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Accattone
Regia: Pier Paolo Pasolini. Interpreti: Franco Cittì, Franca Pasut, Silvana
Corsini, Paola Guidi, Adriana Asti. Produzione: Arco Film, Italia. 1961.
Wim Wenders mette in scena, con ogni suo film, l'inquietudine. Alla fine,
ciò che lo interessa è l'enigma della vita. Come, esemplarmente, dimostra la
storia (da un romanzo giallo di Patricia Highsmith) di Jonathan
Zimmermann, invischiato, per paura e per denaro (gli fanno credere di
essere in fin di vita e gli offrono una lauta ricompensa se accetta di
diventare un killer), in un intrigo di gangster. Il disgraziato, corniciaio di
professione (uno straordinario Bruno Ganz), si trova combattuto tra due
forze opposte: un mercante d'arte venuto dagli USA a vendere i quadri di un
pittore che si finge morto per far alzare i prezzi e il vero gangster che ricatta
l'improvvisato killer. La ricompensa servirà alla famiglia, quando Jonathan
sarà morto. Ma non si giungerà a tanto perché dalle contorsioni di una
vicenda ambientata nel nord della Germania uscirà inaspettatamente
un'amicizia fra il Ripley mercante e lo spaurito Jonathan, e tutto andrà a
monte. Una brutta fine la faranno i gangster, e Ripley (il Dennis Hopper di
Easy Rider) se ne andrà soddisfatto. Jonathan assapora appena un attimo
la felicità di essersi salvato: la malattia che gli era stata diagnosticata lo
stronca mentre si allontana in macchina con la moglie. Come (quasi)
sempre, Wenders si misura con il cinema americano, e con i modelli
narrativi che lo governano. Anche Der amerikanische Freund - immagine
enigmatica dell'enigma della vita - è indirettamente un film sul cinema.
Oltre Hopper, due registi partecipano a questa riflessione intorno ai misteri
della esistenza, e sono due personaggi fortemente caratterizzati per le opere
che hanno diretto: Nicholas Ray, il pittore che si finge morto, e Samuel
Fuller, l'americano che conduce il gioco e ne fa le spese. Wenders mischia le
carte continuamente, infila nell'azione sequenze concitate (la caccia ai
gangster sul treno) e aperture suggestive sui panorami desolati delle spiagge
nordiche (dove termina il film).
Il pittore di icone Andrej Rublèv visse durante gli anni turbolenti delle
invasioni tartare in Russia, nel secolo XV. In un prologo e otto episodi,
Tarkovskij rievoca quell'atmosfera convulsa che segnò la storia di un
popolo. Rublèv vive della sua arte, partecipa alle gioie, alle feste e alle
sofferenze dei suoi simili, si scontra con un maestro (Teofane il greco) nella
teologia e nella pittura, assiste a un rito pagano, salva una ragazza
sordomuta dall'irruzione dei tartari nella cattedrale, è costretto a uccidere e
per questo fa il voto di non parlare e di non dipingere più.
Passano undici anni. Il principe cerca chi sia capace di fondere una
campana. Inaspettatamente e sfrontatamente, si presenta un ragazzo, che
esegue il lavoro a regola d'arte. ネ la rivelazione, per Rublèv: comprende
che ha il dovere, anche lui, di aiutare il suo popolo, come il ragazzo. Di
colpo, al pastoso bianco e nero con il quale Tarkovskij ha narrato la vita del
pittore si sostituisce un breve documentario a colori sulle icone dorate di
Rublèv.
Completato nel 1967, Andrej Rublèv compare al festival di Cannes, due
anni dopo, dove riceve il premio della critica internazionale. Ciò non è
sufficiente per indurre la burocrazia sovietica a presentare il film al pubblico
nazionale. Trascorreranno altri tre anni, e solo nel 1972 Andrej Rublèv
inizierà una breve carriera sugli schermi dell'Unione. La ricchezza visiva del
film, il simbolismo di cui è intessuto, il ritmo ampio delle sequenze
descrittive, il rifiuto di qualsiasi concessione alle istanze sociali, il rigore
della struttura narrativa: tutto congiura contro la tenacia di un regista pronto
ad autoesiliarsi in patria piuttosto che trattare materie non congeniali. Anche
all'estero, d'altronde, lo stupore è grande. Più che ammirazione, i premi
rivelano rispetto, e una accorata attesa (Tarkovskij non la deluderà, nei tre
film che girerà a Mosca, prima di emigrare e di concludere la sua avventura
in Occidente).
Regia: Luis Buriuel. Interpreti: Silvia Pinal, José Baviera, Enrique Rambai,
Tito Junco, Augusto Benedico, Luis Beristain, Antonio Bravo. Produzione:
Uninci / Film 59, Messico. 1962.
L'armata Brancaleone
L'Atalante (L'Atalante)
Regia: Jean Vigo. Interpreti: Jean Dasté, Dita Parlo, Michel Simon, Louis
Lefebvre, Gilles Margaritis. Produzione: Jean-Louis Noumez, Francia.
1934.
L'avventura
La battaglia di Algeri
Regia: Ridley Scott. Interpreti: Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young,
Joe Turkel, Joanna Cassidy, James Hong. Produzione: Ladd Company,
USA. 1982.
Blow-up
Cabiria
Casablanca (Casablanca)
Un chien andalou
Ciapaiev (Capaev)
ォ Viaggiare è l'opposto che stare a casa. E stare a casa vuol dire essere
intrappolati. サ Wim Wenders vuole esplorare il mondo, tenta di strapparsi
dalle sue radici tedesche. Ma il legame che lo congiunge al ォ Vaterland サ è
troppo forte, e vitale. Ecco, allora, il ritorno, la scoperta-riscoperta del
mondo vicino, che si crede di conoscere e non si conosce. Berlino, il cuore
della Germania. Wenders incastra nella città ancora divisa dal muro una
fiaba - metà in bianco e nero, metà a colori - che narra di angeli stufi di
essere angeli (il Damiel che si innamora di una trapezista: Bruno Ganz e
Solveig Dommartin), di angeli che resistono nella loro candida ォ
professione サ (il biondo Cassiel) e di ex angeli che sentono la nostalgia del
passato (l'attore Peter Falk venuto in Europa per un film sul nazismo).
