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Intorduzione storica al Candomblé

1. INTRODUZIONE STORICA AL CANDOMBLÉ1

Non sono nato con la sete di libertà.


Sono nato libero, libero in ogni senso che potessi conoscere.
Libero di correre nei campi vicino alla capanna di mia madre,
di nuotare nel limpido torrente che scorreva attraverso il mio villaggio,
di arrostire pannocchie sotto le stelle,
di montare sulla groppa capace dei grandi buoi.

Nelson Mandela, Lungo cammino verso la libertà.

1.1 La tratta degli schiavi dall’Africa al Brasile

La storia del Candomblé è storia di schiavitù e senza la comprensione di


quest’ultima è impossibile cercare di studiare questa religione.
L’arrivo dei portoghesi in Brasile inizia nel 1500, quando Pedro Alvares Cabral
“scoprì” per caso il Brasile durante un viaggio verso le Indie orientali, scoperte l’anno
precedente da Vasco de Gama. Queste terre vennero reclamate ufficialmente dalla
corona portoghese in base al precedente trattato di Tordesillas del 7 giugno 1494,
stipulato da Spagna e Portogallo per dividere le colonie d’oltreoceano e le rotte
oceaniche per raggiungerle.
La colonizzazione dell’America non ebbe, in origine, funzione di popolamento, ma
serviva a fare del commercio con gli indigeni e per fare concorrenza al mercato
orientale di spezie, pietre preziose e tessuti. Ma sotto questi aspetti l’America non
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Poiché la cultura del Candomblé è eminentemente orale e lo iorubá è una lingua morta, i termini
utilizzati possono essere scritti secondo diverse grafie: brasiliana, iorubá o brasiliana-iorubá. Quella che
utilizzerò è tratta da Cacciatore (1977), una delle più utilizzate nella letteratura scientifica ed è una grafia
basata sulla pronuncia brasiliana. Pertanto la X viene pronunciata sc, la j è sempre dolce, come nel
francese jour. Nelle citazioni manterrò invece la scrittura del testo originale.
Per agevolare la lettura ho inserito un glossario a pag. con la spiegazione dei termini specifici legati al
Candomblé.

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1. Intorduzione storica al Candomblé

poteva offrire molto, per cui si decise di ampliare le potenzialità di queste terre con
coltivazioni di canne da zucchero e tabacco inizialmente e sfruttamento di miniere d’oro
e diamanti nello stato di Minas Gerais in seguito, per poi arrivare alla coltura di caffè e
cotone (Bastide, 1960, p. 41; Franceschelli, 2000, p. 37). Per questi lavori occorrevano
però forti braccia e inizialmente si sfruttarono quelle degli Indios, i quali si rivelarono
ben presto inadeguati a questo tipo di lavori pesanti (Bastide, ibidem, p. 42). Fu
Bartolomè de las Casas che, in buona fede, per salvare le popolazioni autoctone,
propose l’importazione di schiavi neri, molto più resistenti e robusti (Verger, 1982, p.
25; Burzio, 1998, p. 52).
Per Ligiéro (ibidem, p. 18) e Santana (ibidem, p.17) le prime navi negriere
arrivarono in Brasile nel 1538, mentre arrivarono un po’ più tardi, nel 1549, secondo
Iyakẹmi Ribeiro (1996, p. 223), la quale aggiunge che

alcuni storici sono dell’opinione che nel 1511, sulla nave Bretoa, con Fernando de
Noronha, ce n’erano già alcuni2.

