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coscienza della morale.

qxp:Il senso degli opposti 3-07-2015 14:55 Pagina 2

Coordinamento editoriale
Leandro del Giudice

Redazione
Giovanni Cascavilla

Progetto grafico
Anna Bartoli

ISBN 978-88-8103-863-3

© 2015 Edizioni Diabasis


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telefono 0039.0521.207547 – e-mail: info@diabasis.it
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Il primato della coscienza

A cura di:
Umberto Cocconi
Giacomo Miranda
Martino Pesenti Gritti
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IL PRIMATO DELLA COSCIENZA


A cura di:
Umberto Cocconi, Giacomo Miranda, Martino
Pesenti Gritti

9 Introduzione: dialogo interdisciplinare sulla


coscienza

15 Introduzione alla coscienza


Gian Pietro Soliani

35 Coscienza morale e volontà. L’ontologismo critico


di Pantaleo Carabellese tra Kant e Hegel
Faustino Fabbianelli

69 La coscienza e l’agire morale: tra soggettività e oggettività


Aristide Fumagalli

85 Il comprendere umano. I dinamismi della coscienza


nel pensiero di Bernard J. F. Lonergan
Umberto Cocconi

111 La ricerca neuroscientifica sulla coscienza:


acquisizioni e prospettive
Leonardo Fogassi

136 Schizoanalisi: capovolgere il doppio vincolo


Pietro Barbetta

151 La coscienza del cinema


Michele Guerra

166 La coscienza creativa nella storia del romanzo inglese


da Defoe a Joyce
Lelio Pallini

191 Lettura e formazione della coscienza.


Riconoscersi e immaginarsi
Andrea Grossi

204 Note biografiche


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Faustino Fabbianelli
Coscienza morale e volontà. L’ontologismo critico
di Pantaleo Carabellese tra Kant e Hegel.

Introduzione
Pantaleo Carabellese, nella Prefazione alla 2ª edizione
della Critica del concreto (1940), ripercorrendo le tappe
della propria speculazione, ricordava come la scoperta
della concretezza dell’essere, che caratterizza l’ontologi-
smo critico da lui professato, fosse stata «quasi» com-
pletamente esplicitata già molti anni prima in un saggio
dedicato alla coscienza morale1. Nella Prefazione a que-
st’ultimo lavoro Carabellese aveva in effetti già chiarito
come la sua concezione della moralità si fondasse «su un
concetto schiettamente immanentismo dell’essere» e che
la scienza morale non potesse a suo avviso darsi indipen-
dentemente «da ogni dottrina metafisica»2.
A partire da queste stringate considerazioni autobio-
grafico-speculative vorrei approfondire, nelle pagine che
seguono, il rapporto che unisce il concetto di coscienza
morale alla teoria carabellesiana del concreto. Lo farò te-
nendo presente in particolare, oltre al già ricordato La
coscienza morale del 1914, anche la risposta data pochi
anni dopo dal Carabellese ad alcune osservazioni che
Giovanni Vidari aveva avanzato proprio in relazione a
quello scritto3, come pure i primi due capitoli della Cri-
tica del concreto4. Della concezione etica carabellesiana
intendo mostrare non soltanto il legame, riconosciuto
dallo stesso Carabellese, con l’ontologismo critico, ma
anche la pretesa, in essa avanzata implicitamente, di pre-
sentarsi come una sostenibile alternativa al superamento
della moralità proposto dall’idealismo assoluto di Hegel.

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Come il ritorno critico a Kant perseguito dalla nuova Cri-


tica del concreto passa attraverso la messa in discussione
della filosofia postkantiana in generale e dell’hegelismo
in particolare, così il confronto polemico che il Carabel-
lese instaura con il pensiero morale kantiano può a mio
avviso essere considerato un contributo significativo alla
confutazione del pensiero etico di Hegel.
Il mio saggio si articola in cinque parti: dopo aver pre-
sentato il nesso che in Hegel unisce il superamento della
moralità kantiana al parallelo abbandono dell’assunto
trascendentale (punto 1) traccio le linee essenziali della
nuova Critica del concreto carabellesiana, mettendone
in evidenza, in particolare, il confronto con la dialettica
di Hegel e l’auspicato benché critico ritorno a Kant
(punto 2). L’individuazione dei tratti distintivi del pro-
blema etico dal punto di vista dell’ontologismo carabel-
lesiano (punto 3) costituisce la premessa teorica per
affrontare sia il tema della coscienza morale (punto 4) sia
quello del male (punto 5). La Conclusione è infine dedi-
cata alla confutazione che dell’antihegelismo Carabellese
fa nella sua concezione etica: lo farò riferendomi in par-
ticolare al concetto dell’errore.

1. Il punto di vista hegeliano

Hegel, nel § 137 dei Lineamenti di filosofia del diritto,


distingue due forme di coscienza morale: «verace» e «for-
male». Laddove la prima consiste nella «disposizione
d’animo di voler ciò che è buono in sé e per sé» – una di-
sposizione che sorge dall’unione del sapere soggettivo con
il sistema oggettivo dei principi e dei doveri –, la seconda
esprime soltanto il lato formale della volontà ed è perciò
scissa dal suo contenuto di verità. Come tale, la coscienza
morale formale si riduce alla sua certezza soggettiva, che

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è poi anche la certezza del soggetto che la possiede. A dif-


ferenza della disposizione d’animo etica, nella quale la
soggettività propria del sapere il bene è determinata dal
bene nella sua oggettività, la coscienza morale formale,
separata dal contenuto oggettivo che la determina e la
rende stabile, costituisce soltanto l’astratta autodetermi-
nazione del soggetto. Hegel riconosce l’assoluta inviola-
bilità e verità della coscienza morale nella misura in cui
quest’ultima viene intesa come l’«unità del sapere sog-
gettivo e di ciò che è in sé e per sé»; in tale determina-
zione, infatti, la coscienza morale se per un lato «esprime
l’assoluta giustificazione dell’autocoscienza soggettiva,
cioè di sapere entro di sé e movendo da sé stessa che cos’è
diritto e dovere», per l’altro lato è davvero in grado di in-
dicare ciò che è buono ovvero «se ciò che essa tiene o
spaccia per buono, è anche realmente buono». Ma questo
lo si può sapere soltanto a partire dal contenuto di ciò
che viene indicato come buono5.
L’opposizione tra coscienza morale verace e coscienza
morale formale esemplifica agli occhi di Hegel la diffe-
renza tra due concezioni dell’attività pratica: l’eticità e la
moralità. Non solo: sulla base di essa è anche e soprat-
tutto possibile rilevare l’insufficienza di una concezione
meramente soggettiva della filosofia. Come è noto, è se-
condo Hegel il trascendentalismo kantiano, riproposto
e portato al suo naturale completamento dalla Dottrina
della scienza di Fichte, a separare illecitamente il soggetto
dall’oggetto e a costruire un sistema del sapere fondato
sulla mera attività dell’Io. Gli strali della polemica hege-
liana si dirigono verso un assunto speculativo che ha il
torto di essere ad un tempo formale e vuoto: formale, in
quanto limitato all’indagine delle condizioni di possibi-
lità delle varie esperienze fenomeniche (conoscitive, mo-
rali, estetiche, ecc.), senza tener conto dei caratteri
essenziali della materia cui tali condizioni vengono ap-

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plicate. Vuoto, dal momento che un tale assunto costi-


tuisce il prodotto di una riflessione che il soggetto com-
pie su di sé e sulle proprie attività, a prescindere dal
contenuto oggettivo che dà ad esso pienezza e concre-
tezza. Nella filosofia trascendentale kantiano-fichtiana si
afferma secondo Hegel il «principio del Nord» costituito
dalla soggettività che se da una parte riconosce la potenza
dell’intelletto nel trovare la verità dell’essere soltanto nel
finito, dall’altra parte fa dell’assoluto l’oggetto di una
aspirazione infinita e irraggiungibile in qualunque intui-
zione empirica. Per Hegel si tratta di due facce della
stessa medaglia: finito ed infinito vengono qui compresi
nella loro opposizione e posti in una relazione di dominio
dalla quale essi possono uscire soltanto fuggendo. Al di
sopra dell’assoluto contrasto in cui i termini del rapporto
vengono fissati tramite l’intelletto c’è infatti un eterno in-
calcolabile, incomprensibile e vuoto: «un Dio inconosci-
bile, che sta al di là dei pali di confine della ragione, una
sfera che niente è per l’intuizione, perché l’intuizione è
qui meramente sensibile e limitata». Ne deriva una com-
prensione eudemonistica del soggetto e del mondo: se
infatti l’innalzamento al di sopra del finito avviene attra-
verso il riconoscimento di un Assoluto indipendente
dalla realtà effettuale e opposto ad essa, anche il carat-
tere attribuito tanto al finito quanto all’infinito non potrà
che risultare dalla loro opposizione non sanata e posta
nella sua assolutezza. Il finito diventa dunque il non-in-
finito come d’altra parte l’infinito viene inteso nel suo
mero essere non-finito; ad essere posto è sì un Assoluto,
che però viene compreso esclusivamente a partire dal
rapporto che esso ha con l’empirico. L’unico dato certo
di questa filosofia trascendentale come filosofia del finito
è una ragione «affetta da finitezza» e l’intero filosofare
«consiste nel determinare l’universo per questa ragione
finita». L’infinito riceve qui il suo contenuto «da ciò a cui