Dall'alto di due monumenti che sono divenuti simboli di una città (il
rudere della Gedàchtniskirche distrutta nella seconda guerra mondiale e la
Siegessàule, la guglielmina ォ colonna della vittoria サ ), Damiel e Cassiel
guardano le strade e i passanti. Poi affrontano la realtà: la biblioteca
nazionale, un piccolo circo (lì si esibisce la timida Marion), il grande
spiazzo che un tempo era la Potsdamerplatz, il set dove gira Peter Falk, una
discoteca. Immateriali, gli angeli possono attraversare il muro (una
immagine banale, eppure emozionante). Quando angeli non sono più, come
Damiel che getta via la sua corazza, diventano grevi, ma appassionati e
felici come gli uomini possono essere. Falk racconta il suo passato
newyorkese, Damiel insegue dappertutto la sua Marion. Alla fine scopre che
lo attende nel luogo dov'era piantata la tenda del circo. Tutto sì rivela nuovo
e logoro nello stesso tempo. Wenders comunica lievemente una sensazione
di ォ attesa サ
(paura e speranza) che si trasforma in una fiducia razionale nell'uomo. Il
cielo (benigno) sopra Berlino, sopra il mondo.
Il Decalogo (Dekalog)
Dillinger è morto
Marco Ferreri ottiene il meglio dalla sua vena di favolista quando riesce a
rarefare il racconto e a spingerlo nei cieli dell'astrazione e dell'assurdo.
Dillinger è morto costituisce l'esempio più tipico di questo atteggiamento:
ha la coerenza del prodotto perfettamente articolato e compatto. Un attore di
grande sapienza professionale, espressivo nella sua voluta ォ atonicità サ ,
sostiene la vicenda filiforme guidandola verso la strampalata, aerea
conclusione. Lui, Michel Piccoli, è l'ingegnere che fabbrica a Roma
maschere antigas. Una sera, annoiato dalle chiacchiere di un collega, torna a
casa, snobba la cena che gli è stata preparata, si cucina un risotto come si
deve, scopre una vecchia pistola avvolta in un giornale (è l'edizione in cui si
annunciò la morte di Dillinger), la ingrassa, rimettendola in funzione,
amoreggia con la cameriera, sale in camera da letto dove la moglie dorme, la
uccide sparandole attraverso il cuscino. Al mattino lascia la sua bella casa
Kitsch e si dirige verso il mare. Scorge un veliero dal quale i marinai calano
in acqua il corpo del cuoco testé morto. Si presenta al capitano e al
proprietario (che è una procace ragazzina). Sarà il nuovo cuoco. Il veliero fa
rotta per Tahiti.
Ferreri interpreta in questo modo la contestazione sessantottina che lo
circonda. Lo sberleffo di Dillinger è morto sarebbe un piccolo scherzo di
gusto dubbio se non si presentasse in veste così algida, inamidata e ォ
vuota サ e se non contenesse un ragionamento intorno alla oppressione delle
immagini (il cinema, la televisione, la pittura) sulla vita borghese. I colori
del film si impastano con i colori dei super 8 girati durante le vacanze, con i
documentari tv e le presentazioni (idiote) dei film sul piccolo schermo: una
insalata inquietante, dominata dalla pistola dipinta di rosso con pallini
bianchi che servirà a uccidere, dopo tanti anni di letargo in un ripostiglio.
L'inquietudine nasce dalla indifferenza e dalla ineluttabilità.
La dolce vita
Regia: Karel Reisz. Interpreti: Meryl Streep, Jeremy Irons, Leo McKern,
Lynsey Baxter, Patience Collier, Peter Vaughan, Emily Morgan.
Produzione: Jupiter Films, Gran Bretagna. 1981.
Se numerosi sono i film che mischiano cinema e vita (da Viale del tra-
monto, 1950, di Billy Wilder, Effetto notte, 1973, di Francois Truffaut),
nessuno è più chiaro di questa ォ sovrapposizione サ abilissima operata da
Karel Reisz, uno dei mentori del ォ free cinema サ britannico degli anni
Cinquanta, autore fra l'altro di Sabato sera, domenica mattina (1960) e
Morgan matto da legare (1966). Harold Pinter adatta per lui un romanzo di
John Fowles, escogitando le storie parallele di Anne e Mike, due attori, e di
Sarah e Charles, i personaggi che essi interpretano nel film La donna del
tenente francese, dramma in costume (Inghilterra 1867) di un amore
contrastato. Il film nel film costituisce il vero asse portante dell'azione,
mentre il ォ controcanto サ della vicenda contemporanea solo alla fine
acquista il dovuto - e atteso - rilievo.
Charles, un malacologo, trascura la fidanzata, per seguire una donna sola
che gode di un'ambigua fama: si dice che sia stata abbandonata da un
tenente francese e che per questo sia uscita di senno. Tutti la evitano, ed è
proprio questo che attrae l'intellettuale Charles. In una cittadina sulla riva
del mare, nel sud dell'Inghilterra, i due si incontrano, spesso sul molo
battuto dalle onde (l'operatore Freddie Francis sfodera una affascinante
tavolozza technicolorata). Sarah trasgredisce ogni regola del costume
vittoriano, perde il posto di governante presso una famiglia borghese, è
aiutata da Charles ed è da lui raggiunta a Exeter. E qui la ォ disonorata サ
concede al bel Charles la sua verginità. Diventano amanti, come lo sono
Anne e Mike sul set. Tornato da un viaggio a Londra, Charles non trova più
Sarah. Sul set Anne inventa pretesti per star lontana da Mike (sono entrambi
sposati, la situazione è imbarazzante). Charles incontra finalmente Sarah,
che si è rivelata una pittrice di talento. Le offre di sposarla, ma la donna non
accetta: vivrà sola, sarà lei a rifiutare il mondo dopo che il mondo l'ha
rifiutata.
Al ricevimento per la fine delle riprese Anne è raggiunta dal marito e se
ne va, salutando Mike appena con un cenno. La schematicità del
parallelismo è riscattata, incantevolmente, dall'apparato figurativo (l'uso dei
teleobiettivi e dei controluci rivela una padronanza assoluta del linguaggio)
e dalla intensa recitazione di Meryl Streep e di Jeremy Irons.