Il traffico negriero durò, ufficialmente, tre secoli, ma perdurò clandestinamente fino


al 1850 (Ligiéro, op. cit., p. 19; Iyakẹmi Ribeiro, op. cit., p. 224).
È difficile stabilire il numero preciso di schiavi trasportati nel nuovo continente, in
quanto le fonti sono spesso controverse: molti documenti sono spariti o sono ancora
sepolti negli archivi, differenti autori adottano diversi metodi per ricostruire il traffico
negriero ed inoltre la documentazione non tiene conto del traffico clandestino (Bastide,
1967, p. 35; Iyakẹmi Ribeiro, ibidem, p. 224). L’Encyclopédie Catholique (Bastide,
ibidem, p. 35) parla di dodici milioni di prigionieri arrivati in Brasile, mentre altre fonti
indicano addirittura cinquanta milioni. Barbàra (1999, p. 11) parla di più di nove milioni
di africani, ma l’analisi più accurata sembra quella di Bastide (1960, p. 45, 1967, p. 36),
secondo il quale i metodi più attendibili per ricostruire il traffico negriero sono due: uno
economico e uno storico.
Il primo, in base a calcoli per indurre il numero di schiavi indispensabili per la
coltivazione delle canne da zucchero e del caffè, per la produzione mineraria, per le

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alguns historiadores são de opinião que em 1511, na Nau Bretoa, com Fernando de Noronha, já
vieram alguns.

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altre produzioni agricole e per i servizi domestici, arriva ad un totale di 3.300.000


schiavi.
Il secondo metodo, invece, si basa sui documenti storici quali gli archivi municipali
dei porti per le tasse di dogana pagate sui neri. Con questa tecnica si arriva ad un totale
di 3.600.000 schiavi arrivati in Brasile tra il 1500 e il 1850.
Queste cifre non tengono naturalmente conto del numero enorme di coloro che
morirono durante il tragitto per le condizioni disumane in cui viaggiavano. Bastide
(1960, p. 47) ci dice che

molti altri africani sono stati sottratti ai loro paesi per essere trasportati in Brasile, ma
incatenati sulla nave, stretti gli uni contro gli altri sono stati decimati dalle malattie
contagiose, dalla fame o dalla sete, e i loro corpi gettati nell’oceano. A volte, solo la metà
del carico arrivava a destinazione3.

Una cifra attendibile dei neri deportati sembra quindi quella di circa sette milioni, di
cui solo la metà arrivò in Brasile.
Bastide (1967, p. 38) e Verger (ivi, p. 22) per primi suddivisero il commercio
schiavista, concentrato principalmente verso Salvador di Bahia, allora capitale, e in
misura minore a São Luís nel Maranhão, Recife nel Pernambuco e Rio de Janeiro, in
quattro periodi, in funzione delle nazioni di origine degli schiavi:
1. il ciclo della Guinea, della seconda metà del XVI secolo;
2. il ciclo dell’Angola e del Congo, durato l’intero secolo XVII;
3. il ciclo della Costa di San Giorgio di Mina o degli schiavi, comprendente il Ghana
orientale, dal fiume Volta, il Togo, il Benin e la Nigeria occidentale, fino a Lagos,
includendo i primi tre quarti del XVIII secolo;
4. il ciclo della baia del Benin, che va dal 1770 al 1850 circa.

Queste incursioni portarono alla schiavitù diverse tribù, radunabili in tre grandi
gruppi:
1. i Malês: comprendono gli Hauçá della Nigeria settentrionale, le tribù Nagô4 dei
Nupê, Bornu e Gurunsi della Nigeria, i Fulah o Peuls del nord Africa e del Sahel, i
3
bien d’autres Africains ont été arrachés à leur pays pour être tranportés au Brésil, mais enchaînés sur
la navire, serrés les uns contre les outres ils ont été décimés par les maladies contagieuses, la faim ou la
soif, et leur corps jetés dans l’Océan. Parfois, la moitié seulement de la charge arrivait à destination.

