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Fernaldo Di Giammatteo

Dizionario del cinema


Cento grandi film
(1995)
Indice

Cento film, una ministoria del cinema

Accadde una notte


Accattone
L'albero degli zoccoli
Amanti perduti
L'amico americano
Andrej Rublèv
L'angelo azzurro
L'angelo sterminatore
L'anno scorso a Marienbad
Apocalypse Now
L'armata a cavallo
L'armata Brancaleone
L'arpa birmana
L'Atalante
L'avventura
Barry Lyndon
La battaglia di Algeri
Biade Runner
Blow-up
Un borghese piccolo piccolo
Breve incontro
Cabiria
Il carretto fantasma
Casablanca
Un chien andalou
Ciapaiev
Il cielo sopra Berlino
La corazzata Potémkin
Daddy Nostalgie
Il Decalogo
Dies irae
Dillinger è morto
La dolce vita
La donna del tenente francese
Donne sull'orlo di una crisi di nervi
2001: Odissea nello spazio
Easy Rider: libertà e paura
Ecco l'impero dei sensi
Family Life
Il fascino discreto della borghesia
La febbre dell'oro
Fino all'ultimo respiro
Gioventù, amore e rabbia
La grande illusione
Heimat
Hiroshima mon amour
L'impiccagione
L'incidente
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospette
John Huston-The Dead
La kermesse eroica
Lanterne rosse
Luci della ribalta
Manhattan
Metropolis
M, il mostro di Dusseldorf
I misteri del giardino di Compton House Napoleone
Nascita di una nazione
Nashville
Nosferatu il vampiro
Notorius, l'amante perduta
La notte di San Lorenzo
Olimpia - Apoteosi di Olimpia
Ombre rosse
8 1/2
Paisà
La Passione di Giovanna d'Arco
II porto delle nebbie
Il posto delle fragole A qualcuno piace caldo Quarto potere
I quattrocento colpi Rapacità Rashomon
La recita
La regola del gioco
Roma città aperta
Sabato sera, domenica mattina
Senso
Senza tetto né legge
II settimo sigillo Shining
Il silenzio è d'oro
Lo stato delle cose
Sur
Sussurri e grida
Tabù
Tempi moderni
La terra trema
Il terzo uomo
L'ultima risata
Umberto D.
L'uomo con la macchina da presa
L'uomo di Aran
Il Vangelo secondo Matteo
Via col vento
Viaggio in Italia
Viale del tramonto
La vita di O-Haru, donna galante

Cento film, una ministoria del cinema

Non è una ministoria, siamo onesti. ネ bello il gioco di parole, pren-


diamolo per quello che è. Una storia del cinema - anche piccola, anche mini
- ne vorrebbe, di film, dieci volte tanto. Perché, allora, solo cento? E che
significano, questi cento?
Perché solo cento è evidente dalla mole del volume che li contiene. Non
potrebbe contenerne di più. Una banalità, dunque. Ma anche le banalità,
servono. Questa, poi, è una scommessa. Ecco il senso - se si vuole, la sfida -
di una finta, smilza ministoria. Costringere cent'anni di storia in una gabbia
così piccola significa operare una scelta brutale, per un verso assurda
(insostenibile, folle) e per un altro liberatoria (lieve, allegra, sintomatica). Si
può fare. Anzi, si deve fare.
Scegliendo a questo modo, rimanendo nei confini di un numero fisso, si è
costretti a fissare un punto sulla carta della storia e a dargli il rilievo di una
implicita dichiarazione sullo stato dei lavori (dell'arte, della critica, della
storiografia). Ci si impegna - non fa mai male - ad esaminare le idee
ricevute (il bagaglio delle acquisizioni di un incessante lavorio di studio del
passato), a giudicarle sulla base dei nuovi bisogni della cultura, a proiettarle
- modificate, aggiornate, magari sconvolte - nel futuro. Nel futuro del
cinema, se il cinema avrà, come tutto fa presumere, un futuro. Ossia, nel
futuro di quella manifestazione dello spirito umano che più di ogni altra ha
segnato il Novecento.
Si può rischiare, dunque. Vediamo. Il muto s'è allontanato nel tempo,
com'è ovvio, e s'è un poco afflosciato nel ricordo (e, probabilmente, anche
nella importanza storica). Non che oggi si disconoscano i valori delle
invenzioni linguistiche - originarie, decisive - offerte a iosa da quel cinema.
Le si accetta, inserendole nel normale flusso della evoluzione d'una forma
narrativa e comunicativa che ha gradualmente condotto alla ォ ricchezza サ
(meglio, alla complessità) dei linguaggi attuali. Dei capisaldi si fa cenno,
naturalmente, ma ormai quasi solo di quelli: per esempio, Cabiria (1914) di
Pastrone, l'inevitabile The Birth of a Nation (1915) di Griffith, Nosferatu
(1922) di Murnau, l'altro (canonicamente) inevitabile Bronenosec Potemkin
(1925) di Ejzenstejn, La Passion de Jeanne d'Arc (1928) di Dreyer. Il resto
è fuori campo. Salvo le eccezioni, da discutere.L'interesse si concentra su
ciò che esercita una influenza - diretta o indiretta - sul presente. Nel tempo
compreso fra gli anni Trenta e gli anni Ottanta s'affolla, confusamente, il
cinema di cui sentiamo il bisogno. Il cinema-arricchimento, il cinema-
stimolo, il cinema-riflessione: tutto ciò che il cinema può essere, quando è
nella pienezza delle proprie forze. ネ , appunto, una folla confusa.
Fortunatamente, perché la confusione è, come sappiamo, segno di una
vitalità ai suoi albori.
In genere gli autori sono rappresentati da un'opera sola. Alcuni com-
paiono più volte, due o tre. Due volte - gli accostamenti sono meno casuali
di quel che sembra - Carl Th. Dreyer (oltre a La Passion muta, Vredens Dag
del 1943), Fritz Lang (con un film muto - una delle eccezioni non fuori
campo di cui si diceva - Metropolis, del 1927, e uno sonoro, M del 1931),
Jean Renoir (La grand illusion del 1937, La règie du jeu del 1939), Marcel
Carné (con Quais des brumes del 1938 e Les enfants du Paradis, del 1943-
45), Michelangelo Antonioni (L'avventura del 1959 e Blow-up del 1966),
Alain Resnais (Hiroshima mon amour, 1959, L'année dentière à
Marienbad, 1961), Federico Fellini (La dolce vita, 1959, 8 1/2, 1963),
Luchino Visconti (La terra trema, 1948, Senso, 1954), Karel Reisz
(Saturday Night and Sunday Morning, 1960, The French Lieutenant's
Woman, 1981), Billy Wilder (Sunset Boulevard, 1950, SomeLikeIt Hot,
1959), Mario Monicelli (L'armata Brancaleone, 1966, Un borghese piccolo
piccolo, 1977). Voci alte e bizzarre, di timbro diverso, ma di struttura
solida. Affrontano anche la sperimentazione linguistica (L'année dentière à
Marienbad) o narrativa (L'avventura, La dolce vita), ma non trascurano mai
lo spessore tematico e la vivezza seducente della forma. Un cinema come
questo rappresenta il vero tessuto connettivo di una cultura. Lo dimostrano,
meglio forse di altri, due irregolari che in chiusura aggiungiamo al gruppo
(non occorre spiegare perché): Pier Paolo Pasolini (con Accattone del 1961
e Vangelo secondo Matteo del 1964) e Nagisa Oshima (L'impiccagione,
1968, e L'impero dei sensi, 1976).
Qualcuno è presente tre volte. I sommi? Anche. Occorre intendersi sul
significato del termine (la finta ministoria di cui ci stiamo occupando
produce l'effetto singolare di obbligarci a ripensare le antiche graduatorie, a
rivedere pregiudizi e pigrizie). Alla testa del manipolo troviamo accostati gli
eroi di ieri e gli eroi di oggi: uno completamente asservito alla poetica del
cinema silenzioso (Friedrich Wilhelm Murnau, con Nosferatu, Derletzte
Mann, Tabu), uno a cavallo fra muto e sonoro (il Chaplin cui la qualifica di
sommo tocca per unanime consenso e che qui espone The Gold Rush
accanto a Modem Times e a Limelight, un surrealista bizzoso che introdusse
l'inquietudine non solo nel linguaggio ma anche nel racconto e nella
coscienza (Luis Bunuel, rappresentato dal venerando sberleffo di Un chien
andalou, da El angel exterminador e dal deliziosamente feroce Le charme
discret de la bourgeoisie), un indagatore della realtà che sempre oscillò fra
l'aggressione e il dubbio (il Roberto Rossellini di Roma città aperta, Paisà e
Viaggio in Italia) e tre più recenti ォ esploratori サ della natura del cinema e
dei rapporti che il cinema intrattiene con l'universo della cultura (lo svedese
Ingmar Bergman con Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Sussurri e
grida; l'americano Stanley Kubrick con 2001: A Space Odyssey, Barry
Lyndon, The Shining; il tedesco Wim Wenders con Der amerikanische
Freund, Der Stand der Dinge, Der Himmel ùber Berlin).
Con ogni probabilità, se dobbiamo rivedere pregiudizi e pigrizie, oc-
correrebbe dirigere il fuoco dell'attenzione sul cinema di ricerca e di
autoriflessione, piuttosto che sulle opere compiute. Non è un caso che -
riprendiamo il discorso delle eccezioni fuori campo - dal muto si recuperino
esperimenti come il bunueliano Un chien andalou o come L'uomo con la
macchina da presa di Dziga Vertov, o, magari, come il ォ favoloso サ e
visionario Napoléon di Abel Gance. Il nostro, alla fine del millennio, è un
tempo di tentativi per afferrare il senso dei meccanismi che regolano (o
dovrebbero regolare) la comunicazione fra gli uomini. Sonde gettate nel
vuoto, e nel futuro. E, inoltre, negli spazi fino a ieri poco frequentati, come
il Giappone (dove ora campeggia, al fianco dei consolidati Mizoguchi e
Kurosawa, un Oshima, anch'egli in caccia di trasgressioni, ossia di ricerca)
o come la Cina (finalmente affacciata al proscenio con Lanterne rosse).
Accade così che, vedute sotto questa luce, le tappe tradizionali della storia
del cinema acquistino un rilievo diverso, tanto da qualificarsi - non tutte ma
parecchie -come preludi alla sperimentazione, come assaggi del nuovo
sconosciuto: non si dice, ovviamente, タ bout de soufflé di Godard, che è
sperimentazione a pieno titolo, ma - ad esempio - O thiasos di
Anghelopulos, Nashville di Altman, Biade Runner di Ridley Scott, Sur di
Solanas, e persino La battaglia di Algeri di Pontecorvo.
Rimane, sull'altra sponda, il patrimonio di base sul quale si costruirono le
fortune dell'industria e dell'arte: Gone with the Wind di Fleming come
Stagecoach di Ford, Casablanca di Curtiz come It Happened One Night di
Capra, La kermesse héroique di Feyder come The Third Man di Reed, Der
Blaue Engel di Sternberg come Apocalypse Now di Coppola. E così via,
raccogliendo nel forziere Greed (Rapacità) del megalomane Stroheim e
L'Atalante del protominimalista Vigo, Le silence est d'or di un nostalgico
(nostalgico di cinema) Clair e Notorious di Hitchcock, Les quatrecents
coups di Truffaut e Andrej Rublev di Tarkovskij. Possiamo chiamare, tutto
questo, il cinema di ieri? Chissà. Delle pigrizie di domani non c'è nulla da
dire, non si usa più azzardare previsioni.Guida alla lettura. Le cento voci
sono ordinate secondo l'ordine alfabetico dei titoli con cu. i film hanno
circolato in Italia; fra parentesi si indicano i titoli originali (traslitterati
quando provengono da alfabeti diversi). Dall'ordine alfabetico si espunge
non solo l'articolo determinato ma anche quello indeterminato (a differenza
di quanto accade di solito). Nel corpo della voce tutte le citazioni di altri
film si rifanno semplicemente ai titoli italiani (tranne qualche eccezione,
adottata per esplicitare un riferimento).

Accadde una notte (It Happened One Night)

Regia: Frank Capra. Interpreti: Clark Gable, Claudette Colbert, Walter


Connolly, Roscoe Karns, Jameson Thomas, Ward Bond. Produzione:
Columbia Pictures, USA. 1934.

Dovendo dividere la medesima stanzetta in un motel, Ellie e Peter -l'idea


è di Peter - alzano fra i due letti le ォ mura di Gerico サ, una coperta appesa a
una corda. Una ォ molla サ narrativa graziosa. Quando cadranno le ォ
mura サ? Il racconto, che parte dalla fuga di Ellie e dal suo incontro con il
giornalista Peter a caccia di qualcosa da scrivere (per farsi riassumere al
giornale da cui è stato licenziato), si snoda lungo le highways della costa
orientale, da Miami a New York. Lei, ricca ereditiera (personaggio da
letteratura rosa anni Venti, interpretato dalla spiritosa Claudette Colbert),
scappa da Miami per raggiungere il fidanzato a New York. Il padre mobilita
mezzo mondo per riacciuffarla, giacché non vuole che sposi l'azzimato
fannullone di cui s'è presa la cotta. Per strada Ellie s'imbatte in Peter, e con
lui viaggia, ora in pullman ora con l'autostop ora con un'auto rubata. Lui (un
Clark Gable sornione, d'impagabile sicurezza e simpatia) fiuta il colpo e
corre al giornale: raccontare questa storia di amori, ripicche e milioni
equivale a una riabilitazione. Rimasta sola, Ellie è raggiunta dagli
inseguitori. Il padre cede: a New York la ragazza sposerà il venditore di
fumo. Sul prato della villa sta per pronunciare il sì. Ma ora, soavemente
istigata dal padre pentito, non lo pronuncia. Scappa, un'altra volta. E sposerà
Peter. Cadranno le ォ mura サ , come si conviene secondo amore e morale.
Avverrà in un altro motel, al suono di una trombetta per bambini.
La commedia, lieve e argutissima, è un miracolo di dosaggio drammatico,
di intelligenza sociale (i ricchi e i poveri, durante la grande crisi), di astuzia
sentimentale (le schermaglie fra i due sono graduate sapientemente), di quel
gustoso cinismo che serve a nobilitare -sulla scia di GB. Shaw e di Noel
Coward - qualsiasi sciocchezza amorosa.

Accattone

Regia: Pier Paolo Pasolini. Interpreti: Franco Cittì, Franca Pasut, Silvana
Corsini, Paola Guidi, Adriana Asti. Produzione: Arco Film, Italia. 1961.

La vicenda di un sottoproletario del dopoguerra, in una Roma sbrindellata


e solenne come quella che il neorealismo aveva esplorato, rappresenta una
novità clamorosa. La racconta un letterato ォ irregolare サ , una sorta di
profugo dal lontano Friuli e di un uomo di sinistra che il partito comunista
ha espulso per indegnità morale. Pier Paolo Pasolini si avvicina al cinema
come sceneggiatore inseguendo una sua idea di narrazione epica e tragica,
nella quale gli ォ ultimi サ , i reietti della società, trovino il loro riscatto.
Accattone vive di espedienti, tradisce gli amici, abbandona la moglie, sfrutta
una prostituta, tenta di corrompere una ragazza ingenua, si atteggia a
fanfarone per il gusto dello spettacolo, s'intruppa in una banda di ladruncoli
e alla fine, braccato dalla polizia, perde la vita in uno stupido incidente.
Quando il produttore Alfredo Bini decide di correre l'avventura con un
regista esordiente che non sa nulla di tecnica (Federico Fellini gli aveva
chiuso la porta in faccia), Pasolini ha 38 anni. ネ autore di versi ォ
scandalosi サ (Le ceneri di Gramsci) e di due romanzi (Ragazzi di vita, Una
vita violenta) che del sottoproletariato sono, insieme, il ritratto impietoso e
la glorificazione ma che costituiscono soprattutto un ricalco manieristico del
linguaggio, dei comportamenti e della morale di una gioventù abbandonata
a se stessa eppure libera e misteriosamente felice. Accattone è la traduzione
figurativa di questa idea. Il neoregista, assistito da un operatore esperto
come Tonino Delli Colli, scaraventa il suo attore improvvisato (Franco
Cittì) nella grande luce del cielo romano, lo segue quando va a piatire dalla
moglie in una baraccopoli, quando si esibisce in un tuffo da un ponte sul
Tevere, quando circuisce la mite e atona Stella, quando sogna (alla maniera
di II posto delle fragole di Ingmar Bergman) la propria morte e quando
infine la morte incontra sul selciato, sospirando, pacificato: ォ Mo' sto
bene サ.

L'albero degli zoccoli

Regia: Ermanno Olmi. Interpreti: Luigi Ornaghi, Francesca Moriggi, Omar


Brignoli, Antonio Ferrari, Teresa Brescianini, Lucia Pezzoli, Franco Pilenga
e altri, tutti non professionisti. Produzione: RAI, Radiotelevisione Italiana,
Italnoleggio cinematografico, Italia. 1978.

Di tutti i film di Ermanno Olmi questo è il più compiuto: compiuto nel


senso della perfetta corrispondenza tra ideologia e linguaggio. Olmi è
regista di origini contadine, di educazione cattolica. Non ama gli eccessi,
rifiuta la modernità industriale (e gli accade di esordire, a
Milano, nel pieno del boom postbellico, con II posto del 1961), coltiva un
austero stoicismo appena addolcito dal senso innato della carità. L'albero
degli zoccoli -film che si svolge nel bergamasco in coincidenza con la
repressione dei moti popolari di Milano nel 1898) - narra una vicenda di
povertà e di pazienza. Queste quattro famiglie che vivono nella fattoria di
un padrone severo (o, semplicemente, di un padrone che fa il suo mestiere)
accettano la miseria come si accetta il buono e il cattivo tempo. Subiscono
le ingiurie del mondo, si arrabattano (con l'astuzia e i sotterfugi quando è
necessario). Un buon prete li aiuta e li consiglia: ai Batistì suggerisce di
mandare il figlio a scuola, per garantirgli un avvenire meno infelice. Un
giorno il piccolo torna a casa con uno zoccolo rotto. Il padre taglia di
nascosto un albero e ne ricava uno zoccolo nuovo. Due giovani si sposano,
e capitano a Milano durante l'insurrezione. Una vedova carica di figli
compie il ォ miracolo サ di far guarire la vacca che costituisce l'unica sua
risorsa. Il padrone scopre che è stato tagliato un albero del podere e caccia i
Batistì. Gli altri assistono alla partenza (verso una miseria ancora più nera)
senza battere ciglio.
I personaggi - tutti contadini della campagna bergamasca, al modo
dell'ormai lontano neorealismo - parlano il loro dialetto, che i sottotitoli
traducono in italiano. Il ritmo è lento, assorto. Bach accompagna, con la
secchezza geometrica delle sue volute, i gesti dei contadini, la loro fatica e
la loro rassegnazione. Questo esprime, con spirito religioso, il regista. Il
film vince il festival di Cannes.

Amanti perduti (Les enfants du paradis)

Regia: Marcel Carné. Interpreti: Arletty, Jean-Louis Barrault, Pierre


Brasseur, Maria Casarès, Marcel Herrand, Louis Salou, Pierre Renoir, Jane
Marken. Produzione: Pathé-Cinéma, Francia. 1943-45.

Sotto l'occupazione tedesca, i cineasti cercano di salvare l'anima e di non


abbandonarsi alla disperazione. Marcel Carné e Jacques Prévert, reduci da
successi importanti come IL porto delle nebbie nel 1938 e Alba tragica nel
1939, si rifugiano nella fiaba ma senza troppa soddisfazione (è ormai il
1942: in piena guerra realizzano Les visiteurs du soir che in Italia prenderà
il titolo L'amore e il diavolo). Poi affrontano con entusiasmo una grande
impresa ォ fuori del tempo サ : ricreare l'atmosfera degli spettacoli della
Francia di Luigi Filippo e narrare una tormentata storia d'amore. Ne
risultano, dopo due anni di lavoro, oltre tre ore di film: Les enfants
duparadis. In due parti: Le boulevard du crime e L'homme blanc.
L'impresa, che costa l'enorme cifra di 60 milioni di franchi, è davvero
memorabile. ネ la somma della collaborazione fra un regista e uno
sceneggiatore-poeta che estraggono da una matrice romantica un inno
all'amore che tutto vince, annienta e purifica. Una donna, Garance (un nome
che diverrà mitico nel cinema francese, una attrice seducente dallo sguardo
triste e intenso, Arletty), si innamora del timido mimo Baptiste ma non
rifiuta la corte di altri ammiratori, come l'attore Frederick Lemaìtre, il
bandito Lacenaire, il conte di Montray. Sette anni dopo Baptiste ha sposato
Nathalie, che lavora nel suo spettacolo. Garance, che aveva lasciato Parigi
per sfuggire alla giustizia, ritorna, rivede Baptiste, affranto ma sempre
innamorato e finalmente trascorre con lui una notte d'amore. Sorpresi da
Nathalie, i due si separano per sempre. Garance scompare tra la folla che
festeggia il carnevale. Inno all'amore ma anche omaggio a quegli spettacoli
di periferia dai quali sarebbe nato il cinema. E al pubblico che li
frequentava, pagando pochi soldi ( ォ paradis サ è l'equivalente francese di
loggione). Una malinconia profonda avvolge i personaggi e ne segna i
comportamenti, anche i più ribaldi. Gli attori ne sono perfettamente
consapevoli e si adeguano con buona grazia, il desolato Jean-Louis Barrault
(Baptiste), il sanguigno Pierre Brasseur (Lemaìtre), la mite Maria Casarès
(Nathalie), il raffinato Marcel Herrand (Lacenaire), l'austero Louis Salou
(Montray). Formidabili gli apporti degli scenografi Leon Barsacq e
Alexandre Trauner, efficace quello dell'operatore Roger Hubert.

L'amico americano (Der amerikanische Freund)

Regia: Wim Wenders. Interpreti: Bruno Ganz, Dennis Hopper, Lisa


Kreuzer, Gerard Blain, Nicholas Ray, Samuel Fuller. Produzione: Road
Movies Filmproduktion / Les Films du Losange / Wim Wenders Produktion
/ Westdeutsche Rundfunk, Repubblica Federale di Germania. 1977.

Wim Wenders mette in scena, con ogni suo film, l'inquietudine. Alla fine,
ciò che lo interessa è l'enigma della vita. Come, esemplarmente, dimostra la
storia (da un romanzo giallo di Patricia Highsmith) di Jonathan
Zimmermann, invischiato, per paura e per denaro (gli fanno credere di
essere in fin di vita e gli offrono una lauta ricompensa se accetta di
diventare un killer), in un intrigo di gangster. Il disgraziato, corniciaio di
professione (uno straordinario Bruno Ganz), si trova combattuto tra due
forze opposte: un mercante d'arte venuto dagli USA a vendere i quadri di un
pittore che si finge morto per far alzare i prezzi e il vero gangster che ricatta
l'improvvisato killer. La ricompensa servirà alla famiglia, quando Jonathan
sarà morto. Ma non si giungerà a tanto perché dalle contorsioni di una
vicenda ambientata nel nord della Germania uscirà inaspettatamente
un'amicizia fra il Ripley mercante e lo spaurito Jonathan, e tutto andrà a
monte. Una brutta fine la faranno i gangster, e Ripley (il Dennis Hopper di
Easy Rider) se ne andrà soddisfatto. Jonathan assapora appena un attimo
la felicità di essersi salvato: la malattia che gli era stata diagnosticata lo
stronca mentre si allontana in macchina con la moglie. Come (quasi)
sempre, Wenders si misura con il cinema americano, e con i modelli
narrativi che lo governano. Anche Der amerikanische Freund - immagine
enigmatica dell'enigma della vita - è indirettamente un film sul cinema.
Oltre Hopper, due registi partecipano a questa riflessione intorno ai misteri
della esistenza, e sono due personaggi fortemente caratterizzati per le opere
che hanno diretto: Nicholas Ray, il pittore che si finge morto, e Samuel
Fuller, l'americano che conduce il gioco e ne fa le spese. Wenders mischia le
carte continuamente, infila nell'azione sequenze concitate (la caccia ai
gangster sul treno) e aperture suggestive sui panorami desolati delle spiagge
nordiche (dove termina il film).

Andrej Rublèv (Andrej Rublèv)

Regia: Andrej Tarkovskij. Interpreti: Anatol' Solonitzyn, Ivan Lapikov,


Nikolaj ( ìrinko, Nikolaj Sergeev, Irma Rauchk Tarkovskaja. Produzione:
Mosfilm', Unione Sovietica. 1969.

Il pittore di icone Andrej Rublèv visse durante gli anni turbolenti delle
invasioni tartare in Russia, nel secolo XV. In un prologo e otto episodi,
Tarkovskij rievoca quell'atmosfera convulsa che segnò la storia di un
popolo. Rublèv vive della sua arte, partecipa alle gioie, alle feste e alle
sofferenze dei suoi simili, si scontra con un maestro (Teofane il greco) nella
teologia e nella pittura, assiste a un rito pagano, salva una ragazza
sordomuta dall'irruzione dei tartari nella cattedrale, è costretto a uccidere e
per questo fa il voto di non parlare e di non dipingere più.
Passano undici anni. Il principe cerca chi sia capace di fondere una
campana. Inaspettatamente e sfrontatamente, si presenta un ragazzo, che
esegue il lavoro a regola d'arte. ネ la rivelazione, per Rublèv: comprende
che ha il dovere, anche lui, di aiutare il suo popolo, come il ragazzo. Di
colpo, al pastoso bianco e nero con il quale Tarkovskij ha narrato la vita del
pittore si sostituisce un breve documentario a colori sulle icone dorate di
Rublèv.
Completato nel 1967, Andrej Rublèv compare al festival di Cannes, due
anni dopo, dove riceve il premio della critica internazionale. Ciò non è
sufficiente per indurre la burocrazia sovietica a presentare il film al pubblico
nazionale. Trascorreranno altri tre anni, e solo nel 1972 Andrej Rublèv
inizierà una breve carriera sugli schermi dell'Unione. La ricchezza visiva del
film, il simbolismo di cui è intessuto, il ritmo ampio delle sequenze
descrittive, il rifiuto di qualsiasi concessione alle istanze sociali, il rigore
della struttura narrativa: tutto congiura contro la tenacia di un regista pronto
ad autoesiliarsi in patria piuttosto che trattare materie non congeniali. Anche
all'estero, d'altronde, lo stupore è grande. Più che ammirazione, i premi
rivelano rispetto, e una accorata attesa (Tarkovskij non la deluderà, nei tre
film che girerà a Mosca, prima di emigrare e di concludere la sua avventura
in Occidente).

L'angelo azzurro (Der Blaue Engel)


Regia: Joseph von Sternberg. Interpreti: Emil Jannings, Marlene Dietrich,
Kurt Gerron, Rosa Valetti, Hans Albers. Produzione: UFA, Germania. 1930.

Richiamato in Germania dalla UFA, Joseph von Sternberg lascia Hol-


lywood dove ha girato film importanti (Underworld nel 1927, The Docks of
New York nel 1929, fra l'altro) e si accosta a un romanzo di acre piglio
antiborghese come il Professor Unrat di Heinrich Mann. Ma al (fi-
gurativamente) raffinato regista poco interessa la polemica. Mira semmai a
una forma squisita di arte, dove contino soprattutto le immagini sontuose e
il groviglio dei sentimenti. Ed è, per lui, una coincidenza fortunata: Der
Blaue Engel gli esce dalle mani come un lucido gioiello che ha al centro una
donna libera e astuta, secondo la diffusa, ォ wedekindiana サ ideologia
misogina. Trova un'attrice come Marlene Dietrich, attiva da parecchio nel
cinema tedesco me senza brillare, e la infila nel personaggio di Lola-Lola,
sciantosa di cabaret.
Un austero professore del locale liceo, Emil Jannings, in una città non
precisata, scopre che i suoi allievi fanno follie per la procace cantante che si
esibisce in un locale passabilmente malfamato. ネ indignato il professor
Rath (Immanuel, come Kant). Fa una scenata, ma ciò non gli impedisce di
essere colpito dalla grazia della donna. Torna con un pretesto all'Angelo
azzurro e si trova invischiato in una torbida storia. Chiede Lola-Lola in
moglie, lascia il liceo e gira la Germania in veste (sbrindellata e grottesca,
ovviamente) di clown. E come clown riappare cinque anni dopo nella città
che lo vide professore, in quel locale dove ora si prostituisce lanciando un
atroce chicchirichì -la presenza del ォ Ridi pagliaccio サ , che i tedeschi
hanno tradotto in ォ Lache Bajazzo サ , è evidente - mentre Lola-Lola si
abbandona nelle braccia dell'acrobata Mazeppa (un seducente, puntuale
Hans Albers). Tenta di strangolare la moglie, aggredisce l'uomo. Lo
lasciano andare e lui, a mezzanotte, muore nella sua scuola, abbandonando
il capo sulla cattedra. La macchina da presa scopre l'aula vuota: il professor
Rath (che gli studenti chiamavano col nome storpiato di Unrat, spazzatura)
merita adesso - in un film di rigorosa intonazione espressionista,
sovraccarico di simboli e coincidenze ォ fatali サ - un poco di pietà.

L'angelo sterminatore {El angel exterminador)

Regia: Luis Buriuel. Interpreti: Silvia Pinal, José Baviera, Enrique Rambai,
Tito Junco, Augusto Benedico, Luis Beristain, Antonio Bravo. Produzione:
Uninci / Film 59, Messico. 1962.

Bunuel, surrealista incallito, esce da una lunga e modesta stagione


messicana. Lo invitano nel suo paese, dopo trent'anni di assenza. E il
vecchio dissacratore (ha 60 anni) lascia cadere nello stagno di una Spagna
narcotizzata dalla dittatura la provocazione di Viridiana, sesso religione e
capitalismo messi alla berlina. Lo scandalo è forte, Franco proibisce la
circolazione del film. Ma fuori è il trionfo, Viridiana vince la Palma d'oro al
festival di Cannes del 1961. Un anno dopo, tornato in Messico, il regista,
insiste, con un'altra accusa contro il mortifero ordine costituito. El angel
exterminador, sarcastica beffa contro i riti della borghesia, è la più velenosa
satira di un artista ォ fuori legge サ che trent'anni prima aveva rinnegato la
propria cultura con L'àge d'or.
Un gruppo di bella gente della capitale si raccoglie, dopo teatro, nel
palazzo della famiglia Nobile. Si cena e non si bada, sulle prime, alle
stranezze che accadono. A poco a poco ci si rende conto, sebbene nessuno
esplicitamente lo dica, che si dovrà passare la notte nel palazzo. Al sorgere
del nuovo giorno si scopre che un ospite è morto. Si tenta di uscire, ma una
invisibile barriera blocca le porte. Si diffonde il panico. Due fidanzati si
suicidano. Si scatenano gli istinti, occorre offrire all'angelo sterminatore
una vittima sacrificale: la si individua nel padrone di casa, salvato per un
pelo. Compare sulla porta un gregge di pecore. Una ragazza intuisce che si
può rompere il micidiale ォ incantesimo サ se ciascuno riprende la posizione
che aveva assunto all'inizio della serata. Liberi, tutti si dirigono verso una
chiesa per intonare un inno di ringraziamento. Il sollievo dura poco, perché
di nuovo sono bloccati sulla porta del tempio, dove ora entra un altro gregge
di pecore. Intorno tumultuano dimostranti che la polizia disperde.
Buneul si diverte, impassibile e feroce. Lo spazio chiuso è, insieme, una
prigione (dorata, elegante, borghese appunto) e un rifugio: ognuno sceglie il
gesto che gli si addice, chi si uccide, chi fa l'amore, chi armeggia per
salvarsi. Il lezioso bianco e nero del celebre operatore messicano Gabriel
Figueroa spalma sui personaggi luci suggestive e drammatiche.

