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Convegno Dottorandi

25-27 novembre 1999


Reggio Emilia

IL DESTINO DELLA TEODICEA


NEL SAGGIO ROSMINIANO SUL PROBLEMA DEL MALE

di
Paolo Gomarasca

RELAZIONE

Che l’esperienza del male si imponga alla coscienza come l’inassumibile è evidente: il male,
per usare un’espressione di Lévinas, è sì un dato della coscienza, ma in questo suo essere
“contenuto” è piuttosto un “malgrado-la-coscienza”, un rinnegamento e un rifiuto di senso che si
impone come qualità sensibile. Che dunque questa esplosione di assurdità faccia soffrire senza via
d’uscita è un dato di pertinenza fenomenologica. Ciò che, invece, semplicemente non consta è che il
male possa essere assunto come problema in vista di una soluzione.
Eppure, quando viene inteso come problema, si tende a dimenticare che il male è “risolvibile”
soltanto nell’ipotesi, tutt’altro che evidente, della sua iniziale assunzione: solo a questa condizione,
infatti, il male è “trattabile” da chi ne cerca la soluzione. Quindi, l’espressione “problema del male”
è già uno dei modi di scavalcare ciò che nel reale della coscienza continua a manifestarsi come
l’inassumibile: si presuppone che esista un discorso in cui il male venga spiegato e successivamente
“scaricato” nel suo carattere di assunzione problematica. Va da sé che l’eventuale impossibilità,
sperimentabile entro un discorso, di scaricare l’assunzione di partenza, non viene “letta” nei termini
dell’evidente inassumibilità del male come problema: si dirà, piuttosto, che il problema del male,
entro quel discorso, non ha soluzione, ma che potrebbe averla in un altro discorso, forse ancora da
inventare.
I discorsi finora inventati per trattare il male, proprio o altrui, sono dunque molteplici. Una
“soluzione” è offerta anche dalla filosofia, in quel discorso che porta il nome di “teodicea”. La
presente ricerca si concentra proprio su questo particolare tipo di discorso. Il suo intento però non è
quello di valutare il tipo di soluzione escogitato: sono numerosi ormai gli esempi che mostrano
l’impossibilità della teodicea come modello di riflessione sul male, così come, del resto,
l’esperienza del male è diventata fin troppo pesante perché possa essere in qualche modo
“scaricata”.
Ciò che, invece, si può fare è rovesciare l’approccio: non, quindi, cercare nella soluzione
proposta dalla teodicea le “ragioni” che dovrebbero spiegare il problema del male, bensì cercare
nella costituzione stessa del male come problema le ragioni della teodicea come discorso. L’intento
di questo “rovesciamento” è quello di disoccultare ciò che la teodicea da sempre dimentica, ovvero
che l’assunzione dell’inassumibile si fa sotto precise condizioni. Il che permette di situare il
discorso della teodicea non tanto in base alla storia delle differenti soluzioni inventate, quanto in
riferimento alla distanza che ogni possibile assunzione teodiceizzante realizza rispetto
all’esperienza del male, così come si dà alla coscienza.
Per realizzare questo progetto è stato necessario scegliere un contesto di teodicea che fosse
sufficientemente strutturato da poter essere “smontato” nelle sue condizioni di assunzione del
problema: da questo punto di vista, il saggio di Rosmini mi è parso assolutamente esemplare.
In effetti, le particolarità di struttura che caratterizzano lo scritto rosminiano sono molteplici.
Particolare è sicuramente il fatto che si tratta dell’ultimo grande saggio di teodicea dell’800 e, come
tale, raccoglie l’eredità delle precedenti riflessioni sull’argomento. Per la valutazione di questo
primo aspetto è essenziale il riferimento allo studio di Piovani del ’57: La teodicea sociale di
Rosmini.
Questo lavoro resta ancora oggi l’unico supporto bibliografico in grado di fornire una lettura
approfondita del saggio rosminiano, tanto in riferimento alle fonti utilizzate dal filosofo di
Rovereto, quanto rispetto alla struttura complessiva dei suoi numerosi scritti.
