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David Leavitt

Il matematico indiano
Traduzione di Delfina
Vezzoli

MONDADORI
Copyright © 2007, David Leavitt
All rights reserved
Titolo originale dell’opera: The Indian Clerk
© 2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.,
Milano
COPERTINA
ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO
PROGETTO GRAFICO: ANDREA GEREMIA
GRAPHIC DESIGNER: SUSANNA TOSATTI
FOTO © ALEN MACWEENEY/CORBIS
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Ebook ISBN 9788852017155
www.librimondadori.it
IL MATEMATICO INDIANO
PRIMA PARTE

L’aquilone nella nebbia


1

L’uomo seduto accanto al podio


sembrava vecchissimo, almeno agli
occhi dei suoi ascoltatori, per la
maggior parte giovanissimi. In
realtà non aveva ancora
sessant’anni. La sfortuna degli
uomini che sembrano più giovani
della loro età, pensava spesso
Hardy, è che a un certo punto
della vita oltrepassano un confine e
cominciano a sembrare più vecchi
di quanto non siano. Quando era
uno studente universitario a
Cambridge, veniva regolarmente
scambiato per un ginnasiale in
visita. Quando era già un docente,
veniva regolarmente scambiato per
un laureando. Adesso l’età lo aveva
raggiunto e superato, e sembrava
l’incarnazione dell’anziano
matematico che il progresso si è
lasciato alle spalle. “La matematica
è un gioco per uomini giovani” –
lui stesso avrebbe scritto queste
parole di lì a pochi anni – e per lui
era durato più che per molti altri.
Ramanujan era morto a trentatré
anni. Gli ammiratori odierni,
affascinati dalla leggenda di
Ramanujan, facevano congetture
sui risultati che avrebbe potuto
conseguire se fosse vissuto più a
lungo, ma l’opinione personale di
Hardy era che non avrebbe
ottenuto molto. Era morto
lasciandosi il lavoro migliore alle
spalle.
Questo avveniva a Harvard,
nella New Lecture Hall, l’ultimo
giorno d’agosto del 1936. Hardy
era uno dei numerosissimi studiosi
convocati da tutto il mondo per
ricevere la laurea ad honorem in
occasione del trecentesimo
anniversario dell’università.
Tuttavia, a differenza della
maggior parte dei partecipanti, non
era lì – e neppure era stato invitato,
intuiva – per parlare del suo lavoro
o della sua vita. Questo avrebbe
deluso il suo pubblico. Volevano
sentirlo parlare di Ramanujan.
Sebbene l’odore della sala per
certi versi risultasse familiare a
Hardy – odore di gesso, di legno e
di fumo di sigarette stantio – il
rumore gli parve tipicamente
americano. Com’erano più
chiassosi dei colleghi britannici,
questi giovanotti! Frugando nelle
loro cartelle, facevano scricchiolare
le seggiole. Mormoravano e
ridevano tra loro. Non indossavano
la toga, ma erano in giacca e
cravatta, alcuni con il papillon. Poi
il professore cui era stato assegnato
il compito di presentarlo – a sua
volta un giovanotto, di cui Hardy
non aveva mai sentito parlare e che
gli era stato presentato solo pochi
minuti prima – salì sul podio e si
schiarì la voce, segnale che fece
zittire il pubblico. Hardy badò a
restare impassibile mentre
ascoltava la propria storia, i premi e
le lauree ad honorem che
consacravano la sua fama. Era una
litania cui aveva fatto l’abitudine, e
che non suscitava in lui né orgoglio
né vanità, ma solo noia: sentir
elencare tutte le sue conquiste non
significava niente per lui, perché
quelle conquiste appartenevano al
passato, pertanto, in un certo
senso, non erano più sue. A lui era
sempre appartenuto solo ciò che
stava facendo. E adesso stava
facendo ben poco.
Ci fu uno scroscio di applausi e
Hardy salì sul podio. Il pubblico
era molto più numeroso di quel
che aveva pensato all’inizio. Non
solo la sala era piena, ma c’erano
studenti seduti sul pavimento e in
piedi contro la parete di fondo.
Molti di loro avevano un taccuino
sulle ginocchia e impugnavano una
matita, pronti a scrivere.
“Bene, bene. Chissà cosa ne
penserebbe Ramanujan.”
«Per queste conferenze» iniziò,
«mi sono prefisso un compito
davvero difficile, un compito che,
se fossi deciso a iniziare cercando
ogni scusa per il fallimento, non
esiterei a definire pressoché
impossibile. Per la prima volta, mi
trovo a dover formulare, come non
ho mai veramente fatto finora, e a
cercare di aiutare voi a formulare,
una sorta di valutazione ragionata
della figura più romantica nella
storia recente della matematica…»
“Romantica.” Una parola che si
udiva di rado nella sua disciplina.
L’aveva scelta con cura, e
progettava di usarla ancora.
«Ramanujan è stato una mia
scoperta. Non l’ho inventato io –
come altri grandi uomini, egli ha
inventato se stesso – ma sono stato
la prima persona realmente
competente che abbia avuto la
possibilità di vedere alcuni dei suoi
lavori, e ricordo ancora con
soddisfazione che riuscii a capire
subito che tesoro avevo scoperto.»
Sì, un tesoro. Su questo non
c’erano dubbi. «E suppongo di
conoscere ancora Ramanujan più
di chiunque altro, e di essere
ancora la principale autorità su
questo particolare argomento.» Be’,
qualcuno potrebbe contestarmelo.
Eric Neville, per cominciare. E, a
maggior ragione, Alice Neville.
«L’ho visto e gli ho parlato ogni
giorno per parecchi anni, e
soprattutto ho attivamente
collaborato con lui. Devo più a lui
che a chiunque altro al mondo,
con una sola eccezione, e il mio
rapporto con lui è stata l’unica
vicenda romantica della mia vita.»
Guardò il pubblico. Aveva
scandalizzato qualcuno? Sperò di
sì. Alcuni dei giovani alzarono gli
occhi dai loro appunti e lo
guardarono corrugando la fronte.
Uno o due, ne fu certo, gli
lanciarono occhiate solidali.
Avevano capito. Anche “la sola
eccezione” avevano capito.
«Per me dunque la difficoltà
non consiste nel non sapere
abbastanza di lui, ma è di sapere
troppo, di sentire troppo, e di non
poter essere imparziale.»
Ecco, l’aveva detta. La parola:
sentire. Sebbene nessuno dei due
fosse nella sala – uno era morto e
con l’altra non era in contatto da
decenni – dall’ultima fila Gaye e
Alice incontrarono il suo sguardo.
Gaye, per una volta, approvava.
Ma Alice scuoteva la testa. Non gli
credeva.
“Sentire.”
2

La lettera arriva l’ultimo martedì di


gennaio del 1913. A trentacinque
anni, Hardy è un abitudinario.
Ogni mattina fa colazione, poi una
passeggiata nel parco del Trinity
College; una passeggiata solitaria,
durante la quale scalcia la ghiaia
dei vialetti mentre cerca di
sbrogliare i dettagli della
dimostrazione a cui sta lavorando.
Se il tempo è bello, pensa tra sé:
“Caro Dio, ti prego, fa’ che piova,
perché non ho nessun desiderio
che il sole entri a fiotti dalle mie
finestre oggi; voglio la penombra,
in modo da poter lavorare alla luce
di una lampada”. Se il tempo è
brutto, pensa: “Caro Dio, ti prego,
fa’ che non torni il sole perché
interferirà con la mia capacità di
lavorare, che richiede la penombra
e la luce di una lampada”.
Il tempo è bello. Dopo mezz’ora,
torna nei suoi appartamenti, che
sono stanze molto belle, come si
confà alla sua fama. Costruite
sopra una delle arcate che
fiancheggiano la New Court,
hanno finestre a più luci con
colonnine divisorie, attraverso le
quali può osservare gli studenti che
passano sotto di lui diretti verso la
parte posteriore del college che dà
sul fiume. Come sempre, il suo
servitore, o gyp, come viene
chiamato a Cambridge, ha lasciato
le sue lettere impilate sul tavolino
di legno di rosa accanto
all’ingresso. Niente di interessante
oggi, almeno all’apparenza: alcuni
conti, un messaggio di sua sorella,
Gertrude, una cartolina del suo
collaboratore, Littlewood, con cui
condivide la bizzarra abitudine di
comunicare quasi esclusivamente
tramite cartoline, sebbene
Littlewood viva nel cortile accanto.
E poi – vistosa in mezzo a questa
pila di corrispondenza discreta,
quasi noiosa, ecco la lettera,
sgualcita, voluminosa e piuttosto
sporca, come un immigrante
appena sbarcato dopo un
lunghissimo viaggio in terza classe.
La busta è marrone, coperta da
una sfilza di francobolli
sconosciuti. Sulle prime si chiede se
non ci sia stato un errore di
consegna, ma il nome scritto sulla
busta in una calligrafia precisa, il
tipo di calligrafia che farebbe felice
una maestra di scuola, che
piacerebbe a sua sorella, è il suo:
G.H. Hardy, Trinity College,
Cambridge.
Poiché è in anticipo di qualche
minuto sulla tabella di marcia – ha
già letto i giornali a colazione,
controllato la classifica del cricket
australiano, agitato il pugno contro
un articolo che esaltava l’avvento
dell’automobile – Hardy si siede,
apre la busta, ed estrae il fascio di
fogli che contiene. Da una nicchia
in cui si era nascosta, Hermione, la
sua gatta bianca, emerge per
accoccolarsi sulle sue ginocchia.
Hardy le accarezza il collo mentre
inizia a leggere e lei gli affonda i
piccoli artigli nelle gambe.
Gentile Signore,
mi pregio di presentarmi a Lei in
qualità di impiegato presso l’Ufficio
contabilità del porto di Madras, con un
salario di sole venti sterline l’anno. Al
momento ho quasi ventitré anni. Non
ho ricevuto un’istruzione universitaria
ma ho frequentato le scuole regolari.
Dopo aver lasciato la scuola, ho
utilizzato il tempo libero a mia
disposizione per occuparmi di
matematica. Non ho seguito la strada
convenzionale che si segue in un corso
universitario, ma sto tracciando un
nuovo percorso tutto mio. Ho fatto una
ricerca approfondita sulle serie
divergenti in generale e i risultati che
ho ottenuto sono definiti dai
matematici di queste parti
“sorprendenti”.
Salta alla fine della lettera – “S.
Ramanujan” è il nome dell’autore
– poi torna indietro e legge il resto.
“Sorprendenti” è dir poco, decide,
per descrivere le affermazioni fatte
dal giovanotto, tra le quali questa:
“Di recente mi sono imbattuto in
un suo saggio intitolato Orders of
Infinity, a pagina 36 del quale lei
afferma che non è stata ancora
scoperta una funzione che
rappresenti esattamente il numero
di numeri primi minore di un
numero dato. Io ho trovato una
formula che si avvicina moltissimo
al risultato reale, con un margine
di errore trascurabile”. Caspita, se è
vero significa che il ragazzo ha fatto
qualcosa che nessuno dei grandi
matematici degli ultimi
sessant’anni è riuscito a fare.
Significa che ha migliorato il
Teorema dei numeri primi. Il che
sarebbe davvero sorprendente.
Le sarei grato se volesse esaminare le
carte qui accluse. Poiché sono povero,
se è convinto che ci sia qualcosa di
valido mi piacerebbe che i miei
teoremi fossero pubblicati. Non ho
accluso le ricerche complete né le
funzioni che ho ottenuto, ma ho
indicato le linee su cui procedo.
Essendo inesperto apprezzerei
enormemente qualunque consiglio lei
volesse darmi. Scusandomi per il
disturbo che le arreco.
“Il disturbo che le arreco”! Hardy
sposta con gentilezza dalle sue
ginocchia Hermione,
estremamente contrariata, si alza in
piedi e va verso la finestra. Sotto di
lui, due studenti in toga
passeggiano sottobraccio verso
l’arcata. Osservandoli, pensa agli
asintoti, valori che convergono
man mano che si avvicinano a un
totale che non raggiungeranno
mai: mezzo piede più vicini, poi un
quarto di piede, poi un ottavo…
Un momento può quasi allungare
una mano e toccarli, e un attimo
dopo – oplà! – sono scomparsi,
risucchiati dall’infinito. Ecco una
bella serie divergente! La busta
dall’India gli ha lasciato uno strano
odore sulle dita, di fuliggine e di
quello che pensa sia curry. La carta
è scadente. In due punti
l’inchiostro è sbavato.
Non è la prima volta che Hardy
riceve lettere da illustri sconosciuti.
A dispetto della sua lontananza dal
mondo ordinario, la matematica
pura esercita una misteriosa
attrazione sugli eccentrici di ogni
tipo e specie. Alcuni degli uomini
che hanno scritto a Hardy sono
degli autentici spostati, gente che
afferma di avere per le mani
formule che indicano la posizione
del continente perduto di
Atlantide o di avere trovato nelle
commedie di Shakespeare
crittogrammi che rivelano una
congiura ebraica per rovesciare
l’Inghilterra. In genere però sono
semplici dilettanti che la
matematica ha indotto a credere di
avere scoperto le soluzioni dei più
famosi problemi irrisolti. “Ho
completato la dimostrazione tanto
attesa della Congettura di
Goldbach”, laddove la congettura
di Goldbach stabilisce
semplicemente che ogni numero
pari maggiore di 2 può essere
espresso come la somma di due
numeri primi. “Inutile dire che
sono restio a inviare la
dimostrazione vera e propria, per
timore che cada nelle mani di
qualcuno che potrebbe pubblicarla
come propria…” L’esperienza gli
dice che questo Ramanujan rientra
nella seconda categoria. “Poiché
sono povero…”, come se la
matematica avesse mai arricchito
qualcuno! “Non ho accluso le
ricerche complete né le funzioni
che ho ottenuto…”, come se tutti i
docenti di Cambridge le stessero
aspettando col fiato sospeso!
Nove pagine fitte di
formulazioni matematiche
accompagnano la lettera.
Rimettendosi seduto, Hardy le
passa in rassegna. A prima vista, la
complessa sfilza di numeri, lettere
e simboli fa pensare a una certa
conoscenza, se non a una vera e
propria padronanza, del linguaggio
matematico. Tuttavia c’è qualcosa
che non funziona nel modo in cui
l’indiano usa quel linguaggio.
Quello che sta leggendo, pensa
Hardy, è l’equivalente dell’inglese
parlato da uno straniero che lo ha
imparato da solo.
Guarda l’orologio. Le nove e un
quarto. È in ritardo di quindici
minuti sulla tabella di marcia.
Mette quindi da parte la lettera,
risponde a un’altra (dell’amico
Harald Bohr di Copenaghen),
legge l’ultimo numero di “Cricket”,
completa il cruciverba della pagina
dei giochi dello “Strand” (questo lo
occupa per quattro minuti:
cronometrati), lavora alla stesura di
un saggio che sta scrivendo con
Littlewood, e, all’una in punto,
s’infila la toga blu e si incammina
verso la Hall per il pranzo. Dio,
come in realtà sperava, non ha
esaudito la sua preghiera. C’è un
sole fulgido oggi, che gli scalda la
faccia mentre l’aria frizzante lo
induce a infilare le mani in tasca.
(Quanto gli piacciono le giornate
fredde e luminose!) Poi entra nella
Hall, e la penombra della sala
smorza così radicalmente la luce
del sole che i suoi occhi non hanno
il tempo di abituarsi. Su una
pedana al di sopra del boato di
duecento studenti, vegliati dai
ritratti di Byron, di Newton e di
altri illustri antichi allievi del
Trinity, c’è il tavolo dei docenti cui
siedono una ventina di don, che
mormorano tra loro. Nell’aria
aleggia un odore di vino acido e di
carne vecchia.
C’è un posto vuoto a sinistra di
Bertrand Russell e Hardy lo
occupa, mentre Russell lo saluta
con un cenno del capo. Poi viene
letta una preghiera in latino. Le
panche scricchiolano, i camerieri
versano il vino, gli studenti
cominciano a mangiare a quattro
palmenti. Dall’altra parte del tavolo
e cinque posti più a sinistra,
Littlewood è stato coinvolto in una
conversazione con un anziano
docente di Lettere classiche; un
peccato, visto che Hardy vuole
parlargli della missiva. Ma forse è
meglio così. Con più tempo per
pensarci, magari si renderebbe
conto che è un’assurdità e si
risparmierebbe una figura da
idiota.
Sebbene il menu del Trinity sia
scritto in francese, il cibo è
decisamente britannico. Rombo
bollito, seguito da una costoletta
d’agnello, rape e cavolfiore, e un
budino sormontato da una crema
raccapricciante. Hardy mangia
poco. Ha gusti precisi in fatto di
cibo, il più radicato dei quali è
un’avversione per il montone
arrosto che risale ai suoi giorni a
Winchester, quando sembrava che
nel menu non ci fosse altro. E il
rombo, a suo parere, è il montone
arrosto del mondo ittico.
Russell sembra non avere alcun
problema con il rombo. Sebbene
siano buoni amici, non si trovano
particolarmente simpatici; un tipo
di amicizia che Hardy trova molto
meno insolita di quanto in genere
si supponga. Nei primi anni in cui
lo conosceva, Russell sfoggiava un
paio di baffi cespugliosi che, come
ebbe a notare Littlewood,
conferivano al suo viso
un’espressione ingannevolmente
mite e ottusa. Poi se li era tagliati, e
la sua faccia, per così dire, si era
messa al passo con la sua
personalità. Adesso folte
sopracciglia, più scure dei capelli
che ha in testa, ombreggiano occhi
che sono a un tempo intensamente
focalizzati e remoti. La bocca è
sottile e ha un’aria vagamente
pericolosa, come se potesse
mordere. Le donne lo adorano –
oltre a una moglie, ha una covata
di amanti – il che sorprende
Hardy, poiché un altro dei tratti
caratteristici di Russell è un’alitosi
acuta. La vastità del suo intelletto e
il suo vigore – la sua
determinazione non solo a essere il
più grande logico del suo tempo,
ma anche a diagnosticare la natura
umana, scrivere di filosofia, entrare
in politica – colpiscono e allo stesso
tempo irritano Hardy, perché la
voracità di una mente di tal fatta a
volte può assomigliare
all’incostanza. Negli ultimi due
anni, per esempio, Russell ha
pubblicato non solo il terzo volume
del suo gigantesco Principia
Mathematica, ma anche una
monografia intitolata The Problems
of Philosophy. Eppure adesso non è
di principi matematici o di
problemi filosofici che sta
parlando. Si sta invece divertendo
(senza divertire Hardy) a esporre –
con tanto di diagrammi
scarabocchiati su un blocco – la sua
traduzione in simboli logici della
Legge della sorella della moglie
defunta, che autorizza il
matrimonio di un vedovo con la
sorella di sua moglie; nel frattempo
Hardy tiene il viso discosto in
modo da non essere investito dalle
zaffate pestilenziali dell’alito di
Russell. Quando Russell finisce
(grazie al cielo!), Hardy cambia
argomento e passa al cricket:
lanciatori e posizioni dei giocatori
sul campo, meccanismi di battuta,
le strategie poco avvedute che, a
suo avviso, sono costate a Oxford
la sua ultima partita contro
Cambridge. Russell, annoiato dal
cricket quanto Hardy lo era dalla
Legge della sorella della moglie
defunta, si serve un’altra costoletta.
Chiede se ci sia qualche nuovo
giocatore per l’università che
Hardy ammira, e Hardy nomina
un indiano, Chatterjee, del Corpus
Christi. L’estate precedente, Hardy
lo ha visto giocare nell’incontro tra
matricole e lo ha giudicato
bravissimo. (E anche bellissimo, ma
questo non lo dice.) Russell mangia
il suo gateau avec crème anglaise. È
un sollievo notevole quando il
proctor, il funzionario preposto al
mantenimento della disciplina,
pronuncia il ringraziamento finale,
consentendo a Hardy di sottrarsi al
simbolismo logico e incamminarsi
verso Grange Road per la sua
partita quotidiana di tennis su un
campo coperto. Il suo partner di
oggi pomeriggio è un genetista di
nome Punnett, con cui a volte
gioca anche a cricket. E cosa ne
pensa Punnett di Chatterjee? gli
chiede. «Perfettamente a posto»
dice Punnett. «Lo prendono sul
serio il cricket da quelle parti, sai.
Quando ero a Calcutta, passavo
ore sul maidan. Guardavamo i
ragazzi giocare e mangiare le cose
più strane, una specie di riso
soffiato con sopra una salsa
appiccicosa.»
I ricordi di Calcutta distraggono
Punnett, e Hardy lo batte senza
difficoltà. Si stringono la mano, e
Hardy torna nei suoi appartamenti,
chiedendosi se sia stato il gioco di
Chatterjee o la sua avvenenza –
una bellezza molto europea che il
contrasto della pelle scura rende
ancor più insolita – ad attirare la
sua attenzione. Frattanto
Hermione sta miagolando. La
cameriera addetta alle stanze si è
dimenticata di darle da mangiare.
Hardy mescola sardine in scatola,
riso e un goccio di latte nel suo
piattino, mentre la gatta gli struscia
il muso contro una gamba.
Gettando un’occhiata al tavolino di
legno di rosa, vede che il gyp ha
consegnato un’altra cartolina di
Littlewood, che lui ignora come ha
fatto con l’altra, non perché non gli
interessi leggerla, ma perché uno
dei principi che regolano la loro
collaborazione è che nessuno dei
due dovrebbe mai sentirsi
obbligato a rimandare questioni
più urgenti per rispondere alla
corrispondenza dell’altro.
Aderendo a questa regola e ad
altre simili, sono riusciti a creare
una delle uniche collaborazioni
riuscite nella storia della loro
disciplina solitaria, inducendo
Bohr a osservare scherzosamente:
«Oggi l’Inghilterra può vantare tre
grandi matematici: Hardy,
Littlewood, e Hardy-Littlewood».
Quanto alla lettera, è dove l’ha
lasciata, sul tavolo accanto alla sua
malandata poltrona da lettura di
rattan. Hardy la prende. Che stia
sprecando il suo tempo? Forse è
meglio gettarla nel fuoco.
Indubbiamente altri lo hanno
fatto. Il suo deve essere uno dei
tanti nomi su una lista,
probabilmente in ordine alfabetico,
di famosi matematici inglesi cui
l’indiano ha spedito una lettera
dopo l’altra. E se gli altri hanno
buttato la lettera nel fuoco, perché
non dovrebbe farlo anche lui? È un
uomo occupato, G.H. Hardy, non
ha tempo per esaminare gli
scarabocchi di un oscuro impiegato
indiano… come si ritrova a fare
adesso, contro la sua stessa
volontà. Almeno così gli sembra.
Nessun dettaglio. Nessuna
dimostrazione. Solo formule e
schemi. La maggior parte del
materiale gli sfugge
completamente: vale a dire che, se
è sbagliato, non ha idea di come
stabilire che è sbagliato. Non
assomiglia a nessun tipo di
matematica a lui nota. Ci sono
enunciati che lo lasciano del tutto
sconcertato. Cosa dovrebbe
pensare, per esempio, di questo?

Un enunciato del genere è pura


follia. Eppure, proprio lì tra le
equazioni incomprensibili, i
teoremi folli non sostenuti da
alcuna dimostrazione, ci sono
anche questi frammenti che hanno
senso, abbastanza numerosi da
indurlo a continuare. Alcune delle
serie infinite, per esempio, le
riconosce. Bauer pubblicò la prima,
famosa per la sua semplicità e
bellezza, nel 1859.
Ma quante probabilità ci sono che
un impiegato privo di preparazione
quale si professa Ramanujan si sia
mai imbattuto in questa serie?
Possibile che l’abbia scoperta da
solo? E poi c’è una serie che Hardy
non ha mai visto in vita sua. Gli
sembra una forma di poesia.

Che razza di immaginazione


poteva concepire questo? E la cosa
più miracolosa – Hardy la verifica
sulla sua lavagna, nella misura in
cui può verificarla – è che sembra
corretta.
Hardy si accende la pipa e
prende a passeggiare per la stanza.
Nel giro di pochi minuti
l’esasperazione ha lasciato posto
allo stupore, lo stupore
all’entusiasmo. Che miracolo gli ha
portato oggi la posta? Qualcosa che
non ha mai neppure sognato di
vedere. Un genio allo stato brado?
È un modo un po’ rude di
definirlo. Però…
Per sua stessa ammissione,
Hardy è stato fortunato. Come è
felice di raccontare a chiunque,
proviene da una famiglia di umili
origini. Uno dei suoi nonni faceva
l’operaio in una fonderia, l’altro la
guardia carceraria nel penitenziario
della Contea di Northampton.
(Viveva in Fetter Street.) In seguito
suo nonno, quello materno, era
stato messo a mestiere da un
fornaio. E Hardy – è davvero felice
di raccontarlo a chiunque –
probabilmente farebbe a sua volta
il fornaio se i suoi genitori non
avessero preso la saggia decisione
di fare gli insegnanti. All’epoca
della sua nascita il padre, Isaac
Hardy, venne nominato economo
alla Cranleigh School, nel Surrey, e
fu la Cranleigh che Hardy
frequentò. Dalla Cranleigh passò al
Winchester College e dal
Winchester al Trinity, sgusciando
attraverso porte che normalmente
sarebbero state chiuse per lui,
perché uomini e donne come i suoi
genitori ne detenevano le chiavi.
Dopodiché niente ostacolò la sua
ascesa fino alla precisa posizione
che aveva sempre sognato di
occupare, e che merita di occupare,
perché ha talento e ha lavorato
sodo. Qui invece c’è un giovane
uomo, costretto a vivere da
qualche parte nelle viscere di una
città di cui Hardy riesce a stento a
immaginare lo squallore e il
frastuono, che ha tutta l’aria di
aver forgiato le sue doti
interamente da solo, senza
istruzione o incoraggiamento.
Hardy si è già imbattuto nel genio.
Littlewood lo possiede, ne è
convinto, e anche Bohr. In
entrambi i casi, però, disciplina e
conoscenza sono state impartite
loro fin dai primi anni, dando al
genio una forma riconoscibile.
Quello di Ramanujan invece è
selvaggio e incoerente, come una
pianta di rose rampicanti che
avrebbe dovuto essere preparata
per crescere su un graticcio, e
invece sfugge al controllo.
Lo assale un ricordo. Molti anni
prima, quando era bambino, la sua
scuola aveva organizzato uno
spettacolo all’aperto, un Bazar
indiano in cui lui recitava la parte
di una fanciulla coperta di gioielli e
avvolta nella versione scolastica di
un sari. Un suo amico, Avery, era
un gurkha che brandiva una spada
e lo minacciava… Strano, erano
secoli che non pensava a quello
spettacolo, eppure adesso,
ricordandolo, si rende conto che
quel facsimile tutto strass e carta
colorata dell’esotico Oriente, dove
gli arditi inglesi combattevano
contro i nativi per l’Impero, è
l’immagine che la sua mente evoca
ogni volta che gli parlano
dell’India. Non può negarlo: ha un
debole per il kitsch. Fu un cattivo
romanzo a decidere della sua
carriera. Nel corso ordinario delle
cose, gli Wykehamists (come
venivano chiamati gli studenti del
Winchester, dal nome del
fondatore William of Wykeham)
andavano al New College di
Oxford, con cui il Winchester
College aveva strette alleanze. Ma
poi Hardy lesse A Fellow of Trinity,
il cui autore, “Alan St. Aubyn”
(pseudonimo di Mrs. Frances
Marshall), descriveva la carriera di
due amici, Flowers e Brown,
entrambi studenti universitari del
Trinity College di Cambridge.
Insieme superano un mucchio di
tribolazioni, e poi, alla fine del loro
corso di laurea, il virtuoso Flowers
ottiene un incarico all’università,
mentre lo scioperato Brown, che si
è dato al bere e ha rovinato la sua
famiglia, viene bandito dal mondo
accademico e diventa un
missionario. Nell’ultimo capitolo,
Flowers pensa tristemente a
Brown, relegato tra i selvaggi,
mentre beve porto e mangia noci
dopo cena nella sala di ritrovo dei
docenti.
Era soprattutto la prospettiva di
quel momento – il porto e le noci –
che Hardy assaporava. Eppure,
sebbene dicesse a se stesso che
sperava di diventare Flowers,
quello che sognava di notte –
quello che giaceva accanto a lui nel
letto, nei suoi sogni – era Brown.
E, naturalmente, l’ironia vuole
che, adesso che vive al Trinity, il
vero Trinity, un Trinity che non
assomiglia affatto alla fantasia di
“Alan St. Aubyn”, non vada mai
nella sala di ritrovo dei docenti e
non prenda mai il porto con le
noci. Detesta il porto con le noci. Si
addice di più a Littlewood. La
realtà riesce a cancellare l’idea di
un posto che l’immaginazione
evoca in previsione di vederlo, una
verità che rattrista Hardy, il quale
sa bene che, se mai si recasse a
Madras e si immergesse nel
calderone che è la vera Madras,
allora quel palcoscenico di
Cranleigh, decorato con stendardi
azzurri e rosa e accurati disegni
infantili di dee dalle molte braccia,
verrebbe cancellato. Avery, che
avanza baldanzoso verso di lui con
la sua spada di cartone, sarebbe
cancellato. E così, solo per questo
momento può dilettarsi a
immaginare Ramanujan, vestito
più o meno come Avery, che scrive
le sue serie infinite in mezzo a
splendori orientali, anche se
sospetta che in realtà il giovane
passi le sue giornate separando e
timbrando documenti,
probabilmente in una stanza senza
finestre di un buio edificio
britannico che neppure il luminoso
sole d’Oriente riesce a rischiarare.
Non c’è altro da fare. Deve
consultare Littlewood. E questa
volta non tramite cartolina. No,
andrà di persona da Littlewood.
Portando la busta, compirà il
tragitto – tutti i quaranta passi che
richiede – verso la scala D, in
Nevile’s Court, e busserà alla porta
di Littlewood.
3

Ogni angolo del Trinity ha una


storia da raccontare. La scala D di
Nevile’s Court è dove un tempo
risiedeva Lord Byron e dove teneva
il suo orso, Bruin, che portava a
spasso al guinzaglio in segno di
protesta contro la regola del college
che impediva di tenere cani.
Adesso ci vive Littlewood, forse
(Hardy non ne è sicuro) nelle
stesse stanze in cui un tempo
ruzzava Bruin. Primo piano. Sono
le nove di sera – dopo la cena a
base di zuppa, sogliola di Dover,
fagiano, formaggio e porto – e
Hardy è seduto su un divano
rigido davanti a un fuoco morente,
a osservare Littlewood che spinge
la sua sedia a rotelle di legno
allontanandosi dalla scrivania e
attraversando la stanza senza mai
staccare gli occhi dal manoscritto
dell’indiano. Andrà a sbattere
contro il muro? No: si ferma di
botto davanti alla porta d’ingresso
e incrocia le gambe alle caviglie.
Calze, niente scarpe. Ha gli occhiali
sulla punta del naso, dal quale
escono sbuffi di fiato smuovendogli
i peli di un paio di baffi che,
secondo Hardy, non gli donano
affatto. Ma non lo direbbe mai,
nemmeno se glielo chiedessero, il
che è altamente improbabile.
Sebbene collaborino ormai da
parecchi anni, questa è solo la terza
volta che Hardy fa visita a
Littlewood nei suoi appartamenti.
«“Ho scoperto una funzione che
esprime esattamente il numero di
numeri primi minore di x”» legge
Littlewood ad alta voce. «Peccato
che non la dia.»
«Sai, ho l’impressione che non
fornendomela speri di riuscire a
indurmi a rispondergli. Sta facendo
dondolare la carota.»
«E gli risponderai?»
«Direi di sì. Sì.»
«Io lo farei.» Littlewood posa la
lettera. «Cosa chiede in definitiva?
Aiuto per pubblicare il suo
materiale. Be’, se risulterà che c’è
qualcosa di buono, possiamo – anzi
dobbiamo – aiutarlo. A patto che ci
fornisca più dettagli.»
«E qualche dimostrazione.»
«Comunque, cosa ne pensi delle
serie infinite?»
«Bah. O se le sogna, o nasconde
un teorema molto più generale
nella manica.»
Con il piede coperto dalla calza,
Littlewood si spinge alla scrivania.
Fuori dalla finestra, i rami degli
olmi frusciano. È l’ora in cui, anche
in una giornata relativamente mite
come questa, l’inverno ribadisce la
sua presenza, inviando piccole
raffiche di vento dietro gli angoli,
su per le crepe nell’assito del
pavimento, sotto le porte. Hardy
vorrebbe che Littlewood si alzasse
e attizzasse il fuoco. Invece
continua a leggere. Ha ventisette
anni, e sebbene non sia alto dà
l’impressione di una stazza
massiccia, testimonianza degli anni
che ha trascorso facendo
ginnastica. Hardy, al contrario, è
magro e di ossatura esile, atletico
come un giocatore di cricket più
che come un agile ginnasta.
Sebbene molte persone, sia uomini
sia donne, gli abbiano detto che è
attraente, Hardy si considera
orribile, ed è il motivo per cui nei
suoi appartamenti non c’è neanche
uno specchio. Quando scende in
albergo, almeno così racconta,
copre gli specchi con un telo.
A modo suo, Littlewood è un
personaggio alla Byron, pensa
Hardy, o perlomeno simile a Byron
quanto può esserlo un matematico.
Per esempio, in ogni mattinata
tiepida attraversa la New Court
con nient’altro che un
asciugamano stretto intorno ai
fianchi per fare il bagno nel Cam.
Questa sua abitudine provocò uno
scandalo nel 1905, quando
Littlewood aveva diciannove anni
ed era appena arrivato al Trinity.
Presto la voce del suo déshabillé si
sparse fino al King’s College, col
risultato che Oscar Browning e
Goldie Dickinson presero ad
arrivare al college la mattina
presto, sebbene non avessero fama
di essere mattinieri. «Non è
stupenda la primavera?» chiedeva
O.B. a Goldie, mentre Littlewood li
salutava con un cenno della mano.
O.B. e Goldie sono entrambi
Apostoli, naturalmente. E anche
Russell e Lytton Strachey. E John
Maynard Keynes. E Hardy stesso.
Oggi la segretezza della Società è
una barzelletta, grazie soprattutto
alla recente pubblicazione di un
articolo piuttosto impreciso sui suoi
esordi. Adesso chiunque sia
interessato alla cosa sa che nelle
loro riunioni del sabato sera i
confratelli – ciascuno dei quali ha
un numero – mangiano “balene”
(sardine su pane tostato), e che
uno di loro legge un saggio
filosofico stando in piedi sul
tappeto cerimoniale, un “tappeto
da focolare” per la precisione, e che
questi saggi sono conservati in un
vecchio baule di legno di cedro
chiamato “l’Arca”. È anche
risaputo che la maggior parte dei
membri di “quella tal” società sono
fatti in “quel tal” modo. La
domanda è: Littlewood lo sa? E, se
sì, gliene importa?
Littlewood si alza dalla sedia e,
con la sua camminata decisa, va
verso il fuoco. Le fiamme si alzano
dai carboni quando le attizza. Il
freddo ha paralizzato Hardy, che
comunque non si sente a suo agio
in questa stanza con i suoi specchi,
il pianoforte Broadwood e
quell’odore che permea l’aria, di
sigari e carta assorbente e,
soprattutto, di Littlewood: un
odore di lenzuola pulite e fumo di
legna e qualcos’altro, qualcosa di
umano, di biologico, che Hardy
esita a identificare. Questa è una
delle ragioni per cui comunicano
tramite cartolina. Si può parlare
della funzione zeta di Riemann in
termini di “montagne” e di “valli”
dove i suoi valori, tracciati su un
grafico, si alzano e si abbassano,
ma se si comincia a immaginare di
salire veramente, di assaporare
l’aria, di cercare l’acqua, ci si
smarrisce. Gli odori – di
Littlewood, della lettera
dell’indiano – interferiscono con la
sua capacità di orientarsi nel
paesaggio matematico, ragion per
cui, all’improvviso, Hardy si sente
malato, ansioso di tornare alla
sicurezza dei suoi appartamenti.
Infatti si è già alzato e sta per
salutare quando Littlewood gli
mette una mano sulla spalla. «Non
te ne andare ancora» dice,
facendogli segno di sedersi.
«Voglio farti sentire una cosa.» E
mette un disco sul grammofono.
Hardy lo accontenta e si rimette
seduto. Dal grammofono esce una
serie di rumori. Per lui la musica
non è altro che questo, una serie di
rumori. È in grado di riconoscere il
ritmo e la struttura, una
successione di terzine e una sorta
di narrazione. Ma non gli dà alcun
piacere. Non percepisce alcuna
bellezza. Forse perché gli manca
qualcosa, ha un difetto nel
cervello. È frustrante per lui questa
incapacità di apprezzare un’arte
dalla quale il suo amico trae tanta
soddisfazione. Lo stesso vale per i
cani. La gente può sdilinquirsi
finché vuole sulle loro eccellenti
virtù, la loro intelligenza e fedeltà.
Per lui sono solo creature
puzzolenti e fastidiose. Littlewood,
invece, adora i cani, come Byron.
Adora la musica. Infatti, mentre la
puntina avanza stridendo sui solchi
del disco, sembra andare in estasi,
chiude gli occhi, alza le mani, e
suona l’aria con le dita.
Grazie a Dio il disco finisce. «Sai
cos’era?» chiede Littlewood,
sollevando la puntina.
Hardy scuote la testa.
«Beethoven. Primo movimento
della sonata Al chiaro di luna.»
«Delizioso.»
«Sto imparando a suonare, sai.
Certo, non sono un Mark
Hambourg, né lo sarò mai.» Si
siede di nuovo, vicino a Hardy
stavolta. «Lo sai chi mi ha fatto
conoscere Beethoven, vero? Il
vecchio O.B. Quando ero ancora
studente, mi invitava sempre nei
suoi appartamenti. Forse perché
ero senior wrangler. Aveva una
pianola, e suonò per me la
Waldstein.»
«Sì, sapevo che era un cultore
della musica.»
«Personaggio bizzarro, O.B. Hai
mai sentito della volta che venne
intercettato da un gruppo di
signore dopo la sua nuotata? Aveva
solo un fazzoletto, ma invece di
coprirsi le parti intime si coprì la
faccia. “Chiunque a Cambridge
riconoscerebbe la mia faccia”
disse.»
Hardy ride. Anche se ha sentito
la storia mille volte, non vuole
privare Littlewood del piacere di
credere che gliela stia raccontando
per la prima volta. Cambridge è
piena di storielle su O.B. che
iniziano proprio così: “Hai sentito
della volta che O.B. ha cenato con
il re di Grecia?”, “Hai sentito della
volta che O.B. è andato a
Bayreuth?”, “Hai sentito della volta
che O.B. era nel corridoio di un
treno con trenta ragazzi del
Winchester?”. (Hardy dubita che
Littlewood abbia sentito
quest’ultima.)
«Comunque, da allora per me ci
sono solo Beethoven, Bach e
Mozart. Una volta che avrò
imparato, sono gli unici
compositori che suonerò.»
Si alza di nuovo, toglie il disco
dal piatto e lo rimette nella sua
custodia.
“Caro Dio, ti prego, fa’ che
prenda un altro disco e lo metta sul
grammofono. Sono in vena di
musica, ore e ore di musica.”
Lo stratagemma funziona.
Littlewood guarda l’orologio. Forse
vuole lavorare, o scrivere a Mrs.
Chase.
Hardy è sul punto di riprendersi
la lettera di Ramanujan quando
Littlewood dice: «Ti dispiace se la
tengo io per stasera? Vorrei
esaminarla più attentamente».
«Ma certo.»
«Allora forse possiamo parlarne
domattina. Oppure ti mando un
messaggio. Ho l’impressione che mi
impegnerà per metà della notte.»
«Come vuoi.»
«Hardy, in tutta serietà, forse
dovremmo considerare l’idea di
farlo venire qui. O quantomeno
prendere delle informazioni. So
che potrei sembrarti precipitoso…»
«No, stavo pensando la stessa
cosa. Potrei scrivere all’India
Office, per vedere se hanno dei
fondi a disposizione per questo
genere di cose.»
«Potrebbe essere l’uomo che
dimostra l’ipotesi di Riemann.»
Hardy solleva le sopracciglia.
«Davvero?»
«Chi lo sa? Se ha fatto tutto
questo da solo, significa che è
libero di muoversi in direzioni cui
non abbiamo neppure pensato.
Bene, buonanotte, Hardy.»
«Buonanotte.»
Si stringono la mano.
Chiudendosi la porta alle spalle,
Hardy scende di corsa i gradini
della scala D, attraversa Nevile’s
Court verso New Court e sale nei
suoi appartamenti. Quarantatré
passi. Il suo gyp gli ha tenuto il
fuoco acceso; davanti al caminetto,
Hermione è acciambellata sulla sua
ottomana preferita, quella di
velluto azzurro con i bottoni
sull’imbottitura. Gaye, che di
queste cose se ne intendeva, la
chiamava “capitonné”. Aveva
persino fatto fare una fodera
speciale per rivestire l’ottomana, in
modo che Hermione possa
graffiarla senza danneggiare il
velluto. Gaye adorava Hermione; e
nei giorni prima di morire parlava
di commissionare un ritratto per
lei: un’odalisca felina, nuda tranne
che per un enorme smeraldo
appeso intorno al collo con un
nastro di satin. Adesso la fodera è
a brandelli.
Davvero dovrebbero far venire
l’indiano in Inghilterra? Mentre
rimugina sull’idea, il cuore di
Hardy prende a battere più forte.
Non può negare che lo eccita la
prospettiva di salvare un giovane
genio dalla povertà e
dall’anonimato e guardarlo
sbocciare… O forse, quello che lo
eccita è la visione che, suo
malgrado, ha evocato di
Ramanujan: un giovane gurkha,
che brandisce una spada. Un
giovane giocatore di cricket.
Fuori dalla finestra, sorge la
luna. Tra poco, lo sa, il gyp arriverà
con il suo whisky serale. Stasera lo
berrà da solo, in compagnia di un
libro. Curioso, la stanza sembra più
vuota del solito; di quale presenza
sente la mancanza? Di Gaye? Di
Littlewood? Che strana sensazione,
questo senso di solitudine che non
ha un oggetto preciso, dietro il
quale non balugina il miraggio di
un viso, non c’è voce che chiami. E
poi capisce cosa gli manca: la
lettera.
4

Cerca di ricordare quando iniziò.