L'anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad)

Regia: Alain Resnais. Interpreti: Delphine Seyrig, Giorgio Albertazzi,


Sacha Pitoéf. Produzione: Terra Film / Cormoran / Précitel / Como Films /
Les Film Tamara / Cinetel / Silver Films / Cineriz, Francia / Italia. 1961.
Frutto spurio della ォ nouvelle vague サ che fra i Cinquanta e i Sessanta
sta imprimendo una svolta alla cultura cinematografica, L'année dernière à
Marienbad nasce dall'incontro di Alain Resnais, reduce da quel film sulla
memoria che è stato Hiroshima mon amour (1959), con l'alfiere della
letteraria école du regard Alain Robbe-Grillet.
Un albergo sontuoso accoglie nei suoi saloni e nel suo geometrico
giardino tre personaggi in abito da sera e una schiera di comprimari
altrettanto raffinati. Pronunciano propositi che non si riesce a ordinare in un
senso. Lei è in compagnia di un lui, magrissimo e spettrale (Sacha Pitoèff).
Il terzo (Albertazzi, volto perennemente afflitto) allude a un incontro
dell'anno precedente, in una celebre località termale. Lei (una sofisticata
Delphine Seyrig) non sa, o non vuole sapere, o forse teme di sapere. Si
fermano in pose estatiche, assistono a uno spettacolo, giocano (i due uomini
fra loro, rivali o complici non si deve capire). ネ probabile - tutto rimane
nell'incertezza - che lei accetti la corte del terzo. Ma, anche fosse, nulla
rivela se si tratta di un sogno, di una realtà, di uno stato di coscienza, di un
desiderio.
Immerso nella compostezza figurativa di uno splendido bianco e nero
(Sacha Vierny), guidato da lunghi movimenti di macchina, il percorso dei
personaggi gira in tondo, dinanzi a pareti altissime e istoriate, a statue di
giardino, a specchi e tende. Chi cercasse un significato in questo lucido
labirinto cinematografico (per certi versi, è il trionfo del cinema),
sbaglierebbe. Le immagini si rincorrono in un flusso continuo che richiama
certo i precedenti più clamorosi della letteratura del Novecento (Proust,
Joyce, Woolf) ma che è soprattutto un gratuito esercizio visivo. Alla Mostra
del cinema di Venezia, nel 1961, la giuria gli assegna il Leone d'oro,
suscitando le proteste di molti (gli adoratori del realismo ischeletrito) e la
soddisfazione di chi si sta sintonizzando sulle evoluzioni della ォ nouvelle
vague サ.

Apocalypse Now (Apocalypse Now)

Regia: Francis Ford Coppola. Interpreti: Martin Sheen, Marion Brando,


Robert Duvall, Frederic Forrest, Dennis Hopper. Produzione: American
Zoetrope, USA. 1979.

Il titanismo si addice al cinema. Da Pastrone a Griffith a Sergio Leone, i


film hanno sovente esibito maestà e arroganza. Figlio (o fratello più ricco)
del circo, erede di tutte le saghe spettacolari che, partendo dall'antica Roma,
hanno attraversato la storia dei popoli, lo schermo cinematografico è parso a
molti la sede ideale per la magniloquenza. Apocalypse Now, film di guerra
(il Vietnam) ma non solo, conquista la Palma d'oro al festival di Cannes nel
1979 e riscuote un immenso successo pur senza coprire le spese di
produzione (si è girato nelle Filippine), che furono spropositate.
Se Pastrone ricorse a D'Annunzio per ォ nobilitare サ la sua Cabiria
(1914), Coppola - gratificato dal successo del Padrino e intrigato dalla
intelligente divagazione sui pericoli del villaggio elettronico (La
conversazione, 1974) - si affida alla stampella di Conrad (Cuore di tenebra)
per trasformare un film di guerra in una tragedia di ambizioni filosofiche.
Affastella fatti, tensioni, orrori e avventure, dentro le minacciose oscurità
della giungla, sotto il fuoco dei bombardamenti e degli agguati. Vittorio
Storaro gli presta colori brillanti e sfacciati: l'effetto è ottenuto. Il film narra
la missione di un capitano dei servizi speciali (l'anonimo Martin Sheen) che
deve scovare e rendere inoffensivo il colonnello Kurtz, un folle disertore
che s'è messo a capo di un esercito di indigeni. Risalendo un fiume,
schivando sorprese di ogni tipo, questo smorto funzionario di polizia
raggiunge il luogo dove si rifugia il colonnello (un Marlon Brando lugubre
e imponente, quasi una controfigura di Orson Welles), lo ammazza dopo
aver sgominato la sua corte. Gli indigeni lo acclamano loro capo, ma il ligio
burocrate volta loro le spalle e rientra alla base. Un attacco aereo distrugge
il rifugio del disertore. L'impresa del ォ pastroniano サ Coppola è terminata.

L'armata a cavallo (Csillagosok, Katonàk)

Regia: Miklós Jancsó. Interpreti: Andràs Kozàk, Jàcint Juhàsz, József


Madaras, Tibor Molnàr, Tatjana Koniukova, Krystyna Mikolajewska.
Produzione: Studio Mafilm iv / Mosfil'm, Ungheria / Unione Sovietica.
1967.

ォ Stellati, soldati サ dice il titolo originale, che riproduce le prime parole


dell'Internazionale in ungherese. L'internazionalismo proletario, in effetti,
vive nella collaborazione fra bolscevichi e ungheresi (ex prigionieri)
durante la guerra civile in Russia. Sottoposti alla dura pressione dei bianchi,
i rossi si difendono adottando gli stessi barbari sistemi praticati dagli
avversari. L'ungherese Laszló si oppone, ma senza successo. I bianchi
conquistano il monastero abbandonato in cui si rifugiano i bolscevichi,
fanno spogliare i prigionieri russi (gli ungheresi non subiscono offesa), li
incitano a fuggire e li ammazzano alle spalle. Un ospedale, dove le
infermiere proteggono i rossi, passa di mano due volte. La prima vede i
bianchi vincere e costringere le infermiere a danzare nel bosco, mentre una
di loro - una polacca -indica dove si nascondono i rossi. Un contrattacco, la
seconda volta, riporta i rivoluzionari nell'ospedale. La polacca è fucilata.
Ora, i rossi e gli ungheresi al canto della ォ Marsigliese サ marciano contro il
nemico schierato nel fondo valle. E una trappola, i bianchi li annientano.
Csillagosok, Katonàk è il secondo capitolo della trilogia che Jancsó
dedica, fra il 1965 e il '68, al tema della rivoluzione. Non ha un inten-
dimento politico, né storico. Vede l'alternanza di rivoluzione e con-
trorivoluzione come un succedersi sempre più feroce di orrori inutili, e
descrive le azioni di guerra come un rito. La macchina da presa avvolge i
personaggi con larghi movimenti circolari, come a sottolineare la presenza
di un immaginario - talvolta anche reale - recinto da cui è impossibile
evadere. Qualcuno sembra sfuggire a questo metodico ォ accerchiamento サ,
ma bastano alcuni secondi per scoprire che nessuno è riuscito davvero a
liberarsi: ricadono tutti, sempre, nel cerchio disegnato da regista con la
collaborazione di un attento operatore (Thomas Somló) e la connivenza di
attori particolarmente addestrati.

L'armata Brancaleone

Regia: Mario Monicelli. Interpreti: Vittorio Gassman, Gian Maria Volonté,


Catherine Spaak, Barbara Steele, Enrico Maria Salerno, Carlo Pisacane,
Maria Grazia Buccella, Folco Lulli. Produzione: Fair Film / Les Films
Marceau, Italia / Francia. 1966.

Commedia all'italiana, si disse, per sottolineare l'origine di una struttura


comica tanto vivace quanto affannata, incapace di trovare una sua misura.
Adottando i moduli della farsa, L'armata Brancaleone si vestì gioiosamente
dei panni dell'epica, navigando tra Pulci e Teofilo Folengo. Fu un'avventura
unica (ebbe un seguito con il Brancaleone alle crociate del 1969, ma non fu
più la stessa cosa), che travolse anche le difese dei più accaniti - per ragioni
ideologiche - denigratori del genere. Questi eroi smargiassi di un Medio
Evo favoloso convinsero tutti. Li avevano inventati, e fatti parlare in una
lingua maccheronica finto-colta (il volgare mischiato a tracce di latino e
impastato in una sintassi scardinata), i tre più collaudati corifei della
commedia: Age, Scarpelli e Monicelli.
Miles gloriosius di antico lignaggio, Brancaleone da Norcia è un capitano
di ventura al rovescio: sbruffone e tremebondo, avido e allocco. Alla testa di
un manipolo di poveracci e in groppa un ronzino tinto di giallo (Aquilante),
questo donchisciotte - formidabile la caratterizzazione di Vittorio Gassman -
si dirige verso la mitica Aurocastro, dove prenderà possesso di un feudo
sottratto a un onesto cavaliere. Rischierà di contrarre la peste, s'imbatterà in
un frate che sta partendo per le Crociate, frequenterà la famiglia
(corrottissima) del bizantino Teofilatto dopo averlo sfidato a duello in un
campo di grano, salverà una fanciulla dai briganti, finirà quasi impalato per
mano dei pirati saraceni. Ma la buona sorte, e l'onesto cavaliere cui era stato
trafugato il documento d'investitura, interverranno a tempo.
Accanto a Gassman saltellano attori di consumata bravura: un Volonté
nelle vesti di Teofilatto, un Salerno in quelle del frate omosessuale, un
Pisacane (il ォ Capannelle サ di I soliti ignoti) nei panni di Abacuc ebreuccio
astuto. Carlo Rustichelli compone una marcetta (con coro) di trascinante
effetto. La commedia all'italiana in versione medievale assomiglia all'Opera
dei pupi e ne riproduce gli scatti burleschi (come i titoli di testa disegnati
preannunciano).

L'arpa birmana (Bituma no tategoto)

Regia: Kon Ichikawa. Interpreti: Shoji Yasui, Rentaro Mikuni, Tatsuya


Mihashi, Yae Kitabayashi, Yunosuke Ito. Produzione: Nikkatsu, Giappone.
1956.

Qualche anno dopo la fine del conflitto mondiale, il cinema - superata la


fase della ribellione e della indignazione - comincia a riflettere sulla guerra.
V'è chi compie analisi serrate del militarismo (Kubrick con Orizzonti di
gloria), chi indaga nelle ragioni dell'orrore e della ideologia che lo
giustificò (lo straziante documentario Nuit et brouillard di Alain Resnais),
chi riscopre il valore di sentimenti come la pietà, che possono riconciliare
l'uomo con se stesso. Ichikawa, regista nipponico di varia specializzazione e
di costante successo, svolge un suo ragionamento sulle conseguenze della
pietà quando sia spinta sino alla infatuazione e alla follia. ネ un discorso
originale, profondo e sgradevole, con qualche connessione con il
cristianesimo.
Biruma no tategoto riprende il tema della spaventosa ostinazione giap-
ponese nel rifiutare la realtà della fine della guerra. Nel luglio del '45 un
drappello di soldati dispersi vaga per le foreste birmane e s'imbatte in un
essere che regge una piccola arpa e tiene sulla spalla un pappagallo. ネ un
giapponese anche lui. Ferito nell'assalto che era costato la vita a tutti i suoi
compagni, fu accolto da un bonzo che lo curò. Sulla via del ritorno a casa ha
trovato nei campi cumuli di cadaveri insepolti ed ha compreso quale deve
essere la sua missione. Darà sepoltura ai morti, renderà loro onore. Vaga da
un luogo all'altro, per compiere in semplicità estrema la sua opera pietosa.
Con una lentezza descrittiva che rasenta l'estasi, Ichikawa segue i passi di
questo Mizushima, indugiando sui suoi gesti e soffermandosi sulle tracce
dell'orrore. Ad alcuni Biruma no tategoto è parso troppo lezioso, quasi che
la pietà sconfini in un manierato misticismo. Ma il grande successo ottenuto
in tutto il mondo dimostra che il regista ha fatto vibrare corde sensibili
dell'animo umano.

L'Atalante (L'Atalante)

Regia: Jean Vigo. Interpreti: Jean Dasté, Dita Parlo, Michel Simon, Louis
Lefebvre, Gilles Margaritis. Produzione: Jean-Louis Noumez, Francia.
1934.

Il cinema vive, anche, di miti, e Jean Vigo è uno di questi. E L'Atalante,


l'ultimo film di un regista che muore per tisi a 29 anni, unisce all'aura mitica
il valore di una straordinaria testimonianza linguistica e culturale. Esce dalla
costola del surrealismo, come il primo film pseudodocumentario di Vigo (A
propos de Nice), dopo averne assorbito i fermenti ed averli calati in una
forma distesamente narrativa. Racconta la storia d'amore di Jean e di Juliette
(Jean Dasté sempre imbronciato e Dita Parlo, figurina deliziosa), che si
sposano in una chiesetta e salgono a bordo della péniche destinata a
divenire la loro casa. Ma Juliette non si rassegna a quella ォ prigione サ che
la taglia fuori dalla vita. Sulla imbarcazione che scivola lungo i canali di
Francia subisce, intanto, la corte del vecchio marinaio Jules, mentre il
marito non riesce a nascondere la gelosia.
La ragazza è ingenua, per poco non si lascia sedurre da un ambulante che
le agita sotto il naso la sua chincaglieria. Alla fine scappa, se ne va a Parigi,
gettando Jean e Jules nella costernazione. Ora che sono lontani, gli sposi
soffrono: Jean non parla più, passa le giornate giocando a dama con Jules,
Juliette si arrangia in un negozio e sogna l'amore che ha perduto. Jules
prende in mano la situazione, va in città e scova l'infelice Juliette seguendo
la ォ scia サ di una canzonetta. La riconduce sul battello. Gli sposi
impazziscono dalla gioia. L'Atalante naviga nel sole, solcando la superficie
brillante di un canale.
Sparito dopo poche settimane dagli schermi, L'Atalante finì, come altri
film ォ difficili サ (ma questo era tutt'altro che difficile), nelle salette dei
cineclub. Lì, nel dopoguerra, Vigo divenne oggetto di studio e di rispettoso
amore, prima di trasformarsi in un mito. Francois Truffaut osservò che il
regista ォ evita i trabocchetti dell'estetismo e quelli del realismo サ, ォ grazie
alla sua delicatezza, alla raffinatezza, all'umorismo, alla eleganza, alla
intelligenza, alla intuizione e alla sensibilità サ.

L'avventura

Regia: Michelangelo Antonioni. Interpreti: Gabriele Ferzetti, Monica Vitti,


Lea Massari, Esmeralda Ruspoli, Renzo Ricci, Dominique Blanchar.
Produzione: Cino Del Duca / Produzioni Cinematografiche Europee /
Société Cinématographique Lyre, Italia / Francia. 1959.

Fino a L'avventura, Michelangelo Antonioni ha lavorato per mettere a


punto un linguaggio e una tematica. Non sempre è riuscito a farlo: ora gli
sfuggiva la visione dell'insieme, ora si appoggiava a stampelle letterarie, ora
perdeva il controllo dell'ambiente per eccessiva fiducia in se stesso. Solo
con questo singolare giallo che ignora le regole del genere (dove sia finita, e
come sia finita, la ragazza scomparsa, non interessa) stabilisce un rapporto
chiaro con la materia trattata e disegna personaggi non solo a lui congeniali
ma anche significativi del momento che il paese, alle soglie dell'espansione
economica, sta attraversando.
Questi sono anche gli anni della ォ nouvelle vague サ. Antonioni non se
ne cura, e ne sembra remotissimo (in effetti, dal punto di vista linguistico lo
è), ma anche la sua privata ォ rivoluzione サ nasce sotto un segno non
differente. Anche in L'avventura si parla e non si dialoga, si vaga senza
raggiungere mai la meta, ci si arrende a forze che non si possono
contrastare. Dopo la inspiegata scomparsa di Anna dall'isola, Sandro (il suo
fidanzato, Gabriele Ferzetti) e Claudia (la sua amica, Monica Vitti)
abbandonano la compagnia con cui erano in gita e inseguono i tenui indizi
che li conducono, ora separati ora insieme, attraverso la Sicilia. Smarriti e
indecisi, sentono di non avere alcun interesse per Anna, e sono a poco a
poco indotti a interrogarsi su se stessi. Insieme ora, per scelta e (forse) per
amore, giungono in un albergo di Taormina, dove ritrovano gli amici (ma
non Anna, di cui nessuno parla più). Vorrebbero essere diversi, e non lo
sono. Staranno ancora insieme, perché non hanno altra scelta.

Barry Lyndon (Barry Lyndon)


Regia: Stanley Kubrick. Interpreti: Ryan O'Neal, Marina Berenson, Patrick
Magee, Hardy Kriiger, Steven Berkoff, Léonard Rossiter, Marie Kean, Leon
Vitali. Produzione: Hawk Film / Peregrine / Warner Bros., Gran Bretagna.
1975.

La tenace affezione per la (o la sofferta dipendenza dalla) letteratura


conduce Stanley Kubrick a quel William Thackeray che nell'Ottocento
rappresentò la faccia illuministica di una cultura tutta spostata sul versante
Dickens, l'enfatico populista di matrice romantica. La celebre Vanity Fair
aveva già interessato il cinema attraverso Rouben Mamoulian nel 1935 (il
rinomatissimo e coloratissimo Becky Sharp). Adesso è la volta di The
Memoirs of Barry Lyndon, versione 1856 del precedente (1844) The Luck of
Barry Lyndon, che è un bel titolo ironico e tutto settecentesco.
Thackeray si affida al sarcasmo moraleggiante. Il regista osserva con
distacco le evoluzioni della sorte, nascondendo la curiosità maligna dello
sguardo sotto le raffinate allusioni alla grande pittura inglese del Settecento:
Hogarth, Gainsborough, Constable, Reynolds. Quasi a prendere le distanze
dalla storia di un giovane irlandese che si fa strada spavaldamente, fra
battaglie, seduzioni e intrighi in una società chiusa come quella
dell'aristocrazia. Qui non c'è sarcasmo, Kubrick - cronista minuzioso per
interposta persona (romanzo, pittura e musica) - non ha bisogno di
commentare ciò che, in oltre tre ore, narra.
Temendo di avere ucciso in duello un capitano inglese, Barry scappa e si
fa soldato. Una feroce e (quasi) solenne battaglia lo vede coinvolto e
atterrito. Di maneggio in maneggio, di donna in donna, il giovanotto
approda alla sponda del gioco, e, poco dopo, al matrimonio con una lady
inglese (la Lady Lyndon di cui assume il nome). Parrebbe tutto risolto, ma
non è così. Barry dà fondo alle ricchezze della moglie, senza poter salire
nella scala sociale. Vede morire il bambino avuto da Lady Lyndon, è sfidato
a duello dal figlio che costei ha avuto dal primo marito: un duello grottesco,
dominato dalla paura del ragazzo e concluso - altra e definitiva beffa del
destino - con il ferimento di Barry. Perduta la gamba colpita, l'avventuriero
deve tornare in Irlanda, dove una rendita assicuratagli dalla moglie garantirà
la sua sopravvivenza.

La battaglia di Algeri

Regia: Gillo Pontecorvo. Interpreti: Jean Martin, Yacef Saadi, Brahim


Haggiag, Mohammed Ben Kassen, Fawzia El Kader. Produzione: Igor Film
/ Casbah Film, Italia / Algeria. 1966.

Alì La Pointe e un gruppetto di resistenti fronteggiano, nella Casbah di


Algeri, i paracadutisti francesi che si apprestano a sferrare l'attacco decisivo.
ネ il 1957. Tutto sembra perduto, dopo tre anni di guerriglia. Rievocandola
per rapidi scorci, con una asciuttezza che ricorda le approssimazioni dei
cinegiornali, il film mostra come i francesi abbiano tentato di tenere la città
sotto controllo, dopo le prime scaramucce e gli attentati del 1954. Torture e
fucilazioni non solo non fermano la resistenza ma le consentono, per certi
periodi, di assumere la guida della vita civile, di abolire i costumi più
arcaici, impedendo le azioni avventate che favoriscono soltanto la
repressione francese. Con l'arrivo del colonnello Mathieu, che è stato un
valoroso partigiano nella lotta di liberazione del suo paese, le cose
cambiano: con sistematicità e rigore, i paracadutisti eliminano ad uno ad
uno i centri della resistenza, arrestano tutti i suoi capi. Rimane solo Alì La
Pointe. Si torna all'inizio del film: una carica di esplosivo fa saltare in aria
l'ultimo gruppo. Trascorrono altri tre anni. Un giorno di dicembre una
grande manifestazione esplode, come dal nulla, nelle strade di Algeri; la
resistenza si è riorganizzata raggiungendo tutti gli strati della popolazione.
Ora è l'intero popolo algerino che chiede la libertà. Questo è il film che nel
1965 Pontecorvo gira ad Algeri, con uno spericolato operatore (Marcello
Gatti) sulla base di una sceneggiatura rapsodica e quasi documentaristica (di
Franco Solinas e di Yacef Saadi, uno dei capi della resistenza, che nel film
interpreta se stesso). Tranne Jean Martin (il colonnello Mathieu), sono tutti
attori improvvisati. Romantico, confuso, come fu detto da più parti, il film
conserva la sua forza d'urto, il suo valore di testimonianza, di esempio unico
di rivisitazione storica a ridosso dei fatti (ricostruiti realmente come se si
trattasse di un cinegiornale, controtipando più volte il negativo per ottenere
il contrasto delle ォ attualità サ).

Blade Runner (Blade Runner)

Regia: Ridley Scott. Interpreti: Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young,
Joe Turkel, Joanna Cassidy, James Hong. Produzione: Ladd Company,
USA. 1982.

Philip Dick è un fine scrittore di fantascienza. Ispirandosi a lui, Ridley


Scott, regista con lunga esperienza pubblicitaria e con un buon successo
(Alien, 1979) alle spalle, trova nella raffinatezza - ideologica, culturale,
figurativa, musicale - il suo terreno di elezione. Tutto,
in Blade Runner, è slabbrato e consunto: la Los Angeles del 2019 è una
città caotica, flagellata ininterrottamente dalla pioggia, invasa da una
popolazione di straccioni, minacciata dalla rivolta di un gruppo di replicanti,
fabbricati da uno scienziato-manager, i quali non accettano di ォ spirare サ
dopo i quattro anni di vita che son stati loro assegnati. Costoro hanno
abbandonato i lavori cui erano adibiti e vagano per la città. Come trovarli se
sono copie perfette di esseri umani? Le autorità incaricano un ォ blade
runner サ abile e disincantato, Rick Deckard (la faccia di Harrison Ford è
perfetta), e gli forniscono gli strumenti per agire. Lui ammazza ad uno ad
uno i riottosi similuomini (e simildonne). Non fa però in tempo a impedire
che Roy, il loro capo (anche Rutger Hauer, biondo e stranito, è perfetto),
uccida il ォ padre サ scienziato schiacciandogli il cranio fra le mani. Lo
insegue nelle viscere di un vecchio edificio ma presto da inseguitore diventa
inseguito. Lottano sul tetto. Deckard è sconfitto, sta per precipitare. Ora, il
replicante senz'anima prova pietà per lui, e lo salva. E il miserabile
cacciatore si allontana nello spazio insieme alla donna replicante che aveva
risparmiato.
Il panorama che Scott allestisce, grazie alla scenografia di Laurence Paull
e ai sofisticati effetti speciali di Douglas Trumbull, Richard Yuricik e David
Dreyer, crea angoscia: colori cupi, controluci azzurrastre, apparizioni
sinistre in cielo (anche la pubblicità incute sgomento), automi e occhi
artificiali, esplosioni e agguati. L'operatore Jordan Cronenweth ォ
impagina サ la storia, Vangelis la annega in un formicolante flusso sonoro. Il
sospetto del kitsch incombe, ovviamente, come accade in questi casi. In una
riedizione del 1991 il regista, respingendo le precedenti imposizioni del
produttore, presenta un finale meno aperto e ottimistico: anche Deckard è un
replicante.

Blow-up

Regia: Michelangelo Antonioni. Interpreti: David Hemmings, Vanessa


Redgrave, Sarah Miles, Verushka, Peter Bowles, Jane Birkin, Gillian Hills.
Produzione: Bridge Film / MGM, Italia / Gran Bretagna. 1966.

Blow-up è una storia ambientata nella ォ swinging London サ ma non è un


film né realistico né sociologico. Antonioni è realistico in un altro modo:
analizza l'ambiguità non solo dei sentimenti ma della vita (e quindi della
società) e ne estrae un ritratto ォ riconoscibile サ del mondo in un'epoca di
sommovimento e trasformazione.
Il protagonista (di cui non si pronuncia mai il nome) è un fotografo di
moda (e alla moda) che lavora a Londra, in una strada silenziosa e appartata.
Alterna alle foto di moda l'inchiesta giornalistica. Curiosando in un parco
scorge una coppia che attira la sua attenzione. Scatta più volte sino a quando
la donna lo aggredisce e cerca di strappargli la macchina. In studio, la donna
è pronta a far l'amore con il fotografo pur di avere il rullino. Lui finge di
cedere e la inganna. Rimasto solo, sviluppa il negativo e, di ingrandimento
in ingrandimento (il ォ blow-up サ del titolo, il senso del film), scopre che in
quel parco ora c'è il cadavere di un uomo. Corre a verificare. ネ così. Torna
il giorno dopo e il cadavere è scomparso. Continua la sua vita scardinata,
riprende i contatti con una vecchia amica, partecipa a una festa in cui circola
la droga. Nel parco s'imbatte in un gruppo di ragazzi che già aveva incon-
trato, folletti mendicanti e saltellanti, all'inizio. Assiste a una partita di
tennis che quelli giocano senza palla, vi si appassiona come fosse una
partita vera. Rimane a meditare sul prato, raccatta la sua macchina, e
scompare anche lui. Misteri (il cadavere, la colpa) e irruzioni di follia (due
ragazze piombano in casa del fotografo per esigere una posa e con lui si
rotolano fra le carte colorate delle scene) si alternano e tranquillamente
coesistono. Carlo Di Palma per la fotografia e Herbie Hancock per la musica
collaborano scioltamente, solidali, precisi. Tutto inganna, anche i colori
eleganti degli abiti, quelli soffici dei prati, quelli impastati dell'alba
londinese. ネ questa la realtà?

Un borghese piccolo piccolo

Regia: Mario Monicelli. Interpreti: Alberto Sordi, Shelley Winters, Romolo


Valli, Renzo Carboni, Vincenzo Crocitti. Produzione: Auro
Cinematografica, Italia. 1977.

ネ il volto feroce, quello che di solito rimane nascosto, della commedia


all'italiana. Non è casuale il fatto che il regista sia Mario Monicelli, il meno
fatuo degli autori ォ comici サ. La matrice del cupo personaggio dello statale
Vivaldi (interpretato da un insolito Alberto Sordi) si trova nel primo
romanzo di Vincenzo Cerami: un ritratto in stile ridondante e barocco.
Monicelli asciuga la materia e la riduce all'osso. Lo scrupoloso burocrate sta
per andare in pensione. Ha un figlio ragioniere. Muove tutte le sue pedine
per trovargli un posto, si iscrive persino alla massoneria per avere
l'appoggio dell'abietto dottor Spaziani (brillante caratterizzazione di Romolo
Valli).
Il giorno delle prove orali del concorso per l'assunzione, fiero e tranquillo,
Vivaldi accompagna il suo Mario. All'improvviso un colpo di pistola
colpisce il giovane e l'uccide: fuggendo un giovane rapinatore non ha esitato
a far fuoco. Vivaldi, annichilito, matura la sua vendetta. Sarà lui a
individuare l'assassino, a seguirlo pazientemente (è un balordo qualunque),
e sequestrarlo chiudendolo in una baracca sul Tevere che usava per pescare
con il figlio. Lucidamente, sottopone la vittima a una lunga sofferenza
(inorridita assiste la moglie, che è rimasta paralizzata e senza voce per la
morte di Mario). Alla fine lo strozza con un filo di ferro. Soddisfatto, e
impunito, decide di trasformarsi in un giustiziere. E pedina chiunque gli
sembri capace di compiere infrazioni o soprusi. Un Monicelli qua e là fuori
misura. Si concede finezze figurative che non gli si conoscevano (la morte
della vittima è rappresentata attraverso il volo di un moscone che sbatte
contro il vetro della finestra per cercar di uscire), ma non si lascia mai
sfuggire il nodo vero del racconto, tutto incentrato sulla figura sinistra del
borghese avido di vendetta. Quasi inutile la presenza dell'attrice americana
Shelley Winters.

Breve incontro (Brief Encounter)

Regia: David Lean. Interpreti: Celia Johnson, Trevor Howard, Cyril


Raymond, Stanley Holloway, Joyce Carey. Produzione: Independent
Producers / Cineguild, Gran Bretagna. 1945.

