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Una massa quasi pari a zero che viaggia a quasi trecentomila chilometri al secondo.

Una particella così


elusiva da non poter essere osservata con facilità, ma che racchiude in sé e tramanda la storia dell’universo
e con essa quella dell’uomo. Questi sono i neutrini. C’è chi li chiama “trasformisti”, ma loro preferiscono
“oscillare”. Viaggiano a velocità relativistiche nel cosmo, lo pervadono, ci trapassano e non lasciano tracce,
ma si concedono oscillazioni che gli permettono di cambiare sapore. E no, per questo viaggio non
serviranno guide gourmet o un palato sopraffino, perché gli ingredienti di questa storia sono la base per un
ponte verso una nuova fisica.

Premessa doverosa per entrare in questa storia, è un breve identikit. I neutrini sono particelle con carica
nulla ed esistono tre differenti sapori, che formano un “doppietto” con le rispettive particelle cariche a cui
sono associati: elettrone, muone e tauone. I loro nomi sono: neutrino elettronico, muonico e taounico. Nel
Modello Standard delle particelle, che descrive le caratteristiche atomiche dei mattoni che compongono la
materia nell’universo, i neutrini sono previsti con massa pari a zero. Una teoria dettata anche dalla loro
debole interazione con la materia circostante: mentre scrivo, e mentre leggete, oltre 100mila miliardi di
neutrini provenienti dall’eco del Big Bang, dal Sole, dalle stelle e dai reattori nucleari sul pianeta ci
attraversano in appena un secondo, senza che ce ne rendiamo conto. E noi stessi, che siamo fatti di atomi,
li emettiamo. C’erano dei conti che però non tornavano, ed è così che iniziò per gli scienziati il viaggio a
caccia della loro presunta massa.

Un viaggio che parte da lontano e, come tutte le storie più avvincenti, con un pizzico di casualità. In un
laboratorio uno scienziato studiava la fosforescenza dei sali di uranio e scoprì, per caso, che avevano il
potere di impressionare una lastra fotografica al buio. Quello scienziato era Antoine Henri Becquerel, che
osservò nel 1896 per la prima volta la radioattività, cioè quell’insieme di processi fisico-chimici per cui il
nucleo di un atomo decade in un nucleo con energie inferiori liberando altre particelle ed energia.

Cosa c’entra, direte voi, la radioattività col neutrino? C’entra, fidatevi. La lettera del 1930 che Wolfang Pauli
scrisse per annunciare l’esistenza di questa particella al congresso di fisica di Tubinga, infatti, iniziava
proprio con “Care Signore e cari Signori Radioattivi”. C’entra perché nello studiare il decadimento beta,
notò che qualcosa nei conti energetici non tornava. “Ho pensato a un disperato rimedio per salvare le
statistiche e il principio di conservazione dell’energia”, scrisse Pauli. E il “rimedio” c’era: una particella
elettricamente neutra, emessa insieme all’elettrone, e che chiamò “neutrone”.

Ma la natura sa sorprenderci e non poco. Nel 1932, James Chadwick scoprì il neutrone, quello vero. E allora
che fare? La soluzione, stavolta, arrivò dal fisico italiano Enrico Fermi. Doveva esistere una particella neutra,
ma molto più “leggera” del neutrone. Nel 1933, finalmente, Fermi pronunciò per la prima volta il nome
dell’elusiva particella: neutrino. Solo una teoria fino al 1956, quando Clyde Cowan e Frederick Reines
osservarono per la prima volta il neutrino elettronico nel rivelatore di Savannah River, negli Stati Uniti. “La
lezione del nostro lavoro è chiara: è facile schermare il rumore prodotto dall’uomo, ma impossibile zittire
quello del cosmo”, scrissero i due scienziati annunciando la loro rivoluzionaria scoperta, che nel 1995 gli
valse il premio Nobel per la fisica.

D’altronde osservare un neutrino non è certo cosa facile. Come rivelare qualcosa che elude e sfugge? Per
prima cosa, schermando tutte le altre particelle e radiazioni che possono oscurare la loro presenza. Per
farlo, iniziarono gli scavi e la costruzione di grandi rivelatori nelle profondità della Terra. Miniere
abbandonate, come Homestake in Sud Dakota o Kimioka in Giappone, laboratori scavati nelle montagne,
come il Laboratorio nazionale del Gran Sasso in Abruzzo, e ancora rivelatori immersi nel mar Mediterraneo
come ANTARES o nei ghiacci dell’Antartide come IceCube: questi diventano i luoghi dove la caccia al
neutrino e alla sua massa si svolge.
Luoghi impervi dove il “timido” e trasformista neutrino appare e si manifesta, emettendo una luce
particolare negli enormi rivelatori riempiti di tonnellate di liquido, che sia semplice acqua o siano composti
del cloro e del gallio. Un lavoro duro, fatto di tecnologie futuristiche disegnate solo e soltanto per loro, ma
che possono trovare altre applicazioni nella vita quotidiana.