Sicuramente prima che lui ne
sapesse qualcosa. Prima ancora di
sapere che era uno dei grandi
problemi, se non il più grande di
tutti. Aveva undici anni, forse
dodici. Iniziò con la nebbia.
Il vicario di Cranleigh lo aveva
portato a fare una passeggiata,
dietro richiesta di sua madre,
perché sembrava non prestasse
attenzione in chiesa. Fuori c’era la
nebbia; adesso gli sembra di vedere
gli ingranaggi del cervello del
vicario girare mentre concepiva
l’idea di usare la nebbia per
spiegare la fede. La nebbia, e
qualcosa che piacesse a un
bambino. Un aquilone.
«Se fai volare un aquilone nella
nebbia, non puoi vederlo volare.
Però senti la tensione della corda.»
«Ma con la nebbia» disse
Harold, «non c’è vento. Quindi
come si può far volare un
aquilone?»
Il vicario camminava un po’ più
avanti. Nell’umida immobilità, il
suo torso era indistinto e
ondeggiava come quello di un
fantasma. Era vero, non c’era un
alito di vento.
«Sto usando un’analogia» disse.
«Il concetto ti è familiare, spero.»
Harold non rispose. Sperò che il
vicario scambiasse il suo silenzio
per pia contemplazione, mentre in
realtà il giovane sacerdote aveva
appena strappato anche l’ultimo
brandello di fede dal cuore del
bambino. Perché le verità della
natura non potevano essere negate.
Con la nebbia, non c’era vento.
Nessun aquilone poteva volare.
Tornarono a casa. Sua sorella,
Gertrude, era seduta in salotto, a
esercitarsi a leggere. Aveva l’occhio
di vetro solo da un mese.
Mrs. Hardy preparò il tè per il
vicario, che era un giovane sui
venticinque anni, con i capelli neri
e le dita sottili. «Come ho cercato
di spiegare a suo figlio» disse, «la
fede deve essere coltivata con la
stessa tenacia di qualsiasi scienza.
Non dobbiamo permettere a noi
stessi di lasciarci convincere ad
abbandonarla. La natura fa parte
dei miracoli di Dio, e quando ne
esploriamo il regno dobbiamo farlo
con l’intenzione di meglio
comprendere la Sua gloria.»
«Harold è molto bravo in
matematica» disse sua madre. «A
tre anni riusciva già a scrivere cifre
di milioni.»
«Per calcolare la grandezza della
gloria di Dio, o l’intensità delle
pene dell’inferno, bisogna scrivere
una cifra molto più grande di così.»
«Quanto grande?» chiese
Harold.
«Più grande di quanto potresti
calcolare in un milione di vite.»
«Non è molto grande,
matematicamente parlando» disse
Harold. «Niente è molto grande, in
confronto all’infinito.»
Il vicario si servì una fetta di
torta. A dispetto della sua figura
emaciata, aveva un appetito
robusto, tanto che Mrs. Hardy si
chiedeva se avesse il verme
solitario.
«Suo figlio è dotato» disse dopo
aver deglutito. «Ed è anche
impertinente.» Poi, rivolto a
Harold, disse: «Dio è l’infinito».
Quella domenica, come ogni
domenica, Mr. e Mrs. Hardy
portarono Harold e Gertrude in
chiesa. Erano credenti, ma,
soprattutto, Mr. Hardy era
l’economo della Cranleigh School;
era importante che i genitori degli
allievi lo vedessero sui banchi. Per
distrarsi dal ronzio del sermone del
vicario, Harold scompose i numeri
degli inni nei loro fattori primi. 68
dava 17 ¥ 2 ¥ 2, 345 dava 23 ¥ 5 ¥
3. Sulla lavagna dietro le sue
palpebre, scrisse i numeri primi,
cercò di capire se c’era una ragione
nel loro ordine: 2, 3, 5, 7, 11, 13,
17, 19… Apparentemente non
c’era. Eppure doveva esserci un
ordine, perché i numeri, per loro
stessa natura, conferivano ordine. I
numeri significavano ordine.
Anche se l’ordine era nascosto,
invisibile.
La domanda era abbastanza
facile da formulare, ma non
significava che la risposta sarebbe
stata facile da trovare. Ormai stava
imparando in fretta che spesso i
teoremi più facili da formulare
erano i più difficili da dimostrare.
Prendete l’Ultimo teorema di
Fermat, per esempio, che sosteneva
che per l’equazione xn + yn = zn la
soluzione non poteva essere mai
un numero intero positivo
maggiore di 2. Si potevano inserire
numeri nell’equazione per il resto
della vita, e dimostrare che per il
primo milione di n nemmeno un n
contraddiceva la regola – forse, con
un milione di vite a disposizione, si
sarebbe potuto dimostrare che per
il primo miliardo di n nemmeno
uno contraddiceva la regola –
eppure non si sarebbe dimostrato
niente. Perché chi poteva dire che
lontano, lontanissimo lungo la fila
di numeri, oltre la grandezza della
gloria di Dio e l’intensità delle
pene dell’inferno, non c’era quel
numero n che invece
contraddiceva la regola? Chi
poteva dire che non c’era un
numero infinito di n che
contraddicevano la regola?
Occorreva una dimostrazione,
immutabile, inconfutabile. Eppure,
appena incominciavi a cercarla,
come diventava complicata la
matematica!
Continuò a preoccuparsi dei
numeri primi. Fino a 100 – li contò
– ce n’erano 25. Quanti ce n’erano
fino a 1000? Contò di nuovo – 168
– ma ci impiegò molto tempo. A
Cranleigh aveva replicato, da solo,
la dimostrazione
sorprendentemente facile di
Euclide che c’era un’infinità di
numeri primi. Tuttavia, quando
chiese al suo professore di
matematica del Winchester se c’era
una funzione per calcolare il
numero dei numeri primi fino a un
numero n il professore non seppe
rispondergli. Anche al Trinity,
centro per eccellenza della
matematica inglese, nessuno
sembrava saperlo. Curiosò in giro e
alla fine seppe da Love, uno dei
fellows del Trinity, che in effetti il
matematico tedesco Karl Gauss
aveva concepito una formula del
genere nel 1792, quando aveva
diciassette anni, ma non era stato
in grado di fornire una
dimostrazione. In seguito, disse
Love, un altro tedesco, Riemann,
aveva dimostrato la validità della
formula, ma Love fu nebuloso sui
dettagli. Quel che sapeva per certo
era che la formula era inesatta.
Inevitabilmente calcolava in
eccesso il numero dei numeri
primi. Per esempio, se si contavano
i numeri primi da 1 a 2.000.000 si
scopriva che ce n’erano 148.933.
Ma se si inseriva il numero
2.000.000 nella formula, questa
dava per risultato 149.055 numeri
primi. In questo caso, la formula
calcolava il totale in eccesso di 122.
Hardy voleva saperne di più.
Poteva esserci un modo se non
altro per migliorare la formula di
Gauss? Per ridurre il margine di
errore? Purtroppo, come ormai gli
era sempre più chiaro, Cambridge
non era molto interessata a simili
questioni, che rientravano nella
categoria della matematica pura,
che l’università trascurava, per
concentrarsi invece sulla
matematica applicata: la traiettoria
di pianeti che orbitano nello
spazio, predizioni astronomiche,
ottica, acque e maree. Newton
incombeva sull’ateneo come una
specie di Dio. Un secolo e mezzo
prima aveva ingaggiato
un’acrimoniosa battaglia con
Gottfried Leibniz su chi dei due
avesse scoperto per primo il
calcolo, e sebbene in America e sul
continente fosse stato da tempo
convenuto che Leibniz l’aveva
scoperto per primo, ma che
Newton l’aveva scoperto in modo
indipendente, a Cambridge la
battaglia imperversava come se
fosse ancora attuale. Negare la
pretesa di precedenza di Newton
era un’eresia. L’università era
talmente tenace nella sua lealtà al
figlio famoso che, all’alba del
nuovo secolo, ancora costringeva i
suoi studenti di matematica,
quando lavoravano col calcolo, a
impiegare la sua antiquata
notazione con il punto, la sua
terminologia di flussioni e fluoni
invece del sistema più semplice –
derivato da Leibniz – che era stato
adottato nel resto d’Europa. E
perché? Perché Leibniz era tedesco
e Newton inglese, e l’Inghilterra
era l’Inghilterra. Lo sciovinismo, a
quanto pare, era più importante
della verità, anche in un’arena in
cui la verità dovrebbe essere
assoluta.
Era decisamente sconfortante.
Con i suoi amici, Hardy si chiedeva
ad alta voce se avrebbe dovuto
andare a Oxford. Si chiedeva se
non avrebbe fatto meglio ad
abbandonare la matematica e
passare alla storia. A Winchester
aveva scritto un saggio su Harold,
figlio di Godwin, la cui morte nella
battaglia di Hastings nel 1064 fu
ritratta nell’arazzo di Bayeux. Il
tema del saggio era la complicata
questione della promessa di Harold
a Guglielmo il Conquistatore che
non avrebbe aspirato al trono, ma
ciò che affascinava veramente
Hardy era che, nella battaglia,
Harold fosse stato colpito all’occhio
da una freccia. Dopotutto erano
passati solo pochi anni
dall’incidente di Gertrude, e Hardy
aveva una morbosa ossessione per
gli occhi che venivano estirpati. E
poi c’era anche la coincidenza del
nome, Harold, come il suo. In ogni
caso, Fearon, il suo preside,
ammirò il saggio al punto da farlo
pervenire agli esaminatori del
Trinity, uno dei quali in seguito
disse a Hardy che avrebbe potuto
ottenere una borsa di studio per la
storia altrettanto facilmente che
per la matematica. La cosa gli
rimase impressa per tutti i suoi
anni all’università.
Nei suoi due primi anni a
Cambridge, Hardy condusse una
doppia vita. Da un lato, c’era il
tripos matematico. Dall’altro,
c’erano gli Apostoli. Il primo era
un esame, il secondo una Società.
Solo alcuni membri della Società
sostenevano l’esame; però, la vita
che conducevano nelle stanze in
cui tenevano le loro riunioni ne
minava le fondamenta.
Allora, cominciamo dagli
Apostoli. L’investitura era
segretissima, e una volta “nato”,
l’“embrione”, come veniva
chiamato il prescelto, doveva
giurare che non avrebbe mai
parlato della Società a estranei. Le
riunioni avevano luogo ogni sabato
sera. Come membro attivo – come
uno dei confratelli – eri obbligato a
presenziare a tutte le riunioni nel
corso del trimestre, se eri in sede.
Infine, ciascun membro “metteva
le ali” e diventava un “angelo”, e a
quel punto poteva presenziare solo
alle riunioni cui sceglieva di
partecipare.
Hardy fu accolto dalla Società
nel 1898. Era il numero 233. Il suo
sponsor, o “padre”, era il filosofo
G.E. Moore (numero 229). A
questo punto i membri attivi della
Società, oltre a Moore, erano R.C.
e G.M. Trevelyan (rispettivamente
numero 226 e 230), Ralph
Wedgwood (numero 227), Eddie
Marsh (numero 228), Desmond
McCarthy (numero 231) e Austin
Smyth (numero 232). Gli angeli
che erano più spesso presenti erano
O.B. (numero 142), Goldie
Dickinson (numero 209), Jack
McTaggart (numero 212), Alfred
North Whitehead (numero 208) e
Bertrand Russell (numero 224),
che aveva messo le ali solo un anno
prima. Quasi tutti erano del King’s
o del Trinity, e solo due di loro –
Whitehead e Russell – avevano
sostenuto il tripos.
E cos’era di preciso il tripos
matematico? Ridotto all’osso, era
l’esame che tutti gli studenti di
matematica di Cambridge
dovevano sostenere fin dalla fine
del XVIII secolo. La parola in sé si
riferiva allo sgabello a tre piedi sul
quale, nei tempi andati, sedevano i
candidati mentre “lottavano”* con i
loro esaminatori su concetti di
logica. Ormai era passato un secolo
e mezzo, eppure il tripos verificava
ancora le conoscenze di
matematica applicata che erano
attuali nel 1782. Gli allievi che
ottenevano i punteggi più alti
all’esame venivano ancora
classificati come “wrangler”, e poi
nominati in base al punteggio,
laddove i migliori ottenevano il
titolo di “senior wrangler.” Dopo i
wrangler venivano “senior optime”
e “junior optime”. Una gran
cerimonia seguiva la lettura rituale
dei nomi e dei punteggi, la lista
degli onori, che aveva luogo ogni
anno nella Senate House il
secondo martedì di giugno. Per
avere un futuro in matematica a
Cambridge, dovevi piazzarti tra i
primi dieci wrangler. Essere
nominato senior wrangler ti
garantiva una fellowship o, se
sceglievi di non intraprendere la
carriera accademica, un posto
remunerativo nel governo o nella
magistratura. Nel suo anno,
Whitehead era stato secondo
wrangler, Russell settimo.
Il tripos aveva qualcosa
dell’evento sportivo. Era preceduto
da scommesse, e seguito da trionfi.
La terza settimana di giugno,
nessun uomo di Cambridge era
famoso quanto il senior wrangler,
le cui fotografie venivano vendute
dagli strilloni e nelle edicole, e che
veniva seguito per le strade da
aspiranti studenti e da ragazze che
gli chiedevano l’autografo. A
partire dal 1880, furono ammesse
all’esame anche le donne, anche se
il loro punteggio non contava, e
quando, nel 1890, una donna batté
il senior wrangler la notizia della
sua strabiliante vittoria fu ripresa
nientemeno che da un organo di
stampa famoso come il “New York
Times”.
Alcuni, in genere coloro che non
avevano alcuna esperienza
personale dell’esame,
consideravano il tripos molto
divertente. O.B., per esempio.
Storico per vocazione e professione,
adorava ogni genere di pompa,
pertanto non riusciva a capire
perché Hardy contestasse con tanta
veemenza quella che per lui era
solo una pagliacciata che si rifaceva
a una vetusta tradizione di
Cambridge. In particolare – e
questo era tipico di O.B. – adorava
il cucchiaio di legno. Ogni anno il
giorno del diploma, quando il
poverino che aveva preso il voto
più basso – l’ultimo dei junior
optime – si inginocchiava davanti
al vicerettore, i suoi amici gli
calavano dal tetto della Senate
House un enorme cucchiaio di
legno, lungo un metro e mezzo,
dipinto in modo elaborato e
decorato con gli emblemi del suo
college, insieme a frammenti di
versi comici in greco che
suonavano più o meno così:
Nessun premio matematico
questo eguaglia per la gloria.
Piangi dunque, senior wrangler,
giacché mai porterai questo
Cucchiaio!
Poi il malcapitato si allontanava
portandosi dietro il cucchiaio con
tutto il pathos e la serenità d’animo
cui riusciva a fare appello. Per il
resto della vita, sarebbe stato noto
come il cucchiaio di legno di
quell’anno.
Una volta, nell’ora di
socializzazione che seguiva una
riunione degli Apostoli, O.B. disse
a Hardy: «Cosa dovrebbe farne del
cucchiaio, mescolarci il tè?».
«Chi?» chiese Hardy.
«Il cucchiaio di legno.»
Hardy non voleva parlare del
cucchiaio di legno. Disprezzava già
abbastanza il tripos, la cui
preparazione era per lui un inutile
fardello, che lo distoglieva dalle
materie alle quali avrebbe preferito
dedicare la sua energia, come i
numeri primi, ad esempio. Per lui
il tripos era una pratica arcaica.
Quando ti sottoponevi all’esame
dovevi non solo impiegare
l’antiquata terminologia
newtoniana, ma anche recitare a
memoria i lemmi del suo Principia
Mathematica alla semplice
menzione del loro numero, come
fossero salmi. Poiché pochi docenti
facevano lezione su queste nozioni
matematiche, era nata una fiorente
industria a domicilio di istruttori
privati per il tripos, con tariffe
proporzionate al numero di senior
wrangler che “producevano”.
Questi istruttori erano per molti
versi più famosi delle loro
controparti, i docenti. Webb era il
più famoso di tutti, e fu a lui che
Hardy venne indirizzato.
Quelli non sono giorni che
ricorda con affetto. Tre volte la
settimana, durante il trimestre e
anche durante le lunghe vacanze,
alle otto e un quarto in punto, lo
facevano sedere con altri cinque
giovani in una stanza che era
umida d’estate e gelida d’inverno.
La stanza era nella casa di Webb, e
Webb vi trascorreva l’intera
giornata, ora dopo ora, ad
addestrare gruppi successivi di sei
allievi fino all’imbrunire, mentre
Mrs. Webb, imbronciata e
silenziosa, si aggirava in cucina
riempiendo e aggiungendo acqua
alla teiera. La routine non
cambiava mai. Metà della riunione
era dedicata all’apprendimento
mnemonico, l’altra metà ad
allenarsi a rispondere alle
domande con i minuti contati,
come in un quiz a tempo. Hardy la
considerava una colossale perdita
di tempo, e ad aggravare la sua
sofferenza contribuiva la
convinzione di essere l’unico a
provarla. L’ambizione sembrava
avere reso gli altri ciechi di fronte
alla follia di quanto stavano
facendo. Allora non sapeva che in
Germania i professori si
divertivano a ridicolizzare le
domande dell’esame: “Su un ponte
flessibile c’è un elefante di massa
irrilevante; sulla sua proboscide è
posata una zanzara di massa m.
Calcolate le vibrazioni del ponte
quando l’elefante sposta la zanzara
con un barrito dalla proboscide”.
Eppure questo era esattamente il
tipo di domanda che caratterizzava
il tripos, e a causa del quale
generazioni di studenti di
Cambridge avevano rinunciato alla
possibilità di un’istruzione
autentica, proprio nel momento in
cui le loro menti erano più mature
per la scoperta.
In seguito, Hardy cercò di
spiegare tutto questo a O.B.
Tramite gli Apostoli, avevano
sviluppato un’amicizia molto
particolare. Sebbene O.B. non
facesse mai i suoi scherzi salaci a
Hardy, o non cercasse di toccarlo,
aveva l’abitudine di passare negli
appartamenti di Hardy il
pomeriggio senza preavviso. Spesso
parlava di Oscar Wilde, che era
stato suo amico e che ammirava
immensamente. «L’ho visto a
Parigi, poco prima che morisse»
disse O.B. «Ero su una vettura di
piazza e gli passai accanto senza
capire chi era. Ma lui mi
riconobbe. Oh, il dolore nei suoi
occhi…»
A quel punto della sua vita,
Hardy sapeva ben poco di Wilde al
di là delle voci che erano riuscite a
trapelare attraverso le fortificazioni
erette dai suoi professori del
Winchester per proteggere i loro
pupilli dalle notizie dei processi.
Quindi chiese a O.B. di
raccontargli tutta la storia, e O.B.
lo accontentò: i giorni di gloria, la
perfidia di Bosie, la famigerata
testimonianza delle cameriere
d’albergo… A pochi anni dalla
morte di Wilde, lo scandalo era
ancora così intenso che nessuno
osava farsi vedere con una copia di
uno dei suoi libri. Tuttavia, O.B.
prestò a Hardy La decadenza della
menzogna. Quando Hardy toccò il
libro, la copertina parve emanare
uno sbuffo di calore, come un ferro
da stiro. Lo divorò, e alla fine, con
la sua calligrafia elegante, copiò un
passaggio che lo aveva
particolarmente colpito:
L’arte non esprime altro che se stessa.
Ha una vita indipendente, proprio
come il Pensiero, e si sviluppa secondo
linee assolutamente proprie. Non è
necessariamente realistica in un’epoca
di realismo, né spirituale in un’epoca
di fede. Dunque, lungi dall’essere la
creazione del suo tempo, di solito va
nella direzione opposta, e l’unica storia
che ci tramanda è la storia del proprio
progresso.
Lo stesso, decise Hardy, valeva per
l’arte della matematica. Il suo
perseguimento non doveva essere
contaminato dalla religione né
dall’utilità. Anzi, era proprio la sua
inutilità a renderla grandiosa.
Supponiamo, per esempio, che
abbiate dimostrato l’Ultimo
teorema di Fermat. Che contributo
avreste dato al bene dell’umanità?
Assolutamente nessuno. I progressi
della chimica hanno aiutato i
cotonifici a sviluppare nuovi
processi di tintura. La fisica ha
potuto essere applicata alla balistica
e alla fabbricazione delle armi da
fuoco. Ma la matematica? Non
potrebbe mai servire a nessuno
scopo pratico o bellico. Si è
sviluppata, come dice Wilde,
“secondo linee assolutamente
proprie”. Lungi dall’essere un
limite, la sua inutilità era una
prova della sua illimitatezza.
Il problema era che, ogni volta
che cercava di esprimere questo
concetto per O.B., si ingarbugliava
terribilmente, come la sera in cui si
lamentò che la matematica che
costituiva materia d’esame per il
tripos era inutile.
«Io non ti capisco» gli disse O.B.
«Un giorno non fai che parlare
della gloriosa utilità della
matematica, e il giorno dopo ti
lamenti che la matematica su cui
verte il tripos è inutile. A chi devo
credere di voi due?»
«Non lo intendo nello stesso
modo» disse Hardy. «La materia
del tripos non è inutile nel modo
in cui lo è la matematica pura. Non
è una questione di applicabilità.
Anzi, la materia del tripos è
eminentemente applicabile…
ancorché antiquata.»
«Il latino e il greco sono
antiquati. Allora dovremmo
abbandonarli?»
Hardy cercò di tradurre la sua
posizione in una lingua che O.B.
fosse in grado di capire.
«D’accordo, sta’ a sentire» disse.
«Immagina di fare un esame di
storia della letteratura inglese. Ai
soli fini dell’esame, devi scrivere le
risposte in inglese medievale.
Anche se non ti sarà mai più
richiesto di scrivere un esame, o
qualsiasi altra cosa, in inglese
medievale, non ha importanza,
devi egualmente scrivere le tue
risposte in inglese medievale. E
non solo: le domande cui devi
rispondere non sono su grandi
scrittori, su Chaucer e Milton e
Pope, nossignore, sono su oscuri
poeti di cui nessuno ha mai sentito
parlare. E tu devi imparare a
memoria ogni parola che quei poeti
hanno scritto. E questi poeti hanno
scritto centinaia di migliaia di
poesie terribilmente noiose. E,
come se non bastasse, devi
imparare a memoria dodici trattati
del XVI secolo sulla natura della
melanconia ed essere preparato a
recitare qualsiasi capitolo alla sola
menzione del suo numero. Bene,
se riesci a immaginare questo,
allora forse puoi immaginare cosa
significhi sostenere un tripos.»
«Direi che sembra divertente»
disse O.B. «Comunque continuo a
pensare che la tua sia una
distinzione faziosa. Un tipo di
inutilità la esalti perché ti diverte,
l’altro tipo lo condanni perché ti
annoia. Ma in definitiva è la stessa
cosa.»
Hardy tacque. Era evidente che
O.B. non capiva, non avrebbe mai
capito. Solo un matematico era in
grado di farlo. O.B. non sapeva
cosa significasse essere strappato a
forza da qualcosa in cui credi
appassionatamente e costretto a
concentrare la tua attenzione su
qualcosa che disprezzi. Né capiva
l’ingiustizia di essere costretti a
dedicare anni di sforzi
all’acquisizione di capacità che, una
volta superato il tripos, non ti
sarebbe mai stato chiesto di
impiegare. Sempre più O.B. viveva
per lo spettacolo: i pasticcini serviti
e la musica suonata alle sue
“festicciole”, dove i marinai si
mescolavano agli accademici. Non
gli interessavano né idee né ideali.
La sua fellowship, per quanto ne
sapeva Hardy, gli era cara solo
perché gli consentiva di starsene
comodo tra i confini sicuri del
King’s College. Era per sua natura
una creatura del college. La
maggior parte degli Apostoli lo era.
Qualche anno prima, McTaggart
aveva scritto del paradiso: “Di un
College si potrebbe dire, con la
stessa dose di verità con cui è stato
detto dell’Assoluto, che è un’unità,
un’unità dello spirito, e che quello
spirito esiste solo in quanto
individuale”. Ma, naturalmente,
“l’Assoluto è un’unità di gran
lunga più perfetta di un college”.
Era difficile che O.B. si trovasse
d’accordo con un sentimento del
genere, dato che per lui il King’s
era l’unità perfetta.
O.B., Hardy lo sapeva, non
aveva molta simpatia per
McTaggart. Né apprezzava la
“religione” di McTaggart, una sorta
di cristianesimo anticristiano in cui
le anime platoniche ascendevano
in un paradiso senza un Dio.
Hardy la pensava allo stesso modo.
Una delle molte stranezze
comportamentali di McTaggart era
che camminava di traverso,
un’abitudine sviluppata nei suoi
giorni di scuola, quando doveva
camminare rasente i muri per
evitare di essere preso a calci.
Soffriva di una lieve curvatura
della spina dorsale, e scorrazzava
per le strade di Cambridge con un
pesante triciclo antiquato. Anni
prima, aveva presentato un saggio
alla Società, intitolato Viole o fiori
d’arancio?, in cui avanzava
un’eloquente difesa dell’amore tra
uomini, che considerava superiore
all’amore tra uomini e donne,
purché venisse tracciata una netta
distinzione tra la “bassa sodomia” e
la “sodomia più elevata”. Quando
aveva consegnato il suo saggio,
McTaggart si era schierato
fermamente per la sodomia più
elevata, e continuava a mantenere
la sua posizione, a dispetto del suo
recente matrimonio con una
robusta ragazza neozelandese,
Daisy Bird, di cui diceva con
orgoglio che non aveva “un pizzico
di femminilità” e con la quale,
disse ai confratelli, condivideva
ogni cosa, anche la passione per i
ragazzini.
Tutto considerato, Hardy
trovava G.E. Moore più congeniale.
Si conobbero durante il primo
anno di Hardy al Trinity. Il
“padre” aveva cinque anni più
dell’“embrione”, ma sembrava un
suo coetaneo, se non più giovane,
il che era un vero sollievo. Hardy
cominciava a essere stanco di
essere scambiato per un ginnasiale.
Sebbene Moore non fosse bello in
senso convenzionale, irradiava una
malinconia infantile che faceva
venir voglia di proteggerlo e
sculacciarlo, di scompigliargli i
capelli che gli ricadevano sulla
fronte ampia, di accarezzargli le
orecchie, che erano prive di lobi, e
cancellargli dalla bocca con un
bacio l’espressione di perenne
sorpresa. Non che Hardy avesse
mai la possibilità di cancellare con
un bacio quell’espressione. L’unica
intimità che Moore gli concedeva
era tenersi per mano. Era piuttosto
rigido in fatto di sesso, il che era
sorprendente, visto che uno dei
principi basilari della sua filosofia
(una sorta di estensione e allo
stesso tempo di refutazione di
quella di McTaggart) era che il
piacere è il sommo bene della vita.
Quasi fin dal primo momento della
sua “nascita” negli Apostoli, era
stato riconosciuto come un genio,
un salvatore inviato dal paradiso
degli angeli per riscuotere i
confratelli dal torpore di fin de
siècle. Passeggiando sui prati di
Grantchester con Hardy, la piccola
mano molliccia ma dalla presa
salda, parlava di “bontà”. Per lui la
bontà era indefinibile, ma anche
fondamentale, l’unico terreno nel
quale poteva mettere radici una
teoria della morale. E dove si
trovava la bontà? Nell’amore e
nella bellezza. Forse, senza volerlo,
Moore stava offrendo agli Apostoli
una giustificazione morale per la
loro dedizione ad attività in cui per
lo più erano già abilissimi: coltivare
bei ragazzi e acquisire begli oggetti.
In seguito, l’ammirata cerchia di
Bloomsbury estrasse dal suo
corposo opus magnum, i Principia
Ethica, un’unica frase, la mise su
un piedistallo e la chiamò la
filosofia di Moore: “… gli affetti
personali e i piaceri estetici
comprendono tutti i beni più
grandi, e di gran lunga i più
grandi, che si possano
immaginare”.
Affetto, piacere: durante quelle
passeggiate a Grantchester, Hardy,
facendo ricorso alle parole stesse di
Moore, cercava di abbracciarlo
sull’erba. Quando i loro
brancicamenti si concludevano,
come inevitabilmente accadeva,
nella frustrazione e in un affrettato
rassettarsi dei calzoni cosparsi di
denti di leone, Moore iniziava a
parlare di matematica. Assicurava a
Hardy che aveva ragione a volersi
dedicare alla matematica pura
invece che alla matematica
applicata. I numeri primi, per
Moore, erano parte del regno della
bontà come il sesso non sarebbe
mai stato.
Tutti i primi amori forse sono
destinati a lasciar delusi gli
innamorati. Quello di Hardy e di
Moore durò solo per il primo anno
di appartenenza di Hardy alla
Società. Poi Moore conobbe Alfred
Ainsworth. Fecero insieme la loro
prima visita ad Ainsworth nei suoi
appartamenti, una sera d’inverno,
per vedere se Ainsworth poteva
essere materiale da embrione.
Ainsworth aveva guance fresche e
un alito che sapeva di fumo.
Mentre parlava, lanciava
fiammiferi accesi sul tappeto.
Dopo, quando lui e Moore se ne
stavano andando, Hardy notò le
piccole bruciature che
punteggiavano il tappeto e che
divenivano sempre più fitte, sino a
formare un cerchio carbonizzato,
vicino alla poltrona in cui
Ainsworth faceva le sue letture.
Fu la prima e l’unica volta in vita
sua che qualcuno lo lasciò per
qualcun altro. Nel giro di poche
settimane, la simpatia di Moore per
Ainsworth si era trasformata in
una vera passione, ma, come con
Hardy, la relazione non superò mai
lo stadio della mano nella mano.
In parte fu perché Ainsworth, a
differenza di Hardy, provava una
certa avversione per l’intimità fisica
tra uomini. Tuttavia, qualcun altro
– qualcuno come John Maynard
Keynes – sarebbe riuscito a
stimolarlo, o ad assillarlo fino a
convincerlo a cedere. Ancora una
volta, il punto dolente fu il
moralismo di Moore. Quando, a
una riunione della Società, Moore
fu invitato a cantare i lieder di
Schubert (aveva una bella voce da
tenore), attaccò la musica con
gusto, senza mai smettere di
guardare Ainsworth con aria
sognante. Ma poi lesse un saggio in
cui si chiedeva se fosse possibile
innamorarsi di una persona solo
grazie alle sue “qualità mentali”. E
in che razza di ginepraio andò a
ficcarsi! “Pertanto, sebbene
possiamo ammettere che
apprezzare il comportamento di
una persona verso altre persone, o,
per fare un esempio, l’amore per
l’amore, è il bene più prezioso che
conosciamo, molto più prezioso
dell’amore per la bellezza,
possiamo ammetterlo solo se è
chiaro che il primo include il
secondo, in gradi diversi, più o
meno diretti.” In sostanza era un
modo per dire che non avrebbe
mai potuto innamorarsi di una
persona brutta.
Se Hardy non si fosse
considerato brutto – e Moore non
lo avesse lasciato per Ainsworth
(che lui stesso considerava bello) –
avrebbe potuto reagire al
tradimento indignandosi o
divertendosi. Invece osservò con
distacco il triste spettacolo di
Moore che minava il proprio
desiderio. Moore adorava
Ainsworth, ovviamente voleva
andare a letto con Ainsworth, ma,
nonostante si fosse spinto fino a
trasferirsi a Edimburgo per vivere
con Ainsworth, che insegnava là,
non lo avrebbe mai ammesso. Poi
Ainsworth si sposò con la sorella di
Moore, e Moore tornò a
Cambridge. Quando si rividero,
Hardy non sapeva proprio cosa
dirgli. Congratulazioni per il
matrimonio di tua sorella con il tuo
grande amore? Mi dispiace che ti
abbia lasciato? Hai avuto quel che
ti meriti?
Non aveva importanza. Da
Moore aveva imparato una cosa
fondamentale: ad andare per la sua
strada. La sua reputazione, pensava
spesso, era provvidenziale. Hardy
era per sua natura coriaceo,
pertinace. Rimase della sua idea. Se
gli Apostoli potevano porsi al di
sopra del cristianesimo, delle
convenzioni, delle “regole”, allora
con altrettanta facilità lui poteva,
per così dire, proiettare la sua
attenzione al di là della stupidità
dell’Inghilterra, al di là dell’ottusità
che si riteneva autorevolezza e
dell’ignoranza che si riteneva
superiorità; persino al di là
dell’emblematico canale. E dove
approdò alla fine, quell’attenzione,
una volta che ebbe intrapreso il suo
meraviglioso viaggio? Nella Bassa
Sassonia, nella piccola città di
Gottinga, riconosciuta capitale
della matematica pura, la città di
Gauss e di Riemann. Gottinga, che
non aveva mai visitato, era l’ideale
di Hardy. Mentre a Cambridge le
edicole vendevano fotografie del
senior wrangler, a Gottinga i
negozi vendevano cartoline con le
fotografie firmate dei grandi
professori. Le fotografie della città
stessa la mostravano bellissima,
antica e ornata. Dal Rathaus, con i
suoi archi gotici e la nobile guglia,
si diramavano strade di
acciottolato, con piccole case di
mattoni che vegliavano su di loro
come nonne, i bianchi balconi che
sporgevano come pance coperte da
un grembiule. In una di queste
case, due secoli prima, i Sette di
Gottinga, due dei quali erano i
fratelli Grimm, si erano ribellati
contro la sovranità dei re di
Hannover, mentre in un’altra il
grande matematico Friedrich
Bernhard Riemann aveva prodotto
– facendola apparire da dove?
Dall’etere? – una famosa ipotesi
sulla distribuzione dei numeri
primi. Sì, l’ipotesi di Riemann, che
Hardy una volta fece l’errore di
tentare di spiegare ai confratelli.
Ancora non dimostrata. Ed ecco
come iniziò il suo discorso.
«Probabilmente è la più importante
ipotesi non dimostrata della
matematica» disse dal tappeto
cerimoniale, il che suscitò un
gorgoglio di commenti tra il
pubblico. Poi cercò di guidarli
attraverso la serie di passaggi con i
quali Riemann stabiliva un
collegamento tra la distribuzione
apparentemente arbitraria dei
numeri primi e una cosa chiamata
“funzione zeta”. Innanzi tutto
spiegò il Teorema dei numeri
primi, il metodo di Gauss per
calcolare il numero di numeri
primi fino a un determinato
numero n. Poi, per dimostrare
quanto fosse rimasta indietro
Cambridge rispetto al continente,
raccontò la storia di come, al suo
arrivo al Trinity, avesse chiesto a
Love se il teorema fosse stato
dimostrato, e Love avesse detto che
sì, era stato dimostrato, da
Riemann, mentre in realtà era stato
dimostrato solo anni dopo la sua
morte, indipendentemente, da
Hadamard e de la Vallée Poussin.
«Vedete quanto siamo
provinciali?» disse. Al che Lytton
Strachey, una nascita recente
(numero 239), scoppiò in una
fragorosa risata.
Il problema era ciò che Hardy
chiamava il margine di errore. Il
teorema inevitabilmente calcolava
in eccesso il numero di numeri
primi fino a n. E sebbene Riemann
e gli altri avessero elaborato delle
formule per ridurre il margine di
errore, nessuno era riuscito a
liberarsene completamente.
Da questo derivò la funzione
zeta. Hardy scrisse sulla lavagna:

La funzione, quando si inseriva un


numero intero, era abbastanza
semplice. Ma cosa accadeva se si
inseriva un numero immaginario?
E cos’era un numero immaginario?
Dovette tornare indietro. «Tutto
quel che sappiamo è che 1 × 1 = 1»
disse. «E cosa ci dà –1 × –1?»
«Ancora 1» disse Strachey.
«Esatto. Quindi, per definizione,
la radice quadrata di –1 non esiste.
Eppure è un numero molto utile.»
Scrisse ancora sulla lavagna: .
«Questo numero lo chiamiamo i,
ovvero immaginario.»
Sapeva a che cosa avrebbe
portato tutto questo: a una lunga
discussione sul fenomenico e il
reale. Se, fuori da quella stanza,
disse Strachey, fuori da quel sabato
sera, i era immaginario, allora in
quella stanza, in quel sabato sera, i
doveva essere reale. E perché?
Perché nel mondo che non era
quella stanza, quel sabato sera, era
vero il contrario. Per i confratelli,
solo la vita delle riunioni era reale.
Tutto il resto era “fenomenico”.
Così gli Apostoli abbracciarono i
senza avere la più pallida idea di
cosa significasse.
Finito il discorso, O.B. gli diede
una pacca sulla spalla. «Dio
volendo, sarai tu l’uomo che
dimostrerà l’ipotesi» disse, il che
era una sfacciata provocazione: al
pari di tutti loro, O.B. sapeva che
Hardy aveva rinunciato a Dio da
un pezzo, al punto di chiedere al
preside di facoltà del Trinity il
permesso di non frequentare la
cappella, e di scrivere, dietro
insistenza di quest’ultimo, una
lettera ai genitori per informarli di
non essere più un credente.
Gertrude finse di piangere, Mrs.
Hardy pianse, Isaac Hardy si rifiutò
di parlare al figlio. Qualche mese
dopo suo padre contrasse una
polmonite, e la madre di Hardy lo
pregò di riconsiderare la sua scelta.
Per placarla, acconsentì a
incontrare il vicario, lo stesso
vicario dalle dita sottili che anni
prima lo aveva portato a fare una
passeggiata nella nebbia per
discutere dell’aquilone. Mentre
parlavano, il vicario mangiava
cioccolatini da un vassoio. A un
certo punto, Hardy notò che il
vicario stava adocchiando,
scopertamente, i suoi pantaloni.
“Bene, bene” pensò.
Suo padre morì la sera dopo. Da
quel giorno, Hardy non mise più
piede nella cappella di Cambridge.
Anche quando il protocollo
richiedeva che lui andasse in una
cappella, si rifiutava di farlo. Alla
fine il Trinity dovette emanare una
dispensa speciale per lui.
Dopotutto Hardy era un don. E
Oxford aveva incominciato a
inviare i suoi richiami.
Di quando in quando, mentre
lavorava all’ipotesi, si ricordava
della passeggiata col vicario.
Cercare una dimostrazione,
pensava, questo sì è come
annaspare nella nebbia, cercando
di sentire uno strappo della corda.
Da qualche parte, su in alto,
veleggiava la verità: assoluta,
incontestabile. Quando sentivi lo
strappo, significava che avevi
trovato la prova.
Dio non aveva niente a che fare
con questo. La prova, la
dimostrazione, era ciò che ti
collegava con la verità.
E che ne fu del tripos?
Ametà del suo primo anno,
Hardy andò da Butler, il Magnifico
Rettore del Trinity, e gli annunciò
che avrebbe abbandonato la
matematica. Preferiva occuparsi di
storia, disse, tornare a Harold e alla
battaglia di Hastings, piuttosto che
sprecare un altro minuto nello
squallore della casa di Webb.
Butler aveva il dono di pensare
in fretta. Fece ruotare di un quarto
di giro la fede nuziale sul dito (era
un suo vezzo) e mandò Hardy a
parlare con Love. Love, benché a
sua volta un adepto della
matematica applicata, riconobbe la
fonte della passione di Hardy, e gli
diede una copia dei tre volumi del
Cours d’analyse de l’École
Polytechnique di Camille Jordan.
Come Hardy ebbe a dire in
seguito, questo era il libro che gli
aveva cambiato la vita. Che gli
aveva insegnato cosa significasse
realmente essere un matematico.
Love riuscì anche a persuadere
Hardy che, se avesse abbandonato
la matematica solo per evitare il
tripos, si sarebbe sottomesso alla
tirannia dell’esame molto più che
se si fosse messo di buzzo buono e
l’avesse superato.
Il Cours d’analyse, disse Hardy a
Littlewood, fece la differenza. Il
semplice fatto di sapere che lo
aspettava sullo scaffale lo mise in
condizioni di sopportare
l’addestramento di Webb. E così
riprese il protocollo di
memorizzazione, addestramento,
ripetizione a memoria e, quando
arrivò giugno, andò a sostenere
l’esame con il primo volume del
Cours d’analyse nascosto nella
tasca della giacca come un
talismano, e risultò quarto
wrangler.
Per anni, in seguito, i suoi
detrattori mormorarono che la
successiva determinazione di
Hardy a distruggere il tripos era la
storia della volpe e l’uva, dovuta
unicamente al fatto di non essere
risultato il migliore del corso, di
non essere stato nominato senior
wrangler. Hardy lo negava
vivacemente. Inoltre, insisteva, il
non essere stato nominato senior
wrangler non aveva niente a che
fare con la sua decisione, circa un
mese dopo, di lasciare Cambridge
per Oxford. Se l’avessero nominato
senior wrangler, o ventisettesimo
wrangler o lo avessero insignito del
cucchiaio di legno, come ultimo
del suo corso, avrebbe fatto la
stessa cosa. Infatti non ce l’aveva
con gli studenti che avevano
ottenuto voti migliori dei suoi: ce
l’aveva con il tripos in sé e per sé, e
più in generale con Cambridge, la
cui insularità era perfettamente
rappresentata dal tripos, e ancor
più in generale con l’Inghilterra,
con la sua intransigenza e la sua
spocchiosa, incrollabile fede nella
propria superiorità. Alla fine ci
volle Moore per convincerlo a
rimanere. L’Inghilterra, gli disse,
non poteva cambiarla. Ma forse
poteva cambiare il tripos.
Da quel momento in avanti, la
riforma del tripos divenne la sua
crociata. Lanciò una campagna
accanita, appassionata e
intelligente, e alla fine, nel 1910,
vinse: non solo il tripos fu
modernizzato, ma cessarono anche
la pubblicazione e la lettura
dell’ordine di merito degli studenti
che avevano superato l’esame.
Wrangler e optime non avrebbero
più passeggiato lungo i viali di
Cambridge, in giugno. E dal tetto
della Senate House non sarebbero
più stati calati i cucchiai di legno
per “insignire” gli ultimi del corso.
Il tripos sarebbe diventato un
esame come gli altri. E niente di
tutto questo, continuò a sostenere
Hardy, aveva qualcosa a che
vedere col fatto di essere stato
nominato quarto wrangler.
Dopotutto, Bertrand Russell era
risultato settimo wrangler, e lui
era… be’, era Bertrand Russell! Se
fosse risultato senior wrangler,
Hardy si sarebbe comportato nello
stesso modo. Avrebbe fatto la
stessa cosa. Per lui era importante
che tutti lo capissero e ci
credessero.