In inglese ォ to encounter サ significa imbattersi. E il ォ brief サ accentua


la casualità - la inconsistenza - dell'incontro. ネ fragile l'amore della
casalinga Laura (interpretazione sensibile, finissima, di Celia Johnson,
attrice di teatro) e del medico Alec Harvey (Trevor Howard, eccellente).
David Lean, reduce dal successo ottenuto con la commedia cowardiana
Blithe Spirit (Spirito allegro, 1944), ricorre nuovamente a Noel Coward
adattando il suo testo forse più noto, Stili Life (altro bel titolo, e
significativo: ォ Natura morta サ).
Si incontrano per caso, fra un treno e l'altro, nella Londra dell'immediato
e difficile dopoguerra, la timida Laura e il tranquillo Alec. Trascorso un
pomeriggio al cinema, si danno appuntamento per la settimana seguente. Si
ritrovano altre volte, e ogni volta esitano. Sono incontri fugaci, che li
conducono ora in un parco, ora in campagna, ora in un ristorante. Laura si
nasconde, sente di essere colpevole. Una volta accetta di seguire Alec, in
casa di un amico, e sarebbe finalmente l'amore se costui non tornasse
d'improvviso per un contrattempo. Laura scappa, sconvolta. E decide che
così non può continuare. Si vedono per l'ultima volta. Alec andrà a lavorare
lontano, Laura cancellerà anche il ricordo di quel che è (non è) accaduto. Si
dicono addio al bar della stazione: non è servito che Alec le giurasse di
amarla. Laura ha un attimo di esitazione. Arriva un convoglio. Un scatto
verso il binario. Ma si ferma in tempo. Va a casa. Il marito la accoglie con
un sorriso, e la ringrazia di essere tornata. Si stringono appena, senza
parlare.
Brief Encounter rimane nella storia del cinema britannico, come ri-
mangono i film di Olivier o le commedie Ealing: riflettono perfettamente un
costume di vita e testimoniano di una civiltà. Lean guida gli attori con la
sollecitudine di un grande maestro. E orchestra la storia insignificante con
una discrezione che è autentica sapienza cinematografica. Robert Krasker,
che nel 1954 sarà l'operatore (insieme a G.R. Aldo) del viscontiano Senso,
gli mette a disposizione un morbidissimo bianco e nero.

Cabiria

Regia: Giovanni Pastrone. Interpreti: Letizia Quaranta, Bartolomeo Pagano.


Umberto Mozzato, Gina Marangoni, Dante Testa. Produzione: Itala Film,
Italia. 1914.

Flaubert (Salammbó) e Salgari (Cartagine in fiamme) sono per alcuni alla


origine della gigantesca impresa di Cabiria. La presenza di Gabriele
d'Annunzio è meno forte (nella sostanza) ma assai più efficace
(nell'apparenza): le didascalie fiorite e polverose che il poeta scrive per ォ
nobilitare サ il film servono alla pubblicità (questa è, probabilmente, la
prima occasione in cui un industriale cinematografico affronta il mercato
non solo con la importanza del prodotto ma anche con un vero apparato di
sostegno). Per Giovanni Pastrone (che si firma con lo pseudonimo
dannunziano Piero Fosco) è una scommessa.
Tre anni prima l'Italia s'era impadronita della Libia, strappandola
all'impero ottomano. Una piccola Italia in sviluppo, un'Italia che si vedeva
grande. Cabiria riflette bene l'atmosfera che si vive dopo l'impresa coloniale
(fortunata, questa, quasi a compensare il disastro della spedizione eritrea del
secolo precedente) e alla vigilia del massacro della guerra mondiale.
La guerra di cui qui si tratta è la seconda punica (come lo sarà quella che,
durante il fascismo trionfante, Carmine Gallone narrerà in Scipione
l'africano). I fatti storici sono convocati per far corona a una fanciulla
romana (Cabiria, appunto) rapita dai pirati e condotta a Cartagine, dove il
gran sacerdote Karthalo vuole sacrificarla nella fornace del dio Moloch. Un
nobile romano, clandestino in città, e il suo gigantesco servo Maciste la
liberano. Maciste finirà prigioniero, ma Cabiria si salverà e sarà affidata a
Sofonisba, la figlia di Asdrubale. Passano gli anni.
Scipione sbarca in Africa. Karthalo non cede, custodisce Cabiria in attesa
di poterla immolare. Ma il prode Maciste e il suo padrone intervengono
definitivamente. Cartagine cade, Cabiria è salva e può veleggiare, con il
nobile romano, verso la patria.
Questo intruglio epico-melodrammatico è presentato non solo con sfarzo
ma anche con una sapienza tecnica sbalorditiva (la luce artificiale in
funzione espressiva e i movimenti di macchina sono solo due degli elementi
che Pastrone introduce nel film). Su suggerimento di d'Annunzio,
Ildebrando Pizzetti scrive la Sinfonia del fuoco per accompagnare il rito del
sacrificio. Quasi tre ore di proiezione: una durata, per l'epoca, incredibile.
ネ, proprio, l'Italia piccola che si crede grande.

Il carretto fantasma (Kòrkarlen)

Regia: Victor Sjòstròm. Interpreti: Victor Sjòstròm, Hilda Borgstròm,


Astrid Holm, Tore Svennberg, Concordia Selander, Einar Axelson, Tor
Wejden. Produzione: Svensk Filmindustri, Svezia. 1921.

Il cinema è stato più volte il luogo della sperimentazione linguistica e


tecnica. Quando si gira Kòrkarlen, del resto, il ォ cinématographe サ esiste
soltanto da un quarto di secolo, e c'è ancora tutto da inventare. L'attore
Sjòstròm, maschera energica e duttile, cerca un buon appiglio narrativo e lo
trova nella connazionale Selma Lagerlòf, autrice di un popolare romanzo
che discende dal più ispido moralismo protestante e rappresenta a forti tinte
l'ossessione della morte e del peccato. Prende così forma questa sorta di
macchinosa saga che il protagonista-regista svolge attraverso contrasti
luministici esaperanti, angolazioni insolite, lunghe sovraimpressioni,
sorprese e rivelazioni che in un altro contesto - in un altro paese e in un'altra
epoca - sfiorerebbero il ridicolo.
Vuole la credenza popolare che chi muore in peccato la notte di San
Silvestro sia condannato a guidare il carretto sul quale saranno caricate le
anime dei defunti nel corso dell'anno. In un cimitero, acquattati fra le tombe,
tre ubriachi pensano al loro amico Georges deceduto or è un anno.
Nell'attesa dei rintocchi di mezzanotte, il più facinoroso dei tre, David,
apprende che Edit, una buona sorella dell'Esercito della Salvezza, lo invoca
per poter morire in pace, dopo averlo redento dal peccato. Rifiuta di vederla.
Scoppia una rissa. Colpito, David stramazza al suolo: è mezzanotte. I due
amici accorrono al capezzale di Edit mentre passa il carretto fantasma
condotto da Georges. Tocca a David, ora. Ma in realtà l'uomo non è morto.
Si rialza, si precipita a casa, dove trova la moglie che, disperata per lui,
medita di avvelenarsi. La salva, dopo aver salvato se stesso dal carretto
fantasma. Edit muore serenamente.
Sapiente esercizio di ォ cinema puro サ , negli anni in cui il cinema sta
cercando la sua strada, fra industria, spettacolo, arte e cultura, Kòrkarlen è
uno degli esempi più interessanti di un tentativo di simbiosi che sempre si
rinnoverà e che costituirà il segno vero della ォ rivoluzione サ
cinematografica.

Casablanca (Casablanca)

Regia: Michael Curtiz. Interpreti: Ingrid Bergman, Humphrey Bogart,


Claude Rains, Paul Henreid, Conrad Veidt, Peter Lorre, Dooley Wilson.
Produzione: Warner Bros., USA. 1942.

Una qualunque storia di guerra e di amore infelice divenne un film - come


si dice - di culto. Secondo conflitto mondiale, i francesi di Vichy
controllano il Marocco, e i nazisti sorvegliano. Nel bar di Rick (all'origine
c'è un dramma teatrale di Murray Burnett e Joan Alison) si danno convegno
tutti, collaborazionisti e resistenti, francesi e tedeschi. Vi giunge una coppia
insolita, il patriota ungherese Laszlo e la moglie Ilsa. Lei è stata a Parigi,
pochi mesi prima, l'amante di Rick. L'incontro inatteso minaccia di far
fallire la fuga che è stata progettata. Ilsa esita, ma non esita Rick,
gentiluomo austero sotto la scorza dell'affarista. Promette alla donna che
partiranno insieme, sapendo che così non ci sarà. E all'aeroporto persuade
Ilsa a partire con il marito, com'è suo dovere. Lui rimarrà a Casablanca con
il comandante della guarnigione che getta la maschera e si schiera con la
resistenza. Infantile e languido, ma abilmente strutturato in una efficace sce-
neggiatura, sapientemente diretto da un vecchio del mestiere come Michael
Curtiz, Casablanca ha il fascino delle piccole storie sentimentali che il
pubblico ha sempre mostrato di apprezzare. Soprattutto quando si
appoggiano alla dolcezza luminosa di Ingrid Bergman e alla maschera
sofferta di Humphrey Bogart, che veste i panni dell'inflessibile per svelare
alla fine, in una sequenza ricca di colpi di scena, la sua vera natura di
innamorato pronto alla dolorosa rinuncia. Un filo sonoro suggestivo quanto
basta (una canzone che diverrà celebre: ォ As Time Goes By サ ) cuce le
varie fasi dell'aneddoto, sottolinea con puntualità i passaggi dove
compaiono i segni dell'amore infelice. Sensibile come sempre ai valori della
professionalità, l'Accademia hollywoodiana assegna nel 1943 tre Oscar: al
film, al regista, agli sceneggiatori Julius e Philip Epstein e Howard Koch.
Gli spettatori concordano, e concorderanno, con questa scelta.

Un chien andalou

Regia: Luis Bunuel. Interpreti: Pierre Batcheff, Simone Mareuil, Jaime


Miravilles, Salvador Dalì, Luis Bunuel. Produzione: L. Bunuel, Francia.
1929.

Un chien andalou, titolo che traduce in francese il titolo di una raccolta di


poesie bunueliane, rappresenta il surrealismo al cinema come meglio non si
potrebbe. Crudeltà, assurdo, sogno, idiozia: è una catena che i surrealisti
percorrono ora in un senso ora nell'altro, per mostrare quanto sia
inafferrabile (e perciò meravigliosa) l'esistenza. Bunuel in persona affila un
rasoio, tiene aperto con due dita l'occhio di una ragazza bruna, affonda la
lama nel bulbo tagliandolo orizzontalmente. Ed è come se tagliasse la luna
in cielo. L'accostamento permette ogni interpretazione, simbolica,
mitologica, antropologica, psicoanalitica, figurativa. Ma, secondo la
consuetudine surrealista, le interpretazioni non significano nulla. E il
giovane Bunuel, approdato a
Parigi dalla Spagna insieme a Dalì (qui sceneggiatore e attore, ma sempre
in sottordine), è un surrealista coerente. A 29 anni, un piccolo gruzzolo
materno che gli permette di produrre il film, ha la spavalderia dell'hidalgo
cui la vita non può negare nulla: lì, sullo schermo, la sigaretta fra le labbra,
il rasoio affilato sulla coramella, sta per compiere una spericolata infrazione.
Sa che occorre ォ uccidere サ lo sguardo per poter continuare a vivere
(l'occhio tagliato, come racconterà nelle sue memorie, è quello di un
vitellino macellato il giorno prima, le ciglia accuratamente truccate e rese ォ
umane サ ). A vivere saltando per analogia (o per contrasto) da una forma
all'altra della visione ormai negata: un giovane in bicicletta, una ragazza,
l'incontro, una mano coperta di formiche, una scatola con un coperchio a
strisce, il giovane sdraiato sul letto, che poi stringe i seni della ragazza,
trascina due pianoforti coperti da due asini decomposti e da due preti maristi
(uno è Dalì), spara al suo sosia, insegue la ragazza e alla fine passeggia con
lei (trovano la scatola misteriosa, la gettano lontano). Questo è l'effetto che i
25 minuti del film vogliono trasmettere.

Ciapaiev (Capaev)

Regia: Sergej Vasil'ev, Georgij Vasil'ev. Interpreti: Boris Babockin, Boris


Blinov, Leonid Kmit, Varvava Mjasnikova. Produzione: Lenfil'm, Unione
Sovietica. 1934.

ネ giudicato il capolavoro del realismo socialista, quella corrente letteraria


e cinematografica che svolgeva una funzione di indottrinamento ideologico
nel quadro dello sviluppo di un'arte rivoluzionaria. Finito il tempo
nell'entusiasmo creativo e delle avanguardie in sintonia con i nuovi compiti
degli intellettuali, la politica culturale del partito comunista si era irrigidita
intorno a poche, elementari parole d'ordine. Entro questo quadro, i due
Vasil'ev - non erano fratelli - raccontarono un eroico episodio della guerra
civile sulla base dei ricordi del protagonista, il commissario politico Dmitrij
Furmanov. La storia della rivoluzione aveva bisogno di eroi, e Capaev era
stato uno di questi.
Siamo nel 1917, negli Urali. Un gruppo di partigiani guidati dal co-
mandante Capaev accorre in aiuto di un reparto di bolscevichi che si stanno
ritirando incalzati dai bianchi. Li rincuora e li conduce a un vittorioso
contrattacco. Ma le cose non vanno bene, in questa banda che agisce senza
una vera guida, tanto che il partito decide di inviare sul posto il commissario
politico Furmanov. Capaev punta i piedi. I primi tempi della collaborazione
sono difficili, ma il carattere leale dei due personaggi scioglie presto le
incomprensioni. Intanto, i bianchi si riorganizzano, infieriscono contro
quelli che considerano traditori e preparano la controffensiva. Furmanov
riceve dal partito un altro incarico e deve separarsi dall'amico Capaev. I
bianchi a sorpresa sbaragliano !a resistenza del comandante e del giovane
portaordini Pet'ka (che è stato una sorta di alter ego del capo). Da un'alta
rupe i due si tuffano nel fiume e si allontanano a nuoto. Poche bracciate e
sono colpiti a morte, proprio nel momento in cui giungono i rinforzi. Film di
guerra e di avventura, Capaev potrebbe esibire soltanto il pregio di un buon
ritmo, e dello scrupoloso rispetto di tutte le convenzioni codificate dalla
narrativa popolare (e dal cinema americano) se non fosse l'esempio
stilisticamente più persuasivo del realismo socialista.
Il cielo sopra Berlino (Der Himmel ùber Berlin)

Regia: Wim Wenders. Interpreti: Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Otto


Sander, Curt Bois, Peter Falk, Teresa Harder, Bernhard Eisenschitz.
Produzione: Argos Film / Road Movies / Westdeutsche Rundfunk,
Repubblica federale di Germania. 1987.

ォ Viaggiare è l'opposto che stare a casa. E stare a casa vuol dire essere
intrappolati. サ Wim Wenders vuole esplorare il mondo, tenta di strapparsi
dalle sue radici tedesche. Ma il legame che lo congiunge al ォ Vaterland サ è
troppo forte, e vitale. Ecco, allora, il ritorno, la scoperta-riscoperta del
mondo vicino, che si crede di conoscere e non si conosce. Berlino, il cuore
della Germania. Wenders incastra nella città ancora divisa dal muro una
fiaba - metà in bianco e nero, metà a colori - che narra di angeli stufi di
essere angeli (il Damiel che si innamora di una trapezista: Bruno Ganz e
Solveig Dommartin), di angeli che resistono nella loro candida ォ
professione サ (il biondo Cassiel) e di ex angeli che sentono la nostalgia del
passato (l'attore Peter Falk venuto in Europa per un film sul nazismo).
Dall'alto di due monumenti che sono divenuti simboli di una città (il
rudere della Gedàchtniskirche distrutta nella seconda guerra mondiale e la
Siegessàule, la guglielmina ォ colonna della vittoria サ ), Damiel e Cassiel
guardano le strade e i passanti. Poi affrontano la realtà: la biblioteca
nazionale, un piccolo circo (lì si esibisce la timida Marion), il grande
spiazzo che un tempo era la Potsdamerplatz, il set dove gira Peter Falk, una
discoteca. Immateriali, gli angeli possono attraversare il muro (una
immagine banale, eppure emozionante). Quando angeli non sono più, come
Damiel che getta via la sua corazza, diventano grevi, ma appassionati e
felici come gli uomini possono essere. Falk racconta il suo passato
newyorkese, Damiel insegue dappertutto la sua Marion. Alla fine scopre che
lo attende nel luogo dov'era piantata la tenda del circo. Tutto sì rivela nuovo
e logoro nello stesso tempo. Wenders comunica lievemente una sensazione
di ォ attesa サ
(paura e speranza) che si trasforma in una fiducia razionale nell'uomo. Il
cielo (benigno) sopra Berlino, sopra il mondo.

La corazzata Potèmkin (Bronenosec Potèmkin)

Regia: Sergej M. Ejzenstejn. Interpreti: A. Antonov, Vladimir Barskij,


Grigorij Aleksandrov, Mikhail Gomarov. Produzione: Goskino, Unione
Sovietica. 1926.

Il nome di Ejzenstejn (all'epoca del film aveva 27 anni) è consacrato alla


storia del cinema soprattutto per questo racconto di un episodio della
rivoluzione del 1905. Lo Stato sovietico intendeva celebrare il ventennale
della prima esperienza rivoluzionaria nella Russia zarista. Il regista vi si
accinse con un atteggiamento rigorosamente razionale. L'ideologia del
marx-leninismo trova nella dialettica narrativa piena espressione. Due forze
sono in campo (il potere militare, mano armata dello zarismo, e i conati
rivoluzionari diffusi in alcuni strati della popolazione), il conflitto è
inevitabile: prevale quella che nel particolare momento storico è la più ォ
motivata サ.
La dialettica impone di fare sin dalle prime inquadrature una ine-
quivocabile scelta di campo. Ejzenstejn non si perita di ォ infierire サ sugli
ufficiali del Potèmkin (il monocolo del medico di bordo che esamina la
carne avariata e la giudica perfettamente commestibile) e non esita del pari a
esaltare il coraggio degli ammutinati e la solidarietà della popolazione (che
è il vero tema rivoluzionario del film: il silenzioso omaggio della folla alla
salma del marinaio e il massacro dei civili inermi sulla scalinata sono i due
momenti ォ alti サ in cui il regista trova un prodigioso equilibrio fra realismo
documentario e tensione formale).
Questa la successione dei fatti: il rifiuto del plotone di esecuzione di
sparare sugli ammutinati, la rivolta che serpeggia fra l'equipaggio, gli
ufficiali gettati a mare, lo scontro nel quale perde la vita il valoroso e
paziente Vakulincuk, la manifestazione del popolo di Odessa e l'intervento
degli ussari sulla scalinata, l'arrivo della flotta imperiale, il rifiuto della nave
ammiraglia di sparare sui ォ fratelli サ , la Potèmkin che salpa le ancore e
prende il largo, libera.
Di sequenza in sequenza, Ejzenstejn costruisce il ritmo dell'azione,
evitando divagazioni descrittive (avrebbe potuto, sfruttando la splendida
fotografia di Edvard Tissé). Sono gli anni della ォ creatività サ culturale
della rivoluzione, quando ancora non si è manifestata la stretta repressiva
che avrebbe sconvolto i rapporti sociali e corrotto i fermenti innovatori
dell'Ottobre. ネ una stagione breve, il giovane Ejzenstejn la interpreta con
meravigliosa freschezza intellettuale.

Daddy Nostalgie (Daddy Nostalgie)


Regia: Bertrand Tavernier. Interpreti: Dirk Bogarde, Jane Birkin, Odette
Laure, Emmanuelle Bataille, Carlotte Kady. Produzione: Cléa / Little Bear /
Solyfic / Eurisma, Francia. 1990.

ネ il film più terso di Bertrand Tavernier. Frutto di un curioso travaglio, è


l'omaggio del regista alla memoria di suo padre, per il quale ha conservato
un'autentica venerazione. Il modello è la figura del padre della moglie di
Tavernier, che trova nello splendido Dirk Bogarde il creatore di questo
daddy di cui ha nostalgia l'attiva e simpatica sceneggiatrice Caroline. La
madre avverte la figlia che il quasi dimenticato daddy, uomo di affari
inglese sempre in giro per il mondo, ha subito una operazione al cuore e
verrà a trascorrere la convalescenza a Bandol sulla Costa azzurra. Caroline
accorre, ritrova la madre maniaca di troppe cose (le preghiere, il papa, la
pettinatura, le sigarette) e, soprattutto, un padre contegnoso di cui aveva
quasi perduto la memoria. Il mare luminoso sotto la sferza del mistral
accoglie la tenera e dolorosa ォ riconciliazione サ fra padre e figlia, la loro
complicità alle spalle dei medici, il distacco che parrebbe temporaneo
(Caroline torna a Parigi per un lavoro). Poco dopo, la ritroviamo alla
stazione deserta (le ferrovie sono in sciopero). Dovrà partire il mattino dopo
con il primo aereo. Gira tutta la notte per la città, pensando al padre che l'ha
lasciata.
Tavernier evita (qualche volta abilmente aggira) il pericolo dell'in-
tenerimento giocando sul non detto, costringendo gli attori alla massima
sobrietà (madre e figlia - Odette Laure e Jane Birkin - non sbagliano una
intonazione) e sviluppando l'azione sui tempi morti. Non accade mai nulla,
la sofferenza è spinta sul fondo. Domina la luce, sfavillante sulla Costa e
nella villa che vi si affaccia, cupa ma non tetra nella lunga notte parigina del
finale (Denis Lenoir è l'operatore).

Il Decalogo (Dekalog)

Regia: Krzysztof Kieslowski. Interpreti: Henryk Baranowski, Wojciech


Klata, Krystyna Janda, Daniel Olbrychski, Maria Pakulnis, Adrianna
Biedrzyiiska, Miroslaw Baka, Krzysztof Globisz, Grazyna Szapolowska,
Olaf Lubaszenko, Anna Polony, Maria Koscialkowska, Teresa Marczewska,
Ewa Blaszcyk, Jerzy Stuhr, Zbigniew Zamachowski. Produzione: Poltel,
Polonia. 1988-89.

Ogni comandamento un film di un'ora. L'operazione, in origine televisiva,


diventa cinematografica quando si allestiscono cinque spettacoli di due ore
ciascuno. Kieslowski è riuscito, con l'assistenza dello sceneggiatore-giurista
Piesiewicz, a comporre un panorama delle contemporanee infrazioni della
legge morale: un panorama agghiacciante, che non concede nulla alla
speranza. Io sono il Signore dio tuo, non avrai altro dio fuori di me narra di
un padre scienziato che scioccamente ォ sfida サ Dio ed è punito con la
morte del figlioletto amatissimo. Non nominare il nome di Dio invano
espone il caso di una violinista, del marito affetto dal cancro e dell'amante
di cui la donna è incinta: se il marito morisse lei potrebbe tenere il bambino,
se no, no (il marito guarirà e terrà il figlio come suo). Ricordati di
santificare le feste vede un tassista costretto, la notte di Natale, ad
accompagnare una sua ex amante alla ricerca del marito scomparso (ma la
donna voleva soltanto non essere sola). Onora il padre e la madre è la storia
di un padre e di una ragazza che, morta la madre, scopre di non essere figlia
di quell'uomo, e accetta la situazione. Non uccidere mostra come la società
giustizi un giovane assassino, strangolandolo com'egli ha fatto con la sua
vittima. Non commettere atti impuri è la iniziazione sessuale di un ragazzo.
Non rubare è la storia di due sorelle che sono in realtà una la madre
dell'altra. Non dire falsa testimonianza rievoca un episodio di viltà di cui si
macchiò durante la guerra una docente di filosofia rifiutando di salvare dal
Lager una bambina ebrea. Non desiderare la donna d'altri espone una crisi
coniugale provocata dalla impotenza del marito e risolta con il sacrificio
della moglie. Non desiderare la roba d'altri è una beffa del destino contro
due fratelli che perdono una fortuna dopo aver accettato il baratto di un rene
contro la cessione di un francobollo necessario a completare una ricchissima
collezione. Ferocia ideologica, eleganza formale e radicale scetticismo
presiedono alla costruzione di un ritratto spietato del mondo. Kieslowski è
un laico ossessionato dal peccato.

Dies irae (Vredens dag)

Regia: Cari Theodor Dreyer. Interpreti: Lisbeth Movin, Thorkild Roose,


Sigrid Neeiendam, Preben Lendorff, Albert Hoeberg, Olaf Hussing, Harald
Holst, Anna Svierkier, Sigurd Berg. Produzione: Palladium, Danimarca.
1943.

La carriera di Dreyer subisce una interruzione di dieci anni, dopo l'in-


successo di Vampyr (1932). Riprende inopinatamente nel 1943, nel periodo
più cupo della occupazione tedesca della Danimarca. Il tema è sempre
quello della intolleranza, contro cui il regista razionalmente si schiera.
Come per La Passion de Jeanne d'Arc (1928), il perno del discorso è una
donna accusata di stregoneria. La santa Giovanna accetta il rogo per non
tradire il suo paese e la sua coscienza. La peccatrice Anne, seconda moglie
del vecchio pastore Absalon e amante del giovane Martin, figlio di lui, si
arrende dinanzi alle accuse della suocera e ammette la propria, presunta
colpa. ネ davvero una strega, questa dolce persona che ha trasgredito per
amore cercando di sfuggire alla aridità di un ambiente bigotto? Certo che
no, come non lo era Giovanna. Ma Anne alla fine, quando i chierichetti
salmodiami, voci bianche acutissime come pugnali, le passano accanto,
cede. Un lampo nei suoi occhi rivela l'inconoscibile. Si arrende,
silenziosamente confessa. E poi parla, dicendo di avere ucciso il marito (il
che è vero, se si ricorda che gli rivelò il suo amore per il figlio e se lo vide
cadere davanti, fulminato). C'è, forse, orgoglio nella confessione. E
l'orgoglio di una ォ strega サ cosciente di sé, come si poteva immaginare in
quel 1623 in cui si svolge l'azione (ricavata da un dramma di Hans Wiers-
Jensen)? Dreyer mostra dolore e pietà per il personaggio. Non così aveva
fatto con Giovanna. Le luci sono morbide, lenti i movimenti della macchina
da presa. Lisbeth Movin infonde nel personaggio sensualità e affanno. E
una vittima che si ribella autopunendosi. Una singolare, commovente figura
di donna.

Dillinger è morto

Regia: Marco Ferreri. Interpreti: Michel Piccoli, Anita Pallenberg, Annie


Girardot, Carol André. Produzione: Pegaso Film, Italia. 1969.

Marco Ferreri ottiene il meglio dalla sua vena di favolista quando riesce a
rarefare il racconto e a spingerlo nei cieli dell'astrazione e dell'assurdo.
Dillinger è morto costituisce l'esempio più tipico di questo atteggiamento:
ha la coerenza del prodotto perfettamente articolato e compatto. Un attore di
grande sapienza professionale, espressivo nella sua voluta ォ atonicità サ ,
sostiene la vicenda filiforme guidandola verso la strampalata, aerea
conclusione. Lui, Michel Piccoli, è l'ingegnere che fabbrica a Roma
maschere antigas. Una sera, annoiato dalle chiacchiere di un collega, torna a
casa, snobba la cena che gli è stata preparata, si cucina un risotto come si
deve, scopre una vecchia pistola avvolta in un giornale (è l'edizione in cui si
annunciò la morte di Dillinger), la ingrassa, rimettendola in funzione,
amoreggia con la cameriera, sale in camera da letto dove la moglie dorme, la
uccide sparandole attraverso il cuscino. Al mattino lascia la sua bella casa
Kitsch e si dirige verso il mare. Scorge un veliero dal quale i marinai calano
in acqua il corpo del cuoco testé morto. Si presenta al capitano e al
proprietario (che è una procace ragazzina). Sarà il nuovo cuoco. Il veliero fa
rotta per Tahiti.
Ferreri interpreta in questo modo la contestazione sessantottina che lo
circonda. Lo sberleffo di Dillinger è morto sarebbe un piccolo scherzo di
gusto dubbio se non si presentasse in veste così algida, inamidata e ォ
vuota サ e se non contenesse un ragionamento intorno alla oppressione delle
immagini (il cinema, la televisione, la pittura) sulla vita borghese. I colori
del film si impastano con i colori dei super 8 girati durante le vacanze, con i
documentari tv e le presentazioni (idiote) dei film sul piccolo schermo: una
insalata inquietante, dominata dalla pistola dipinta di rosso con pallini
bianchi che servirà a uccidere, dopo tanti anni di letargo in un ripostiglio.
L'inquietudine nasce dalla indifferenza e dalla ineluttabilità.

La dolce vita

Regia: Federico Fellini. Interpreti: Marcello Mastroianni, Anita Ekberg,


Yvonne Fourneaux, Anouk Aimée, Alain Cuny, Annibale Ninchi, Valeria
Ciangottini, Mafali Noèl, Polidor, Nadia Grey, Jacques Sernas. Produzione:
Riama Film / Pathé, Ilalia. 1959.

Divenuta una figura del linguaggio, un simbolo addirittura, ovunque nel


mondo (e nell'originale italiano), La dolce vita riassume in sé le
caratteristiche del trapasso, dalle macerie della guerra al mondo rinato.
Forse, una illusione. O una speranza. ネ così, infatti, lo sguardo felliniano,
opportunamente bilanciato fra il sentimentalismo di Tullio Pinelli e la ironia
(perfida, a volte) di Ennio Flaiano. Fellini ottiene con le immagini - così
esatte, staccate e nette - il giusto equilibrio fra scetticismo e fiducia, e offre
allo spettatore di questa fase nuova dell'Italia in espansione (e non soltanto
dell'Italia) un simpatico autoritratto.
Portavoce dell'italiano tipico è un giornalista di modesto talento e di
qualche intraprendenza mondana, impicciato in una relazione asfissiante,
spregiudicato quel tanto che gli permette di abbindolare gli altri ma di
esserne anche abbindolato. Vive praticamente sui marciapiedi di Via
Veneto, in simbiosi con un fotografo (ォ paparazzo サ lo chiama), per i suoi
articoli di piccolo giornalismo. Frequenta le feste dei nobili, partecipa a un
ricevimento in casa di un intellettuale (personaggio un poco finto e forzato)
ed è testimone della tragedia che lo coinvolge (uccide i figli e si suicida),
accoglie una diva americana giunta a Roma per il solito film mitologico,
riceve la visita del padre romagnolo (personaggio vivo e vero: il più
autentico di tutti), si libera dell'amante ossessiva, cambia mestiere e assume
l'ufficio stampa di un attorucolo, si fa trascinare in un'orgia a Ostia e
termina la sua misera avventura sulla riva del mare, davanti a un pesce
mostruoso che incute soggezione ai suoi amici, mentre cerca di capire quel
che gli sta gridando una ragazzina dall'altra parte di un canale.
Una scoperta sensazionale: del cinema italiano, di un autore già amato
(per La strada e Le notti di Cabiria), di un paese singolare, di una mitica
via. Nino Rota sigla il film, armoniosamente, con la sua musica insinuante.

La donna del tenente francese (The French Lieutenant's Woman)

Regia: Karel Reisz. Interpreti: Meryl Streep, Jeremy Irons, Leo McKern,
Lynsey Baxter, Patience Collier, Peter Vaughan, Emily Morgan.
Produzione: Jupiter Films, Gran Bretagna. 1981.