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è riferito nella sua opposizione, cioè la felicità empirica


dell’individuo». Benché lo combatta apertamente a pa-
role, la filosofia trascendentale non esce dall’eudemoni-
smo, al contrario lo perfeziona «al massimo». Diverse e
secondo Hegel tutte inaccettabili sono le conseguenze di
una tale limitazione della ragione alla forma della fini-
tezza ovvero dell’assolutizzazione del soggetto finito:
poiché li si comprende nell’opposizione, finito e infinito
vengono posti nel loro essere negativo di ciò che l’altro
non è, in modo che ad ognuno di essi può essere di fatto
attribuito il carattere della positività e della negatività.
L’empirico che sta in una relazione oppositiva con
l’ideale diventa quindi ad un tempo «sia un assoluto
qualcosa, sia un assoluto nulla». Nel primo caso si ha un
empirismo filosofico in cui la positività del finito costi-
tuisce l’assoluta realtà, nel secondo caso, invece, sorge
uno scetticismo per il quale il sapere che si ha del finito è
un nulla. Non solo: con la filosofia trascendentale kan-
tiano-fichtiana si assiste per Hegel al perfezionamento e
alla idealizzazione di quel «realismo della finitezza» già
affermatosi nella psicologia empirica di Locke: se questa
aveva decretato il primato del punto di vista del finito e
risolto, in maniera conseguente, il problema dell’uni-
verso nel senso di «un calcolo intellettuale» che vale «per
una ragione inabissata nella finitezza e sottraentesi al-
l’intuizione e alla conoscenza dell’eterno», con il nuovo
trascendentalismo filosofico si riconosce la mera oppo-
sizione di empirico ed eterno a partire da un idealismo
del finito. La Critica kantiana non rappresenta pertanto
che l’assolutizzazione dell’empirismo psicologistico di
matrice lockiana: fare un’analisi delle facoltà umane e in-
tenderne le funzioni trascendentali come condizioni di
possibilità dell’esperienza fenomenica non significa altro
che tracciare una nuova psicologia razionale per la quale
il soggetto finito è assoluto e la sua limitatezza rappre-

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senta «la legge eterna» del mondo. Qui non ci si discosta


dunque, secondo Hegel, da una comprensione antropo-
logica della filosofia, qui non si perviene, come invece do-
vrebbe essere, alla conoscenza di Dio. Il punto di vista
assoluto è il punto di osservazione dell’uomo nella sua
qualità di «finitezza fissa e insuperabile della ragione,
non in quanto riflesso della bellezza eterna, fuoco di con-
vergenza spirituale dell’universo, ma in quanto sensibi-
lità assoluta, che possiede però la facoltà della fede di
imbellettarsi qua e là mediante un soprasensibile ad essa
estraneo»6.

2. La nuova Critica

Hegel ritiene di poter confutare la filosofia trascen-


dentale kantiano-fichtiana negandone il principio basi-
lare costituito dal sapere finito. Nella misura in cui
l’autentico pensiero speculativo consiste nell’esposizione
del vero sia come sostanza che come soggetto che sa di
sé nel suo essere assoluto7, non è più possibile sostenere
l’opposizione di finito ed infinito per come essa viene fis-
sata e riprodotta all’infinito tanto nella Critica di Kant
quanto nella Dottrina della scienza di Fichte. Il sapere
deve essere dell’Assoluto sia in senso soggettivo che in
senso oggettivo: è cioè l’Assoluto che si conosce nella
propria infinità. Ciò può avvenire secondo Hegel in
quanto l’Assoluto ha una natura dialettica e pone il pro-
prio Sé attraverso il superamento (Aufhebung) del pro-
prio essere altro da sé. La filosofia consiste dunque
nell’esposizione del movimento attraverso il quale l’As-
soluto si manifesta e prende coscienza di sé; il divenire
col quale l’Assoluto si pone nella sua verità costituisce
per Hegel, com’è noto, un circolo «che presuppone e ha
all’inizio la propria fine come proprio fine, e che solo me-

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diante l’attuazione e la propria fine è effettuale». Il ca-


rattere dialettico di questo farsi dell’Assoluto trova nel
concetto della negatività un momento fondamentale: e
ciò non soltanto per il fatto che il negativo costituisce «il
motore» del movimento dialettico, ma anche perché esso
rappresenta un carattere fondamentale della natura dello
Spirito. La Prefazione alla Fenomenologia dello spirito
chiarisce al riguardo che la sostanza divenuta soggetto «è
la pura negatività semplice, ed è, proprio per ciò, la scis-
sione del semplice in due parti, o la duplicazione oppo-
nente». Quest’ultima, a sua volta, «è la negazione di
questa diversità indifferente e della sua opposizione» e
«soltanto questa ricostituentesi eguaglianza o la rifles-
sione entro l’esser-altro in se stesso, – non un’unità origi-
naria come tale, né un’unità immediata come tale, – è il
vero»8.
Di contro alla proposta hegeliana per superare la filo-
sofia trascendentale si pone l’ontologismo critico di Pan-
taleo Carabellese. Il suo è un consapevole – benché
costellato di obiezioni – ritorno a Kant che si realizza
anche attraverso la messa in discussione di due principi
fondamentali dell’hegelismo filosofico, per un lato la dia-
letticità antitetica dello Spirito, per l’altro lato la centra-
lità del negativo. Quanto al primo punto, Carabellese
ricorda un passo dell’Enciclopedia nel quale si afferma
che l’essenza dello Spirito è la libertà ovvero «la negati-
vità assoluta nel concetto come identità con sé»9; ciò gli
serve per mostrare come all’interno della filosofia hege-
liana tra Spirito e fatti dello Spirito non si dia alcuna dif-
ferenza. Se infatti l’Assoluto nella sua forma più alta – lo
Spirito –, comprende le proprie manifestazioni come
quel divenire attraverso il quale esso stesso si pone, al-
lora la realtà effettuale non potrà mai essere differente
dalla razionalità spirituale. Ne segue che all’interno della
filosofia hegeliana non c’è problema «dalla soluzione del

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quale il fatto consegua nelle sue nuove determinazioni di


fatto»: il fatto giustifica in altre parole se stesso. Carabel-
lese parla al proposito di «dogmatismo della dialettica»
ovvero di «dogmatismo della mediazione» per designare
un pensiero come quello hegeliano il quale, se per un lato
riconosce che il vero si dà soltanto nella sintesi degli op-
posti, per l’altro lato annulla proprio perciò i problemi
avanzati dalla coscienza comune. Ogni problema nasce
infatti dal constatare che una certa esigenza non può es-
sere pienamente soddisfatta da un concetto filosofico; se
ora si ritiene, come fa Hegel, che una tale insoddisfazione
costituisca una negazione «del precedente concetto e
della precedente esperienza» – benché Carabellese non
lo dica, si pensi al riguardo all’avanzamento dialettico
nella Fenomenologia dello spirito –, allora il problema
non sorge neppure, venendo invece compreso come il
nuovo che nega e supera dialetticamente il vecchio. Al
posto del problema subentra «il nuovo fatto» che
«prende le apparenze di problema e soluzione insieme».
Insomma, per Carabellese l’hegelismo filosofico può es-
sere tacciato di fattualismo, dal momento che il rapporto
dialettico tra i momenti dell’Assoluto si realizza secondo
una legge a priori. Nella misura in cui il superamento del
vecchio col nuovo costituisce un apriorismo, sparisce
però ogni forma di problematicità ed il fatto, inteso come
manifestazione dell’Assoluto, acquista una propria in-
trinseca razionalità e si autogiustifica. Carabellese ritiene
pertanto di poter porre in discussione il principio fon-
damentale dell’hegelismo costituito dalla dialettica anti-
tetica in quanto «non risponde alla esigenza
fondamentale della coscienza, che non è opposizione tra
il soggetto e l’oggetto, ma è individuazione che i soggetti
singoli fanno dell’unico Essere in sé»10.
Sul secondo punto qualificante della filosofia hege-
liana – il negativo come momento centrale della dialet-