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Mandingas del Mali, Senegal e alto Niger (Bastide, 1960, p. 62; Iyakẹmi Ribeiro, ivi,
p. 225; Burzio, 1998, p. 54). Ciò che accomuna queste tribù è il fatto di essere tutte
musulmane. Ironia della sorte, queste etnie sul suolo africano possedevano schiavi,
come consentito dal corano. Furono i più indomiti e ribelli: dapprima gli Hauçá e poi
i Nagô insorsero infatti per ben otto volte tra il 1807 e il 1835. Durante quest’ultima
jihad la maggior parte di queste tribù venne massacrata, e i pochi superstiti vennero
ricacciati in Africa, per cui la loro influenza sul Candomblé è pressoché nulla
(Carneiro, 1954, p. 40; Bastide, ibidem, p. 62, 1967, p. 38; Ligiéro, ivi, p. 19; Burzio,
1998, p. 54).
2. I Banto: comprendono i Congos e i Cabindas del Congo, gli Ambundas, che
includono gli Angolas, Benguelas, Monjolos, Cassangues, Dembos dell’Angola e i
Macuas e Angicos del Monzambico. La loro importazione fu maggiormente diretta al
nord-est del Brasile, a São Luís nel Maranhão e a Recife nel Pernambuco oppure al
sud-est, a Rio de Janeiro (Carneiro, ivi, p. 39; Bastide, 1960, p. 63; Iyakẹmi Ribeiro,
ivi, p. 225). Da qui si diffusero lungo il litorale del Pará e all’interno dell’Alagoas, di
Mina Gerais e di São Paulo. Apprezzati per loro forza e resistenza fisica e per le loro
qualità di agricoltori, vennero utilizzati come “schiavi di campi” nelle piantagioni di
caffè, di cotone e nelle miniere d’oro e di diamanti in rapido sviluppo. Rappresentano
la maggioranza degli schiavi sbarcati nel XVI e XVII secolo e per questo la loro
influenza religiosa fu inizialmente molto forte, ma ben presto venne scemando per tre
motivi fondamentali. In primo luogo angolani e congolesi

si mostravano più permeabili alle influenze esterne; capivano che la loro cristianizzazione o
la loro occidentalizzazione, in una società i cui modelli europei erano il criterio del
comportamento, avrebbe permesso una mobilità verticale che una resistenza culturale,
invece, avrebbe compromesso (Bastide, 1967, p. 134).

In secondo luogo queste popolazioni avevano interiorizzato molti concetti


cristiani già in Angola, dove, dal XVI secolo, erano presenti missionari gesuiti che
avevano appreso la lingua locale e avevano attuato un grande piano di
evangelizzazione.

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Il termine Nagô è il nome dato in Brasile agli schiavi dei paesi di lingua iorubá, per cui i due termini
vengono oggi usati indistintamente come sinonimi.

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In terzo luogo le religioni banto non costituivano sistemi organizzati, ma si


basavano sul culto degli antenati, cosa che la schiavitù rese impossibile, spezzando e
disperdendo le stirpi. Inoltre gli Inkice venerati erano legati a luoghi fisici precisi e
determinati, cosicché il loro culto, lontano dalla terra d’origine, risultava impossibile.
Laddove persistono culti di questa matrice, i cosiddetti Candomblé Angola o Congo,
essi hanno ricalcato i loro rituali su quelli iorubá o fon, e hanno stabilito una
corrispondenza tra i loro dei e gli Orixás, mantenendo d’originale solo la lingua
kimbundo. Col tempo, sincretizzando elementi indi, dello spiritismo kardecista e del
cattolicesimo, si sono evoluti nell’attuale Umbanda, praticata soprattutto nello stato
di Rio de Janeiro e di São Paulo. Per tutti questi fattori questa cultura non si impone
in ambito religioso, ma lascia il segno soprattutto nel folclore (musica, balli, cucina)
(Bastide, 1967, p. 117; Faldini Pizzorno, 1995, p. 75; Franceschelli, 2000, p. 40;
Burzio, ivi, p. 40).
3. I sudanesi: comprendono gli Iorubá, che includono varie etnie, quali Oyó, Egbá,
Ijebu, Ijexá, Keto, Owó, della Nigeria, i Fanti-Axanti, chiamati anche Minas, del
Ghana, gli Ewe e i Fon, chiamati genericamente Jeje, del Benin e i gruppi minori dei
Kroumans, Agni, Zema e Timini. Si trattava, per lo più di gruppi etnici in contrasto
tra di loro, per cui non stupisce il fatto che i Minas aiutarono non poco gli schiavisti
portoghesi nel catturare i nemici dei regni vicini. Iyakẹmi Ribeiro (ivi, pp. 79-92)
descrive le popolazioni iorubá, inizialmente politicamente centrate attorno alla città
di Ifé e in seguito a quella di Oyó, come basate principalmente sull’agricoltura e in
secondo luogo sulla caccia e la pesca. L’artigianato era di qualità molto elevata e
tutte queste attività portarono queste popolazioni a commerciare i propri prodotti
anche in terre piuttosto lontane, quali il Togo o le zone settentrionali della Nigeria. Il
lavoro nei campi era di competenza prettamente maschile, mentre alle donne spettava
la pulizia, macinazione, immagazzinamento e vendita del sovrappiù dei prodotti
agricoli, oltre alla cura dei bambini e degli animali domestici. L’organizzazione
socio-politica era monarchica e il re, chiamato Oní Oba Ifè, discendente del mitico re
Odudua, inviato a Ifé da Olórun stesso, è il rappresentante in terra degli Dei, e, una
volta morto, diventerà egli stesso un Orixá. Suoi subalterni sono il baalẹ, fondatore e
capo di una tribù e l’obá, capo di una città e delle tribù ad essa associate. L’intera
struttura sociale era fortemente gerarchica e ciò si ritrova come elemento molto