Se numerosi sono i film che mischiano cinema e vita (da Viale del tra-
monto, 1950, di Billy Wilder, Effetto notte, 1973, di Francois Truffaut),
nessuno è più chiaro di questa ォ sovrapposizione サ abilissima operata da
Karel Reisz, uno dei mentori del ォ free cinema サ britannico degli anni
Cinquanta, autore fra l'altro di Sabato sera, domenica mattina (1960) e
Morgan matto da legare (1966). Harold Pinter adatta per lui un romanzo di
John Fowles, escogitando le storie parallele di Anne e Mike, due attori, e di
Sarah e Charles, i personaggi che essi interpretano nel film La donna del
tenente francese, dramma in costume (Inghilterra 1867) di un amore
contrastato. Il film nel film costituisce il vero asse portante dell'azione,
mentre il ォ controcanto サ della vicenda contemporanea solo alla fine
acquista il dovuto - e atteso - rilievo.
Charles, un malacologo, trascura la fidanzata, per seguire una donna sola
che gode di un'ambigua fama: si dice che sia stata abbandonata da un
tenente francese e che per questo sia uscita di senno. Tutti la evitano, ed è
proprio questo che attrae l'intellettuale Charles. In una cittadina sulla riva
del mare, nel sud dell'Inghilterra, i due si incontrano, spesso sul molo
battuto dalle onde (l'operatore Freddie Francis sfodera una affascinante
tavolozza technicolorata). Sarah trasgredisce ogni regola del costume
vittoriano, perde il posto di governante presso una famiglia borghese, è
aiutata da Charles ed è da lui raggiunta a Exeter. E qui la ォ disonorata サ
concede al bel Charles la sua verginità. Diventano amanti, come lo sono
Anne e Mike sul set. Tornato da un viaggio a Londra, Charles non trova più
Sarah. Sul set Anne inventa pretesti per star lontana da Mike (sono entrambi
sposati, la situazione è imbarazzante). Charles incontra finalmente Sarah,
che si è rivelata una pittrice di talento. Le offre di sposarla, ma la donna non
accetta: vivrà sola, sarà lei a rifiutare il mondo dopo che il mondo l'ha
rifiutata.
Al ricevimento per la fine delle riprese Anne è raggiunta dal marito e se
ne va, salutando Mike appena con un cenno. La schematicità del
parallelismo è riscattata, incantevolmente, dall'apparato figurativo (l'uso dei
teleobiettivi e dei controluci rivela una padronanza assoluta del linguaggio)
e dalla intensa recitazione di Meryl Streep e di Jeremy Irons.

Donne sull'orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque di


nervios)

Regia: Pedro Almodóvar. Interpreti: Carmen Maura, Antonio Banderas,


Julieta Serrano, Maria Barranco, Rossey de Palma, Guillermo Montesinos,
Fernando Guillén, Produzione: El Deseo / Lauren Film, Spagna. 1988.

Dalla Spagna giunge a Venezia, nel 1988, una sorpresa stuzzicante. ネ la


rivelazione di un regista figlio della ォ movida サ , a sua volta figlia della
libertà pacificamente ottenuta più che conquistata. ネ l'irruzione sulla scena
internazionale di un talento visionario e di un furore comico che discendono
dal cinema stesso, perché ne sono il prodotto e lo specchio (i protagonisti -
Pepa e Ivan - sono doppiatori, il film rifà il verso a molti generi
cinematografici). Quella di Almodóvar è una commedia di singolari
personaggi: oltre a Pepa al centro dell'azione (Carmen Maura ha scatto e
ritmi giusti), ci sono giovani di strampalata estrazione (un figlio di Ivan, la
sua fidanzata, una ragazza brutta e secca che tenta il suicidio, un gruppo di
terroristi sciiti, un tassista ossigenato che mette a disposizione dei clienti
servizi d'ogni genere. Una vecchia pazza con la pistola in pugno, una
amante femminista di mestiere avvocato, e poliziotti svogliati completano il
quadro).
Almodóvar snocciola gli effetti comici con bella progressione. La molla
risolutiva è costituita da un gazpacho con sonnifero che Pepa la bere a tutta
la compagnia piombatale in casa. Si addormentano, ma non si addormenta la
vecchia pazza né, ovviamente, la protagonista. All'aeroporto si ha la resa dei
conti (la vecchia, che vent'anni prima era stata la moglie di Ivan, spara ma
non colpisce il ォ fedifrago サ in fuga; Pepa, abbandonata da Ivan e fino a
questo momento disperata, rinsavisce). A casa, i dormienti si risvegliano, e
ogni cosa è diversa: scherzo della sorte, e della vita.

2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey)

Regia: Stanley Kubrick. Interpreti: Keir Dullea, Gary Lockwood, William


Sylvester, Daniel Richter, Léonard Rossiter, Margaret Tyzak, Robert Beatty,
Sean Sullivan. Produzione: MGM, Gran Bretagna / USA. 1968.

Dalla remota preistoria, quando l'uomo non era ancora comparso sulla
terra, al futuro: il salto è facile e del tutto credibile. Com'è credibile il
passaggio dalla clava della scimmia (la scoperta di uno strumento di offesa,
frutto di un cervello ormai umano) all'astronave in volo verso lo spazio.
Strani eventi accadono in questo 2001. Un monolito nero emette sibili di cui
non si comprende la natura. Si intuisce che il suono proviene dalla luna ma
che solo su Giove risiede la chiave del mistero. Così gli scienziati concordi -
gli occidentali, i sovietici -decidono di inviare sul lontano pianeta
un'astronave pilotata dal computer Hal 9000 e servita da due astronauti.
Nulla accadrebbe se i due uomini non dubitassero della precisione del
computer, il quale si vendica e ingaggia con loro una lotta mortale. Perderà,
finendo disattivato (morendo canta una filastrocca infantile), ma anche gli
uomini saranno sconfitti: uno precipita nel nero spazio, l'altro è inghiottito
da un vortice di luci e di suoni che lo scaraventa dentro un letto rococò in
cui invecchierà a vista d'occhio e morrà, trasformandosi - alla presenza del
monolito - in un feto che guarda verso lo spettatore.
Molti significati si possono attribuire a questa fiaba emozionante. Ku-
brick, reduce dal sarcastico pessimismo del Dottor Stranamore (1964), si
cimenta con una girandola di meravigliosi (e ingenui) effetti speciali e di
filosofemi (il futuro è il passato, la vita è la morte, il destino è imper-
scrutabile ma l'uomo non cesserà mai di scrutarlo e di interrogarsi). Il
mondo - questo mondo scosso dalla contestazione - non offre risposte.
Manipolando immagini, colori e musiche (straordinario lo choc ottenuto con
le prime battute di Also sprach Zarathustra e con il più celebre dei valzer
straussiani), il regista rende sopportabili, e anche gradevoli, le modeste
fumisterie intellettuali di Arthur Clarke, autore del testo.

Easy Rider: libertà e paura (Easy Rider)


Regia: Dennis Hopper. Interpreti: Peter Fonda, Dennis Hopper, Antonio
Mendoza, Jack Nicholson, Phil Spector, Luana Anders. Produzione: Pando
Company / Raybert Productions / Peter Fonda, USA. 1969.

Il trionfo (inatteso, incredibile) della irregolarità. Negli anni della


contestazione e del malessere giovanile emerge, per una sola volta, il
fenomeno di un attore rissoso, amico di James Dean, personalità difficile e
infelice. Non lo conosceva quasi nessuno. Lui, Dennis Hopper, riversò la
rabbia che aveva in corpo in un film girato con 400 mila dollari e la
collaborazione di Peter Fonda. Ne venne fuori Easy Rider, apologia
sfacciata (e patetica) della cultura hippy. Negli Stati Uniti, ma soprattutto in
Europa, il film raccolse in breve tempo 40 milioni di dollari. Il reietto
Hopper si trovò al centro dell'attenzione ma fu così presuntuoso da
dilapidare in un sol colpo, con il film successivo, il capitale fortunosamente
accumulato. Per dieci anni si esilierà in Messico, in compagnia della droga
che aveva esaltato con Easy Rider.
Sull'onda delle musiche in voga (Bob Dylan soprattutto), due ragazzi
partono per New Orleans a bordo dei loro chopper. Nel serbatoio d'uno dei
due hanno infilato un tubo con la droga. Attraversano mezza America,
fanno incontri strani, si rifugiano in una comunità di emarginati.
Riprendono il cammino, finiscono in galera insieme a un avvocato alcolista
(un Jack Nicholson particolarmente ispido ed eccessivo). Rimessi in libertà
ripartono, subiscono un'aggressione di facinorosi cui gli hippies sono
costituzionalmente ostici, lasciano sul terreno il povero avvocato, arrivano
alla meta e partecipano a tutti i riti orgiastici del carnevale. Sulla via del
ritorno si imbattono in due occhiuti amanti dell'ordine, a bordo di un
camion. Uno dei due imbraccia il fucile e li ammazza ridendo. La macchina
da presa si stacca dai chopper in fiamme e si alza nel cielo. Laggiù si
continua a vedere un bagliore rossastro: erano due vite umane.
Il film è privo di vera struttura, si disperde nei meandri delle allucinazioni
(molte sequenze sono girate in 16 mm, e poi ingrandite e sgranate), ma
qualcosa di autentico - di profondamente ォ eversivo サ - riesce a
trasmetterlo.

Ecco l'impero dei sensi (Ai no korida / L'empire des sens)

Regia: Nagisa Oshima. Interpreti: Eiko Matsuda, Tatsuya Fuji, Aoi


Nakajima, Taiji Tonoyama, Kanae Kobayashi. Produzione: Argos Films /
Oshima Productions, Francia / Giappone. 1976.
In un momento di crisi del cinema nipponico, Nagisa Oshima accetta la
proposta del distributore francese dei suoi film e affronta l'impresa di uno ォ
scandalo サ radicale: affondare le mani nell'erotismo, esplorarlo e
consumarlo sino al delirio. Realizza due opere parallele ma autonome,
ambientate in periodi diversi: la prima -Ai no korida -si svolge nel 1936, la
seconda -Ai no borei /L'empire de la passion -alla fine dell'Ottocento; la
prima a Tokyo, la seconda in campagna, e lo ォ scandalo サ è davvero
enorme, in Giappone e, soprattutto, in Occidente:Ai no korida piomba su un
pacifico festival di Cannes, nel 1976, Ira platee pur avvezze alle
provocazioni di Bertolucci - Ultimo tango a Parigi (1974) - e di Borowczyk
- Contes immoraux (1974), La bète (1975).
Il significato del primo film (dei due il migliore) è per un verso il con-
trasto fra la materia brutalmente esibita e la sontuosa eleganza della ォ
confezione サ a colori e per un altro la descrizione della irrimediabile
solitudine in cui precipitano i protagonisti, il proprietario di un albergo
(Kichizo, interpretato da Tatsuya Fuji) e la cameriera Sada (Eiko Matsuda).
I due si accoppiano ovunque, freneticamente. Sada trascina Kichizo in orge
furiose, lo induce a farsi a poco a poco strangolare per avere orgasmi più
lunghi e forti. E un metodico abbandonarsi alla morte, che sopraggiunge
nell'ultimo accoppiamento. Sada ha ucciso Kichizo. Gli taglia i genitali e
scompare.
Cinque anni prima, con Gishiki (La cerimonia, 1971), Oshima osservò i
perversi riti di una famiglia. Qui descrive, sottolinea, analizza
comportamenti umani in situazioni estreme. Se il sadismo è certo una
componente fondamentale dello sguardo di questo giapponese, figlio di un
paese tormentato, si può supporre che tanta efferatezza derivi al regista da
una dura delusione esistenziale e politica, nonché dalle difficoltà incontrate
per riuscire a produrre i suoi film. Ai no korida è una vendetta e una sfida.

Family Life (Family Life)

Regia: Ken Loach. Interpreti: Sandy Ratcliff, Bill Dean, Grace Cave,
Malcom Tierney, Hilary Martyn, Michael Riddai. Produzione: Anglo Emi
Films, Gran Bretagna. 1971.

All'epoca della fortuna dell'antipsichiatria un film come Family Life, così


metodico, svolge una funzione positiva. Ken Loach, come sempre attento
alle trasformazioni della politica sociale, ricorre a un originale televisivo di
David Mercer (la BBC assolve bene ai suoi compiti informativi, anche se
non più con l'ampiezza di qualche anno prima) per tracciare il ritratto di una
donna vittima della famiglia e delle istituzioni. Il procedimento è quello
consueto nel regista: accostare gli uni agli altri frammenti di realtà, farli
reagire fra loro, estrarre dalla giustapposizione un filo narrativo quasi
impercettibile e consegnare allo spettatore uno ォ spaccato サ della società
britannica che contenga informazioni verificabili piuttosto che spunti
polemici. Loach è fortemente critico verso le istituzioni del suo paese ma
conserva il senso del riserbo e delle proporzioni: il caso singolo (qui, una
ragazza schizofrenica) va trattato come tale, senza indebite estensioni.
Questo può riuscire a un regista che possegga il dono naturale del
understatement e non rinneghi i doveri dell'onestà intellettuale.
Janice vive in una famiglia ォ sbagliata サ (e perfettamente integrata nella
società). Il padre è un disgraziato che maschera dietro la prepotenza la
propria incapacità di vivere. La madre ha piegato la piccola Janice alle sue
ambizioni, fulminandola nella volontà e nella mente. Soltanto la sorella
cerca di capire, ma non ha spazio per muoversi. Sballottata da un ospedale
all'altro, nelle mani di psichiatri che distruggono quel che il primo dei
medici aveva pazientemente ottenuto, con metodi innovativi, frustrata
nell'amicizia con uno studente, tenta di ribellarsi. Con ipocrita sollecitudine
ma con fermo autoritarismo (è l'aspetto della società che Loach descrive con
dolorosa esattezza, e grande forza espressiva), le autorità riconsegnano
Janice alla famiglia. Sarà la definitiva condanna. Tutto sembra normale e
logico, in questa vita di famiglia. E tutto è mostruoso. Nella sua compostez-
za, è un film dell'orrore.

Il fascino discreto della borghesia (Le charme discrei de la bourgeoisie)

Regia: Luis Bunuel. Interpreti: Fernando Rey, Paul Frankeur, Delphine


Seyrig, JeanPierre Cassel, Stéphane Audran, Bulle Ogier, Julien Bertheau,
Milena Vukotic. Produzione: Greenwich Films / Jet Film / Dear, Francia /
Spagna / Italia. 1972.

Il fascino, o l'orrore (discreti sempre, l'uno e l'altro), della borghesia. E il


fascino di un surrealismo recuperato quarant'anni dopo, da un narratore di
ossessioni. Un chien andalou (1929) e L'àge d'or (1930) si incarnano nei
personaggi di un ambasciatore sudamericano, di due coppie bene assortite (i
Thevenot e i Sénéchal) dedite al traffico della droga, di una terrorista, di una
cognata stravagante (dei Thevenot), di un battaglione di soldati con il loro
colonnello e di altri minori (ma tutti egualmente significativi nella
sarabanda orchestrata da Bunuel). Non c'è alcun senso nel caos del film o -
il che è lo stesso - ce ne sono molti. Ma conta il meccanismo, non il senso.
Il meccanismo è quello degli atti mancati. Questa bella gente - così
raffinata, così elegante - vorrebbe cenare. Ma non ci riesce perché una serie
micidiale di contrattempi (secondo logica surrealista: illogica in apparenza,
ferreamente logica in realtà) blocca i gesti e le situazioni nel momento
culminante. La forte (in superficie) armonia tra i personaggi si dissolve ogni
volta per la irruzione di strane figure incongrue (ma perfettamente consone
con l'insieme), come un giardiniere, un vescovo, un ispettore di polizia. Un
invito a cena si trasforma nella vana ricerca di un ristorante (il ristorante
scelto è stato adibito a camera ardente per il proprietario testé defunto), poi
nella organizzazione perigliosa di una festa, in divagazioni scandalose
vissute in sogno, nell'intervento prima della polizia (c'è, appunto, di mezzo
la droga) e infine di un gruppo di guerriglieri. Niente di male, si può sempre
ricominciare, fra sogno e realtà. Bunuel accarezza il suo tema - le bassezze
di una classe sociale che ha il potere ma non la felicità -con gesti graffianti
che ridanno vita, miracolosamente, al vecchio surrealismo. Gli attori si
divertono con lui.

La febbre dell'oro (The Gold Rush)

Regia: Charlie Chaplin. Interpreti: Charlie Chaplin, Mack Swain, Tom


Murray, Georgia Hale, Betty Morissey, Malcolm White. Produzione: United
Artists, USA. 1925.

Dopo II pellegrino (1923), prima di Il circo (1928) e tralasciando La


donna di Parigi che affronta un discorso laterale, Chaplin si cala
compiutamente dentro la realtà: la realtà dell'America, del capitale,
dell'individuo. Il piccolo uomo rissoso che è sempre stato mostra ambizioni
più vaste. Esce dal ghetto della città, emigra nel favoloso nord dell'Alaska,
ai tempi (fine Ottocento) della corsa all'oro. Si immerge nello spirito del
mondo e dell'uomo nuovi. Orizzonti impervi lo accolgono (le riprese hanno
luogo nel Nevada, durano 14 lunghissimi mesi).
Lui, Charlot, non cambia. Ma il mondo circostante lo opprime, e lo esalta,
molto più di prima. I pericoli della cosiddetta natura selvaggia, anzitutto:
inseguito da un orso, raggiunge una capanna occupata da un bandito, si
salva dalle prepotenze del bruto (c'è sempre un bruto nei film chapliniani)
ma è assalito dai morsi della fame, lui e l'amico Big Jim. La sofferenza
atroce provoca allucinazioni. Se non c'è altro, si possono anche mangiare
suole di scarpa e succhiare chiodi come fossero ossi di pollo. Poi, i pericoli
dell'amore, in una atmosfera (insolita) da far west. Nel saloon l'avvenente
Georgia civetta con l'omino per ingelosire l'innamorato e finge di accettare
il suo invito al pranzo di Natale. Naturalmente, non verrà e l'omino si
consolerà facendo danzare due panini infilati nelle forchette. Infine, i
pericoli della ricchezza. Big Jim ha individuato la miniera d'oro, che si trova
sull'orlo di un precipizio. Non sarà facile salvarsi. Lungo la via del ritorno,
ricchi sfondati, l'omino e Big Jim incontrano sulla nave la bella Georgia. Gli
ultimi equivoci, e sarà amore, fra la ragazza e l'impellicciato capitalista.
Charlot è adorabile nella sua disarmata ferocia. Chaplin infila gag e sorprese
comiche (l'orso, il bandito, il pasto immaginato, la danza dei panini, la
capanna sul baratro) con ritmo essenziale. The Gold Rush è il suo film più
schietto.

Fino all'ultimo respiro (タ bout de souffle)

Regia: Jean-Luc Godard. Interpreti: Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg,


Daniel Boulanger Vital, Jean-Pierre Melville. Produzione: Georges de
Beauregard, Société Nouvelle du Cinema, Francia. 1960.

All'alba degli anni Sessanta il cinema affronta una riflessione che lo


condurrà lontano dalle sponde rassicuranti del periodo classico. Jean-Luc
Godard di questa riflessione è uno degli alfieri. Anzi, ne è il vero,
spregiudicato e aggressivo portabandiera. Il protagonista di タ bout de
souffle, modesto delinquente marsigliese, è stato a Roma, a Cinecittà (lui
dice ォ Cinecittà サ ). ネ in viaggio per Parigi. La polizia lo insegue per
contestargli una infrazione. E lui ammazza il poliziotto che l'ha fermato. A
Parigi va in cerca di soldi (che non trova, i complici sono peggiori di lui) e
di una ragazza, l'americana Patricia (che trova e che sarà la causa della sua
rovina). Morirà abbattuto dai gendarmi, sotto gli occhi di Patricia che l'ha
denunciato. Prima di spirare le dirà ォ Dégueulasse サ (schifosa), ma lei,
straniera, non capirà.
タ bout de souffle è non solo il film d'esordio di Godard. ネ anche
l'emblema più brillante del movimento che prese il nome, in opposizione al
cosiddetto cinema de papa (quello, dominante, dei Clair, dei Carnè, dei
Clouzot, degli Autant-Lara), di ォ nouvelle vague サ : una nuova ondata di
cineasti giovani, poveri, spavaldi, avvezzi per formazione a ォ sezionare サ il
linguaggio, a svelare i meccanismi (ormai logori) della narrazione. Buttano
all'aria le regole, scardinano il montaggio, girano negli ambienti reali
improvvisando, disseminando nelle loro opere icone del cinema che amano
(Godard cita e riverisce Humphrey Bogart), s'infischiano della ォ pulizia サ
fotografica, recuperano la veneranda punteggiatura del cinema muto. About
de souffle suscita scandalo. Tutti capiscono che è una follia, pochi ne
intuiscono la genialità, quasi nessuno si rende conto che - fra il ciondolare
dell'impagabile Belmondo e gli stupori di Jean Seberg - sta nascendo un
nuovo cinema.

Gioventù, amore e rabbia (The Loneliness of the Long Distance Runner)

Regia: Tony Richardson. Interpreti: Tom Courtenay, Michael Redgrave,


Avis Bunnage, Peter Madden, James Bolan, Julia Foster, Topsy Jane.
Produzione: Woodfall / Bryanston-Seven Arts, Gran Bretagna. 1962.

ネ uno dei prodotti più belli di quel battagliero ォ free cinema サ che, fra
gli anni Cinquanta e Sessanta, smosse le acque della cultura britannica. Alla
sua origine c'è un acre romanzo di Alan Sillitoe, che riesce a trasferire
intatto nella sceneggiatura il furore della pagina letteraria. E Tony
Richardson, aiutato dalla intelligenza di un operatore come Walter Lassally
(mai un compiacimento luministico nella fotografia sporca, terrosa,
impastata), crea intorno al personaggio centrale - un giovane delinquente
finito in riformatorio (credibile ed efficace Tom Courtenay) - l'ambiente più
tetro e sordido immaginabile. Non è soltanto una prigione, è un ォ Lager サ.
Questi ragazzi del ォ free cinema サ, così bastonati e furiosi, non hanno altra
aspirazione che ribellarsi, costi quel che costi.
Anche Colin Smith, vissuto malamente in una famiglia che gli è sempre
stata estranea (una madre che, dopo la prematura morte del marito, sposa un
piccolo cialtrone), si ribella. In una maniera singolare. Quando il direttore
del riformatorio (un eccellente Michael Redgrave) scopre in lui doti di
fondista, lo iscrive ad una gara cui partecipano carcerati e studenti. Colin si
allena scrupolosamente e arriva preparato al giorno della sfida. Partono in
gruppo, girando per i campi, nella bruma e nel fango. Colin si trova in testa
dopo un poco. Ma nel momento in cui, stralunato, vede il traguardo, capisce
che vincere significa dar ragione al direttore e alla società che lo ha espresso
e, dunque, alla repressione di cui i giovani sono vittime. Si ferma e si lascia
superare dagli avversari. Una ribellione paradossale, eppure significativa.
Come nella fotografia, non ci sono fronzoli né nello sviluppo della storia -
lineare, con un grande flashback centrale - né nella recitazione. Lo stile,
come l'ideologia, dev'essere controcorrente.

La grande illusione (La grande illusion)

Regia: Jean Renoir. Interpreti: Pierre Fresnay, Jean Gabin, Marcel Dalio,
Erich von Stroheim, Carette, Dita Parlo, Jean Dasté, Jacques Becker, Gaston
Modot. Produzione: Les réalisations d'art cinématographique, Francia.
1937.

Passione, ingenuità, disincanto di matrice anarchica sono le componenti


del film. Sostengono lo sviluppo della vicenda con la necessaria energia ma
anche con eccessi sentimentali al limite della sopportazione. Renoir, regista
romantico e incontinente, ha un senso fortissimo delle differenze di classe
(che, nell'intimo, approva pur condannandole razionalmente). Sembrano
contraddizioni, quelle che si manifestano alternativamente nelle sequenze
attraverso le quali i personaggi - i prigionieri francesi, il comandante
tedesco, la contadina che accoglie i fuggiaschi evasi dalla fortezza -
testimoniano l'ingiustizia della guerra. L'ingiustizia più che l'orrore: Renoir
gira quando già si profila la possibilità di un nuovo conflitto ma si sente
lontano dall'antimilitarismo furente, per esempio, del Milestone di All'ovest
niente di nuovo (1930).
Nel campo di concentramento tedesco di Hallbach due ufficiali francesi -
il nobile capitano Boieldieu e il tenente Maréchal - raggiungono altri
prigionieri di diverse nazioni. Tentano la fuga scavando una galleria, ma
quando ormai sono a buon punto vengono trasferiti nella fortezza di
Winterborn comandata dall'aristocratico Rauffenstein, colui che li abbatté in
un duello aereo e che ora, invalido, s'è dovuto assumere il compito del
carceriere. Maréchal, Boieldieu e un terzo prigioniero (l'ebreo Rosenthal)
cercano di evadere. Ce la faranno, stavolta, Maréchal e Rosenthal, perché
Boieldieu coprirà loro le spalle e sarà ucciso dal disperato Rauffenstein. I
due saranno accolti da una contadina tedesca rimasta sola dopo la morte del
marito in combattimento. Fra lei e Maréchal la simpatia si trasforma in
amore. Ma la fuga deve riprendere. Inseguiti da una pattuglia, i due raggiun-
gono la frontiera svizzera e la libertà.
Gabin, Stroheim, Dalio, Dita Parlo, (nel sommesso personaggio della
contadina), e l'impeccabile Pierre Fresnay (monocolo nell'orbita, sorriso
sulle labbra), danno verità anche ai passaggi più ovvii, come lo scavo del
tunnel o la salvezza ottenuta all'ultimo istante. La grande illusion ottiene
una coppa alla Mostra di Venezia del 1937 (e i fascisti insorgono).
Heimat (Heimat)
Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza (Die zweite Heimat)

Regia: Edgar Reitz. Interpreti: (Heimat) Willi Burger, Gertrud Bredel,


Riidiger Weigang, Karin Rasenack, Dieter Schaad, Marita Breuer, Peter
Harting; (Die zweite Heimat) Henry Arnold, Salome Kammer, Franziska
Traub, Daniel Smith, Anke Sevenich, Michael Stephan, Hanna Kohler.
Produzione: Edgar Reitz Film Produktion / Westdeutsche Rundfunk,
Germania. 1984,1992.

Un singolare caso: le due serie di Heimat, apparse a distanza di otto anni,


ottengono un clamoroso successo alla tv tedesca (dodici milioni di spettatori
la prima) e poi trasmigrano trionfalmente sugli schermi delle sale, accorpate
secondo convenienza di programmazione. Singolare è il caso anche perché
Edgar Reitz, uscendo da un grave insuccesso cinematografico, pensa di
riproporre all'attenzione del pubblico, in una veste rispettosa dei gusti
popolari ma non priva di ironia, il degradato Heimatfilm della produzione
commerciale.
In undici episodi narra, con la prima serie, la storia (per molti aspetti
autobiografica) di una famiglia del nord della Germania, partendo dalla
prima guerra mondiale e giungendo sino agli anni Cinquanta: un padre
(Paul) che emigra in America dove fa fortuna, una madre che si risposa, tre
figli che crescono, la vita che scorre drammatica - il nazismo, la guerra, il
disastro postbellico, il terrorismo - e accompagna questa donna coraggiosa
alla sua fine, circondata da tutta la famiglia meno il figlio Hermann, a 82
anni.
In tredici episodi, Reitz narra - con Die zweite Heimat - un periodo di
appena dieci anni, dal 1960 al 70, seguendo quell'Hermann che, dopo la
morte della madre, si trasferisce a Monaco per coltivare la sua passione per
la musica e lo spettacolo, preferisce all'innamorata Clarissa un'altra donna
(la sposa, ed è un matrimonio subito fallito), si illude di riallacciare un
rapporto al quale non crede più, sente il bisogno di ritrovare le origini,
lascia il sud e torna al villaggio natale.
Piccoli e grandi fatti scorrono nel serial con la ォ naturale サ progressione
della storia, Reitz osserva, lascia che i gesti e le parole prendano corpo a
poco a poco, grazie ai suoi attori e a lui stesso, uniti e solidali. In parte in
bianco e nero, in parte a colori, questo doppio pachidermico e affettuoso
film sulla Germania rappresenta una rivoluzione spettacolare.
Hiroshima mon amour (Hiroshima mon amour)

Regia: Alain Resnais. Interpreti: Emmanuelle Riva, Eiji Okada, Bernard


Fresson, Stella Dassas, Pierre Barbaud. Produzione: Argos Films / Como
Films / Daiei / Pathé Overseas, Francia / Giappone. 1959.

La bella immagine di un uomo e di una donna abbracciati sul letto,


cosparsi della cenere d'una esplosione atomica, apre un film che ha segnato
una tappa nella trasformazione ideologica e culturale del cinema
postbellico. Il ricordo del passato, il peso del presente, l'impossibilità di
dimenticare, il dolore che incombe sull'amore e sulla sessualità: questa è la
realtà degli individui che attraversano gli anni succeduti a una guerra
disastrosa, e di questo si nutre il ォ realismo サ di Hiroshima mon amour,
scritto da Marguerite Duras nel suo stile impettito e ォ barocco サ . La
vicenda si svolge nell'arco di un giorno e di una notte. La scrittrice
commenta: ォ Queste 24 ore sono veramente il tempo vissuto da tutti gli
amanti. "Tu mi uccidi, tu mi fai del bene" dice la donna, esprimendo così, in
una parola, la contraddizione del tempo e dell'assoluto dell'amore サ.
Resnais è più sobrio. Un'attrice francese si trova a Hiroshima per girare
un film, incontra un giovane giapponese, passa la notte con lui. Per lei è non
solo la riscoperta dell'amore, che il matrimonio ha inaridito, ma anche il
riaffiorare del ricordo del primo uomo amato, quando aveva 18 anni e
abitava nella Nevers occupata dai nazisti. Quell'uomo era un soldato
tedesco, che la donna rivede ora, rievocando l'episodio, agonizzante accanto
a lei, sotto il sole. Un amore che lei pagò duramente, accusata di
collaborazionismo. Anche questo amore con il giapponese - nella città che
rievoca la bomba con una manifestazione pacifista e che ォ chiama サ la
piccola Nevers della profonda provincia francese - è un amore impossibile.
Ieri e oggi, giorno e notte si alternano, con la libertà che i sogni consentono.
La donna fuggirà nella notte, inseguita invano dall'amante. Non solo non si
può dimenticare, ma non si può nemmeno vivere in un mondo che ha cono-
sciuto l'orrore. Le troppe parole ォ letterarie サ che la donna pronuncia non
aggiungono nulla alla intensità emotiva della storia. Semmai, la attenuano.
Non importa: la forza evocativa di quell'abbraccio e di quella cenere rimane
fortissima.