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tica antitetica –, Carabellese rileva la confusione che in


esso sorge tra i concetti dell’opposizione e della dinami-
cità. Egli ricorda un passo della Scienza della logica nel
quale Hegel afferma che «[q]uello, per cui il concetto si
spinge avanti è quel negativo […] che ha in sé», che dun-
que è proprio esso «il vero elemento dialettico»11. Per
Hegel il movimento dinamico della dialettica può avve-
nire soltanto per mezzo dell’opposizione negativa; per
Carabellese, invece, la dialettica spirituale è dinamica
senza essere negativa. L’opposizione di cui parla Hegel
coincide piuttosto con l’empiricità nella misura in cui
essa è il fenomenizzarsi naturale del processo di distin-
zione dell’essere. «In natura ogni determinato esclude
l’altro (cioè sono opposti), in quanto i distinti si materia-
lizzano in determinanti, cioè manifestano la loro distin-
zione, staccandosi l’uno dall’altro, ponendo dei confini
tra loro, e rendendosi così reciprocamente impenetra-
bili». Empirico è dunque ciò che si limita reciprocamente
e proprio in tale limitazione consiste l’opposizione. È
dunque «assurda» l’affermazione avanzata da Hegel che
il nulla sia12 e che l’essere determinato risulti dalla ri-
composizione dialettica, nel senso della coincidentia op-
positorum, dei primi due opposti assoluti rappresentati
dall’essere assolutamente indeterminato e dal nulla13.
Superare Hegel significa per Carabellese riprendere il
tema kantiano di una Critica della ragione e sostituirle
una Critica del concreto14. La domanda filosofica non
deve più concernere le condizioni di possibilità del sa-
pere, ma l’esame «della concreta possibilità di sapere l’es-
sere in sé».15 In tale maniera è possibile secondo
Carabellese oltrepassare in maniera definitiva quello
gnoseologismo agnostico cui Kant dovette giungere in
base alla distinzione da lui operata tra fenomeno e cosa in
sé. Conoscibile è infatti, per una Critica della ragione in
senso kantiano, soltanto ciò che è pensabile ed intuibile,

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ma pensabile ed intuibile può essere soltanto il mondo


nella sua fenomenicità empirica. La nuova Critica deve
invece riguardare non il conoscere ma l’essere, non il sa-
pere scisso dall’essere, ma l’essere in sé saputo dal sin-
golo io conoscente e individuato in forme concrete. Alla
domanda kantiana della possibilità di conoscere a priori
Carabellese sostituisce la questione di «[c]ome è possibile
che io (singolare) sappia, e cioè, insieme, conosca senta e
voglia l’essere in sé (universale)»16. Kant si è secondo Ca-
rabellese avvicinato a questa nuova Critica del concreto
nella misura in cui ha scoperto, sebbene non afferman-
dolo mai esplicitamente, che la cosa in sé è la stessa nou-
menicità dell’essere pensato17. Per il nuovo ontologismo
critico carabellesiano si tratta ora di indagare come
l’unico Essere in sé rappresentato da Dio18 si manifesti in
forme differenti e venga saputo in modi diversi. Cara-
bellese parla a questo proposito del problema teologico
come filosofia, intendendo con ciò dire che l’indagine ra-
zionale si esercita su quell’oggetto in sé rappresentato da
Dio . Se, come si è visto, Hegel aveva criticato l’antropo-
logismo della filosofia trascendentale, Carabellese mette
anche lui in discussione l’umanesimo speculativo senza
trarne le conseguenze teoriche che ne aveva tratte Hegel.
Non si può in altre parole partire dalla coscienza umana
come fondamento della filosofia, ma si deve al contrario
riconoscere che il principio ultimo del filosofare, vale a
dire l’oggetto della riflessione razionale, è costituito dal-
l’Essere in sé. Un Assoluto, quest’ultimo, allo stesso
modo di Hegel, che tuttavia non si manifesta come nel
sistema hegeliano secondo una dialettica degli opposti e
che può essere colto a partire dal finito. La nuova Critica
del concreto trova dunque nei singoli io individuali i por-
tatori del sapere e in Dio il vero «Principio di assolu-
tezza». La filosofia fondata su questa nuova critica è
dunque «metafisica, proprio in quanto filosofia dell’es-

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sere come essere, sforzo di riflessione sull’Essere in sé,


problema del Principio»19. Se Hegel aveva sostenuto che
la filosofia è riflessione dell’Assoluto dal punto di vista
del sapere assoluto che è proprio dell’Assoluto mede-
simo, Carabellese ritorna a Kant correggendone il tra-
scendentalismo nella misura in cui pur ammettendo,
contro Kant, che il principio della filosofia è l’Essere e
non il sapere, assume insieme a Kant e contro Hegel che
il punto di osservazione dell’Essere è quello dei singoli
io individuali.

3. Essere e volontà

La riflessione etica di Carabellese si inserisce all’in-


terno di questo quadro teorico. Il volere, in particolare, vi
trova la propria definizione in relazione ai modi in cui
l’essenza e l’attività dell’Essere si determinano. L’Essere,
per essere tale, deve infatti manifestarsi in forme specifi-
che, ed un Essere che non si manifesta è per Carabellese
una vera e propria contraddizione: «vuol dire essere e
non mostrare né a sé né ad altri, non mostrarsi assoluta-
mente, cioè racchiudere sé ma non in sé né in altro, cioè
non racchiudersi; chè, ove si racchiudesse, manifeste-
rebbe sé almeno come racchiudentesi, e non racchiudersi
o racchiudersi manifestandosi come tale è manife-
starsi»20. Viene qui espressa la tesi dell’immanentismo
dell’Essere rispetto al pensiero che, se per un lato ri-
prende la concezione kantiana dell’essere come categoria
del pensare (Analitica dei concetti), dall’altro lato la inte-
gra con l’aggiunta che non c’è un essere al di là del pen-
siero, che dunque è da respingere la tesi della Dialettica
trascendentale in base alla quale c’è un essere in sé inco-
noscibile. Il superamento del dualismo di fenomeno e
noumeno che Carabellese propone non deve d’altra

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parte essere confuso con l’immanentismo speculativo di


Hegel, per il quale, se è vero che «lo spirituale è l’effet-
tuale»21, resta altrettanto certo che le determinazioni fe-
nomeniche dell’Assoluto pur essendo manifestazioni
dell’Assoluto in sé non lo sono tutte in sé e per sé. Cara-
bellese può dunque rivendicare una posizione differente
tanto da Kant quanto da Hegel e osservare che se il primo
ha compreso il pensiero come una fenomenologia che ha
al di fuori di sé l’essere in sé, il secondo ha ritenuto che il
pensiero sia dell’Assoluto, che però le manifestazioni fe-
nomeniche dell’Assoluto si diano nella «superficialità
molteplice e varia dell’Essere uno, pura apparenza sia
che la si ritenga transitoria e quindi limitata, sia che la si
ritenga perenne con l’Essere»22.
Secondo Carabellese l’Essere si manifesta nella realtà
oggettiva in fatti ed atti cui corrispondono nella sogget-
tività la conoscenza dei fatti e il sentimento degli atti.
Queste due duplici determinazioni non sarebbero tutta-
via possibili senza una terza, il fine cui corrisponde il vo-
lere e al quale il fatto e l’atto si connettono in maniera
essenziale: un Essere che non avesse un fine non po-
trebbe infatti mostrarsi «perché non avrebbe che mo-
strare». Come l’Essere si fenomenizza in qualcosa che ha
già mostrato (il passato) e in qualcosa che sta mostrando
(il presente), così esso si manifesta in qualcosa che ancora
non è e che deve essere mostrato: abbiamo così la deter-
minazione del futuro che, come futuro del pensiero, può
essere definito nel termini del fine23. Carabellese ricava a
partire da qui i tre momenti del tempo, il passato, il pre-
sente e il futuro, intesi come le determinazioni dell’Es-
sere che si uniscono al fatto, all’atto e al fine, intesi invece
come le corrispettive determinazioni del mostrarsi del-
l’Essere. In tal modo egli toglie al tempo il senso mera-
mente soggettivo e antropologico che esso aveva ancora
in Kant come forma del senso interno, connotandolo nei