Dalla remota preistoria, quando l'uomo non era ancora comparso sulla
terra, al futuro: il salto è facile e del tutto credibile. Com'è credibile il
passaggio dalla clava della scimmia (la scoperta di uno strumento di offesa,
frutto di un cervello ormai umano) all'astronave in volo verso lo spazio.
Strani eventi accadono in questo 2001. Un monolito nero emette sibili di cui
non si comprende la natura. Si intuisce che il suono proviene dalla luna ma
che solo su Giove risiede la chiave del mistero. Così gli scienziati concordi -
gli occidentali, i sovietici -decidono di inviare sul lontano pianeta
un'astronave pilotata dal computer Hal 9000 e servita da due astronauti.
Nulla accadrebbe se i due uomini non dubitassero della precisione del
computer, il quale si vendica e ingaggia con loro una lotta mortale. Perderà,
finendo disattivato (morendo canta una filastrocca infantile), ma anche gli
uomini saranno sconfitti: uno precipita nel nero spazio, l'altro è inghiottito
da un vortice di luci e di suoni che lo scaraventa dentro un letto rococò in
cui invecchierà a vista d'occhio e morrà, trasformandosi - alla presenza del
monolito - in un feto che guarda verso lo spettatore.
Molti significati si possono attribuire a questa fiaba emozionante. Ku-
brick, reduce dal sarcastico pessimismo del Dottor Stranamore (1964), si
cimenta con una girandola di meravigliosi (e ingenui) effetti speciali e di
filosofemi (il futuro è il passato, la vita è la morte, il destino è imper-
scrutabile ma l'uomo non cesserà mai di scrutarlo e di interrogarsi). Il
mondo - questo mondo scosso dalla contestazione - non offre risposte.
Manipolando immagini, colori e musiche (straordinario lo choc ottenuto con
le prime battute di Also sprach Zarathustra e con il più celebre dei valzer
straussiani), il regista rende sopportabili, e anche gradevoli, le modeste
fumisterie intellettuali di Arthur Clarke, autore del testo.
Regia: Ken Loach. Interpreti: Sandy Ratcliff, Bill Dean, Grace Cave,
Malcom Tierney, Hilary Martyn, Michael Riddai. Produzione: Anglo Emi
Films, Gran Bretagna. 1971.
ネ uno dei prodotti più belli di quel battagliero ォ free cinema サ che, fra
gli anni Cinquanta e Sessanta, smosse le acque della cultura britannica. Alla
sua origine c'è un acre romanzo di Alan Sillitoe, che riesce a trasferire
intatto nella sceneggiatura il furore della pagina letteraria. E Tony
Richardson, aiutato dalla intelligenza di un operatore come Walter Lassally
(mai un compiacimento luministico nella fotografia sporca, terrosa,
impastata), crea intorno al personaggio centrale - un giovane delinquente
finito in riformatorio (credibile ed efficace Tom Courtenay) - l'ambiente più
tetro e sordido immaginabile. Non è soltanto una prigione, è un ォ Lager サ.
Questi ragazzi del ォ free cinema サ, così bastonati e furiosi, non hanno altra
aspirazione che ribellarsi, costi quel che costi.
Anche Colin Smith, vissuto malamente in una famiglia che gli è sempre
stata estranea (una madre che, dopo la prematura morte del marito, sposa un
piccolo cialtrone), si ribella. In una maniera singolare. Quando il direttore
del riformatorio (un eccellente Michael Redgrave) scopre in lui doti di
fondista, lo iscrive ad una gara cui partecipano carcerati e studenti. Colin si
allena scrupolosamente e arriva preparato al giorno della sfida. Partono in
gruppo, girando per i campi, nella bruma e nel fango. Colin si trova in testa
dopo un poco. Ma nel momento in cui, stralunato, vede il traguardo, capisce
che vincere significa dar ragione al direttore e alla società che lo ha espresso
e, dunque, alla repressione di cui i giovani sono vittime. Si ferma e si lascia
superare dagli avversari. Una ribellione paradossale, eppure significativa.
Come nella fotografia, non ci sono fronzoli né nello sviluppo della storia -
lineare, con un grande flashback centrale - né nella recitazione. Lo stile,
come l'ideologia, dev'essere controcorrente.
Regia: Jean Renoir. Interpreti: Pierre Fresnay, Jean Gabin, Marcel Dalio,
Erich von Stroheim, Carette, Dita Parlo, Jean Dasté, Jacques Becker, Gaston
Modot. Produzione: Les réalisations d'art cinématographique, Francia.
1937.
L'impiccagione1 (Kòshikei)
1Traduzione letterale del titolo giapponese
.
Regia: Nagisa Oshima. Interpreti: Yundo Yun, Kei Sató, Fumio Watanabe,
Mutsuhiro Toura, Hósei Komatsu, Akiko Koyama, Toshirò Ishidó.
Produzione: Sòzósha, Giappone. 1968.
L'incidente (Accident)
Da una parte, è un vero incidente in cui perde la vita uno dei protagonisti
(il più fragile dei quattro coinvolti in una schermaglia d'amore nella pigra e
ipocrita Oxford universitaria); dall'altra è la rivelazione della bassezza
morale in cui affonda la borghesia intellettuale. Harold Pinter, che al regista
ha già fornito la materia per l'amaro ritratto di II servo (1963) nella sottile
interpretazione di Dirk Bogarde, estrae da un romanzo poco noto di
Nicholas Mosley l'intreccio di una cinica partita sentimentale di tre maschi
intorno a una enigmatica studentessa austriaca (Jacqueline Sassard,
immagine della più torpida indifferenza): Stephen, maturo docente di
filosofia, con una famiglia perbene e una ottima posizione, il suo collega
Charley, donnaiolo fortunato, e il suo allievo William, giovane severo e
inquieto. Charley non fatica molto a sedurre l'austriaca, e William ne soffre.
Ma più ancora ne soffre Stephen il quale non osa confessare a se stesso
l'invidia per lo spregiudicato amico.