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importante nella struttura sacerdotale all’interno del Candomblé brasiliano. La


società iorubá era fortemente patriarcale e venne data una grandissima importanza
alle relazioni familiari, non solo su un asse orizzontale, ma anche su uno verticale
che include gli antenati e i figli non nati. Presso queste popolazioni l’individuo non
era concepito separato dal contesto, ma era visto come parte di un tutto e di una
comunità da cui era inscindibile. Queste popolazioni furono concentrate, nella quasi
totalità, nella Bahia, dove vennero utilizzati come “schiavi di casa”, poiché nel
XVIII-XIX secolo non c’era più bisogno, come precedentemente, di manodopera per
le piantagioni e le miniere in rapido sviluppo, ma era più utile avere una manodopera
servile per le attività cittadine. Essi costituivano infatti l’infrastruttura principale
delle occupazioni urbane: muratori, calzolai, panettieri, fabbri, scaricatori…
(Carneiro, 1954, p. 40; Bastide, 1960, p. 63; Iyakẹmi Ribeiro, ivi, p. 225; Burzio, ivi,
p. 57). L’influenza di questi popoli, soprattutto quelli Iorubá, è di fondamentale
importanza per la nascita del Candomblé, e il culto degli Orixás divenne ben presto il
più importante all’interno dei neri. Il fatto di essere utilizzati per lavori cittadini e
potendo disporre quindi di una certa libertà e rapporti sociali e di un po’ di denaro,
permise la fondazione delle prime comunità religiose.

1.2 Dai batuques5 ai terreiros della Bahia

Una volta arrivati nel nuovo mondo, gli schiavi venivano sbrigativamente
battezzati, senza un’adeguata istruzione religiosa. Sebbene in Brasile lo schiavo era
integrato all’interno della famiglia, la sua posizione subalterna era però sempre marcata
e questo si rifletteva anche nella vita religiosa. Come ricorda Bastide (ibidem, pp. 151-
174), il cattolicesimo dei neri non era uguale a quello dei bianchi: le messe erano
separate, al mattino presto per gli schiavi e più tardi per i padroni, e spesso i sermoni
erano diversi. I preti non compivano la loro missione evangelizzatrice sui neri per
amore, ma solo perché costretti dai padroni. La mentalità cattolica permeava tutti i
giorni la vita dello schiavo: al mattino e alla sera, quando si incontrava con il padrone,
c’erano le richieste di benedizione a Gesù e Maria, secondo una formula rituale molto
5
Come ci ricordano Bastide (1967, p. 118), Cacciatore (1977, p. 65) e Burzio (ibidem, p. 69), batuques
era il nome dato dai portoghesi alle danze dei negri. Il termine deriva da batucar, battere.