Ora, rispetto alle fonti, il dato interessante che emerge è la compresenza di prospettive
storiografiche difficilmente conciliabili. Ciò rende la Teodicea di Rosmini profondamente instabile:
da una parte, sembra prevalere una preoccupazione sistematica di origine leibniziana, per la quale
conta soltanto che il maximum di bene superi, a conti fatti, il numero dei mali. Dall’altra, in
contrasto con l’universalismo leibniziano, la sensibilità di Rosmini per la storia sopporta l’incontro
traumatico con le forme del male più drammatiche che affliggono l’individuo e la società, ovvero
quelle spaventose disuguaglianze che costituivano già il tormento di Rousseau.
Certamente è vero che nella teodicea settecentesca i due aspetti ora delineati coesistono;
tuttavia essi rimangono il più delle volte paralleli, e perciò separati: nell’armonia universalistica, la
disarmonia rappresentata dal male sociale è nient’altro che una fastidiosa dissonanza; nell’assillo
rousseauiano per il male sociale, l’universo è tutto disarmonico e solo la società può ricostituire in
se stessa una volontaria armonia, più microscopica che macroscopica. In Rosmini, invece, si può
dire che le due anime della teodicea settecentesca si scontrano nel medesimo spazio di riflessione e
la preoccupazione dominante diventa quella di cercare una possibile conciliazione, utilizzando tutte
le risorse speculative ritenute utili allo scopo.
Così, l’intento di capire fino a che punto una società civile possa essere beneficamente
rinnovata, non rimane ristretto in un problema di limiti giuridici e politici, ma si trasforma - per
l’istinto metafisico proprio del filosofo di Rovereto - in un’indagine sulle possibilità di
perfezionamento dell’uomo: in questa allargata prospettiva, la meditazione sul Diritto e sullo Stato
non può non diventare Teodicea, cui Etica, Logica, Psicologia forniscono perfezionati mezzi di
ricerca. In questo senso può dirsi - con Piovani - che la filosofia politica e giuridica di Rosmini è,
nelle sue preoccupazioni dominanti, una teodicea sociale.
Quest’ultima prospettiva di valutazione mostra un secondo aspetto che rende il saggio preso
in esame unico nel suo genere: è ancora Piovani a mostrare come la costruzione del modello
esplicativo del male come problema utilizzi “materiali” e contenuti di diversa natura: in tal senso,
non è difficile rintracciare i numerosi “debiti” speculativi che la teodicea paga al “resto”
organicamente strutturato della riflessione rosminiana.
A conferma di ciò, diventa rilevante considerare anche la vicenda legata alla composizione di
quest’opera: il fatto che un intervallo di 18 anni separi i primi due saggi della Teodicea dal terzo,
obbliga a ricostruire i nodi del pensare rosminiano, al fine di leggere i segni di uno sviluppo
teoretico così esteso e approfondito.
Eppure, per quanto accennato all’inizio, l’analisi delle particolarità strutturali che
caratterizzano la Teodicea di Rosmini non costituisce direttamente il fine primario di questa ricerca.
In ordine al rovesciamento operato, gli aspetti costitutivi della teodicea come discorso rivelano la
propria interna subordinazione ad una dimensione più originaria e - direi - istitutiva: in altri termini,
se non importa conoscere immediatamente che cosa ha da dire il discorso rosminiano quanto al
problema del male, è perché sembra più rilevante svelare come quel che è detto nella sua teodicea
ha preteso di valere come discorso dotato di senso.
La risposta a questa domanda occupa l’intera prima parte dell’indagine, la cui ambizione
passa attraverso un meccanismo di “regressione genetica”: il discorso rosminiano sul male è stato
“smontato” fino ad evidenziare con quale “grammatica” esso si organizza. Si potrebbe dire, più
precisamente, che rispetto al campo della significazione in atto nella teodicea, si è cercato di
mettere a nudo le linee significanti, i simboli, attorno a cui i significati in gioco nel discorso sul
male si sono successivamente aggregati. Così facendo, è emerso che la “grammatica” rosminiana
del patire si genera a partire da due linee istitutive principali: il Libro di Giobbe e il capitolo 3 del
Libro della Genesi.