* Di qui il termine wrangler (“lottatore”, da


to wrangle: lottare), assegnato a chi superava
l’esame del tripos con un punteggio alto.
[N.d.T.]
5

Per una settimana, Hardy e


Littlewood studiano attentamente
la matematica dell’indiano.
Siedono insieme nell’appartamento
di Hardy o in quello di Littlewood,
con le pagine della lettera
sparpagliate davanti a loro, e
copiano i numeri su una lavagna o
sui fogli della costosa carta color
crema che Hardy usa
esclusivamente per quelli che lui
chiama i suoi “scarabocchi”.
Mentre lavorano, bevono tè o
whisky; tutto questo è una
deviazione dalla solita routine di
cartoline e lettere, ma sembra che
la situazione lo richieda.
Ci sono degli scontri, ma
quando succede a Hardy sembrano
più battibecchi tra sposi che tra
collaboratori. «Possibile che tu
debba sempre concludere la serata
così maledettamente allegro?» dice
Littlewood una sera, mentre s’infila
il cappotto.
«Che male c’è?»
«È irrealistico, ecco che c’è.
Lavoriamo e lavoriamo, e a un
certo punto dobbiamo pur
smettere, ma tu fai sempre in
modo che smettiamo quando
pensiamo di aver risolto qualche
problema.»
«E allora? Mi piace andare a
letto pensando che mi aspetta
qualcosa di buono la mattina.»
«Già, ma se poi la mattina
scopriamo che abbiamo fatto un
errore? Che ci siamo sbagliati? E
succede in continuazione.»
«Allora risolveremo il problema
la mattina.»
«Io preferisco andare a letto
preparato al peggio.»
«Bene. Vuol dire che
smetteremo quando siamo a un
punto morto. Così potrai
andartene sentendoti infelice.
Disperato. Depresso. È questo che
vuoi?»
«Esattamente. Sperare per il
meglio e aspettarsi il peggio, questa
è la mia filosofia.»
Stanno alzati quasi tutte le sere
fino all’una. Esaminano con
attenzione i risultati di Ramanujan,
alcuni li capiscono, di altri non
vengono a capo e, alla fine, li
dividono in tre categorie
approssimative: quelli che sono già
noti o facilmente deducibili da
teoremi noti; quelli che sono
nuovi, ma interessanti solo perché
strani o difficili; e quelli che sono
nuovi, interessanti e importanti.
Il tutto contribuisce a
confermarli nella loro convinzione
di avere a che fare con un genio di
proporzioni che nessuno dei due
ha mai immaginato e tanto meno
conosciuto. Ciò che Ramanujan
non ha appreso dall’insegnamento
lo ha reinventato, usando il suo
linguaggio inconsueto. E ha fatto di
meglio: partendo da queste
fondamenta, ha costruito un
edificio di stupefacente
complessità, originalità e stranezza;
fatto che Hardy non lascia
trasparire nella sua risposta alla
lettera, in cui cerca di non
sbilanciarsi. Per quel che riguarda i
risultati della prima categoria, evita
di confessare la sua meraviglia e
offre solo consolazione, scrivendo a
Ramanujan: “Inutile dire che, se
ciò che lei afferma a proposito della
sua mancanza di formazione è da
prendersi alla lettera, il fatto che lei
abbia riscoperto risultati così
interessanti va tutto a suo merito.
Ma dovrebbe essere preparato a un
certo numero di delusioni di
questo genere”. Alla seconda e alla
terza categoria dedica più
attenzione. “Naturalmente è
possibile che alcuni dei risultati che
ho classificato sotto il numero 2
siano veramente importanti, come
esempi di metodi generali. Lei
presenta i suoi risultati in forme
così particolari che è difficile essere
sicuri di questo.”
Hanno lavorato molto, lui e
Littlewood, su quest’ultima
proposizione. All’inizio Hardy
aveva scritto “insolite” prima di
“forme”, ma temeva che l’aggettivo
irritasse Ramanujan. Allora ha
cancellato “insolite” e scritto
“strane”, che era ancora peggio. È
stato Littlewood a proporre
“particolari”, un aggettivo dalla
connotazione vagamente ambigua
(ha immaginato Lytton Strachey
che lo diceva) su cui dubitava che
Ramanujan trovasse da ridire.
“È essenziale che controlli le
dimostrazioni di alcuni dei suoi
enunciati” ha scritto subito dopo.
“Tutto dipende dalla rigorosa
esattezza della dimostrazione.”
Le sue conclusioni sono un
misto di incoraggiamento e cautela.
“Mi sembra abbastanza probabile
che lei abbia svolto parecchio
lavoro degno di essere pubblicato;
e, se può produrre dimostrazioni
soddisfacenti, sarò felice di
assicurare la pubblicazione.” Poi
mette la firma in calce, infila la
lettera in una busta, scrive
l’indirizzo, aggiunge i francobolli, e
la mattina del 9 febbraio – il giorno
dopo il suo trentaseiesimo
compleanno – la infila nella buca
delle lettere fuori dal cancello del
Trinity College. Per un certo
periodo della sua infanzia, credeva
che tutte le cassette per le lettere
fossero collegate da un sistema di
tubi sotterranei; che quando
imbucavi una lettera le spuntassero
le gambe e corresse verso la sua
destinazione. Adesso immagina la
lettera a Ramanujan che sgambetta
lungo corridoi nel sottosuolo
inglese, attraversa il Mediterraneo
e il Canale di Suez, avanzando
infaticabile finché raggiunge un
indirizzo che Hardy non riesce
nemmeno a immaginare: Reparto
contabilità, porto di Madras, India.
E adesso non gli resta che
attendere.
6

New Lecture Hall, Università di


Harvard
L’ultimo giorno d’agosto del 1936,
Hardy scrisse sulla lavagna alle sue
spalle:

«Sono certo che Ramanujan non


era un mistico» disse mentre
scriveva, «e che la religione, se non
in senso strettamente materiale,
non ebbe un ruolo importante
nella sua vita. Ramanujan era un
indù ortodosso di casta alta, e aderì
sempre (invero con un rigore
molto insolito nei residenti indiani
in Inghilterra) a tutte le regole
della sua casta.»
Però, proprio mentre parlava,
dubitava di se stesso. Stava
fornendo, lo sapeva, il manoscritto:
la versione autorizzata della
propria opinione, già in contrasto
con altre versioni della storia di
Ramanujan, in particolare quelle
che circolavano in India, dove la
devozione del giovane alla dea
Namagiri veniva situata nel cuore
stesso delle sue scoperte
matematiche.
Hardy non ci credeva, non
poteva crederci. Il suo ateismo non
faceva semplicemente parte della
sua identità ufficiale; faceva parte
del suo essere, ed era stato così fin
dall’infanzia. Tuttavia, nel
momento stesso in cui le
pronunciava, dovette ammettere
che le sue parole semplificavano
considerevolmente non solo la
situazione reale, ma i suoi
sentimenti rispetto a essa.
In quel momento gli sarebbe
piaciuto posare il gesso, girarsi
verso il suo pubblico e dire
qualcos’altro. Qualcosa come:
Non lo so. Un tempo pensavo di
saperlo. Ma invecchiando sembra
che sappia sempre di meno invece
che sempre di più.
Un tempo credevo di poter
spiegare qualsiasi cosa. Una volta,
dietro richiesta di Gertrude, cercai
di spiegare l’ipotesi di Riemann ad
alcune allieve della St. Catherine’s
School. Questo avveniva all’inizio
della primavera del 1913, quando
stavamo ancora aspettando la
risposta di Ramanujan alla prima
lettera. Credevo davvero che
guidare quelle ragazze attraverso i
passaggi dell’ipotesi di Riemann
sarebbe stato facile, che avrebbe
risvegliato in loro una passione che
sarebbe durata per tutta la vita. E
così, mentre Gertrude assisteva in
disparte insieme all’insegnante di
matematica, Miss Trotter – una
giovane donna dal viso pallido i cui
capelli, sebbene non potesse avere
più di trent’anni, erano già bianchi
– feci lezione a quelle ragazze con i
loro grembiuli inamidati. Mi
guardavano con occhi che erano o
amorevoli o vuoti e sprezzanti. Una
si masticava i capelli. L’ipotesi di
Riemann poteva anche essere il più
importante problema irrisolto della
matematica, ma non costituiva un
argomento d’interesse per delle
ragazzine di dodici anni.
«Immaginate» dissi «un grafico,
un grafico normale, con un asse
delle x e un asse delle y ovvero un
asse orizzontale e un asse verticale.
Diciamo che l’asse delle x è la linea
dei numeri ordinari, con tutti i
numeri ordinari allineati in
successione, e che l’asse delle y è la
linea dei numeri immaginari, con
tutti i multipli di i allineati in
successione: 2i, 3,47i, 4.678.939i e
così via. Su un grafico di questo
tipo, come su qualsiasi grafico, si
può tracciare un punto e poi
collegarlo, con delle rette, a punti
sui due assi. In questo caso, i
numeri che corrispondono a questi
punti sul piano si chiamano
numeri complessi perché ciascuno
ha una parte reale e una parte
immaginaria. Si scrivono così: 2i +
1. Oppure 4,6i + 1736,34289 o 3i
+ 0. La parte con la i è la parte
immaginaria, e corrisponde a un
punto sull’asse immaginario,
mentre l’altra parte è la parte reale
e corrisponde a un punto sull’asse
reale.
«L’ipotesi di Riemann è questa:
prendete la funzione zeta e inserite
i numeri complessi. Poi guardate le
vostre risposte e vedete in quali
punti la funzione assume il valore
di zero. Secondo l’ipotesi, in
ciascun punto in cui la funzione
assume il valore di zero, la parte
reale avrà un valore di ; o, per
dirla in altro modo, tutti i punti in
cui la funzione assume questo
valore saranno allineati sulla linea
di sull’asse delle x che viene
chiamata la “retta critica”.
«Per dimostrare l’ipotesi, dovete
dimostrare che non un solo zero di
zeta sarà mai fuori dalla retta
critica. Ma se riuscite a trovare
anche un solo zero di zeta fuori
dalla retta – solo uno zero di zeta
dove la parte reale del numero 1
immaginario non è – allora
avrete confutato l’ipotesi di
Riemann.
Quindi metà del lavoro consiste
nel cercare una prova – qualcosa di
ineccepibile, di teorico – ma l’altra
metà consiste nell’andare a caccia
di zeri. Contare gli zeri. Vedere se
ce n’è qualcuno fuori dalla retta
critica. E contare gli zeri è
un’operazione matematica molto
complessa.
«E cosa avrete ottenuto, se
troverete la prova? Avrete
eliminato il termine di errore nella
formula di Gauss. Avrete rivelato
l’ordine segreto dei numeri primi.»
Era tutto, più o meno.
Naturalmente avevo tralasciato un
sacco di cose: i cosiddetti zeri
banali della funzione zeta; e la
necessità, quando si esplora il
panorama della funzione zeta, di
pensare in termini
quadridimensionali; e, soprattutto,
la complessa serie di passaggi che
portano la funzione zeta ai numeri
primi e al loro calcolo. Qui, se
avessi tentato di dare delle
spiegazioni, avrei fallito. Perché c’è
un linguaggio che i matematici
possono parlare solo tra di loro.
Dopo la lezione, le allieve
applaudirono educatamente. Non
a lungo, ma educatamente. Studiai
le loro facce. Avevano
un’espressione annoiata e sollevata.
Stavano già pensando ad altro, era
evidente: all’allenamento di
hockey, alla lezione d’arte di
Gertrude, o a un appuntamento
segreto con un ragazzo. «C’è
qualche domanda?» chiese Miss
Trotter, la voce altrettanto algida e
incolore dei suoi capelli, e quando
nessuna delle ragazze si fece avanti
riempì il vuoto con le sue parole.
«Lei, Mr. Hardy, in cuor suo crede
che l’ipotesi di Riemann sia vera?»
Ci pensai su, poi dissi: «A volte
sì e a volte no. Ci sono giorni in cui
mi sveglio convinto che sia solo
questione di contare gli zeri. Da
qualche parte deve esserci uno zero
fuori dalla retta. Poi ci sono giorni
in cui sono come fulminato da
un’intuizione e penso di aver fatto
un passo avanti nella
dimostrazione».
«Potrebbe farci un esempio?»
«Allora, qualche settimana fa,
mentre stavo facendo la mia
passeggiata mattutina – faccio una
passeggiata ogni mattina –
all’improvviso mi venne in mente
come potevo dimostrare che c’è un
numero infinito di zeri sulla retta
critica. Mi precipitai a casa e
annotai le mie idee, e adesso sono
molto vicino a completare la
dimostrazione.»
«Ma questo significa che ha
dimostrato l’ipotesi di Riemann»
disse Miss Trotter.
«Neanche per sogno» dissi.
«Avrò dimostrato che c’è un
numero infinito di zeri sulla retta
critica. Ma ciò non significa che
non ci sia un numero infinito di
zeri che non si trovano sulla retta
critica.»
La osservai mentre cercava di
venire a capo della tripla
negazione. Poi guardai Gertrude.
Era chiaro che aveva afferrato
l’idea prima ancora che la
esponessi.
Più tardi, mentre tornavamo a
casa insieme, dissi a mia sorella: «È
per questo che mi interessa tanto la
lettera dell’indiano. Se, come
afferma, ha ridotto in modo
significativo il termine di errore,
allora potrebbe essere sulle tracce
di Riemann».
«Sì» disse Gertrude. «Potrebbe
persino essere l’uomo che
dimostrerà l’ipotesi di Riemann.
Come la prenderesti se ci
riuscisse?»
«Ne sarei felicissimo» dissi. Fece
una smorfia. Naturalmente
dubitava – e a ragione – del mio
atteggiamento altruista. Entrammo
in casa, dove un numero
apparentemente infinito di
cameriere era nel bel mezzo di
un’orgia di pulizie, sotto l’attenta
supervisione di mia madre. Una
lavava il pavimento, un’altra puliva
i vetri delle finestre, un’altra
ancora batteva i cuscini.
All’improvviso vidi le cameriere
come zeri della funzione zeta. Le
immaginai tutte in fila, attratte
come da una calamita sulla retta
critica. C’è una storia segreta in cui
una governante mostruosa riesce a
distruggere tutto ciò che tocca.
Secondo O.B., un famoso musicista
divenne sordo dopo aver seguito il
consiglio della sua governante di
curare un mal d’orecchio
ficcandosi del cotone imbevuto di
etere nelle orecchie. E
naturalmente c’era la leggendaria
governante di Riemann, che,
quando seppe della sua morte (se
si può prestar fede alla storia),
gettò tutte le sue carte – compresa
una presunta dimostrazione della
sua ipotesi – nel fuoco. Vedo con
chiarezza la scena! È l’estate del
1866, il tempo è mite, e questa
donna vigorosa – per molti versi la
figura più importante nella storia
della matematica – infila
metodicamente le pagine nello
sportello della stufa puzzolente. E
continua instancabile, pagina dopo
pagina coperta di scarabocchi,
finché, come vuole la leggenda, i
colleghi di Riemann a Gottinga
arrivano in forze. Le gridano di
smettere. Pazientemente passano
in rassegna il materiale che hanno
messo in salvo, pregando che la
dimostrazione sia sopravvissuta al
regno del terrore della governante,
mentre sullo sfondo… che fa lei?
Piange? Probabilmente no. La
immagino grassoccia, metodica.
Energia priva di immaginazione.
Senza dubbio continua le sue
faccende. Lustra i pavimenti. Lava
le pentole.
L’ironia è che Riemann non
c’era neppure. Non assistette,
nemmeno in mortem, alla
conflagrazione. Era andato in
Italia, sperando che il clima più
salubre giovasse alla sua salute.
Aveva trentanove anni quando
morì. Di tisi.
E pensate che la sua governante
immaginasse che in qualche modo
anche le carte fossero contaminate?
La gente sapeva così poco di
contagio a quei tempi.
Non riesco a smettere di pensare
a quella donna. La cosa che trovo
più mostruosa di lei è la sua
efficienza. Ha un che di
sanguinario. Mentalmente cerco di
situarmi sulla scena di Gottinga.
Cerco di spiegarle, dopo il
fattaccio, l’importanza dei
documenti che ha distrutto. Per
tutta risposta, lei mi guarda come
se fossi un perfetto idiota. La sua
fede nella propria rettitudine è
impermeabile. Questo è il lato del
carattere tedesco che, prima della
guerra, preferivo non prendere in
considerazione, perché non
riuscivo a conciliarlo con la mia
immagine da sogno della città
universitaria tedesca sulle cui
strade di ciottoli Gauss e Hilbert
passeggiavano sottobraccio, a
dispetto della realtà, a dispetto
persino del tempo. Idee e ideali
hanno un odore domestico, un po’
come il caffè. Eppure sullo sfondo
si annida sempre questa
governante armata di ammoniaca e
zolfanelli.
7

Sabato sera si reca alla riunione


settimanale degli Apostoli, che in
questa occasione si tiene negli
appartamenti di Jack Sheppard, il
classicista. Ci va soprattutto per
noia, perché è impaziente di
ricevere la risposta di Ramanujan,
e spera che la riunione lo distragga
dal cercare di indovinarne il
contenuto. Nella tasca della giacca
porta la prima pagina della lettera
originale di Ramanujan, proprio
come al tripos si era portato il
primo volume del Cours d’analyse
di Jordan.
Ha l’abitudine di arrivare alle
riunioni con venti minuti esatti di
ritardo, evitando così sia
l’imbarazzo di essere il primo ad
arrivare sia l’ostentazione di essere
l’ultimo. Una quindicina di uomini
tra i diciannove e i cinquant’anni
sono riuniti sul tappeto orientale di
Sheppard e cercano di mostrarsi
abbastanza brillanti da meritare il
loro posto in una Società così
elitaria. Sebbene alcuni siano
studenti universitari ancora
membri attivi, la maggior parte
sono angeli. (La popolarità della
Società è un po’ in ribasso al
momento.) Ma che angeli!
Bertrand Russell, John Maynard
Keynes, G.E. Moore: lui escluso,
pensa Hardy, questi sono gli
uomini che decideranno del futuro
dell’Inghilterra. E perché lui
dovrebbe essere escluso? Perché è
un semplice matematico. Russell
ha aspirazioni politiche, Keynes
vuole ricostruire da zero
l’economia britannica, Moore ha
pubblicato i Principia Ethica,
un’opera che molti degli Apostoli
più giovani considerano una specie
di Bibbia. L’aspirazione di Hardy,
invece, è semplicemente
dimostrare o confutare un’ipotesi
che forse nemmeno un centinaio
di persone in tutto il mondo riesce
a capire. È una distinzione di cui in
fondo va fiero.
Conta gli altri angeli nella
stanza, c’è Jack McTaggart,
appiattito contro la parete, come
sempre, come una mosca. E c’è
anche l’affabile piccolo Eddie
Marsh che, oltre a fungere da
segretario privato di Winston
Churchill, di recente si è
guadagnato la fama di conoscitore
di poesia. Infatti ha appena
pubblicato un’antologia intitolata
Georgian Poetry, di cui uno degli
autori più importanti è Rupert
Brooke (numero 247), che tutti
considerano molto attraente e che,
al momento, è stato agganciato da
Marsh. Degli angeli più
significativi, mancano solo Moore e
Strachey, e Strachey, dice Sheppard
a Hardy, dovrebbe arrivare da un
momento all’altro con un treno da
Londra. Perché questa non è una
riunione qualsiasi. Stasera
nasceranno due nuovi Apostoli
nella Società. Uno dei “gemelli”,
Francis Kennard Bliss, ha dalla sua
il bell’aspetto e il talento per il
clarinetto. L’altro, Ludwig
Wittgenstein, è un nuovo arrivo
dall’Austria via Manchester, dove è
andato a imparare a pilotare
l’aereo. Russell dice che è un genio
metafisico.
Per distrarsi e divertirsi, Hardy
fa un gioco. Finge di non essere
venuto da solo alla riunione, ma di
aver portato un amico. Non
importa che una cosa del genere
non sia fattibile, o che l’“amico”,
sebbene risponda al nome di
Ramanujan, abbia una
straordinaria somiglianza fisica con
Chatterjee, il giocatore di cricket:
secondo il gioco, il giovanotto che
si accompagna a lui è l’autore della
lettera che ha in tasca, appena
sbarcato dalla nave dall’India e
ansioso di imparare le usanze di
Cambridge. Indossa pantaloni di
flanella che s’increspano quando
cammina, come acqua sfiorata
dalla brezza. Un’ombra di barba gli
scurisce le guance già scure. Sì,
Hardy ha studiato Chatterjee con
molta attenzione.
Porta il suo amico a fare un giro
delle stanze. Fino a poco tempo fa
appartenevano a O.B., che le
riempiva di reali in visita, mobili
Luigi XIV, Voi che sapete, e
affascinanti elementi del Royal
Naval Service. Ma poi O.B., con
sua grande costernazione, è stato
costretto ad andare in pensione e a
ritirarsi in Italia, e Sheppard è
subentrato nel suo appartamento.
La sua squallida accozzaglia di
mobili e oggetti di famiglia ha
un’aria desolata e gretta in uno
spazio così abituato alla
grandiosità. Un ritratto di sua
madre, corpulenta e sprezzante,
guarda al di là della poltrona
imbottita la pianola che non
funziona. Alla parete sono appese
alcune fotografie di statue greche,
tutte dei nudi, parecchie prive di
membra, nessuna, nota Hardy,
priva dello squisito insiemino
pene-e-palle che i greci
consideravano così elegante,
soprattutto se paragonato a quei
pendagli più grossi e volgari che
figuravano con tanta frequenza nei
motteggi di O.B., e continuano a
figurare con grande frequenza in
quelli di Keynes. E cosa ne pensa
di Keynes il suo amico indiano? Al
momento, la stella nascente
dell’economia britannica sta
intrattenendo un pubblico rapito di
studenti universitari sulla
dimensione comparata dei “cazzi-
ritti” in Brasile e in Baviera.
Wittgenstein è da solo in un
angolo, fermo a guardare una delle
fotografie, Russell sta impartendo a
Sheppard una maleodorante
dissertazione sul paradosso del
mentitore, da cui il povero
Sheppard si deve scostare di tanto
in tanto, almeno per riprendere
fiato.
«Immagina un barbiere che ogni
giorno fa la barba a ogni uomo
della sua città che non si rade da
solo. Il barbiere si fa la barba?»
«Direi di sì.»
«D’accordo, allora il barbiere è
uno degli uomini che non si
radono da soli.»
«Bene.»
«Ma hai appena detto che si
rade.»
«Assì?»
«Sì. Ho detto che il barbiere
faceva la barba a ogni uomo che
non si radeva da solo. Se si fa la
barba, non si rade da solo.»
«D’accordo, allora non si rade
da solo.»
«Ma hai appena detto che si fa la
barba!»
«Hardy, vieni a salvarmi» dice
Sheppard. «Russell mi sta
mettendo in croce!»
«Ah, Hardy» dice Russell. «Ieri
Littlewood mi stava raccontando
del tuo indiano e, devo dire, la
cosa mi sembra molto eccitante. È
prossimo a dimostrare Riemann!
Dimmi, quando pensi di farlo
venire?»
Hardy è sorpreso nel sentire che
Littlewood ha parlato di
Ramanujan. «Non so se verrà»
dice.
«Oh sì, ho sentito parlare
dell’amico» dice Sheppard. «Vive
in una capanna di fango e
scarabocchia equazioni sui muri
con un bastoncino, giusto?»
«Non esattamente.»
«Ma Hardy, non potrebbe essere
l’idea di qualcuno che voleva farti
uno scherzo? Il tuo indiano non
potrebbe essere, che so, un uomo
di Cambridge che si annoia,
intrappolato in un osservatorio
nella foresta del Tamil Nadu, e
cerca di ingannare il tempo
prendendoti in giro?»
«In questo caso, l’uomo è un
genio» dice Hardy.
«Oppure tu sei uno sciocco» dice
Russell.
«Ma non trovi che a un certo
punto il risultato è lo stesso?
Perché se sei abbastanza
intelligente da concepire qualcosa
di così brillante per uno scherzo…
be’, sei andato oltre le tue
intenzioni, non credi? Ti sei
dimostrato un genio tuo
malgrado.»
Sheppard ride: una risatina
ansimante, da fanciulla. «Ecco un
indovinello degno di Bertie!» dice.
«A proposito di indovinelli,
Wittgenstein dovrebbe valersi dei
servizi del tuo esasperante
barbiere, Bertie. Guarda i tagli che
ha sul mento.»
Guardano e vedono che ci sono
effettivamente dei tagli; e piuttosto
pronunciati. «Scusatemi un
momento» dice Russell, e va dal
suo protégé, col quale conferisce a
bassa voce.
«Uniti a doppio filo quei due,
eh?» dice Sheppard, piegandosi su
Hardy.
«A quanto pare.»
«Lo sai, vero, che Bertie si è
opposto alla sua elezione?»
«Di Wittgenstein? Ma credevo
fosse il suo paladino.»
«Infatti. Dice che Wittgenstein è
così brillante da fargli temere che ci
troverà tutti puerili e superficiali, e
si dimetterà appena verrà eletto.
Naturalmente tutti pensavamo che
la verità fosse che lo voleva tutto
per sé, ma adesso incomincio a
pensare che forse ha ragione.
Guarda come ci sta fissando!»
Simula un brivido teatrale. «Come
se fossimo un branco di stupidi
dilettanti. E chi può dire che non
lo siamo, col nostro Keynes che
vaneggia di cazzi bulgari e
quant’altro? Aproposito, tu lo hai
sentito? Sono sicuro che a lui non è
sfuggito.»
«Da quel che mi hanno detto,
non c’è motivo per cui dovrebbe
trovare offensivo un discorso sui
cazzi-ritti.»
«Già, ma è molto sensibile su
queste faccende. Per esempio
detesta cordialmente il conte
Békássy.»
«E chi è il conte Békássy?»
«Il conte Ferenc István Dénes
Gyula Békássy. Ungherese, nato
nella Società l’anno scorso.
Dovresti venire più spesso alle
riunioni.»
«Qual è?»
Sheppard indica un giovane alto
con gli occhi scuri, baffi sottili e
carnose labbra tartare che gli
conferiscono un’espressione a un
tempo dubbiosa e lasciva. Al
momento sta parlando con Bliss, il
clarinettista. Ha una mano sulla
spalla di Bliss, e con l’altra gli
accarezza i capelli.
«La maggior parte di noi lo trova
affascinante» dice Sheppard.
«Anche Rupert Brooke lo trova
affascinante, il che è generoso da
parte sua, visto che corre voce che
corteggi la sua fidanzata. Oltre a
Bliss.»
«Mi sembra che lo stia
dimostrando. Però questo non
spiega perché Wittgenstein lo
detesti.»
«Forse è una vecchia rivalità
austro-ungarica che sta venendo a
galla. Oppure è geloso. Ho sentito
dire che il nostro Witty-Gitty ha un
certo interesse per Bliss.»
Arriva G.E. Moore, forse
l’Apostolo più influente nella storia
della Società. Ciò nondimeno,
entra dalla porta timidamente. È
grasso e ha una faccia infantile,
franca e cordiale. Schivo e
guardingo, s’infila tra Wittgenstein
e Russell. Parla, e allo stesso tempo
guarda Hardy e gli fa un cenno di
saluto.
Sebbene sia più giovane di Hardy
di qualche anno, Sheppard sta
cominciando a incanutire. Ha un
viso da cherubino, un po’ flaccido,
un debole per il gioco d’azzardo, e
il tipo di inclinazione naturale per i
classici che trova l’espressione
autentica più nelle
rappresentazioni teatrali che negli
studi accademici. Una volta,
quand’era ancora uno studente, fu
portato negli appartamenti di
Hardy per un tè, come parte della
complessa procedura attraverso la
quale la Società rimpolpa il suo
stock. I capelli di Sheppard, a quei
tempi, erano ancora biondi. Non
aveva idea di essere un embrione.
Nessuno di loro lo sapeva. La
valutazione e il corteggiamento
dovevano aver luogo senza che
l’embrione si rendesse mai conto di
essere valutato e corteggiato, e a
suo “padre” era assegnato il
difficile compito di guidare il suo
protetto in una serie di colloqui di
prova che questi non doveva mai
riconoscere come tali. Se non
superava l’esame sarebbe stato un
“aborto”, e – almeno in teoria –
non avrebbe mai saputo di essere
stato un candidato. Se invece
superava l’esame, la sua scoperta
dell’esistenza della Società –
sempre in teoria – sarebbe
avvenuta simultaneamente
all’invito a farne parte.
Adesso Sheppard è seduto su
un’esile sedia imbottita… no,
pensa Hardy, non è seduto. È
appollaiato. In Sheppard c’è
qualcosa che ricorda molto un
pollo. Di questi tempi è il perno
intorno al quale ruotano le attività
della Società, non perché, al pari di
Moore, eserciti una vasta influenza
intellettuale – il suo contributo
intellettuale è praticamente nullo –
ma perché si può fare affidamento
su di lui per ordinare le balene,
organizzare il carrello del tè e, cosa
fondamentale, custodire l’Arca,
che in realtà è solo un baule di
legno di cedro regalato anni prima
alla Società da O.B., e adesso pieno
fino all’orlo dei saggi che i membri
hanno consegnato nel corso di
innumerevoli sabati sera, fin dai
giorni lontani in cui Tennyson
(numero 70) e i suoi amici
discutevano di argomenti quali “Le
poesie di Shelley hanno un
orientamento immorale?”.
(Tennyson, mostrano i verbali,
votò per il no.) Come parte della
sua iniziazione, a ogni nuovo
Apostolo viene data la possibilità di
frugare tra i documenti dell’Arca,
di leggere La masturbazione è un
atto perverso? (Moore), Un quadro
dovrebbe essere comprensibile?
(Roger Fry, numero 214), e
L’assenza rende il cuore più tenero?
(Strachey). E, naturalmente, Viole
o fiori d’arancio? di McTaggart.
Sheppard adesso sta parlando
con Moore. Questi lancia
un’occhiata a Hardy, e Sheppard
tira fuori l’orologio. «Oh, santo
cielo» dice, e di colpo Hardy
capisce chi gli ricorda: il Coniglio
bianco di Alice nel paese delle
meraviglie. La testa bianca, il naso
vibrante… «Oddio, dov’è
Strachey?» dice, guardando
l’orologio. «È in ritardo, è in
ritardo! Dovremo cominciare senza
di lui.»
Aquesto punto la stanza è affollata,
Hardy conta nove angeli e sei
confratelli attivi. Abbandonando
per il momento i cazzi-ritti, Keynes
raggiunge Sheppard e Moore
accanto all’Arca, dove insieme
srotolano il tappeto cerimoniale,
che in realtà è un vecchio kilim. Gli
uomini si zittiscono, e Hardy si
siede sullo scomodo divano di
velluto di Sheppard. Vuole che il
suo protetto abbia una buona
visuale della lettura dell’anatema.
L’anatema è una vecchia
tradizione apostolica. Decenni
prima, un Apostolo di nome Henry
John Roby (numero 134) un
sabato sera dichiarò che si scusava,
ma era davvero troppo occupato
per continuare a frequentare le
riunioni settimanali. La sua
infrazione delle regole, per non
parlare del suo tono altezzoso,
offesero i confratelli, che lo
bandirono dalla Società, e
decretarono che da allora in avanti
il suo nome sarebbe stato scritto in
lettere minuscole.
Adesso l’anatema viene lanciato
come un avvertimento a ogni
nuova nascita. Di solito lo
pronuncia il padre, ma dato che
questa è una nascita gemellare il
compito è stato passato a Keynes.
Mentre gli altri Apostoli osservano
in riflessivo silenzio, Keynes si
piazza davanti agli embrioni,
Wittgenstein che supera di una
testa il solido Bliss dalle guance
rosee. «Sappiate che il giuramento
che state per fare è sacro» li
avverte. «Mai dovrete rivelare a un
estraneo l’esistenza della Società,
perché se lo farete la vostra anima
si dibatterà tra i tormenti.»
Questo aspetto dell’anatema ha
sempre sconcertato Hardy. Cosa
c’entra la segretezza con Roby? Lui
non ha rivelato a nessuno
l’esistenza della Società. Ha
commesso un peccato diverso:
quello di non trattare la Società
con il dovuto rispetto. Negli anni
seguenti, più Apostoli di quanti
Hardy riesca a nominare hanno
infranto il loro giuramento di
segretezza, scrivendo della Società
in memoriali e lettere e parlandone
a cene mondane. Nessuno, però, si
è macchiato dell’offesa
apparentemente più grave di
snobbare la sua appartenenza.
Almeno finora.
Mentre Keynes legge l’anatema,
i gemelli ascoltano in silenzio,
Wittgenstein con un viso privo di
espressione, Bliss con un’aria
solenne dietro la quale Hardy
riesce a individuare l’impulso
represso di ridere. Poi Keynes si
ritira e i confratelli, con un
applauso fragoroso, si alzano in
piedi per dare il benvenuto
ufficiale ai nuovi membri (numero
252 e 253).
È davvero un bellissimo
momento, e, come succede spesso
nei bellissimi momenti, viene
interrotto da colpi alla porta.
Sheppard va ad aprire, e Strachey
entra saltellando, accompagnato da
Harry Norton (numero 246). «Ecco
il tuo matematico» dice Sheppard a
Hardy, cosa che dice
immancabilmente a Hardy quando
Norton entra in una stanza. In
genere, la Società disdegna gli
scienziati, a meno che, come ebbe
a dire Sheppard una volta, lo
scienziato in questione non sia
“uno scienziato molto attraente”.
«Miei cari, abbiamo fatto un
viaggio assolutamente bestiale»
dice Strachey, scuotendo
l’ombrello. «Il treno è rimasto
bloccato per ore vicino a Bishops
Stortford. Un corpo sulle rotaie,
dicono. Riuscite a immaginare
qualcosa di più spaventoso? Se non
ci fosse stato il caro Norton a
intrattenermi, avrei avuto una crisi
di nervi. Allora, ditemi, cosa ci
siamo persi?»
«La lettura dell’anatema» dice
Sheppard. «Non potevamo
aspettare.»
«Oh, che peccato. Ma non il
saggio, spero.»
«No.»
«Bene. A chi tocca stasera?»
«Era il turno di Taylor, ma non è
riuscito a scrivere il suo.»
«Grazie al cielo» sussurra
Norton. La decisione su chi
dovrebbe leggere viene presa
tirando a sorte; ogni volta che un
Apostolo arriva a una riunione
senza il suo saggio (cosa assai
malvista), a un angelo viene
chiesto di leggere al posto suo uno
dei suoi vecchi componimenti,
estratto rovistando dall’Arca. Fin
troppo spesso McTaggart legge
Viole o fiori d’arancio? e stasera ha
tutta l’aria di essere pronto a rifarlo
con molto piacere. Keynes e
Moore, però, sembra abbiano altre
idee, perché stanno ancora
frugando nell’Archivio.
Norton dice: «Probabilmente
stanno cercando di decidere come
approfittare del ritiro di Madame
Cecil per fare un’impressione
migliore su Wittgenstein. Sai che
sono tutti terrorizzati da lui».
«Ah sì?»
Annuisce. Al pari di Sheppard,
Norton si picca di essere sempre
bene informato. Norton, come
Sheppard non manca mai di
sottolineare, è un matematico, o
meglio lo era, finché la matematica
non lo portò “sull’orlo di un
collasso nervoso”, dopodiché
abbandonò la carriera accademica
e prese a trascorrere la maggior
parte del suo tempo a Londra,
cercando di entrare nelle grazie del
circolo Bloomsbury. Adesso conta
tra i suoi amici più intimi non solo
Strachey, ma le sorelle Stephen e
quello sfuggente oggetto del
desiderio che è Duncan Grant.
Eppure, nonostante tutte le sue
aspirazioni letterarie, sembra
proprio che Norton non faccia
alcunché. Hardy lo trova
sconcertante. Come può Norton
vivere nell’aura di uomini dotati di
genio artistico senza mostrare
alcuna inclinazione artistica
propria? Oggi rimane quel che è
sempre stato – basso, scimmiesco,
ricco di famiglia; una conveniente
fonte di denaro contante quando
le chicche di Bloomsbury sono in
difficoltà – anzi è ancor meno di
quel che era un tempo, perché non
è più un uomo con una passione
trainante. AHardy è simpatico, ha
anche avuto una storia passeggera
con lui, ma questo avveniva molto
tempo fa.
Quanto a Taylor (numero 249),
è, per dirla con i confratelli,
“l’amico speciale” di Sheppard: un
giovanotto un po’ ottuso, di blanda
bellezza e pessimo carattere, il cui
unico tratto distintivo, a quanto ne
sa Hardy, è di essere il nipote del
grande logico George Boole. Al
momento ha un’aria risentita,
come se il non essere riuscito a
presentare il saggio promesso fosse
colpa della Società e non sua.
Nessuno capisce la passione di
Sheppard per lui. Invero, per quel
che ne sa Hardy, l’unico motivo
per cui è stato eletto nella Società è
stata la penosa insistenza di
Sheppard nel far capire a tutti che
avrebbe sofferto acutamente –
forse per mano di Taylor – se
l’elezione non fosse andata a buon
fine.
Taylor, col viso rabbuiato, sta
guardando Moore che finalmente
recupera dall’Arca il saggio che
stava cercando, lo sfoglia e si piazza
sul tappeto cerimoniale. McTaggart
distoglie lo sguardo. «Allora sarà
lui a leggere» dice Norton a Hardy.
«Be’, se c’è qualcuno che ha una
possibilità di far colpo sul nostro
Witty-Gitty, quello è lui.»
Si siedono, ancora una volta, sul
divano. Norton alla destra di
Hardy, Taylor alla sinistra, sebbene
nella sua immaginazione Taylor
evapori, rimpiazzato dall’amico
indiano coi calzoni di flanella.
Attraverso il tessuto sottile, Hardy
immagina di poter sentire il calore
di una gamba muscolosa.
Moore si schiarisce la voce e
legge il titolo del saggio: «È
possibile la conversione?».
«Oh, quella vecchia roba» dice
Hardy sottovoce, perché ricorda il
saggio da quando Moore lo lesse
per la prima volta, ancor prima
dell’inizio del secolo.
In realtà non è un documento
privo d’interesse, almeno se uno ha
la pazienza di sbrogliare la sintassi
contorta di Moore, e forse
Wittgenstein non ce l’ha. Per
conversione Moore non intende la
conversione religiosa, ma
un’esperienza simile al concetto
tolstoiano di rinascita: una
trasformazione mistica dello spirito
che da bambini sperimentiamo
regolarmente e poi sempre meno
man mano che cresciamo, finché
arriviamo alla mezza età,
dopodiché non la sperimentiamo
più. La domanda che pone Moore
è se possiamo indurci, con la
volontà, a sperimentare questo tipo
di conversione. Personalmente, la
prima volta che lesse il saggio, era
convinto di essere riuscito a farlo
una volta, forse due; il che sorprese
Hardy: Moore credeva davvero che
fosse un’impresa così ardua? Come
matematico, Hardy “si convertiva”
ogni giorno. Ogni giorno trafficava
in numeri che non potevano
esistere, contemplava dimensioni
che non potevano essere
rappresentate, ed enumerava
infiniti che non potevano essere
contati. Eppure Moore era troppo
razionalista per limitarsi ad
accettare il proprio misticismo.
Invero, la convinzione personale di
Hardy era che a furia di
interrogare la sua capacità di
“convertirsi” era riuscito a metterla
a tacere.
«Infine, ho solo questo da
chiedere alla Società» legge Moore,
«se sia o no possibile che qualcuno
di noi riesca a scoprire, stasera o in
qualsiasi altro momento, questa
autentica pietra filosofale, la vera
Saggezza degli storici, una scoperta
che, per colui che l’ha fatta e forse
anche per altri, potrebbe rimuovere
in modo permanente la parte più
ostruzionista delle difficoltà e dei
mali con i quali dobbiamo lottare.»
Depone le carte. Tutti
applaudono eccetto Wittgenstein,
che guarda impietrito l’Arca.
Moore scende dal tappeto e si
siede su una delle seggiole
traballanti di Sheppard. Keynes
chiede se qualcuno vuole
controbattere.
Hardy sente un cigolio di molle.
Taylor si alza in piedi e si avvicina
al tappeto cerimoniale. Strachey si
copre gli occhi.
“Caro Dio” pensa Hardy, “ti
prego, fa’ che Taylor parli a lungo.
Voglio tanto sentire quello che ha
da dire.”
Questa volta lo stratagemma
non funziona. Taylor parla. Non la
smette più di parlare. Il tempo è
irrilevante. Come succede con la
musica, l’effetto di lentezza persiste
a prescindere dal numero effettivo
di minuti trascorsi. E cosa dice?
Niente. “Umanesimo… ethos… cri
de coeur… Se continua ancora per
molto” pensa Hardy, “finisce che
avrò una conversione qui e
adesso.” Ma finalmente Taylor si
rimette a sedere. «Grazie, fratello
Taylor» dice Keynes. «E adesso
qualcun altro desidera parlare?»
Con grande meraviglia di Hardy,
Wittgenstein si alza. Strachey si
toglie la mano dagli occhi.
Wittgenstein non va sul tappeto.
Resta dov’è e dice, con il suo
accento viennese: «Molto
interessante, ma per quanto mi è
dato capire la conversione consiste
semplicemente nel liberarsi delle
preoccupazioni. Nell’avere il
coraggio di non curarsi di ciò che
accade».
Poi si rimette a sedere. Norton
dà una gomitata a Hardy.
«Grazie, fratello Wittgenstein»
dice Keynes. «Bene, se questo è
tutto, perché non mettiamo ai voti
la questione? La domanda è:
possiamo spostare il lunedì mattina
al sabato sera? Quelli in favore
dicano sì.»
Si alzano varie mani, comprese
quelle di Taylor, Békássy, e, con
sorpresa di Hardy, Strachey. I “no”
includono Wittgenstein, Russell,
Moore, e lo stesso Hardy.
La parte formale della riunione è
terminata. Con un acciottolio
simile all’inizio del pranzo nella
Hall, i confratelli vanno verso il
carrello del tè che il gyp di
Sheppard, ormai avvezzo alle
strane usanze della Società, ha
spinto con discrezione nella stanza
durante la lettura dell’anatema.
Marsh adocchia Brooke, Békássy
coccola Bliss, Wittgenstein si
guarda intorno accigliato,
Sheppard cerca di passare una
balena a Taylor, che la rifiuta. «Ah,
che sceneggiata!» dice Norton.
«Certo che, in tutta onestà, non mi
sarebbe dispiaciuto che il treno
restasse bloccato per un’altra ora.
Persino curare l’isteria di Strachey
sarebbe stato preferibile ad
ascoltare Moore che leggeva quel
vecchio saggio per la millesima
volta. E poi la mezzatacca
abusiva… che straparlava
abusivamente in quel modo. Non è
spregevole?»
«In effetti, Taylor esagera un
po’.»
«Lo sai, vero, cos’è che continua
ad affascinare tanto Sheppard? Ha
tre palle.»
«Chi?»
«Madame Taylor. È vero.
All’inizio anch’io non ci credevo,
ma poi ho controllato su un
dizionario medico. “Poliorchismo”
è il termine tecnico. È un’anomalia
rara, ma documentata. A quanto
pare, Sheppard non riesce a
staccargli le mani di dosso, dalle
palle per la precisione.»
La storia delle tre palle lascia
Hardy senza parole. «Ma davvero»
dice.
«Naturalmente non so se sono
del tutto funzionali, o della stessa
misura, o quale sia l’effetto. Cioè,
la maggior parte di noi ne ha solo
due, con una specie di solco nel
mezzo, come in un frutto, e mi
chiedo se le sue siano uguali, solo
divise in tre, come una pesca a tre
lobi, se riesci a immaginarla.
Oppure due delle palle dividono lo
stesso scomparto? Oppure la terza
è vestigiale, come una cisti? Hai
mai conosciuto qualcuno con dei
capezzoli in più? Io conoscevo una
persona che ne aveva due in più,
ciascuno sotto quello regolare, solo
che non sembravano capezzoli,
erano solo delle macchioline
rosse… Chi è quello che Békássy
sta palpeggiando?»
L’attenzione di Hardy non è
altrettanto elastica di quella di
Norton. Sta ancora pensando alle
palle.
«Credo sia il clarinettista. Bliss.»
«Già, lo sospettavo.» Norton
sospira. «Personalmente, lo
preferisco a Békássy. Tu no? Non
che Békássy non sia attraente, ma
non mi eccita come eccita Keynes.
L’altro giorno Strachey – James,
non Lytton – mi ha detto che
all’ultima riunione Békássy ha fatto
talmente arrapare Keynes che
voleva “farselo sul tappeto”.
Converrai che i nostri confratelli
avrebbero distolto lo sguardo per la
vergogna!»
«Senza dubbio» dice Hardy, che
sta cercando di immaginare la
peculiarità anatomica di Taylor e
determinare quale sia la sua
opinione in proposito. Se si
presentasse l’occasione, non
esiterebbe ad ammettere che non
gli dispiacerebbe vedere i testicoli
di Taylor; anzi, si stupisce che
Taylor, date le sue tendenze
esibizionistiche, non li abbia già
messi in mostra, o non ne abbia
fatto argomento di discussione sul
tappeto cerimoniale. Sai che
implicazioni metaforiche! Chissà se
una palla penzola sotto le altre
due, come le palle dorate fuori da
un banco dei pegni? Sì, forse
questo è il segreto che spiega
Taylor, tanto la sua cupezza che la
sua arroganza. Perché, a un certo
punto della sua giovinezza, un
medico di famiglia deve avergli
fatto notare questa stranezza,
rendendolo consapevole per la
prima volta di non essere come gli
altri ragazzi. Molto probabilmente i
suoi compagni di scuola erano
crudeli. Per quanto tempo ha
portato il fardello della vergogna,
la consapevolezza che ciò che ad
alcuni fa ribrezzo per altri è motivo
di attrazione? E cosa ci dice di
Sheppard il fatto che lui ne sia
attratto? Al momento stanno
bisticciando, il che non è insolito.
Sheppard cerca di mettere il
braccio intorno alla vita di Taylor,
e Taylor, per tutta risposta, lo
scosta in malo modo. «Non sono
adorabile, non sono un bambino, e
soprattutto non sono tuo!» dice, e
si ritira, indignato, verso il camino.
Norton dà un colpetto di gomito
a Hardy. «Pistacchio amaro» dice,
una vecchia espressione in codice,
riferita a una barzelletta che
Norton aveva raccontato una volta,
in cui un giapponese cerca di dire
“bisticcio d’amore”.
«Lo vedo.»
«E dopo tutti questi anni
insieme. È sufficiente a farti
perdere la fiducia nel matrimonio.»
Apparentemente la scena – che
Sheppard completa dicendo:
«Cecil, ti prego, non fare una
scenata» – è più di quanto
Wittgenstein riesca a sopportare. Si
gira disgustato, solo per trovarsi di
fronte all’altrettanto deplorevole
spettacolo di Békássy che sospinge
Bliss, circondandolo con le braccia,
l’inguine incollato alle sue natiche,
verso il divanetto sotto la finestra.
È la goccia che fa traboccare il vaso.
Wittgenstein sbatte la tazza sul
tavolo, si mette il cappotto ed esce.
Cala il silenzio. «Scusatemi» dice
Russell qualche secondo dopo, poi
prende il cappotto ed esce a sua
volta.
«Bene, è fatta» dice Strachey,
andando verso Hardy e Norton.
«Lo abbiamo perso.»
«Lo credi davvero?»
«Temo di sì. Naturalmente, se
mi si presenta l’occasione, farò del
mio meglio per convincerlo a non
dimettersi. Ma come faccio a
persuaderlo che la Società è seria e
onorevole con tutte le stupidaggini
a cui abbiamo assistito stasera? Che
peccato che Madame dovesse
metterci il becco!»
«Ma Strachey» dice Norton,
«non credi che Herr Witty-Gitty
dovrebbe capire che Cecil non
rappresenta la Società più di
quanto non la rappresentiamo
Hardy, io o chiunque altro? Se non
riesce a capirlo, non c’è niente che
possiamo fare.»
«Certo che l’attuale gruppo di
studenti universitari… non si può
dire che brilli per le sue qualità
intellettuali, ti pare? Per questo
abbiamo bisogno di Wittgenstein.
Per alzare il livello. Sai cosa ha
detto a Keynes? Gli ha detto che
guardare Taylor e gli altri parlare
di filosofia era come guardare dei
giovanotti alla toilette. Innocui ma
osceni.»
«Ma se lui si dimette, non dovrà
essere scomunicato e roby-zzato?»
«Sciocchezze. Non si può roby-
zzare un uomo come Wittgenstein.
Se mai, lui potrebbe roby-zzare
noi.» Strachey si rivolge a Hardy.
«Non è come ai vecchi tempi, eh?
Ai vecchi tempi, discutevamo di
cosa fosse la bontà. O sul tappeto
cerimoniale c’era Goldie, a
chiedere se dovevamo ammettere
Dio nella Società. E votammo, e
credo che la maggior parte di noi –
tu, Hardy, eri in minoranza,
naturalmente – convenne che sì,
dovevamo ammettere Dio nella
Società. E adesso guarda chi ci è
capitato invece di Dio. La
mezzatacca abusiva. I nostri giorni
migliori ce li siamo lasciati alle
spalle, temo.»
A quanto pare, Strachey è nel
giusto. Al momento, il
tritesticoluto Taylor fuma di rabbia
accanto al camino. Békássy e Bliss
sono sul divanetto sotto la finestra,
a becchettarsi il collo a vicenda.
Sheppard sembra sull’orlo delle
lacrime. Per fortuna Brooke – che
ha un istinto per queste cose –
sceglie questo momento per far
girare la tabacchiera. I fiammiferi
schioccano, si accendono le pipe.
In passato sarebbero stati tutti in
giro a chiacchierare e a discutere
fino alle tre del mattino. Stasera
invece nessuno sembra nella giusta
disposizione d’animo, e la riunione
finisce subito dopo mezzanotte.
McTaggart si allontana sul suo
triciclo, mentre Hardy s’incammina
da solo, verso il Trinity. Fa ancora
sorprendentemente caldo fuori.
Tastando la lettera che ha in tasca,
pensa alla sua lettera di risposta.
Sarà già passata attraverso il Canale
di Suez? È su una nave che sta
attraversando l’oceano? O è già
arrivata a Madras, all’Ufficio
contabilità del porto, dove il vero
Ramanujan la ritirerà lunedì
mattina?
Ed ecco che, come a un segnale
convenuto, il suo misterioso amico
lo raggiunge; cammina con lui,
adeguandosi alla sua andatura,
passo dopo passo. Se il vero
Ramanujan verrà veramente a
Cambridge, chissà se potrà essere
arruolato negli Apostoli, come
primo membro indiano della
Società? Hardy sarebbe suo padre,
naturalmente. Ma cosa ne
penserebbe Ramanujan di questi
uomini intelligenti con i loro rituali
bislacchi e un linguaggio tutto
loro? È difficile per Hardy
conciliare l’immagine pubblica di
uomini quali Keynes e Moore con
questa atmosfera da scuola
maschile in cui si ritrovano a
saltellare ogni sabato sera,
chiamandosi con ridicoli
diminutivi, mangiando cibo da
asilo infantile e parlando senza
sosta, interminabilmente, di sesso,
e poi di filosofia, e poi ancora di
sesso. Barzellette sporche,
millantate avventure carnali. Ma in
realtà quanti di loro hanno una
vera esperienza? In pratica
nessuno, sospetta Hardy. Keynes,
sì. Lui stesso, anche se pochi di
loro lo sospetterebbero. Brooke,
per lo più con donne. Un altro
punto dolente. Hardy pensa a
McTaggart, che torna traballando
sul suo triciclo dalla poco
femminile, apostolica Daisy. È
questo, infatti, il grande segreto
della Società, e la sua menzogna.
La maggior parte di questi uomini
alla fine prenderanno moglie.
È quasi arrivato al cancello del
Trinity, quando Norton lo
raggiunge. «Salve, Hardy» dice, e il
fantasma indiano svanisce.
«Stai andando a casa?» chiede
Hardy.
Norton annuisce. «Ho fatto una
lunga camminata. La riunione mi
ha lasciato carico di energia. Non
potevo andare a letto… Cioè, non
riuscirei a prendere sonno.»
Strizza gli occhi. Non è attraente,
anzi, più invecchia, più assomiglia
a una bertuccia. Tuttavia, Hardy
sorride dell’invito.
«Puoi salire da me per una tazza
di tè» dice, suonando il
campanello. Norton acconsente.
Poi tacciono, smarriti in un silenzio
in cui alligna l’imbarazzo del
compromesso, dell’adattarsi a ciò
che è disponibile in assenza di ciò
che si desidera. Nell’oscurità
risuonano dei passi, un malizioso,
sprezzante Cupido batte un
tamburo, e Chatterjee – in carne e
ossa, paludato nella sua toga del
Corpus Christi – arriva a passo
spedito giù per Trinity Street, i
tacchi che scandiscono colpi ritmici
sul marciapiede. Mentre si
avvicina, i suoi lineamenti si
mettono a fuoco, naso come una
pista da sci, labbra sollevate in un
lieve sorriso, sopracciglia che quasi
si toccano, ma non del tutto. Passa
così vicino che Hardy sente il
fruscio della sua toga, ne inala
l’odore di guardaroba. Poi si
dilegua. Non incrocia neppure lo
sguardo di Hardy. Il fatto è che
Chatterjee non lo conosce.
È in questo istante che arriva il
portiere. Credendoli due studenti
ritardatari, s’imbarca in una bella
strigliata verbale, finché non
riconosce Hardy. «Buonasera,
signore» dice, tenendo il cancello
aperto, e arrossendo
violentemente, a onor del vero.
«Serata gradevole?»
«Abbastanza gradevole, grazie.
Buonanotte.»
«Buonanotte, signore.
Buonanotte, Mr. Norton.»
«Buonanotte.»
Great Court è deserta a
quest’ora, vasta come una sala da
ballo, il prato luccicante sotto il
chiaro di luna. Talvolta Hardy
vede la sua vita a Cambridge come
fosse divisa in quadranti, proprio
come il prato della Great Court.
Un quadrante è la matematica, con
Littlewood e Bohr. Il secondo è gli
Apostoli. Il terzo il cricket. Il
quarto… be’, questo è il quadrante
che è più restio a definire, non per
un eccesso di scrupolo – al
contrario, non sopporta i tentativi
di Moore e degli altri per rivestire
la questione di paludamenti
filosofici – ma perché non sa quali
parole usare. Quando McTaggart
parla della sodomia più elevata,
cerca di stendere un velo
sull’elemento fisico della questione,
per il quale Hardy non prova
alcuna vergogna. No, il problema è
quando i quadranti si toccano,
come si stanno toccando adesso,
con Norton al suo fianco, mentre
entrambi si dirigono verso la New
Court con fare furtivo, sebbene
non ci sia niente di apertamente
sospetto nel fatto di invitare un
amico nella propria stanza per un
tè che non verrà mai preparato.
Salgono le scale e Hardy apre la
porta. Alzandosi dall’ottomana
azzurra di Gaye, Hermione inarca
la schiena e alza la coda in un
saluto. «Ciao, micia» dice Norton,
piegandosi ad accarezzare
Hermione, mentre Hardy gli
preme le dita sul collo, cercando di
ricordare l’ultima volta che ha
accarezzato la pelle umana e non la
pelliccia di un gatto. Cerca di
ricordare, e non ci riesce.
8

