
intorno desiderano aiutarci a vedere ciò che stiamo manifestando, ma le critiche non
hanno mai costituito una motivazione forte per cambiare. È come se qualcuno ci
inseguisse con uno specchio dicendo: «Guarda, guarda quanto sei brutto!» pretendendo
la nostra collaborazione in questa impresa. Se invece le persone ci apprezzano, siamo i
primi a confidare i nostri punti deboli e a chiedere consigli per trasformarli positivamente.
Tornando alle aspettative, anche a scuola ho avuto modo di misurarne l'influenza sulla
qualità delle decisioni da prendere. Quest'anno insegno in un istituto professionale
universalmente noto come pessimo. In questa cornice c'è poi una classe davvero
impegnativa, che ha richiesto immediatamente pesanti interventi disciplinari. In cuor mio
entravo in classe come si va nella fossa dei leoni, con frusta e sgabello, predisponendomi
a un anno durissimo. Recitando Daimoku ogni mattina prima di incontrare quella classe ho
visto chiaramente accesa la spia rossa: aspettativa negativa, giudizio discriminante.
Migliorando il mio stato vitale, la classe ha cessato di essere ai miei occhi un'entità unica,
e ho iniziato a distinguere ogni singola persona al suo interno. Poi, sempre recitando
Daimoku, ho deciso che volevo vedere i pregi di questi ragazzi, le loro potenzialità. Molto
rapidamente la situazione è cambiata completamente e adesso lavoriamo insieme
volentieri, nonostante i problemi siano ancora tanti. Recitare Nam-myoho-renge-kyo al
Gohonzon mi ha permesso in un primo momento di comprendere che avevo posto dei
limiti a me e a loro, poi mi ha fornito le risorse per rivitalizzare questa relazione e
consentire a me e a loro di manifestare un potenziale positivo.
In fondo questo meccanismo è stato identificato con il nome di ichinen sanzen, secondo
cui in qualunque stato vitale si stia soggiornando è possibile accedere a tremila mondi,
aprire tremila nuove possibilità. Riconoscendo le aspettative negative, i pensieri
discriminanti di cui si è inconsapevolmente portatori, si può aprire il cuore al potere
rivitalizzante del Daimoku e rendere concrete le possibilità che la vita offre.

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