È dalla lettura di questi due libri che Rosmini impara le “istruzioni di montaggio” del futuro
discorso sul male. Del resto, è apparso immediatamente chiaro che la sua “lettura” delle Scritture è
tutt’altro che priva di presupposti: Rosmini non si limita ad inserire meccanicamente le citazioni da
Giobbe e da Genesi nei diversi luoghi della sua opera. Infatti, il Roveretano non legge il versetto
scritturistico a scopo esegetico puro e non si pone mai come biblista. Al contrario, Giobbe e Genesi
3 sono offerti criticamente nel contesto della riflessione teologico-esegetica precedente.
Per questi motivi, la direzione della nostra indagine è apparsa “obbligata”: si è dovuto
“disfare” il concetto teologico costruito attorno alle citazioni prese in esame. Una volta alleggerita
del lavoro teologico sovrastrutturale, la citazione è diventata scopertamente il luogo dell’incontro
tra l’intenzione di Rosmini e quelle, finalmente messe a nudo, di Giobbe e di Genesi 3. Con ciò non
si è però inteso presentare un’ulteriore concetto teologico, eventualmente da opporre o
semplicemente da affiancare a quello offerto dal Roveretano. Importa piuttosto mostrare,
precisamente sotto le “spoglie” del concetto, se e come Rosmini recepisce, da una parte, la difficile
lezione dell’uomo di Uz, dall’altra, i simboli in gioco nel racconto della caduta.
Ora, per quanto riguarda la prima linea istitutiva, il dispositivo analitico di regressione
genetica è stato applicato direttamente ad un manoscritto giovanile di brevi annotazioni al Libro di
Giobbe. È qui che Rosmini istituisce la prima “catena” simbolica per trattare l’inassumibile del
male. Dal lato della seconda linea, è stato invece necessario annotare i luoghi rosminiani in cui Gen
3 è citato, al fine di tracciare una precisa “topologia” dei riferimenti. Successivamente si è azionato
lo stesso meccanismo di “smontaggio” della sovrastruttura teologica già utilizzato per la
decostruzione del manoscritto su Giobbe. Ciò che si è ottenuto è una seconda “catena” simbolica,
profondamente intrecciata con la prima, che completa la “grammatica” dei significanti attorno a cui
il discorso della teodicea si è organizzato.
Al fine di realizzare questo lavoro decostruttivo, è sembrato doveroso mantenere una certa
indulgenza almeno “storiografica”: non si può fare a meno di pensare che Rosmini si inserisce nel
contesto di una riflessione teologica per certi aspetti obbligata. Così, per quanto mantenga a tratti
una sua originalità, la lettura rosminiana delle Scritture è sempre di natura allegorica: in questo
senso, Giobbe, come insegna l’autorità inoppugnabile di Gregorio Magno, è figura prolettica di
Cristo. Dal canto suo, il “racconto della caduta” viene strutturato entro l’altrettanto indiscutibile
riflessione dogmatica sulla nozione di “peccato originale”. Non stupisce, dato il contesto storico,
che Rosmini accetti entrambe queste figure teologiche come dispositivi esegetici tradizionalmente
garantiti.
Concessa tuttavia questa indulgenza, dal punto di vista più strettamente teoretico non si è
potuto evitare un certo rigore nel misurare lo scarto, a volte sorprendente, tra l’interpretazione
teologica e la “lettera” offerta dalle Scritture. È proprio in virtù di questo “scarto”, infatti, che si
istituiscono i significanti attorno a cui si organizza il campo semantico della teodicea. Ed è solo se
esso viene rigorosamente misurato che, una volta costruito il discorso sul male come problema,
saranno chiare anche le condizioni genetiche della sua assunzione.