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termini di predicato dell’Essere oggettivo. Questa tra-


sformazione ontologica vale anche per la volontà, che se
in Kant veniva intesa come la facoltà che il soggetto
umano possiede in relazione ai fini da realizzare, in Ca-
rabellese rappresenta la «coscienza del fine» apparte-
nente all’Essere24. Benché sia per Carabellese vero che
gli atti con cui l’Essere si attua nelle proprie determina-
zioni sono «quelli che chiamiamo soggetti», che pertanto
sono i singoli io ad avere tanto un passato, un presente
ed un futuro quanto un conoscere, un sentire e un volere,
resta tuttavia vero che l’attività di ciascun soggetto indi-
viduale, «presa e nel suo insieme e nelle singole determi-
nazioni sue, è perfettamente la stessa attività dell’Essere
nella individuazione sua in quell’atto che il soggetto co-
stituisce»25. Non costituisce dunque altro che un corol-
lario di questa relazione tra l’Essere e i singoli individui il
sostenere, come fa il Carabellese, che «nel volere noi
siamo consapevoli che l’Essere sarà» ovvero che la vo-
lontà costituisce «l’Essere futuro come nostra autoco-
scienza»26. Volendo, il singolo io pone in atto l’attività
dell’Essere e prende coscienza del fine che deve essere
attuato nel futuro; così facendo, l’io si comprende anche
come colui che realizza l’Essere.
Dalla comprensione del volere, come pure del cono-
scere e del sentire, quali determinazioni dell’attività del-
l’Essere seguono due tesi che caratterizzano in maniera
precipua la Critica del concreto carabellesiana. A) Nes-
suna di tali determinazioni, pur nella sua distinzione
dalle altre, può darsi indipendentemente dalle altre. Per
quel che concerne in particolare in caso della volontà, a
cui si associano, come si è visto, i due concetti del fine e
del futuro, vale che l’attività volitiva costituisce la condi-
zione di possibilità del conoscere nella misura in cui la
conoscenza è per Carabellese, così come già per Kant,
sintesi a priori e necessita quindi della volizione con cui

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si attende all’unità presente nel conoscere. Carabellese


riprende qui la tesi kantiana della precedenza logica della
sintesi sull’analisi, la trasforma tuttavia nel senso prevalso
nella discussione postkantiana, in particolare nel pen-
siero fichtiano, dal momento che considera la sintesi
come una questione prettamente pratica, legata al volere,
e non conoscitivo-intellettuale. D’altra parte è per Cara-
bellese anche vero il detto ignoti nulla cupido che esprime
l’idea che «non si possa volere senza conoscere e quindi
anche senza sentire»27. La distinzione carabellesiana
delle forme dell’Essere ripropone in maniera evidente la
teoria crociana della distinzione delle forme dello Spi-
rito, senza tuttavia accettarne il corollario per il quale
l’intera attività spirituale si suddivide in gradi diversi dei
quali il secondo (la logica all’interno della filosofia del
conoscere, e l’etica per la filosofia della pratica) rappre-
senta l’esplicazione del primo. Non è dunque vero, come
vuole il Croce, che si dà in estetica una intuizione senza
concetto ovvero, nella pratica, un’attività economica se-
parata dall’attività morale. Se per il primo punto Cara-
bellese riprende la teoria kantiana della reciproca
dipendenza di pensare e intuire, quanto al secondo mo-
mento egli marca la propria distanza non soltanto da
Croce ma anche dal rigorismo kantiano. Su quest’ultima
questione avrò modo di ritornare nel prosieguo del sag-
gio. B) C’è un secondo punto che deriva dalla tesi del-
l’unità nella distinzione delle attività dell’Essere e che mi
pare ancora più qualificante e rilevante all’interno del di-
scorso carabellesiano, in particolare per quel che con-
cerne la questione della coscienza morale. Mi riferisco
alla concezione per la quale teoria e pratica non si iden-
tificano affatto con il binomio concettuale conoscenza-
volizione, cosicché il teorico avrebbe a che fare col
conoscitivo e il pratico con la sfera del volere. Carabel-
lese propone una distinzione tra teoria e pratica per la

48
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quale il primo concetto designa l’idea ovvero l’essenza


universale ed unica, la pratica invece sta per l’esistenza e
l’atto molteplice. Una tale proposta intende salvaguar-
dare ancora una volta la distinzione delle determinazioni
dell’Essere così come la loro interdipendenza, in maniera
che si possa dire – come la coscienza comune pare affer-
mare effettivamente – che la teoria ci indica il «quid co-
mune ai singoli atti in cui si manifesta e con cui si
esprime», laddove invece la pratica è la «molteplice in-
dividuazione di un’attività»28. La teoria dell’arte, ad
esempio, costituisce l’idea unica che definisce l’arte, lad-
dove la pratica dell’arte rappresenta la molteplicità delle
azioni in cui tale teoria si determina. Quanto appena
detto non significa per Carabellese che il teorico sia si-
nonimo dell’astratto e il pratico del concreto; l’astrat-
tezza si definisce piuttosto nella separazione che si
potrebbe essere tentati di compiere proprio della teoria
dalla pratica. Concreto è in altre parole ciò che ha in sé
tanto una teoria quanto una pratica, tanto l’unità del-
l’idea quanto la molteplicità dell’esistenza. La sfera del
volere, come del resto ogni altra determinazione dell’Es-
sere, si definisce pertanto in una duplice relazione: c’è
una teoria del volere, intendendo con ciò l’essenza del-
l’attività volitiva, così come c’è una pratica del volere, che
comprende i singoli atti volitivi. Rispetto all’opposizione
astratto-concreto, invece, il volere è tanto concreto
quanto lo è il conoscere o il sentire: Carabellese si di-
chiara al riguardo d’accordo con la tesi crociana della di-
stinzione delle attività spirituali, per cui si può dire che
ciascun distinto «ha una sua propria speciale concre-
tezza»29. Egli nega in tal modo, sulla scia del Croce, che
tra le attività dell’Essere sussista, anziché un rapporto di
distinzione, un nesso oppositivo, condivide pertanto la
confutazione che il Croce aveva proposto dell’hegelismo
speculativo nel suo Ciò che è vivo e ciò che è morto della fi-

49
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losofia di Hegel (1907) allorché il filosofo napoletano


aveva negato che le forme dell’Assoluto (estetica, logica,
etc.) si unissero in una sintesi di negazione e superamento
della negazione allo stesso modo di come si collegano tra
loro i concetti propri di ciascuna forma distinta (bello-
brutto, vero-falso, etc.).
Se dunque conoscenza e volontà sono due determina-
zioni distinte dell’attività spirituale e pur implicandosi
reciprocamente «non sono l’una termine dell’altra, ma
ciascuna termine a se stessa», se ancora la teoria e la pra-
tica non si danno mai separatamente ed esistono unica-
mente come «termini l’una dell’altra», allora – questa la
conclusione cui giunge il Carabellese – si tratta di indi-
care per ciascuna forma distinta dell’attività dell’Essere –
per quel che ci riguarda, per la volontà – in cosa consista
effettivamente la teoria ovvero l’idea come «coscienza
dell’universalità» e cosa invece ne rappresenti la pratica
«come coscienza della individualità dell’atto»30.

4. La coscienza morale

Per Carabellese la teoria della volontà, quale idea ov-


vero essenza della medesima, si identifica con la co-
scienza morale; la pratica della volontà è invece
rappresentata dai molteplici atti volitivi che possono o
non possono conformarsi alla teoria. Soffermiamoci sul
primo punto, riservando l’analisi del secondo alla di-
scussione del problema del male.
Carabellese condivide con Kant la tesi che volontà e
coscienza morale si uniscono in un nesso indissolubile.
La coscienza morale è per lui infatti «coscienza del bene»
e il bene non può darsi al di fuori del rapporto con la vo-
lontà31. L’appartenza della coscienza morale alla volontà
è a suo avviso illustrata in maniera particolare dal passo

50
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della Fondazione della metafisica dei costumi nel quale


Kant afferma che «in ogni parte del mondo e, in gene-
rale, anche fuori di esso non è concepibile nulla di in-
condizionatamente buono all’infuori di una volontà
buona»32. Ciò equivale per Carabellese ad affermare che
il bene non è da ricercare al di fuori della volontà, pena il
ricadere in un oggettivismo empirico per il quale il bene
si definisce a partire dalla realtà oggettiva. Non ci sono
in altre parole oggetti determinati rispetto a cui sia assi-
curata la bontà dell’atto che li compie. Tanto chi si uc-
cide per viltà quanto chi si uccide per la realizzazione di
un ideale, nega la vita umana, pur commettendo due
azioni differenti dal punto di vista morale, nel primo caso
cattiva, nel secondo caso buona. «Neppure la vita umana
adunque può con la sua conservazione o sviluppo dare
al fatto morale quel contenuto, la cui presenza o la cui as-
senza dovrebbe contrassegnare la moralità o l’immora-
lità del fatto stesso, il bene o il male»33. Carabellese
condivide qui con Kant la negazione di un oggetto in sé
indipendente dalla coscienza che vi si riferisce – anche
questa una tesi che trova la propria giustificazione nella
concezione critico-trascendentale, in base alla quale sog-
getto ed oggetto costituiscono un nesso indissolubile.
Pur riconoscendo che Kant ha visto giusto al riguardo,
Carabellese rileva tuttavia come nel pensiero kantiano sia
ancora presente una concezione dell’inseità che collide
con il trascendentalismo lì professato. E ciò tanto in sede
di teoria della conoscenza – con la tesi della cosa in sé di-
stinta dal fenomeno – quanto all’interno della riflessione
etica – con il duplice concetto di «un bene esistente in sé,
un bene senza attributi» e di «un bene che possiam dire
morale, un bene dell’essere sensitivo-ragionevole, e che
consiste nel conformarsi con volontà libera e perciò con
autonomia, a quel bene esistente in sé»34. Per quel che ri-
guarda la sfera etica, potrebbe a prima vista sembrare che