Quando Littlewood scompare da


Cambridge, cosa che accade spesso,
di solito è per andare a Treen, in
Cornovaglia, dove sta con la
famiglia Chase o, per essere più
precisi, con Mrs. Chase e i suoi
bambini. Il loro padre – il medico
di Bertie Russell – vive a Londra e
torna a Treen una volta al mese.
Quanto all’intesa che Littlewood
ha raggiunto con Mrs. Chase, o
con Mr. Chase, o con entrambi,
Hardy si guarda bene dal fare
domande. Sicuramente è un tipo
d’intesa non del tutto inusuale:
Russell stesso sembra averne
raggiunta una con Philip Morrell,
con la cui moglie, Ottoline, ha una
relazione che non riesce a tenere
segreta. Di fatto, l’unica a soffrire
della situazione sembra essere la
moglie legittima di Russell.
Littlewood non ha moglie. Loro
due sono destinati a morire scapoli,
sospetta Hardy: Littlewood, perché
Mrs. Chase non lascerà mai il
marito, Hardy per motivi più ovvi.
È per questo, pensa, che loro
possono lavorare insieme molto più
facilmente di quanto ciascuno dei
due potrebbe fare, per esempio,
con Bohr, che è sposato. Non si
tratta solo dell’occasionale visita
imprevista a tarda notte; sanno
anche quando non disturbarsi a
vicenda. Gli uomini sposati, ha
notato Hardy, cercano sempre di
convincerlo a unirsi alla
confraternita. Vivono per
reclamizzare quella variante
coniugale di vita domestica cui si
sono votati. Non sarebbe possibile
collaborare con un uomo sposato,
perché un uomo sposato noterebbe
sempre – mettendolo in
discussione – che Hardy non è
sposato.
Littlewood non critica mai
Hardy. E non parla mai di Gaye. È
un uomo a cui non vanno a genio
le regole che delimitano quello che
una persona è e quello di cui non
dovrebbe parlare. Ciò nondimeno,
deve ammettere che non gli
dispiace che Hardy preferisca non
condividere con lui quelli che Mrs.
Chase definisce “i dettagli cruenti”.
È molto più facile, se non
difendere, almeno spiegare Hardy
come un’astrazione, specialmente
quando Jackson – il vecchio e
ansimante classicista il cui
inspiegabile attaccamento per lui
gli fa l’effetto di uno sfogo o di un
eczema – gli avvicina la bocca
all’orecchio al tavolo dei docenti e
sussurra: «Come fai a sopportare di
lavorare con lui? Un tipo normale
come te?».
Littlewood ha una risposta
prefabbricata a questo tipo di
domanda, che gli viene rivolta
spesso. «Ogni individuo è unico»
dice, «ma alcuni sono più unici di
altri.» Si spinge oltre solo se chi lo
interroga è una persona di cui si
fida, qualcuno come Bohr, al quale
descrive Hardy come un
“omosessuale non praticante”. Il
che, per quanto gli è dato sapere, è
la pura verità. A parte Gaye – il cui
rapporto con Hardy è materia che
Littlewood non vuole nemmeno
prendere in considerazione –
Hardy, per quel che ne sa, non ha
mai avuto un amante, di nessun
genere, solo sporadici episodi di
infatuazione per uomini giovani,
alcuni dei quali suoi studenti.
Mrs. Chase – Anne – considera
Hardy un personaggio tragico.
«Che vita triste deve essere la sua»
ha detto a Littlewood nell’ultimo
weekend a Treen. «Una vita senza
amore.» E, sebbene ne abbia
convenuto, Littlewood non ha
potuto fare a meno di pensare che
una vita del genere doveva avere i
suoi vantaggi, proprio lui, un uomo
che si trova spesso alle prese con
un eccesso d’amore: quello di
Anne e dei suoi figli, dei suoi
genitori e dei suoi fratelli. Ci sono
momenti in cui tutto questo amore
lo soffoca, e in quei momenti
considera la solitudine di Hardy
come un’alternativa invidiabile alla
vita sovrappopolata cui si sono
votati i suoi amici sposati;
l’abbondanza di mogli, figli, nipoti,
generi e nuore, suoceri e suocere;
la confusione di richieste, bisogni,
interruzioni, recriminazioni. Ogni
volta che va a trovare questi amici
in campagna, o cena a casa loro a
Cambridge, torna nei suoi
appartamenti colmo di gratitudine
per il fatto di poter andare a letto
da solo e svegliarsi da solo, ma
sapendo che, in capo al prossimo
weekend, non sarà più solo. Forse
per questo la situazione con Anne
gli va così a genio. È una cosa da
weekend.
Il primo venerdì di marzo, come
d’abitudine, va a Treen. La pioggia
lo costringe in casa per quasi tutto
il sabato e la domenica. Lunedì sta
ancora piovendo; alla stazione,
apprende che lungo la linea
ferroviaria un ponte è stato
sommerso, deviando il suo treno
che ha due ore di ritardo. Questo
lo blocca in Liverpool Street per
due ore. Quando finalmente arriva
a Cambridge è troppo tardi per la
cena, sta ancora piovendo, e lui ha
viaggiato per tutto il giorno.
Impreca, scaraventa le valigie sul
pavimento della sua camera,
prende l’ombrello, e parte diretto
verso la sala di ritrovo dei docenti.
Figure sfumate si annidano nella
penombra dei pannelli. Jackson,
salutandolo con un cenno del
capo, punta il bicchiere verso un
angolo della stanza dove, con sua
sorpresa, intravede Hardy seduto
in pizzo su una poltrona Queen
Anne, con le mani sulle ginocchia.
Vedendolo, Hardy balza in piedi e
si precipita verso di lui.
«Dove sei stato?» gli chiede in
un sibilo.
«In campagna. Il mio treno era
in ritardo. Perché, cos’è successo?»
«È arrivata.»
Littlewood si blocca di colpo.
«Quando?»
«Stamattina. È tutto il giorno che
ti cerco.»
«Mi dispiace. Ma cosa dice?»
Hardy guarda verso il camino.
Un gruppetto di don si è radunato
lì a fumare. Fino all’arrivo di
Littlewood, stavano parlando del
governo autonomo in Irlanda.
Adesso sono in silenzio, con le
orecchie tese.
«Andiamo da me» dice Hardy.
«Va bene, se mi dai qualcosa da
bere» dice Littlewood, dopodiché
girano sui tacchi ed escono.
Diluvia. Hardy ha dimenticato
l’ombrello, e Littlewood deve usare
il suo per riparare entrambi. La
cosa provoca un’imbarazzante
intimità, anche se dura solo quel
paio di minuti che ci vogliono per
arrivare nella New Court. Aprendo
il portone, Hardy si scosta,
chiaramente sollevato dalla
separazione quanto lo è
Littlewood. Scuote l’ombrello e lo
infila nel vaso cinese di ceramica
che Littlewood ricorda dai vecchi
tempi, quando Hardy divideva una
suite con Gaye sulla Great Court.
«Ho solo whisky» dice Hardy,
precedendolo sulle scale.
«Andrà a meraviglia.»
Hardy apre la porta dei suoi
appartamenti.
«Ciao, gatto» dice Littlewood a
Hermione, ma quando si piega per
darle un buffetto in testa la gatta
scappa via.
«Che cosa le prende? Stavo solo
cercando di essere amichevole.»
«La tratti come se fosse un
cane.» Hardy tira fuori la lettera di
tasca. «Bene, se non altro su una
cosa non mi sbagliavo» dice. «Non
sono l’unico a cui ha scritto.»
«No?»
«Coraggio, togliti il cappotto.
Siediti. Ti prendo il whisky.»
Littlewood si siede. Hardy versa il
whisky in due bicchieri un po’
sporchi, ne porge uno a
Littlewood, poi legge ad alta voce.
«“Caro signore, sono stato molto
gratificato nel leggere la sua lettera
dell’8 febbraio 1913. Mi aspettavo
da lei una risposta simile a quella
che mi ha scritto un Professore di
matematica di Londra,
chiedendomi di studiare
attentamente le Serie Infinite di
Bromwich e di non cadere nelle
insidie delle serie divergenti.”
Credo che parli di Hill.
Comunque, “Ho trovato in lei un
amico che dimostra molta
comprensione per le mie fatiche.
Questo è già un incoraggiamento
per me a continuare sulla mia
strada”.»
«Bene.»
«Sì, ma adesso arriva la parte
preoccupante. “In più punti della
sua lettera trovo che sono
necessarie dimostrazioni rigorose e
via dicendo, e lei mi chiede di
comunicarLe i metodi di
dimostrazione. Se avessi fornito i
miei metodi di dimostrazione, sono
certo che lei seguirebbe l’esempio
del Professore di Londra. In realtà
non gli ho fornito nessuna
dimostrazione ma ho fatto alcune
asserzioni, come la seguente, in
base alla mia nuova teoria. Gli ho
detto che la somma di un numero
infinito di termini della serie:
in base alla mia
teoria.”»
«Sì, questa era anche nell’altra
lettera.»
«“Ma se le dico questo, lei mi
indicherà il manicomio come mia
unica meta. Mi dilungo su questo
semplicemente per convincerla che
non riuscirà a seguire i miei metodi
di dimostrazione se indicherò le
linee su cui procedo in una sola
lettera.”»
«Sta tergiversando. Forse ha
paura che tu cerchi di rubargli il
materiale.»
«È quello che avevo pensato
anch’io. Ma senti qui: “Quindi
quello che voglio a questo stadio è
che professori eminenti come lei
riconoscano che c’è qualcosa di
valido in me. Sono un uomo che
patisce la fame. Per conservare
intatte le mie capacità mentali ho
bisogno di cibo e questa adesso è la
mia principale preoccupazione”.»
«Pensi che patisca davvero la
fame?» chiede Littlewood.
«Chi lo sa? Quanto si può
comprare con venti sterline l’anno
a Madras? Ed ecco come finisce:
“Forse mi giudicherà male perché
taccio sui metodi di dimostrazione.
Devo ripetere che potrei essere
frainteso se fornissi in modo
affrettato le linee su cui procedo.
Non dipende da un’indisponibilità
da parte mia, ma è perché temo
che non riuscirò a spiegare tutto in
una sola lettera. Non voglio dire
che i miei metodi dovrebbero
essere sepolti con me. Li farò
pubblicare se i miei risultati
saranno riconosciuti da uomini
eminenti come lei”. E poi ci sono –
vediamo – dieci pagine di
matematica.»
«E?»
«Be’, se non altro sono riuscito a
capire cosa si propone con quel
maledetto .»
«E cioè?»
«Ora te lo faccio vedere.» Con
un rapido colpo di panno, pulisce
la lavagna. «È una questione di
notazione. La 1 sua è molto strana.
Diciamo che tu voglia scrivere
come 2-1. Perfettamente valido,
ancorché un po’ oscuro. Bene,
quello che sta facendo qui è di

scrivere come o 2.
Sulla stessa falsariga, scrive la
sequenza

che naturalmente è 1 + 2 + 3 + 4 +
...
Quindi quello che sta dicendo in
realtà è che
«Che è il calcolo di Riemann della
funzione zeta in cui viene inserito
-1.»
Hardy annuisce. «Solo che credo
non sappia nemmeno cos’è la
funzione zeta. Credo che ci sia
arrivato da solo.»
«Ma è strabiliante. Chissà che
effetto gli farà sapere che Riemann
lo ha preceduto.»
«Ho l’impressione che non abbia
mai sentito parlare di Riemann.
Come avrebbe potuto, laggiù in
India? Sono indietro in Inghilterra,
e guarda quanto è indietro
l’Inghilterra rispetto alla Germania.
E naturalmente, poiché è un
autodidatta, è abbastanza
comprensibile che la sua notazione
sia un po’… be’… bislacca.»
«È vero, solo che sembra che lui
se ne renda perfettamente conto.
Altrimenti perché avrebbe scritto
quella battuta sul manicomio?»
«Sta giocando con noi. Si reputa
un grande.»
«È tipico dei grandi uomini.»
Cala il silenzio. Trangugiando il
suo whisky, Littlewood osserva
Hermione. Il suo sguardo – rapace,
accusatore e annoiato – lo
sconcerta. Il fatto è che qui, sul
territorio di Hardy, non è più a suo
agio di quanto lo sia Hardy sul suo.
Il gatto lo innervosisce, come pure i
fronzoli decorativi, l’ottomana con
la sua frangia pelosa e il busto sulla
mensola del caminetto. Gaye, a
quanto pare.
Posando il bicchiere, prende la
lettera da dove l’ha lasciata cadere
Hardy; si alza. «Ti dispiace se
seguo la tradizione e la prendo in
prestito?» chiede.
«Fai pure. Probabilmente avrai
più fortuna di me.»
«Non vedo perché.»
«Sei tu quello che è stato
nominato senior wrangler.»
Littlewood alza le sopracciglia.
“Questa da dove arriva?”
«Mostrala a Mercer allora» gli
dice restituendo la lettera, un po’
sorpreso dalla propria veemenza.
Hardy sembra un cane
bastonato. Ma Littlewood gli ha già
girato le spalle per rivolgersi a
Hermione. «Addio, gatto» dice.
Lei lo ignora.
«A volte penso che sia sorda.»
«È sorda.»
«Cosa?»
«Un gene recessivo. Quasi tutti i
gatti bianchi sono sordi.»
«Eh già» dice Littlewood.
«Naturale che tu abbia un gatto
sordo. Avrei dovuto immaginarlo.»
Va verso la porta, e Hardy alza
una mano per fermarlo. «Scusami»
dice, «non intendevo offenderti…
Via, prendi la lettera.»
«Non sono offeso. Solo
perplesso. Che tu abbia
menzionato una cosa del genere. È
davvero un punto così dolente?
Ancora?»
«Certo che no. È solo che…»
«E non puoi pensare che sia
importante per me. Odio quella
maledetta storia, almeno quanto
te.»
«Lo so. Mi sono espresso male.
Una battuta infelice. Ti prego,
prendi la lettera.»
Gliela porge come un’offerta.
Con riluttanza, Littlewood la
accetta. Hardy sembra mortificato,
e il risentimento di Littlewood
svanisce. Poverino! «Benissimo,
signore» dice, per dimostrare che
non c’è nessun rancore, e mima un
saluto militare. «Buonanotte.»
«Buonanotte» risponde Hardy,
con voce mesta e incolore, e chiude
la porta.
Littlewood è ancora giovane e,
appena resta solo, scende le scale
saltellando e facendo i gradini a
due a due. Sta pensando a Mercer,
non a Mercer com’è adesso, ma a
com’era quando entrambi si
allenavano per il tripos. Allora
Mercer parlava solo quando veniva
interpellato. Quando scriveva, la
sua testa dondolava sopra il foglio
con la regolarità di un metronomo.
Littlewood non esiterebbe ad
ammettere che la strana capacità di
concentrazione di Mercer, il suo
essere palesemente dimentico di
tutto ciò che lo circondava, lo
innervosiva più di qualsiasi bravata
messa a segno dai suoi compagni
più competitivi, gesti intesi a
distrarre. E Hardy cosa mai ci
aveva trovato di tanto affascinante
in Mercer? Non che voglia sentire i
dettagli cruenti del caso, che in
questa circostanza probabilmente
non sono neppure relativi al sesso,
ma semmai all’infatuazione, il che
è forse ancor peggio. Littlewood ne
sa qualcosa, perché gli è capitato di
essere oggetto d’infatuazione: le
ore che quei poveri diavoli passano
a cercare di “leggere” un sorriso, o
a interpretare una pacca sulla
spalla, o a capire il significato
segreto del prestito di una matita.
Stupidaggini da scolarette. E i
bigliettini: “Sebbene non ci siamo
mai parlati, e indubbiamente per te
io sia invisibile, concedimi, senza
offesa, di commentare il piacere
che mi ha dato, per tante mattine,
guardarti nuotare…”. Eppure,
sarebbe curioso di sapere come era
iniziata la storia con Mercer, e
perché si era guastata.
La pioggia persiste nella sua
danza pluviale. Corre fino alla
Nevile’s Court senza aprire
l’ombrello. Gli piace la sensazione
delle gocce d’acqua che gli
scivolano sulla fronte e vorrebbe
solo non essere così affamato.
Una cosa di cui essere grati è la
solitudine. Se lo desidera, può
andare dritto a letto. Nessuna
amante fantasma lo visiterà nei
suoi sogni. (E Hardy, chi sognerà?
Rabbrividisce al solo pensiero.) Ma
forse non andrà affatto a dormire.
Forse starà alzato tutta la notte, a
studiare la lettera dell’indiano. E se
lo farà, non ci sarà nessuno a
rimproverarlo. Nessuna figura
confusa in camicia da notte, con
una candela in mano, lo pregherà
di venire a letto. Nessun bimbo lo
chiamerà perché lo conforti dopo
un brutto sogno.
Entra in casa. Il silenzio delle
sue stanze è familiare, consolante.
Non ci sono due silenzi uguali,
pensa; ciascuno ha i propri
contorni e sfumature, perché
dentro a ogni silenzio c’è l’assenza
di un suono, e in questo caso è il
suono di Mozart strimpellato su un
piano, o di Beethoven, suonato con
maestria, che esce dalla tromba di
un grammofono. Si toglie la giacca
e, mentre lo fa, sente il profumo di
Anne, molto debole adesso. Poi
scalcia via le scarpe, si accende la
pipa e si siede a leggere la lettera.
9

Verso mezzanotte la pioggia


diminuisce. Hardy, in pigiama, la
guarda dalla finestra che dà
sull’arcata. Sebbene ultimamente
abbia preso l’abitudine di andare a
letto piuttosto presto, stasera non
riesce neanche a immaginare di
dormire. A dispetto della crescente
eccitazione per la nuova lettera di
Ramanujan, è di malumore, a
causa della frecciata di Littlewood
su Mercer. È stata colpa sua,
naturalmente. Se non avesse
accennato al titolo di senior
wrangler di Littlewood, questi non
avrebbe mai tirato in ballo Mercer.
Il fatto è che Hardy non vuole che
gli si ricordi Mercer, che – non può
negarlo – ha completamente
abbandonato. Per esempio, appena
tornato a Cambridge lo scorso
anno, Mercer spedì un biglietto a
Hardy, invitandolo a fare visita a
lui e alla sua novella sposa. Hardy
non rispose mai. E non aveva un
valido motivo, se non che Mercer
non era più al Trinity. D’altro
canto, però, il Christ’s College non
è dall’altra parte del mondo!
La sua novella sposa. Cosa ne
avrebbe detto Gaye?
Quasi automaticamente, Hardy
guarda dall’altra parte della stanza.
Dalla mensola del camino, il busto
lo osserva con un’aria di
rimprovero simile a quella della
madre di Sheppard. È un busto
piccolo, fatto quando Gaye aveva
quindici anni, l’espressione, come
sempre, ammiccante e stucchevole.
Hardy si chiede cosa succederebbe
se prendesse il busto e lo
fracassasse in mille pezzi, o lo
chiudesse in un armadietto, o ne
facesse dono a Butler, che, date le
circostanze, probabilmente lo
chiuderebbe nel suo, di
armadietto.
La risposta, naturalmente, è che
non farebbe nessuna differenza. Il
tocco di Gaye è presente in tutta la
stanza. Almeno questo gli va
riconosciuto: aveva buon gusto. Fu
lui a scegliere il tappeto turco, a
immergere le tende di chintz in
una vasca da bagno piena di tè per
invecchiarle, come se fossero state
appese per anni in una casa di
campagna. Lui scelse il tessuto a
scacchi dei cuscini sulla poltrona di
rattan di Hardy, gli stessi cuscini su
cui siede adesso Hardy. Tutto
questo proprio mentre Hardy lo
stava lasciando. Povero Gaye,
sempre così portato al martirio! Il
vecchio dipinto di San Sebastiano
che teneva sopra il letto avrebbe
dovuto essere un indizio. Non c’è
più adesso, portato via dal fratello,
insieme a tutto ciò che aveva
qualche valore.
E perché il fratello di Gaye non
aveva preso il busto? Certo,
quando era venuto, Hardy lo aveva
appositamente piazzato in un
angolo della camera da letto, non
esattamente in bella vista. Però
non lo aveva nascosto. In seguito,
per anni, aveva continuato ad
aspettare una lettera della famiglia
che esigeva la restituzione del
busto. Non arrivò mai. Forse, come
tutti, anche loro erano ansiosi di
dimenticarsi di Gaye.
Verso l’una va a letto. Ma
ancora non riesce a dormire. Gli
frullano in testa numeri,
frammenti memorizzati per il
tripos, stranezze di Ramanujan, e
la funzione zeta con le sue vette e
le sue valli, la spirale che si innalza
all’infinito quando assume il valore
di 1… Questo gli succede spesso.
Talvolta è un’insonnia di buon
auspicio, significa che il mattino
farà una nuova scoperta. Più spesso
si sveglia di pessimo umore, e
incapace di lavorare. Allora come
mai non condivide il terrore di
Littlewood per le false speranze?
E poi – proprio quando,
apparentemente, si sta
addormentando (anche se poi si
renderà conto che dormiva già da
due ore) – ci sono dei colpi alla
porta. In un altro periodo della sua
vita la cosa non lo avrebbe
sorpreso. Una visita alle tre del
mattino sarebbe stata del tutto
normale. Adesso, invece, i colpi lo
disorientano, lo precipitano nel
panico. «Solo un minuto» grida,
infilando la vestaglia. «Chi è?»
«Sono io. Littlewood.»
Apre la porta. Littlewood entra
deciso, fradicio e senza ombrello.
«Il materiale sui numeri primi è
sbagliato» dice.
«Come?»
«Oh, scusa, ti ho svegliato?»
«Non importa. Vieni.»
Senza neppure togliersi il
cappotto, Littlewood va dritto alla
lavagna, ancora coperta dai calcoli
precedenti di Hardy. «Non riuscivo
a dormire, così ho cominciato a
studiare la lettera e… posso?»
«Ma certo.»
«Bene, allora, ecco cosa penso
abbia fatto.» Cancella la lavagna.
«Questa è la sua formula per
calcolare il numero di numeri
primi minori di n. È la solita
formula di Riemann, salvo che
Ramanujan ha tralasciato i termini
derivanti dagli zero di zeta. E i suoi
risultati – li ho controllati – sono
esattamente quelli che si
otterrebbero se la funzione zeta
non avesse alcuno zero non
banale.»
«Accidenti.»
«Ho una vaga teoria su come si
sia verificato l’errore. Lui sta
basando tutto sulla validità di
alcune operazioni che sta facendo
sulle serie divergenti, facendo
affidamento sulla sensazione che se
i primi risultati sono corretti il
teorema deve essere vero. E i primi
risultati sono corretti.
Sfortunatamente, non aveva
nessuno accanto per avvertirlo che
i numeri primi hanno la cattiva
abitudine di comportarsi male
quando diventano più grandi.»
«Capisco, ma tralasciare gli
zero… non è un segno
incoraggiante.»
«Eh no, qui non siamo
d’accordo, Hardy. Io penso che sia
un segno molto incoraggiante.»
Littlewood gli si avvicina. «Dovresti
sapere che un matematico qualsiasi
non farebbe mai un errore del
genere. Persino un buon
matematico non lo farebbe. Ma se
consideri il resto del materiale,
sulle frazioni continue e sulle
funzioni ellittiche… be’, non stento
a credere che quest’uomo sia per lo
meno un Jacobi.»
Hardy alza le sopracciglia,
stupito. Questo sì che è un grosso
elogio! Da quando ha iniziato la
sua carriera al Trinity, ha tenuto
una classifica mentale dei grandi
matematici, situando ciascuno
nella categoria di un giocatore di
cricket che ammira. Giudica se
stesso all’altezza di Shrimp
Levison-Gower, Littlewood alla
pari con Fry, Gauss nella categoria
di Grace, il più grande giocatore
nella storia del cricket. Jacobi,
l’ultima volta che Hardy lo ha
classificato, era da qualche parte
sopra Fry ma sotto Grace – nelle
vicinanze del giovane e abbagliante
Jack Hobbs – il che significa che
Ramanujan, se Littlewood ha
ragione, potrebbe avere il
potenziale per essere un altro
Grace. Potrebbe davvero
dimostrare l’ipotesi di Riemann.
«E che mi dici del resto?»
«Non sono ancora riuscito a
controllare le altre formule
asintotiche, ma a prima vista direi
che sono totalmente originali. E
rilevanti.»
«Ma non ci sono dimostrazioni.»
«Non credo che capisca
esattamente cos’è una
dimostrazione, o che è importante
fornirla, perché ha lavorato da solo
per tutti questi anni, e chissà a
quali libri ha accesso, se mai ce ne
sono. Forse nessuno glielo ha
spiegato. Tu potresti farlo?»
«Non ho mai provato a spiegare
a qualcuno perché è necessario
fornire le dimostrazioni. I miei
studenti lo hanno sempre
semplicemente… saputo.»
C’è un momento di silenzio, del
quale Hermione approfitta per
strusciarsi contro la gamba di
Littlewood. Ma quando lui cerca di
prenderla in braccio, si rifugia sotto
l’ottomana.
«Una provocatrice, quella gatta.
Vieni qui, micia!»
«Non può sentirti. Ricordi?»
«Sì, certo.» Littlewood guarda il
pavimento.
«E adesso che facciamo?»
domanda Hardy.
«C’è da chiederselo? Fallo venire
in Inghilterra.»
«Non ha parlato di voler
venire.»
«Certo che vuole venire.
Altrimenti perché avrebbe scritto?
E poi cos’ha di tanto prezioso a
Madras? Un posto da impiegato.»
«Ma se lo facciamo venire, poi
sapremo cosa fare di lui?»
«Penso che la domanda più
pertinente sia: lui saprà cosa fare di
noi?» Littlewood si raddrizza gli
occhiali sul naso. «A proposito, hai
avuto notizie dall’India Office?»
«Non ancora.»
«Senti, forse non ti interessa, ma
il mio consiglio è che c’è solo una
strada da prendere, ed è di
mandare qualcuno a Madras. E
presto, anche. Mi sembra che
Neville dovrebbe tenere delle
conferenze laggiù in dicembre.»
«Neville?»
«Non fare del sarcasmo. È una
brava persona.»
«Neville è un matematico di
tutto rispetto che non concluderà
mai niente di importante nella
vita.»
«L’emissario ideale, allora.»
Littlewood ride. «Mettiamolo al
corrente di tutta la storia, ti pare?
Così, quando va a Madras, può
incontrare questo Ramanujan,
sondare il terreno, e vedere se è la
persona che vogliamo.»
«Ma, secondo te, Neville è in
grado di capirlo?»
«Se non lui, lo è sicuramente sua
moglie. Hai conosciuto Alice
Neville? Una giovane donna
notevole.»
Littlewood sta già andando
verso la porta. «Sì, è il piano
migliore. Come dice il proverbio?
Se non puoi portare Maometto alla
montagna, porta la montagna a
Maometto.»
«Sbagli religione» dice Hardy.
«E va bene, Vishnu allora! Santo
cielo, Hardy, a volte sei davvero
pignolo.» Ma Littlewood ride nel
dirlo, ride mentre scende le scale,
ride mentre, con un fischio e un
grido, salta sul selciato fradicio
della New Court.
10