Da ciò consegue l’utilità del “rovesciamento” accennato all’inizio: valutare la soluzione
rosminiana proposta al problema del male, quand’anche se ne verifichi il fallimento internamente
all’ipotesi di partenza della sua teodicea, è diventato poco interessante; al contrario, l’interesse è
tutto dal lato originariamente istitutivo: è infatti sufficiente sostituire la “grammatica” rosminiana
con quella autenticamente jobica (ovvero fuori contesto allegorico) affinché si generi tutt’altro tipo
di approccio al reale insopportabile della sofferenza. Tale approccio, che si vorrebbe più fedele
all’esperienza di quel “malgrado-la-coscienza” che frattura colui che soffre, è capace di ridiscutere
radicalmente il pensiero che sta alla base di ogni possibile teodicea: così, anziché raccontare il
problema del male all’interno di un discorso in grado di giustificarne la soluzione, si cerca di
rendere disponibile il pensiero a lasciarsi istruire dal male come esperienza, ascoltando quello che
l’irreparabilità di ciò che è sofferto dice originariamente a colui che soffre.
Nello specifico di questa ricerca, Giobbe dunque non vale perché, al contrario della teodicea,
risolverebbe brillantemente il problema del male: al contrario Giobbe, spogliato del concetto
teologico, non cerca una soluzione che gli tolga il dolore, bensì mostra la volontà di attraversare la
propria sofferenza, ascoltando la “parola” con cui essa gli si presenta. Quindi, senza mai prendere in
prestito un discorso di “seconda mano”, il personaggio del racconto biblico si trova a parlare un
linguaggio sconosciuto alla teodicea, un linguaggio che l’inassumibilità stessa del male patito gli
suggerisce: il grido.
È proprio questo “significante” a custodire la posta in gioco nel “caso Giobbe”: il grido,
infatti, dice, nella forma tragica del lamento, il vuoto di senso in cui il sofferente viene gettato. La
teodicea, dal canto suo, non avrebbe potuto organizzarsi come discorso se avesse accolto il “grido”
jobico nella sua “batteria” simbolica: in un discorso giustificativo, lamentarsi equivale
semplicemente a danneggiare la struttura. Per evitare questo pericolo, Rosmini intreccia il
significante “grido”, che gli viene inequivocabilmente dalla prima linea istitutiva, con il significante
“peccato”, frutto, invece, della seconda catena simbolica. Compiuta questa operazione, il grido
diventa legittimo soltanto come domanda di perdono; al contrario, continuare a lamentarsi per la
sofferenza subita è ignorare di essere iscritti nel registro del male come colpa.
In questo modo il Roveretano alleggerisce la “posta in gioco”: il male è assurdo soltanto per
chi non conosce il magistero divino delle tribolazioni. Esiste, invece, un legame assolutamente certo
tra il male e Dio. Anzi, la teodicea si attribuirà il potere di vedere “ad occhio nudo” questo
“legame”, insieme al compito sacro di difenderne la presunta evidenza contro chi ha osato
contestare. Così, una volta privato del lamento, frutto ormai di un punto di vista inadeguato sul
proprio dolore, anche Giobbe può prendere posto tra gli attori della teodicea come il simbolo della
pazienza, come colui che insegna il difficile cammino di purificazione attraverso le sventure della
vita.
Che dunque il racconto biblico sia un enorme dissertazione sulla necessità di tacere perché si
è comunque peccatori e che solo pentendosi per aver osato parlare ci si predispone alla grazia della
misericordia, tutto questo potrà anche essere una lezione edificante, ma non è certo la parola che
Giobbe, dolorosamente, insegna. Del resto, lo stesso Rosmini si accorge che il grido dell’uomo di
Uz, per quanto incatenato al significante “peccato”, continua a riecheggiare, al punto che, talvolta,
la stessa copertura simbolica non è sufficiente a neutralizzarlo. Accade così che, tra le sue brevi
annotazioni al Libro di Giobbe, compaiano dei “resti” non giustificati allegoricamente: si tratta,
precisamente, di alcuni passaggi in cui l’impaziente protesta del personaggio biblico non viene
interpretata come segno di una colpa. Inalterata nella sua forza simbolica, essa ha il potere di
riaprire quel vuoto di senso così imbarazzante per ogni discorso giustificativo.