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precisa e articolata. La cultura cattolica si rifletteva poi anche in tutto l’anno, con le
varie feste sacre quali Natale e Pasqua, sempre però sottolineando la sottomissione e
l’inferiorità dei neri. Nel 1530 si arrivò, per ordine del monarca portoghese Dom João
III, ad imprimere a fuoco sul petto degli schiavi angolani il sigillo reale o una croce, sia
come prova dell’avvenuto pagamento della imposta reale sia come certificato di
battesimo. Il nome originario, pieno di significato e carico di densità affettiva, veniva
cambiato con uno cristiano e il suo uso veniva proibito, con l’intento di distruggere
l’identità della persona (Burzio, ivi, p. 58). Per giustificare l’istituzione della tratta, si
andava affermando che questo era il metodo più sicuro per portare alla Chiesa le anime
dei neri, per non lasciarle perdersi in Africa in un paganesimo degradante o rischiare di
essere assoggettati in qualche eresia da nazioni nemiche come l’Inghilterra. Questa
preoccupazione portò, verso la fine del XVIII secolo, a proibire agli stranieri protestanti
viventi a Bahia di possedere dei negri, specialmente quelli appena arrivati (Verger,
1982, p. 23; Burzio, ibidem, p. 58).
Tra le nozioni religiose impartite agli schiavi non mancavano certamente quelle
riguardanti i Santi cattolici, che erano ben conosciuti sia perché era usanza battezzare le
navi per il trasporto dei negri con nomi di Santi, invocati come protettori delle “merci”
sia perché le piccole chiese rurali erano dedicate a santi cui veniva rivolto un culto e
un’adorazione non indifferente. Thales de Azavedo passò in rassegna i nomi delle navi
utilizzate per il trasporto degli schiavi e trovò che quelli più utilizzati erano Nossa
Senhora, Bom Jesus, Sant’Antônio, São José, Sant’Ana, São João Batista (Verger,
ibidem, p. 23). Molto conosciuto e venerato era anche San Benedetto il Moro che, a
causa del colore della sua pelle, divenne ben presto il protettore di tutti i neri.
Come abbiamo visto, le tribù arrivate in Brasile erano molte e spesso nemiche tra di
loro, come gli Agomes e i Nagô, o i Jeje e gli Hauçá, o ancora i Nupê o gli Axanti, che
si ritrovarono costrette a lavorare le une accanto alle altre nei campi o nelle miniere.
Questo fatto era ben conosciuto dai padroni, i quali, secondo l’efficace pratica del dividi
et impera di romana memoria, per evitare che il comune sentimento d’oppressione
potesse essere una matrice di base per l’unificazione di queste tribù contro lo
schiavismo, permettevano loro di ritrovarsi ogni domenica a ballare e suonare
raggruppati secondo le nazioni d’origine in quelli che venivano chiamati batuques. In
questo modo avrebbero mantenuto vivi la fierezza della propria nazione e la coscienza

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delle proprie origini, senza dimenticare i rancori verso i nemici che avrebbero potuto
spegnersi nella disgrazia comune (Verger, 1954, p. 16, 1982, p. 25; Bastide, 1967, p.
118; Burzio, ivi, p. 60). Come riferisce Verger (1982, p. 25), verso il 1758 il settimo
vice re Conde dos Arcos si dichiarò un fervido sostenitore di questo tipo di distrazioni,
non per spirito filantropico, ma perché giudicava

utile, grazie a queste riunioni, che gli schiavi conservassero il ricordo delle loro origini e
non dimenticassero i sentimenti d’avversione reciproci che li avevano spinti a combattersi
in Africa. Così divisi non c’era il rischio che si ribellassero insieme contro i padroni6.