New Lecture Hall, Università di


Harvard
L’ultimo giorno d’agosto del 1936
il grande matematico G.H. Hardy
posò il gesso e tornò alla cattedra.
«La vera tragedia di Ramanujan»
disse «non è la sua morte
prematura. Naturalmente è un
disastro che qualsiasi grande uomo
muoia giovane, ma un matematico
è spesso relativamente vecchio a
trent’anni, e la sua morte può
essere una catastrofe meno grave
di quel che sembra. Abel è morto a
ventisei anni e, anche se
indubbiamente avrebbe arricchito
molto di più la matematica,
difficilmente avrebbe potuto
diventare un uomo più grande. La
tragedia di Ramanujan non è di
essere morto giovane, ma che, nei
suoi cinque disgraziati anni, il suo
genio è stato mal diretto, deviato, e
in certa misura distorto.»
Fece una pausa. Chissà se il suo
pubblico capiva cosa voleva dire?
Avrebbero pensato che si riferiva ai
cinque anni che Ramanujan aveva
trascorso in Inghilterra?
No, voleva precisare, non i suoi
cinque anni in Inghilterra.
Intendevo gli anni cruciali, appena
prima che venisse in Inghilterra,
quando aveva bisogno di istruzione
come un neonato ha bisogno di
latte.
O forse – e qui, mentalmente,
fece un passo indietro – intendevo
davvero i suoi anni in Inghilterra,
che a modo loro furono anni di
danno.
Gli sarebbe piaciuto dire:
Ormai c’è ben poco che sembri
certo. Oggi, quando leggo parole
che ho scritto subito dopo la sua
morte le trovo cariche di
sentimentalismo. Emanano la
disperazione di un uomo che cerca
di sottrarsi alla colpa e al biasimo.
Ho cercato di fare una virtù della
sua ignoranza, di convincere me
stesso e gli altri che Ramanujan
traeva vantaggio dagli anni che
aveva trascorso in isolamento,
mentre invece erano un handicap
insormontabile.
Niente era stato facile per lui, ed
è impossibile pretendere che
questo gli abbia giovato. Era molto
povero, viveva in una piccola città
provinciale, a più di un giorno di
viaggio da Madras. E anche se
andò a scuola (era di casta alta), la
scuola non fu tenera con lui. A
partire dai suoi quindici, sedici
anni, fu trattato come un paria. Il
sistema educativo indiano, in
quegli anni, era terribilmente
rigido, molto più rigido del nostro,
su cui era modellato. Il sistema
premiava il nebuloso ideale di
“completezza”; era designato a
sfornare i burocrati e i tecnici che
avrebbero sorvegliato l’impero
indiano (sotto la nostra
supervisione, s’intende). Ciò che
non era designato a fare era
riconoscere il genio, la sua
ossessività e la sua cecità, il suo
rifiuto di essere qualcosa di diverso
da ciò che è.
Una scuola dopo l’altra bocciò
Ramanujan, perché in ogni scuola
lui ignorò tutte le materie eccetto
la matematica. Persino in
matematica talvolta era mediocre,
perché la matematica che gli
insegnavano lo annoiava e lo
irritava. Fin dall’infanzia – da
quando aveva sette o otto anni –
seguiva le indicazioni della propria
immaginazione.
Un esempio sarà sufficiente.
Quando aveva undici anni, e
studiava presso la High School di
Kumbakonam, il suo professore di
matematica spiegò che se dividi
qualsiasi numero per se stesso
ottieni 1. Se hai sedici banane,
disse, e le dividi tra sedici persone,
ciascuna otterrà una banana. Se hai
10.000 banane e le dividi tra
10.000 persone, ciascuna otterrà
una banana. Allora Ramanujan si
alzò in piedi e chiese cosa sarebbe
successo se non avesse diviso
nessuna banana tra nessuna
persona.
Come vedete, anche allora,
quando andava ancora bene a
scuola, il provocatore in lui stava
cominciando a emergere.
Credo di aver intuito tutto
questo fin dalle sue prime lettere.
Era un uomo che i dispensatori di
premi erano stati incapaci di
valutare adeguatamente e lui ce
l’aveva con loro per questo.
Naturalmente questo
disconoscimento lo portò a
dubitare del proprio valore;
tuttavia, fin dall’inizio diede anche
prova di una certa hybris, di una
fede nel proprio genio, e si fece un
vanto solitario di sapersi migliore
del suo tempo e del suo luogo. Se il
mondo in cui viveva non era in
grado di capire il suo valore, era
colpa di quel mondo, non sua.
Quindi perché avrebbe dovuto
cooperare? Eppure è una ben triste
vittoria.
Naturalmente, a questo riguardo
io ero il suo esatto contrario. Ero il
bambino che vinceva tutti i premi,
nonostante odiassi il giorno della
premiazione con lo stesso ardore
che oggi mi susciterebbe solo una
processione religiosa. Sentir
chiamare il mio nome, e poi
dovermi alzare in piedi davanti a
tutta la scolaresca per ricevere il
mio premio, mi provocava un tale
furore di vergogna e di odio per
me stesso da farmi tremare le
gambe; salivo barcollando sul palco
come in preda alla febbre,
prendevo il libro o la medaglia con
mani umidicce, e stringevo i denti
per non vomitare. Quando arrivai
al Winchester, questa strana
variante di panico da palcoscenico
era peggiorata al punto da indurmi
a dare le risposte sbagliate agli
esami, solo per risparmiarmi
l’incubo della premiazione, Però –
devo essere sincero al riguardo –
non abbastanza spesso da mettere
a repentaglio il mio futuro. Infatti
desideravo ardentemente
l’imprimatur di Oxford o
Cambridge, l’approvazione che è
stata negata a Ramanujan.
Perché tanta avversione per i
premi? Penso che fosse perché
sapevo, anche mentre eccellevo sul
suo prato, che il campo da gioco
era truccato. Era truccato per
premiare i ricchi, i ben nutriti, e i
ben curati. E, come i miei genitori
non si stancavano mai di
ricordarmi, io non ero tra questi.
Ero già fortunato a essere lì. Il
talento non assisteva il figlio del
minatore del Galles: lui avrebbe
passato la sua vita in miniera,
anche se avesse avuto la
dimostrazione dell’ipotesi di
Riemann stampata nella mente. I
miei genitori mi dicevano di
pregare sempre per la mia fortuna
e per la loro.
Forse è un segno di debolezza
che io abbia giocato secondo le
regole. Indubbiamente un futuro
biografo (se ne merito uno) mi
criticherà per questa mancanza di
coraggio. Perché c’è un altro modo
di guardare a Ramanujan: come
alla mente risoluta cui il genio non
permette altra via se non seguire il
suo istinto, anche a suo rischio e
pericolo.
Una volta arrivato a Cambridge,
la mia diffidenza per i premi,
invece di attenuarsi, trovò un
nuovo bersaglio nel tripos. Gli
uomini che più disprezzavo erano
quelli che, a differenza di me e di
Littlewood, consideravano la
vittoria nel tripos come uno scopo
fine a se stesso, e facevano della
nomina a wrangler l’oggetto della
loro formazione. Fu per bloccare il
sistema che incoraggiava tali
febbrili ambizioni e smodati
appetiti che decisi di emendare il
tripos, se non di abolirlo del tutto.
E l’ironico risultato del mio
successo nell’impresa fu questo:
mai la febbre per la vittoria nel
tripos fu più intensa che nel 1909,
l’anno in cui fu nominato l’ultimo
senior wrangler.
Il che mi porta a Eric Neville,
l’uomo cui va riconosciuto il merito
di aver persuaso Ramanujan a
venire in Inghilterra. In seguito
diventammo amici, e lo siamo
tutt’ora, a dispetto di sua moglie.
Nel 1909, però, Neville per me
esisteva solo in una dimensione,
come l’uomo considerato il
favorito, quell’anno, per la nomina
a senior wrangler. In realtà risultò
secondo, e ricordo di aver
gongolato, pensando che non si
sarebbe mai riavuto dalla
delusione. Aveva un desiderio così
disperato di passare alla storia
come l’ultimo dei senior wrangler!
Ma non è a questo tripos che sto
pensando stasera; no, è un altro il
tripos che ho in mente, e
precisamente quello del 1905,
l’unico tripos durante il quale
proprio io (mi vergogno ad
ammetterlo) svolsi il ruolo che ora
denigro: quello di istruttore.
Il ragazzo che si esercitava sotto
la mia guida si chiamava Mercer.
James Mercer.
Come spiegare il mio stretto
legame con Mercer? All’inizio,
suppongo, ero attratto da lui
perché, come me, era un outsider.
Era arrivato a Cambridge
dall’University College di
Liverpool, e di conseguenza era più
vecchio della maggior parte degli
altri studenti. Si vergognava del
proprio accento. La prima volta che
venne da me, si coprì la bocca con
la mano.
E adesso vedo che devo tornare
ancor più indietro e parlarvi di
Gaye. Sì, il mio racconto stasera più
che dipanarsi si sta aprendo
all’interno, come una matrioska.
Bene, vi assicuro che torneremo al
tripos – e a Ramanujan, e a Mercer
– a tempo debito.
Che anno era? Sì, certo, il 1904,
il che significa che Gaye e io
dividevamo la suite già da un
anno; quella suite di stanze di cui
non varcherò più la soglia, finché
avrò vita; stanze bellissime,
affacciate sulla Great Court.
Non so come chiamarlo adesso.
Quando eravamo soli, eravamo
Russell e Harnold. Ma quando
eravamo con altra gente eravamo
Gaye e Hardy. In quegli anni, nella
nostra cerchia, gli uomini si
chiamavano sempre col cognome.
Lo conobbi… mi sono
dimenticato come lo conobbi.
Semplicemente, prima ci
conoscevamo poco e poi ci
conoscevamo bene. Succedeva così
a Cambridge. Il contesto avrebbe
potuto essere un teatro: ricordo
una produzione studentesca di La
dodicesima notte in cui Strachey
impersonava Maria, Gaye era
Malvolio e io “il critico”. Ero quasi
sempre il critico. E Gaye e io che
parlavamo e parlavamo, non la
finivamo più di parlare. La sua
bocca piccola e morbida, e gli occhi
scuri, con la loro espressione di
vulnerabilità mista a esasperazione,
mi facevano desiderare di stargli il
più vicino possibile, e allo stesso
tempo di non dare a vedere quanto
desideravo stargli vicino; tenere le
distanze quel tanto che bastava per
non compromettermi. Perché per
molti versi ero come lui, smanioso
di desiderio, eppure deciso ad
avere il controllo, che a quei tempi
lui aveva ancora, prima che il
Trinity e io lo espellessimo.
Naturalmente, questo avveniva
non molto dopo che G.E. Moore
era scappato con Ainsworth,
quindi l’ultima cosa che desideravo
era dar segni di debolezza.
Dovrei aggiungere che allora
non sapevo quanto fosse debole
Gaye stesso: debole, infido e
insofferente; dotato di quello
spirito sferzante che tanto spesso è
l’altra faccia della vulnerabilità.
Dalla sua bocca emergevano
sempre piccole frasi ingegnose
dalla forma perfetta, come gioielli o
scarabei, ancor più strabilianti per
la fresca innocenza delle labbra che
le pronunciavano.
Nessuno si faceva strane idee
sulla nostra scelta di condividere la
suite. Aquei tempi, a Cambridge
era abbastanza normale che dei
giovani fossero “inseparabili” e si
comportassero come altrettante
coppie, socializzassero come fanno
di solito le coppie. Gaye e io non
eravamo certo gli unici. Il primo
anno demmo delle cenette a cui
invitammo gente come O.B., che
sorrise benevolo sulla nostra
unione e ci diede la sua
benedizione. Moore e Ainsworth
vennero a cena una volta, tutti e
quattro davanti al camino, con
Ainsworth che spegneva le
sigarette nel piatto. Gaye aveva più
argomenti di me con Ainsworth.
Forse dovrei aggiungere che Gaye
era un classicista, e di grande
levatura anche, e che quando il
Trinity lo lasciò andare fece una
grave ingiustizia a lui e un cattivo
servizio a se stesso.
La suite era composta da un
salotto con finestre affacciate sulla
Great Court e due piccole stanze
da letto, con le finestre che davano
sui tetti della New Court. Di
regola, tenevamo le porte delle
camere chiuse solo quando
passavano da noi degli studenti, o
quando uno di noi aveva bisogno
di silenzio per lavorare. Quell’anno
Gaye stava traducendo la Fisica di
Aristotele con un altro classicista il
cui nome, fonte di una certa
confusione, era Hardie. Così la
porta della sua stanza era quasi
sempre chiusa, almeno durante il
giorno.
Hermione era ancora piccola.
L’avevamo appena presa dalla
sorella di Mrs. Bixby, la cameriera
che ci rifaceva i letti; lavorava in
una fattoria vicino a Grantchester
dove c’erano sempre gatti in
abbondanza. Avevamo avuto un
altro gatto, Euclide, ma era morto.
Eravamo entrambi molto occupati,
Gaye con la sua traduzione, io con
le mie prize fellowships e i
numerosi studenti universitari cui
davo lezione, tra i quali anche
Mercer. Mercer, con la sua bellezza
fragile come un vetro levigato dal
mare, la bellezza della salute
cagionevole, cronica e destinata a
peggiorare. Lo si vedeva dalla sua
pelle, dalla spossatezza con cui
crollava sulla poltrona. I suoi occhi
erano di un grigio-verde
luminescente che Strachey, tra gli
altri, non si tratteneva dal
commentare. Ancor oggi – e ormai
è morto da parecchi anni – i suoi
occhi sono la cosa che ricordo
meglio di lui.
Erano passati sei anni da quando
avevo superato il tripos. Nel
frattempo niente era cambiato
eccetto che Herman, e non Webb,
era stato scelto come istruttore.
Rimpinzava i suoi allievi di
“compendi in scatola”, come
qualcuno amava chiamarli. Nella
sua arena modello agli aspiranti
gladiatori era ancora richiesto di
recitare Newton a memoria, di
risolvere problemi a tempo di
record, di imparare tutto ciò che
c’era da sapere duecento anni
prima riguardo al calore, la teoria
lunare, le leggi dell’ottica.
Mercer venne a trovarmi perché,
come me, detestava quel corso.
Ricordo che si torceva le mani,
letteralmente. Non credo di aver
mai visto nessuno farlo prima
d’allora. Credevo fosse una cosa
che la gente faceva solo nei
romanzi. C’era il caffè sul tavolo,
Mercer si torceva le mani, e a un
certo punto scoppiò a piangere.
Non sapevo che fare. Allora non
me ne accorsi, ma la porta della
camera di Gaye doveva essere
aperta, perché Hermione arrivò
come una saetta. Guardò Mercer
con un’aria di spietato distacco.
(Mercer, senza mercé. Il mio
cervello non rinuncia mai a questi
stupidi giochi di parole. È come un
virus.)
Mi disse cosa provava. Era come
sentire me stesso quando mi
lamentavo con Butler, sei anni
prima. La noia, il senso di energia
sprecata, di immaginazione
soffocata. (Chissà se Ramanujan
l’avrebbe sopportato?) Gli chiesi
cosa ne pensavano gli altri, e lui
disse: «La maggior parte di loro lo
considera semplicemente il motivo
per cui sono qui. Perché il padre di
uno a suo tempo si è piazzato sesto
wrangler, quello di un altro quinto.
Vogliono superare i loro padri, e
ottenere incarichi al governo e
quant’altro. Ma io sono di Bootle.
Mio padre è un semplice
contabile».
E quelli che, come lui,
aspiravano a essere dei matematici?
Nominò Littlewood. Aquesto
punto non conoscevo bene
Littlewood, lo vedevo solo di
sfuggita (“di passaggio, diretto
verso il Cam” mi ricorda O.B. dalla
tomba). Avevo sentito dire da
Barnes che Littlewood era bravo.
Forse quanto me. E lui cosa ne
pensava del tripos? «Dice che è
solo uno spreco di tempo» disse
Mercer, «ma se lo prende come un
gioco – non come un gioco che gli
piace particolarmente, ma come
l’unico che si fa in questo college,
quindi che scelta gli rimane? –
allora riesce a digerirlo. Giocherà
con tutte le sue forze, perché gli
piace vincere.»
Poi ce ne restammo seduti.
Mercer torcendosi le mani. Gli
parlai della mia esperienza. A quel
punto la mia opinione – il mio
disprezzo per il tripos, e il mio
desiderio di vederlo demolito – era
ben nota, e questo era
probabilmente il motivo per cui
Mercer era venuto a trovarmi. Nel
frattempo il caffè si era freddato.
Non ricordo esattamente come o
perché, ma a un certo punto,
mosso a compassione, gli offrii di
fargli da istruttore io stesso. Gli
prestai anche la mia copia del
Cours d’analyse. «Per ogni ora che
sprecheremo sul tripos» dissi,
«passeremo un’ora con Jordan.
Manderemo giù la pillola amara
con del buon vino.»
Grattandosi la testa, Mercer se
ne andò, senza aver bevuto il caffè
e portandosi via un libro in una
lingua che a stento capiva. Dalla
finestra lo guardai inciampare in
una pietra del lastricato, leggendo
mentre camminava. Era buon
segno.
Poi sentii una mano calda sulla
spalla; chiusi gli occhi.
«Come deve essere bello fare il
salvatore» disse Gaye.
«Allora hai ascoltato?»
«Che scelta avevo? Che ci posso
fare se Hermione ha aperto la
porta? E poi quel pianto dirotto. Mi
ha strappato da Aristotele. Dovevo
accertarmi che andasse tutto
bene.»
«Era al di là del mio controllo.»
«Un giovanotto molto
espressivo, indubbiamente.»
«Sta soffrendo. Ha bisogno del
mio aiuto.»
«Benissimo, e che mi dici di
quello di cui hai bisogno tu,
Harold? Il tuo lavoro?» Gaye prese
la tazza di Mercer dal tavolo, e
trangugiò il caffè freddo in una
sorsata. «Esercitare uno studente
universitario per il tripos. Il tripos,
neanche a dirlo! E dopo tutti gli
sproloqui che ho dovuto sentire
contro quel maledetto esame!»
«Altrimenti non lo farà.»
«Ed è compito tuo salvarlo?»
«Qualcuno ha salvato me.»
«Ma Love non ti ha fatto da
istruttore. Ti ha solo rispedito da
Webb.» Gaye posò la tazza. «Ora,
se fosse brutto…»
«Questo non c’entra niente.»
«Certo che no. Il tuo è un
fremito erotico più specializzato,
quello di salvare la dolce donzella
dalle fauci del drago. O immagini
che otterrà ciò che a te non è
riuscito?»
«Sembri geloso.»
«Lo sono: del lavoro originale
che andrà perduto in virtù della
tua decisione di istruire questo…»
«Quanto altruismo, da parte
tua.»
Gaye prese in braccio Hermione
e le accarezzò il collo. «È una tua
decisione, naturalmente. Non
pensare che mi sognerei di
interferire.»
Divincolandosi dalla sua stretta,
Hermione sgusciò di nuovo dietro
la porta che lei (o Gaye) aveva
aperto prima, quella che si apriva
sulla sua zona dell’appartamento.
Qualche secondo dopo, Gaye la
seguì.
Mezz’ora più tardi, mise fuori la
testa. «Ceniamo in casa stasera?»
chiese, ma ci ripensò
immediatamente. «Certo che no. È
sabato. E i tuoi sabati sono tutti
prenotati.»
«Questo lo sai, Russell.»
«Diamine, mi chiedo cosa
facciano tutti quei sciabati scera,
quei giovanotti coscì scvegli?»
«Non posso parlarne.»
«No, è naturale. Certo che non
puoi.»
Adesso mi chiedo: perché non
l’ho mai proposto come membro?
All’epoca mi dicevo che era per
risparmiargli di diventare lo
zimbello di tutti, un’altra Madame
Taylor. Ma forse la verità era che
volevo risparmiare a me stesso di
essere considerato alla stregua di
un altro Sheppard. Asservito.
L’unica possibilità che non mi
sono mai concesso di prendere in
considerazione era che, a
differenza di Taylor, Gaye avrebbe
potuto essere considerato degno di
far parte della Società per i propri
meriti. Ma quand’anche fosse stato
ammesso, avrebbe fatto una
differenza in seguito? Non lo so.
Non lo so proprio.
E dove si trovava Ramanujan
allora? Nel 1904 si era appena
diplomato alla scuola superiore, e
aveva vinto una borsa di studio al
Government College. Sempre a
Kumbakonam; dubito che fosse già
stato a Madras a quell’epoca. Molti
anni dopo, in uno dei suoi
momenti di buonumore – doveva
essere durante la guerra, perché
ricordo soldati adagiati sulle barelle
nella Nevile’s Court – mi disse che
a quei tempi il Government
College veniva chiamato “la
Cambridge dell’India del Sud”.
Le cose iniziarono abbastanza
bene. Ramanujan seguì corsi di
Fisiologia, di Inglese, di Storia
greca e romana. Ma poi gli capitò
per le mani una copia del testo di
Carr, Synopsis of Pure
Mathematics, il libro che, come mi
disse in seguito, aveva avuto per lui
la stessa importanza che aveva
avuto per me il Cours d’analyse di
Jordan. Come mi spiegò in seguito,
i suoi genitori, per arrotondare le
loro magre entrate, a volte
prendevano degli studenti a
pensione, e uno di loro aveva
dimenticato il libro. Sconvolgente
pensare che fu proprio questo libro
a dargli l’avvio. Qualche settimana
fa, prima di salire a bordo della
nave che mi ha portato nel vostro
bel paese, l’ho preso in prestito
dalla biblioteca del Trinity, l’unica
copia che c’era, impolverata dal
disuso. La Synopsis è lunga più di
novecento pagine. Fu pubblicata
nel 1886, e nessuno l’ha più
consultata dal 1902.
Cosa aveva di speciale questo
libro? Era nutrimento per un uomo
affamato. Mi sembra di vederlo,
Ramanujan, seduto sul pial, la
veranda davanti alla casa di sua
madre che tante volte ricordava
con nostalgia; seduto all’ombra
mentre la sfilata della vita di strada
gli passava davanti, a leggere
pagine e pagine di equazioni, tutte
numerate. In seguito mi disse che
aveva memorizzato il libro. Se ci
fosse stato un tripos su Carr,
Ramanujan sarebbe stato preparato
per ripetere a memoria ogni
capitolo e ogni riga di
un’equazione, con la sola
indicazione del numero
corrispondente. 954: “Il cerchio dei
nove punti è la circonferenza che
passa attraverso D, E, F, i piedi
delle altezze sui lati del triangolo
ABC”. 5849: “Il prodotto pd ha lo
stesso valore per tutte le geodetiche
che toccano la stessa linea di
curvatura”. In totale 6165
equazioni. E Ramanujan le ha
imparate tutte a memoria.
Cominciò a trascurare le altre
materie. Ignorando la storia,
intratteneva i suoi amici creando
quelli che lui chiamava “quadrati
magici”:
Oppure:

Un gioco da ragazzi. La somma di


ogni colonna dà lo stesso numero:
verticalmente, orizzontalmente e
diagonalmente. La cosa
sorprendente è che Ramanujan
riusciva a costruire i suoi quadrati
magici in pochi secondi. Durante le
lezioni di storia greca sedeva nel
suo banco, apparentemente
prendendo appunti, mentre in
realtà stava tracciando i suoi
quadrati magici. (Inutile dire che
era riuscito a impadronirsi di un
teorema più generale senza
nemmeno rendersene conto.)
Oppure elencava i numeri primi in
sequenza. Cercando fin da allora di
trovarvi un ordine.
E, naturalmente, più si perdeva
nella matematica, meno prestava
attenzione alle altre materie. La
fisiologia, disse, era la sua peggiore
materia perché aveva orrore delle
dissezioni. Penso che la verità fosse
che, come la maggior parte dei
matematici, aveva orrore della
fisicità. (Dopo aver osservato il suo
insegnante cloroformizzare alcune
rane pescatrici, o rane di mare,
come le chiamava lui, per la
dissezione, chiese al professore:
«Signore, ha scelto le rane di mare
perché noi siamo tutti rane di
stagno?». Questo era tipico del suo
umorismo. Fin da allora sapeva che
Kumbakonam era un piccolo
stagno.) Poi cominciò ad andar
male anche in inglese, il che mi
sorprende, perché quando lo
conobbi il suo inglese parlato era
impeccabile, e il suo inglese scritto,
anche se non shakespeariano, era
passabile. Ciò nonostante, alla fine
del suo primo anno fu bocciato
nell’esame di componimento.
Malgrado il suo evidente talento
per la matematica, gli fu tolta la
borsa di studio. La politica della
scuola andava rispettata. Adesso
avrebbe dovuto pagare per la sua
istruzione; o meglio, i suoi genitori
avrebbero dovuto pagare. E i suoi
genitori erano poveri. Suo padre
era una specie di impiegato
contabile, sua madre prendeva
lavori di cucito e cantava nel
tempio locale per far quadrare i
conti. A volte non c’era da
mangiare e doveva farsi invitare a
cena a casa dei suoi compagni di
scuola.
Questa fu la prima delle
numerose volte in cui scappò di
casa. Quello che fece mentre era
via non volle dirmelo; solo che
andò in un’altra città, a nord di
Madras. Visakhapatnam. Nel giro
di un mese era di nuovo a casa.
Credo di poter immaginare
come si sentiva: arrabbiato tanto
con se stesso che con il sistema –
spietato, inflessibile – da cui
dipendeva il suo successo. Il
Government College lo aveva
respinto perché non voleva
attenersi alle regole, e se da un lato
lo faceva infuriare che gli fosse
richiesto di rispettare le regole –
come avrebbe osservato
Littlewood, anche allora
Ramanujan sapeva di essere
grande – dall’altro si disprezzava
per la propria incapacità (o era
indisponibilità?) di essere il bravo
ragazzo che ci si aspettava che
fosse. Perché chi c’era lì per
assicurargli che la sua fede nella
propria grandezza non era vanità o
illusione?
Nel frattempo, a Cambridge,
Mercer veniva a trovarmi tutti i
giorni. Cronometro alla mano,
gridavo i numeri dei lemmi
newtoniani e lui li ripeteva a
memoria. Poi lavoravamo sul
Cours d’analyse.
All’inizio, in quei pomeriggi,
Gaye si tratteneva nella sua parte
dell’appartamento. A volte lasciava
la porta aperta. Poi – dopo che mi
ero alzato nel mezzo di una
ripetizione per chiuderla – smise di
lasciarla aperta.
Quell’anno presenziai alla
lettura dei risultati dell’esame con
la lista degli onori, parte di una
vasta folla nella cui mischia riuscii
a riconoscere O.B. con Sheppard,
che doveva aver puntato del
denaro sul favorito. La galleria era
riservata alle signore. Le ragazze di
Newnhan e Girton erano
ammassate in tre o quattro file
contro la balaustra. Indubbiamente
speravano, come ogni anno, in una
replica del 1890, quando Philippa
Fawcett aveva vinto il titolo di
senior wrangler e le sue consorelle
avevano urlato di gioia. Dopo
d’allora, nessuna donna ci andò
nemmeno vicino.
Tutti parlavano allo stesso
tempo. Dovrei ricordare che i
probabili candidati al senior
wrangler non erano presenti. Per
lunga tradizione, durante la lettura
delle classifiche rimanevano nelle
loro stanze, in attesa che gli amici
portassero loro la buona o la cattiva
notizia. Tuttavia, i loro nomi erano
sulla bocca di tutti, e così erano più
presenti che se fossero stati lì di
persona.
L’orologio della chiesa di Great
St. Mary cominciò a battere le
nove, e Dodds, il moderatore,
prese posto sul davanti della
galleria. Immediatamente la folla si
zittì. Dodds indossava tutte le
insegne del suo college, e stringeva
nella mano destra il rotolo della
lista degli onori, che avrebbe
slegato nel momento esatto in cui
veniva battuto il nono tocco. Con
religiosa dignità disse con voce
solenne: «Risultati del tripos di
matematica. Prima parte, 1905».
Un attimo di silenzio. «Senior
wrangler J.E. Littlewood,
Trinity…»
Prima che Dodds potesse finire,
la folla scoppiò in un applauso. E
così Littlewood aveva battuto
Mercer! Provai una fitta di
delusione, che cercai di smorzare
ricordando a me stesso quanto
odiassi il tripos. Guardai Sheppard,
che era accigliato. Indubbiamente
aveva puntato i suoi soldi su
Mercer per lealtà nei miei
confronti. Poi Dodds disse:
«Silenzio, per favore! Se mi è
concesso continuare: senior
wrangler J.E. Littlewood, a pari
merito con J. Mercer, Trinity».
La faccia di Sheppard, che si era
rabbuiata qualche minuto prima, si
rischiarò. “A pari merito”
significava che Littlewood e Mercer
avevano ottenuto esattamente lo
stesso punteggio. Erano pari.
Mio malgrado, gridai un urrà.
O.B. mi lanciò un’occhiata divertita
e sprezzante. Mi zittii e ascoltai
mentre venivano nominati i
rimanenti wrangler e optime, fino
all’ultimo cucchiaio di legno. Aquel
punto, la maggior parte degli
astanti era uscita a vedere i due
senior wrangler esibiti in tutta la
loro gloria. Li seguii. Poco più in là
vidi Littlewood portato in trionfo
dai suoi amici. Era in estasi? Ne
dubitai. Anche se a questo punto
lo conoscevo ancora pochissimo,
potevo immaginare che avrebbe
preso la vittoria con una certa
flemma. Mercer non riuscii affatto
a vederlo.
La cosa strana fu che, fin
dall’inizio, tutti si comportarono
come se Littlewood fosse il solo
vincitore. Mercer avrebbe potuto
benissimo non esistere. Circa una
settimana dopo, per esempio, uscii
– di soppiatto, devo ammettere – a
comprare una fotografia di
Littlewood, e scoprii, con gran
disappunto, che erano esaurite.
«Ma ne ho un mucchio di Mr.
Mercer, signore» disse l’edicolante.
«Anzi, dovrò metterle in
liquidazione se continua così.»
Era perfettamente
comprensibile. Mercer era fragile,
aveva ventidue anni e veniva da
Bootle, mentre Littlewood aveva
diciannove anni, scoppiava di
salute e aveva agganci con
Cambridge che risalivano a più di
un secolo prima. Philippa Fawcett
era sua cugina. Suo padre, a suo
tempo, era stato nono wrangler,
suo nonno trentacinquesimo.
O.B. aveva entrambe le
fotografie. «Guarda come tiene le
gambe aperte» disse di Littlewood.
«Come se non avesse la più pallida
idea che è una posa provocante. E,
naturalmente, la parte deliziosa è
che non lo sa davvero.»
«Bel rigonfiamento, anche»
rifletté Keynes, che era venuto a
far visita a O.B.
Cercai di non guardare il
rigonfiamento. Mi concentrai
invece sul viso ovale, ben rasato. La
scriminatura che divideva i capelli
di Littlewood avrebbe potuto
essere tracciata con un righello.
Teneva le labbra serrate, le folte
sopracciglia sollevate in modo
interrogativo. Nell’insieme,
irradiava una sorta di forza
compressa, come una molla, che da
un momento all’altro poteva
schizzare fuori dalla sua poltrona e
fare una verticale.
Nella sua fotografia, per
contrasto, Mercer sembrava
esitante, quasi distaccato. Aveva
delle ombre scure sotto gli occhi, e
teneva un dito appoggiato alla
fronte, con l’unghia mangiata fino
alla carne.
Cosa posso dirvi di Littlewood?
Sebbene rifuggisse le luci della
ribalta – o forse proprio perché le
rifuggiva – aveva quella che voi
americani chiamate “star quality”.
Le scoperte che faceva potevano
essere drammatiche. Per esempio,
poco dopo che iniziammo a
lavorare insieme, dimostrò che a
un certo punto, oltre 101010, il
Teorema dei numeri primi, invece
di calcolare in eccesso il numero di
numeri primi fino a un dato
numero n, inizia a calcolarlo per
difetto. E, ancor più cruciale, oltre
quel numero inconcepibilmente
distante, il risultato si alterna con
una frequenza infinita tra stima per
eccesso e stima per difetto. Era una
cosa sbalorditiva da dimostrare, in
quanto demoliva un assunto che la
maggior parte dei matematici non
avrebbero mai pensato di mettere
in dubbio. Ma la cosa più notevole
era che la dimostrazione di
Littlewood rivelava un
cambiamento nel cosmo dei
numeri primi, così remoto
dall’arena del normale conteggio
umano da essere virtualmente
impossibile da concepire. Perché il
numero in questione – il numero
oltre il quale i numeri primi
iniziano a essere calcolati per
difetto invece che per eccesso – è
più grande del numero di atomi
nell’universo.
Com’era suo costume,
Littlewood non diede eccessiva
importanza alla scoperta. Del resto
non dava eccessiva importanza
quasi a niente. Era Littlewood. La
prima volta che venne a farmi
visita – che venne con intenzioni
serie intendo, con l’idea di
collaborare con me – c’era mia
sorella in visita. Stavamo
pranzando nel mio salotto.
Gertrude era insegnante d’arte alla
scuola femminile di Cranleigh, la
St. Catherine’s, dove curava la
rivista scolastica, sulla quale
pubblicava articoli e talvolta una
delle sue poesie corrosive. Viveva
con nostra madre, la cui salute era
in declino, e per amore della quale
doveva fingere sentimenti religiosi
che non provava. Non era quella
che si definirebbe una bella donna;
né, per quel che ne sapevo, gli
uomini le interessavano
particolarmente. Eppure, appena
arrivò Littlewood, lo invitò a
sedersi, andò a prendergli un
piatto e gli servì quel che restava
delle uova e fagioli che, in
circostanze normali, ci saremmo
divisi tra noi. Littlewood accettò
senza esitazione. Era un animale
sociale per natura, incline a dare
per scontato che se a qualcuno che
gli piaceva piacevano due persone,
queste si sarebbero piaciute a
vicenda. Né mi sorprese vederlo
mettersi in bocca una forchettata di
uova e fagioli insieme, mentre io
non mescolavo mai gli alimenti sul
mio piatto. E nel frattempo fare
domande a Gertrude sulla sua
scuola, le sue allieve, la rivista:
domande alle quali lei rispondeva
arrossendo, come una fanciulla in
fiore. Era sconcertante. Mia sorella
– di solito rigida, austera persino –
era palesemente incantata. Quanto
a Littlewood, riuscii a vedere
all’istante una cosa che a quei
tempi era raro vedere a
Cambridge: gli piacevano le donne
più degli uomini. Gli piaceva la
loro compagnia e gli piacevano i
loro corpi. Flirtare gli risultava
naturale, anche quando la donna
in questione era una zitella
bruttina, come Gertrude. E
Gertrude gongolava.
Per tutta la durata della
conversazione, mi chiesi se
Littlewood avrebbe notato l’occhio
di vetro di Gertrude e le avrebbe
chiesto qualcosa. Lo chiese a me, il
giorno dopo. «Un incidente
quando era piccola» dissi, e
Littlewood, fedele alla propria
natura, lasciò cadere educatamente
l’argomento, risparmiandomi
l’ingrato compito di spiegare
com’era avvenuto l’incidente.
E cosa ne fu di Mercer? Credo
che a quel punto se ne fosse
andato, fosse tornato a Liverpool.
Non fece ritorno a Cambridge fino
al 1912, e da allora fino alla sua
morte non lo vidi quasi mai. Ho
l’impressione che abbia accettato la
propria mancanza di notorietà con
un’umiltà di cui devo riconoscergli
il merito.
Littlewood non ha mai capito
perché io abbia abbandonato
Mercer. Credo di non averlo mai
capito neanch’io. Immaginate uno
scrittore che, vergognandosi
dell’immaturità di una prima
stesura, la chiude in un cassetto. In
qualche modo sa che verrà il
giorno in cui riscriverà la storia, e
forse la scriverà meglio. Solo che
non sa quando, o come, o chi sarà
l’eroe.
SECONDA PARTE

Il corvo nella sala da


pranzo
1

Arriva una lettera dall’India Office.


Firmata C. Mallet, Segretario per
gli studenti indiani.
Siamo dolenti di informarla che, senza
un’ulteriore documentazione relativa
alle qualifiche dello studente in
questione, e in considerazione dei
fondi limitati di cui dispone l’Office, al
momento non possiamo fornire alcun
aiuto finanziario per far venire il detto
S. Ramanujan al Trinity College di
Cambridge…
Hardy appallottola la lettera.
Vorrebbe dirlo a Littlewood, ma
Littlewood è partito di nuovo.
Naturale che sia partito. Il canto
delle sirene di Treen.
L’appassionante mistero chiamato
Mrs. Chase. Littlewood è sempre
altrove quando arriva una lettera.
Hardy va a trovare il rettore.
Henry Montagu Butler ha quasi
ottant’anni, è florido e ha una
barba incolta che lo fa assomigliare
a Babbo Natale. Asua volta un
Apostolo (numero 130), non
frequenta più le riunioni perché
disapprova fortemente il fumo. È
un devoto pastore della Chiesa
d’Inghilterra. Mentre Hardy parla,
fa ruotare la fede nuziale sul dito,
come sempre in movimenti precisi
di un quarto di giro ciascuno.
Ascolta – o sembra ascoltare –
attentamente mentre Hardy gli
parla delle lettere, delle pazienti
indagini che lui e Littlewood
hanno condotto, della risposta che
hanno scritto, e infine, della
possibilità di far venire l’indiano a
Cambridge. Questi colloqui sono
una tortura per Hardy che,
potendo scegliere, avrebbe girato la
responsabilità a Littlewood.
Sempre che fosse stato reperibile.
Ma Hardy conosce Butler. Se fosse
venuto Littlewood, Butler avrebbe
detto: “Questi sono affari di Hardy.
Se Hardy ha qualcosa da dirmi,
lasci che sia lui a farlo”.
Un’ampia scrivania li divide. Il
legno emana un lieve odore di
tabacco, lascito di precedenti
rettori con attitudini più liberali
verso il fumo. Al di sopra del
calamaio e del tampone assorbente
d’ordinanza, Hardy parla nel
compassato silenzio dell’anello
rotante di Butler, senza mai
smettere di sperare che Butler
colga l’allusione e anticipi la sua
richiesta, risparmiandogli così il
calvario di essere lui a farla. Butler
invece ha abbassato gli occhi sul
tampone assorbente. Si è
appisolato? «Bene, è molto
interessante» dice quando Hardy
ha finito. «E adesso cosa vuole che
faccia al riguardo?»
«Che lei mi dica se il college
stanzierà dei fondi per far venire
quel giovane in Inghilterra,
suppongo.»
«Fondi? Vuol dire una
fellowship? Ma a quanto mi dice, il
giovanotto non ha neppure un
normale diploma universitario.»
«Non vedo perché dovrebbe
avere importanza. Se ci scrivesse
Newton, crede che ci
preoccuperemmo del fatto che
abbia o meno un normale diploma
universitario?»
«Però lui l’aveva, giusto? Se ben
ricordo, c’è stato un momento in
cui lei non era così entusiasta di
Newton.» Butler si sporge
attraverso l’ampia scrivania. «Senta,
Hardy, tutto questo è molto
interessante, ma dove sono le sue
prove che quest’uomo è un genio?
Mi sembra tutto un po’ aleatorio.
Non potrebbe essere una
montatura?»
«Ne dubito molto.»
«Allora dovrà mostrarmi delle
prove concrete. Non intendo
ammettere un negro al Trinity
sulla base di una lettera.»
Quella parola: perché gli fa
l’effetto di uno schiaffo in faccia? È
Ramanujan, non Hardy, che Butler
ha chiamato “negro”.
All’improvviso Hardy è in preda
all’ira. È tipico del suo carattere.
Dalla temerarietà e dalla riluttanza
salta direttamente all’ira,
scavalcando tutti gli stati
intermedi. Gaye lo prendeva in
giro per questo.
«Acquisirò tutte le prove
possibili» dice. «Anche se, dal
momento che si rifiuta di accettare
come sufficiente il giudizio di due
dei suoi stessi fellow, oserei dire
che nient’altro riuscirà a
convincerla.» E con questo, si alza.
«Buon Dio, senza un briciolo di
istruzione, e da solo, quest’uomo
ha reinventato metà della
matematica. Con il giusto
incoraggiamento, chissà cosa
potrebbe fare!»
Butler intreccia le vecchie dita
rugose. «Un Newton indiano.
Questa sì che sarebbe una rarità.
Bene, venga a trovarmi quando ne
saprà di più. Perché, Hardy, al
contrario di quanto lei sembra
presumere, io non sono contrario a
priori al giovanotto. Inoltre, credo
che non dovrei essere giudicato un
malvagio per il mio naturale
scetticismo. Dopo tutto, che cosa
mi ha portato? Due lettere.»
«Molto bene.»
Sta per andarsene, quando
Butler dice: «Presumo che lei abbia
contattato l’India Office».
«Sì.»
«E?»
«Vogliono maggiori
informazioni. Tutti vogliono
maggiori informazioni. Littlewood
dice che andrà a trovare una
persona in quell’ufficio. Una
vecchia conoscenza di suo fratello.»
«Bene, mi faccia sapere, quando
avrete una risposta.»
«Intende dire che se loro gli
danno l’approvazione, lo farà
anche lei?»
«È deciso a fare di me il nemico,
vero Hardy?»
«Mi sembra che ci siano dei
momenti in cui bisogna rischiare.»
«Questo è garantito. Ma tenga
presente, Hardy, che se lui viene e
non ne caviamo niente, il college
avrà solo sprecato dei soldi.
Toccherà a lei vedersela con
quell’uomo, occuparsene, e
verosimilmente anche dargli asilo.»
«Littlewood e io siamo pronti ad
assumerci tutte le responsabilità
che comporterà la sua venuta.»
«Presumo che abbiate risposto
alla seconda lettera. Avete già
avuto notizie?»
Hardy scuote la testa.
«Bene, mi faccia sapere quando
si fa sentire. Mio malgrado, sono
curioso.»
«La ringrazio.» Hardy gli porge
la mano e il vecchio gliela stringe.
Poi esce dalla porta, incerto su chi
abbia fatto la concessione
maggiore. È la specialità di Butler,
ed è quanto gli ha conservato il
posto di rettore per quasi
cinquant’anni.
2

Neanche a dirlo, l’amico del


fratello di Littlewood all’India
Office è C. Mallet. Littlewood si
reca a Londra un martedì mattina,
lasciando Hardy a cuocere nel suo
brodo e a tormentarsi fino al suo
ritorno. Naturalmente cerca di
lavorare, di concentrarsi sulla
dimostrazione che è così vicino a
risolvere, che ci sono infiniti zeri
sulla retta critica di Riemann. Oggi,
però, è come se si fosse chiusa una
porta. Quelle regioni
dell’immaginazione in cui deve
avventurarsi se vuole fare qualche
progresso gli sono inaccessibili. Si
sente altrettanto frustrato di Moore
nella lettura del suo saggio, la sera
in cui Wittgenstein era venuto alla
riunione degli Apostoli. L’unica:
dopo quella sera non era più
tornato.
Poiché non riesce a lavorare,
Hardy fa una passeggiata più lunga
del solito nel parco del Trinity. È
una gloriosa mattina d’aprile,
soleggiata e fredda, la
combinazione che Hardy predilige.
Ieri è arrivata un’altra lettera
dall’India, in risposta a quella che
Hardy ora rimpiange di avere
spedito, nella quale cercava, con il
maggior tatto possibile, di
rassicurare Ramanujan che lui,
Hardy, non aveva delle mire sulle
idee di Ramanujan; infatti, scriveva
Hardy, anche se lui avesse cercato
di fare un uso illegittimo dei
risultati di Ramanujan, questi
sarebbe stato in possesso delle
lettere di Hardy e avrebbe potuto
facilmente denunciare la frode.
Non è stata la mossa più saggia.
Infatti Ramanujan sembra averla
interpretata come parte di una
cospirazione più vasta per
defraudarlo, lui, un povero
indiano, dell’unica cosa che ha
cara, la sua primogenitura
intellettuale. Per tutta risposta,
scrisse che lo “addolorava” che
Hardy lo avesse immaginato capace
di nutrire un simile sospetto:
Come ho scritto nella mia ultima
lettera, ho trovato in lei un amico
comprensivo e sono pronto a mettere
nelle sue mani quel poco che ho da
offrire. Era a causa dell’originalità del
metodo che ho usato che ero, e ancora
sono, un po’ restio a comunicare il mio
modo di arrivare all’espressione che le
ho già fornito.
Riluttanza, diffidenza. È tanto
diversa dall’orgoglio?
Così Hardy percorre i viali curati
del Trinity College, mentre
Littlewood, a Londra, va nella sala
da tè di South Kensington (di
questo non ha fatto parola con
Hardy) dove, nelle occasioni in cui
entrambi si trovano a Londra, lui e
Mrs. Chase hanno l’abitudine di
incontrarsi. Anne viene a Londra
solo quando non può farne a
meno. È una creatura di mare, non
di città. Mentre siede di fronte a
Littlewood, con davanti una teiera
e un vassoio di pasticcini, buttando
indietro i lunghi capelli castani fa
cadere granelli di sabbia sul tavolo.
È a Londra solo per ordine del
marito. Ha lasciato i bambini a
casa, affidati alle cure di una
bambinaia. Chase tollera la
relazione di sua moglie con
Littlewood solo fintantoché lei
acconsente a rendersi disponibile
quando la sua carriera, la sua
statura di eminente medico di
Harley Street, esige che si presenti
in pubblico con una moglie al
braccio. Stasera c’è un ballo di
beneficenza. «Non so
assolutamente cosa mettermi» dice
Anne a Littlewood, mentre i
granelli di sabbia le cadono dalla
manica, dall’orlo. Littlewood
intravede un luccichio di mica
nelle pieghe delle sue orecchie. Gli
piace questo di lei, la sua
sabbiolina che a volte, tornando a
Cambridge da Treen, si sente sulla
lingua, sui denti.
È abbronzata, piena di lentiggini.
Chase è pallido e sta perdendo i
capelli. Anche se affetta una posa
di dolorosa sopportazione,
Littlewood in cuor suo sospetta che
questa sistemazione soddisfi lui
almeno quanto Anne. Anche di
più, forse. Dopotutto, fintanto che
Littlewood, a Treen, tiene occupata
sua moglie, Chase è libero, a
Londra, di darsi ai divertimenti che
la presenza di moglie e figli
potrebbero inibire. Divertimenti,
sospetta Littlewood, che sono più
sul versante di Hardy che sul suo.
Dopo aver chiacchierato per
qualche minuto della fastidiosa
necessità di scegliere un vestito
(presumibilmente Anne tiene una
scorta di abiti da città a casa del
marito in Cheyne Walk), lei e
Littlewood si abbandonano a un
silenzio rilassato e familiare. Tra
loro non c’è mai quel bisogno di
riempire l’aria di chiacchiere che
sembra a un tempo tormentare e
rinvigorire tante coppie. Il silenzio
è per loro un elemento più
autentico della parola. Quante ore
hanno trascorso, seduti nel salotto
di Treen, col rumore del vento e
delle onde fuori dalla finestra, e
Anne che sferruzza pazientemente!
Senza neppure le voci dei bambini
di sopra. Anne ha due figli, un
maschio e una femmina, entrambi
insolitamente tranquilli. Chiamano
Littlewood “zio John”.
Littlewood guarda l’orologio.
«Sta scadendo il tempo?»
«Ho ancora qualche minuto.»
«E dopo dove vai?»
«All’India Office. Dovrei
incontrare un tizio, a proposito
dell’indiano, quello di cui ti ho
parlato.»
«Il genio di Hardy.»
«Esatto.»
Guarda il vassoio di pasticcini
con contemplativa serenità. «Mi
stupisce che tu non abbia mai
portato Hardy a Treen» dice Anne.
Littlewood sorride. È vero, non
ha mai portato Hardy a Treen. Ci
ha portato altri. Bertie Russell ci è
stato. Ma Hardy mai.
«Non sono sicuro che faccia per
lui.»
«Potresti provare a invitarlo»
dice Anne bonariamente. La loro
intimità è stranamente priva di
rancori, forse perché entrambi
sanno che non porterà mai al
matrimonio. Fin dall’inizio, Anne
ha stabilito molto chiaramente le
sue condizioni. Non avrebbe mai
lasciato il marito, sia perché lui
glielo ha chiesto espressamente, sia
perché, per ragioni tutte sue, si
sente legata a certe antiquate
convenzioni sociali, anche se non
crede in quei valori. Forse sarebbe
più accurato dire che, anche se non
crede in quei valori, ne rispetta lo
spirito razionale, la cui obbedienza
assicurerà la perpetuazione di una
società ordinata. Per certi versi
Anne è molto più conservatrice di
Littlewood, anche se a casa non
porta mai i capelli raccolti, e
cammina per ore, sulla spiaggia,
con le scarpe in mano.
«È molto strano per me» gli dice,
«non aver mai conosciuto Hardy.
Dopotutto, si potrebbe dire che è la
persona più importante nella tua
vita… No?»
«Tu credi?»
«Be’…»
«Hardy è molto strano. Sai che
Harry Norton una volta mi ha
detto – un anno fa, o un anno e
mezzo mi pare – che Hardy stava
scrivendo un romanzo, un
romanzo giallo, in cui un
matematico riesce a dimostrare
l’ipotesi di Riemann e poi un altro
lo uccide e si attribuisce la
dimostrazione? E la cosa più
maledettamente incredibile è che
Hardy ha smesso di scriverlo, ha
detto Norton, perché a quanto
pare era convinto che io mi sarei
accorto che la vittima era basata su
di me.»
«E Hardy era l’assassino?»
«Norton non l’ha detto.»
Anne finisce la sua tazza di tè.
«Peccato che non abbia mai finito
il romanzo. Avrebbe potuto essere
un successo.»
«Solo se tralasciava tutta la parte
matematica.»
«E ti saresti offeso se fossi stato
ammazzato?»
«Al contrario. Quando Norton
me lo ha detto, ero lusingato.»
È ora di andare. Silenziosamente
si alzano ed escono dalla sala da tè.
All’inizio della loro relazione,
prima che Anne lo dicesse al
marito, c’erano l’intrigo e il terrore,
l’emozione dell’inganno e
l’angoscia della separazione.
Adesso, invece, la loro relazione, a
modo suo, è divenuta parte
dell’ordinato ideale di Anne
almeno quanto il suo matrimonio.
Molto è sottinteso, anche se non
dichiarato. Lei non desidera
sposarlo. E Littlewood, se deve
essere completamente onesto, non
desidera veramente sposare lei.
Perché, se dovesse sposarla,
sarebbe costretto a lasciare le sue
stanze al Trinity, il suo piano, i suoi
dischi. Dovrebbe comprare una
casa, come ha fatto Neville, e
arredarla, e assumere una
cameriera e una cuoca per
mandarla avanti.
Dove si inserirebbe il suo lavoro
in una vita del genere? Dove si
inserirebbe Hardy?
Si salutano in strada: una stretta
di mano e un bacetto sulle guance,
senza provare dolore o sgomento,
né la sensazione di un futuro
incerto, ma con la pacifica certezza
che si vedranno ancora, il prossimo
weekend, a Treen, col rumore di
sottofondo delle onde, e dei
bambini di sopra. La guarda
allontanarsi, sul marciapiede, e
mentre svanisce in lontananza è
pronto a giurare che si stia
lasciando dietro una scia di sabbia.
3