Imprevista e brutale sarà la soluzione. Joseph Losey la anticipa nella
prima inquadratura: la macchina da presa oltrepassa lentamente il cancello
di una casa di campagna, si avvicina all'ingresso mentre si ode lo schianto di
un incidente automobilistico; dalla porta esce Stephen (di nuovo Dirk
Bogarde, misurato e intenso più di sempre), che scopre al volante il
cadavere di William e, accanto a lui, la ragazza in stato d'incoscienza. Nel
contegnoso professore cade ogni freno: conduce la studentessa in casa e
abusa di lei. Cominciato così, il film percorre a ritroso la storia del quartetto,
torna alla scena cruciale, assiste alla ricomposizione dell'ordine, inquadra la
facciata della casa nel medesimo punto in cui l'aveva lasciata - allora era
notte, adesso è giorno - e rifà il suo cammino all'inverso mentre il professore
esce per richiamare i bambini. Ferma, ora, al cancello, come all'inizio, la
macchina da presa ォ sancisce サ visivamente - in una delle sequenze più
perfide di un polemico Losey - la sprezzante (e al tempo stesso raffinata)
condanna d'una intera classe sociale.
Regia: Elio Petri. Interpreti: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan, Gianni
Santuccio, Orazio Orlando, Sergio Tramonti, Salvo Randone. Produzione:
Vera Films, Italia. 1970.
Nell'anno in cui Fattori, generale d'acciaio, regia di Franklin Schaffner e
sceneggiatura di Francis Coppola, fa razzia di Oscar in omaggio al genere
bellico e di avventura, un film italiano, altrettanto ben costruito
drammaturgicamente (sceneggiatura di Petri e di Ugo Pirro), conquista
l'Oscar riservato al cinema straniero. ネ il 1970, e questo è il primo, vero
successo di un regista quarantenne diviso fra la rabbia dell'intellettuale
contestatore e l'indagine psicologica. Qui Petri trova l'equilibrio e mette a
frutto quel gusto del sarcasmo (della sfida) con cui ci si può immaginare di
combattere, in una stagione confusa, il potere borghese.
Un ispettore di polizia, arrogante in Questura e frustrato in amore, uccide
la donna che lo sbeffeggia. Si sente così forte che lascia ovunque
(nell'appartamento dell'amante al quartiere Coppedè, dove le linee sinuose
dell'architettura e dell'arredamento liberty valgono come una fine metafora),
indizi così evidenti che anche l'ultimo degli investigatori potrebbe risalire
fino a lui. Invece niente, un uomo così non può non essere al di sopra di
ogni sospetto. Quando si accorge che la sfida si sta facendo temeraria, il
poliziotto approfitta delle indagini per colpire i giovani contestatori e per
accusare uno di loro (che potrebbe anche conoscere il vero colpevole).
Niente, neppure adesso. Allora, scrive una lettera con una dettagliata
confessione. In Questura, e più in alto, non si prendono in considerazione
queste denunce. Giuri, l'ispettore, davanti ai superiori, che con l'assassinio
non ha rapporti. Feroce, incalzante, meccanico a volte, il film si giova d'una
splendida interpretazione di Gian Maria Volonté, di eccellenti scenografia e
fotografia (Egidi e Kuveiller), di una musica di rara funzionalità (Ennio
Morricone).
Anche se dopo Limelight Chaplin girerà ancora due film -Un re a New
York (1957) e La contessa di Hong Kong (1967) - quest'opera rappresenta
una sorta di addio all'arte e al mondo. Al centro della scena non c'è più lui, il
comico infallibile, ma una donna da lui aiutata e istruita: è il passaggio delle
consegne, che avviene senza illusioni (il vecchio Calvero rifiuta di sposare
Terry, ora applaudita ballerina). La storia era cominciata quando il comico
in disarmo salvò la ragazza dal suicidio (un blocco psichico l'aveva
paralizzata impedendole di realizzare il suo sogno): curioso, ma anche nel
film precedente - Monsieur Verdoux (1947) - il protagonista salvava una
ragazza dal suicidio. Guarita grazie alle pazienti attenzioni di Calvero, Terry
affronta il teatro e ottiene successo. Calvero, conscio dell'abisso che lo
separa dalla sua pupilla, si allontana. Tempo dopo i due si incontrano di
nuovo e la ballerina organizza per il maestro uno spettacolo nel quale il
vecchio sfoggia tutta la sua antica bravura, il suo surreale umorismo,
insieme a compagni altrettanto applauditi, come l'impassibile Buster
Keaton. Calvero, sopraffatto dall'emozione, si lancia in un buffo esercizio
che non è più per lui, e cade dal palco. Spirerà dietro le quinte guardando
danzare la sua Terry.
Muovendosi ai margini della effusione patetica, e talvolta cedendo alla
sua attrazione, il sessantatreenne Chaplin - gesti quasi imploranti eppure
gentili e comici - bada a costruire una storia che gli consenta di sostenere
questa lunga cerimonia di congedo. Ci riesce, con qualche sforzo. E si
riscatta splendidamente dalle tenerezze insistite quando ritrova il suo genio
mimico, più straordinario e ォ depurato サ di sempre (tutta la ォ
rieducazione サ psicologica di Terry, i gesti e le imitazioni di un superbo
attore, sono davvero esercizi di alta scuola).
Manhattan (Manhattan)
Metropolis (Metropolis)
Regia: Fritz Lang. Interpreti: Brigitte Helm, Gustav Fròhlich, Alfred Abel,
Rudolph Klein-Rogge, Heinrich George, Fritz Rasp. Produzione: UFA,
Germania. 1927.
Nashville (Nashville)
Regia: Robert Altman. Interpreti: David Arkin, Ned Beatty, Karen Black,
Keith Carradine, Geraldine Chaplin, Shelley Duvall, Henry Gibson, Ronee
Blackley, Barbara Harris, Scott Glenn, Michael Murphy, Lily Tomlin, Elliot
Gould, Keenan Wynn, Julie Christie. Produzione: Landscape Films /
Paramount, USA. 1975.
Regia: Leni Riefenstahl. Interpreti: gli atleti dei Giochi olimpici 1936.
Produzione: Olympia Film, Germania. 1938.
Regia: John Ford. Interpreti: John Wayne, Claire Trevor, John Carradine,
Thomas Mitchell, Donald Meek, Andy Devine, Louise Platt, Tim Holt,
George Bancroft, Berton Churchill. Produzione: United Artists, USA. 1939.
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Paisà
Sei episodi sulla guerra in Italia seguendo l'avanzare delle truppe alleate.