51
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Carabellese si riferisca alla distinzione kantiana tra bene


supremo e sommo bene: il primo costituirebbe dunque il
bene per esseri razionali finiti come gli uomini, il secondo
invece il bene per essere razionali infiniti. Così non è;
anche Carabellese sa bene che per Kant il sommo bene è
sia l’«oggetto della facoltà di desiderare degli esseri ra-
zionali finiti»35 sia l’oggetto che una ragione imparziale
richiede: infatti «aver bisogno di felicità essendone
degno, e non esserne partecipe, non si accorda affatto
con la perfezione del volere di un essere razionale che sia
pure in possesso della onnipotenza, se cerchiamo anche
soltanto di pensare un tale essere»36. Quando Carabel-
lese parla dunque di una concezione del bene in sé pre-
sente in Kant, si riferisce piuttosto alla duplice
determinazione della volontà in base a principi pratici
differenti di cui si parla in particolare nella Critica della
ragion pratica. Il Primo Teorema dell’Analitica della ra-
gion pura pratica afferma ad esempio che tutti «i principi
pratici che presuppongono un oggetto (materia) della fa-
coltà di desiderare come motivo determinante della vo-
lontà sono empirici e non possono dar luogo a leggi
pratiche»37.
Nel Secondo Teorema Kant ribadisce che si danno
principi pratici materiali i quali, come tali, rientrano tutti
sotto il principio universale dell’amor di sé ovvero della
felicità38. In entrambi i casi si sostiene la realtà di una de-
terminazione tanto eteronoma quanto razionale della vo-
lontà; se infatti i principi empirici dell’agire sono da
considerare come veri e proprio principi pratici e se –
come lo stesso Kant afferma ad introduzione della Cri-
tica della ragion pratica – i principi pratici contengono
determinazioni universali della volontà39, allora anche la
volontà eteronoma costituisce una forma di volontà ra-
zionale. Si ripropongono così agli occhi del Carabellese
due modi differenti di intendere il bene, una volta come

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determinabile a prescindere dalla felicità degli uomini –


siamo nel caso dell’autonomia –, una volta tenendo in-
vece conto delle pretese della felicità – siamo nel caso del-
l’eteronomia. Ciò equivale nella prospettiva
carabellesiana a riproporre la domanda di un bene «og-
gettivamente distinto e caratterizzato», che non può in-
vece trovar posto all’interno di una filosofia
autenticamente critica. Secondo Carabellese, la dottrina
etica di Kant separando le due forme di bene si avvicina
molto alle concezioni eteronome giustamente criticate
negli scritti kantiani. Kant non si sarebbe dunque accorto
«che il puro dovere in tanto poteva assumere e tenere
l’impero della volontà, in quanto incontrastato ed unico
signore che mai potesse cedere lo scettro ad altri»40.
Quello che Carabellese nega a Kant è la possibilità di
parlare di una determinazione razionale della volontà in
base a principi dell’agire materiali. La volontà che si de-
termina razionalmente secondo principi puri a priori non
può essere determinata da principi materiali. Accanto
alla volontà razionale che vuole il bene non si dà affatto
una volontà razionale della prudenza. «Se siamo ragio-
nevoli quando siamo buoni, non siamo più ragionevoli
quando siamo prudenti; e così inversamente»41.Soste-
nere dunque che la coscienza morale è la teoria della vo-
lontà significa per il nostro filosofo italiano ammettere
un’unica determinazione razionale della volontà, così
come unica è l’idea ovvero l’essenza della volontà quale
attività dell’Essere. «O la determinazione del volere è for-
male, e deve restar tale anche quando par che sia mate-
riale; o invece essa è materiale, e, anche quando il volere
par che sia determinato da un principio puramente for-
male, dobbiamo, attraverso questa forma, ricercare il
contenuto determinante della volontà»42. Parlare, come
fa Kant, di una determinazione razionale in base a prin-
cipi materiali significa per Carabellese cadere in «una evi-

53
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dente contraddizione», dal momento che si finisce per


ammettere una ragione pratica che abbia la capacità di
agire secondo rappresentazioni irrazionali, di seguire
cioè una causalità che non è la propria: insomma si am-
mette una ragione pratica che «si attua senza ragione,
cioè non è ragione pratica»43. Se, come Kant sostiene, la
volontà è la facoltà di agire della ragione, un volere ra-
zionale potrà essere unicamente quello che segue la legge
della ragione, vale a dire la legge morale. Cade dunque
per Carabellese la pensabilità di una volontà eteronoma
accanto ad una volontà autonoma; cade del resto la pos-
sibilità di pensare, come vuole Croce, una volontà eco-
nomica distinta e indipendente da una volontà morale44.
Per Carabellese è dunque la coscienza morale come
volontà buona «a creare il bene, a dare al bene la vera e
l’unica sua oggettività»45, è dunque essa a costituire quel-
l’idea ovvero essenza dell’attività volitiva che ne deter-
mina la natura razionale. La coscienza morale è in altre
parole la teoria della volontà perché dice teoricamente
come ci si deve comportare praticamente, cioè nelle sin-
gole azioni, per raggiungere l’universalità e oggettività
morale46. La coscienza morale è «la coscienza della uni-
versalità del volere», è cioè quel «sapere volitivo» – da
non scambiare con un mero conoscere – che indica la
forma che l’Essere deve assumere in futuro e che è perciò
«tanto necessaria quanto l’Essere stesso»47. Per Kant, al
contrario, sebbene sia vero che la coscienza morale come
coscienza del bene è coscienza di volontà, non è affatto
vero che la coscienza del bene, ossia la coscienza morale,
sia l’intera coscienza di volontà. Kant ammette sì che la
moralità è volontà, nel senso che è determinazione razio-
nale dell’attività volitiva; egli non è però disposto ad am-
mettere che la volontà sia unica, che non ci sia cioè una
volontà buona e una volontà cattiva. Questa dualità di
volontà è secondo il Carabellese il «gravissimo errore»

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kantiano48: se Kant avesse compreso che la volontà si uni-


sce in maniera essenziale alla coscienza morale, che ne
rappresenta la teoria, se avesse dunque valutato nella giu-
sta dimensione la relazione che intercorre tra la volontà e
il bene, non avrebbe né proposto un raddoppiamento del
bene né avrebbe in definitiva parlato di un volontà buona
come del buono in sé: «non la volontà buona, ma la vo-
lontà sarebbe stato il buono senza restrizione nel mondo;
come non la volontà cattiva, ma la nolontà sarebbe stato
il cattivo senza restrizione»49.

5. Errore e male morale

Due sono le conseguenze che derivano dalla com-


prensione carabellesiana della coscienza morale nei ter-
mini di teoria della volontà: 1) che il lume della coscienza
morale, che indica l’essenza dell’attività volitiva e dice
pertanto in cosa consiste il bene, è infallibile; 2) che la vo-
lontà può essere soltanto volontà di bene e che quindi
una volontà di male non è a rigore possibile. Entrambi i
punti hanno a che fare col problema del male ed esplici-
tano in che modo Carabellese intenda la possibilità di de-
viare da ciò che la coscienza morale indica al singolo
individuo.
Per chiarire meglio questo punto fondamentale della
posizione etica carabellesiana, è opportuno ricordare ri-
spetto alla prima tesi che la coscienza morale viene chia-
mata dal Carabellese anche «volontà teorica» e
affiancata, come tale, all’«intelletto teorico» (ovvero alla
ragione teoretica)50. Come quest’ultimo indica il vero,
allo stesso modo la coscienza morale indica il buono; in
entrambi i casi in maniera infallibile, se tanto la volontà
teorica quanto l’intelletto teorico devono costituire «il
lume al cui chiarore dobbiamo distinguere se l’atto pra-