L'impiccagione1 (Kòshikei)
1Traduzione letterale del titolo giapponese
.

Regia: Nagisa Oshima. Interpreti: Yundo Yun, Kei Sató, Fumio Watanabe,
Mutsuhiro Toura, Hósei Komatsu, Akiko Koyama, Toshirò Ishidó.
Produzione: Sòzósha, Giappone. 1968.

La contestazione segnò il cinema nipponico in vari modi. Il più signi-


ficativo fu quello che troviamo nella carriera di un trasgressore radicale e,
nel suo passare da film a film, impassibile. Kòshikei è un grido di rivolta
(contro il potere), un insulto ai sacri principi (l'ordine, la legge e le sue
ipocrisie), un divertimento macabro, una fiaba allucinata.
Un coreano di cui non conosciamo neppure il nome è condannato alla
impiccagione per avere stuprato e ucciso. L'esecuzione avviene in una cella
con un soppalco. R., il coreano, infila il collo nel cappio, la botola scatta, il
corpo cade nel vuoto. Ma l'uomo non muore. Smarrimento di giudici e
guardie, anche perché, rinvenendo dalla ォ morte サ , R. mostra di non
ricordare nulla. Poiché non si può ricorrere a una seconda impiccagione,
non resta ai burocrati che tentare una psicoterapia per ridargli memoria e
identità. Lo fanno improvvisandosi essi stessi attori e mimando, davanti al
povero R., le fasi salienti della sua vita e i delitti da lui commessi: debbono
non solo guarirlo per poterlo impiccare, ma anche convincerlo della
indiscutibilità della pena. Si dimostrano bravissimi, e tanto si
immedesimano nel ruolo da lasciar trapelare la loro vera anima di assassini.
Per arrivare al momento culminante occorre una vera ragazza. La si trova
nel liceo dove R. studiò, e la si aggredisce con la brutalità e la foga che si
suppongono essere quelle del condannato (ma sono in effetti quelle del
rappresentante del potere che agisce). Vedendo quella che chiama sorella,
una coreana come lui (emarginata, vittima di ogni sopruso), R. riscopre la
vita, se stesso e il proprio passato. Ora che è cosciente, può essere
impiccato. La botola si apre, R. precipita nel vuoto. Ma il cappio non stringe
nulla. Una grottesca fiaba, tenuta da Oshima - questo trasgressore gelido e
feroce - sul filo di un lucido incubo. Uno scherzo senza spiegazioni, di ritmo
preciso come un cerimoniale (ed è, in quanto cerimoniale, un ritratto del
Giappone, al pari di quell'altro, esplicito cerimoniale che il regista girerà tre
anni dopo: Gishiki, ossia La cerimonia).

L'incidente (Accident)

Regia: Joseph Losey. Interpreti: Dirk Bogarde, Staniey Baker, Jacqueline


Sassard, Michael York, Delphine Seyrig. Produzione: J. Losey e Norman
Priggen, London Independent Producers, Gran Bretagna. 1967.

Da una parte, è un vero incidente in cui perde la vita uno dei protagonisti
(il più fragile dei quattro coinvolti in una schermaglia d'amore nella pigra e
ipocrita Oxford universitaria); dall'altra è la rivelazione della bassezza
morale in cui affonda la borghesia intellettuale. Harold Pinter, che al regista
ha già fornito la materia per l'amaro ritratto di II servo (1963) nella sottile
interpretazione di Dirk Bogarde, estrae da un romanzo poco noto di
Nicholas Mosley l'intreccio di una cinica partita sentimentale di tre maschi
intorno a una enigmatica studentessa austriaca (Jacqueline Sassard,
immagine della più torpida indifferenza): Stephen, maturo docente di
filosofia, con una famiglia perbene e una ottima posizione, il suo collega
Charley, donnaiolo fortunato, e il suo allievo William, giovane severo e
inquieto. Charley non fatica molto a sedurre l'austriaca, e William ne soffre.
Ma più ancora ne soffre Stephen il quale non osa confessare a se stesso
l'invidia per lo spregiudicato amico.
Imprevista e brutale sarà la soluzione. Joseph Losey la anticipa nella
prima inquadratura: la macchina da presa oltrepassa lentamente il cancello
di una casa di campagna, si avvicina all'ingresso mentre si ode lo schianto di
un incidente automobilistico; dalla porta esce Stephen (di nuovo Dirk
Bogarde, misurato e intenso più di sempre), che scopre al volante il
cadavere di William e, accanto a lui, la ragazza in stato d'incoscienza. Nel
contegnoso professore cade ogni freno: conduce la studentessa in casa e
abusa di lei. Cominciato così, il film percorre a ritroso la storia del quartetto,
torna alla scena cruciale, assiste alla ricomposizione dell'ordine, inquadra la
facciata della casa nel medesimo punto in cui l'aveva lasciata - allora era
notte, adesso è giorno - e rifà il suo cammino all'inverso mentre il professore
esce per richiamare i bambini. Ferma, ora, al cancello, come all'inizio, la
macchina da presa ォ sancisce サ visivamente - in una delle sequenze più
perfide di un polemico Losey - la sprezzante (e al tempo stesso raffinata)
condanna d'una intera classe sociale.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Regia: Elio Petri. Interpreti: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan, Gianni
Santuccio, Orazio Orlando, Sergio Tramonti, Salvo Randone. Produzione:
Vera Films, Italia. 1970.
Nell'anno in cui Fattori, generale d'acciaio, regia di Franklin Schaffner e
sceneggiatura di Francis Coppola, fa razzia di Oscar in omaggio al genere
bellico e di avventura, un film italiano, altrettanto ben costruito
drammaturgicamente (sceneggiatura di Petri e di Ugo Pirro), conquista
l'Oscar riservato al cinema straniero. ネ il 1970, e questo è il primo, vero
successo di un regista quarantenne diviso fra la rabbia dell'intellettuale
contestatore e l'indagine psicologica. Qui Petri trova l'equilibrio e mette a
frutto quel gusto del sarcasmo (della sfida) con cui ci si può immaginare di
combattere, in una stagione confusa, il potere borghese.
Un ispettore di polizia, arrogante in Questura e frustrato in amore, uccide
la donna che lo sbeffeggia. Si sente così forte che lascia ovunque
(nell'appartamento dell'amante al quartiere Coppedè, dove le linee sinuose
dell'architettura e dell'arredamento liberty valgono come una fine metafora),
indizi così evidenti che anche l'ultimo degli investigatori potrebbe risalire
fino a lui. Invece niente, un uomo così non può non essere al di sopra di
ogni sospetto. Quando si accorge che la sfida si sta facendo temeraria, il
poliziotto approfitta delle indagini per colpire i giovani contestatori e per
accusare uno di loro (che potrebbe anche conoscere il vero colpevole).
Niente, neppure adesso. Allora, scrive una lettera con una dettagliata
confessione. In Questura, e più in alto, non si prendono in considerazione
queste denunce. Giuri, l'ispettore, davanti ai superiori, che con l'assassinio
non ha rapporti. Feroce, incalzante, meccanico a volte, il film si giova d'una
splendida interpretazione di Gian Maria Volonté, di eccellenti scenografia e
fotografia (Egidi e Kuveiller), di una musica di rara funzionalità (Ennio
Morricone).

John Huston-The Dead (John Huston-The Dead)

Regia: John Huston. Interpreti: Anjelica Huston, Donai McCann, Helena


Carroll, Cathleen Delany, Ingrid Carigie, Rachel Dowling, Dan O'Herlihy.
Produzione: Vestron Pictures / Zenith, USA/ Gran Bretagna. 1987.

L'incontro di due irlandesi, un equilibrio perfetto, una magica consonanza:


fra il James Joyce che nel 1912 scrisse quei mirabili racconti riuniti sotto il
titolo Dubliners e il John Huston che al termine della vita, nel 1987,
reinterpreta il testo più toccante (The Dead, appunto) avviene come una
fusione di due spiriti in uno. La fotografia di Fred Murphy (colori esatti in
ogni situazione, interna ed esterna, sotto la neve di fine anno, 1904) esalta le
scene di Stephen Grimes e gli attori che vi si muovono con pudore
altrettanto grande di quello del regista. Il film non ha nulla di letterario, ma
è completamente joyciano.
Le sorelle Morkan, che vivono sole, hanno invitato gli amici alla festa di
mezzanotte. Personaggi di varia estrazione e temperamento godono della
calda familiarità che si respira in questa villetta dublinese, scherzano, si
divertono, si punzecchiano (cattolici contro protestanti, monarchici contro
repubblicani), ascoltano arie d'opera e canzoni popolari. Ed è proprio una
canzone che sconvolge sino alle lacrime una delle invitate, Gretta (Anjelica
Huston), perché quei versi tristi le ricordano un suo antico innamorato, il
quale aveva sfidato una tormenta di neve per venirla a salutare prima che
lasciasse il paese e s'era ammalato sino a morirne. Il marito non sa fare altro
che tenere gli occhi fissi sul cimitero di fronte alla casa.
Il tema dell'innamorato che muore per amore è stato usato da Rossellini,
delicatamente, per definire il personaggio della protagonista di Viaggio in
Italia (1953), strappandolo dal suo contesto joyciano e irlandese. Huston lo
ricolloca al suo posto, con le sequenze finali di un film accorato e affettuoso
come nessun altro dei suoi. E non cade mai nelle trappole del patetico o del
melodramma. Si intenerisce, non piange.

La kermesse eroica (La kermesse héróique)

Regia: Jacques Feyder. Interpreti: Francoise Rosay, Jean Murat, Alerme,


Louis Jouvet, Micheline Cheirel, Bernard Lancret. Produzione: Tobis Paris,
Francia. 1935.

Di eroico la kermesse organizzata nella città fiamminga di Boom non ha


nulla. Eroica è la paura che incutono gli invasori spagnoli (siamo nel 1616)
di cui si annuncia l'arrivo proprio quando i borghigiani preparano le nozze
della figlia del borgomastro (un ammiccante Alerme) con il pittore Jan
Breughel. La moglie del borgomastro (Frangoise Rosay, pungente attrice)
prende in mano la situazione e, mentre il marito si finge morto per evitare
guai, accoglie con un sorriso il duca di Olivares, bello e spaccone (Jean
Murat). ネ vero, il borgomastro vorrebbe che la figlia sposasse il più
facoltoso macellaio, ma ora che è ォ morto サ non può più opporsi all'amore.
Come non bastasse, deve pensare a salvarsi perché il nano del duca ha
scoperto il gioco: per farselo amico lo corrompe con un sacco d'oro. La
paura a poco a poco si scioglie, gli spagnoli vanno a caccia di donne e non
di gloria. E le ragazze non sono ritrose. Solo la moglie del borgomastro,
abile e onesta, tiene a bada, e magari le dispiace, il bel duca. Applausi e
lacrime salutano l'addio degli spagnoli. La buona accoglienza varrà a Boom
la esenzione annuale dalle tasse.
Un finissimo cesello cui contribuiscono in egual misura la fantastica
ricostruzione scenografica (al modo della pittura fiamminga del Seicento,
naturalmente) di Meerson, Trauner e Wakhevitch, il bianco e nero
morbidamente effettato e luminoso (negli esterni) dell'americano Harry
Stradling e dei francesi Page e Thomas, il ritmo festoso impresso alla farsa
da Jacques Feyder, ma soprattutto la divertente (e divertita) partecipazione
di tutti gli attori - in particolare, di Jouvet nelle vesti di un prete tremebondo
- alla kermesse, ai giochi erotici, agli scherzi e alle finali malinconie.

Lanterne rosse (Dahong denhong gaogao gua)

Regia: Zhang Yimou. Interpreti: Gong Li, Ma Jingwu, He Caifei, Cao


Cuifeng, Jin Shuyuan. Produzione: Era International / China Film, Hong
Kong. 1991.

La Cina si affaccia alla ribalta cinematografica con l'opera di Zhang


Yimou. ネ una sorpresa difficile da definire, perché poco si conosce di quel
cinema e della situazione politico-culturale della Repubblica popolare. Che
cosa realmente rappresenti questo regista della cosiddetta quinta
generazione cinese non è dato sapere. Ma film come Hong gaoliang (Sorgo
rosso, 1987) e, soprattutto, Lanterne rosse rivelano un grande talento
figurativo e drammatico, e tanto può bastare in attesa di un contatto più
preciso.
L'azione si svolge nella Cina feudale degli anni Venti, paese bloccato
dentro la tradizione. Cinque mogli - quattro in principio, una quinta che
giunge alla fine chiudendo la serie - vivono accanto al signore Chen
Zuquian. Ognuna ha il suo appartamento e la sua serva. Quando arriva la
più giovane, la graziosa Songlian che ha abbandonato la università a causa
della morte del padre, gli intrighi nel palazzo s'inaspriscono. Il signore fa
collocare le lanterne rosse davanti alla porta della sposa con la quale si
appresta a passare la notte. Songlian conosce il figlio di Chen, che è suo
coetaneo e come lei suona il flauto. Tanto basta perché il padrone faccia
distruggere lo strumento e vieti al figlio di frequentarla. Così, la piccola
Songlian scopre in quale inferno sia caduta. Si indurisce come le altre
mogli, provoca addirittura la morte della serva che le hanno assegnato. Un
giorno, aggirandosi per i cortili innevati, scopre il cadavere della terza
moglie (le donne non hanno nome, sono indicate col numero), messa a
morte per aver commesso adulterio. Mesi dopo, d'estate, arriva la quinta
moglie e vede una pazza vagare per la casa: è Songlian.
Impostato su inquadrature fisse e su una rigorosa successione di colori
dominanti (il rosso delle lanterne, il nero dei veli con cui si coprono le
lanterne quando Songlian cade in disgrazia, il bianco della neve e della
pazzia), il film scorre lentissimo. Tutto si svolge lontano dalla macchina da
presa, ed è veduto attraverso oggetti, ostacoli, grate: una lugubre e
misteriosa cerimonia teatrale.

Luci della ribalta (Limelight)

Regia: Charles Chaplin. Interpreti: Charles Chaplin, Claire Bloom, Sidney


Chaplin, Nigel Bruce, Norman Lloyd, Buster Keaton, Wheeler Dryden.
Produzione: United Artists, USA. 1952.

Anche se dopo Limelight Chaplin girerà ancora due film -Un re a New
York (1957) e La contessa di Hong Kong (1967) - quest'opera rappresenta
una sorta di addio all'arte e al mondo. Al centro della scena non c'è più lui, il
comico infallibile, ma una donna da lui aiutata e istruita: è il passaggio delle
consegne, che avviene senza illusioni (il vecchio Calvero rifiuta di sposare
Terry, ora applaudita ballerina). La storia era cominciata quando il comico
in disarmo salvò la ragazza dal suicidio (un blocco psichico l'aveva
paralizzata impedendole di realizzare il suo sogno): curioso, ma anche nel
film precedente - Monsieur Verdoux (1947) - il protagonista salvava una
ragazza dal suicidio. Guarita grazie alle pazienti attenzioni di Calvero, Terry
affronta il teatro e ottiene successo. Calvero, conscio dell'abisso che lo
separa dalla sua pupilla, si allontana. Tempo dopo i due si incontrano di
nuovo e la ballerina organizza per il maestro uno spettacolo nel quale il
vecchio sfoggia tutta la sua antica bravura, il suo surreale umorismo,
insieme a compagni altrettanto applauditi, come l'impassibile Buster
Keaton. Calvero, sopraffatto dall'emozione, si lancia in un buffo esercizio
che non è più per lui, e cade dal palco. Spirerà dietro le quinte guardando
danzare la sua Terry.
Muovendosi ai margini della effusione patetica, e talvolta cedendo alla
sua attrazione, il sessantatreenne Chaplin - gesti quasi imploranti eppure
gentili e comici - bada a costruire una storia che gli consenta di sostenere
questa lunga cerimonia di congedo. Ci riesce, con qualche sforzo. E si
riscatta splendidamente dalle tenerezze insistite quando ritrova il suo genio
mimico, più straordinario e ォ depurato サ di sempre (tutta la ォ
rieducazione サ psicologica di Terry, i gesti e le imitazioni di un superbo
attore, sono davvero esercizi di alta scuola).

Manhattan (Manhattan)

Regia: Woody Alien. Interpreti: Woody Alien, Diane Keaton, Mariel


Hemingway. Meryl Streep, Anne Byrne, Karen Ludwic, Michael
O'Donoghue. Produzioni-United Artists, USA. 1979.

Deluso per le accoglienze americane all'interessante sforzo drammatico di


lnterìors (1978). Woody Alien rientra nella sua pelle, e sprofonda nelle
nevrosi sue e della sua città.
Screzi continui allontanano da lui la moglie Jill (una puntuta Meryil
Streep). Compare un'altra donna, la giornalista Mary (Diane Keaton, volto
accorato), e con lei il newyorkese Isaac Davis sembra trovare comprensione
e, soprattutto, lunghissime confessioni ovunque capiti. Ma non funziona
neppure stavolta. All'orizzonte si è già affacciata Tracy, ragazzina dolce e
sbandata (Mariel Hemingway, simpatica), ed è una complicazione in più per
un uomo e uno scrittore come lui. La storia con la giornalista ha alti e bassi
(la donna è in cura da uno psicoanalista). Finisce perché Mary è ancora
innamorata di un uomo sposato e distratto. Isaac (Ike per gli amici ) è a una
svolta, fa il bilancio della sua vita. Che gli rimane? La ragazzina Tracy.
Nonostante tutto, non la deve perdere. Attraversa di corsa tutta Manhattan,
va da lei. Ma lei sta partendo per Londra e non rinuncia. Ike ottiene da Tra-
cy qualcosa che può sembrare una promessa.
Il trascinante incipit sul clarinetto della Rapsodia in blu di Gershwin
sfocia nel pieno dell'orchestra e ォ copre サ lo skyline di Manhattan, come ha
fatto in apertura: una cornice che abbraccia la vita di un uomo inquieto e ォ
colora サ questo film in luminoso bianco e nero (l'operatore è il Gordon
Willis tante volte accanto ad Alien) d'una immaginaria sfumatura di
tenerezza (come si vede, in particolare, nel colloquio di Ike e Mary di spalle,
su una panchina davanti al ponte dei Queens). Tenerezza e lieve ironia
appartengono al migliore Alien, intellettuale infelice, uomo complicato,
artista sicuro. ネ un discorso che continua e che tocca qui, fra i grattacieli
della città amatissima, una nota straordinariamente commossa.

Metropolis (Metropolis)

Regia: Fritz Lang. Interpreti: Brigitte Helm, Gustav Fròhlich, Alfred Abel,
Rudolph Klein-Rogge, Heinrich George, Fritz Rasp. Produzione: UFA,
Germania. 1927.

La melodrammatica storia fantascientifica è frutto degli incubi di una


intellettuale della repubblica di Weimar, che sogna la riconciliazione fra
capitale e lavoro, e che diventerà nazista. Ora è la moglie di un regista
ossessionato, più che dal disordine sociale, dalla inestirpabile presenza del
male nel mondo. Fra lei, Thea von Harbou, e lui nasce una alleanza che
induce la UFA - impegnata nel contrastare la dilagante concorrenza
americana in Europa - a finanziare con l'enorme cifra di 6 milioni di marchi
la produzione di un kolossal negli studi di Neu Babelsberg a Berlino.
La lavorazione, cui partecipano 30 mila comparse (era tempo di forte
disoccupazione), dura 18 mesi. La macchina da presa, pilotata da due
maestri come Karl Freund e Gùnther Rittau, affiancata dagli effetti speciali
di Eugen Schùfftan (è sua invenzione il cosiddetto ォ effetto Schùfftan サ
che sarà usato su vasta scala, arrivando sino a Rossellini), gira intorno a
imponenti costruzioni di gusto espressionista (sono di Hunte, Kettelhut,
Vollbrecht), inquadra masse di operai-schiavi, relegati sottoterra per
alimentare la esistenza dorata dei signori che godono della luce del sole.
Il figlio del padrone vede la dolce Maria (Brigitte Helm) che ha il
compito di consolare gli schiavi. Comprende che deve schierarsi al suo
fianco. Il padre ordina allo scienziato Rottwang - maligno e pazzo, come si
usa - di creare un automa con le fattezze di Maria per sconvolgere i piani del
giovane. Ma lo scienziato fa sì che la finta Maria spinga gli schiavi alla
ribellione. Le macchine si fermano, l'acqua invade il sottosuolo. Saranno la
vera Maria e il giovane capitalista a fermare la rivolta. Alla fine gli operai e
il padrone stipuleranno un'alleanza.
Lang ha il dono della stupefazione e del gigantismo: trasforma le scene di
massa in coreografie ォ reinhardtiane サ e i personaggi in pupazzi. L'effetto
è, insieme, suggestivo e goffo.

M, il mostro di Dusseldorf (M)

Regia: Fritz Lang. Interpreti: Peter Lorre, Gustav Griindgens, Otto


Wernicke, Theo Lingen, Theodor Loss, Inge Landgut, Georg John, Ellen
Widmann. Produzione: Nero Film, Germania. 1931.

La società tedesca, all'alba degli anni Trenta, si sta sfarinando. La svolta


autoritaria è imminente. Fritz Lang, sensibile più di tutti i registi della sua
generazione, assorbe l'inquietudine e ne fa materia di racconto. Ha un gusto
particolare per la satira: se ne serve per raccontare questa storia improbabile,
ma realissima, di un'alleanza di tutti i manigoldi della città per dare la caccia
a uno psicopatico assassino che, mettendo in allarme e scatenando la
polizia, rompe loro le uova nel paniere. I delinquenti ォ normali サ contro un
delinquente ォ anormale サ , per la difesa del ォ lavoro サ e dello spazio
vitale.
Il grottesco tocca punte di tetro umorismo, come quando, alla fine, il ォ
povero サ assassino è sottoposto a regolare processo da parte dei malviventi.
Il severo tribunale fuori legge applica la legge, nel corso di un ordinato
dibattito, e condanna il buon borghese Franz Becker (un formidabile Peter
Lorre, viscido, terrorizzato, indifeso) alla pena capitale. Se non intervenisse
la polizia, dopo tanto (e altrettanto grottesco) girare a vuoto, lo psicopatico
sarebbe giustiziato. Lui che attira le bambine offrendo regali, per violentarle
e ammazzarle. Suscita pietà più che orrore questo assassino: Lang ne segue
le mosse allorché fischiettando un'aria del ォ Peer Gynt サ avvicina la
piccola Elsie, e lo contrappone alla perfetta organizzazione dei delinquenti.
Dal confronto esce un ritratto di città tedesca, borghese e naturalmente
ansiosa di ordine.
Fritz Arno Wagner, superbo operatore, anima con un lucido bianco e
nero, volti, strade, locali (l'ufficio dell'inetto commissario Groeber avvolto
dal fumo o l'antro della distilleria dove si celebra il processo, per esempio).
Lang, se possibile ancora più lucido, orchestra immagini e suoni (il sonoro è
nato da pochi anni) con cura estrema. Accanto a Lorre un irreprensibile
Grundgens (il capo dei malviventi) e uno spassoso Theo Lingen, attore
comico di grandi qualità.

I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman's Contraci)

Regia: Peter Greenaway. Interpreti: Anthony Higgins, Janet Suzman, Anne


Louise Lambert, Hugh Fraser, Neil Cunningham, Dave Hill. Produzione: BFI
/ Channel Four Television, Gran Bretagna. 1982.

Peter Greenaway affronta il lungometraggio con lo spirito cinico


dell'intellettuale refrattario ad ogni illusione. La perfidia di due donne -
madre e figlia - alleate per commettere un doppio crimine e impadronirsi
della residenza di Compton House si rivela a poco a poco, tortuosamente.
Siamo nel 1694. Si dice che il proprietario, il signor Herbert, sia partito per
Southampton. Starà fuori due settimane, tempo nel quale un pittore di
paesaggi dovrà eseguire dodici vedute del palazzo da donare a Herbert per il
suo ritorno. La madre aggiunge al contratto la clausola di un incontro
d'amore per ciascun quadro. Il pittore, lusingatissimo. lavora di buona lena.
Al sesto dipinto entra in scena la figlia della signora Herbert, la quale gli
propone un analogo contratto. Meglio di così. Girano strane voci, si dice
che Herbert non sia andato a Southampton ma sia stato ucciso. Infatti, ecco
saltar fuori il cadavere. Il pittore torna a Compton House, disegna una tre-
dicesima veduta ed entra nuovamente nel talamo della signora Herbert.
Arriva la figlia (che ha sposato un tedesco, il signor Talman, impotente) e
spiega all'allibito artista il trucco: eliminato il signor Herbert, gentiluomo
insopportabile, e dato un erede alla figlia, la proprietà non sarà più dispersa.
Talman si getta addosso al pittore, che sarà finito - prima accecato, poi
ammazzato - da uomini mascherati.
Greenaway presenta il film alla Mostra di Venezia, senza ottenere
particolari consensi. Peccato, perché The Draughtsman's Contract è una
preziosa variazione cromatico-narrativa sulla (congenita) nefandezza
dell'animo umano e sulla (colpevole) ingenuità dell'arte, che crede di
afferrare la realtà e dalla realtà si fa regolarmente ingannare. E, com'è
giusto, ne paga lo scotto: prima di essere ucciso, l'artista è privato della sua
stessa ragione di vita, lo sguardo. Le musiche di Michael Nyman e la
fotografia di Curtis Clark completano il fascino di questa intricata macchina
spettacolare uscita dalla fantasia di un pittore.

Napoleone (Napoléon vu parAbel Gance)

Regia: Abel Gance. Interpreti: Albert Dieudonné, Alexandre Koubitsky,


Harry Krimer, Vidalin, Francine Mussey, Antonin Artaud, Marguerite
Danis-Gance, Gina Manès, Annabella, Edmond van Daèle. Produzione:
Société generale de Films, Francia. 1927.

Dalla scuola militare di Brienne alla campagna d'Italia, il film narra


convulsamente l'ascesa di Napoleone. Un'opera che avrebbe dovuto essere
sterminata ma che nessuno ha mai veduto, perché sin dalla prima proiezione
all'Opera di Parigi il 7 aprile 1927 la copia originale di 12 mila metri fu
dimezzata. Così, due anni di immani fatiche e un colossale investimento di
denaro furono vanificati. Ciò che resta è lo specchio di un delirio di
grandezza e di un fertile ingegno tecnico-linguistico (fra le numerose
innovazioni - sovraimpressioni esasperate, ォ split screen サ ottenuto
artigianalmente, macchina da presa in frenetico movimento, ora a mano ora
a dorso di cavallo ora collocata in cesti oscillanti nell'aria -va segnalato il
sistema Polyvision messo a punto da Abel Gance e consistente nell'uso di
tre schermi affiancati, come avrebbe fatto 25 anni dopo il Cinerama).
ォ Napoleone - disse Gance - è un parossismo della sua epoca, la quale è
un parossismo della storia. E il cinema è, per me, il parossismo della vita.サ
Il regista-stratega-visionario si identifica con il personaggio, il suo campo di
battaglia è il cinema. Albert Dieudonné, faccia severa, sostiene bene il suo
ruolo, ma efficaci sono anche - pur nella concitazione mimica imposta dal
muto - Antonin Artaud (Marat), Gina Manès (Giuseppina), la giovanissima
Annabella (l'innamorata infelice). Le sequenze più memorabili (e ingenue):
la tempesta durante il viaggio dalla Corsica alla Francia, l'assedio e la presa
di Tolone, l'arringa del generale alla Convenzione, il dilagare dell'Armée in
Italia (qui entrano in funzione i tre schermi).
Alla prima parigina fu eseguita una partitura di Arthur Honegger, che è
andata perduta. Più volte ristampato, e presentato in varie forme e
dimensioni, Napoléon sarà proiettato, a cura di Francis F. Coppola, nel 1981
al Radio City Music Hall di New York, con l'accompagnamento musicale di
Carmine Coppola (lo stesso che sarà eseguito alla Basilica di Massenzio
durante l'Estate Romana).

Nascita di una nazione (The Birth of a Nation)

Regia: David Wark Griffith. Interpreti: Henry Walthall, Mae Marsh,


Miriam Cooper, Ralph Lewis, Lillian Gish, George Siegmann, Walter Long,
Donald Crisp, Raoul Walsh, Eugene Pallette. Produzione: Epoch Producing
Corporation, USA. 1915.

Griffith è l'inventore più titolato del linguaggio cinematografico, colui


che ha aperto la via dell'espressione a tutti gli altri autori, in tutto il mondo.
ネ un narratore di straordinaria intelligenza, un innovatore che su certi
terreni (ad esempio, il melodramma) non è mai stato superato, ed è un
razzista. Da queste tre matrici esce The Birth of a Nation, che dovrebbe
essere un film storico (e a modo suo lo è, narrando alcuni episodi della
guerra civile di mezzo secolo prima) ma finisce per essere uno strano
connubio fra l'epica e il melodramma, una perorazione a favore della
giustizia e del risarcimento degli infelici che per l'ingiustizia hanno sofferto.
E la giustizia per Griffith s'identifica con il Ku Klux Klan, qui convocato
per salvare la dolce Elsie Stone-man (una sospirosa Lillian Gish, eroina di
tutte le sofferenze) su cui ha posato lo sguardo cupido il governatore Lynch.
A liberazione avvenuta, Elsie sposerà il suo antico amore Ben Cameron,
giovane coraggioso che deve superare molte crudeli prove prima di
comprendere che solo nel K.K.K. c'è la salvezza. Ciò compreso, se ne
metterà alla testa.
Il film è la storia di due famiglie - gli Stoneman della Pennsylvania e i
Cameron del South Carolina - che attraversano la guerra civile su fronti
opposti. Alle tragiche vicende del conflitto (la battaglia di Atlanta)
succedono le contorsioni di un dopoguerra funestato da violenze
(l'assassinio di Lincoln), di cui fanno le spese i giovani delle due famiglie
separate ma rimaste amiche. Flora, una sorella di Ben Cameron, si suicida
gettandosi dall'alto di una roccia per sfuggire all'aggressione di un negro: la
sequenza, di forte impatto drammatico, si conclude con un campo lungo che
colloca la morte della ragazza in una rispettosa e pietosa distanza.
Di soluzioni narrative ardite e nuove il film è zeppo. Una per tutte:
l'impiego delle azioni parallele e convergenti che Griffith aveva già spe-
rimentato e Che qui sfociano nella sequenza prefinale in cui si affiancano,
prima di sovrapporsi, l'angoscia di Elsie aggredita da Lynch, la paura dei
Cameron assediati e l'accorrere dei bianchi guerrieri mascherati.