Uno dei risultati ottenuti dall’istituzione dei batuques, certamente non previsto dal
governo, fu quello di permettere alle divinità dei negri di non morire. I padroni, vedendo
gli schiavi danzare e cantare nella loro lingua, non pensavano che in realtà essi stavano
cantando e danzando in cerimonie religiose per onorare e far rivivere i loro dei, Orixás,
Inkice o Vodun. Se gli schiavi avessero dovuto rendere conto di ciò che facevano, non
mancavano di dichiarare che stavano lodando i Santi del paradiso nella loro lingua
d’origine. Si iniziò così a creare una corrispondenza, che col tempo divenne
sincretismo, tra Orixás e Santi, in base all’iconografia, all’agiografia o alla liturgia che
li accomunava. Secondo Mazzoleni (1993, p. 220), è indispensabile specificare che
questo sincretismo fu facilitato

da quel particolare tipo di cattolicesimo con cui vennero a contatto gli schiavi, dove sfarzo
e commozione, credulità e miracolismo culminavano nelle periodiche processioni di massa
e nella esposizione idolatrica dei santi.

Così Omolu, divinità del vaiolo e delle malattie, divenne San Lazzaro, Xangô
divenne San Gerolamo, Iansã Santa Barbara.

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utile, grâce à ces réunions, que les esclaves gardent les souvenirs des leurs origines e n’oublient pas le
sentiment d’aversion réciproque qui les avaint poussés à se faire la guerre sur le sol d’Afrique. Ainsi
divisés, ils ne risquaient pas de soulever aves ensemble contre leurs maîtres.

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Bisogna anche aggiungere che questi fenomeni sincretici furono fondamentalmente


di facciata e non andarono ad intaccare i nuclei fondanti del Candomblé7 (Verger,
ibidem, p. 27).
Questo raggruppamento in nazioni non poteva esistere che in città: i neri delle
piantagioni, di origine soprattutto banto, non erano abbastanza numerosi per costituirsi
in nazioni e la loro libertà era molto ridotta, per cui difficilmente riuscivano a riunirsi
tra di loro. In città, invece, era più facile ritrovarsi anche segretamente, le persone di una
stessa tribù erano più numerose, meno disperse e tendevano a ritrovarsi tra di loro
spontaneamente (Bastide, ivi, p. 118).
All’inizio del XIX secolo i neri delle città iniziarono ad organizzarsi in irmandades
(fratellanze) religiose attigue alle chiese dove si riunivano, sempre separati secondo le
etnie d’origine, e ciò andò a sostituire l’istituzione di batuques del secolo precedente. I
Nagô, la maggioranza dei quali era originaria della città di Keto, si ritrovavano in due
comunità diverse: i maschi in quella di Nosso Senhor dos Martirios, le donne in quella
di Nossa Senhora da Boa Morte, attigua alla chiesa della Barroquinha (Verger, ivi, 27).
Verso il 1830, un gruppo di schiave affrancate, originarie della città di Keto e
appartenenti all’irmandade de Nossa Senhora da Boa morte, prese l’iniziativa di
fondare il primo terreiro di Candomblé8, chiamato Iyá Omim Axé Airá Intilé. L’identità
di queste donne è controversa: lo stesso Verger (ibidem, p. 26) ci dice che

i nomi di queste donne sono controversi. Due di loro, chiamate Iyaluso Danadana e Iyanaso
Akala, secondo alcuni, o Iyanaso Ọka secondo altri, aiutate da un certo Baba Asika […]
sarebbero state le fondatrici del terreiro9.

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Famoso è il manifesto scritto nel 1983, in seguito alla II Conferência Mundial da Tradição Orixá e
cultura, intitolato Iansã não è Santa Barbara, in cui cinque delle più famose Mãe de Santo di Bahia,
Menininha del Gantois, Stella dell’Ilé Axé Opô Afonjá, Tete del Casa Branca, Olga dell’Alaketo e
Nicinha del Bogum, affermarono che il Candomblé aveva deciso di smettere col sincretismo a fini
folcloristici (Gomes Consorte J., in Barba, Faldini, Prandi, 2002, p. 33).
8
I culti afro-brasiliani assumono nomi diversi a seconda del luogo: vengono chiamati Batuque nel Rio
Grande do Sul, Xangô a Recife, Macumba a Rio de Janeiro.
9
les noms de ces femmes sont eux-même controversés. Deux de celles-ci, appellées Iyaluso Danadana et
Iyanaso Akala, suivant les uns, ou Iyanaso Ọka d’après les autres, aidées d’un certain Baba Asika […]
auraient été les fondatrices du terreiro.