E ora che gli occhi sono pronti a vederli, siamo pronti anche a gustare il loro “sapore”. Non un solo sapore,
ma ben tre. Se infatti Cowan e Reines scoprirono il solo neutrino elettronico, associato dunque
all’elettrone, nel 1962 fu scoperto nei laboratori di Brookhaven negli Stati Uniti il neutrino muonico,
associato al muone. Una scoperta che valse ai suoi scienziati, Leon Lederman, Melvin Schwartz e Jack
Steinberger, il premio Nobel per la fisica nel 1988. E per il terzo sapore, direte voi? Per quello bisognerà
aspettare fino al 2000. Un balzo avanti nel tempo che ci porta dritti all’esperimento DONUT, con il neutrino
tauonico che finalmente apparve nei laboratori sotterranei del Fermilab. “E’ il proverbiale ago nel pagliaio”,
questo dissero gli scienziati dopo tanto lavoro. E si era ancora solo all’inizio.

Le presentazioni, ormai, sono fatte. I neutrini tanto elusivi si sono infine mostrati, anche se ancora poco
sappiamo di loro. Ma torniamo indietro, al 1957. Una nota stonata turbava gli scienziati e introduceva un
nuovo problema nello studio dei neutrini, il “Problema dei neutrini solari”. Ora che potevamo finalmente
vederli nel rivelatore nella profondità della miniera di Homestake, grazie alle ricerche di Raymond Davis,
questi sparivano nel nulla. Solo un terzo dei neutrini elettronici provenienti dal Sole, infatti, veniva rivelato
sulla Terra. Che fine avevano fatto gli altri? La risposta arrivò con la teoria dell’oscillazione del neutrino
elaborata dal fisico Bruno Pontecorvo: queste particelle si trasformano, cioè oscillano, da un sapore in un
altro nel lungo viaggio di 149,6 milioni di chilometri che separano il Sole dal nostro pianeta. Una
trasformazione che cambiò le regole del gioco: per oscillare, queste particelle devono necessariamente
avere una massa, seppur piccolissima.

Ma come ritrovare qualcosa che sembra andato perduto? Ancora una volta ponendo un rivelatore in una
miniera, stavolta quella di Creighton in Canada a duemila metri di profondità. Così è nato il Subdury
Neutrino Observatory, un rivelatore che somiglia a un’enorme piscina, riempita però con 1000 tonnellate di
acqua pesante, l’idrogeno lascia il suo posto all’isotopo deuterio. E nel 2001 Arthur McDonald e il suo team
di oltre 270 scienziati dimostrarono così l’esistenza della massa della particella, vincendo il premio Nobel
per la fisica nel 2015.

Arthur però non è stato l’unico premiato dall’Accademia di Stoccolma quell’anno. Non solo il problema dei
neutrini solari infatti aveva confermato la preziosa scoperta. Un altro deficit infatti turbava i conti dei
cacciatori di neutrini. Stavolta a oscillare non erano quelli prodotti dal Sole, ma quelli che nascevano nella
nostra atmosfera, dallo scontro dei raggi cosmici e di altre particelle. Il “problema dei neutrini atmosferici”,
era questo l’enigma da risolvere. E per risolverlo lo sguardo si rivolse all’Oriente, dove Takaaki Kajita e i suoi
collaboratori si inoltrarono nella miniera di Kamioka, in Giappone. Ancora una volta nelle profondità della
terra, stavolta toccò all’osservatorio del Super-Kamiokande e alle sue mille tonnellate di acqua pura
osservare le oscillazioni. E i ricercatori non rimasero delusi: il deficit di neutrini atmosferici fu confermato,
una nuova prova dell’oscillazione, e dunque dell’esistenza della massa, fornita.

Il viaggio, però, non può ancora dirsi concluso. All’appello in questa storia, manca ancora un terzo sapore,
quello tauonico. Se la natura coi suoi misteri chiama, la scienza ancora una volta risponde e stavolta “parla”
ancora di più italiano. Le risposte infatti arrivano dal profondo dei 1400 metri di roccia dell’Appennino,
dove sorgono i Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di fisica nucleare. Lì, il primo
evento di oscillazione di un neutrino muonico in tauonico è stato osservato.
Un apparato, quello della collaborazione OPERA, pesante ben 4mila tonnellate e costituito da fogli di
emulsione nucleare che si alternano a lastre di piombo e rivelatori a scintillazione. Un apparato che ha
“accolto” i fasci di particelle muoniche prodotte dall’acceleratore LHC nel CERN di Ginevra, che in appena
2.4 millisecondi hanno percorso 732 chilometri di distanza. E al loro arrivo, la trasformazione era avvenuta.
Ancora una oscillazione, ancora una conferma. Nel 2018 l’annuncio: dieci eventi osservati in cinque anni di
presa dati. E magari, più in là, un altro Nobel in arrivo.

Arriviamo così alla fine della nostra storia. Tutti i sapori sono ormai noti, le possibili oscillazioni osservate.
Sappiamo così che le elusive particelle hanno una massa, ma non ancora quale essa sia. Il ponte verso una
nuova fisica è aperto. C’è chi ritiene che i neutrini siano la soluzione per risolvere complicati puzzle, come la
Teoria della Grande unificazione delle forze fondamentali dell’universo. C’è ancora chi, invece, li ritiene
ottimi candidati alla soluzione di un’altrettanto elusivo mistero cosmologico: cioè quale sia la natura della
materia oscura. Come ogni scoperta che si rispetti, per una risposta si aprono nuove domande. Si chiude
dunque un capitolo, ma non la nostra storia: questo è solo l’inizio di un nuovo viaggio.

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