Nashville (Nashville)

Regia: Robert Altman. Interpreti: David Arkin, Ned Beatty, Karen Black,
Keith Carradine, Geraldine Chaplin, Shelley Duvall, Henry Gibson, Ronee
Blackley, Barbara Harris, Scott Glenn, Michael Murphy, Lily Tomlin, Elliot
Gould, Keenan Wynn, Julie Christie. Produzione: Landscape Films /
Paramount, USA. 1975.

Tutto è mostruoso, in questo film, come quando ci si accosta all'America


dello spettacolo (e, forse, all'America di oggi in quanto tale). A Nashville,
nel Tennessee, si celebra il festival della musica country, in occasione del
bicentenario degli Stati Uniti. Intanto, è in corso la campagna elettorale che
vede circolare per le strade della città un furgone con scritte e altoparlanti
d'un candidato della estrema destra. Confusione, frenesia, vanità, intrighi,
patriottismo stantio, prepotenze e canzoni in un flusso ininterrotto: Altman,
regista soavemente maligno, emulsiona il tutto in uno spettacolo avvincente,
sovrapponendo alla materia mostruosa una mostruosa precisione ritmica.
Nashville è un film musicale che narra gli affanni d'un vecchio del mestiere
come il cantante Hamilton, le angosce di una cantante famosa e nevrotica
come Barbara Jean, le fissazioni della giornalista inglese Opal (Geraldine
Chaplin), le conquiste femminili di un piccolo ォ crooner サ di provincia
(Keith Carradine), le illusioni di una ragazza senza voce, le paturnie di una
casalinga, e tante storielle insignificanti che, raccolte in un vortice di due
ore e 40 minuti, acquistano una dimensione quasi epica. Perché questo è il
dono che il regista possiede: affastellare motivi disparati in quella che pare
una struttura caotica ma che gradualmente si rivela come una solida gabbia
spettacolare. Certe apparizioni che sembrano casuali (tutto qui è casuale)
sono in effetti calcolate al millimetro. E certe sorprese - come il finale assas-
sinio di Barbara Jean sul palco per opera di un reduce dal Vietnam
-appaiono logiche e inevitabili nella loro totale assurdità.

Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens)

Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Interpreti: Max Schreck, Gustav von


Wangenheim, Greta Schròder, Georg H. Scimeli, Alexander Granach, John
Gottowt, Ruth Landshoff, Gustav Botz. Produzione: Prana Film, Germania.
1922.

Celeberrimo film di vampiri, questo Nosferatu che deriva dal romanzo


Dracula (1897) dell'irlandese Bram Stoker, inaugura la catena dei film
dell'orrore. Naturalmente, la psicoanalisi se n'è impadronita, e numerose
sono le elucubrazioni che vi ha imbastito intorno: il conflitto fra l'Es e la
coscienza appare rispecchiato nel viaggio di Flutter in Transilvania per
raggiungere il castello del misterioso conte Orlock. Poche altre volte un film
è stato sottoposto a tante sottili analisi e ha subito dissezioni così
puntigliose: vorrà pur dire qualcosa.
L'aspetto figurativo di Nosferatu è opera preziosa di un regista ricco di
immaginazione e di cultura. Siamo nell'atmosfera dell'espressionismo (la
sceneggiatura è di uno specialista come Henrik Galeen, la fotografia di un
maestro della luce come Fritz Arno Wagner, la scenografia di Albin Grau:
tre contributi essenziali). Murnau immette la suggestione delle immagini -
per esempio, la sequenza in negativo della carrozza che attraversa il bosco,
il viaggio del ォ Demeter サ e il suo arrivo a Brema, la morte del vampiro
folgorato dalla luce del giorno - in un flusso narrativo compatto: Flutter
lascia la moglie a casa, raggiunge nei Carpazi il conte Orlock che gli
succhia il sangue. Poi il satanico vampiro salpa con il ォ Demeter サ alla
volta di Brema, vi semina terrore e pestilenza, è attirato dalla moglie di
Flutter che si sacrifica per salvare la città, fino al sorgere provvidenziale
dell'alba. Nosferatu è interpretato da Max Schreck dalle orecchie a punta (ォ
Schreck サ in tedesco significa spavento).

Notorius, l'amante perduta (Notorious)

Regia: Alfred Hitchcock. Interpreti: Ingrid Bergman, Cary Grant, Claude


Rains, Louis Calhern, Leopoldine Konstantin, Reinhold Schiinzel.
Produzione: RKO, USA. 1946.

Nelle mani di un voyeur discreto come Hitchcock, Ingrid Bergman gioca


la carta di una dolorosa seduzione. Dopo Spellbound (Io ti salverò), in cui
interpretava un personaggio fin troppo serio, l'attrice si lascia coinvolgere in
una trama quasi perversa di spionaggio e di tradimento. Faccia severa, occhi
da santarellina, questa Alicia, per riscattare il nome di una famiglia che s'è
macchiata di simpatie naziste, accetta di penetrare in una casa dove i nemici
ancora tramano, per scoprire che c'è sotto. La guida un agente del FBI (Cary
Grant, sornione come sempre), il quale - pur essendo forte il legame che li
unisce - le permette di sposare il capo della banda (un Claude Rains espres-
sivo come poche altre volte), perché spera di svelare il segreto. Infatti,
durante una festa, Alicia sottrae al marito la chiave della cantina e con
l'agente mette le mani su alcune bottiglie di champagne che in realtà
contengono polvere di uranio. I nazisti se ne accorgono ma giocano
d'astuzia: non fanno nulla, semplicemente decidono di avvelenare a poco a
poco Alicia. Ci riuscirebbero se, finalmente consapevole della posta in
gioco (oltreché del proprio miserevole cinismo), l'agente non la trascinasse
fuori. Il marito tenta di impedirglielo, ma non ci riesce. E la banda lo
elimina.
Questo intrigo (sceneggiato da Ben Hecht) è colmo di angoscia, nel
migliore stile hitchcockiano: si sviluppa morbidamente, scatta improvviso,
si ridistende e di nuovo si contrae sino alla fuga dei due abbracciati
attraverso il salone d'ingresso: fuga che è non soltanto la liberazione
dall'incubo ma anche una lunga, spa modica dichiarazione d'amore.
Rimarranno memorabili gli espedienti linguistici adottati dal regista (Ted
Tetzlaff è l'operatore), ma soprattutto si ricorderà il vertiginoso movimento
di gru che dall'alto piomba sulla mano di Alicia che stringe la chiave della
cantina.

La notte di San Lorenzo

Regia: Paolo e Vittorio Taviani. Interpreti: Omero Antonutti, Margarita


Lozano, Claudio Bigagli, Miriam Guidelli, Enrica Maria Modugno,
Massimo Bonetti, Sabina Vannucchi, Giorgio Naddi, Micol Guidelli.
Produzione: Ager Cinematografica / RAI1, Italia. 1982.

Una fiaba per raccontare la guerra. Ora madre di un bambino, Cecilia


rievoca - per il figlio da addormentare - un episodio della ritirata tedesca
dalla Toscana sotto l'incalzare della V Armata alleata. In tal modo, anche la
guerra acquista i colori della fiaba, dove si può parlare degli omerici Achei e
immaginare che il più fellone dei fascisti cada trafitto dalle lance greche.
Cecilia allora aveva sei anni e fu con i suoi occhi di bambina che registrò, e
trasfigurò, l'orrore.
Dall'immaginario borgo di San Martino (in realtà, San Miniato nel pisano:
la storia è per i fratelli Taviani autobiografica) fuggono gli abitanti. Non
tutti, però, perché i tedeschi assicurano che a quanti si rifugeranno in chiesa
non accadrà nulla. Invece, la fanno saltare in aria, e nella carneficina morirà
anche la moglie incinta di uno dei fuggiaschi. I quali si aggirano lungo la
linea del fronte, si uniscono a un gruppo di partigiani (che aiutano nella
mietitura del grano) e sono coinvolti in una scaramuccia sanguinosa con un
gruppo di fascisti. Riparano alla fine in un cascinale dove trascorrano la
notte e dove il fattore Cialvano. che ha guidato gli sbandati, potrà
finalmente unirsi -ora che sono entrambi anziani - a quella signora Concetta
di cui era stato invano innamorato. la fiaba termina all'alba, con l'annuncio
che stanno arrivando gli americani. Piove col sole, tutti tornano a San
Martino. Solo Galvano, ripensando alla sua notte d'amore, resta seduto sotto
l'acqua.
Omero Antonutti (Galvano) e Margarita Lozano (Concetta) sono at-
torniati da attori improvvisati ed esordienti, e formano con loro un gruppo
omogeneo. La delicatezza della immaginazione infantile e le brutalità della
guerra si mischiano senza stridere, quasi naturalmente.

Olimpia - Apoteosi di Olimpia (Olympia, I, Il Teli)

Regia: Leni Riefenstahl. Interpreti: gli atleti dei Giochi olimpici 1936.
Produzione: Olympia Film, Germania. 1938.

Ieri e oggi: la Grecia classica, rievocata in forma di ieratica danza at-


traverso una serie di lente dissolvenze incrociate, e il presente dei Giochi
che si celebrano a Berlino nell'Olympia Stadion appena costruito e negli
altri perfetti impianti sportivi della Germania nazista. L'attrice e
documentarista Leni Riefenstahl ebbe a disposizione un imponente apparato
tecnico e mezzi in abbondanza (quaranta operatori impressionarono 500
mila metri di negativo bianco e nero, il lavoro di montaggio e di edizione
richiese 18 mesi, al termine dei quali il film - diviso in due parti,
rispettivamente di 125 e 99 minuti - fu presentato con successo alla Mostra
di Venezia ottenendo la Coppa Mussolini, a pari merito con Luciano
Serra,pilota di G. Alessandrini). Se i protagonisti sono gli atleti (fra le corse
veloci emerge Jessie Owens, ma più drammatici risultano gli sforzi dei
maratoneti e la lunga contesa del salto con l'asta, per non parlare del nuoto,
del pugilato, della equitazione e della vela), un posto di rilievo la regista
abilmente riserva a Hitler in tribuna: quasi a istituire un parallelo tra il
vigore dei giovani impegnati nello sport e il capo di un popolo che sulla
retorica della potenza ha impostato la sua politica.
Le immagini hanno la forza di una tecnica scaltrita (teleobiettivi e ralenti
sono usati in ogni occasione propizia, spesso accoppiati ai controluce, come
nella maratona, a dettagli significativi, a riprese con la luce artificiale, come
per il salto con l'asta). Montate su ritmi sempre tesi, sonorizzate con
musiche appropriate (ed enfatiche, soprattutto nell'iniziale episodio
evocativo), concorrono alla creazione di un documentario che, insieme,
rispetta e altera la realtà, offrendo dello sport un ritratto avvincente che
avrebbe fatto scuola (tutte le olimpiadi successive saranno catturate
dall'obiettivo cinematografico, secondo modi sempre più sofisticati ma che
trarranno tutti origine dal film di Leni Riefenstahl).

Ombre rosse (Stagecoach)

Regia: John Ford. Interpreti: John Wayne, Claire Trevor, John Carradine,
Thomas Mitchell, Donald Meek, Andy Devine, Louise Platt, Tim Holt,
George Bancroft, Berton Churchill. Produzione: United Artists, USA. 1939.

Il cinema ォ classico サ rivelò la capacità di incidere nella memoria -vi-


siva, culturale, persino affettiva - dei contemporanei. Lo fece con alcuni
film di sicura forza drammatica, come Stagecoach di John Ford. Quando si
usa l'aggettivo mitico, di solito si fa retorica. In qualche caso, invece, si
colpisce nel segno. Questa versione western della maupassantiana Boule de
suif conserva inalterate - grazie a non si sa quale miracolo - le doti che
apparvero al tempo della prima proiezione, alla vigilia della seconda guerra
mondiale.
Il viaggio della diligenza da Tonto a Lordsburg, attraverso il territorio
degli apaches, mette a confronto l'ipocrisia borghese e la ruvida sincerità
degli umili e dei fuorilegge. Su tutto incombe la minaccia indiana (in una
celebre sequenza la macchina da presa inquadra dall'alto il canyon in cui
transita la diligenza che avanza; poi di scatto una panoramica verso sinistra
scopre cavalieri apaches in agguato), la tensione cresce a poco a poco, sino
a sfociare in una serie di ォ incidenti サ laterali - il parto della moglie che
viaggia per raggiungere il marito ufficiale, gli scontri fra i componenti del
gruppo, soprattutto fra il bandito Ringo, il medico alcolizzato, il giocatore
professionista, la prostituta, il banchiere ladro - che preludono alla ォ resa
dei conti サ finale, con l'assalto indiano alla diligenza in piena corsa e
l'arrivo della cavalleria. Sono immagini e suoni che fissano il racconto nella
sua veste perfetta.
Gli attori si calano così bene nel ritmo narrativo che non è possibile
stabilire una graduatoria fra loro: se John Wayne è, forse, più rigido del
necessario, John Carradine (il giocatore), Thomas Mitchell (il medico),
Donald Meek (il mite piazzista di liquori), George Bancrofl (lo sceriffo)
hanno la naturalezza di personaggi vivi. Più normale la prestazione di Claire
Trevor, Andy Devine, Berton Churchill (il banchiere fellone).

8 1/2

Regia: Federico Fellini. Interpreti: Marcello Mastroianni, Sandra Milo,


Anouk Aimée, Claudia Cardinale, Guido Alberti, Mario Pisu, Rossella Falk,
Barbara Steele, Caterina Boratto, Annibale Ninchi, Giuditta Rissone, Mario
Conocchia. Produzione: Angelo Rizzoli, Italia. 1963.

Il cinema guarda dentro la propria casa, un regista guarda dentro se stes-


so. Questo, in un periodo in cui le tensioni sociali (e morali) stanno venendo
a galla, drammaticamente. Fellini rivela, dopo La dolce vita (1959)
applaudita ovunque, una particolare sensibilità culturale: raccontando se
stesso, e i suoi crucci di regista che non riesce a realizzare il film che ha in
mente, affronta i meccanismi - mentali, professionali, tecnici, economici -
sui quali si impernia la produzione cinematografica. Fare cinema è mettersi
in gioco. Lo si può fare in maniera affannata, ma lo si può anche fare in
forme lievi, secondo una ideologia consolatoria e, alla fine, ottimistica. E
questo è, appunto, 8 1/2 (otto film e uno sketch - inserito in un film a
episodi - ha girato Fellini sinora).
Preso nel solito ingorgo cittadino che affligge gli italiani del boom, Guido
(l'alter ego di Fellini, impersonato ォ per clonazione サ da Marcello
Mastroianni) sogna di volare per fuggire alle Terme. Lì convengono tutte le
figure della sua vita, e anche il produttore per il quale dovrebbe girare (le
costruzioni sono già pronte) un film di fantascienza. Che fare? Come
riacquistare il senso della misura, e l'energia creativa? A Guido rimane solo
la via della fuga da una penosa conferenza stampa, ed è come avvenisse un
miracolo: tutti i ricordi e tutte le figure della vita di un anomalo intellettuale
(questo è infatti un regista, oggi) danzano - sulla musica ォ circense サ di
Nino Rota - un bel girotondo che rievoca la mai dimenticata infanzia.
Divagante e affascinante, l'autoanalisi del regista (e del cinema) conquista
consensi e premi, fra l'altro vincendo - nonostante le resistenze degli adepti
dello pseudorealismo socialista - il festival di Mosca.

Paisà

Regia: Roberto Rossellini. Interpreti: Carmela Sazio, John Kitzmiller,


Alfonsino, Maria Michi, Harriet White, Renzo Avanzo, Bill Tubbs, Dale
Edmonds, Cigolani. Produzione: OFI/ Foreign Film Production / Capitani
Film, Italia. 1946.

Sei episodi sulla guerra in Italia seguendo l'avanzare delle truppe alleate.
Dalla Sicilia alle foci del Po. In mezzo, Napoli (uno scugnizzo ruba le
scarpe al soldato negro), Roma (una prostituta incontra il carrista che si era
innamorato di lei al momento della liberazione della città e che ora, ubriaco,
non la riconosce), Firenze (una infermiera inglese attraversa la città divisa
in due per rintracciare il suo uomo, e scopre che, comandante partigiano, è
morto combattendo contro i fascisti), Appennino tosco-emiliano (tre
cappellani militari - un cattolico, un protestante e un ebreo - portano
involontariamente lo scompiglio in un monastero francescano). Nel primo
episodio, una ragazza siciliana fa da guida a una pattuglia americana appena
sbarcata, resta sola con il soldato più giovane e ascolta pur senza
comprenderle le sue confidenze, finendo per essere la involontaria causa
della sua morte (colpito da un cecchino tedesco) e per cadere nelle mani
della pattuglia germanica sopravvenuta, lasciandoci la vita. Nell'ultimo - il
più tragico e straziante, svolto rigorosamente a occhi asciutti - un gruppo di
partigiani e un ufficiale americano dei servizi speciali difendono
disperatamente le posizioni fra i canali del delta fino a quando l'offensiva
tedesca non ha ragione della loro resistenza, dopo avere massacrato chi gli
ha prestato aiuto. Mai film è stato più unitario e compatto di quest'opera
rosselliniana in sei episodi senza diretti collegamenti fra loro. Il filo che li
tiene insieme è, certo, la guerra che risale la penisola e i brevissimi inserti di
attualità che separano un fatto dall'altro (in chiusura una voce di speaker
fuori campo dice: ォ Questo accadeva nell'inverno del 1944. All'inizio della
primavera la guerra era finita サ ), ma è, più ancora e con forza ben
maggiore, lo stile delle immagini, frutto di uno sguardo pietoso eppure
fermo, senza concessioni alle lacrime o alla indignazione.

La Passione di Giovanna d'Arco (La passion de Jeanne d'Arc)

Regia: Cari Theodor Dreyer. Interpreti: Renée Falconetti, Eugène Sylvain,


Maurice Schutz, Michel Simon, Antonin Artaud, André Berley, Ravet, Jean
d'Yd, Fernand Ledoux. Produzione: Société generale de Films, Francia.
1928.

Il processo, la condanna e la morte di Giovanna d'Arco, concentrati in una


sola giornata. Rouen, 30 maggio 1431. La contadina analfabeta prega prima
di essere condotta davanti al giudice Cauchon. Interrogata, non risponde. In
cella è visitata dall'inquisitore Loyseleur, che tenta di indurla a cedere.
Entrano i giudici, ma Giovanna non parla. Nella camera della tortura rifiuta
di firmare l'abiura e sviene. Il comandante inglese esige che Giovanna sia
messa a morte. Condotta nel cimitero, la contadina che ォ sente le voci サ, e
difende il paese contro gli invasori, si vede circondata dall'amore del popolo
che la vuole salva. Allora firma l'abiura. Riportata in cella, il capo rasato in
segno di infamia, si pente. Chiede di presentarsi ancora una volta al giudice
Cauchon e ritratta. Il rogo l'attende. Il popolo che l'ama assiste inorridito. ォ
Avete bruciato una santa サ , gridano. E tentano di insorgere contro gli
inglesi. Invano. Dreyer, giunto all'ottavo film, si affida a uno studio accurato
dei verbali del processo, si ispira a un racconto di Joseph Delteil e incarica
gli scenografi Jean Hugo (che si rifà alle miniature del quattrocentesco
Livre des merveilles) e Hermann Warm (che con Ròhrig e Reimann aveva
collaborato a Das Kabinett des Dr. Caligari) di costruire un castello
ottagonale nelle sue autentiche dimensioni, con tutti gli ambienti allestiti
secondo verità storica. E ciò, invece di indurre il regista a scegliere uno stile
realistico, lo aiuta a puntare sulla più ascetica astrazione, a collocare i
personaggi sullo sfondo di pareti bianche isolandoli in primi piani dal basso
o dall'alto, a preferire inquadrature diagonali, sghembe o ォ irregolari サ. Al
centro, la santa. Santa nella gloria del martirio e, insieme, strega nella
debolezza dell'abiura, quando lascia trapelare la luce inquietante del
demoniaco.
Il porto delle nebbie (Quai des brumes)

Regia: Marcel Carnè. Interpreti: Jean Gabin, Michèle Morgan, Michel


Simon, Pierre Brasseur, Edouard Delmont, Aimos, Robert Le Vigan, René
Genin. Produzione: Ciné-Alliance, Francia. 1938.

Brest o Le Havre o Calais, o qualsiasi altro porto nel nord della Francia. Il
luogo dell'amore impossibile, secondo la poetica di Jacques Prévert e di
Carnè. La storia, largamente modificata e trasferita da Montmartre alle
nebbie atlantiche, proviene da un romanzo di Pierre MacOrlan. Il film è
letteralmente immerso nella nebbia che sfuma le linee delle case, delle
strade e dei moli (tutto è splendidamente ricostruito dalla sapienza dello
scenografo Alexandre Trauner), traducendo nel morbido bianco e nero di
Eugène Schùfftan (e dei suoi collaboratori Page, Alekan e Agostini) il senso
della tragedia incombente. Di rado accade che si stabilisca, fra i realizzatori,
un'armonia così forte, a cui gli attori apportano il tono dell'atmosfera
stilistica che prese il nome di ォ realismo poetico サ: un intenso Jean Gabin
nei panni del disertore che tenta una impossibile fuga, una enigmatica
Michèle Morgan, un insinuante Michel Simon nel turpe personaggio del
tutore, lo sbruffone Pierre Brasseur in veste di piccolo gangster, per non
soffermarci su eccellenti comprimari come Le Vigan, Aimos e Delmont,
incarnazioni di simboli piuttosto che personaggi.
Il disertore cerca un imbarco. In una baracca del porto incontra chi lo può
aiutare. Ma soprattutto incontra una ragazza infelice che vive con il
proprietario di un negozietto cui è stata affidata la tutela di questa ragazza
triste dai grandi occhi azzurri. ネ un ambiente sordido, dominato da un
banditello arrogante che della ragazza è innamorato.
Il disertore vive il suo breve amore, si scontra con il gangster e infine con
il vecchio, quando lo sorprende nel tentativo di abusare della sua protetta e
lo uccide. La nave sta per salpare, ma il fuggiasco non vi salirà: il bandito lo
fredda per strada. Le ombre che avvolgono i personaggi sono le facce
ingannevoli di una aspirazione al bene che la vita impietosamente distrugge.

Il posto delle fragole (Smultronstàllet)

Regia: Ingmar Bergman. Interpreti: Victor Sjòstròm, Bibi Andersson,


Ingrid Thulin, Gunnar Bjòrnstrand, Folke Sundqvist, Bjòrn Bjelvenstam,
Naima Wifstrand, Juliane Kindahl. Produzione: Svensk Filmindustri,
Svezia. 1957.

Dopo II settimo sigillo Bergman svolge un'altra meditazione sulla morte.


Meno cupa ma altrettanto desolata e, nella sua desolazione irrimediabile,
serena. ネ la serenità cui giunge il vecchio professor Borg (un formidabile
Sjòstròm, maestro e ォ monumento サ del cinema svedese), batteriologo di
rinomanza internazionale che, nel viaggio in automobile alla volta
dell'università di Lund, dove si festeggerà il suo giubileo, ripercorre non
solo le tappe di una lunga vita (rivedrà quell'angolo del giardino, nella casa
della vecchissima madre, che i giovani chiamavano ォ posto delle fragole サ
e che fu il teatro di una sua cocente delusione d'amore) ma partecipa anche
al dramma della nuora Marianne che sta per separarsi dal marito e ai litigi di
tre ragazzi presi a bordo. Tutto questo confluisce in una sorta di pacato
esame di coscienza: è stata spesa bene la vita di un luminare che ha
trascurato i sentimenti per coltivare il lavoro e l'ambizione? Intorno a lui il
mondo non è cambiato, gli egoismi sono i medesimi, forse anche più gravi.
La notte il vecchio aveva avuto un incubo, s'era visto chiuso in una bara,
lungo una strada sconosciuta, fiancheggiata da orologi senza lancette.
Adesso ascolta compunto i discorsi degli accademici. Torna a casa e si
mette a letto, dopo avere intuito che forse la nuora e il figlio ritroveranno
un'intesa.
Il tessuto narrativo è come sconvolto, i salti di tono sono continui, fra
realtà e sogno, con personaggi che trascorrono da uno spazio all'altro senza
che si alteri la continuità. ネ uno dei film più aspri di Bergman, uno dei suoi
capolavori: riceverà al festival di Berlino l'Orso d'oro.

A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot)

Regia: Billy Wilder. Interpreti: Marilyn Monroe, Tony Curtis, Jack


Lemmon, George Raft, Pat O'Brien, Nehemiah Persoff, Joe E. Brown,
George Stone. Produzione: United Artists / Mirisch, USA. 1959.

Alle soglie degli anni Sessanta, il cinema cambia pelle. Anche Billy Wilder
la cambia, a modo suo, annegando l'umor nero nei sussulti della commedia
e, con Some Like It Hot, della farsa addirittura. Non sarà una rivoluzione,
ma è certo una rottura. Fragorosa. Perché questo è il meccanismo comico
più sfolgorante della storia del cinema, servito da una Marilyn Monroe non
solo deliziosa ma stilisticamente impeccabile, da due giullari affidabili
(Tony Curtis e Jack Lemmon, travestiti da donne), dalle facce patibolari di
specialisti del film gangster (George Raft e Pat O'Brien) e dalla impassibile
comicità del vecchio Joe Brown.
Siamo nel 1929, al tempo della strage di San Valentino, a Chicago. Due
jazzisti vi assistono senza volerlo, e per loro si tratta di sparire onde salvare
la pelle: indossano abiti femminili, si infilano in una orchestra,
solidarizzano con la bella cantante e passano di paura in paura. Gli equivoci
ovviamente si sprecano, in un incalzare di effetti che sfociano nella celebre
battuta finale (del miliardario interpretato da Joe Brown): ォ Nessuno è
perfetto サ, pronunciata nel momento in cui scopre che ha sposato un uomo.
La farsa graffia, nonostante questo apparente divagare. L'umor nero si
scioglie in una salsa piccante: se il mondo è in mano ai matti, tanto vale
stare al gioco, aggredire per non essere aggrediti e dominare la paura. Amori
impossibili, seduzioni e fughe si alternano secondo il ritmo veloce imposto
dall'azione. ネ uno scherzo irreale, che ォ pesca サ nei tabù della società e
nelle convenzioni dei generi cinematografici, senza darlo a vedere.

Quarto potere (Citizen Kane)

Regia: Orson Welles. Interpreti: Orson Welles, Joseph Cotten, Everett


Sloane, Dorothy Comingore, Ray Collins, Agnes Moorehead, Ruth Warrick.
Produzione: Mercury Productions, USA. 1941.

Nel castello di Xanadu, dinanzi al quale un cartello impone ォ No


Trespassing サ , muore il magnate della stampa Charles Foster Kane,
mormorando una misteriosa parola ( ォ Rosebud サ , bocciolo di rosa). Un
giornalista riceve l'incarico di svelare il mistero e di indagare nei segreti di
una tempestosa vita di manipolatore della opinione pubblica. Saranno
cinque le testimonianze che il giornalista faticosamente raccoglierà, e
saranno lunghi flashback. Sfileranno coloro che ebbero la ventura (più
spesso, la sventura) di vivere accanto al grand'uomo: una moglie che aveva
ambizioni canore, un industriale che raccolse il Kane bambino in provincia
e lo condusse in città, il compagno nella scalata ai giornali, il critico teatrale
di uno di questi, nuovamente la moglie - la tormentata Susan ora ridotta a
cantare in un night, copia mal riuscita di Marlene Dietrich - che rievoca gli
ultimi anni del marito, infine il maggiordomo. Incerte sonde introdotte nel
mistero illumineranno alcuni aspetti di una vita sprecata, ma non
spiegheranno perché sulle labbra del morente sia affiorata la parola ォ
Rosebud サ. Solo alla fine, quando i facchini getteranno nel fuoco le mille
carabattole ammucchiate nelle sale del castello, si scoprirà l'enigma: ォ
Rosebud サ si chiamava lo slittino con cui giocava il piccolo quando fu
strappato dalla famiglia che l'aveva allevato. Poi la macchina da presa rifà al
rovescio il percorso iniziale, tornando al cartello del ォ No Trespassing サ,
mentre un fumo nero esce dal camino: una vita intera si disperde nel cielo
cupo. E tutto assai infantile, come il ricordo straziante dello slittino. Ma è,
insieme, straordinariamente suggestivo, e autobiografico (all'epoca di
Citizen Kane Orson Welles ha 25 anni). Sfocia in una ossessiva ricerca della
ォ imponenza サ figurativa: numerose angolazioni dal basso, gigantesche
ombre proiettate sulle pareti, campi lunghi usati per sottolineare la
profondità di campo ottenuta dall'operatore Gregg Toland con i grandangoli
e la estrema chiusura del diaframma. Tutto è eccessivo (anche la goffaggine
dello strabbuzzar d'occhi in Welles), tutto è smisurato.

I quattrocento colpi (Les quatrecents coups)

Regia: Francois Truffaut. Interpreti: Jean-Pierre Léaud, Albert Rémy,


Claire Maurier, Georges Flamant, Patrick Auffay, Yvonne Claudie, Robert
Beauvais, Claude Mansard, Jacques Monod, Jeanne Moreau. Produzione:
Les Films du Carrosse, Francia. 1959.

ォ Faire les quatrecents coups サ significa fare il diavolo a quattro. Come


il piccolo Antoine, costretto a vivere in un appartamentino con un padre e
una madre che non vanno d'accordo. Si sfoga, il ragazzo, ribellandosi alle
costrizioni della scuola in combutta con il compagno René. Un giorno
scopre per strada la madre in compagnia di un uomo. ネ come una
pugnalata. ォ Ripudia サ la madre e, a scuola, dice che è morta. Scoperto,
fugge di casa. Quando rientra pare che i genitori si siano riconciliati, per
amor suo. A scuola un professore lo accusa di aver copiato un tema. ネ
troppo. Antoine e René rubano una macchina da scrivere e si fanno
sorprendere proprio quando decidono di restituire il maltolto. Inviato in
riformatorio, il ribelle Antoine alla prima occasione elude la sorveglianza e
scappa. Corre verso il mare che non ha mai veduto, felice. Che fare, adesso,
se non tornare indietro, verso la rieducazione che la società gli ha imposto?
Dopo Le beau Serge (1958) di Claude Chabrol, considerato il primo film
della ォ nouvelle vague サ , Les quatrecents coups rappresenta l'esordio di
Truffaut, critico battagliero di quello che lui e i suoi amici ォ rivoluzionari サ
chiamano ォ le cinema de papa サ . ネ il tempo in cui salgono dal basso i
fermenti libertari che il benessere economico non riesce a smorzare.
Truffaut se ne fa interprete ripiegando sulla autobiografia (in Antoine c'è
molto dell'infanzia sua personale) e narrando con tenerezza l'avventura di un
ribelle che la società respinge. Il film gronda sincerità e affetto. Antoine
diverrà per Truffaut un personaggio quasi fisso, ricomparendo di film in
film, sempre interpretato da Jean-Pierre Léaud, vero e proprio alter ego del
regista.