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Secondo Carneiro (1954, p. 48), invece, le donne si chiamavano Iyá Detá, Iyá Kalá
e Iyá Nassô. Questa storica e memorabile casa di Candomblé cambiò più volte luogo,
fino ad arrivare in via Vasco de Gama, dove si trova ancora oggi, conosciuta in tutto il
Brasile come Ilê Iyá Nassô o col nome popolare di Casa Branca do Engenho Velho.
Da questa casa madre si distaccarono, col tempo, altri terreiros altrettanto famosi e
rispettati. Il primo fu l’Ilê Iyá Omim Axé Iyá Massê, più conosciuto come Gantois,
fondato nel 1849 da Julia Maria da Conceição Nazaré in seguito a una disputa sulla
successione avuta con Marcelina Obatossi, successora di Iyá Nassô.
Un altro Ilê Axé che si distaccò da Casa Branca fu, nel 1910, il Centro Cruz Santa
do Axé Opô Afonjá, fondato da Eugênia Ana Santos e Joaquim Vieire, più conosciuti
come Mãe Aninha e Ti’Joaquim. L’attuale Ialorixá è la possente Mãe Stella de
Azavedo, sicuramente la figura più prestigiosa e autorevole all’interno del Candomblé
attuale.
Altri terreiros prestigiosi sono l’Ilê Axé Opô Aganju e l’Alaketo (Ilê Mariolaje),
entrambi di denominazione keto.
Tra le case jeje-nagô va evidenziato l’Ilê Axé Oxumarê, fondato nel 1930 da
Antônio de Oxumarê, conosciuto anche come Antônio das cobras. (Carneiro, ivi, p. 43;
Verger, ivi, p. 28; Amado, 1992, p.166).

1.3 L’importanza della nazione keto

Indubbiamente la nazione che più di tutte ha avuto successo e si è affermata in


campo religioso è stata quella nagô di Keto. Studiosi di fama internazionale quali Nina
Rodrigues, Verger, Bastide, Carneiro prendono tutti come riferimento i Candomblé di
questo tipo. Amado (1992, p. 166) ci dice che questi

sono i più puri – e fra essi se ne trovano alcuni il cui rituale è realmente degno di nota- e
sono anche i più potenti e rispettati. […] Le case-di-santo gêge-nagô sono per così dire alla
testa del misterioso complesso delle religioni negre, non solo a Bahia, ma in tutto il Brasile.

L’idea della purezza e originalità sembra dunque di fondamentale importanza, ma


in realtà essa si basa su presupposti errati.

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In primo luogo il concetto di purezza presuppone l’esistenza di uno stato originale,


un Candomblé africano uguale a quello brasiliano. Ma questo non esiste. Le diverse
divinità adorate oggi in un unico terreiro, in Africa erano venerate in città diverse, da
etnie diversi. È solo in Brasile che queste diverse tribù si sono mescolate e hanno riunito
in un unico pantheon i loro dei.
In secondo luogo l’egemonia sudanese su quella banto è avvenuta per una serie di
motivazioni storiche e culturali già ricordate, che non presuppongono però una
superiorità intrinseca della cultura nagô, anche se è vero che la cultura banto è
tendenzialmente più sincretica e meno aderente ai modelli di riferimento africani.
In terzo luogo, l’importanza data dai ricercatori , primo tra tutti Nina Rodrigues, a
questa nazione ha alimentato il pregiudizio che fa sembrare questo Candomblé il più
notevole (Bastide, 1967, p. 41; Góis Dantas B., 1987, p. 122; Mazzoleni, 1993, p. 221;
Franceschelli, 2000, p. 42).

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