Dalla Sicilia alle foci del Po. In mezzo, Napoli (uno scugnizzo ruba le
scarpe al soldato negro), Roma (una prostituta incontra il carrista che si era
innamorato di lei al momento della liberazione della città e che ora, ubriaco,
non la riconosce), Firenze (una infermiera inglese attraversa la città divisa
in due per rintracciare il suo uomo, e scopre che, comandante partigiano, è
morto combattendo contro i fascisti), Appennino tosco-emiliano (tre
cappellani militari - un cattolico, un protestante e un ebreo - portano
involontariamente lo scompiglio in un monastero francescano). Nel primo
episodio, una ragazza siciliana fa da guida a una pattuglia americana appena
sbarcata, resta sola con il soldato più giovane e ascolta pur senza
comprenderle le sue confidenze, finendo per essere la involontaria causa
della sua morte (colpito da un cecchino tedesco) e per cadere nelle mani
della pattuglia germanica sopravvenuta, lasciandoci la vita. Nell'ultimo - il
più tragico e straziante, svolto rigorosamente a occhi asciutti - un gruppo di
partigiani e un ufficiale americano dei servizi speciali difendono
disperatamente le posizioni fra i canali del delta fino a quando l'offensiva
tedesca non ha ragione della loro resistenza, dopo avere massacrato chi gli
ha prestato aiuto. Mai film è stato più unitario e compatto di quest'opera
rosselliniana in sei episodi senza diretti collegamenti fra loro. Il filo che li
tiene insieme è, certo, la guerra che risale la penisola e i brevissimi inserti di
attualità che separano un fatto dall'altro (in chiusura una voce di speaker
fuori campo dice: ォ Questo accadeva nell'inverno del 1944. All'inizio della
primavera la guerra era finita サ ), ma è, più ancora e con forza ben
maggiore, lo stile delle immagini, frutto di uno sguardo pietoso eppure
fermo, senza concessioni alle lacrime o alla indignazione.
Brest o Le Havre o Calais, o qualsiasi altro porto nel nord della Francia. Il
luogo dell'amore impossibile, secondo la poetica di Jacques Prévert e di
Carnè. La storia, largamente modificata e trasferita da Montmartre alle
nebbie atlantiche, proviene da un romanzo di Pierre MacOrlan. Il film è
letteralmente immerso nella nebbia che sfuma le linee delle case, delle
strade e dei moli (tutto è splendidamente ricostruito dalla sapienza dello
scenografo Alexandre Trauner), traducendo nel morbido bianco e nero di
Eugène Schùfftan (e dei suoi collaboratori Page, Alekan e Agostini) il senso
della tragedia incombente. Di rado accade che si stabilisca, fra i realizzatori,
un'armonia così forte, a cui gli attori apportano il tono dell'atmosfera
stilistica che prese il nome di ォ realismo poetico サ: un intenso Jean Gabin
nei panni del disertore che tenta una impossibile fuga, una enigmatica
Michèle Morgan, un insinuante Michel Simon nel turpe personaggio del
tutore, lo sbruffone Pierre Brasseur in veste di piccolo gangster, per non
soffermarci su eccellenti comprimari come Le Vigan, Aimos e Delmont,
incarnazioni di simboli piuttosto che personaggi.
Il disertore cerca un imbarco. In una baracca del porto incontra chi lo può
aiutare. Ma soprattutto incontra una ragazza infelice che vive con il
proprietario di un negozietto cui è stata affidata la tutela di questa ragazza
triste dai grandi occhi azzurri. ネ un ambiente sordido, dominato da un
banditello arrogante che della ragazza è innamorato.
Il disertore vive il suo breve amore, si scontra con il gangster e infine con
il vecchio, quando lo sorprende nel tentativo di abusare della sua protetta e
lo uccide. La nave sta per salpare, ma il fuggiasco non vi salirà: il bandito lo
fredda per strada. Le ombre che avvolgono i personaggi sono le facce
ingannevoli di una aspirazione al bene che la vita impietosamente distrugge.
Alle soglie degli anni Sessanta, il cinema cambia pelle. Anche Billy Wilder
la cambia, a modo suo, annegando l'umor nero nei sussulti della commedia
e, con Some Like It Hot, della farsa addirittura. Non sarà una rivoluzione,
ma è certo una rottura. Fragorosa. Perché questo è il meccanismo comico
più sfolgorante della storia del cinema, servito da una Marilyn Monroe non
solo deliziosa ma stilisticamente impeccabile, da due giullari affidabili
(Tony Curtis e Jack Lemmon, travestiti da donne), dalle facce patibolari di
specialisti del film gangster (George Raft e Pat O'Brien) e dalla impassibile
comicità del vecchio Joe Brown.
Siamo nel 1929, al tempo della strage di San Valentino, a Chicago. Due
jazzisti vi assistono senza volerlo, e per loro si tratta di sparire onde salvare
la pelle: indossano abiti femminili, si infilano in una orchestra,
solidarizzano con la bella cantante e passano di paura in paura. Gli equivoci
ovviamente si sprecano, in un incalzare di effetti che sfociano nella celebre
battuta finale (del miliardario interpretato da Joe Brown): ォ Nessuno è
perfetto サ, pronunciata nel momento in cui scopre che ha sposato un uomo.
La farsa graffia, nonostante questo apparente divagare. L'umor nero si
scioglie in una salsa piccante: se il mondo è in mano ai matti, tanto vale
stare al gioco, aggredire per non essere aggrediti e dominare la paura. Amori
impossibili, seduzioni e fughe si alternano secondo il ritmo veloce imposto
dall'azione. ネ uno scherzo irreale, che ォ pesca サ nei tabù della società e
nelle convenzioni dei generi cinematografici, senza darlo a vedere.
Rapacità (Greed)
Regìa: Erich von Stroheim. Interpreti: Gibson Gowland, Zasu Pitts, Jean
Hersholt, Cesare Gravina, Chester Conklin, Sylvia Ashton. Produzione:
MGM, USA. 1924.
Rashomon (Rashómon)
La recita (O thiasos)
Regia: Thodoros Anghelopulos. Interpreti: Eva Kotamanidu, Aliki
Gheorguli, Stratos Pachis, Maria Vassiliu, Vanghelis Zazan, Petros
Zarkadis, Kyriakos Katrivanos, Grigoris Evanghelatos, Iannis Phirios, Nina
Papazaphiropulu. Produzione: Ghiorgos Papalios, Grecia. 1975.