Rapacità (Greed)

Regìa: Erich von Stroheim. Interpreti: Gibson Gowland, Zasu Pitts, Jean
Hersholt, Cesare Gravina, Chester Conklin, Sylvia Ashton. Produzione:
MGM, USA. 1924.

Un'opera ォ smisurata サ che esce dai cantieri di un produttore (Irving


Thalberg per la MGM) saldamente inserito nel mercato. La contraddizione
provoca tensioni fra il ォ dittatore サ Stroheim e la struttura dello Studio.
Culminerà con l'intervento prima di Rex Ingram e poi di June Mathis che
ridurranno quasi alla metà la sterminata lunghezza del film. Alla fine si
calcola che Greed contenga appena un quinto del materiale girato da
Stroheim: quella che avrebbe dovuto essere una epopea americana, estratta
dalle pagine di un romanzo di Frank Norris (McTeague, 1899, pubblicato in
Italia con il titolo Una storia di San Francisco), si riduce alle proporzioni di
una tragedia privata. Avrebbe potuto essere, quindici anni prima e con
maggior forza rappresentativa, un Via col vento. Ma non era pensabile che
la dirigesse uno straniero così ォ eversore サ. Greed (ingordigia e avarizia,
piuttosto che rapacità) trasferisce nelle immagini una ossessiva mania di
grandezza (Stroheim, che sta per compiere 40 anni, ha già scandalizzato
Hollywood e la sua morale puritana con film come Femmine folli e Donne
viennesi).
La sete dell'oro sconvolge la mente dei mediocri protagonisti, figli di una
civiltà in formazione, non ancora staccati dai pregiudizi della vecchia
Europa e non ancora inseriti nel ォ pionierismo サ americano (la storia si
svolge tra San Francisco e il deserto californiano). Un ex minatore
s'improvvisa odontotecnico, e prende in cura una ragazza (Trina) di origine
tedesca, fidanzata dell'amico Marcus. Questo rozzo McTeague si innamora
di Trina, la sposa. La donna vive per ammassare e ォ venerare サ il denaro.
Marcus, geloso, denuncia McTeague, che è costretto a chiudere il suo
laboratorio, cade in miseria, si abbandona all'alcol, uccide Trina per sottrarle
il ォ tesoro サ, fugge verso la Death Valley. Marcus lo raggiunge nel deserto.
Ingaggiano una lotta furiosa, Marcus ha portato con sé le manette per
arrestare il rivale, e saranno proprio le manette a legarli per sempre nella
morte.

Rashomon (Rashómon)

Regia: Akira Kurosawa. Interpreti: Toshiro Mifune, Machiko Kyo,


Masayuki Mori, Takashi Shimura, Minoru Chiaki, Daisuke Kato, Famiko
Homma. Produzione: Daiei, Giappone. 1950.

Nel 1951 Rashómon è la grande rivelazione della Mostra di Venezia. Del


cinema giapponese poco si sapeva. Ed ecco piombare, al centro di una
competizione di alto prestigio internazionale, questo capolavoro dello
sconosciuto Kurosawa, che vince il Leone d'oro, e l'anno successivo
conquisterà l'Oscar per il miglior film straniero. Da questo momento il
cinema nipponico sarà uno dei maggiori protagonisti della scena mondiale.
Il presidente della società produttrice, che ha inviato Rashòmon a Venezia
all'insaputa di un regista quarantenne da sette anni sulla breccia, chiarisce le
ragioni del successo: ォ Un critico americano disse che Kurosawa aveva
imparato l'arte della fotografia da Fritz Lang, quella della drammaturgia
teatrale da Pirandello e che è stato ispirato dalla musica di Ravel サ. Qui si
narra della inconoscibilità della verità attraverso cinque versioni
contrastanti (presentate in flashback) del medesimo delitto di cui è vittima
un samurai assalito da un brigante mentre s'inoltra nel bosco insieme alla
moglie. La prima versione è quella di un taglialegna presente al fatto. La
seconda è quella del bandito (dice che, attratto dalla donna, sfidò a duello il
marito). La terza è quella della donna (si assume la responsabilità del
crimine). La quarta è quella di un servo (immagina che il taglialegna abbia
raccontato la sua asettica versione - l'assalto casuale del brigante alla coppia
- per distogliere l'attenzione dal fatto che egli ha rubato il prezioso pugnale
del samurai). La quinta è quella dello stesso samurai, evocato da una maga
(fu la moglie che indusse il bandito a ucciderlo).
Rapidi carrelli accompagnano le corse affannose dei protagonisti, il bosco
è attraversato dall'alternarsi di ombre fitte e di luce abbagliante. La musica
riproduce il tema e il ritmo via via più concitato del Bolero raveliano. Il ォ
mistero サ pirandelliano è ambientato nel medioevo nipponico. Lo
raccontano tre viandanti che si sono riparati dalla pioggia sotto la tettoia di
un tempio fatiscente: il servo, il taglialegna, un bonzo.

La recita (O thiasos)
Regia: Thodoros Anghelopulos. Interpreti: Eva Kotamanidu, Aliki
Gheorguli, Stratos Pachis, Maria Vassiliu, Vanghelis Zazan, Petros
Zarkadis, Kyriakos Katrivanos, Grigoris Evanghelatos, Iannis Phirios, Nina
Papazaphiropulu. Produzione: Ghiorgos Papalios, Grecia. 1975.

Tre ore e 50 minuti per raccontare la storia della Grecia, la storia di un


gruppo di attori (nei quali si possono individuare i personaggi del ciclo
eschileo sugli Atridi), la storia contenuta in un dramma popolare
ottocentesco intitolato Golfo la pastorella. Le prime due storie coprono
l'arco di tempo dal 1939, vigilia della seconda guerra mondiale e inizio della
dittatura di Metaxas, al 1952 quando la destra va al potere con il generale
Papagos; la terza è contemporanea (1892) al testo rappresentato. Fatti
privati (il tradimento di Clitennestra, l'uccisione di Agamennone, la
ribellione di Elettra, la vendetta di Oreste, l'uccisione di Egisto: ma fra tutti
solo Oreste è chiamato per nome) e fatti pubblici (l'invasione italiana del
1940, l'occupazione tedesca, la lotta di liberazione, la proclamazione della
monarchia, gli interventi inglese e americano, la sconfitta comunista,
l'avvento di Papagos al potere) si intrecciano con le ripetute, e sempre
interrotte, rappresentazioni di Golfo la pastorella da parte di un gruppo
miserabile di attori girovaghi, che all'inizio incontriamo fuori della stazione
ferroviaria di Eghion e che nello stesso luogo e nella stessa data ritroveremo
alla fine. La grande suggestione del film consiste in questo inestricabile in-
treccio di arte, storia e vita. In una medesima inquadratura si alternano
epoche diverse che hanno al centro gli stessi personaggi: basta un carrello,
l'intervento di suoni, musiche, parole differenti per segnare lo stacco. Oreste
vendica il padre, punisce il traditore, e paga a sua volta con la vita, fucilato
nel 1951. Attori di un rito sempre uguale, questi uomini simboleggiano,
nella loro miseria, il popolo greco. Perché la vita è sempre uguale, come
uguali sono i miti e la cultura di cui sono figli. Il proposito storicistico e
sperimentale di Anghelopulos (premio della critica internazionale al festival
di Cannes 1975) è tradotto in immagini dalla bella fotografia a colori di
Ghiorgos Arvanitis.

La regola del gioco (La règie du jeu)

Regia: Jean Renoir. Interpreti: Marcel Dalio, Nora Grégor, Roland Toutain,
Jean Renoir, Mila Parely, Gaston Modot, Julien Carette, Odette Talazac,
Paulette Dubost, Pierre Magnier, Pierre Nay. Produzione: NEF, Francia.
1939.

La prima del film ha luogo a Parigi l'8 settembre 1939, sette giorni dopo
l'invasione tedesca della Polonia che scatenerà la seconda guerra mondiale.
Renoir sogghigna sulle sorti della borghesia francese, e non della borghesia
soltanto (i proletari e i contadini - non c'è ombra di operai - sono peggiori
dei padroni). D'altronde, alla borghesia e alla nobiltà (più alla nobiltà che
alla borghesia), il regista s'è inchinato, in La grande illusione, con il
rispettoso ritratto del francese Boieldeiu e del tedesco Rauffenstein. Il
ghigno è, semmai, rivolto a una intera civiltà delle apparenze e della
ipocrisia.
Nella tenuta del marchese de la Chesnaye, in Sologne, convengono
personaggi buffi per una partita di caccia. Lui, il marchese, ci porta la
moglie Christine e il suo amante Jurieu (un fatuo aviatore che ha sorvolato
l'Atlantico battendo tutti i primati), la propria amante Geneviève, l'amico
Octave (lo stesso Renoir, goffo ed efficace la sua parte), un generale e tanti
altri. Il clima è quello, così lucidamente francese, della pochade. La caccia
non può essere che ricca perché i battitori hanno fatto un ottimo lavoro (una
sparatoria interminabile e crudele, sottolinea il regista, in un serrato
montaggio). Lo è la festa, con un balletto di ospiti mascherati da scheletri.
Lo sono i giochi d'amore, nei quali s'infilano anche la moglie del
guardacaccia e un bracconiere. E la pochade, per lo scambio di un soprabito
nella notte buia, si tramuta in tragedia: è ucciso chi non deve morire
(l'aviatore). Il marchese riporta l'ordine e la serenità, invitando la bella
compagnia ad andare a letto, perché non è successo niente. Le ombre degli
invitati, enormi, si stagliano sulla facciata del castello, i gentiluomini e le
dame si ritirano. Feroce.

Roma città aperta

Regia: Roberto Rossellini. Interpreti: Aldo Fabrizi, Anna Magnani,


Marcello Pagliero, Harry Feist, Maria Michi, Francesco Grandjacquet,
Giovanna Galletti, Nando Bruno, Vito Annichiarico. Produzione: Excelsa
Film, Italia. 1945.

Trascurato in Italia dalla critica e dal pubblico, il film riceve un gran


premio (a pari merito con altri sei, fra cui Breve incontro di David Lean e
Giorni perduti di Billy Wilder) al primo festival di Cannes, nel 1946.
Rappresenta la grande sorpresa italiana del dopoguerra, l'inaugurazione (o,
meglio, la consacrazione) del neorealismo. Rossellini si propone come il suo
corifeo. Non ha alle spalle un'ideologia salda o nuova, al massimo si
richiama ai valori del cattolicesimo, e forse neppure a quelli.
ネ un isolato. La storia di don Pietro, di Pina, del comunista Manfredi,
della spregevole Marina morfinomane nelle mani della spia nazista, dello
spietato maggiore Bergmann e di tutti gli altri, i ragazzini della parrocchia
di don Pietro, i collaborazionisti, il generoso tipografo Francesco, i
partigiani e i tedeschi, questa storia confusa acquista peso a mano a mano
che si precisa il tema della tragedia e del riscatto morale. Manfredi muore
orrendamente sotto la tortura (Rossellini non risparmia alcun dettaglio
dell'orrore), Pina - una generosissima Anna Magnani - muore falciata da una
raffica di mitra, in una sequenza indimenticabile (ed emblematica dell'intero
neorealismo), don Pietro - un sorprendente Aldo Fabrizi, sino a ieri attore di
varietà - muore fucilato, e con la sua morte (davanti ai ragazzi della par-
rocchia venuti a portargli l'ultimo saluto) si chiude il film, in una serie di
immagini sporche, fra l'indifferenza delle cose, nel silenzio di Dio (se lo si
può dire, per un cattolico come Rossellini). La forza enorme del film - la sua
novità - risiede in questa trasgressione di ogni regola, di ogni consuetudine,
di ogni luogo comune culturale.

Sabato sera, domenica mattina (Saturday Night and Sunday Morning)

Regia: Karel Reisz. Interpreti: Albert Finney, Shirley Ann Field, Rachel
Roberts, Norman Rossington, Bryan Pringle, Robert Cawdron. Produzione:
Woodfall, Gran Bretagna. 1960.

All'alba degli anni Sessanta, quando tutto il cinema europeo esce dalle
strettoie del realismo ed esplora nuovi territori - basti citare Godard e
Antonioni -, in Gran Bretagna due movimenti culturali occupano il campo:
il ォ free cinema サ e la osborniana scuola (teatrale e letteraria) degli ォ
young angry men サ. Saturday Night and Sunday Morning si trova al centro
di questo gioco della contestazione sociale che coverà lungamente prima di
esplodere alla fine del decennio.
La materia è fornita da Alan Sillitoe, che metterà la sua sapienza so-
ciologica a disposizione anche d'un altro film sintomatico, The Loneliness
of the Long Distance Runner, tre anni dopo. Sotto il microscopio del
romanziere, e del regista (esordiente nel lungometraggio) Karel Reisz, c'è la
vita d'una città di provincia (Nottingham), i quartieri operai, le meschine
infrazioni di casalinghe e di ragazze da marito, la irritante strafottenza di un
casanova di periferia, le reazioni brutali del perbenismo (già borghese)
d'una classe di proletari incapaci di lottare. Tutto si svolge, come il titolo
indica, in un week end, intorno ai divertimenti, agli affanni, alle
insoddisfazioni e alla viltà del bellimbusto Arthur, costretto a barcamenarsi
fra un'amante di cui s'è stancato (e che teme di essere incinta di lui), una
ragazza astuta che cerca una sistemazione, i genitori, una zia, gli amici. Si
arrenderà al quieto vivere, il giovanotto (interpretato da un ottimo Albert
Finney) che sembrava un ribelle. Il film è un ritratto amaro, lucido e fermo.

Senso

Regia: Luchino Visconti. Interpreti: Alida Valli, Farley Granger, Massimo


Girotti, Heinz Moog, Rina Morelli, Marcella Mariani, Sergio Fantoni.
Produzione: Lux Film, Italia. 1954.

ネ uno dei film più discussi, amati, fraintesi, ォ eccessivi サ ed eleganti del
cinema italiano. Al suo apparire scoppiò una polemica intorno al valore
culturale dell'opera, da alcuni indicata come il segno del passaggio dal
neorealismo cronachistico del primo dopoguerra a un più maturo realismo
capace di interpretare i dati della storia e della vita individuale. Dopo essere
stato uno dei protagonisti del neorealismo, Visconti si misurava con un testo
minore della letteratura italiana (un racconto di Camillo Boito). Dopo avere
affrontato I Malavoglia di Verga per La terra trema, si accaniva nella
ricostruzione dell'episodio più infelice delle guerre risorgimentali (la
sconfitta di Custoza nel 1866). In primo piano poneva un giovane ォ bello e
dannato サ della tradizione romantica (il tenente austriaco Franz Mahler,
disertore, sfruttatore di donne). Accanto a lui una contessa italiana - moglie
di un funzionario dell'imperial-regio governo asburgico - che per amore
tradisce la causa patriottica e progressivamente si degrada. Mahler,
denunciato dalla contessa, sarà fucilato. Lei vagherà disperata per una
Verona attraversata dai canti dei soldati vittoriosi. Dentro una struttura
narrativa saldamente calibrata, si scatenano alcune forze che il regista ha
sinora controllato: il gusto per il melodramma (in senso stretto e in senso
traslato: Giuseppe Verdi e i sentimenti urlati), la ideologizzazione dello stile
epico (la battaglia di Custoza, ma anche le vicissitudini dei patrioti, le
tensioni fra costoro e il comando militare piemontese), la intelligenza
figurativa (con il concorso di Scotti, Escoffier e Tosi, nonché degli operatori
Aldo e Krasker, autori di un elegantissimo colore), il severo controllo della
recitazione (Alida Valli fornisce la sua migliore prova di attrice), le
infatuazioni musicali di stampo decadentistico. Per tutto questo, Senso è
opera memorabile.

Senza tetto né legge (Sans toit ni loi)

Regia: Agnès Varda. Interpreti: Sandrine Bonnaire, Macha Méril, Yolande


Moreau, Stéphane Freiss, Marthe Jarnais, Joel Fosse, Patrick Lepczynski,
Laurence Cortadellas, Yahiaoui Assouna. Produzione: Ciné-Tamaris / Film
à 2 / Film Four International, Francia. 1985.

L'assonanza presente nel titolo originale suggerisce sia l'ideologia che


l'andamento del film: Agnès Varda disegna il ritratto di una disperazione
senza rimedio. Questa Mona Bergeron, ragazza che rifiuta ogni legame, si
aggira per la Francia, di paese in paese, ora s'imbranca con qualcuno per
subito allontanarsene, ora trova assistenza presso chi ha pietà di lei, ora
partecipa alle imprese di sbandati pari suoi, ora si lascia andare al suo
destino, vinta dal freddo e dalla fame. Viene la morte, tra i filari di un
vigneto, dove il film inizia per poi raccontare la storia a ritroso, attraverso
un lungo flashback. Sono incontri casuali: un camionista che tenta di
approfittare di lei, un giovane che le offre un panino, il proprietario di una
stazione di servizio, un ebreo con il quale si droga, una suora che la sfama,
una coppia che alleva capre e che le affida un terreno da coltivare a patate,
un tunisino che la introduce nel suo clan, la domestica di una vecchia
signora dipsomane, una congrega di ragazzacci pronti a tutto, i contadini
che fanno festa in un villaggio.
Agnès Varda affronta per solito tematiche femminili e femministe, con
sguardo insieme distaccato e attento, nello sforzo di documentare -
maniacalmente, si potrebbe dire - ciò che vede. Nel 1962, con il suo primo
lungometraggio, aveva raccontato di una ragazza che teme di essere affetta
dal cancro: un film dominato dallo sguardo impassibile (e perciò ancor più
acuto) della regista. Lo stesso accade, in una squallida natura invernale ben
fotografata da Patrick Blossier, in Sans toit ni loi, che otterrà il Leone d'oro
alla Mostra di Venezia. Sandrine Bonnaire mostra sensibilità e forza, in
egual misura, nella parte ingrata di Mona.

Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet)

Regia: Ingmar Bergman. Interpreti: Max von Sydow, Gunnar Bjòrnstrand,


Bcngt Fkerot, Nils Poppe, Bibi Andersson, Inga Landgré, Ake Fridell,
Anders Ek, Maud Hansson, Gunnel Lindblom. Produzione: Svensk
Filmindustri, Svezia. 1956.

Con la rottura del settimo sigillo - l'ultimo - si avrà la rivelazione del


segreto. ォ Allorché l'Angelo aprì il settimo sigillo - si legge nella Apoca-
lisse di Giovanni - si fece un gran silenzio nel cielo per circa mezz'ora.サ Il
cavaliere Antonius Block torna in patria dalla Crociata, accompagnato dallo
scudiero Jòns (Max von Sydow e Gunnar Bjòrnstrand interpretano con
assoluta convinzione la ォ assurdità サ di questi uomini medievali). Si ode
una voce che legge il testo giovanneo. Al cavaliere si presenta la morte.
Tremante, l'uomo propone di giocare una partita a scacchi: fino a che
durerà, la morte non potrà agire. Partono, il cavaliere e Jòns, e attraversano
lande devastate dalla fame e dalla peste. Incontrano un gruppo di attori (due
uomini e una donna), un pittore che si interroga sul mistero di Dio, una
strega che sarà condotta al rogo, un brigante, una processione di flagellanti
mentre gli attori rappresentano il loro povero spettacolo. L'attore seduce la
moglie di un fabbro. Sorpreso dal marito, finge di suicidarsi, ma la morte
trasforma la finzione in realtà. Il cavaliere, che continua a giocare a scacchi,
si ripromette di compiere una buona azione, e ci riesce consentendo ai due
attori superstiti (marito e moglie) di salvarsi. La morte dà scacco matto. Sul
ciglio della collina, nella luce sporca dell'alba (è una immagine destinata a
diventar celebre), la morte guida danzando il corteo dei defunti, il cavaliere
in testa.
Bergman affronta per la prima volta, esplicitamente, un tema religioso,
anche se in ognuno dei suoi film precedenti la religione ha lasciato il segno.
Qui, nella plumbea atmosfera di un Medioevo nordico (fotografato
sapientemente da Gunnar Fischer), la meditazione sulla responsabilità
dell'uomo (e sulla sua inevitabile condanna) trova accenti intensi e sobri al
tempo stesso.

Shining (The Shining)

Regia: Stanley Kubrick. Interpreti: Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny


Lloyd. Scatman Crothers, Barry Nelson. Produzione: Peregrine Film /
Warner Bros., USA. 1980.

Kubrick vive il mondo come una dura costrizione, e ogni suo film è un
tentativo di fuga nella libertà. Ma è, sempre, un tentativo che fallisce. Dopo
il raffinato Barry Lyndon, da Thackeray, il regista si avvicina a Stephen
King e traduce in immagini quel The Shining che di tutti gli incubi del
romanziere è il più sottile e ォ filosofico サ. L'avventura di una madre e di un
bambino sfuggiti alla follia omicida del padre, in un albergo vuoto fra le
montagne del Colorado, si risolve in una fuga che garantisce ai due la
libertà. Ma chi era davvero quest'uomo che aveva ambizioni di scrittore,
sempre frustrate, e che ritroviamo alla fine in una fotografia del 1929 appesa
a una parete del bar (una reincarnazione, un fantasma)? ネ morto assiderato,
nel labirinto di verzura, grazie allo stratagemma del figlioletto che voleva
uccidere. Morto realmente?
The Shining è una storia di pazzia e di morte, nel grande spazio gelido e
deserto (chiuso come una prigione) dell'Overlook Hotel. Torrance
(interpretato da un ghignante Jack Nicholson) non riesce a scrivere,
smarrisce la ragione, uccide il capocuoco richiamato per un controllo,
aggredisce moglie e figlio con un'ascia. Li ammazzerebbe se il bambino, che
possiede facoltà extrasensoriali (lo ォ shining サ ) e ha ォ intuito サ la
presenza di una famiglia che era stata sterminata da un custode anni prima,
non lo ingannasse facendogli perdere l'orientamento sulla neve che ricopre i
sentieri del labirinto.
Kubrick esprime l'angoscia con il movimento continuo della macchina da
presa (usa per la prima volta lo steadicam, messo a punto dall'operatore
Garrett Brown per consentire movimenti senza scosse, liberi da ogni
costrizione meccanica), con gli obiettivi grandangolari, la luce effettata, le
ォ apparizioni サ allarmanti di sangue e di cadaveri immaginati, lo sguardo
indecifrabile di un bambino ォ diverso サ.

Il silenzio è d'oro (Le silence est d'or)

Regia: René Clair. Interpreti: Maurice Chevalier, Marcelle Darrien,


Francois Périer, Gaston Modot, Paul Ollivier, Raymond Cordy, Dany Robin,
Robert Pizani. Produzione: Pathé / RKO, Francia. 1947.

Il proverbio del titolo serve per introdurre il nostalgico elogio del cinema
muto. Clair, reduce dal lungo ォ esilio サ americano durante la guerra,
ritrova la sua Parigi confusa. E sogna la Parigi 1906, quando il cinema
muoveva i primi passi e Louis Feuillade iniziava una fortunata carriera di
regista che l'avrebbe condotto ai grandi successi di Fantómas e di Les
vampires. Regista ironico e sentimentale, ritrova in questa storiella di vecchi
e di giovani il sapore della giovinezza (Clair ora ha quasi 50 anni) e ne
ricava un pretesto per rendere omaggio -come egli stesso dirà - agli ォ
artigiani che fecero nascere in Francia la prima industria cinematografica サ.
C'è un impresario un po' briccone che risponde al nome di Emile e che è
interpretato con leggerezza dal sorridente Maurice Chevalier. Ci sono gli
studi Fortuna dove si girano filmetti sentimentali per platee non esigenti.
Lui, Emile, è non solo intraprendente come produttore ma è anche un abile
metteur en scène: i suoi attori lo adorano e lo seguono in tutto. Lo seguono
pure nella vita, accettando i suoi consigli. Così, vita e finzione si
confondono, l'amore e il corteggiamento sullo schermo si riproducono fuori
del set. Non scoppiano mai drammi, la poetica di Clair è altrimenti orientata.
Ma un tarlo s'è introdotto nel cuore del vecchio marpione Emile: la prima
attrice Madeleine gli piace, anche se potrebbe essere sua figlia, e lui tenta,
capisce che non è il caso e alla fine rinuncia in favore del giovane Jacques.
La morbida fotografia di Armand Thirard e le soffici melodie di Georges
Van Parys, nonché la freschezza di due interpreti come Marcelle Derrien e
Francois Périer, contribuiscono a fare di Le silence est d'or l'opera più nitida
di tutta la filmografia clairiana.

Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge)

Regia: Wim Wenders. Interpreti: Patrick Bauchau, Paul Getty III, Viva
Auder, Samuel Fuller, Isabelle Weingarten, Rebecca Pauly, Jeffrey Kime,
Geoffrey Carey. Produzione: Road Movies, Repubblica federale di
Germania. 1982.

Leone d'oro alla Mostra di Venezia 1982, Der Stand der Dinge - im-
peccabile bianco e nero di Henri Alekan - è stato realizzato da Wim
Wenders negli intervalli della travagliata lavorazione di Hammelt, film
commissionatogli da Coppola e di esito quasi fallimentare. E una
scommessa, contro il cinema (le esigenze dell'industria) e contro il suo
stesso autore (il regista riflette sulla natura del cinema e dalla riflessione
deduce di essere inadatto a questo mestiere, se di mestiere si tratta).
Si narra qui di un film di fantascienza che il regista Friedrich Munro
(trasparente allusione a Friedrich W. Murnau) sta girando in Portogallo,
sulla riva dell'Atlantico. I fondi sono terminati. Il produttore è rientrato a
Los Angeles. Munro lo cerca dapprima presso lo sceneggiatore Dennis che
sa tutto della lavorazione ma non è in grado di aiutare la troupe. Va, allora, a
Los Angeles, dove apprende che i capitali sono stati stanziati proprio dallo
sceneggiatore, ora sommerso dai debiti, e che il produttore vive a bordo di
un camper sempre in movimento per evitare di essere raggiunto dalla mafia.
Munro lo scova, sale sul camper e trascorre la notte con lui, a discutere di
cinema. All'alba i mafiosi li scoprono e, in mezzo alla strada, li ammazzano.
Privo di azione, attraversato da improvvise ォ irruzioni サ nella vita pri-
vata dei membri della troupe, il film si snoda lento negli esterni portoghesi.
Quando si sposta a Los Angeles, acquista il ritmo di una ricerca quasi
poliziesca: non è più una riflessione sul cinema, è un piccolo ォ mystery サ
costruito secondo le regole del genere. Sono le due facce di un regista
geniale, che si confessa in pubblico mentre tenta di non farsi espellere dal
recinto (maledetto ma inevitabile) della produzione.

Sur (Sur)

Regia: Fernando E. Solanas. Interpreti: Suso Pecoraro, Miguel Angel Sola,


Philippe Léotard, Lito Cruz, Ulises Dumont, Roberto Goyeneche, Gabriela
Toscano, Mario Lozano, Nathan Pinzón, Ines Molina. Produzione: Cinesur /
Canal Plus, Argentina / Francia. 1988.

Quattro capitoli, che corrispondono a quattro sogni del protagonista


Floreal, costituiscono il corpo centrale di un film di due ore (premio per la
regia al festival di Cannes 1988), ambientato a Buenos Aires nel 1983.
Floreal torna dalla Patagonia (è stato prigioniero cinque anni durante la
dittatura militare). Arrivato, una sera, nella piazzetta dove ha vissuto con
sua moglie Rosi, rievoca - attraverso l'immaginario racconto di un amico
che è stato ammazzato dagli ォ squadroni della morte サ - il suo dramma di
sindacalista e di oppositore.
Quattro tappe. La tavola dei sogni narra del matrimonio e della attività
clandestina. La ricerca vede Rosi raggiungere, grazie all'intervento di
Roberto, un francese, la Patagonia per visitare il marito in carcere. Amore e
nient'altro mostra Rosi che cede all'amore di Roberto, quando costui sta per
partire. Floreal ora la respinge. Morire stanca, dopo aver raccontato le
ultime vicissitudini di Floreal in carcere e la morte di un colonnello
dissidente che l'ha aiutato, mostra il protagonista nella piazzetta dell'inizio,
esitante dinanzi alla casa dove abitano Rosi e il loro bambino. L'amico
morto lo incita a non cedere alla gelosia. E Floreal, camminando fra le
cartacce sollevate dal vento, va verso casa.
Fotografato con grande sensibilità ォ narrativa サ da Felix Monti (i colori
azzurrini, talvolta brillanti nei controluce, della piazzetta; gli ocra sporchi e
impastati per le carceri), Sur - Sur, ossia ォ sud サ: è il nome del bar sulla
piazzetta, ed è anche la Patagonia - costituisce il commosso omaggio di un
argentino esule alla sua patria, dove ora ritorna dopo esserne stato lontano
dieci anni. Floreal è la sua voce, la sua indignazione per la spaventosa
dittatura, le sue incertezze sull'avvenire, il dolore per i tanti lutti e i tanti ォ
desaparecidos サ, il suo desiderio di dimenticare e di dimenticarsi nel sogno.
Solanas è figlio fedele della sua terra e della sua cultura.

Sussurri e grida (Viskningar och rop)

Regia: Ingmar Bergman. Interpreti: Harriet Andersson, Ingrid Thulin, Liv


Ullmann, Kari Sylwan, Georg Arlin, Erland Josephson, Henning Moritzen.
Produzione: Svensk Filmindustri, Svezia. 1972.