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tico d’intelletto ci dà il vero, e quello di volontà il


buono»51. Ci potrà dunque essere un falso intendimento
come potrà darsi una cattiva volizione, entrambi i casi
non toglieranno tuttavia l’infallibilità della ragione che
sa il vero e della coscienza morale che sa il buono. Se non
si dessero né l’intelletto puro né la coscienza morale, sa-
rebbe anche impossibile riconoscere di aver sbagliato
teoreticamente ovvero moralmente. Fallibile sarà sol-
tanto la pratica, vale a dire i molteplici atti, conoscitivi e
volitivi, che realizzano e pongono in atto le due attività
dell’Essere rappresentate dal conoscere e dal volere.
In relazione al secondo punto – l’identificazione della
volontà con la volontà di bene – è opportuno ricordare
che tale tesi si regge sulla premessa teorica per la quale
l’attività del volere, considerata nella sua natura formale,
può essere razionale soltanto allorché si conforma alla
sua legge costituita dal dovere. Carabellese si dichiara al
riguardo d’accordo con Kant nello stabilire un nesso es-
senziale tra la volontà morale e il dovere. Kant ha visto
giusto allorché ha definito il dovere come la necessità del-
l’atto volontario, riconoscendolo pertanto nel suo valore
formale di ciò che la volontà pura deve compiere, allor-
ché la si considera nella sua natura razionale. Carabellese
scorge in questa tesi kantiana un supporto alla conce-
zione per lui filosoficamente corretta secondo la quale il
dovere può essere compreso «come la necessità del vo-
lere in quanto pura potenzialità di atti e non attuata atti-
vità»52. Il formalismo della necessità della volontà
razionale, in Kant rappresentato dal dovere, ritorna nel
pensiero di Carabellese sotto le sembianze di una «ne-
cessità di potenzialità»53: come dire che una volontà in
sé, non ancora attuata attraverso singole volizioni, con-
siderata cioè nella sua pura potenzialità, ha una essenza
che si esprime nella necessità morale del dovere. Consi-
derato rispetto al momento del fine che, come si è visto,

56
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è parte integrante della concezione etica carabellesiana,


il dovere si definisce come «la necessità del fine» che non
ammette la possibilità del contrario54.
Se dunque volere significa volere razionalmente e vo-
lere razionalmente vuol dire volere il bene ovvero agire
nel rispetto del dovere, quando si agisce spinti da un cal-
colo prudenziale ovvero da un desiderio di felicità a ri-
gore non si vuole ma si agisce in maniera patologica,
spinti cioè dai sensi. Carabellese concede dunque a Kant
che nell’uomo possa predominare il desiderio sul volere,
che accanto ad un agire razionale si dia un agire patolo-
gico, egli nega però che sia possibile parlare dal punto di
vista kantiano – come del resto anche dal suo punto di
vista – di una volontà che vuole un oggetto perché lo si
desidera. Una volontà come coscienza della prudenza
non è in altre parole possibile, «se riteniamo davvero che
la volontà è la ragione stessa nella sua causalità, e se la
causalità della ragione non può essere determinata che
da lei medesima»55.
Come spiegare allora il male? Il male è l’errore morale
ovvero l’atto morale negativo. Lo sbaglio per essere tale
può avvenire solo in riferimento alla coscienza morale;
naturalmente non nel senso che sia la coscienza morale a
commettere l’errore, ma, invece, in quello che la singola
volizione individuale costituisce «un atto che nega la teo-
ria di cui è atto»56. Quando si fa il male si commette dun-
que, secondo il Carabellese, l’errore di negare
praticamente quello che vale infallibilmente dal punto di
vista teoretico. Il mercante, ad esempio, che ruba del de-
naro all’acquirente, dandogli meno di quanto questi
paghi o offrendogli una merce qualitativamente sca-
dente, che non possiede cioè il valore che viene pagato,
nega quella teoria che identifica la sua propria natura di
commerciante: «egli dice di vendere; ma non vende,
ruba». L’assassino che, vivendo in società ha fatto pro-

57
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pria la teoria della convivenza, «nega con l’assassinio


questa teoria che egli col suo atto vorrebbe affermata»57.
In tutti i casi di male morale, l’errore commesso consiste
in definitiva nella incoerenza tra la teoria e la pratica, tra
il sapere ciò che si è e il fare ciò che si fa. La si potrebbe
definire una teoria della contraddizione tra l’essenza ov-
vero l’idea teorica e la sua realizzazione empirica.
Una tale teoria del male morale si fonda su due tesi ne-
gative: A) la volontà razionale non deve essere confusa
con la volizione empirica, l’idea del volere con l’atto pra-
tico. B) La volontà non costituisce affatto la facoltà di
soddisfare tanto i sensi quanto la ragione, in maniera tale
che nel primo caso si sarebbe un uomo prudente, nel se-
condo invece un uomo morale. Carabellese nega qui la
concezione della volontà come capacità di scegliere tra il
bene e il male. In ciò mi sembra che stia uno dei punti
qualificanti della teoria pratica carabellesiana: che la vo-
lontà non consista nella facoltà dell’arbitrio, rappresenta
infatti la diretta conseguenza della comprensione della
volontà come una determinazione dell’Essere, pertanto
come una attività che pur presente nell’uomo non si de-
finisce in base a specifiche caratteristiche antropologi-
che. Viene qui respinta ogni forma di naturalismo in
relazione alla fondazione di una teoria della volontà e
della coscienza morale. La concezione della volontà
come capacità di scelta tra il soddisfacimento delle ri-
chieste sensibili ovvero il soddisfacimento del comando
morale è sbagliata secondo Carabellese anche per un
altro motivo. A pensare in tale maniera, infatti, si do-
vrebbe concludere che si danno due modi di agire diffe-
renti che idealmente scorrerebbero paralleli senza
sovrapporsi ovvero incontrarsi mai, che di fatto però di
incontrerebbero in uno scontro che si concluderebbe nel
«trionfo dell’uno a discapito dell’altro». Secondo una
tale rappresentazione dell’agire pratico si avrebbe in un

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caso una volontà buona che vince sulla volontà prudente e


che proprio per questo darebbe luogo ad un’azione buona
ma dannosa, «alla negazione dell’interesse»; nell’altro
caso, invece, sorgerebbe un’azione utile ma cattiva58. Ca-
rabellese nega qui, evidentemente, il rigorismo morale
che intende il bene come l’assenza di ogni vantaggio in-
dividuale di chi compie un’azione. Il prototipo di un tale
concetto del bene è per lui, in definitiva, «la neghittosità
inconsapevole, l’ozio infecondo e fastidioso, la morte»59.
Un rigorismo morale, questo, che non può non andare
insieme alla già respinta tesi della duplicità della volontà:
nella misura in cui infatti si parla di una doppia volontà,
morale e prudenziale, si è costretti ad intendere il caso
dell’agire morale come negazione dell’agire prudenziale.
La teoria del male morale carabellesiana si fonda, per
converso, su due tesi positive che ambiscono a sostituire
le due tesi negative appena discusse: A) solo della voli-
zione individuale si può afferma la non bontà, laddove
invece vale che ogni volontà è volontà di bene nel senso
sopra descritto60. B) Ogni azione umana si contraddi-
stingue per l’avere in sé tanto un elemento di utilità
quanto un elemento di bontà. Di contro alla kantiana du-
plicità del volere e al rigorismo morale che le si associa
Carabellese mostra per un lato che nell’utile è contenuto
il bene, per l’altro lato fa propria la tesi crociana che non
possa darsi un agire morale che non sia anche un agire
economico. In definitiva «il bene non consiste nella as-
senza di ogni vantaggio individuale dell’agente» e agire
umanamente non significa affatto «sostituire motivi
ideali a motivi sensibili» ma, piuttosto «racchiudere sem-
pre nel senso la motivazione ideale»61. Se, nella conce-
zione che Carabellese combatte, lo scontro tra le due
volontà, morale e prudenziale, veniva risolto a discapito
o dell’una o dell’altra, adesso che è stata mostrata l’inso-
stenibilità di tale tesi, si potrà affermare che il dissidio