Regia: Jean Renoir. Interpreti: Marcel Dalio, Nora Grégor, Roland Toutain,
Jean Renoir, Mila Parely, Gaston Modot, Julien Carette, Odette Talazac,
Paulette Dubost, Pierre Magnier, Pierre Nay. Produzione: NEF, Francia.
1939.
La prima del film ha luogo a Parigi l'8 settembre 1939, sette giorni dopo
l'invasione tedesca della Polonia che scatenerà la seconda guerra mondiale.
Renoir sogghigna sulle sorti della borghesia francese, e non della borghesia
soltanto (i proletari e i contadini - non c'è ombra di operai - sono peggiori
dei padroni). D'altronde, alla borghesia e alla nobiltà (più alla nobiltà che
alla borghesia), il regista s'è inchinato, in La grande illusione, con il
rispettoso ritratto del francese Boieldeiu e del tedesco Rauffenstein. Il
ghigno è, semmai, rivolto a una intera civiltà delle apparenze e della
ipocrisia.
Nella tenuta del marchese de la Chesnaye, in Sologne, convengono
personaggi buffi per una partita di caccia. Lui, il marchese, ci porta la
moglie Christine e il suo amante Jurieu (un fatuo aviatore che ha sorvolato
l'Atlantico battendo tutti i primati), la propria amante Geneviève, l'amico
Octave (lo stesso Renoir, goffo ed efficace la sua parte), un generale e tanti
altri. Il clima è quello, così lucidamente francese, della pochade. La caccia
non può essere che ricca perché i battitori hanno fatto un ottimo lavoro (una
sparatoria interminabile e crudele, sottolinea il regista, in un serrato
montaggio). Lo è la festa, con un balletto di ospiti mascherati da scheletri.
Lo sono i giochi d'amore, nei quali s'infilano anche la moglie del
guardacaccia e un bracconiere. E la pochade, per lo scambio di un soprabito
nella notte buia, si tramuta in tragedia: è ucciso chi non deve morire
(l'aviatore). Il marchese riporta l'ordine e la serenità, invitando la bella
compagnia ad andare a letto, perché non è successo niente. Le ombre degli
invitati, enormi, si stagliano sulla facciata del castello, i gentiluomini e le
dame si ritirano. Feroce.
Regia: Karel Reisz. Interpreti: Albert Finney, Shirley Ann Field, Rachel
Roberts, Norman Rossington, Bryan Pringle, Robert Cawdron. Produzione:
Woodfall, Gran Bretagna. 1960.
All'alba degli anni Sessanta, quando tutto il cinema europeo esce dalle
strettoie del realismo ed esplora nuovi territori - basti citare Godard e
Antonioni -, in Gran Bretagna due movimenti culturali occupano il campo:
il ォ free cinema サ e la osborniana scuola (teatrale e letteraria) degli ォ
young angry men サ. Saturday Night and Sunday Morning si trova al centro
di questo gioco della contestazione sociale che coverà lungamente prima di
esplodere alla fine del decennio.
La materia è fornita da Alan Sillitoe, che metterà la sua sapienza so-
ciologica a disposizione anche d'un altro film sintomatico, The Loneliness
of the Long Distance Runner, tre anni dopo. Sotto il microscopio del
romanziere, e del regista (esordiente nel lungometraggio) Karel Reisz, c'è la
vita d'una città di provincia (Nottingham), i quartieri operai, le meschine
infrazioni di casalinghe e di ragazze da marito, la irritante strafottenza di un
casanova di periferia, le reazioni brutali del perbenismo (già borghese)
d'una classe di proletari incapaci di lottare. Tutto si svolge, come il titolo
indica, in un week end, intorno ai divertimenti, agli affanni, alle
insoddisfazioni e alla viltà del bellimbusto Arthur, costretto a barcamenarsi
fra un'amante di cui s'è stancato (e che teme di essere incinta di lui), una
ragazza astuta che cerca una sistemazione, i genitori, una zia, gli amici. Si
arrenderà al quieto vivere, il giovanotto (interpretato da un ottimo Albert
Finney) che sembrava un ribelle. Il film è un ritratto amaro, lucido e fermo.
Senso
ネ uno dei film più discussi, amati, fraintesi, ォ eccessivi サ ed eleganti del
cinema italiano. Al suo apparire scoppiò una polemica intorno al valore
culturale dell'opera, da alcuni indicata come il segno del passaggio dal
neorealismo cronachistico del primo dopoguerra a un più maturo realismo
capace di interpretare i dati della storia e della vita individuale. Dopo essere
stato uno dei protagonisti del neorealismo, Visconti si misurava con un testo
minore della letteratura italiana (un racconto di Camillo Boito). Dopo avere
affrontato I Malavoglia di Verga per La terra trema, si accaniva nella
ricostruzione dell'episodio più infelice delle guerre risorgimentali (la
sconfitta di Custoza nel 1866). In primo piano poneva un giovane ォ bello e
dannato サ della tradizione romantica (il tenente austriaco Franz Mahler,
disertore, sfruttatore di donne). Accanto a lui una contessa italiana - moglie
di un funzionario dell'imperial-regio governo asburgico - che per amore
tradisce la causa patriottica e progressivamente si degrada. Mahler,
denunciato dalla contessa, sarà fucilato. Lei vagherà disperata per una
Verona attraversata dai canti dei soldati vittoriosi. Dentro una struttura
narrativa saldamente calibrata, si scatenano alcune forze che il regista ha
sinora controllato: il gusto per il melodramma (in senso stretto e in senso
traslato: Giuseppe Verdi e i sentimenti urlati), la ideologizzazione dello stile
epico (la battaglia di Custoza, ma anche le vicissitudini dei patrioti, le
tensioni fra costoro e il comando militare piemontese), la intelligenza
figurativa (con il concorso di Scotti, Escoffier e Tosi, nonché degli operatori
Aldo e Krasker, autori di un elegantissimo colore), il severo controllo della
recitazione (Alida Valli fornisce la sua migliore prova di attrice), le
infatuazioni musicali di stampo decadentistico. Per tutto questo, Senso è
opera memorabile.