Ingmar Bergman possiede una ricchezza interiore stupefacente, sebbene


la sua tematica sia oggettivamente limitata, aggirandosi tutta intorno alle
resistenze psichiche che impediscono agli uomini di realizzare un'autentica
comunione. Ma le variazioni possono essere numerose, tanto che anche film
in apparenza simili rivelano spunti sempre nuovi. Con Viskningar och rop il
regista esplora il suo tema alla luce del trauma cui sono sottoposte tre
sorelle riunite in una villa circondata da un grande parco (siamo agli inizi
del secolo). Una di loro, Agnese, che sta morendo di cancro, soffre
atrocemente. Invoca aiuto, ma le sorelle - Karin è afflitta da un marito
anziano ed è vittima di una nevrosi autopunitiva; Maria è una fatua
personcina che si occupa soltanto di se stessa - non sanno offrirle altro che
assistenza, sovente controvoglia.
Il film è scandito da lunghe dissolvenze in chiusura e in apertura sulle
tonalità del rosso. Maria e Karin inseguono i propri rancori o le proprie
sciocchezze, ricevono visite. Solo Anna, la paciosa governante che ha
perduto una figlia, sa essere vicina alla moribonda. La soccorrerà nell'istante
della morte. La soccorrerà anche nell'agghiacciante episodio che segue,
quando Agnese balzerà sul letto spaventando le sorelle. Bergman usa uno
stilema del film horror, gratuitamente ma in maniera sconvolgente. Come
sconvolgente è tutto il film che alterna l'incontro delle tre sorelle alla
rivisitazione nostalgica della casa familiare (le ampie sale, le tappezzerie
rosse, i mobili antichi, il prato e gli alberi secolari del giardino, i ricordi
della madre). Ormai tutto è consumato, nemmeno l'amore sopravviverà. Le
tre attrici che interpretano le sorelle (Harriet Andersson, Ingrid Thulin, Liv
Ullmann) possiedono l'umiltà di non prevaricare l'una sull'altra pur senza
venir meno ad alcun impegno dei rispettivi personaggi.
Tabù (Tabu)

Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Interpreti: Reri, Matahi, Hitu, Jean,


Julius, Kong Ah. Produzione: Murnau-Flaherty Production, USA. 1931.

Flaherty e Murnau si accordano per un film da girarsi in Polinesia, con


una angolazione strettamente etnografia e senza ricorrere al sonoro. Ma.
giunti a Bora Bora, non trovano l'intesa: Murnau pensa alla ricostruzione di
un conflitto tra individuo e comunità, mentre Flaherty vorrebbe realizzare
un semplice documentario scientifico sugli abitanti delle isole la rottura è
inevitabile. Flaherty si ritira, Murnau porta a compimento il suo progetto,
che illustra per la ennesima volta quella tragica impossibilità dell'uomo di
essere libero alla quale ogni suo film si è ispirato. Una regola che vale anche
qui, fra popoli che subiscono le imposizioni del pregiudizio atavico.
Reri, la più bella ragazza del villaggio, è consacrata dal gran sacerdote al
dio della tribù. Nessuno la potrà più toccare. Matahi, il suo innamorato, si
ribella e la rapisce. Si trasferiscono in un'altra isola e sono felici: Matahi è
un bravo pescatore di perle, pronto a sfidare qualsiasi pericolo. Una notte
ricompare il sacerdote, con un messaggio terribile: o Reri si pente e ritorna
oppure Matahi sarà ucciso. Fuggono un'altra volta. Matahi per pagare il
biglietto del battello che li porterà a Papeete si immerge un'ultima volta in
mare, di notte, e pesca la preziosa perla nera. Ma è troppo tardi. Reri ha già
deciso per conto suo. Ha lasciato un biglietto all'innamorato ed è salita sulla
barca del sacerdote per tornare a Bora Bora. Matahi si getta in acqua e la
insegue disperatamente. Raggiunge la barca, si aggrappa a una gomena.
Hitu la tronca di netto. Matahi annega.
Tabu, tragedia che non concede nulla all'esotismo ma che tutto accoglie
delle ossessioni di Murnau, è interpretato da autentici isolani. Quando sarà
proiettato a Los Angeles, il 18 marzo 1931, il regista sarà appena stato
seppellito (muore in un incidente automobilistico precipitando da una
scogliera a Monterey).

Tempi moderni (Modern Times)

Regia: Charles Chaplin. Interpreti: Charles Chaplin, Paulette Goddard,


Chester Conklin, Allan Garcia, Lloyd Ingraham, Henry Bergman.
Produzione: United Artists, USA. 1936.

L'anarchico Chaplin aveva imparato a sbeffeggiare i nemici (e anche gli


amici) inanellando scherzi su scherzi. Poi, venne il cinema sonoro, e il
terreno degli scherzi si fece scivoloso. Il mimo e il regista decisero che non
era cambiato nulla, con un atto di orgoglio tipico di Chaplin ma condiviso
anche da altri, istintivamente nemici del suono e della parola.
Modem Times, che ormai esce in epoca tarda (sono dieci anni che il sonoro
dilaga in America), accetta suoni, rumori, musica (la celebre canzonetta
sull'aria della ォ Titina サ), ma si arrende alla parola solo per indurre l'omino
a pronunciare comicamente incomprensibili fonemi a tempo con la melodia.
Per il resto, è un film muto, dove Chaplin impazzisce alla catena di
montaggio, è ricoverato in ospedale, affronta la disoccupazione, si trova
involontariamente alla testa di un corteo di scioperanti, finisce in prigione
dove sventa (di nuovo involontariamente, perché ha ingerito droga senza
saperlo) una evasione, incontra una ragazza, combina guai in un cantiere
navale (vara una nave non finita), si rifugia con la ragazza in una fetida
baracca e sogna una vita diversa, trova lavoro come cameriere ma presto lo
perde per aver seminato i poliziotti che inseguono la ragazza (la quale oltre
tutto è una ladra). Si allontanano insieme, felici forse, verso il futuro. La
grande Depressione aveva già stimolato René Clair (A nous la liberté è di
quattro anni prima), e vi fu chi sostenne che Chaplin s'era ispirato al film
francese. L'omino s'è ulteriormente incattivito, e tutte le disgrazie del
mondo cadono sulla sua testa: i bulloni da avvitare, la bandiera rossa
raccolta per errore e scambiata per il vessillo di una manifestazione, il tuffo
in un mare profondo qualche centimetro, i dolori del cameriere inesperto, la
fuga favorita dal frenetico rovesciare le sedie del ristorante. Nulla lo
sconfigge, nemmeno la grande Depressione.

La terra trema

Regia: Luchino Visconti. Interpreti: Antonio Arcidiacono, Giuseppe


Arcidiacono, Giovanni Greco, Nelluccia Giammona, Nicola Castorina, Rosa
Costanzo, Rosario Galvagno, Lorenzo Valastro: abitanti di Aci Trezza.
Produzione: Universalia. Italia. 1948.

Film nato da un falso scopo, cadde in braccio a una cultura confusa, per
un equivoco che solo parecchio più tardi sarebbe stato dissipato. Visconti va
in Sicilia per girare un documentario di propaganda elettorale in vista della
consultazione politica del 1948. Lo finanzia il partito comunista. Quando
prende contatto con le terre e il mare del romanzo verghiano maggiore, I
Malavoglia, e al quale da anni pensa, trasforma il progetto in un
lungometraggio narrativo, ottiene il contributo di una società produttrice
cattolica (la Universalia di Salvo d'Angelo) e affronta un'avventura che
avrebbe fatto di lui il corifeo di quel neorealismo di cui Ossessione era stato
una sorta di preambolo.
Nel clima teso del dopoguerra La terra trema assume proprio questa
caratteristica, che in effetti gli si addice soltanto in parte. Il suo ォ rea-
lismo サ (il tentativo di ォ rispecchiare サ fedelmente le condizioni di vita dei
pescatori siciliani) è interamente verghiano. Il film è una traduzione quasi
testuale - scrupolosa e rispettosa - del romanzo scritto nel 1881. I
protagonisti, scelti fra gli abitanti di Aci Trezza con finissimo intuito e
guidati con amorevole attenzione, parlano il loro dialetto ma pronunciano le
stesse battute dette dai personaggi letterari in italiano (quell'italiano nel
quale il romanziere aveva volto la parlata dialettale). Viscontiano è, per
contro, lo sguardo, acuto e commosso insieme, con cui i dolori, le speranze,
gli amori, le furie, gli addii dei poveri acitrezzini sono osservati.
Viscontiano è il tema della dissoluzione della famiglia (che, certo, è anche
verghiano, ma qui Verga resta sullo sfondo). Viscontiano è infine, e
soprattutto, il senso dello spettacolo - tutti i personaggi recitano se stessi
come fossero sulla scena -che rende il film una rappresentazione nella
rappresentazione.

Il terzo uomo (The Third Man)

Regia: Carol Reed. Interpreti: Joseph Cotten, Orson Welles, Trevor


Howard, Alida Valli, Paul Hòrbiger, Ernst Deutsch, Erich Ponto, Wilfred
Hyde White, Bernard Lee. Produzione: London Films, Gran Bretagna.
1949.

Talvolta dei film si ricordano le sciocchezze e si dimenticano i valori. Nel


caso di The Third Man (Gran Premio al festival di Cannes 1949)
sciocchezze e valori coincidono. Quel che resta nella memoria - il temino
eseguito sulla cetra zigana da Anton Karas - è il nocciolo significante del
film, che ruota intorno alla finta frivolezza diffusa in una città appena uscita
dalla guerra e ancora depositaria di segreti e incubi che quella frivolezza
smentiscono. La storia viene dall'atrabiliare Graham Greene: racconta di un
criminale nazista, di un suo amico -il romanziere Holly Martins - che giunge
a Vienna per incontrarlo, di un intrigo in cui è coinvolta un'ambigua attrice,
della fuga finale del nazista (che si chiama Harry Lime e che dà il titolo alla
musica di Karas) attraverso le fogne e del sopraggiungere di Martins cui
toccherà il compito ingrato di uccidere l'indegno amico.
Sorprese, contorsioni e capovolgimenti delle sorti rendono giustizia alla
ispirazione dello scrittore, al quale la chiarezza del dettato è intollerabile.
Nulla si deve comprendere, e nulla realmente si comprende. La effettata
fotografia di Robert Krasker restituisce l'atmosfera ォ inafferrabile サ di un
testo e di una città. Carol Reed vi costruisce sopra un reticolo di variazioni
formalistiche, ma il film non coinvolgerebbe così fortemente lo spettatore se
il suspense (chi è Harry Lime, dov'è Harry Lime?) non fosse sostenuto
dall'attesa di scoprire un Orson Welles che più tenebroso e ォ barocco サ non
potrebbe essere. La sua è, nell'eccesso, una interpretazione formidabile.
Joseph Cotten (che di Welles fu attore in Citizen Kane, e questo ォ terzo
uomo サ pare davvero uscito dalle pieghe del celebre film), Alida Valli, Paul
Hòrbiger e Trevor Howard sembrano sbiaditi, al confronto.

L'ultima risata (Der letzte Mann)

Regia: Friedrich Wilhelm Murnau. Interpreti: Emil Jannings, Maly


Delschaft, Max Hiller, Emilie Kurz, Hans Unterkirchen, Georg John.
Produzione: Decla / UFA, Germania. 1924.

Gli anni Venti sono il gran decennio dell'espressionismo nel cinema


tedesco, e anche Der letzte Mann, che espressionista non è, finisce per
risentirne. Le scene ォ incombenti サ, se pure non sconvolte, di Robert Hertl
e Walter Ròhrig, la fotografia ォ effettata サ di Karl Freund e lo stesso tema
del film (opera di Cari Mayer), che inclina verso una for ma di desolato
naturalismo, denunciano il debito contratto con la ォ eversione サ figurativa
e drammaturgica della cultura a quel tempo dominante. Lo stesso convulso
gioco scenico dell'ineffabile gigione Emil Jannings risale alle vertiginose
alterazioni mimiche imposte dalla poetica espressionista.
Murnau tiene in pugno saldamente le redini. Il soggetto di Mayer è un
grimaldello per penetrare nella ideologia autoritaria che il borghese tedesco
(e non solo il borghese) ha introiettato. La figura del portiere riverito del
berlinese Grand Hotel Atlantic è il simbolo di quello che il regista ritiene il
tedesco eterno, succube della propria ottusa acquiescenza al potere e ai suoi
simulacri (la livrea-feticcio). Quando, per senile stanchezza, l'imponente
minosse si arrende, la direzione lo confina nel sottosuolo, a sorvegliare i
gabinetti. ネ il crollo di tutta una vita. Torna nottetempo in magazzino a
riprendersi la palandrana per poter presenziare al matrimonio della figlia.
Ma il trucco dura poco, e lo spodestato portiere si deve esporre ai lazzi di
tutto il caseggiato. Non è, però, la fine, perché - avverte una didascalia - ォ
l'autore ha avuto pietà di lui サ . Una ottimistica coda (anche in questo
sberleffo c'è l'eco dell'espressionismo) vede l'ex portiere ritornare al
ristorante dell'albergo come facoltoso cliente, perché ha ricevuto un'eredità
dallo zio d'America. Murnau chiude irridendo due volte, dopo aver estratto
dalla macchina da presa - si usava in quegli anni, ovunque in Europa - tutte
le possibilità di movimento (carrelli, gru, voli acrobatici) che la tecnica
permetteva.

Umberto D.

Regia: Vittorio De Sica. Interpreti: Carlo Battisti, Maria Pia Casilio, Lina
Gennari, Alberto Albani, Memmo Carotenuto. Produzione: Rizzoli / Amato
/ De Sica, Italia. 1952.

De Sica e Zavattini si presentano agli spettatori, ormai sazi di neo-


realismo, con una essenzialità che non ha mai avuto né mai avrà l'eguale nel
cinema italiano (per la Francia si può pensare a Robert Bresson e per gli USA
al primo Cassavetes, ma il paragone è senz'altro forzato). Compongono con
pazienza il tessuto di una tragedia moderna, dove per tragedia deve
intendersi non quella che nasce dalla indigenza (come nel neorealismo) né
alcunché di astratto ma lo specchio di una estrema sofferenza umana, di una
solitudine concreta e irrimediabile. Il vecchio statale Umberto Domenico
Ferrari non ha i quattrini per pagare la pigione alla padrona di casa ed è da
lei cacciato, ma non è questo il nucleo della storia: ne è il semplice pretesto.
Il pensionato si è a poco a poco assuefatto alla propria aridità interiore. ネ
fragile, non ha amici se non la servetta di casa, incinta di un soldato della
vicina caserma (ne frequenta due, e non sa, la poverina, chi sia il padre), e
un cagnette bastardo. Se si ammala, considera una fortuna essere ricoverato
in ospedale, dove troverà la complicità di un furbastro che, a differenza di
Umberto D., ha imparato ad arrangiarsi (Memmo Carotenuto disegna una
bella macchietta). Se deve abbandonare la sua camera (la padrona si sposa
con un melenso borghese ricco), cerca di mettere in salvo il cane e, non
riuscendovi, pensa di trascinarlo con sé nella morte. Non potrà, perché sarà
proprio il cane, divincolandosi, a salvarlo e a salvarsi. Gelido e duro dov'era
sentimentale, De Sica supera le indulgenze patetiche di Ladri di biciclette,
mentre Zavattini rinuncia al gusto della piccola stravaganza per affondare la
lama della critica nel corpo vivo di personaggi perfettamente riconoscibili
(la padrona di casa, le coppie che ospita, il fidanzato, i soldati, gli addetti al
canile municipale, gli ex colleghi di Umberto D., i lerci padroni della
pensione per cani). Il risultato è, appunto, una rigorosa tragedia.

L'uomo con la macchina da presa (Celovek s kinoapparatom)

Regia: Dziga Vertov. Interpreti: gli abitanti di Mosca. Produzione: VUFKU,


Unione Sovietica. 1929.

Fra i numerosi esperimenti di ォ cinema puro サ che si susseguono negli


anni Venti, prima del sonoro, il film di Dziga Vertov si distingue per la
originalità della struttura e per la ideologia che vi è sottesa. Siamo nel paese
della rivoluzione e della costruzione del socialismo. Vertov - regista di
cineattualità - crede negli ideali del rinnovamento e vuol contribuire a
calarli nella realtà. Schierato alla estrema sinistra del fronte culturale,
influenzato dal costruttivismo, affida al cinema -indirettamente, o
metaforicamente - il compito di ォ creare サ il mondo e gli uomini nuovi. Per
lui non si tratta di un'utopia, né di uno scherzo. Se il mondo e gli uomini
nasceranno, lo si dovrà anche all'intervento attivo - in forma di
documentazione, di stimolo, di sperimentazione sul campo - del linguaggio
delle immagini.
La macchina da presa entra nella vita della città. Se ne appropria,
presentandola e presentandosi allo sguardo dello spettatore. Protagonista
della operazione, non si nasconde, come di solito avviene, ma si fa avanti e
si mostra nell'istante stesso in cui svolge il suo lavoro. Un operatore esce
all'alba, macchina e cavalletto in spalla. Quando trova quel che cerca - una
faccia, un'azione, un gesto, un incontro fortuito, un giro in carrozza - gira la
manovella, la pellicola si impressiona. Così, lo spettatore assiste a una
doppia azione: quella della macchina da presa (e dell'uomo che la manovra)
e quella degli uomini e delle donne ripresi dalla macchina. Cinema nel, e
sul, cinema.
Ma non solo. Il film si apre con il totale di una sala cinematografica, vuota.
Uno stacco. La sala è piena di pubblico. Così la rivedremo in chiusura.
Ossia, cinema in cornice: potenza di immagini capaci di creare-ricreare la
vita. Di cambiarla, di rinnovarla. Alla fine si vedrà la facciata del Bol'soj
frantumata per effetto ottico.

L'uomo di Aran (Man of Avari)

Regìa. Robert J. Flaherty. Interpreti: Michael Dinane, Coiman ォ Tiger サ


King. Maggie Dillane. Produzione: Gaumont-Britisli. Gran Bretagna. 1934.

Tra i grandi documentaristi, l'americano Robert Flaherty è il più in-


transigente ed è anche - forse per questo? - il più incline al lirismo poetico.
Dopo Nanook (1922) girato al polo Nord e Moana (1926) girato in
Polinesia, si trasferisce in Gran Bretagna, su invito di John Grierson, e
realizza Industrial Britain, in collaborazione con lo scozzese. Ma lui ha una
visuale strettamente antropologica, ed è con queste intenzioni che sbarca
con la sua piccola troupe nell'isola di Inishmore, una delle Aran di fronte
alla contea irlandese di Connemara. Vi resta due anni, registra la vita dei
pescatori costretti a sfidare ogni giorno l'Atlantico e la avarissima terra fra
le rocce. Tre esseri umani -un uomo, una donna, un ragazzo - formano una
immaginaria famiglia e ォ riproducono サ ì fatti e i gesti dell'esistenza,
immobile da secoli, degli abitanti dell'isola.
Gli avvenimenti tipici (ovvii e drammatici) si susseguono senza un
ordine: il ragazzo pesca un granchio, i pescatori rientrano alla base, il padre
della famigliola costruisce un muretto per contenervi un poco di terra e di
alghe, tutte le barche scendono in mare per catturare uno squalo, la sera
padre madre e figlio si rifugiano nella loro capanna, la tempesta rischia di
travolgere il padre che guadagna la terra dopo una lotta disperata e con la
barca appena galleggiante (la moglie e il figlio lo accolgono tranquilli come
non fosse accaduto nulla e insieme si arrampicano sugli scogli, verso casa).
Il teleobiettivo e il ralenti impongono angolazione (lo schiacciamento
della prospettiva) e ritmo. Nello sguardo di Flaherty c'è affetto. Il rigore
dell'antropologo si scioglie nella struttura drammatica, i personaggi
acquistano quasi la dimensione di eroi, pur restando umili esseri umani.

Il Vangelo secondo Matteo

Regia: Pier Paolo Pasolini. Interpreti: Enrique Irazoqui, Margherita Caruso,


Susanna Pasolini, Marcello Morante, Mario Socrate, Settimio Di Porto,
Otello Sestili, Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Rodolfo Wilcock, Francesco
Leonetti, Natalia Ginzburg, Paola Tedesco. Produzione: Arco Film, Italia.
1964.

Uno pseudomarxista come Pier Paolo Pasolini correva un grave rischio


nell'affrontare i vangeli: dal sociologismo volgare alla ideologizzazione
sistematica, tanti pericoli si profilavano all'orizzonte. Ma Pasolini, appunto,
era uno pseudomarxista. Ed era un mistico vestito di abiti laici, un credente
(anzi, un cattolico nel senso più stretto della parola) che non si peritava di
ostentare la propria fede avvolgendola nel furore della profezia e della
invettiva. IL Vangelo secondo Matteo gli offre la materia adatta. Pasolini la
sfrutta. Convoca gli intellettuali (o gli pseudointellettuali, ma sono le facce
che contano sullo schermo) di cui è amico, consegna loro i personaggi degli
apostoli, mentre affida Gesù a uno studente basco. Induce la propria madre a
impersonare Maria, quasi per sottolineare la (indiretta) identificazione
dell'autore con il Cristo. Esige dal suo intelligente operatore Tonino Delli
Colli una fotografia sporca e sovraesposta (specchio delle miserie del
mondo), imbraccia egli stesso la macchina a mano per ォ spiare サ le mosse
di Gesù e degli apostoli, trasforma la più dirupata Italia meridionale nella
Palestina evangelica, affianca nella colonna sonora Mozart a Bach,
Profof'ev a Webern, canti russi della rivoluzione e una messa congolese a
spiritual negri, in un groviglio di suggestioni che gli viene certo dalla ォ
nuovelle vague サ ma ch'egli maneggia con la folle levità dei toccati dalla
grazia (il Funerale massonico mozartiano a commento della crocifissione è
idea straordinaria). Con questo non sfugge all'enfasi e non rinuncia alle
gratuite dichiarazioni di principio. Il film è squilibrato, ma possiede tanta
poderosa forza visiva da attenuare anche i più stridenti scompensi.

Via col vento (Gone with the Wind)

Regia: Victor Fleming. Interpreti: Vivien Leigh, Clark Gable, Leslie


Howard, Olivia De Havilland, Thomas Mitchell, Barbara O'Neil, Hattie
McDaniel, Victor Jory, Evelyn Keyes, Anne Rutherford. Produzione: David
O. Selznick / MGM, USA. 1939.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando ancora pensano di


poter rimanere estranei al conflitto, gli Stati Uniti gettano sul mercato due
film-simbolo: Stagecoach (Ombre rosse) di John Ford e questo Gone with
the Wind (Via col vento), firmato da Victor Fleming e prodotto da David O.
Selznick. La frontiera e la guerra civile: due episodi di una grande
avventura. Via col vento è tante altre cose: un rutilante film a colori secondo
il procedimento technicolor (tre pellicole bianco e nero filtrate), un kolossal
che sarà raramente eguagliato in seguito (tre ore e tre quarti di proiezione),
lo scrupoloso ricalco d'un best-seller letterario di Margaret Mitchell, una
seducente compagnia di attori, non grandi forse ma simpatici (la piccola
inglese Vivien Leigh nelle vesti di Scarlet O'Hara, Clark Gable
l'avventuriero Rhett Butler, l'inglese e raffinato Leslie Howard nei panni di
Ashley, l'amore infelice di Scarlet, Olivia De Havilland la dolce Melania, e
un gruppo di eccellenti comprimari), un successo planetario (80 milioni di
dollari incassali alla prima uscita, contro una spesa di 4 milioni) che si
rinnoverà più volte nel corso dei decenni, di riedizione in riedizione. Un
monumento al cinema. Vi si racconta delle smanie di Scarlet, figlia di un
piantatore di cotone in Georgia. Siamo a Tara - anche questo diverrà un
mitico nome - nel 1860. La ragazza ama Ashley, ma Ashley sposa sua
cugina Melania. La guerra civile sconvolge ogni cosa. Scarlet vede morire il
padre, la piantagione va in malora. Atlanta è distrutta. Scarlet e Melania
sono salvate da Rhett, che, alla fine della guerra, si ritroverà ricco grazie a
poco onorevoli speculazioni. La cocciuta Scarlet ama ancora Ashley ma,
dopo un primo matrimonio infelice, sposa Rhett. Melania muore e Scarlet
sembra guarita dal suo amore per Ashley. Ma è troppo tardi, ora. Rhett la
abbandona. A lei resta il compito di ricostruire ciò che, nella piantagione, la
guerra ha distrutto. Sopravviverà. Le tragedie colpiscono a caso, com'è de-
stino. L'individuo deve resistere. Il film ne canta la gloria.

Viaggio in Italia

Regia: Roberto Rossellini. Interpreti: Ingrid Bergman, George Sanders,


Leslie Daniels, Nathalia Ray, Marie Mauban, Anna Proclemer, Jackie Frost,
Paul Mùller. Produzione: Italia Film / Junio-Speva Film / Ariane /
Francinex / SCG, Italia. 1953.

Film-snodo nel cinema italiano e, anche, nel cinema internazionale


(almeno per quanto concerne il formarsi, qualche anno dopo, della ォ
nouvelle vague サ francese). Il cosiddetto realismo rosselliniano acquista un
significato in apparenza ambiguo: evita di scavare nella realtà esterna, tenta
di penetrare oltre lo schermo delle difese degli individui. La scelta dei due
coniugi Joyce (curioso nome) è perfino simbolica: sono altoborghesi aridi e
malmaritati, arroganti (lui, soprattutto) e maligni oltreché afflitti da un
perbenismo di maniera (lei, in particolare). Vengono in Italia per disfarsi di
una villa ereditata dallo zio. Si scontrano - cosa facile e anche banale - con
una civiltà diversa, più cordiale e ォ umana サ (la colonna sonora sembra un
festival della canzone napoletana). Ma facile e banale non è questo viaggio,
perché Rossellini sparge ostacoli sulla strada dei Joyce: ostacoli visivi,
premonitori (ad esempio, il moscone spiaccicato sul parabrezza della
Bentley), imprevisti, sconvolgenti.
Lungo questo impervio avvicinamento alla ォ verità サ si sviluppa la storia
della (finta) redenzione dei due inglesi che sono sulla soglia del divorzio.
Lo choc decisivo avviene a Pompei, dove Alex e Katherine assistono alla ォ
resurrezione サ , da un calco di gesso, di un uomo e una donna abbracciati
nella morte durante l'eruzione del Vesuvio. La donna fugge. La Bentley
finisce imbottigliata in una processione. I due scendono. La folla ondeggia,
grida al miracolo. Katherine è trascinata via. Alex la raggiunge, la salva. Si
abbracciano. E, finalmente, parlano. Si comprendono? Forse. I due ora
scompaiono nella ressa dei fedeli, la gru porta in alto la macchina da presa.
La solitudine rimane. Questa è, in chiusura, la splendida ambiguità
rosselliniana, che Ingrid Bergman e George Sanders interpretano con molta
intelligenza.

Viale del tramonto (Sunset Boulevard)

Regia: Billy Wilder. Interpreti: Gloria Swanson, William Holden, Erich von
Stro heim, Nancy Olson, Fred Clark, Lloyd Gough, Jack Webb, Cecil B. De
Mille, Hedda Hopper, Buster Keaton, Anna Q. Nilsson. Produzione:
Paramount, USA. 1950.

Un film sul cinema, come se ne son fatti tanti. Ma, a differenza di tutti gli
altri, più che sul cinema è un film sulla capacità distruttiva che nel cinema è
connaturata al suo mondo di essere. Billy Wilder narra la storia di una diva
del muto - una vera diva, impersonata coraggiosamente da Gloria Swanson -
che assume uno sceneggiatore disoccupato affidandogli il compito di
scrivere un film per il suo ritorno sullo schermo. Dalla collaborazione
professionale, in una tetra villa in stile moresco-californiano anni Venti,
nasce l'amore. La diva che, non intende perdere il giovane scrittore, gli
impedisce di avere contatti con il mondo e alla fine, ormai fuori di senno per
il fallimento del progetto di tornare al cinema, lo uccide.
Il cinema uccide. Le immagini iniziali mostrano Joe Gillis, il giovane
scrittore, galleggiare, cadavere, nella piscina della villa. Si ode la sua voce,
che rievoca l'atroce avventura con l'anziana Norma Desmond, da troppi anni
reclusa nei grandi saloni accanto a un maggiordomo che è stato suo marito e
regista (Stroheim, naturalmente, in una interpretazione di maniera). Dalla
disperazione di uno scrittore senza lavoro, in una Hollywood fatua e arcigna
(la Hollywood di sempre), alla nascita di un legame tormentoso e abnorme.
Non c'è scampo per chi è implicato in queste ambigue operazioni di dar vita
alle ombre. Joe Gillis (William Holden) paga crudelmente l'errore di essere
entrato nel gioco. Norma, impazzita, sarà guidata dall'ex marito e regista in
una grottesca uscita di scena davanti all'obiettivo del cinegiornale. ネ una
tragedia svolta con implacabile progressione e impietosa lucidità.

La vita di O-Haru, donna galante (Saikaku ichidai onna)

Regia: Kenji Mizoguchi. Interpreti: Kinuyo Tanaka, Toshiro Mifune, Eitaro


Shindo, Ichiro Sugai, Tsukue Matsuhura, Toshiaki Chikae, Masao Shimizu.
Produzione: Kói / Shintoho, Giappone. 1952.

Mizoguchi ha 54 anni quando gira questo film (morirà cinque anni dopo).
ネ attivo dal 1922. Alla fine della carriera - che si chiuderà con il lineare e
intenso La strada della vergogna, un'ultima storia di donne - avrà girato
ottanta film. Di lui si segnala l'attenzione commossa e partecipe alla
condizione della donna nella società giapponese: nessuno è più riuscito,
dopo, a descrivere con tanta fermezza il dramma (spesso la tragedia) della
vita femminile in un mondo feudale, e non solo in quello. Questo Saikaku
ichidai onna rappresenta, probabilmente, la sua prova migliore.
ネ un melodramma nello stile affollato e straziato della tradizione
orientale. Il regista, che ricava la storia da un romanzo ambientato nel
Seicento, non risparmia alcuno strazio alla protagonista, donna orgogliosa
che di rinuncia in rinuncia è obbligata a isolarsi dal mondo. Deve rinunciare
al suo unico amore (un amore ォ proibito サ socialmente, e l'uomo -
impersonato da Toshiro Mifune - viene decapitato), tenta di rinunciare alla
vita ma la madre la salva, accetta di mettere al mondo un figlio con il
signore del clan Matsudaira (costui ha una moglie sterile) e deve
immediatamente rinunciare a tenerlo con sé, è maltrattata dal padre, è
costretta a prostituirsi. Gli anni passano. Subisce umiliazioni, è esposta al
pubblico ludibrio. Ha un solo, grande desiderio, rivedere il figlio che è
divenuto il signore del clan. Lo incontra sulla strada, gli si avvicina, ma i
servi la respingono. Ora non le rimane che rinunciare al mondo, vivere nel
tempio, in seno al Buddha, dove l'abbiamo vista all'inizio (tutta la sua storia
è un lungo flashback). La sobrietà stilistica (molte inquadrature dall'alto,
numerosi carrelli laterali ad accompagnare questo calvario e a sottolineare la
disperata solitudine di O-Haru, interpretata con discrezione da Kinuyo
Tanaka) non viene mai meno, neppure dinanzi al racconto dei più duri
tormenti.

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