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che si verifica in ogni agire pratico e che può condurre


all’errore morale ovvero al male è certamente un contra-
sto tra il sensibile e l’intelligibile. Un tale contrasto deve
tuttavia essere compreso come il «contrasto fra la legge e
l’attuazione sua; fra l’universalità della prima e la deter-
minata individualità della seconda»62. Ogni singola voli-
zione deve seguire la propria legge, ma può nella sua
individualità non attuare quell’idea che la definisce dal
punto di vista formale63. Il soldato, dunque, che com-
prende il proprio essere di uomo militare in maniera cor-
retta esporrà la propria vita al pericolo e, se necessario,
ucciderà il nemico. Così facendo stabilirà una coerenza
tra il suo sapersi come soldato e il suo effettivo compor-
tamento da soldato. Qualora invece egli dovesse appro-
fittarsi del nemico inerme solo per soddisfare la propria
sete di vendetta, avrebbe compiuto un vero e proprio er-
rore morale, contraddicendo nella pratica quello che vale
nella teoria, facendo cioè il contrario di quello che la sua
coscienza morale gli indica come moralmente giusto.
Se con ciò è stato chiarito in cosa consista l’errore mo-
rale, non si è tuttavia ancora risposto alla domanda sul
perché esso si verifichi. Molte delle risposte date dalla fi-
losofia classica tedesca – rispetto alla quale Carabellese
matura in gran parte la propria posizione – possono es-
sere scartate perché incompatibili con la sua teoria:
A) il male non costituisce il risultato della scelta della
volontà intesa come facoltà di scelta tra il rispetto della
legge morale e il soddisfacimento della sensibilità. Di
questa opzione teorica si era fatto forte Karl Leonhard
Reinhold, in particolare nel secondo volume delle Let-
tere sulla filosofia kantiana (1792), osservando che la vo-
lontà non è la ragion pura pratica e che laddove la prima
è l’unica facoltà libera dell’animo umano, la seconda è,
nella sua causalità, assolutamente necessaria, dal mo-
mento che non può non porre la legge morale. Kant ha a

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suo avviso commesso l’errore di identificare i due con-


cetti, con la conseguenza che l’uomo sarebbe libero sol-
tanto ottemperando al comando della legge morale.
Reinhold aveva in mente affermazioni kantiane come la
seguente, tratta dalla Fondazione della metafisica dei co-
stumi: «una volontà libera e una volontà sottoposta a
leggi morali sono la stessa cosa»64. Per lui, la libertà della
volontà e l’arbitrio sono due concetti assolutamente in-
divisibili, dal momento che è solo nell’arbitrio, come ca-
pacità di scegliere tra il bene e il male, che la volontà trova
la propria definizione in positivo rispetto alle richieste
della sensibilità e della ragione pura pratica65.
Per quel che si è detto in precedenza, è evidente che
Carabellese non può accettare una tale teoria del male,
rea a suo avviso di introdurre il naturalismo e l’antropo-
logismo in etica.
B) Il male non avviene neppure, come sostiene lo
Schelling della Freiheitsschrift (1809), perché l’uomo at-
tualizza il fondo oscuro e irrazionale rappresentato dalla
natura in Dio. Questo si verifica quando l’uomo separa il
proprio volere individuale dalla luce divina e aspira «ad
essere come volere particolare ciò che è soltanto nel-
l’identità col volere universale, ad essere anche nella pe-
riferia, ossia come creatura […] ciò che è soltanto in
quanto rimane nel centro», ossia nella sua unità con
Dio66. Per un tale concetto, il male consiste «in una posi-
tiva perversione o in un sovvertimento dei principi» che
reggono la relazione tra gli esseri finiti e la relazione degli
esseri finiti con Dio .
Siamo qui lontani, evidentemente, dalla contraddi-
zione di teoria e pratica invocata dal Carabellese a spie-
gazione del male; per il nostro filosofo italiano non
sarebbe affatto vero, come lo è invece per Schelling, che
il male segue «dal principio tenebroso o individuante
portato in intimità col centro» e che pertanto «come si

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dà un entusiasmo per il bene, altrettanto si dà un’esalta-


zione del male»67. L’errore morale è per Carabellese piut-
tosto una falsa applicazione pratica, certamente voluta,
della vera teoria, non la schellinghiana falsa unità di due
volontà differenti, individuale e universale.
C) Il male non si verifica del resto nemmeno perché
l’uomo soggiace alla forza d’inerzia della sua natura sen-
sibile e non riflette sulla propria natura razionale. Se-
condo questa teoria – sostenuta da Fichte nel Sistema di
etica del 1798 – il male accade a causa del processo di
oscuramento di cui l’uomo si rende responsabile allor-
ché non mantiene desta e forte in sé la voce della ragione.
Le massime dell’agire dipendono qui da come ci si com-
prende; ci sono in altre parole stadi differenti di rifles-
sione su di sé, ai quali seguono in maniera inevitabile
determinate massime; non è però inevitabile fermarsi ad
un certo stadio della riflessione sulla propria natura.
Che l’uomo rimanga dunque ad una certa com-
prensione di sé, «non è affatto necessario, bensì di-
pende dalla sua libertà; egli dovrebbe assolutamente
elevarsi a un punto superiore della riflessione e lo po-
trebbe anche fare». Che non lo faccia «è colpa sua; ed
è quindi parimenti colpa sua anche la massima ina-
datta che ne consegue»68.
Sebbene anche per Carabellese giochi un ruolo ri-
levante il sapere che ciascuno di noi ha del proprio es-
sere in un certo modo – sapere dal quale dipende,
come si è visto, l’infallibilità della coscienza morale –
, benché dunque la riflessione su di sé costituisca un
momento fondamentale per comprendere cosa è bene
per sé, sia come uomo sia come individuo specifico,
resta vero che il male non si verifica per Carabellese,
come è invece per Fichte, perché non si coltiva la pro-
pria natura razionale, esso accade piuttosto perché
pur sapendo cosa è giusto tanto in relazione al pro-

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prio essere uomo quanto rispetto al proprio essere un


certo uomo si decide di andare contro tale sapere; e
si decide di andarvi contro perché si predilige l’at-
tuazione di una teoria diversa da quella che definisce
il proprio essere. L’errore morale non si verifica per-
ché ci si sbaglia a comprendere ciò che si è – questa la
posizione di Fichte –, esso accade in quanto si prefe-
risce non dare coerenza al rapporto tra il proprio sa-
pere e il proprio fare, tra la teoria e la pratica.
Carabellese non ha dubbi sul carattere infallibile della
coscienza morale che mi dice in un certo momento cosa
devo fare; e tale infallibilità significa per lui che, ad esem-
pio, l’uomo non può non sapere la propria umanità, se è
davvero un uomo.
Chi non la sa, «vuol dire che non si riconosce come
uomo e non si può per lui parlare né di volontà né di re-
sponsabilità umana: è un ebete, da cui bisogna garen-
tirsi». D’altra parte è altrettanto vero che chi sa la propria
umanità, «non può saperla male; può non saperla e
quindi non essere uomo, può saperla più o meno, e
quindi essere in un grado più o meno alto; ma non può
errare nella oggettività della propria coscienza».
Lo stesso può essere detto a proposito di casi più con-
creti, ad esempio del mercante ladro o del cittadino as-
sassino sopra richiamati: entrambi «non possono non
sapere che il vendere e il convivere sono essenziali all’es-
ser mercante del primo, all’esser cittadino dell’altro»69.
Chi non segue pertanto la voce della propria coscienza
morale, inganna se stesso ovvero commette un errore di
autocomprensione nel senso che da mercante diventa
ladro. E ciò si verifica per l’appunto nella misura in cui si
mette in pratica una teoria differente da quella dell’es-
sere mercanti: la teoria dell’esser ladri.

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Conclusione

Sostenere, come fa Carabellese, che l’errore morale


ovvero il male è la negazione della teoria di cui esso è
l’atto, significa riconoscergli una certa positività. Una po-
sitività tuttavia che si accompagna alla parzialità e al-
l’astrattezza di essere un atto cui non corrisponde una
teoria ad esso coerente: idea e attuazione dell’idea si ne-
gano infatti reciprocamente70. Carabellese applica e spe-
cifica al caso della pratica la propria confutazione
dell’hegelismo filosofico. E ciò tenendo presente non sol-
tanto Hegel, ma anche chi in Italia, pur all’interno di un
discorso per molti aspetti critico nei confronti del filo-
sofo di Stoccarda, ne accetta il nucleo centrale rappre-
sentato dalla dialettica degli opposti: Croce e Gentile.
Vediamo, a conclusione del nostro ragionamento, in che
modo.
Nella Logica dell’essenza Hegel afferma che il positivo
e il negativo sono la stessa cosa non solo per una rifles-
sione esterna ma anche in loro stessi. Ciò vuol dire che
ad esempio il male non è soltanto la mancanza di bene,
ma «consiste nel fondarsi in sé contro il bene; è la nega-
tività positiva»71. Non esiste pertanto un bene e un male
assoluti e separati l’uno dall’altro; la Fenomenologia dello
spirito spiega al riguardo che il cattivo, come del resto
anche il falso, «non son mica perfidi come il diavolo»,
esso non è cioè per nulla un soggetto particolare ma sol-
tanto un universale astratto72. Nella Filosofia della pratica
Croce scrive da parte sua che «il male, quando è reale,
non esiste se non nel bene che gli contrasta e lo vince, ep-
però non esiste come un fatto positivo; quando invece
esiste come fatto positivo, è non già male ma bene»73. Af-
fermazioni più o meno simili si trovano anche in Gentile
per il quale il male ovvero l’errore costituisce nel pro-
cesso spirituale soltanto un momento ideale, «una posi-