Kubrick vive il mondo come una dura costrizione, e ogni suo film è un
tentativo di fuga nella libertà. Ma è, sempre, un tentativo che fallisce. Dopo
il raffinato Barry Lyndon, da Thackeray, il regista si avvicina a Stephen
King e traduce in immagini quel The Shining che di tutti gli incubi del
romanziere è il più sottile e ォ filosofico サ. L'avventura di una madre e di un
bambino sfuggiti alla follia omicida del padre, in un albergo vuoto fra le
montagne del Colorado, si risolve in una fuga che garantisce ai due la
libertà. Ma chi era davvero quest'uomo che aveva ambizioni di scrittore,
sempre frustrate, e che ritroviamo alla fine in una fotografia del 1929 appesa
a una parete del bar (una reincarnazione, un fantasma)? ネ morto assiderato,
nel labirinto di verzura, grazie allo stratagemma del figlioletto che voleva
uccidere. Morto realmente?
The Shining è una storia di pazzia e di morte, nel grande spazio gelido e
deserto (chiuso come una prigione) dell'Overlook Hotel. Torrance
(interpretato da un ghignante Jack Nicholson) non riesce a scrivere,
smarrisce la ragione, uccide il capocuoco richiamato per un controllo,
aggredisce moglie e figlio con un'ascia. Li ammazzerebbe se il bambino, che
possiede facoltà extrasensoriali (lo ォ shining サ ) e ha ォ intuito サ la
presenza di una famiglia che era stata sterminata da un custode anni prima,
non lo ingannasse facendogli perdere l'orientamento sulla neve che ricopre i
sentieri del labirinto.
Kubrick esprime l'angoscia con il movimento continuo della macchina da
presa (usa per la prima volta lo steadicam, messo a punto dall'operatore
Garrett Brown per consentire movimenti senza scosse, liberi da ogni
costrizione meccanica), con gli obiettivi grandangolari, la luce effettata, le
ォ apparizioni サ allarmanti di sangue e di cadaveri immaginati, lo sguardo
indecifrabile di un bambino ォ diverso サ.
Il proverbio del titolo serve per introdurre il nostalgico elogio del cinema
muto. Clair, reduce dal lungo ォ esilio サ americano durante la guerra,
ritrova la sua Parigi confusa. E sogna la Parigi 1906, quando il cinema
muoveva i primi passi e Louis Feuillade iniziava una fortunata carriera di
regista che l'avrebbe condotto ai grandi successi di Fantómas e di Les
vampires. Regista ironico e sentimentale, ritrova in questa storiella di vecchi
e di giovani il sapore della giovinezza (Clair ora ha quasi 50 anni) e ne
ricava un pretesto per rendere omaggio -come egli stesso dirà - agli ォ
artigiani che fecero nascere in Francia la prima industria cinematografica サ.
C'è un impresario un po' briccone che risponde al nome di Emile e che è
interpretato con leggerezza dal sorridente Maurice Chevalier. Ci sono gli
studi Fortuna dove si girano filmetti sentimentali per platee non esigenti.
Lui, Emile, è non solo intraprendente come produttore ma è anche un abile
metteur en scène: i suoi attori lo adorano e lo seguono in tutto. Lo seguono
pure nella vita, accettando i suoi consigli. Così, vita e finzione si
confondono, l'amore e il corteggiamento sullo schermo si riproducono fuori
del set. Non scoppiano mai drammi, la poetica di Clair è altrimenti orientata.
Ma un tarlo s'è introdotto nel cuore del vecchio marpione Emile: la prima
attrice Madeleine gli piace, anche se potrebbe essere sua figlia, e lui tenta,
capisce che non è il caso e alla fine rinuncia in favore del giovane Jacques.
La morbida fotografia di Armand Thirard e le soffici melodie di Georges
Van Parys, nonché la freschezza di due interpreti come Marcelle Derrien e
Francois Périer, contribuiscono a fare di Le silence est d'or l'opera più nitida
di tutta la filmografia clairiana.
Regia: Wim Wenders. Interpreti: Patrick Bauchau, Paul Getty III, Viva
Auder, Samuel Fuller, Isabelle Weingarten, Rebecca Pauly, Jeffrey Kime,
Geoffrey Carey. Produzione: Road Movies, Repubblica federale di
Germania. 1982.
Leone d'oro alla Mostra di Venezia 1982, Der Stand der Dinge - im-
peccabile bianco e nero di Henri Alekan - è stato realizzato da Wim
Wenders negli intervalli della travagliata lavorazione di Hammelt, film
commissionatogli da Coppola e di esito quasi fallimentare. E una
scommessa, contro il cinema (le esigenze dell'industria) e contro il suo
stesso autore (il regista riflette sulla natura del cinema e dalla riflessione
deduce di essere inadatto a questo mestiere, se di mestiere si tratta).
Si narra qui di un film di fantascienza che il regista Friedrich Munro
(trasparente allusione a Friedrich W. Murnau) sta girando in Portogallo,
sulla riva dell'Atlantico. I fondi sono terminati. Il produttore è rientrato a
Los Angeles. Munro lo cerca dapprima presso lo sceneggiatore Dennis che
sa tutto della lavorazione ma non è in grado di aiutare la troupe. Va, allora, a
Los Angeles, dove apprende che i capitali sono stati stanziati proprio dallo
sceneggiatore, ora sommerso dai debiti, e che il produttore vive a bordo di
un camper sempre in movimento per evitare di essere raggiunto dalla mafia.
Munro lo scova, sale sul camper e trascorre la notte con lui, a discutere di
cinema. All'alba i mafiosi li scoprono e, in mezzo alla strada, li ammazzano.
Privo di azione, attraversato da improvvise ォ irruzioni サ nella vita pri-
vata dei membri della troupe, il film si snoda lento negli esterni portoghesi.
Quando si sposta a Los Angeles, acquista il ritmo di una ricerca quasi
poliziesca: non è più una riflessione sul cinema, è un piccolo ォ mystery サ
costruito secondo le regole del genere. Sono le due facce di un regista
geniale, che si confessa in pubblico mentre tenta di non farsi espellere dal
recinto (maledetto ma inevitabile) della produzione.