Quella sera, Littlewood è in ritardo


per la cena. Al tavolo dei docenti,
Hardy gli tiene un posto alla sua
destra. Arriva la portata di pesce.
Ancora il maledetto rombo. Poi la
carne. Sella di cervo. Più
tollerabile. Ne prende un boccone,
e mentre si chiede cosa diavolo stia
trattenendo Littlewood, ecco che
questi arriva trafelato, infilandosi la
toga, e si siede accanto a Hardy.
«Scusa il ritardo» dice.
«Cos’è successo?»
Un cameriere porta il vino,
chiede a Littlewood se desidera il
pesce: «No, passerò al… cos’è
quello?».
«Cervo.»
«Ottimo.»
«Allora?»
«Ci sono dei problemi, credo.»
«Che tipo di problemi?»
«Ho incontrato quel tizio
dell’India Office, e niente via
libera.»
«Che stronzi! Come se non
avessero qualche sterlina da
spendere…»
«No, non si tratta del denaro.
Ne abbiamo di strada da fare
prima di arrivare a parlare di
denaro. È l’indiano. Non vuole
venire.»
Hardy è francamente stupefatto.
«E perché no?»
«Scrupoli religiosi. Sembra sia un
bramino molto ortodosso. E hanno
questa regola che vieta di
attraversare l’oceano.»
«Questa non la sapevo.»
«Nemmeno io. Ma poi Mallet –
è il nome di quel tizio – mi ha
spiegato tutto. Apparentemente
vedono la traversata dell’oceano
come una forma di
contaminazione. Come sposare
una vedova. Non si mettono le
proprie galosce ad asciugare sul
focolare di qualcun altro. E se
attraversi l’oceano, quando torni in
India sei persona non grata. I tuoi
parenti non ti lasceranno entrare
nelle loro case. Non potrai far
sposare tua figlia o andare ai
funerali. Sarai un fuoricasta.»
«Ma Cambridge è piena di
indiani. C’è quel giocatore di
cricket.»
«Evidentemente appartiene a
una casta diversa. O quantomeno
non è ortodosso come il nostro
amico Ramanujan. Probabilmente
è ricco, viene da Calcutta o da
qualche altra città cosmopolita. Ma
al Sud – almeno secondo questo
Mallet – sono ancora attaccati a
ogni sorta di antiquata tradizione.
Ci sono regole su tutto. Quando
mangiare, cosa mangiare. Dieta
strettamente vegetariana. Ricordi
l’ammutinamento del 1857,
quando i soldati indiani
massacrarono gli ufficiali britannici
perché non volevano strappare con
un morso le cartucce ingrassate col
lardo?»
Hardy guarda con rancore la
carne nel suo piatto, come se
avesse delle colpe. «Che follia,
tutta questa religione.» «Non per
lui, a quanto pare.»
Masticano in silenzio, come
ruminanti.
«Dunque questo è quanto?»
chiede Hardy dopo un momento.
«È finita?»
«Probabilmente. Non
necessariamente, però.»
«Cosa vorresti dire?»
«Allora, dopo la nostra
conversazione, ho pensato che non
sarebbe stata una cattiva idea
invitare fuori Mallet per una pinta
di birra. Ci siamo messi a
chiacchierare, e lui mi ha detto
qualcosa di più del caso. Gli ho
chiesto come aveva saputo tutta la
storia, e lui mi ha detto che c’era
stato un colloquio, a Madras, con
un certo Davies.»
«Un colloquio con Ramanujan?»
Littlewood annuisce.
«Ramanujan è stato convocato per
parlare con Davies, e si è portato
dietro il suo capo del Porto di
Madras, un vecchio che
apparentemente è ancor più
ortodosso di lui. Comunque sia, si
dà il caso che Mallet conosca
piuttosto bene questo Davies. Per
come la mette lui, Davies è “uno di
quei tipi che vanno dritti al
dunque”. L’idea di Mallet è che
Davies abbia sparato la domanda a
bruciapelo – vuole venire in
Inghilterra? – mettendo
Ramanujan alle strette. Ora, può
darsi che Ramanujan dicesse sul
serio quando ha risposto di no. Ma
può anche darsi che lo abbia detto
automaticamente. O perché il
vecchio era con lui, e non voleva
arrecare offesa mostrando anche
solo di prendere in considerazione
l’offerta.»
«Allora vuol dire che potrebbe
essere convinto a cambiare idea?»
«Forse. Disgraziatamente, i tuoi
buoni uffici stanno lavorando
contro di noi. Da quando hai
scritto – proprio perché hai scritto
– la sua situazione è notevolmente
migliorata. Sembra che alcuni dei
funzionari britannici laggiù si
picchino di essere dei matematici,
anche se solo amatoriali, così
quando hanno sentito che gli avevi
dato il tuo imprimatur, per così
dire, hanno portato la tua lettera
all’università e hanno sollevato un
polverone, dicendo che se
l’università non faceva attenzione
l’India avrebbe perso un tesoro
nazionale. E l’università ha
capitolato, alla semplice menzione
del tuo nome. Sapevi di poter
esercitare tanto potere?»
«Non ne avevo idea. Qual è il
risultato?»
«Gli hanno dato una borsa di
studio come ricercatore e lui ha
lasciato il lavoro al Porto di
Madras.»
«Quanto gli danno?»
«Mallet non lo sapeva.
Probabilmente è una miseria per i
nostri standard. Comunque gli
basta per tirare avanti. Ha una
famiglia da mantenere. Genitori,
fratelli, una nonna. E,
naturalmente, una moglie.»
«È sposato?»
Littlewood annuisce. «La moglie
ha quattordici anni.»
«Santo cielo!»
«È normale da quelle parti.»
Hardy allontana il piatto mentre
Littlewood continua a masticare.
Non vuole più il cervo adesso.
«E adesso che succede?»
«Succede» dice Littlewood «che
qualcuno dovrà andare in India a
convincerlo. Qualche volontario?»
Hardy tace.
«In questo caso» dice
Littlewood, con la bocca piena di
carne, «il nostro amico Neville si
troverà ad avere molti più problemi
di quanti ne avesse messi in
conto.»
4

Dopo cena Hardy scrive a Neville,


che ha invitato lui e Littlewood per
un tè il sabato seguente. Neville è
sposato da quattro mesi, e si è
appena trasferito con la moglie in
una casa di Chesterton Road,
vicino al fiume. Il suo salotto ha
l’aspetto tirato a lucido di uno
spazio appena arredato, in questo
caso in stile artistico, con carta da
parati William Morris tra il viola e
il blu e buffet lucidati a ebano, à la
japonaise. In mezzo alla stanza
spicca un divano di quercia con lo
schienale a stecche e tavolini
laterali. Un Voysey,
probabilmente. Hardy e Littlewood
lo guardano con diffidenza, poi
optano per un paio di poltrone
tappezzate in tinta che sembrano
ritrarsi dal divano come zitelle
vittoriane da un dipinto neo-
espressionista. Indubbiamente,
come il vecchio pianoforte contro
la parete di fondo, sono un’eredità.
Sul tavolo tra loro c’è una pila di
libri: l’ultimo romanzo di H.G.
Wells, Alice nel paese delle
meraviglie, un trattato in tedesco
sulle funzioni ellittiche. Dalla
finestra entrano zaffate di profumo
di rosa e anche i fumi di scarico
delle rare automobili che scendono
per Chesterton Road.
Appare una cameriera paffuta.
«Il signore e la signora
scenderanno tra poco» dice, prima
di trottare in cucina a prendere il
tè. Come se lui e Littlewood, pensa
Hardy, fossero una vecchia coppia
di coniugi venuti a far visita agli
sposi novelli. E perché no? Per
come stanno le cose, è
perfettamente sensato invitarli
insieme. Recentemente un
portinaio è venuto da lui,
grattandosi la testa perché aveva
ricevuto una lettera indirizzata a
“Hardy-Littlewood, Trinity
College, Cambridge”.
Non dall’India. Non quella
volta.
Mentre aspettano, non dicono
una parola. Littlewood ha le gambe
accavallate e sta facendo roteare il
piede, comodo nella scarpa lustra,
in senso orario.
«Herbert, vieni a casa!» grida
una voce, e Hardy sente una palla
che cade e i passi di un bambino
mentre corre dentro.
Poi, all’improvviso, la casa si
anima di rumori. La cameriera
emerge dalla cucina, portando il
servizio da tè su un vassoio, e
Neville e la sua sposa scendono
dalle scale scricchiolanti. Hardy e
Littlewood si alzano in piedi.
Seguono le strette di mano e infine
si siedono tutti, i Neville di fronte
ai loro ospiti, sul divano di quercia.
Alice Neville ha i capelli rossicci e
crespi, raccolti sulla nuca e
leggermente umidi. Alcune ciocche
schizzano fuori qua e là, ribelli al
freno delle forcine. Indossa un
abito di velluto che non riesce a
nascondere l’ampiezza del suo
seno, ed emana lo stesso profumo
di violette di Parma che usa anche
la madre di Hardy.
Neville siede più vicino alla
moglie di quanto farebbe un uomo
sposato da più tempo. Ha
venticinque anni, le spalle curve, e
il viso ovale ha una fronte alta su
cui i capelli, ammassati sul lato
destro di una scriminatura
zigzagante, continuano a ricadere.
È talmente miope che, anche con
gli occhiali, è costretto a strizzare
gli occhi. Mentre la cameriera
porge loro le tazze, Neville lancia a
Hardy un sorriso a labbra chiuse
che è al tempo stesso distaccato e
bonario, furbesco eppure privo di
qualsiasi ironia. Una cosa c’è da
dire di lui: a differenza di
Littlewood o di Bohr, Neville è
felice. Quasi spensierato. Forse è
per questo che non diventerà mai
qualcuno. Non abbraccia la
solitudine, e tanto meno la
sofferenza. Ama troppo il mondo.
«Bene, ho letto le lettere» dice,
«e capisco che cosa vi ha così
eccitato.»
«Davvero!» dice Littlewood. «Ne
sono davvero felice!»
«Ci sono stati nuovi sviluppi
dall’ultima volta che ci siamo
parlati» dice Hardy.
«Ah sì? Grazie, Ethel.» Neville
accetta una tazza.
Littlewood ripete ciò che ha
saputo all’India Office sul veto
braminico contro la traversata
dell’oceano.
«Oh, sì» dice Mrs. Neville.
«Ricordo di aver letto qualcosa in
proposito. Mio nonno è stato in
India. Grazie, Ethel.»
«Alice verrà con me a Madras»
annuncia con orgoglio Neville.
«L’idea mi emoziona molto. Ho
una zia che era molto avventurosa,
ha fatto un safari in Africa e ha
attraversato la Cina per conto suo,
accompagnata solo da un’amica.»
«La sua presenza in India, Mrs.
Neville, potrebbe risultare
preziosa» dice Littlewood,
chinando la testa sulla tazza.
Lei arrossisce. «Veramente? E
come? Non sono un matematico.»
«Ma sarete voi due, giusto, a
fungere da emissari. E un viso
grazioso potrebbe fare tutta la
differenza.»
«Suvvia, Littlewood, non sono
così brutto» protesta Neville.
«Lasciamo che siano le signore a
pronunciarsi sulla tua beltà.»
«In ogni caso» dice Hardy, «non
sappiamo con certezza fino a che
punto fosse serio quando ha detto
che non poteva venire. Forse teme
di recare offesa, diciamo così, agli
anziani della sua tribù.»
«Una cosa che sta diventando
sempre più chiara è che
Ramanujan è a dir poco…»
«… suscettibile.»
«E noi cosa possiamo fare?»
«Incontrarlo. Vedere se è
proprio quel che pensiamo e, se lo
è, vedere se riuscite a convincerlo a
venire.»
«Ma come facciamo? Se la sua
religione non glielo consente…»
«Abbiamo motivo di credere che
potrebbe essere più flessibile in
fatto di religione di quanto
suppongano le autorità locali» dice
Hardy.
«È sposato?» chiede Mrs.
Neville.
«Oh, sì. Sua moglie ha
quattordici anni.»
«Quattordici!» esclama Neville.
«Ma presumo che sia comune in
India.»
«Di solito il matrimonio si
celebra quando la sposa e lo sposo
hanno circa nove anni» dice Mrs.
Neville. «Ma poi la sposa resta con
la sua famiglia fino alla pubertà.»
«Che idea!» Neville mette il
braccio intorno alle spalle di Alice.
«L’unico guaio, Alice, è che
quando io e te avevamo nove anni
io sarei fuggito da te urlando. Da
qualsiasi bambina, in realtà.»
«Mi avresti odiata, quando
avevo nove anni. Ero un
mucchietto di ossa con le treccine.»
«Come stava dicendo
Littlewood» s’intromette Hardy,
«da quando ho scritto a
Ramanujan la sua situazione è
migliorata. Ma anche così, non c’è
niente per lui laggiù. Lui ha
bisogno di stare in un posto dove ci
siano uomini che possono lavorare
con lui. Uomini al suo livello. O
forse, dovrei dire, uomini che si
avvicinano al suo livello.»
Neville alza le sopracciglia.
«Questo sì che è un grande elogio»
dice. «Bene, faremo tutto il
possibile, ve lo assicuro.»
«Sì» conferma Mrs. Neville.
«Devo ammettere che non vedo
l’ora di conoscere Mr. Ramanujan.
E forse anche Mrs. Ramanujan.»
«La madre?»
«Anche lei.»
Neville ride, e bacia sua moglie
sulla guancia.
«Allora, pensi che ce la farà?»
chiede Hardy a Littlewood, mentre
s’incamminano per Magdalene
Street.
«Se non lui, di sicuro sua
moglie.»
«Continui a dirlo. Temo di non
riuscire a capirlo.»
«No, è probabile che tu non ci
riesca.»
Hardy lo guarda.
«No, non intendevo in quel
senso» dice Littlewood. «Il fatto è
che lei ha un’alta opinione di sé.
Più forte di quella di Neville.
Ricordati le mie parole, quella
donna è capace di persuasione.»
«Neville è così… educato.»
«Sì, lo è. Ma potrebbe non essere
un male. Come abbiamo scoperto
ultimamente, malgrado le sue
spacconate, il nostro amico indiano
si offende facilmente. Aquesto
punto potrebbe essere necessario
un tocco più delicato di quanto tu
o io possiamo offrire.»
«Mi congratulo per l’elegante
formulazione.»
«Non sto dicendo che noi siamo
dei bruti, o che Neville è un
rammollito… ma solo che… Be’,
tanto per cominciare, hanno più o
meno la stessa età. Sono nella
stessa stagione della vita, come
direbbe una mia amica.»
Hardy sorride debolmente. Si
rende conto che non deve dire che
sa benissimo chi sia “l’amica”.
Si avvicinano al Trinity. È la
stagione dei balli, e studenti in
tenuta elegante passeggiano per
strada, alcuni accompagnati da
giovani donne in abiti dalla vita
strettissima e con lo strascico. Il
sole è appena tramontato, la serata
è calda, la cena nella Hall li
aspetta. Ma nessuno a cui sedere
troppo vicini, come ha fatto Neville
con Alice. Non stasera, almeno.
Al cancello si salutano e
ciascuno ritorna nei suoi
appartamenti. Mentre si accomoda
nella sua poltrona, con Hermione,
Hardy sente un campanello
d’allarme.
È Gaye. Niente di gotico come il
busto che parla. Appare
semplicemente dall’ombra vicino
alla finestra, le mani intrecciate
dietro la schiena. Lo fa a volte.
«Harold» dice.
«Russell» dice Hardy.
Chinandosi su di lui, Gaye lo
bacia in cima alla testa. Indossa
una giacca da camera e la sua
cravatta Westminster. I suoi capelli
sembrano laccati. «Allora, mi par
di capire che l’amico indiano non
verrà» dice.
«Sembra di no.»
«E tu cosa provi?
Rincrescimento? Sollievo?»
«Rincrescimento, naturalmente.
È essenziale che venga a
Cambridge.»
«Via, Harold! Un ragazzo di un
piccolo posto di cui non hai mai
sentito parlare, sposato con una
bambina e vincolato a una
religione le cui dottrine trovi
assolutamente perverse. E, per
completare il quadro, non lo hai
mai visto. Potrebbe essere brutto
come il peccato.»
«È un genio, Russell. E sta
morendo laggiù.»
Gaye batte le mani. «Ma certo!
La tua vecchia pulsione a salvare la
gente. Fa miracoli ogni volta.
Come deve farti sentire bene.
Eppure dev’essere anche un peso.»
Strizza l’occhio. «Peccato che tu
non sia riuscito a salvare me.»
Hardy si alza, scostando
Hermione dalle ginocchia.
«Russell…»
Ma Gaye è sparito. Hermione,
scompigliata, scivola verso l’ombra
da cui era emerso il suo padrone, e
nella quale è scomparso. In
mortem, a quanto pare, Gaye è
deciso ad avere ciò che così
raramente ha avuto in vita: l’ultima
parola.
5

New Lecture Hall, Università di


Harvard
Nella conferenza che non tenne,
Hardy disse:
Da bambino credevo in più cose
di adesso. Tanto per cominciare,
credevo nei fantasmi. Questo
soprattutto grazie a mia madre, che
quando ero molto piccolo mi disse
che un fantasma infestava la nostra
casa a Cranleigh, il fantasma di
una ragazza che era morta di tifo
nella mia stanza, molti anni prima,
alla vigilia del suo matrimonio. Né
Gertrude né io avevamo mai
incontrato il fantasma, il cui
comportamento, diceva mia
madre, in genere era benevolo.
Ogni tanto – ma solo quando mia
madre era sola in casa – il fantasma
suonava al piano una melodia
tintinnante che mia madre non
riconosceva e che sembrava stonata
anche quando il pianoforte era
appena stato accordato. Oppure
pestava i piedi, come un bambino
che fa i capricci. Mia madre ci
riferiva doverosamente i suoi
incontri col fantasma (ma non ne
parlava mai con nostro padre); noi
l’ascoltavamo con la benevola e
condiscendente pazienza di una
governante che metta a letto un
bambino irrequieto che sta
raccontando delle frottole. Anche
allora, infatti, mia sorella e io
eravamo razionalisti convinti e
davamo per scontato che lo fosse
anche nostra madre, e che ci
raccontasse queste storie solo per
divertirci e incantarci; una volta
però, tornando a casa da scuola, la
trovai bianca come un lenzuolo,
che fissava il piano sconvolta.
La cosa più strana è che penso di
aver creduto nel suo fantasma più
di quanto ci credesse lei. E questo
sebbene non avessi mai avuto un
incontro diretto con la creatura che
era morta nella mia camera da
letto. Oggi, se fossi costretto a
scegliere tra il cristianesimo e quel
programma occulto che attribuisce
ai morti la capacità di tormentare e
consolare i vivi, o di trasmettere
messaggi criptici attraverso la
barriera che divide il loro regno dal
nostro, o di trasferirsi nel corpo di
animali, o negli alberi o negli
armadi, propenderei ancora per i
fantasmi. L’idea che uno spirito
possa attardarsi su questa terra,
intuitivamente mi sembra molto
più sensata della visione che ci
impone il cristianesimo, di un
paradiso vago e noioso e di un
inferno terribile e affascinante.
Non che io abbia una grande
esperienza personale di fantasmi.
Le uniche “visitazioni” che io abbia
mai ricevuto si sono verificate nel
corso del decennio successivo alla
morte del mio amico Gaye. Ogni
volta che Gaye “appariva” in quegli
anni, innanzitutto mettevo in
dubbio la mia sanità di mente e mi
chiedevo se non avrei fatto meglio
a precipitarmi nel più vicino
manicomio, o a Vienna. Poi
mettevo in dubbio il mio
razionalismo, e mi chiedevo se
avrei dovuto telegrafare a O.B., che
era un affiliato della Società per la
ricerca psichica. Poi mettevo in
dubbio i miei stessi dubbi: dopo
tutto, cos’era questa apparizione, se
non la tardiva espressione di un
vecchio impulso, quello che induce
un bambino che si sente solo a
inventarsi un amico immaginario?
Gaye infatti mi mancava
terribilmente in quegli anni; mi
mancavano la sua voce, la sua
lingua tagliente, e il suo rifiuto di
sopportare gli sciocchi. Non ero un
idiota. Non lo evocavo perché mi
consolasse o mi rassicurasse. Al
contrario, volevo che mi dicesse la
verità, anche quando era brutale.
Le sue visite non solo mi facevano
sentire meno solo, ma
contraddicevano una dottrina che
lo avrebbe condannato, per una
sfilza di ragioni, al regno cupo e
terribile di un inferno alla Bosch,
invece di consentirgli di fluttuare
su Cambridge in giacca da camera
e cravatta Westminster, osservando
i nostri giochetti con divertito
distacco. Allo stesso modo,
sospetto che il fantasma di mia
madre, ucciso alla vigilia del suo
matrimonio, rappresentasse per lei
un matrimonio ideale tanto più
affascinante in quanto era stato
preservato per sempre nell’aura
dorata dell’imminenza.
Come me, Gaye era ateo. Come
diceva lui stesso, la sua guerra con
Dio risaliva alla sua infanzia.
Secondo la nostra educazione
religiosa, Dio avrebbe dovuto
essere un’entità che non era né
animale né uomo, e tanto meno
una combinazione dei due. E Dio
non era neppure una pianta.
Questa entità in teoria esisteva
come esistete voi o io o il sole e le
stelle, ma non come esistono re
Lear o la piccola Dorrit o Anna
Karenina. E Gli si attribuiva una
mente, non dissimile dalle nostre
menti, ma più grande, poiché
aveva creato voi e me e il resto
dell’universo.
Gaye non accettava niente di
tutto questo. E nemmeno io. Non
ho mai capito come possa farlo una
persona sana di mente o razionale.
Indubbiamente tra un centinaio di
anni solo le persone più primitive
continueranno a adorare il Dio
cristiano, e allora la nostra
mancanza di fede sarà vendicata.
Stranamente, date le sue
presunte vedute liberali, a
Cambridge l’ateismo era molto mal
visto. Perfino nella Società erano
pochi quelli che ammettevano di
essere atei. I confratelli invece non
facevano che impacchettare il loro
scetticismo religioso in vaghe
dichiarazioni “emotive” su “Dio” e
“il Paradiso”. Quella merda di
McTaggart, per esempio, con il suo
comodo piccolo Trinity College a
fungere da paradiso, e tutti gli
arcangeli laureandi che si
inchiappettavano tra loro mentre
serafini e cherubini servivano tazze
di tè; o Russell, che a sua volta
immaginava l’universo simile al
Trinity: freddo e distaccato,
traboccante di inefficienza,
arrogante. La sua idea era che ciò
che conta nella religione non sia la
specificità del dogma ma i
sentimenti che stanno alla base
della fede: sentimenti, nelle sue
parole, «così profondi e istintivi da
restare sconosciuti a coloro le cui
vite sono costruite sulle loro
fondamenta».
Come immagino avrete già
capito, io non ho niente a che fare
con questi sforzi per tener buoni i
preti. Qualsiasi tipo di devozione
cristiana, a mio avviso, è una
bestemmia contro il pensiero.
Credo che neppure Ramanujan
fosse particolarmente devoto, a
dispetto di tutte le sciocchezze che
diceva a proposito della dea
Namagiri e quant’altro. Diceva solo
ciò che gli avevano insegnato a
dire, e se ci credeva in qualche
misura, ci credeva come io credevo
nel fantasma di Gaye.
Quello che non sono mai
riuscito a capire è come Dio possa
diventare reale per il non credente
quanto lo è per il credente.
Lasciate che vi faccia un
esempio. Nella primavera del 1903,
in un soleggiato pomeriggio
all’inizio della stagione del cricket,
andai al Fenner’s a vedere una
partita. Ero di buon umore. Quel
giorno il mondo, cosa rara, mi
appariva benevolo e gentile. Ma,
appena ebbi preso posto, ecco che
cominciò a diluviare.
Naturalmente, non avevo portato
l’ombrello. Al diavolo, pensai, e
tornai a casa a cambiarmi.
Il pomeriggio della partita
successiva era egualmente radioso.
Questa volta, però, decisi di non
lasciarmi cogliere impreparato.
Non solo portai l’ombrello – un
aggeggio enorme, preso in prestito
da Gertrude – ma mi misi anche
l’impermeabile e le galosce. E,
neanche a dirlo, il sole brillò tutto
il giorno.
Il pomeriggio della terza partita,
mi arrischiai a non portare
l’ombrello. Piovve di nuovo.
Il pomeriggio della quarta
partita, portai non solo l’ombrello,
non solo l’impermeabile e le
galosce, ma anche tre pullover, una
tesi di laurea, e un saggio che la
London Mathematical Society mi
aveva chiesto di valutare per la
pubblicazione. Prima di uscire,
dissi alla cameriera addetta alle
stanze: «Spero che oggi piova, così
almeno riuscirò a fare un po’ di
lavoro».
Questa volta non piovve, e
riuscii a passare il pomeriggio
guardando la partita.
Da quel giorno in poi, etichettai
l’ombrello, le carte e i pullover
come “la mia batteria anti-Dio”.
All’ombrello attribuivo particolare
importanza. Per non doverlo
restituire a Gertrude gliene
comprai uno nuovo, con le sue
iniziali incise sul manico.
Di solito, in questa scaramuccia,
avevo la meglio su Dio. Ma a volte
Dio aveva la meglio su di me.
Un’estate, per esempio, ero
seduto al sole al Fenner’s con il
mio solito arsenale di pullover e
lavoro, a godermi la partita,
quando all’improvviso il battitore
depose la mazza e si lamentò con
gli arbitri che non riusciva a
vederci. C’era una specie di riflesso
che lo abbagliava. Gli arbitri
cercarono la fonte del riverbero.
Vetro? Non c’erano finestre su
quel lato del campo.
Un’automobile? Non c’erano
strade.
Poi lo vidi: ai bordi del campo
c’era un robusto vicario con una
croce enorme appesa al collo. Il
sole si rifletteva dalla croce.
Richiamai l’attenzione di un arbitro
su quel grossolano pendaglio, e il
vicario fu invitato, molto
gentilmente, a toglierselo.
Quel vicario: ricordo che, anche
se alla fine accondiscese alla
richiesta dell’arbitro, prima pensò
bene di protestare e discutere e
negare. Non intendeva rinunciare
alla sua croce senza discutere.
Naturalmente aveva un sedere
enorme. Apparteneva a quella
categoria di uomini che chiamo i
“gran-deretani”, col che mi
riferisco a un tratto spirituale oltre
che fisico: una certa compiacenza
che deriva dall’avere sempre un
posto assicurato nel mondo. Dal
non dover mai lottare o sentirsi
degli esclusi.
Non posso attribuirmi il merito
dell’espressione. Circola al Trinity
fin dal XVIII secolo, e si può farla
risalire, mi si dice, a un geologo di
nome Sedgwick. «Nessuno» pare
abbia detto, «ha mai avuto
successo a questo mondo senza un
gran deretano.»
Naturalmente il mondo è pieno,
e lo è sempre stato, di matematici
dal gran-deretano, la maggior parte
dei quali afferma di credere in Dio.
E come fanno, mi sono chiesto
spesso, a conciliare la fede con il
loro lavoro? La maggior parte non
ci prova nemmeno. Archiviano la
religione in un cassetto e la
matematica in un altro. Archiviare
le cose in cassetti diversi e non
pensare alle contraddizioni è un
tratto caratteristico dei gran-
deretani.
Alcuni, però, non si
accontentano di questa soluzione.
Questi matematici sono per molti
versi ancor più esasperanti, in
quanto cercano di spiegare la
matematica in termini di religione,
come un aspetto di quello che
chiamano il “grande disegno” di
Dio. Secondo loro, qualsiasi teoria
scientifica può essere resa
compatibile con il cristianesimo in
quanto fa parte di un progetto
divino. Persino le idee di Darwin
sull’evoluzione, che sembrano
negare l’esistenza di Dio, possono
essere impastoiate in una dottrina
che vede Dio mescolare il brodo
primordiale, innescando il processo
di mutazione e di sopravvivenza
del più forte a ogni giro del suo
cucchiaio magico. Poi ci sono i
trattati che per qualche ragione i
gran-deretani sembra sentano
continuamente la necessità di
spedire proprio a me, offrendo
prove ontologiche dell’esistenza di
Dio. Li butto regolarmente nella
spazzatura. Perché tutti questi
sforzi per assimilare la matematica
a Dio fanno parte dello sforzo di
rendere la matematica utile, se non
allo Stato, allora alla Chiesa. E
questo non posso tollerarlo.
Solo una volta in vita mia, sono
fiero di dirlo, ho dato un
contributo alla scienza pratica.
Anni fa, prima che iniziassimo a
giocare a tennis insieme, Punnett e
io giocavamo a cricket. Un
pomeriggio, dopo la partita, mi
chiese di aiutarlo in una questione
relativa a Mendel e alla sua teoria
genetica. Un genetista con il
disgraziato nome di Udny Yule (la
guerra ci avrebbe poi reso nemici)
aveva pubblicato uno studio in cui
argomentava che, se come
suggeriva Mendel, i geni
dominanti vincevano sempre sui
geni recessivi, allora col tempo una
malattia nota come brachidattilia –
che portava a un accorciamento
delle dita delle mani e dei piedi, ed
era causata da un gene dominante
– sarebbe aumentata tra la
popolazione umana tanto che il
rapporto tra coloro che erano
affetti dalla malattia e quelli che
non lo erano sarebbe divenuto di
tre a uno. Sebbene non fosse
questo il caso, Punnett non sapeva
come confutare l’argomentazione.
Eppure io capii la risposta
immediatamente, e la scrissi in una
lettera che spedii a “Science”.
“Sono restio a intromettermi in
una discussione su materie di cui
non sono un esperto conoscitore”
scrissi, “e mi sarei aspettato che il
dato semplicissimo che vorrei
dimostrare fosse familiare ai
biologi.” Non lo era, sebbene “un
po’ di matematica delle tabelline”,
come ebbi a definirla, bastasse a
dimostrare che Yule si sbagliava e
che il rapporto sarebbe rimasto
immutato.
Con mia grande sorpresa, questa
letterina mi rese famoso
nell’ambiente della genetica. Ben
presto i genetisti presero a riferirsi
alla mia piccola prova come alla
“Legge di Hardy”, il che mi
imbarazzava, sia perché non avevo
mai desiderato in vita mia avere
qualcosa di così monolitico come
una legge intitolata a mio nome,
sia perché questa legge particolare
dava corpo a una teoria che è stata
usata con la stessa frequenza tanto
per dimostrare l’esistenza di Dio
quanto per confutarla.
Tuttavia ebbi un motivo per
rallegrarmene. Nel corso degli anni
avevo letto molti articoli di giornale
che criticavano quella che i medici
avevano appena iniziato a
chiamare “omosessualità”,
lamentandosi della sua prevalenza
e predicendo che se la
“predisposizione” già “in crescita”
avesse continuato a “diffondersi” lo
stesso genere umano avrebbe
rischiato l’estinzione.
Naturalmente, a mio modesto
parere, l’estinzione del genere
umano sarebbe immensamente
desiderabile, e gioverebbe non solo
al pianeta ma anche alle molte
altre specie che lo popolano. Ciò
nondimeno, il matematico in me
non poteva fare a meno di
impuntarsi di fronte all’errore che
stava dietro l’avvertimento. Era lo
stesso errore che era stato
confutato dalla Legge di Hardy.
Infatti, per la stessa ragione per cui
se Udny Yule fosse nel giusto
finiremmo con l’avere più
brachidattili che uomini e donne
con dita normali, se quegli articoli
fossero corretti gli invertiti
sarebbero presto più numerosi di
uomini e donne normali, mentre la
verità, naturalmente, è che il
rapporto resterà immutato.
Tuttavia, in definitiva, tutto
questo è irrilevante, ed è questa,
suppongo, la cosa rilevante, quella
che Ramanujan capì meglio di
chiunque altro.
Quando un matematico lavora –
quando, per come la vedo io, “si
immerge nel lavoro” – entra in un
mondo che, per quanto sia astratto,
gli sembra molto più reale del
mondo in cui mangia, parla e
dorme. Lì non gli serve un corpo. Il
corpo, con le sue blandizie, è un
impedimento. È stato sciocco da
parte mia, adesso lo capisco, anche
solo tentare di spiegare il tripos a
O.B. L’analogia regge solo fino a
un certo punto, e in matematica
non ci vuole molto prima di
raggiungere il punto in cui fallisce.
Questo era il mondo in cui
Ramanujan e io eravamo più felici,
un mondo tanto remoto dalla
religione, dalla guerra, dalla
letteratura, dal sesso e perfino dalla
filosofia, quanto lo era da quella
stanza fredda in cui, per tante
mattine, mi esercitavo per il tripos
sotto la guida di Webb. Fin da
allora, sapevo di matematici che
erano stati imprigionati perché
erano dissenzienti o pacifisti e che
poi si godettero la solitudine rara
che una prigione poteva offrire. Per
loro la prigione era una tregua
dalle distrazioni di doversi nutrire
e vestire, guadagnare dei soldi e
spenderli; una tregua, persino,
dalla vita, che per ogni vero
matematico non è il fine ultimo,
ma solo un elemento di disturbo.
Una lavagna e un po’ di gesso. È
tutto quel che ti serve. Non
pianoforti o ditali, o chiodi o
padelle. Non grossi martelli.
Certamente non una Bibbia. Una
lavagna e un po’ di gesso, e quel
mondo – il mondo reale – è tuo.
6