E finalmente si capisce la posta in gioco: ciò che si grida nel lamento non è semplicemente
l’insopportabilità del dolore, né tantomeno una richiesta di perdono. Il vero problema è un altro: se
dietro il male sofferto esiste un progetto divino, come pretende di insegnare la teodicea, allora è
prima di tutto l’agire di Dio ad essere assurdo. Ciò che la teodicea non comprende è che
nell’eccesso del tragico essere Dio è un aggravante. Infatti, giustificata sul piano soprannaturale, la
sofferenza diventa necessaria e diventa automaticamente impossibile sperare che qualcuno ce ne
liberi. Qui lamentarsi, prima che blasfemo, è addirittura inutile. Giobbe se la prende proprio con
questo Dio o, almeno, con quel dio che anch’egli conosce “per sentito dire”, attraverso le
spiegazioni degli “amici”: un dio indifferentemente prodigo di favori e dispensatore di disgrazie, più
simile a un idolo che al vero destinatario di chi protesta. L’unica arma che l’uomo di Uz può
utilizzare per difendersi da questo dio è precisamente il lamento: solo il linguaggio del grido gli
permette di trattare, talora in forma delirante, l’assurda inaccessibilità dell’agire divino, assurda
proprio perché perfettamente giustificata. Il silenzio, allora, è intollerabile: sia quello del vero Dio,
che, sottraendosi alla presa simbolica di un dialogo personale, lascia spazio alla proliferazione
idolatrica delle teologie di “seconda mano”; sia quello imposto a Giobbe, che infatti capisce
immediatamente l’impossibilità di tacere, pena lo scivolamento irreversibile nell’assoluto non-senso
della morte. Al contrario, quando il grido è libero di attraversare il vuoto, allora si intuisce la
necessità che sia il vero Dio a rispondere: senza questa risposta il grido diventa un urlo
incomprensibile e il vuoto si trasforma nel buco reale della morte, sapientemente “rammendato”
dalla teodicea, ma sempre pronto a inghiottire chi è stato abbandonato nei suoi dintorni. Al
contrario, se Dio risponde allora il vuoto diventa “mancanza” e il grido “domanda di cura”. Va da
sé, quindi, che l’eventuale risposta di Dio non può essere un intervento che resta sul piano
giustificativo delle “ragioni” del male, bensì l’indefettibile atto di custodire la fragilità gemente.
È sufficiente allora che nella grammatica rosminiana del patire rientri uno di quei “resti” non
allegorizzabili perché Rosmini veda l’edificio della teodicea crollare: anche se il filosofo di
Rovereto non lo ammette esplicitamente, siamo costretti a registrare gli effetti di senso che un
singolo “significante” non giustificato trasmette alla struttura discorsiva del suo saggio.
Questa parte della ricerca non è stata ancora realizzata: essa cercherà di mostrare che, se il
grido di chi soffre si insinua nel linguaggio giustificativo, esso è in grado di polverizzare la pretesa
di senso della teodicea come uno dei tanti idoli. Dal canto suo, proprio in virtù della sua sensibilità
per le forme storiche del male, Rosmini non può permettersi di “risolvere” la doglianza del singolo
uomo, anche a costo di abbandonare il discorso della teodicea. Eppure il Roveretano non intende
indugiare troppo e, anziché lasciarsi istruire da quel lamento, scarta veloce verso una soluzione
ulteriore: è a questo punto che si apre la dimensione cristologica. Anche rispetto a questa, il lavoro
di ricerca resta da fare. Si tratterà di rispondere ad alcune domande cruciali: come si inserisce nel
discorso della teodicea la “soluzione” cristologica? Si tratta veramente di una “soluzione” che
rientra nel medesimo progetto di discorso giustificativo? E soprattutto come interagisce la
riflessione cristologica con la “grammatica” rosminiana del patire? In particolare come si
articolano, nella riflessione di Rosmini, i significanti divini della “collera” e della “cura” e come
strutturano il discorso teologico sulla Croce?

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