Sur (Sur)
La terra trema
Film nato da un falso scopo, cadde in braccio a una cultura confusa, per
un equivoco che solo parecchio più tardi sarebbe stato dissipato. Visconti va
in Sicilia per girare un documentario di propaganda elettorale in vista della
consultazione politica del 1948. Lo finanzia il partito comunista. Quando
prende contatto con le terre e il mare del romanzo verghiano maggiore, I
Malavoglia, e al quale da anni pensa, trasforma il progetto in un
lungometraggio narrativo, ottiene il contributo di una società produttrice
cattolica (la Universalia di Salvo d'Angelo) e affronta un'avventura che
avrebbe fatto di lui il corifeo di quel neorealismo di cui Ossessione era stato
una sorta di preambolo.
Nel clima teso del dopoguerra La terra trema assume proprio questa
caratteristica, che in effetti gli si addice soltanto in parte. Il suo ォ rea-
lismo サ (il tentativo di ォ rispecchiare サ fedelmente le condizioni di vita dei
pescatori siciliani) è interamente verghiano. Il film è una traduzione quasi
testuale - scrupolosa e rispettosa - del romanzo scritto nel 1881. I
protagonisti, scelti fra gli abitanti di Aci Trezza con finissimo intuito e
guidati con amorevole attenzione, parlano il loro dialetto ma pronunciano le
stesse battute dette dai personaggi letterari in italiano (quell'italiano nel
quale il romanziere aveva volto la parlata dialettale). Viscontiano è, per
contro, lo sguardo, acuto e commosso insieme, con cui i dolori, le speranze,
gli amori, le furie, gli addii dei poveri acitrezzini sono osservati.
Viscontiano è il tema della dissoluzione della famiglia (che, certo, è anche
verghiano, ma qui Verga resta sullo sfondo). Viscontiano è infine, e
soprattutto, il senso dello spettacolo - tutti i personaggi recitano se stessi
come fossero sulla scena -che rende il film una rappresentazione nella
rappresentazione.
Umberto D.
Regia: Vittorio De Sica. Interpreti: Carlo Battisti, Maria Pia Casilio, Lina
Gennari, Alberto Albani, Memmo Carotenuto. Produzione: Rizzoli / Amato
/ De Sica, Italia. 1952.
Viaggio in Italia
Regia: Billy Wilder. Interpreti: Gloria Swanson, William Holden, Erich von
Stro heim, Nancy Olson, Fred Clark, Lloyd Gough, Jack Webb, Cecil B. De
Mille, Hedda Hopper, Buster Keaton, Anna Q. Nilsson. Produzione:
Paramount, USA. 1950.
Un film sul cinema, come se ne son fatti tanti. Ma, a differenza di tutti gli
altri, più che sul cinema è un film sulla capacità distruttiva che nel cinema è
connaturata al suo mondo di essere. Billy Wilder narra la storia di una diva
del muto - una vera diva, impersonata coraggiosamente da Gloria Swanson -
che assume uno sceneggiatore disoccupato affidandogli il compito di
scrivere un film per il suo ritorno sullo schermo. Dalla collaborazione
professionale, in una tetra villa in stile moresco-californiano anni Venti,
nasce l'amore. La diva che, non intende perdere il giovane scrittore, gli
impedisce di avere contatti con il mondo e alla fine, ormai fuori di senno per
il fallimento del progetto di tornare al cinema, lo uccide.
Il cinema uccide. Le immagini iniziali mostrano Joe Gillis, il giovane
scrittore, galleggiare, cadavere, nella piscina della villa. Si ode la sua voce,
che rievoca l'atroce avventura con l'anziana Norma Desmond, da troppi anni
reclusa nei grandi saloni accanto a un maggiordomo che è stato suo marito e
regista (Stroheim, naturalmente, in una interpretazione di maniera). Dalla
disperazione di uno scrittore senza lavoro, in una Hollywood fatua e arcigna
(la Hollywood di sempre), alla nascita di un legame tormentoso e abnorme.
Non c'è scampo per chi è implicato in queste ambigue operazioni di dar vita
alle ombre. Joe Gillis (William Holden) paga crudelmente l'errore di essere
entrato nel gioco. Norma, impazzita, sarà guidata dall'ex marito e regista in
una grottesca uscita di scena davanti all'obiettivo del cinegiornale. ネ una
tragedia svolta con implacabile progressione e impietosa lucidità.
Mizoguchi ha 54 anni quando gira questo film (morirà cinque anni dopo).
ネ attivo dal 1922. Alla fine della carriera - che si chiuderà con il lineare e
intenso La strada della vergogna, un'ultima storia di donne - avrà girato
ottanta film. Di lui si segnala l'attenzione commossa e partecipe alla
condizione della donna nella società giapponese: nessuno è più riuscito,
dopo, a descrivere con tanta fermezza il dramma (spesso la tragedia) della
vita femminile in un mondo feudale, e non solo in quello. Questo Saikaku
ichidai onna rappresenta, probabilmente, la sua prova migliore.
ネ un melodramma nello stile affollato e straziato della tradizione
orientale. Il regista, che ricava la storia da un romanzo ambientato nel
Seicento, non risparmia alcuno strazio alla protagonista, donna orgogliosa
che di rinuncia in rinuncia è obbligata a isolarsi dal mondo. Deve rinunciare
al suo unico amore (un amore ォ proibito サ socialmente, e l'uomo -
impersonato da Toshiro Mifune - viene decapitato), tenta di rinunciare alla
vita ma la madre la salva, accetta di mettere al mondo un figlio con il
signore del clan Matsudaira (costui ha una moglie sterile) e deve
immediatamente rinunciare a tenerlo con sé, è maltrattata dal padre, è
costretta a prostituirsi. Gli anni passano. Subisce umiliazioni, è esposta al
pubblico ludibrio. Ha un solo, grande desiderio, rivedere il figlio che è
divenuto il signore del clan. Lo incontra sulla strada, gli si avvicina, ma i
servi la respingono. Ora non le rimane che rinunciare al mondo, vivere nel
tempio, in seno al Buddha, dove l'abbiamo vista all'inizio (tutta la sua storia
è un lungo flashback). La sobrietà stilistica (molte inquadrature dall'alto,
numerosi carrelli laterali ad accompagnare questo calvario e a sottolineare la
disperata solitudine di O-Haru, interpretata con discrezione da Kinuyo
Tanaka) non viene mai meno, neppure dinanzi al racconto dei più duri
tormenti.