È il terzo giorno dopo il capodanno


del 1914, e Alice Neville –
ventiquattrenne e appena arrivata
a Madras – è seduta da sola nella
sala da pranzo dell’Hotel
Connemara, impegnata in una
battaglia con un corvo su una fetta
di torta. Dietro di lei un cameriere
in turbante agita un lungo
ventaglio di penne contro il corvo,
cercando di spingerlo verso la
finestra da cui è entrato. Ogni volta
che il cameriere cerca di
allontanarlo, però, il corvo svolazza
verso il soffitto. Poi, appena il
cameriere si gira, cala a picco sulla
torta. Sembra trarre un dispettoso
piacere dal gioco. E anche il
cameriere, che impugna il
ventaglio come una spada. E anche
Alice, che si sforza di non ridere.
Poco più in là, a un tavolo rotondo,
troppo grande per loro, tre signore
inglesi con tanto di cappelli ornati
da elaborate composizioni floreali,
inarcano le sopracciglia in ansiosa
disapprovazione mentre guardano
Alice scherzare con il cameriere e
con il corvo. Poi un secondo corvo
vola attraverso una delle alte
finestre, e punta con precisione da
gladiatore verso il loro tavolo.
Istantaneamente tutte e tre si
alzano e strillano. Sono vestite,
nota Alice, secondo la moda di
venticinque anni prima: vite alte
strette da corsetti, gonne con la
crinolina con l’orlo due centimetri
sopra l’alluce. Alice, invece,
indossa un abito morbido, color
giada, che sfiora il pavimento.
Scarpe piatte. («I tacchi sono un
disastro quando viaggi» le ha detto
sua zia Daisy.) Niente busti o
stecche. Ha i capelli ancora umidi
dopo il bagno. Non porta il
cappello e, cosa ancor più
scandalosa, è seduta da sola in una
sala in cui tutti gli altri occupanti, a
eccezione del terzetto di signore,
sono uomini. Alice è una ragazza
più a posto di quanto non
pretenda: per esempio, non è mai
andata a letto con nessun uomo
oltre a suo marito, e non intende
farlo. Tuttavia, si diverte a suscitare
un po’ di scandalo.
Adesso si porta una sigaretta alle
labbra, e il cameriere, prima ancora
che glielo chieda, si china ad
accendergliela. La sua vicinanza le
provoca un lieve fremito di piacere
che non fa niente per nascondere.
Dopotutto, il cameriere è scuro e
attraente, vestito di una tunica
bianca con fusciacche rosse e oro.
Le sue attenzioni per lei devono
suscitare l’indignazione del terzetto
di signore. Indubbiamente hanno
già etichettato Alice come una
“donna nuova”, anche se ormai in
Inghilterra la “donna nuova” non è
più tanto nuova. Anzi, il termine è
un po’ démodé. Però, se come lei
sospetta queste signore hanno
passato tutta la vita, o gran parte di
essa, in India, è naturale che siano
un po’ indietro sui tempi. Caspita,
per quel che ne sanno, Alice
potrebbe essere una giramondo
che raccoglie esperienze per un
libro di viaggio, qualcuno come la
scrittrice che si fa chiamare
“Israfel”, il cui libro è aperto sul
tavolo di Alice accanto alla
combattutissima torta. Israfel scrive
fingendosi un uomo. (Alice sa che
è una donna solo grazie a zia
Daisy, che si muove nella stessa
cerchia dell’autrice sotto
pseudonimo.) Per Israfel, gli anglo-
indiani sono spregevoli “primati
d’avorio” con carnagioni simili ad
“aringhe marinate o sogliole
bollite”. La tipica donna coloniale
“non ha mai letto niente, sentito
niente, o pensato niente, e, invece
di renderla incantevole, questo
stato di beata ignoranza la rende
solo noiosa”. Con quanta
reverenza, invece, Israfel descrive
le donne indiane “dai sari
sgargianti, le cavigliere che
tintinnano pigramente sulle loro
gambe brune, orecchini d’argento
al naso e lucidi occhi distaccati
cerchiati di kohl!”. Ammira le
“gonne ornate di fili d’argento e un
trionfo di gioielli falsi” di una
danzatrice nautch. Chiede:
“Pensate che porterebbe mai una
frangia finta o scarpe con i tacchi
alti?”.
Alice di sicuro non porterebbe
mai una frangia finta o scarpe con i
tacchi alti. Come zia Daisy, è una
ferma sostenitrice della riforma del
vestire. Perché, se una donna
indossasse scarpe col tacco alto,
come potrebbe girovagare per
Madras, come intende fare lei, e
come avrebbe già fatto, se il
direttore dell’albergo non le avesse
raccomandato così strenuamente
di prendere un gharry guidato da
un servitore dell’hotel, un uomo di
nome Govindran, scuro e ossuto
quanto il suo cavallo? «Non è
sicuro, per una signora inglese,
andare in giro da sola per Madras»
le ha detto il direttore, e l’ha
affidata a Govindran, troppo brutto
e devoto, presumibilmente, per
costituire una minaccia. E così
Alice ha esplorato Madras, non,
come sperava, da sola, e a piedi,
ma su una carrozza sgangherata
guidata da un vecchio con un
turbante sporco che – quando lei
gli dice che vuole scendere e
guardarsi un po’ in giro, strusciare
le sue gonne, almeno per un
momento, nella polvere dell’India
– si accovaccia per terra accanto al
suo veicolo e mastica una foglia
che gli macchia i denti di rosso.
Govindran è il suo più fedele
compagno in questo viaggio, più
del cameriere che la protegge dai
corvi, perfino più di Eric, che ha
visto a malapena da quando sono
arrivati. Quando fa una domanda
a Govindran, lui annuisce senza
dire né sì né no, ma ciondola la
testa in un modo che sembra una
via di mezzo. In sua compagnia, ha
alzato gli occhi su templi a
piramide decorati con schiere di
bassorilievi delicatamente dipinti:
divinità, cavalli, elefanti. Con
sorprendente abilità, ha aggirato gli
uomini dei risciò, i veloci e scalzi
rickshaw-wallahs (apparentemente
chiunque faccia qualcosa in India è
un wallah), ha tenuto a bada
manipoli di piccoli mendicanti che
cercavano di allungare le mani
nella carrozza per arraffare quel
che potevano e ha diviso la folla di
uomini e mucche, le seconde di
solito decorate in modo più
pittoresco dei primi, come Mosè
che divideva le acque del Mar
Rosso. Una volta si è fermato, e
insieme hanno guardato una
mucca, ingioiellata e piena di
campanelle che, legata a un palo,
mangiava pacifica il suo fieno. Dal
suo deretano erano caduti
beatamente erbosi panetti di
sterco, e tra le gambe un rivolo di
urina incredibilmente acre era
schizzato contro la polvere.
Ovunque a Madras ci sono
mucchietti di sterco di vacca da
aggirare accuratamente e pozze di
urina di vacca, che, secondo Eric,
la gente del posto mescola con il
latte e poi beve.
Quanto a Eric, è fuori tutto il
giorno a fare le sue lezioni alla
Senate House dell’università.
Come la maggior parte degli edifici
inglesi di Madras, anche questo è
imponente, pretenzioso e, per i
gusti di Alice, brutto come solo
l’architettura vittoriana può esserlo.
Come preferisce le strette stradine
di Triplicane, il tempio di
Parthasarathy con le sue divinità
che sembrano decorazioni da torta,
le case basse e le porte sopra le
quali, a mo’ di portafortuna, sono
dipinte croci contorte! Svastiche, si
chiamano. Questo, lo sa, è il
quartiere in cui vive Ramanujan,
forse dietro una di quelle porte
contrassegnate dalla svastica. La
Senate House, per contro, è un
guazzabuglio vittoriano, che
combina a casaccio guglie in stile
italiano con cupole a cipolla e
minareti. I muri sono di solidi
mattoni inglesi, e sebbene ci sia
l’occasionale strizzata d’occhio allo
stile indo-saraceno –
nell’imponente sala centrale le
colonne di pietra sono scolpite,
come le facciate del tempio, con
divinità e animali – l’effetto finale è
simile a quello del salotto di suo
nonno, in cui i tappeti indiani che
ha portato a casa dal suo periodo
di servizio a Jaipur sono sommersi
da un mucchio eterogeneo di
sgabelli e parafuoco di velluto e
credenze massicce piene di Royal
Worcester. Dappertutto in quella
stanza c’erano vasi di ceramica e
tende frangiate e centrini
poggiatesta macchiati di giallo
chiaro da anni di olio per capelli.
Dalla carta da parati, a disegni di
viole, emanava un odore debole
ma persistente di manzo bollito.
Nel suo diario, Alice ha scritto: “Il
salotto dei miei nonni era un
classico esempio di colonialismo
britannico, le spoglie esotiche
soggiogate e rese ordinarie da ciò
che c’è accatastato sopra”. Aspira a
scrivere, Alice. Aspira a diventare
una seconda Israfel.
Adesso sembra che i camerieri
siano finalmente riusciti a cacciare i
corvi dalla sala da pranzo. (Perché
l’albergo non appende
semplicemente delle tende a
perline?) Le signore anglo-indiane
sono in piedi, incerte, accanto al
loro tavolo; sembra che nel corso
del putiferio si sia rovesciata una
tazza, e adesso parecchi dei
camerieri stanno mettendo tovaglie
pulite e preparando l’argenteria.
Dall’aspetto, due delle signore
sembrano prossime alla sessantina,
ma la terza deve essere coetanea di
Alice, se non più giovane. Ma
ahimè, ha un’espressione non
meno censoria delle sue compagne
più anziane. Attraverso gli occhiali,
sta guardando Alice con
un’espressione di aperto disprezzo
cui Alice reagisce ordinando
audacemente qualcosa da bere. Il
cameriere che ormai considera suo
le porta un bicchiere di succo
giallognolo con dei pezzi di
ghiaccio.
Nonostante sia gennaio,
nonostante i ventilatori,
nonostante le finestre aperte, l’aria
è soffocante. Alice beve un sorso;
qualcosa di vischioso le scende in
gola, a un tempo aspro e quasi
insopportabilmente dolce. A parte
Alice e le signore, la sala da pranzo
è quasi vuota, il che non è affatto
sorprendente. Dopotutto chi può
aver voglia di un tè pomeridiano
con un’afa del genere? Dei pochi
uomini sparpagliati nella sala, a
leggere il giornale, nessuno sta
bevendo il tè. Solo le signore
bevono il tè. Stanno imburrando
panini. “Certe donne non si
vestono” ha scritto Israfel. “Si
infagottano.” Le vicine di Alice,
nelle parole di Israfel, sono
“infagottate nel tipico modo che
richiede che un valletto si sieda sul
coperchio quando chiude i bauli.”
Indubbiamente mangeranno pesce
e montone arrosto per cena. Ieri
sera anche lei ha chiesto allo chef
di preparare un piatto locale per sé
ed Eric – “Quello che mangia la
gente del posto” aveva detto – ma
lo chef, la cui pelle scura l’aveva
indotta a credere che fosse
indiano, si rivelò italiano, e così
furono loro serviti degli spaghetti.
Dalla borsa appoggiata accanto
alla sua sedia, Alice prende un
foglio e una penna. Spera che le
vicine pensino che sta scrivendo un
capitolo del suo libro di viaggio, un
capitolo su di loro, mentre in realtà
è solo una lettera a un’amica.
Cara Miss Hardy,
con ogni probabilità mio marito si è
già messo in contatto con suo fratello.
Ciò nonostante confido che lei non
disapprovi che le scriva per informarla
personalmente del nostro felice arrivo
a Madras. Sebbene il tempo che
abbiamo trascorso insieme, nelle
settimane precedenti alla mia
partenza, sia stato breve, posso dire
con certezza che dal momento del
nostro primo incontro ho provato per
lei un affetto di natura fraterna.
È troppo? La verità è che, a prima
vista, aveva trovato Gertrude
irritante, seduta com’era con le
gambe ripiegate sulla poltrona di
rattan del fratello, la gonna tirata
sulle ginocchia, e un gatto bianco
in grembo. Stava fumando,
soffiando anelli di fumo verso il
soffitto con impacciata apatia. I
suoi capelli lunghi erano raccolti in
trecce e suddivisi in sistemi distinti,
tenuti a posto da una batteria
complessa ed efficiente di forcine.
Quando Hardy le aveva presentate
– «Mrs. Neville, Mr. Neville,
questa è mia sorella, Miss Hardy» –
Gertrude, dopo essersi districata
dalla sua posizione, si era alzata in
piedi, più scheletrica di suo
fratello, e un po’ più alta. Tutta
ossa. Tanto magra da far
vergognare Alice dei suoi fianchi
senza busto, la lieve rotondità del
suo ventre, l’indecorosa
protuberanza del suo seno. Eppure,
la cosa più inquietante di Gertrude
– Alice se ne accorse solo allora –
era il suo occhio sinistro. Non si
muoveva insieme al destro.
Spero che non si offenderà e non
disapproverà se, durante il mio
soggiorno qui, le scriverò ogni tanto
per condividere con lei quegli aspetti
della nostra avventura che potrebbero
non suscitare l’attenzione di mio
marito. I matematici sono più
intelligenti della maggior parte di noi,
ma Dio ci aiuti se Baadeker dovesse
chiedere loro di scrivere le sue guide!
Bella battuta. Ma lo penserà anche
Gertrude? Gertrude, lo sa bene,
scrive poesie. Poesie caustiche e
intelligenti. Poesie di un tipo che
tradisce un certo – come dire – un
certo sentimento ambivalente sulla
sua vita di insegnante d’arte in una
scuola provinciale per ragazze:
C’è una ragazza che non posso soffrire.
Il suo nome? Sarò discreta.
Mi servirebbe un certo savoir dire
dovessi mai incontrare i genitori!
«In matematica non son mai stata
brava» dice.
«Quando andava a scuola, il mio papà
non sapeva fare le addizioni!» Mi
piacerebbe dire:
“Allora era un idiota, il tuo papà!”.
Quando Gertrude mostrò ad Alice
questi versi, pubblicati sulla rivista
della scuola, Alice sorrise
debolmente. Come poteva
ammettere che anche lei non era
mai stata brava in matematica? Lei,
la moglie di un matematico! Alice
sospettava che Gertrude all’inizio la
disprezzasse perché era tutto ciò
che Gertrude non era: femminile,
fertile, amata da un uomo di cui
ricambiava l’amore. O forse
Gertrude la disprezzava perché era
sicura che Alice non potesse che
disprezzare quel fuscello vestito di
tweed che era lei. Questo sarebbe
stato ridicolo. La verità era che
Alice fin dall’inizio aveva solo
ammirato Gertrude, il suo spirito, il
suo umorismo fresco e a un tempo
tagliente. Ecco una donna che,
come Israfel, non sopportava gli
sciocchi, una donna magra come
un punto esclamativo, e altrettanto
enfatica. C’era una cosa da dire a
favore dell’invisibilità: Gertrude
poteva osservare il mondo dalla
sicurezza di angoli in ombra in cui
Alice, con i suoi fianchi larghi, non
si sarebbe mai potuta infilare.
Mi duole ammettere che non ho
ancora avuto il piacere di conoscere
Mr. Ramanujan. Comunque, Mr.
Neville deve incontrarlo oggi. Anzi, ho
il sospetto che Mr. Ramanujan
potrebbe essere la ragione per cui mio
marito è in ritardo per la cena in
albergo!
È crudele ricordare a Gertrude ciò
che lei, Alice, ha e Gertrude non
avrà mai? O, per essere più
accurati, ciò che Gertrude ha scelto
di non avere mai? Infatti, se è una
zitella, Alice ha il sospetto che lo
sia per scelta. Come suo fratello,
Gertrude si considera molto più
brutta di quanto in realtà non sia,
ed è forse questo il motivo per cui,
invece di trovare un lavoro a
Londra, ha scelto di vivere isolata
tra allieve che, se la ragazza della
poesia è un esemplare tipico, odia
cordialmente:
«Nel dettato ho preso due meno;
non c’è un verbo che conosca;
scrivo sempre il futuro
di “rego”, “regebo”.»
Suo fratello è altrettanto bizzarro.
Qualche mese prima che lei e Eric
salpassero per l’India, era venuto a
prendere il tè da loro con
Littlewood: i due, come disse in
seguito a Eric, si erano comportati
come una coppia sposata,
terminando le frasi che l’altro
aveva iniziato. «Non dirlo a
Littlewood!» aveva risposto Eric.
Hardy l’aveva ignorata per tutta
la durata del tè. Più di ogni altra
cosa, le ricordava uno scoiattolo,
vigile, indaffarato e timido al
tempo stesso. Aveva parlato solo
con Eric, e solo dell’indiano, che
secondo lui poteva essere un altro
Newton. Littlewood, se non altro,
aveva fatto uno sforzo. Aveva detto
che la carta da parati William
Morris era “molto artistica”. Si era
complimentato per il suo vestito e
le aveva detto che sarebbe stata
preziosa per suo marito nel viaggio.
La prego di dire a suo fratello che gli
porgo i miei più cari saluti e che può
star certo che mio marito e io faremo
tutto ciò che è in nostro potere per
persuadere Mr. Ramanujan a venire a
Cambridge. Detto questo, le confesso,
Miss Hardy, che la prospettiva mi
turba profondamente. Al pari di lei e
suo fratello, non mi considero una
cristiana, in nessun senso puritano.
Eppure mi domando se la nostra
decisione di vivere al di fuori dei
confini della religione organizzata ci
dia il diritto di considerare la
devozione di un altro superflua o
assurda.
Come una punizione, l’orologio di
una chiesa batte le cinque. Adesso
Eric è davvero in ritardo. Sebbene
non sia ancora calato il crepuscolo,
la luce che entra dalle finestre è
più soffusa. Alice vede
confusamente che gli uomini con i
giornali se ne stanno andando. Le
signore dai cappelli floreali stanno
armeggiando con le borsette,
preparandosi, senza dubbio, a
tornare dai mariti che aspettano la
cena. E all’improvviso Alice si
rende conto che quando le signore
se ne saranno andate, lei sarà
l’unica cliente a restare nella
grande sala. I camerieri, senza mai
tradire la loro impazienza,
continueranno ad accenderle le
sigarette, fingendo che non importi
che lei sia la sola a trattenerli dal
procedere col loro lavoro, dal
compito di rimpiazzare le tazze e i
cucchiaini da tè con i coltelli da
pesce, le forchette e i piatti per la
cena: gli interminabili cambiamenti
di una tavola apparecchiata che
rappresentano il passaggio del
mattino nel pomeriggio e poi nella
sera, di un giorno nel successivo…
È un particolare di cui scrivere? Il
suo bicchiere è quasi vuoto ormai.
Quel che resta del succo aspro e
zuccheroso è di un giallo pallido,
diluito dal ghiaccio. Guarda
l’orologio e scopre che Eric è in
ritardo di un’ora.
Quel pomeriggio a Cambridge,
quando loro quattro erano seduti
negli appartamenti di Hardy –
Hardy, Gertrude, Eric e lei – Hardy
disse una cosa che la turbò. Fu
prima che la conversazione cadesse
sul suffragio. Eric stava parlando
dell’austriaco Wittgenstein, e di
come avesse affermato che se fosse
stato possibile dimostrare che
qualcosa non poteva mai essere
dimostrato sarebbe stato felice di
saperlo. «Tu cosa ne pensi?» aveva
chiesto Eric a Hardy. Hardy aveva
risposto: «Io apprezzo qualsiasi tipo
di dimostrazione. Se potessi
dimostrare in base alla logica che
morirai nel giro di cinque minuti,
mi dispiacerebbe che tu debba
morire, ma il dolore sarebbe molto
mitigato dal mio piacere per la
dimostrazione».
Dopo, ci fu un attimo di silenzio.
Poi tutti risero. Gertrude,
raggomitolata sulla poltrona di
rattan, rise così forte che il gatto
saltò giù dalle sue ginocchia.
«Del resto i miei genitori non sanno
scrivere
o parlare una lingua straniera.»
Dolce fanciulla, quanto ci avrebbe
guadagnato il mondo
se entrambi fossero morti giovani!
Ma dov’è finito Eric? È stato
investito da un gharry? Giace privo
di sensi in un ospedale? Se è così,
le signore angloindiane potrebbero
essere d’aiuto. Sicuramente
conoscono dottori, magistrati. Ma
sono andate via. È sola con i
camerieri. Alza gli occhi al soffitto
e nota un altro corvo, che traccia
delle figure a otto tra le balaustre.
Le viene in mente una frase di
Israfel – “lo spirito della danza
personificato” – e poi, con una
grazia sinistra, il corvo scende in
picchiata e sfiora il suo tavolo,
capovolgendo il bicchiere, di modo
che l’acqua ingiallita si rovescia
sulla lettera che sta scrivendo, sul
libro, sulla tovaglia, e sulla sua
gonna.
Il cameriere torna all’istante,
armato di ventaglio. Mentre lo
agita alla volta del corvo, uno dei
suoi colleghi tampona il liquido
versato, scuotendo la testa e
mormorando delle scuse. Per la
prima volta, Alice nota i suoi denti
rossi. «Va tutto bene, non è
niente» gli dice, alzandosi incerta,
mentre sopra di lei, fuori portata, il
corvo vola in cerchi.
La sta guardando? Vuole
qualcosa da lei? Rientrando dagli
appartamenti di Hardy, aveva
chiesto a Eric dell’occhio immobile
di Gertrude, ed Eric aveva detto:
«È di vetro. Un incidente che risale
all’infanzia, ho sentito dire. E
pensare che è totalmente devota al
fratello!».
Il succo le ha macchiato il
vestito. Probabilmente lo ha
rovinato. Vorrebbe piangere o
gridare, perché la verità è che non
è una donna avventurosa, ma solo
una ragazza in una strana città,
una ragazza che non percorrerà
mai le stradine di terra di
Triplicane, non assaggerà mai un
piatto locale, non sarà neppure
abbastanza coraggiosa da
allontanarsi dallo sguardo
protettivo di Govindran. Le manca
zia Daisy. Le manca suo marito. Le
manca una bambola che aveva da
bambina.
Alice si allontana dal tavolo. È
ora di tornare nella sua stanza, di
cambiarsi d’abito, di fare quel che
può per salvare il libro di Israfel.
Eppure, per il momento non ha
voglia di tornare nella sua stanza.
Vuole restare lì dov’è, insieme ai
camerieri con loro fantastiche
tuniche. Eric entra trafelato, e lei lo
sente a malapena, mentre riempie
la sala echeggiante con le sue
scuse, la sua esuberanza, i dettagli
del suo incontro con l’indiano che
non può fare a meno di anticipare.
Lei gli ferma la mano mentre le sta
per cingere la vita; gli indica il
soffitto. «Guarda il corvo» dice. E
lui guarda.
«Come diavolo ha fatto
quell’uccellaccio a entrare qui
dentro?» chiede Eric. «Oh, cosa è
successo al tuo vestito?»
«Non è niente» dice lei. Ha
voglia di ridere, come rideva
Gertrude. Mano nella mano,
escono dalla sala da pranzo, Eric
parlando dell’indiano, Alice
ricordando come, mentre il fratello
si aggirava per la stanza, uno degli
occhi di Gertrude lo seguiva,
mentre l’altro rimaneva puntato su
un busto in cima al caminetto, un
busto con uno sguardo così deciso
e spietato che avrebbe giurato fosse
in grado di vedere.
7

19 gennaio 1914
Hotel Connemara
Madras
Mia cara Miss Hardy,
grazie infinite per la sua gentile
risposta alla mia lettera precedente,
che è arrivata solo ieri. Sono felice di
sapere che si sta riprendendo dal suo
raffreddore di testa, e spero che,
mentre le scrivo, non ci siano più
sintomi a disturbarla. Ringrazi anche
suo fratello per le gentili parole di
saluto. La prego di dirgli che mio
marito e io non vediamo l’ora di
rivederlo al nostro ritorno in
Inghilterra.
Sono particolarmente felice di
sapere che ho suscitato il suo interesse
per gli scritti di Israfel, il cui libro
Ivory, Apes and Peacocks ha significato
tanto per me in questo viaggio. Spero
che quest’opera sia per lei fonte di
piacere come lo è stata per me.
Purtroppo posso dirle poco della vera
identità dell’autore, salvo che, a
dispetto del nom de plume maschile, in
realtà è una signora, che mia zia Daisy
ha conosciuto di sfuggita. Per
rispettare il desiderio di questa signora
di restare anonima, zia Daisy si è
rifiutata di confidare il suo vero nome
persino a me. So però che è
appassionata di musica e che, tra le
altre opere, c’è una sua raccolta di
“Fantasie musicali” che include i
ritratti di Paderewski, De Pachmann e
Isaye. Lei va spesso ai concerti? Forse,
durante un weekend in cui saremo
entrambe a Londra, potremmo andarci
insieme. È un peccato che suo fratello
mostri così poco interesse per la
musica. Si può solo sperare che Mr.
Littlewood si dimostri un’influenza
positiva su di lui a questo proposito!
Ma passiamo ad altri argomenti: so
che Mr. Neville ha scritto a Mr. Hardy
per parlargli del suo incontro con il
genio indiano Ramanujan. Dei quattro
incontri che hanno avuto luogo finora,
io ho avuto il privilegio di partecipare a
due. Mr. Ramanujan è basso di statura
e robusto, con la pelle più chiara della
maggior parte dei suoi connazionali,
anche se è piuttosto scura per i nostri
standard. Ha un viso rotondo, con
sopracciglia basse sugli occhi, un naso
largo e schiacciato e la bocca sottile.
Gli occhi sono stupefacenti e scuri, ci
vorrebbe un Israfel per descriverli. La
fronte è rasata, ma tiene il resto dei
capelli raccolti sulla nuca in un ciuffo
chiamato kudimi. Veste in modo
ortodosso, in tunica e dhoti. Non porta
le scarpe, ma sandali leggerissimi.
Per fortuna, non appena mio marito
e io ci siamo seduti a prendere un tè
indiano con Mr. Ramanujan, ogni
allarme che il suo aspetto esteriore
avrebbe potuto suscitare in noi si è
dissipato. Raramente ho conosciuto un
uomo di tale garbo, fascino,
riservatezza, e delicatezza di modi.
L’inglese di Mr. Ramanujan non è
caratterizzato dall’accento della sua
lingua nativa ed è fluente, il suo
vocabolario molto più ricco di quello
di un comune lavoratore britannico. E
sebbene all’inizio possa risultare
timido, quando arriva a sentirsi a suo
agio con le persone in sua compagnia
si aprono le cataratte e lui si rivela un
parlatore straordinario.
Il nostro primo incontro ha avuto
luogo nella mensa della Senate House
dell’università, un edificio, se mi è
consentito dirlo, Miss Hardy, di
incomparabile bruttezza. Mio marito
ha iniziato la conversazione chiedendo
a Mr. Ramanujan di parlarci della sua
educazione, al che dalle sue labbra è
uscito un racconto fluviale di
frustrazione, delusione, e ingiustizia.
Proviene da una famiglia di casta alta
ma di pochi mezzi, ed è cresciuto nella
cittadina di Kumbakonam, a sud di
Madras, in una piccola misera casa su
una strada dal nome straordinario di
Sarangapani Sannidhi Street. È il
maggiore di tre figli. Il padre è un
impiegato contabile; dal poco che ha
raccontato di lui Mr. Ramanujan, è un
uomo di una modestia tale da
rasentare l’irrilevanza.
Per sua madre, invece, ha avuto solo
i più grandi elogi, spiegando che,
sebbene avesse ricevuto solo i
rudimenti dell’istruzione (una piaga
diffusa, debbo dire, tra le donne
indiane), questa signora aveva
mostrato fin dall’inizio una
comprensione intuitiva delle sue doti e
fatto tutto ciò che poteva per
incoraggiarle; vale a dire che, pur non
essendo in grado di aiutarlo nei suoi
studi, faceva in modo che, mentre lui
lavorava, la casa fosse silenziosa, i suoi
piatti preferiti fossero pronti e così via.
Era anche, ci ha detto, un’astrologa
provetta, e, fin dall’inizio, gli disse di
aver letto le sue stelle e che le sue stelle
dicevano che era destinato alla
grandezza.
Purtroppo i suoi insegnanti non
sono stati altrettanto solleciti con lui!
Forse le persone autenticamente
originali sono sempre condannate a
essere incomprese. Nel caso di Mr.
Ramanujan, il suo straordinario
talento è stato ampiamente ignorato. In
parte questo avvenne perché, fin dai
primi tempi della sua educazione
scolastica, l’intensità del suo interesse
per la matematica lo indusse a prestare
scarsa attenzione alle altre materie in
cui era tenuto a dar prova di una certa
capacità. Il risultato fu che non andò
bene come avrebbe potuto agli esami
necessari alla sua promozione.
C’è un aneddoto che ho trovato
particolarmente toccante. Come
premio per la matematica, un anno gli
fu regalato un volume di poesie di
Wordsworth. Un’antologia del genere,
che ciascuna di noi avrebbe avuto cara,
per lui non significava niente. Tuttavia
sua madre conservò gelosamente il
volume, e oggi ha il posto d’onore nella
piccola abitazione che Ramanujan
divide con lei, i suoi fratelli, sua
nonna, e sua moglie in un vicolo di
terra battuta chiamato
Hanumantharayan Koil Street.
Disgraziatamente, questa vittoria fu
un’eccezione in una carriera
contrassegnata più da
disincentivazione e fallimenti che da
sostegno e successo. Dopo aver
terminato quella che qui è nota come
la “scuola superiore”, Mr. Ramanujan
vinse una borsa di studio, prima per il
Government College di Kumbakonam,
e poi per il Pachayappa’s College di
Madras. In entrambe le occasioni, il
suo interesse per le proprie ricerche
matematiche era così divorante che
trascurò i suoi studi più ordinari, e finì
per essere bocciato agli esami e
perdere le borse di studio. Aquesto
punto, infatti, le sue esplorazioni
dell’universo matematico erano
l’unica cosa che avesse importanza per
lui.
Così si trovò alla deriva. Il sistema
educativo lo aveva rifiutato senza
appello, e lui si ritrovò ancorato, senza
mezzi di sussistenza, senza un reddito,
e senza prospettive, alla casa di sua
madre in Sarangapani Sannidhi Street.
C’è da chiedersi come fece, in tutto
questo, a conservare intatto il senso del
proprio valore. Cosa gli diede la forza
di perseverare, la fiducia in se stesso,
quando ogni autorità lo aveva rifiutato?
Questa è la seconda domanda che gli
ha fatto mio marito.
Prima di rispondere, Mr.
Ramanujan si è messo le mani sulla
testa e ci ha pensato un po’. Poi ha
guardato Mr. Neville negli occhi, e gli
ha spiegato che non poteva dargli una
risposta semplice. C’erano stati
momenti, disse, in cui la sua
disperazione era così grande che aveva
pensato seriamente di abbandonare
del tutto la matematica. In una o due
occasioni aveva contemplato il
suicidio. Ma poi era stato assalito da
una rabbia furibonda verso le
istituzioni che lo avevano giudicato
indegno, e colto da un’improvvisa
determinazione a dimostrare che
avevano torto.
Purtroppo, l’energia che queste
sfuriate suscitavano in lui dopo
qualche giorno invariabilmente si
esauriva. Più cruciale per la sua
capacità di tenere duro fu l’incrollabile
sostegno di sua madre, che lo
incoraggiò nel suo perseguimento di
materie che erano molto al di là della
sua portata, con le sue rassicurazioni e
le sue cure.
Tuttavia c’era anche un altro
elemento in questa sua resistenza in
quegli anni magri e infelici. Ed era
questo: molto semplicemente,
continuava a essere stregato dai
numeri. Nei suoi giorni di studente,
anche i suoi studi matematici erano
insoddisfacenti per lui, poiché era
costretto a battere sentieri noti e
impegnare la sua fertile
immaginazione in tediosi esercizi e
nell’esplorazione di un territorio di
scarso interesse per lui. Adesso che era
libero dall’accademia, finalmente
poteva fare ciò che voleva. Non era più
legato a istituzioni in cui non credeva
più di quanto esse credessero in lui.
Era invece libero di trascorrere le sue
giornate, come preferiva fare, seduto
sulla veranda della casa in cui aveva
passato l’infanzia, lavorando
alacremente a formule ed equazioni
sulla sua lavagna (non poteva
permettersi la carta), sognando e
inventando. Mi ha raccontato che i
suoi amici lo prendevano in giro
perché aveva un gomito nero; ci voleva
troppo tempo, ha detto, per cancellare
la lavagna con uno straccio, quindi
usava il gomito!
A questo punto penso che dovrei
chiarire, Miss Hardy, che la nostra
conversazione, quel pomeriggio, non
ha seguito esattamente le linee che ho
descritto. Sembrava invece che
Ramanujan fosse perennemente
distratto dal proprio avvincente
racconto da idee di interesse
matematico che questo o
quell’aneddoto gli avevano suscitato.
Allora condivideva queste idee con
mio marito, buttando giù cifre su pezzi
di giornale o di carta da pacchi (un
altro segno della sua povertà), e
insieme si lanciavano in discorsi che
per me non avevano né capo né coda,
finché Mr. Neville, notando la mia
confusione, riportava gentilmente la
conversazione sugli argomenti alla mia
portata. E sebbene apprezzassi il gesto
cortese di mio marito, mi dispiaceva
anche che il povero Mr. Ramanujan, in
virtù della mia presenza ignorante,
perdesse una rara opportunità di
diffondersi su materie che mio marito,
senza alcun dubbio, conosceva più a
fondo di chiunque il nostro indiano
avesse mai conosciuto. Invero, l’alto
grado di animazione di Mr.
Ramanujan durante questi scambi
matematici mi ha convinto che, se non
dovesse venire in Inghilterra, si
priverebbe di una fonte di nutrimento
essenziale.
Poi gli ho chiesto di sua moglie. Qui
lui si è accigliato. Come forse lei sa,
Miss Hardy, in India il matrimonio è
una faccenda molto più rituale che nel
nostro paese. Per esempio, quando Mr.
Ramanujan ha sposato Janaki (è questo
il nome della ragazza) lei aveva solo
nove anni. Il matrimonio è stato
organizzato tra le famiglie con la
consulenza degli astrologi. Prima delle
nozze, lo sposo e la sposa si sono
incontrati solo una volta; dopo –
sempre in osservanza della tradizione
– lei è tornata dalla sua famiglia, ed è
andata ad abitare a casa del marito
solo dopo aver compiuto i quattordici
anni.
Date le circostanze, ci si potrebbe
aspettare che Mr. Ramanujan
consideri sua moglie solo come un
accessorio o un impedimento. Invece,
con nostra sorpresa, ha parlato della
ragazza con affetto. È vero, il
matrimonio aveva comportato degli
oneri – non poteva più permettersi di
trascorrere le giornate sulla veranda a
occuparsi di matematica; avrebbe
dovuto trovare un lavoro e guadagnare
del denaro – eppure, pur riconoscendo
la gravosità di questi oneri, non ha mai
espresso la benché minima irritazione
nei confronti della ragazza che ne era
la causa. Fortunatamente, nel corso
degli anni, alcuni signori sia inglesi
che indiani, alcuni dei quali
matematici dilettanti, arrivarono a
riconoscere il genio di Ramanujan,
senza necessariamente afferrarne la
natura. Asua volta, Ramanujan finì per
dipendere da questi signori per un
sostegno non solo morale, ma a volte
anche finanziario. Uno di loro poi
ottenne per lui un impiego presso il
Porto di Madras, che gli consentì di
trasferire sua madre e sua moglie in
una casa a Triplicane, praticamente
all’ombra del tempio di Parthasarathy.
A questo punto, mio marito e io
siamo stati costretti a interrompere la
conversazione con Mr. Ramanujan,
che durava ormai da quasi due ore.
Prima di salutarci, però, Mr.
Ramanujan ha preso due quaderni
rilegati in cartone e li ha offerti a Mr.
Neville. Questi quaderni, ha spiegato,
contenevano il frutto delle sue fatiche
matematiche. Non gli dispiaceva
prenderli in prestito, ha chiesto, ed
esaminarli?
Mr. Neville ha spalancato gli occhi
per la sorpresa. No, ha detto,
restituendo i quaderni, in tutta
coscienza, non poteva prendere in
custodia qualcosa di così prezioso;
tuttavia Mr. Ramanujan ha insistito, e
siamo tornati in albergo, portando un
prezioso volume ciascuno. Cosa
sarebbe accaduto, mi chiedo adesso, se
il nostro gharry fosse stato investito da
un risciò, o se si fosse alzato un vento
improvviso e ci avesse strappato i
quaderni dalle mani? Più tardi mio
marito mi ha detto che considerava il
prestito il complimento più
sbalorditivo che gli avessero mai fatto.
Quella sera Mr. Neville non è
venuto a letto. È rimasto alzato fino
all’alba, a leggere i quaderni a lume di
candela. Quando mi sono svegliata la
mattina dopo, mi ha detto che li
considerava i documenti non
pubblicati più significativi che avesse
mai avuto il privilegio di consultare.
Anziché un compito oneroso, adesso
considerava suo preciso dovere
persuadere Mr. Ramanujan a venire a
Cambridge.
Lo abbiamo incontrato di nuovo il
pomeriggio seguente. Questa volta è
venuto lui al nostro albergo.
Nonostante l’atmosfera molto inglese
della sala da pranzo sulle prime
sembrasse metterlo a disagio, ancora
una volta, non appena si è seduto con
noi a bere il tè, si è visibilmente
rilassato.
Mr. Neville a questo punto ha
affrontato la spinosa questione: Mr.
Ramanujan avrebbe riconsiderato la
sua precedente decisione di non
venire in Inghilterra? Pur
comprendendo il suo timore di
infrangere una regola della sua
religione, eravamo convinti che, se
fosse rimasto in India, avrebbe fatto un
pessimo servizio tanto a se stesso che
al mondo in generale.
Al che, Mr. Ramanujan ha guardato
solennemente la sua tazza. Ho temuto
che Mr. Neville avesse passato il limite;
detto troppo. Infatti ero sul punto di
scusarmi, quando Mr. Ramanujan ha
alzato gli occhi dalla tazza e ha chiesto:
«Mr. Hardy non ha ricevuto la mia
ultima lettera?».
Mio marito ha risposto che non lo
sapeva. Non aveva notizie di Hardy da
quando eravamo arrivati.
Allora Mr. Ramanujan ha detto che
era preoccupato che Mr. Hardy
perdesse interesse in lui nel leggere
quella lettera, perché era scritta nel
suo inglese un po’ incerto; le sue
lettere precedenti, per come si è
espresso lui, “non contenevano il suo
linguaggio” ma erano “scritte da un
suo superiore”. Le aveva copiate nella
sua calligrafia. Mr. Neville allora gli ha
chiesto se questo “superiore” era lo
stesso con cui si era presentato al
colloquio con Mr. Davies del Comitato
Consultivo per gli Student Affairs. Mr.
Ramanujan ha ammesso che era la
stessa persona. E poi è venuta fuori
tutta la storia.
La situazione è e non è come
ipotizzava suo fratello. Mr. Littlewood
aveva ragione nel supporre che,
quando Mr. Davies, di punto in
bianco, aveva chiesto a Mr. Ramanujan
se desiderava andare a Cambridge, la
domanda lo aveva lasciato
disorientato. In ogni caso, non aveva
mai avuto la possibilità di rispondere
sì o no, perché prima che potesse
parlare, il suo superiore, Mr. Iyer,
aveva risposto per lui. La risposta era
stata un secco no.
Quanto a lui, è piuttosto confuso
sulla faccenda. Da un punto di vista
intellettuale, ammette, è decisamente
entusiasta di venire a Cambridge. Allo
stesso tempo, ha seri dubbi
sull’impresa. Per esempio, si chiede se
sarebbe obbligato a sottoporsi a un
esame come il tripos. (A quanto pare,
ha una paura tremenda degli esami.)
Mio marito gli ha detto che pensava di
no, ma avrebbe chiesto conferma a
Hardy.
Una preoccupazione più pressante è
la sua famiglia. Sua madre, a quanto
pare, è fortemente contraria a che suo
figlio vada in Inghilterra. Da un lato, le
sue obiezioni sono di ordine religioso;
come bramina ortodossa, condivide
con Mr. Iyer la convinzione che se Mr.
Ramanujan attraverserà l’oceano, si
condannerà a una specie di
dannazione spirituale. In termini più
pratici, comunque – e in questo, Miss
Hardy, non posso fare a meno di
condividere le ansie di una madre che
ha tanto sofferto – teme per il suo
benessere in Inghilterra, si preoccupa
di come farà fronte all’inverno inglese,
ha visioni di lui che viene costretto a
mangiare carne, e così via. Forse teme
anche che venga corteggiato da donne
inglesi. (Questa è solo una congettura,
basata sulla riluttanza di Mr.
Ramanujan a guardarmi negli occhi
quando parla di sua madre.)
Poi c’è il problema di Janaki, la sua
giovane sposa. Gli ha espresso il
desiderio di accompagnarlo in
Inghilterra, ci ha confessato; e sebbene
capisca perfettamente l’insensatezza,
se non l’impossibilità, di portarla con
sé, non vuole deludere la ragazza.
Andare in Inghilterra senza di lei,
oltretutto, significherebbe lasciarla
sola con sua madre, e dal momento
che, nelle famiglie indiane
tradizionali, la suocera comanda la
nuora col pugno di ferro, Mr.
Ramanujan è naturalmente
preoccupato delle possibili frizioni che
potrebbero esplodere tra le due donne,
soprattutto perché sembra che la
piccola Janaki sia una testa calda!
L’ultima perplessità – e che venga da
ultima mi pare, cara Miss Hardy,
significativo – è di ordine religioso. Sì,
anche lui, al pari di sua madre, teme le
conseguenze, sia sociali che spirituali,
della sua infrazione delle regole della
sua casta e la traversata dell’oceano.
Inoltre la sua ansia su questo punto va
ben al di là dei semplici scrupoli
religiosi.
Quello che segue indubbiamente
sembrerà strano a lei e a suo fratello.
Lo ammetto, all’inizio sembrava strano
anche a Mr. Neville e a me, e non solo
perché rivela l’abisso che separa
l’India dall’Inghilterra, ma anche
perché indica la profondità della fede
religiosa di Mr. Ramanujan. Ciò
nonostante le chiedo di leggere i
prossimi paragrafi con mente aperta.
Per dirla in parole semplici: Mr.
Ramanujan attribuisce le sue scoperte
matematiche non alla sua
immaginazione, ma a una divinità. Fin
dalla nascita, crede che lui, e gli altri
membri della sua famiglia, abbiano
vissuto sotto la protezione di una dea,
Namagiri, il cui spirito abita il tempio
di Namakkal, vicino al suo luogo di
nascita. Secondo Mr. Ramanujan, è
grazie all’intervento di Namagiri che fa
le sue scoperte matematiche. Lui non
ci “arriva” nel senso che lei e io
attribuiamo al termine, sono loro che
“arrivano” a lui. Gli vengono
trasmesse, di solito, mentre dorme.
Mentre Mr. Ramanujan descriveva
questo processo, mio marito ha riso,
dicendo che anche lui a volte ha “fatto
sogni” matematici. Ma Mr. Ramanujan
ha insistito nel distinguere i sogni
ordinari da quelle che ha chiamato
“visioni” inviategli da Namagiri. La
dea, come dice lui, “gli scrive i numeri
sulla lingua”. Il suo timore è che
Namagiri gli neghi il suo sostegno
divino, se lui viene in Inghilterra; e
sebbene capisca quanto ha da offrirgli
Cambridge, in termini di
riconoscimenti, incoraggiamento, e
istruzione, si chiede inevitabilmente a
cosa gli servirebbero questi vantaggi se,
in cambio, perdesse il suo accesso alla
fonte stessa delle sue scoperte.
Come abbiamo reagito a una simile
rivelazione? Mio marito, lo ammetto,
si è accigliato, non so se per lo
scetticismo o per lo stupore. Quanto a
me, ho provato una fitta di delusione,
dovuta, indubbiamente, alla mia
disposizione antireligiosa. Mi
sembrava folle che un uomo di così
palese intelligenza rifiutasse di
attribuirsi il merito delle proprie
scoperte. Infatti, quando l’incontro si è
concluso (con la questione della
venuta a Cambridge di Mr.
Ramanujan ancora in sospeso, dovrei
aggiungere) non ho potuto fare a meno
di confidare a mio marito che, almeno
per me, era difficile conciliare questa
attribuzione del genio a una fonte
esterna con l’innegabile orgoglio di
Mr. Ramanujan per le sue scoperte,
per non parlare del suo urgente
desiderio di essere riconosciuto,
vendicato persino, agli occhi delle
autorità indiane. Infatti, se quel che
affermava era vero, allora era a
Namagiri che andava riconosciuto il
merito di qualsiasi pubblicazione fosse
derivata dal lavoro di Mr. Ramanujan.
Erano le doti di Namagiri che
meritavano un riconoscimento, era
Namagiri che doveva essere portata a
Cambridge, anche se solo al Girton o
al Newnham!
Mio marito mi ha avvertito di non
aspettarmi troppo. Come mi ha
ricordato (e in questo ha perfettamente
ragione) noi siamo ancora stranieri
qui, sappiamo ancora troppo poco
della religione di Ramanujan. Può
darsi che Mr. Ramanujan sia
semplicemente ansioso di assicurarsi
che comprendiamo la profondità della
sua fede. Tuttavia, non posso fare a
meno di sospettare che il suo timore di
dare un dispiacere a sua madre sia
intimamente legato al suo timore di
dare un dispiacere alla dea. Vorrei
tanto poterle dire quale dei due timori
sia più importante o, oserei dire, più
reale.
Così stanno le cose mentre le scrivo.
Domani Mr. Neville si incontrerà,
ancora una volta da solo, con Mr.
Ramanujan. Speravamo di vederlo
prima, ma due giorni fa abbiamo
ricevuto un messaggio in cui ci
informava di essere stato costretto a
fare un viaggio imprevisto a casa sua,
in compagnia della madre. Credo
abbia in programma di tornare a
Madras all’inizio della prossima
settimana.
Mi spiace di non essere in grado di
darle notizie più decisive. Però la
prego di credere – e dica a suo fratello
di starne certo – che non appena
avremo avuto una risposta definitiva
da Mr. Ramanujan, la comunicheremo
con un telegramma.
Mr. Neville le invia i più cari saluti,
e mi chiede di ringraziare
infinitamente Mr. Hardy da parte sua
per il ruolo di “emissario” che gli è
stato assegnato. Entrambi facciamo i
nostri migliori auguri a sua madre e
speriamo che si ristabilisca. Quanto a
me, rimango, cara Miss Hardy,
la sua sincera amica
Alice Neville
20 gennaio 1914
Hotel Connemara
Madras
Caro Hardy,
ti scrivo di fretta, poiché tra poco
dovrò recarmi alla Senate House. So
che mia moglie è stata in contatto con
tua sorella. È una scrittrice assidua,
quindi lascio a lei il compito di fornire
i dettagli. La cosa importante è che
adesso ho letto tutti i quaderni, e il
loro contenuto è decisamente
straordinario. Quelle delle sue teorie
che non sono originali riflettono
alcune delle idee più fruttuose e,
oserei dire, più sovversive, già
sviluppate sul continente. D’altro canto
però, Ramanujan fa un sacco di errori.
Se acconsente a venire, cercherò di
spiegare a Dewsbury, il capo
dell’amministrazione universitaria di
qui, che, a causa della sua mancanza
di istruzione adeguata e via dicendo,
Ramanujan non ha ancora sviluppato
la facoltà di individuare il pericolo o di
evitare gli errori, ma che a Cambridge,
a contatto con i metodi appropriati,
diventerà sicuramente uno dei nomi
più eccellenti della storia della
matematica, fonte d’orgoglio per
l’università, per Madras e così via.
Allora forse riuscirò a convincerli a
stanziare dei fondi per la borsa di
studio.
Ed ecco una cosa che ti potrebbe
interessare: quando gli ho chiesto
quali libri fossero stati importanti per
lui nella formazione delle sue idee, ha
nominato, da non crederci, la Synopsis
of Pure Mathematics di Carr. Conosci
quel vecchio tomo spaventoso? Se è
l’unica cosa che ha letto, non c’è da
stupirsi che non sappia come si fa una
dimostrazione!
Infine, una domanda: una delle sue
(molte) preoccupazioni rispetto alla
sua venuta a Cambridge è che possano
obbligarlo a fare degli esami. Gli ho
detto che ti avrei interpellato per
rassicurarlo che non sarà necessario,
anche se sono certo che, con un po’ di
ripetizioni, straccerebbe tutti a un
tripos. Pensa se, ai vecchi tempi, fosse
stato un senior wrangler!
I miei rispetti a tua sorella, per la
quale mia moglie ha concepito un
affetto smodato.
Il tuo
E.H. Neville
8