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zione […] già superata, e quindi svalutata»74. Esso è in-


fatti il momento negativo dello spirito e come tale è ir-
reale; «è quel difetto di se medesimo, che lo spirito nota
avanti a sé nell’atto di affermarsi, e colmare quindi il di-
fetto stesso». Esso è la molla che fa scattare la correzione
del vero e che è dunque errore solo «in quanto corretto e
quindi non più tale». L’errore ci resta dunque «sempre
alle spalle, e noi guardiamo avanti, sempre avanti, alla
luce sempre viva del vero». L’errore è insomma un’astra-
zione: «e la sua realtà, la sua rivelazione consiste in un
momento dialettico della coscienza»75.
Carabellese riconosce che il male è per sé «negazione
del bene»; pur non essendo qualcosa di positivo, esso
non è neppure «il nulla senz’altro». Quando ad esempio
si ruba, impossessandosi di quello che si riconosce ap-
partenere ad altri, non si compie il male per la parte po-
sitiva che consiste nel fare proprio qualcosa, «ma per la
negazione della riconosciuta alterità di un bene»76. In-
somma il male è positivo non perché sta in un rapporto
dialettico-oppositivo col bene, ma perché nega un sapere
già riconosciuto come vero. Male e bene non stanno,
come vorrebbe l’hegelismo filosofico, in una dialettica
degli opposti; il dinamismo morale non richiede né l’op-
posizione dei contrari né il toglimento di essa. Carabel-
lese, nella Critica del concreto può dunque scrivere contro
Gentile che l’errore è spiegabile all’interno della concre-
tezza spirituale «solo se non ammettiamo la necessità
della riduzione di ogni atto pensato a errore solo perché
già pensato»77. L’errore non è dunque il passato, il tolto,
ma è la negazione, nel presente, di ciò che la coscienza
morale indica essere un bene.

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Note:
1. P. Carabellese, Critica del concreto, Sansoni, Firenze 19483, p. XXIII.
2. P. Carabellese, La coscienza morale, Tipografia Moderna, La Spezia
1914, pp. III-IV. Di questo scritto è uscita una nuova edizione (Carabba,
Lanciano 2014) che ho potuto vedere solo dopo che il mio articolo era an-
dato in composizione. Rimando in particolare al lungo saggio di Furia Va-
lori che introduce il testo carabellesiano: Pantaleo Carabellese alle origini:
la coscienza morale e la nascita dell’ontologismo critico, pp. 7-80.
3. P. Carabellese, La coscienza morale come teoria della volontà, in
«Rivista di Filosofia», IX (1917), pp. 40-66. La critica del Vidari era
uscita, sulla stessa rivista, nel secondo fascicolo dell’anno precedente.
4. I due capitoli sono rispettivamente dedicati a Teoria e pratica e a
La concretezza e il volere (pp. 1-22 e 23-42 della 3a edizione del 1948).
5. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G.
Marini, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 116-117.
6. G. W. F. Hegel, Fede e sapere o filosofia della riflessione della sog-
gettività nell’integralità delle sue forme come filosofia di Kant, di Ja-
cobi e di Fichte, in id., Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia,
Milano 1971, pp. 125-133.
7. Sulla necessità di comprendere l’Assoluto tanto come sostanza
quanto come soggetto ha richiamato l’attenzione Dieter Henrich nel
suo fondamentale saggio Hegels Logik der Reflexion, in id., Hegel im
Kontext, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1971, pp. 95-156.
8. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De
Negri, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 10-11, 21.
9. G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compen-
dio, a cura di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1984, § 382, p. 374.
10. P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica del-
l’ontologismo critico, Sansoni, Firenze 1946, pp. 221-225.
11. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, a cura di A. Moni e C. Cesa,
Laterza, Roma-Bari 1994, tomo 1, p. 38.
12. Ibidem, p. 70.
13. P. Carabellese, L’essere e la sua manifestazione. Parte prima. La dia-
lettica delle forme, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003, pp. 74-77.
14. Sulle obiezioni carabellesiane a Kant si veda in particolare La
nuova Critica e il suo Principio, in Concetto e programma della filoso-
fia d’oggi, Bocca, Milano 1941, pp. 96-115. Sul confronto tra i due
pensatori è da vedere l’ampio e approfondito studio di Andrea Bini,
Kant e Carabellese, Luiss University Press, Roma 2006.
15. P. Carabellese, La nuova Critica e il suo Principio, cit., p. 104.
16. Ibidem, p. 105.

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17. Osservazioni fondamentali al riguardo si trovano in P. Cara-


bellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), Tri-
marchi, Palermo 1929, pp. 11-80.
18. Su questa tematica è costruito l’intero saggio di P. Carabellese, Il
problema teologico come filosofia, Tipografia del Senato, Roma 1931.
19. P. Carabellese, La nuova Critica e il suo Principio, cit., p. 114.
20. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 3.
21. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 14.
22. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 2.
23. Ibidem, p. 10.
24. Ibidem.
25. Ibidem, p. 11.
26. Ibidem, pp. 16-17.
27. Ibidem, p. 12.
28. P. Carabellese, Critica del concreto, cit., pp. 10-11.
29. Ibidem, p. 17.
30. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., pp. 22-23.
31. Ibidem, p. 27.
32. I. Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1970, p. 49.
33. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 28.
34. P. Carabellese, La coscienza morale come teoria della volontà,
cit., p. 41.
35. I. Kant, Scritti morali, cit., p. 257.
36. Ibidem.
37. Ibidem, p. 155.
38. Ibidem, p. 156.
39. Ibidem, p. 153.
40. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 40.
41. P. Carabellese, La coscienza morale come teoria della volontà,
cit., p. 45.
42. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 41.
43. P. Carabellese, La coscienza morale come teoria della volontà,
cit., pp. 45-46.
44. Cfr. su questo punto La coscienza morale, cit., p. 51.
45. Ibidem, p. 30.
46. Cfr. al riguardo P. Carabellese, La coscienza morale come teoria
della volontà, cit., p. 47.
47. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 69.
48. Ibidem, p. 35.
49. Ibidem, p. 43.
50.P.Carabellese,Lacoscienzamoralecometeoriadellavolontà,cit.,p.53.
51. Ibidem, p. 53.

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52. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 61.


53. Ibidem.
54. Ibidem, p. 64.
55. Ibidem, p. 47.
56.P.Carabellese,Lacoscienzamoralecometeoriadellavolontà,cit.,p.64.
57. Ibidem, pp. 64-65.
58. Ibidem, p. 55.
59. Ibidem, p. 61.
60. Ibidem, p. 51.
61. Ibidem, pp. 60-61.
62. Ibidem, p. 59.
63. P. Carabellese, La coscienza morale, cit., p. 64.
64. I. Kant, Scritti morali, cit., p. 108.
65. Sulla concezione reinholdiana della libertà mi permetto di ri-
mandare al mio Die Theorie der Willensfreiheit in den «Briefen über
die Kantische Philosophie» (1790-92) von Karl Leonhard Reinhold, in
«Philosophisches Jahrbuch», CVII (2000), pp. 428-443.
66. F. W. J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana
e gli oggetti che vi sono connessi, in id., Scritti sulla filosofia, la religione, la
libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974, pp. 101-102.
67. Ibidem, p. 105. Sul male in Schelling si vedano, tra gli altri, F.
Hermanni, Die letzte Entlastung. Vollendung und Scheitern des abend-
ländischen Theodizeeprojekts in Schellings Philosophie, Passagen Verlag,
Wien 1994; F. Forlin, Limite e fondamento. Il problema del male in
Schelling (1801-1809), Guerini e Associati, Milano 2005.
68. J. G. Fichte, Il sistema di etica secondo i principi della dottrina della
scienza, a cura di C. De Pascale, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 167. Sulla
concezione fichtiana del male cfr. in particolare M. Ivaldo, Das Problem des
Bösen bei Fichte, in «Fichte-Studien», III (1991), pp. 154-169.
69.P.Carabellese,Lacoscienzamoralecometeoriadellavolontà,cit.,p.65.
70. Cfr. su questo punto P. Carabellese, Critica del concreto, cit., p. 225.
71. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, cit., tomo 2, p. 488.
72. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 22.
73. B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Laterza,
Bari 1923, p. 129.
74. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Let-
tere, Firenze 1987 (in Opere, III), p. 234.
75. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Le Lettere,
Firenze 1996 (in Opere, XXVII), p. 127.
76.P.Carabellese,Lacoscienzamoralecometeoriadellavolontà,cit.,p.52.
77. P. Carabellese, Critica del concreto, cit., p. 227.

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