«Ancora quel maledetto tripos»


dice Hardy, buttando sul tavolo la
lettera di Neville.
Gertrude alza gli occhi dal suo
lavoro a maglia. «In un modo o
nell’altro sospettavo che sarebbe
stata la prima cosa contro cui
andavi a sbattere» dice. «Allora,
deve farlo o no?»
«Certo che no! È una vergogna
che abbia sprecato il suo tempo
anche solo a pensarlo.»
«Allora non devi far altro che
scrivere a Neville e chiedergli di
dire a Ramanujan che non deve
sottoporsi all’esame.»
«Ma è un problema che non
doveva nemmeno presentarsi,
tanto per cominciare. Neville
avrebbe dovuto dirgli, chiaro e
tondo, che non era obbligato a fare
l’esame.»
«Forse non lo sapeva. O forse
non voleva dargli la risposta
sbagliata.»
«Allora avrebbe dovuto
telegrafarmi. Lo fa di proposito,
credo. Lo sai che è stato secondo
wrangler l’ultimo anno del vecchio
sistema. Probabilmente mi sta
punzecchiando.»
Gertrude riprende a sferruzzare.
È un freddo pomeriggio di sabato,
verso la fine di gennaio. Al
momento sono seduti uno di
fronte all’altro al tavolo di cucina
nell’appartamento piuttosto
squallido in St. George Square, a
Pimlico, che hanno affittato
insieme. Hardy ci sta quando è
impegnato con la London
Mathematical Society, e talvolta
subaffitta l’appartamento ad amici.
Gertrude lo usa per sfuggire, di
quando in quando, alle esigenze
della madre, che sta diventando
senile. Ogni tanto, si incontrano
qui per un fine settimana a
Londra, come stanno facendo
adesso, e solo il brutto tempo li ha
scoraggiati dall’uscire per andare a
teatro o al British Museum. Stanno
invece trascorrendo la giornata
guardando fuori dalla finestra il
nevischio che cade dal cielo, e
leggendo giornali e lettere, incluse
le due di Eric e Alice Neville. Il
che, a dire la verità, li diverte
molto più del British Museum.
«Sbaglio o Neville non ti piace
molto?» chiede Gertrude dopo un
po’.
«Non è che non mi piaccia» dice
Hardy. «È solo che non lo
considero particolarmente…
brillante.»
Gertrude si mette in bocca
l’estremità di uno dei ferri.
«Comunque si direbbe che lui e
Alice abbiano legato subito con
l’indiano» dice.
«Be’, sì, speriamo solo che non
leghino tanto da finire col dirgli
che dovrebbe restare a casa per
evitare una crisi spirituale.»
«A proposito, cosa ne pensi della
storia di Namagiri?»
«Penso che stia dicendo quel che
deve dire. Per compiacere sua
madre. Per compiacere i preti.»
«Ci sono preti nell’induismo?»
«Bah, ci sarà un equivalente.»
«La descrizione che Alice fa di
lui è sorprendente. “Robusto” lo ha
definito. Credo di non aver mai
visto un indiano grasso.»
«Il suo aspetto non ha nessuna
importanza per me.»
«Naturalmente.»
«Comunque, si direbbe che tu
abbia legato parecchio con Alice
Neville. Cos’è questa storia?»
«Si è presa quella che le mie
allieve chiamano una cotta per
me.»
«È una cosa lasciva?»
«Per favore, Harold! Il sesso non
c’entra. È semplicemente…
innamorata della mia intelligenza.»
«E com’è questa Israel, o come
diavolo si chiama?»
«Israfel. Non male. Buone
descrizioni dell’India» – di nuovo
con il ferro in bocca – «guastate da
un tocco un po’ troppo elegante.
Per esempio questa mania di
paragonare sempre tutto a
Chopin.»
«A Chopin, dici?»
«Sì, questo tempio assomiglia a
Chopin, il Taj Mahal ricorda
Chopin. Una bella stranezza, se
pensi che sta parlando dell’India.»
«Be’, come Miss Neville si
prende il disturbo di sottolineare»
dice Hardy, «io non ne saprei
niente di Chopin, ignorante come
sono in fatto di musica. Dio, ma
che tempaccio!» Percorre la breve
distanza verso il salotto, che è
arredato con pochi mobili e per
giunta freddissimo. Fuori dalla
finestra appannata, gli alberi di St.
George Square sono scheletrici
nella luce invernale. Per strada
passano automobili e carrozze, e
uomini che riparano donne con i
loro ombrelli mentre si affrettano
verso i portoni delle case.
Dopo qualche minuto, torna in
cucina, dove scopre che Gertrude
non si è mossa. Una tazza di tè
semivuota è appoggiata sul tavolo
accanto a una pila di giornali.
Raggomitolata nella poltrona col
lavoro a maglia, russa lievemente.
Ha un’aria felina e soddisfatta.
Le si siede di fronte. Acasa, la
casa dei genitori, vivevano più o
meno in cucina. Tutto sommato,
erano creature da cucina, lui e sua
sorella, ed è forse questa la ragione
per cui hanno preso questo
appartamento, che ha un salotto
minuscolo, e camere da letto ancor
più minuscole, ma una cucina in
cui ci sta un tavolo vero e proprio.
E così vengono a Londra, uno o
due weekend al mese; vengono
fino a Londra per poter stare…
seduti in una cucina. La vita di
Hardy a Cambridge è molto
impegnata, piena di amici e allievi,
di pranzi e riunioni. Per lui, questi
weekend sono una tregua. Anche
per Gertrude, sospetta, sono una
tregua; ma non dall’attività, dalla
noia. Non che lei disprezzi la St.
Catherine’s. Dai loro genitori ha
ereditato l’impulso pedagogico,
tuttavia lui sa che la indispettisce
doversi guadagnare da vivere
insegnando a delle ragazzine a
dipingere e a scolpire la creta. Un
lavoro che certo non soddisfa una
donna delle sue capacità
intellettuali, almeno così riflette
Hardy a volte, con un certo
distacco, durante le sue passeggiate
mattutine nel parco del Trinity.
Cos’altro potrebbe fare
Gertrude? Da bambina aveva
mostrato un talento per la
matematica, che però non si era
mai presa la briga di coltivare.
Scrive versi, di qualità irrilevante.
Una volta Hardy scoprì metà di un
romanzo che lei aveva scritto,
nascosto in un cassettone a casa dei
genitori. Lesse le prime pagine, che
gli parvero buone, ma poi, quando
le disse di aver trovato per caso il
manoscritto e le offrì quelle che
considerava delle critiche utili, lei
arrossì, gli strappò di mano il
manoscritto e scomparve in camera
sua. Da allora il romanzo non fu
più nominato (né visto).
Prima di vederla flirtare con
Littlewood, pensava che fosse una
seguace di Saffo. Come spiegare
altrimenti il fatto che non si era
sposata? Certo, esiliata com’era in
un’enclave femminile di campagna,
aveva ben poche occasioni di
conoscere uomini. D’altra parte,
però, avrebbe potuto insegnare
altrove, e non si può dire che
Bramley sia del tutto sprovvista di
uomini. Ci sono insegnanti maschi
alla St. Catherine’s, e ce n’è una
sfilza alla Cranleigh, di cui la St.
Catherine’s è la gemella femminile.
E uno o due di quegli uomini
potrebbero persino essere normali.
In ogni caso, Gertrude sembra
molto meno presa di Alice di
quanto Alice lo sia di lei. Poco
prima, gli ha letto ad alta voce le
lettere di Alice da Madras,
integralmente, intervallando la
lettura con sbuffi di derisione per
sottolineare i momenti in cui, a suo
parere, la prosa era particolarmente
idiota o pretenziosa. Povera Alice!
Come ci resterebbe male se sapesse
che le sue lettere, scritte con tanta
diligente attenzione, sono divenute
fonte di risate condiscendenti per
Hardy e questa sua sorella che lei
professa di ammirare tanto! Per
fortuna non lo saprà mai.
Comunque le sta bene, visto il tono
condiscendente che Alice usa
quando parla di lui! Soprattutto
quell’osservazione a proposito dei
concerti. Si offenderebbe se il suo
adorato Ramanujan si dimostrasse
indifferente alla musica? Certo che
no! Perché, nel caso di Ramanujan,
essere indifferente alla musica
sarebbe un’ulteriore dimostrazione
di genio maniacale…
«Basta!» dice Gaye, sbucando
all’improvviso dal ripostiglio delle
scope. «Falla finita. Sei
palesemente geloso. Ramanujan è
una tua scoperta, quindi non
sopporti che i Neville invadano il
tuo territorio.»
«Questo è ridicolo.»
«Non è ridicolo. Loro hanno un
vantaggio su di te, perché lo hanno
conosciuto e hanno creato un
rapporto intimo con lui, mentre tu
hai dalla tua solo una manciata di
lettere. Al che mi vien da dire, se
eri così deciso a tenertelo per te,
perché non ci sei andato tu, a
Madras?»
«Non avevo tempo.»
«Non dimenticare con chi stai
parlando, Harold. Il tempo avresti
potuto trovarlo. Solo che la paura
in te è pari al desiderio. Per questo
hai mandato Littlewood all’India
Office e Neville a Madras.»
«Non ce l’ho mandato io. Ci
sarebbe andato comunque.»
«Il risultato è lo stesso.»
Hardy storna gli occhi. La
perspicacia di Gaye, dopo la sua
morte, lo irrita quasi quanto lo
irritava quando era vivo. «Oh,
torna nel tuo ripostiglio insieme
alle scope» dice, ma quando si gira
l’ombra è già scomparsa.
Guarda Gertrude. Si è svegliata e
ha ripreso a sferruzzare.
«Bene, suppongo che non ci resti
che aspettare» le dice.
«Aspettare cosa?»
«Notizie dai Neville.»
«Ah, scusa, non avevo capito che
eravamo ancora su
quell’argomento.»
«La cosa strana è che con molta
probabilità la decisione è già stata
presa. Forse laggiù lo sanno già
tutti. E noi siamo qui ad aspettare
una lettera.»
«Non ha detto che avrebbe
telegrafato?»
«Secondo te manderebbe un
telegramma se fosse una cattiva
notizia?»
«Forse lunedì arriverà qualcosa.»
«Sì» dice Hardy. Quello che non
dice è: “Ma io come ci arrivo fino a
lunedì?”.
27 gennaio 1914
Hotel Connemara
Madras
Mia cara Miss Hardy,
senza dubbio il telegramma che ha
spedito mio marito sarà già arrivato,
pertanto avrà saputo la bella notizia.
Dopo un prolungato soggiorno nella
terra della sua dimora infantile, Mr.
Ramanujan è tornato a Madras e ha
informato mio marito che verrà a
Cambridge. Sebbene non conosca i
dettagli, suppongo che abbia trascorso
parecchi giorni al tempio di Namakkal,
a pregare la dea Namagiri perché lo
guidasse.
Comunque l’ostacolo più forte
rispetto alla sua decisione affermativa
è stata indiscutibilmente sua madre, e
solo dopo che quella buona signora ha
annunciato di aver fatto un sogno
favorevole lui è riuscito finalmente a
conciliare i suoi desideri con la sua
coscienza. In questo sogno, sua madre
ha detto di aver visto Mr. Ramanujan
in compagnia di gente bianca e di aver
udito la voce di Namagiri che le
ordinava di ritirare le sue obiezioni e
dare la sua benedizione al viaggio; nel
caso di Mr. Ramanujan, pare abbia
detto Namagiri, la proibizione di
attraversare l’oceano poteva essere
revocata, poiché il viaggio in Europa
era necessario per il compimento del
suo destino.
Non so dirle con quale gratitudine e
felicità Mr. Neville e io abbiamo
accolto il racconto di questa
inaspettata catena di eventi. Adesso
Mr. Neville dice che dobbiamo
concentrare tutti i nostri sforzi per
assicurarci che siano disponibili fondi
sufficienti, sia a Madras che a
Cambridge, per pagare il biglietto di
Mr. Ramanujan e per provvedere ai
suoi bisogni per tutto il periodo che
trascorrerà al Trinity.
Partiremo tra poche settimane, e
forse Mr. Ramanujan farà la traversata
con noi. Lasci che le ripeta, Miss
Hardy, quanto io e mio marito siamo
ansiosi di salutare lei e suo fratello al
nostro ritorno. Nel frattempo, resto
la sua affezionatissima amica,
Alice Neville
TERZA PARTE

Fatti allegri sul


quadrato dell’ipotenusa
1

Viene deciso che si incontreranno


a pranzo, un pranzo domenicale a
casa dei Neville, dove Ramanujan
sarà arrivato la sera prima. Hardy
detesta le presentazioni, la
formalità delle prime strette di
mano, le domande trite sul viaggio
e i colpetti di tosse che seguono. Se
fosse possibile (e forse un giorno la
fisica lo renderà possibile), gli
piacerebbe possedere un
marchingegno simile alla macchina
del tempo di Wells, ma a fini più
modesti, progettata in modo da
poter scavalcare i momenti più
imbarazzanti e atterrare in un
futuro più tollerabile.
Istantaneamente. Se uno avesse
una macchina del genere, non
dovrebbe aspettare che i risultati di
un esame gli vengano spediti per
posta, o giudicare se il “Ph.D.”
appena arrivato da Princeton
reagirà alle sue avance con favore o
con ostilità. Potrebbe invece tirare
una leva o premere un pulsante e
trovarsi già in possesso dei risultati
del suo esame, o diretto verso la
camera da letto con il “Ph.D.”
disponibile, o a casa al sicuro, dopo
essere stato respinto seccamente da
quello ostile. E sapendo di non
dover sottostare a tutte queste
cose, non dovrebbe temerle. Come
Hardy teme questo primo incontro,
questo primo pranzo con
Ramanujan.
Perché lo teme tanto? Troppe
aspettative, presume; troppe lotte
con le forze istituzionali, troppi
rimandi, e troppe lettere,
decisamente troppe. Un intero
fascicolo di lettere: da Neville, da
Alice Neville, da vari burocrati
della colonia, dallo stesso
Ramanujan. Guarda caso, trovare il
denaro per far venire Ramanujan
in Inghilterra si è dimostrato molto
più difficile che persuaderlo a
venire. Secondo Mallet, era
altamente improbabile che i fondi
sufficienti a mantenere uno
studente a Cambridge potessero
essere stanziati da Madras. Il
Trinity si era impegnato solo a
considerare l’eventualità di dare
una borsa di studio a Ramanujan
dopo un anno che era
all’università. Per non parlare
dell’India Office, che non avrebbe
sborsato nemmeno un penny.
Tanto per cominciare, aveva scritto
Mallet a Hardy, a suo parere
Neville aveva fatto un grave errore
a incoraggiare Ramanujan a venire.
C’era “il pericolo che uno studente
indiano contasse sulle gentili
rassicurazioni di Mr. Neville, e
credesse che per un docente di
Cambridge sarebbe stato facile
raccogliere il denaro necessario”.
Che, al di là delle cinquanta
sterline annue che lui e Littlewood
erano pronti a donare, il suddetto
docente di Cambridge non aveva.
Comunque, non appena Hardy
ebbe spedito precipitosamente una
lettera a Neville avvertendolo di
“essere cauto”, venne a sapere che
Neville, con le sue sole forze, era
riuscito a persuadere l’Università di
Madras ad assegnare a Ramanujan
una borsa di studio di
duecentocinquanta sterline l’anno,
un fondo per gli abiti di cento
sterline, i soldi per il suo biglietto
per l’Inghilterra, e uno stipendio
per mantenere la famiglia in sua
assenza. Tutto ciò che l’India
Office aveva assicurato a Hardy
non sarebbe mai stato fatto, Neville
lo aveva ottenuto nel giro di tre
giorni.
Neville l’eroe.
E adesso Ramanujan è in
Inghilterra e Hardy non lo ha
ancora incontrato faccia a faccia,
per vedere se nella realtà ha
qualche somiglianza con
l’immagine che ha creato la sua
fantasia: un’immagine cui hanno
indubbiamente contribuito le
descrizioni dei Neville, ma anche
(non può negarlo) lo spettacolo
infinitamente affascinante del
giocatore di cricket Chatterjee.
Non che sia stato facile forgiare da
questi indizi frammentari e non
sempre lusinghieri una faccia su
cui poteva posarsi, se non altro,
l’occhio della sua mente. Neville
non è certo quel che si dice un
cesellatore di parole. «Robusto,
scuro» ha detto quando è tornato
da Madras. Bene, e poi? Alto? Per
niente. Con i baffi? Forse. Neville
non riusciva a ricordarlo. Hardy
aveva pensato di chiedere a Mrs.
Neville ma, così facendo, temeva di
tradirsi, di rivelarle un’ansia che
lei, a differenza del marito, sarebbe
stata abbastanza perspicace da
cogliere. Così ha tenuto la bocca
chiusa e ha cercato di accontentarsi
di quel poco che gli era stato dato.
Questa settimana, guarda caso,
Hardy è a Londra da solo,
nell’appartamento di Pimlico.
Anche Ramanujan è a Londra. La
sua nave ha attraccato martedì.
Neville è andato a prenderlo con
suo fratello, che ha un’automobile,
dopodiché lo hanno portato
immediatamente al 21 di
Cromwell Road, di fronte al Museo
di Storia Naturale. La National
India Association ha i suoi uffici lì,
e anche alcune stanze che mette a
disposizione degli studenti indiani
appena sbarcati dalla nave per
facilitare la loro transizione alla vita
britannica. Hardy è andato a
Londra per Pasqua e si è trattenuto
in città: aveva bisogno di un
cambiamento d’aria rispetto a
Cambridge, ha detto alla sorella. E
se, nel corso della settimana, gli
capitasse qualche volta di passare
davanti al Museo di Storia
Naturale, di guardare il numero 21
dall’altra parte della strada e
osservare gli indiani che entrano
ed escono dal portone principale,
che male ci sarebbe? È naturale che
si chieda se riconoscerà
Ramanujan, che provi a vedere se
la sua faccia corrisponde all’idea
che si è fatto di lui. Un genio. Che
aspetto ha un genio? Che aspetto
ha lui stesso? Hardy, il tipico
scienziato dai capelli arruffati, che,
quando appare nell’occasionale
vignetta di “Punch”, di solito ha lo
sguardo perso oltre la punta della
sua pipa, la giacca abbottonata
storta e le stringhe delle scarpe
slacciate. Sopra la sua testa c’è un
turbinio di numeri, segni di
interpunzione, simboli logici e una
nuvola di lettere greche, il tutto per
illustrare la sua distanza dalle
preoccupazioni terrene e il suo
soggiorno in un regno a un tempo
troppo complesso e troppo noioso
per meritare la fatica di entrarci. Lo
scienziato, in queste vignette, è
insigne e ridicolo. Genio e
barzelletta. Mentre per quelli che si
riferiscono a se stessi come a “noi”
Hardy è ciò che definirebbero “il
nostro tipo”.
E com’è Ramanujan? Fermo di
fronte al 21 di Cromwell Road,
Hardy non ne ha idea. Forse è uno
di quelli che entrano o escono, e
forse no. Né Hardy intende
chiedere a Neville – sebbene sappia
che Neville verrà a Londra sabato a
prendere Ramanujan – se potrebbe
portarli a Cambridge entrambi, lui
e Ramanujan. Non vuole dare
l’impressione, nemmeno
indirettamente, che il suo
atteggiamento nei confronti di
questo arrivo straordinario sia
qualcosa di più che blasé.
Dopotutto, H.G. Hardy è un uomo
importante, con molte cose
importanti a cui badare. Tuttavia,
sabato mattina fa un’ultima
passeggiata nei pressi del Museo di
Storia naturale prima di
incamminarsi verso Liverpool
Street per prendere il treno.
Una volta a Cambridge, torna
alla sicurezza dei suoi
appartamenti, di Hermione e del
busto di Gaye. Sa che Ramanujan
starà dai Neville finché non gli
avranno trovato una sistemazione
al Trinity. Ne convengono tutti (è
un fatto molto commentato nella
Hall): i Neville sono stati
assolutamente splendidi, sono
andati ben oltre il loro dovere.
Tanto che, qualche giorno fa, un
classicista è andato a congratularsi
con Hardy per il ruolo che ha
avuto “nel portare a Cambridge
l’indiano di Neville”. Hardy ha
sorriso forzatamente, e si è
allontanato.
Il giorno del pranzo, incontra
Littlewood nella Great Court.
Littlewood sta fischiettando. «Una
grande occasione per noi» dice
mentre escono dal cancello su
King’s Parade. «Dopo tutti questi
sforzi, alla fine lo abbiamo portato
qui.»
«Proprio così» risponde Hardy.
«Adesso dobbiamo decidere cosa
fare di lui.»
«Non dovrebbe essere un
problema. Lascialo continuare per
la sua strada. Però insegnagli a
scrivere una dimostrazione.»
«Già, una cosetta da niente.»
Hardy si stringe il bavero intorno al
collo. Il vento gli gela le ossa
mentre il sole gli scalda la faccia.
Una convergenza di opposti che ha
su di lui un effetto calmante, tanto
che, quando arrivano in
Chesterton Road, ha quasi
dimenticato la sua ansia. Ma poi,
quando appare la casa dei Neville,
il cuore comincia a battergli forte.
È come un altro Giorno della
premiazione. Se fosse solo, magari
girerebbe sui tacchi, tornerebbe di
volata nei suoi appartamenti e
manderebbe un biglietto ai Neville
invocando un malessere. Però, nel
bene e nel male, Littlewood è con
lui. Littlewood, che non
immaginerebbe mai l’intensità del
suo terrore.
Ethel, la cameriera, viene ad
aprire la porta. Hardy non la
vedeva dal tè dello scorso autunno.
Nel frattempo Ethel ha messo su
peso, sembra una pagnotta pronta
da infornare. Il salotto in cui li
guida è inondato da una luce
naturale che conferisce alla carta
da parati viola un aspetto sinistro,
quasi funereo, fa risaltare le
macchie sui vetri della finestra e la
sottile coltre di polvere sui tavolini
di mogano. Questo effetto, di luce
solare in una stanza studiata per il
buio, incanta Hardy. Per un
momento è così distratto che non
si accorge di Neville che si alza dal
divano porgendogli la mano in un
saluto, lo guida verso le poltrone
zitelle, da una delle quali si alza
una figura indistinta. È
Ramanujan.
La macchina per scavalcare il
tempo funziona: il momento
finisce in un batter d’occhio.
Nomi familiari – uno è il suo –
vengono ripetuti. Si stringono la
mano (quella di Ramanujan è
secca e scivolosa) e all’improvviso,
un’altra voce – la voce di un
oratore pubblico, la voce di un
preside – esce tonante dalla gola di
Hardy. Parole di cordiale
benvenuto. Una pacca sulla spalla
di Ramanujan, che è calda,
carnosa. Ramanujan sembra
ancora più nervoso di Hardy. Ha la
fronte imperlata di sudore: è il
primo dettaglio che Hardy nota. La
pelle color caffelatte, butterata dai
segni del vaiolo. Non ha i baffi. C’è
invece un’ombra che, da lontano,
potrebbe essere scambiata per un
paio di baffi, perché il naso di
Ramanujan (tozzo e pronunciato)
scende bassissimo, quasi a toccargli
il labbro superiore. Non è né basso
né robusto come aveva suggerito
Neville. Se mai l’aspetto tarchiato è
dovuto agli abiti che indossa: un
completo di tweed di una taglia
troppo piccola, un colletto così
stretto che sembra lo stia
strangolando. La giacca, che tiene
tutta abbottonata, gli tira sullo
stomaco. Persino le scarpe sembra
gli stringano i piedi in una morsa.
Viene presentato Littlewood,
una faccenda molto più tranquilla.
Poi si mettono tutti a sedere, ed
entra Mrs. Neville, in un turbinio
di scuse per il ritardo, di saluti per
Gertrude, di domande su
Gertrude. Si siede accanto al
marito, che appoggia il braccio
sullo schienale del divano così che
le sue dita le sfiorano la nuca.
Cala un silenzio inquietante, che
sembra nessuno sappia come
riempire, finché, ancora una volta,
quella voce da preside esce tonante
dalla gola di Hardy. «Allora, Mr.
Ramanujan» dice, «come è andato
il viaggio?»
«È stato abbastanza gradevole,
grazie» risponde Ramanujan.
«Anche se ha sofferto il mal di
mare per la maggior parte del
tempo» s’intromette Mrs. Neville.
«Solo la prima settimana.»
«E come le sembra l’Inghilterra
finora?» chiede Littlewood.
«Devo ammettere che la trovo
piuttosto fredda.»
«Non mi sorprende» dice
Neville. «Oggi a Madras ci devono
essere quaranta gradi.»
«Per noi, Mr. Ramanujan,
questo è un tempo mite» dice Mrs.
Neville.
«Tuttavia» dice Hardy, «sono
sicuro che i Neville le hanno
trovato una sistemazione
confortevole.» (Che chiacchiere
idiote! Ogni cellula del suo corpo si
ribella. Vorrebbe strapparsi i vestiti,
sfasciare le finestre.)
«Molto confortevole, sì. Sono
stati molto buoni con me.»
«Ieri notte non ha chiuso la sua
porta! Questa mattina gli ho detto:
Ramanujan, perché non hai chiuso
la porta della tua stanza? Ma Alice
mi ha ricordato che quando
eravamo nell’albergo di Madras gli
ospiti indiani non chiudevano mai
le porte delle loro stanze.»
«Eric, non mettere in imbarazzo
Mr. Ramanujan.»
«Non era mia intenzione. Sto
solo facendo una domanda. Perché
agli indiani non piace chiudere le
porte?»
«Nelle nostre abitazioni non
abbiamo porte da chiudere.»
«Noi inglesi invece facciamo
tutto dietro porte chiuse!» dice
Littlewood, ridendo e grattandosi
la caviglia.
«Sì, temo che siamo un popolo
puritano» dice Alice. «Ho sentito
dire che nei grandi magazzini solo
alle donne è permesso cambiare gli
abiti dei manichini femmina.»
«Davvero?» dice Hardy.
«Naturalmente i tempi stanno
cambiando. Per esempio, penso di
poter affermare con relativa
certezza che nessuno dei presenti –
mi riferisco a quelli di noi che sono
inglesi – ha avuto genitori che
dormivano nella stessa stanza.»
Il silenzio che accoglie questa
supposizione ne è una conferma.
Neville tossisce imbarazzato. Che
personaggio impertinente questa
Alice, o quanto meno aspira a
esserlo, pensa Hardy. Per fortuna
in quel momento Ethel annuncia
che il pranzo è servito. Tiene la
porta aperta e loro cinque entrano
in fila indiana nella sala da pranzo
che dà sul retro della casa. Qui i
mobili, come la carta da parati,
sono William Morris, le sedie con
lo schienale a stecche e la seduta di
vimini. Quanto al tavolo rotondo,
da come è apparecchiato Hardy
capisce che Mrs. Neville considera
questa un’occasione speciale. Ha
tirato fuori l’argenteria, le
porcellane migliori, tovaglioli
bianchi inamidati. Il centrotavola è
una composizione di fiori
primaverili, campanule, viole e
crochi, in una vaschetta scanalata.
Ethel serve il vino, che
Ramanujan rifiuta educatamente.
Senza dubbio è un’altra proibizione
imposta dalla sua religione folle.
E la sua dieta vegetariana? Per
un terribile momento, Hardy teme
che Mrs. Neville abbia preparato il
tradizionale pranzo della domenica
– un arrosto con Yorkshire
pudding, due contorni di verdure e
patate al forno – per dare il
benvenuto allo straniero e fargli
conoscere le usanze britanniche.
Cosa farà Ramanujan, in questo
caso? Hardy trema al pensiero di
questo povero indiano costretto a
rifiutare anche le patate, che
saranno state cotte insieme alla
carne, finché si ricorda che,
essendo stata in India, Mrs. Neville
dovrebbe sapere benissimo che
Ramanujan è vegetariano e, come
minimo, avrà preparato dei piatti
diversi per lui.
In realtà ha fatto di meglio. «In
attesa del suo arrivo, Mr.
Ramanujan» dice, «ho studiato la
cucina vegetariana.»
«Con gran disappunto della
cuoca» soggiunge Neville, ridendo.
«Eric, ti prego. L’ultima volta che
siamo stati a Londra, Eric e io
abbiamo mangiato in un ristorante
vegetariano – l’Ideal, in Tottenham
Court Road – e abbiamo fatto un
pasto molto appetitoso.»
«Aparte la carne, l’unica cosa
che mancava era il sapore.»
«E ho comprato un libro di
ricette vegetariane. Spero che il
risultato la soddisfi.»
Ramanujan ciondola la testa in
un modo che potrebbe significare
sia sì che no. Tanti sforzi per
compiacerlo sembra lo abbiano
lasciato senza parole. Per fortuna,
proprio allora torna Ethel portando
una zuppiera. La zuppa di
lenticchie – non male, anche se un
po’ sciapa – è seguita da
un’insalata, dopodiché Mrs.
Neville si eclissa in cucina, solo per
tornare con un enorme vassoio
d’argento coperto da una campana.
Lo posa cerimoniosamente sul
tavolo. «Oggi» dice, «per secondo
abbiamo un piatto speciale. Un’oca
vegetale.»
Con gesto teatrale, toglie il
coperchio. Un’informe massa
marrone, circondata da patate e
carote bollite e ciuffi di
prezzemolo, troneggia al centro del
vassoio. Ramanujan spalanca gli
occhi mentre osserva l’oggetto
misterioso. Apre la bocca. Mrs.
Neville lo guarda e ride di cuore.
«Oh, la prego, non si preoccupi
Mr. Ramanujan» dice, «non è
un’oca vera. Questo piatto la
selvaggina non l’ha neppure vista,
glielo assicuro! La chiamiamo oca
vegetale perché – insomma – è
un’oca finta. Una finta oca
ripiena.»
«Vedi, Ramanujan» dice Neville,
«noi inglesi siamo
fondamentalmente uomini delle
caverne. Potendo scegliere,
preferiremmo staccare a morsi la
carne cruda dall’osso, così
cerchiamo di creare dei simulacri
del tipo di cose che desideriamo di
più. Oca vegetale, salsicce vegetali,
pasticcio vegetale di bistecca e
rognone.»
Un silenzio inorridito accoglie
questo menu. «Cosa? Credi che
stia scherzando? Ho dato
un’occhiata al libro di cucina di
Alice, e tutte queste ricette sono
autentiche.»
Ramanujan sta arrossendo. Gli
spunta un sorrisetto in faccia.
Neville lo sta prendendo in giro,
Hardy finalmente lo capisce, e lui
si sta divertendo.
«Comunque lo si chiami» dice
Mrs. Neville, infilando il coltello
nella massa informe, «questo piatto
è fatto solo di zucchine ripiene di
pane, salvia e mele, il tutto cotto
nel forno.»
Il vapore si leva dalla prima
incisione, portandosi dietro una
forte zaffata di cannella. Viene
prodotta la prima fetta, posata su
un piatto, e messa davanti a
Ramanujan.
«C’è solo una cosa che non
capisco» dice Littlewood, mentre il
resto dei piatti viene passato in
giro. «Perché mai un vegetariano
vorrebbe mangiare un’imitazione
di carne? Pensavo che l’idea di
base fosse… insomma… di non
mangiare carne. Di mangiare
verdura.»
«Personalmente preferisco
mangiare questo che un piatto di
rape bollite» dice Neville,
mangiando con gusto. «Delizioso,
cara.»
«Grazie, Eric. E lei cosa ne
pensa, Mr. Ramanujan?»
«Molto saporito, Madam» dice
Ramanujan, ancora impacciato,
Hardy se ne accorge, con la
forchetta. Utensile primitivo,
designato a trafiggere la carne.
Povero diavolo. Non deve essere
abituato a questi sapori. Hardy
stesso non è abituato a questi
sapori. Per lui, il dolce stucchevole
della cannella non fa che rendere
più ripugnante la poltiglia di
zucchine.
Il pasto si conclude con un
budino di sagù, dopodiché il
gruppo torna in salotto per il caffè,
che, Hardy è felice di constatare,
Ramanujan accetta con
entusiasmo. Come Mrs. Neville
procede a spiegare, con la sua voce
da guida turistica, il caffè è molto
popolare a Madras, anche più
popolare del tè, sebbene sia
preparato in un modo diverso:
bollito col latte e poi addolcito.
Svuotano le loro tazze e con scuse
esagerate – forse è stato concordato
prima con Neville – Alice spiega
che “ci sono questioni domestiche
di cui deve occuparsi” e lascia la
stanza. Adesso, pensa Hardy,
dovrebbero parlare di matematica.
Buon Dio, che orrore! Ancor
peggio delle chiacchiere inutili!
Vorrebbe scappare, e si chiede se
Ramanujan la pensi allo stesso
modo. Ma poi Neville fa una
domanda a Ramanujan sulla
funzione zeta, che Ramanujan
procede ad approfondire, prima un
po’ incerto, poi sempre più sicuro
di sé. Sembra abbia avuto modo di
vedere la dimostrazione di Hardy –
appena pubblicata – che stabilisce
che c’è un numero infinito di zeri
lungo la retta critica.
Solo adesso Hardy ha la lucidità
mentale per vederlo realmente. Gli
occhi dalle palpebre pesanti, scuri e
penetranti, guardano da sotto una
fronte massiccia con sopracciglia
cespugliose. I capelli, sebbene corti,
sono folti e rigogliosi. Forse perché
Mrs. Neville non è più presente, si
è sbottonato la giacca, col risultato
di apparire molto più comodo.
Dice che sta cominciando a
interessarsi a quelli che chiama
“numeri altamente composti”.
Littlewood gli chiede cosa voglia
dire. «Credo» dice Ramanujan «di
riferirmi a un numero che è
lontano da un numero primo
quanto può esserlo un numero.
Una specie di antinumero primo.»
«Davvero affascinante» dice
Littlewood. «Potrebbe farci un
esempio?»
«24.»
Hardy alza le sopracciglia.
«Nessuno dei numeri fino a 24
ha più di sei divisori. 22 ne ha 4,
21 ne ha 4, 20 ne ha 6. Ma 24 ne
ha 8. 24 può essere diviso per 1, 2,
3, 4, 6, 8, 12 o 24. Quindi io
definisco un “numero altamente
composto” un numero che ha più
divisori di qualsiasi numero che lo
precede.»
Che strana mente! Che strana
mente imprevedibile!
«E quanti ne ha calcolati di
questi numeri?»
«Ho fatto una lista di tutti i
numeri altamente composti fino a
6.746.328.388.800.»
«E hai tratto qualche
conclusione su questi numeri?»
chiede Neville.
«Be’, sì. Guardate, si può
elaborare una formula per un
numero altamente composto N…»
Fa un gesto con le dita, come se
volesse prendere in mano una
matita invisibile, al che Neville si
alza e dice: «Aspetta un
momento». Poi esce dalla stanza e
torna, dopo pochi secondi, con una
lavagna su cavalletto e dei pezzi di
gesso. Impacciato, Ramanujan si
mette in piedi accanto alla lavagna.
«Bene» dice, «se diciamo che N è
un numero altamente composto,
allora possiamo scrivere per N la
seguente formula.»
E parte. Alla lavagna, ogni
imbarazzo che poteva provare nel
parlare inglese lo abbandona,
proprio come svanisce l’angoscia di
Hardy. Adesso sono persi, e
quando, un’ora più tardi, Alice
Neville guarda giù dall’alto delle
scale, vede quattro uomini che
riconosce a stento, che parlano una
lingua che non può sperare di
comprendere.
2

Alice percorre il corridoio ed entra


nella stanza degli ospiti, la cui
porta Ramanujan ha lasciato
socchiusa. Il suo baule – la pelle
scura, appena scalfita – è sul
pavimento, preparato con ordine.
Il ripiano del cassettone è sgombro,
il lavabo pulito. Il letto è intatto,
come se non ci avesse dormito
nessuno. Com’è possibile? Tasta
sotto le coperte e si accorge che le
lenzuola non sono state toccate.
Allora ha dormito sul pavimento?
O forse sopra la trapunta di
ciniglia, che ha lisciato nell’alzarsi?
Nessun odore estraneo ha
permeato la stanza, come se, nella
sua modestia, Ramanujan avesse
trattenuto persino le esalazioni del
suo corpo. Sente solo l’odore pulito
del pavimento di legno tirato a
lucido e la fredda aria primaverile.
All’inizio della settimana,
quando stava preparando questa
stanza per lui, si era trovata a
chiedersi cosa ne avrebbe pensato
Ramanujan del letto alto e rigido,
del cassettone laccato, delle pareti
disadorne a parte alcune
riproduzioni di Benozzo Gozzoli,
acquistate durante la loro luna di
miele in Italia. Sa che a Madras
Ramanujan non aveva un letto.
Come la maggior parte degli
indiani, lui e la sua famiglia
dormivano su stuoie avvolgibili che
potevano essere piegate e riposte
durante il giorno. Ogni zona libera
del pavimento poteva fungere da
camera da letto. E adesso è qui in
Inghilterra, dove gli alberi stanno
incominciando a mettere nuove
foglie, e per dormire deve
arrampicarsi su un letto. Chissà
cosa pensa di tutto questo? Chissà
se tutta questa estraneità lo
terrorizza. Si chiuderà in se stesso?
Si nasconderà? O scoprirà, in
questo strano letto alto, che un
nuovo Ramanujan – una versione
di se stesso che può nascere solo
all’estero, come una nuova
versione di Alice è nata in India –
al pari degli alberi sta
incominciando a mettere nuove
foglie?
Accosta la porta. Da basso, le
voci degli uomini si alzano con
eccitazione e impazienza. Nessuno
verrà a interromperla mentre apre
il baule, guarda gli abiti piegati con
cura e i quaderni che stanno in
cima. In un servizio da toilette –
nuovo anch’esso, in stile col baule
– trova una spazzola e un tonico
per capelli, dentifricio in polvere e
uno spazzolino da denti. Tastando
sotto gli abiti, tira fuori un libro
intitolato The Indian Gentleman’s
Guide to English Etiquette, la
fotografia di una ragazza giovane
che dev’essere la moglie, e un
piccolo oggetto d’ottone che,
quando lo srotola dalla sua
imbottitura di tela, si rivela essere
la statua di un Ganesh, il dio
elefante indù, dio del successo e
dell’istruzione, delle nuove imprese
e degli inizi propizi, e della
letteratura. Nella prima delle sue
quattro mani tiene un cappio, nella
seconda un pungolo, nella terza
una zanna rotta per scrivere, e
nella quarta un rosario. La
proboscide si arrotola intorno a un
dolce e alla sua destra siede un
topo che lui cavalca come gli
uomini cavalcano i cavalli.
Perché Ramanujan non lo tira
fuori? Non lo mette sul cassettone
accanto al lavabo? Perché non
appende i suoi scomodi vestiti, non
espone la spazzola e il dentifricio in
polvere, e non disfa il letto in
modo da sdraiarsi tra le lenzuola?
Vorrebbe tanto poter fare queste
cose per lui. Ma sa di non avere il
coraggio di farle. Lei gli piace –
almeno questo è chiaro – ma
Ramanujan è troppo timido per
mostrare segni esteriori di affetto.
E come potrebbe lei costringerlo a
farlo?
Con molta attenzione, rimette il
libro e la statuetta di Ganesh nel
baule, che chiude e assicura con i
ganci. Poi si siede sul letto,
scompigliando la perfetta
morbidezza della trapunta. Pensa
agli uomini da basso, e per qualche
ragione, per un attimo, si sente
morire di solitudine.
Perché si preoccupa tanto?
Perché è così importante per lei,
che lui sia qui nella sua casa? A
Israfel non importerebbe. Lei non
vedrebbe l’ora di liberarsi di lui, di
spedirlo al Trinity, poi batterebbe
le mani e direbbe: “Bene, grazie a
Dio questa è finita”. Solo che Alice
non è Israfel, pertanto quel che
prova è dolore.
Si alza delicatamente. Liscia le
pieghe che ha lasciato sulla
trapunta, abbastanza da creare un
effetto simile a prima, ma non
abbastanza perché Ramanujan non
si accorga che qualcuno si è seduto
sul suo letto. Poi torna in corridoio.
Il sole sta tramontando. Gli uomini
continuano a parlare. Dovrebbe
servire il tè. Lo sa. Sa che dovrebbe
scendere da basso, preparare dei
biscotti su un vassoio, e mettere
l’acqua a bollire. Ma non si muove.
3

Ramanujan sta dai Neville per sei


settimane. Ci sono cene regolari a
cui vengono invitati vari luminari
del Trinity in modo che possano
almeno dare uno sguardo al
“calcolatore indù”, come lo ha
soprannominato recentemente un
giornale. Vengono Russell e Love,
Barnes e Butler. Una sera a Hardy
viene chiesto di portare Gertrude.
Aquesto punto il cibo orrendo dei
Neville è diventato oggetto di
pettegolezzi in tutto il Trinity,
tanto che Hardy sa che è meglio far
cenare Littlewood e sua sorella a
casa sua prima di andare, in modo
che quando si vedranno costretti
ad affrontare le ultime aberrazioni
ricavate dal ricettario di Mrs.
Neville – trota vegetale, pasticcio
d’agnello vegetale – potranno
appellarsi impunemente alla
mancanza di appetito.
Questa sera, però, li aspetta una
sorpresa. Invece di preparare una
caricatura della carne, Mrs. Neville
annuncia che – grazie al recente
arrivo di spezie da Londra – ha
preparato un curry vegetariano.
«Nella terra natia di Mr.
Ramanujan, ovviamente
mangiavamo con le dita» dice a
Gertrude. «Ma, come gli ho
spiegato, la maggior parte degli
inglesi sarebbe a disagio con questa
pratica come lui lo era, all’inizio,
con la forchetta. Adesso è
diventato un esperto con le nostre
posate, vero, Mr. Ramanujan?»
Ramanujan ciondola il capo.
Hardy ci ha messo un po’ ad
abituarsi a questo suo strano gesto,
una specie di dondolio che parte
dal collo e che, adesso lo ha capito,
sta per un sì provvisorio.
Intendiamoci, Hardy non prova
che gratitudine per i Neville. Si
sono presi cura di Ramanujan e lo
hanno fatto sentire a suo agio, gli
hanno insegnato come orientarsi
per le strade secondarie di
Cambridge e i corridoi del Trinity,
lo hanno nutrito e ospitato e
sembrano disposti a continuare a
farlo per tutta la durata del suo
soggiorno. Detto questo, Hardy
trova piuttosto irritante il modo in
cui lo trattano, almeno in presenza
di altri, come se fosse loro,
l’intelligente scimmiotto di casa che
viene addestrato a comportarsi
come un uomo. E guardate!
Stasera, per far contento lo
scimmiotto, mangeremo banane
per cena! Be’, questo forse è un po’
eccessivo. Quel che è certo è che,
preparando un curry, Alice Neville
sta cercando di mettersi in mostra
per Gertrude. Per qualche ragione
sembra sia di cruciale importanza
per Alice fare buona impressione
su Gertrude.
Hardy si gira a guardare sua
sorella. La sua faccia non tradisce
alcuna emozione. Non c’è nessuno
al mondo a cui si senta più vicino
che a Gertrude, eppure, per certi
aspetti fondamentali, non riesce a
capirla. Cosa pensa, per esempio,
dell’arredamento dei Neville, che
osserva, come osserva tutto,
freddamente e senza commenti?
Littlewood flirta con lei ogni volta
che si incontrano. Cosa ci troverà
mai in Gertrude? È magra e piatta
come un’asse, e indossa un abito
marrone informe come un sacco,
che non è né nuovo né alla moda.
Mah, forse è proprio questo, forse
ad attrarlo è la sua assoluta
mancanza di imbarazzo. La stessa
qualità che un tempo aveva attratto
Hardy in Littlewood.
Si siedono a mangiare. Il riso
viene servito in una terrina di
ceramica, il curry – che è una
brodaglia giallastra in cui
galleggiano pezzi di ortaggi non
meglio identificati – in una
zuppiera d’argento.
«Naturalmente, Miss Hardy» dice
Mrs. Neville, «a Madras un curry
come questo sarebbe molto più
piccante. Io ho fatto alcune
modifiche per venire incontro allo
stomaco inglese.»
Eccome se le ha fatte! Il suo
curry è ancor più scialbo delle
versioni che, di tanto in tanto,
preparava la madre di Hardy.
Pazienza, se non altro è una
gradita tregua dall’oca vegetale.
Infatti lo stesso Ramanujan lo sta
mangiando con gusto, grato anche
per questa vaga contraffazione del
cibo a cui è abituato. Frattanto,
Mrs. Neville continua a blaterare
di Madras e di come si mangia in
India – avvolgendo il cibo in una
specie di pancake – mentre Neville
la guarda, divertito e sereno.
Ramanujan non dice niente,
ciondola solo il capo di quando in
quando, perché, al pari di Hardy,
deve aver capito che l’esibizione è
tutta a beneficio di Gertrude. Le
donne sono creature così
impenetrabili, così consapevoli
l’una dell’altra come potenziali
rivali, alleate o prede! Non
conoscendo nessuna delle due, si
potrebbe pensare che dovrebbe
toccare a Gertrude essere invidiosa
di Alice: Gertrude, la
personificazione della professoressa
inglese zitella. E invece è Alice che
desidera ardentemente conquistare
l’approvazione di Gertrude.
Perché? Forse immagina che
Gertrude sia un modello di arguzia
e di garbo, l’avatar di un mondo in
cui Alice si sentirebbe
disperatamente a disagio. E non
importa che Gertrude non sia
affatto quel tipo di donna, che in
realtà sarebbe intimidita quanto
Alice dalle sorelle Stephen, o da
Ottoline Morrell. Perché, bisogna
riconoscerglielo, Gertrude è brava
nei giochi. Sa che, quando ti
passano la palla, devi correre. E
così, in presenza di Alice, si adegua
al ruolo che le è stato assegnato. È
schiva e vagamente
condiscendente, e si rifiuta sempre
di concedere il bacio
d’approvazione che Alice desidera
tanto. Si ritrae, e ritraendosi induce
Alice a maledirsi per aver bisogno
dell’amore di un uomo anche per
capire se stessa.
Entrambe le donne guardano
attentamente Ramanujan. È come
se, per loro, ogni sfaccettatura
dell’indiano, persino il suo genio,
avesse un aroma altrettanto esotico
e piccante del cibo che Alice sta
descrivendo. E il loro sguardo lo
sconcerta, almeno un po’? Non
può essere abituato a simili
attenzioni. È abituato alla
solitudine.
Ogni mattina, dopo che Mrs.
Neville gli ha preparato la
colazione e lo ha aiutato a scegliere
gli abiti adatti alle condizioni
climatiche, Ramanujan passa al di
là del ponte sul Cam, attraversa il
Midsummer Common, poi prende
King Street, Sussex Street e Green
Street verso il Trinity. Una
camminata di mezz’ora, con scarpe
che gli fanno ancora venire le
vesciche ai piedi. Per il resto della
mattina lui e Hardy lavorano
insieme, di solito da soli, anche se
qualche volta Littlewood passa a
trovarli. Lavorano su Riemann. A
questo punto Hardy ha dimostrato
in modo irrefutabile che esiste
un’infinità di zeri lungo la retta
critica. Ma, come ha detto a Miss
Trotter, questo non significa che
non ci sia un’infinità di zeri non
sulla retta critica. Quindi in realtà
Hardy non ha dimostrato niente;
ha solo fatto un passo nella
direzione giusta.
Il primo compito è spiegare a
Ramanujan perché il suo
perfezionamento del Teorema dei
numeri primi è sbagliato. È un
esercizio da equilibrista. Da un
lato, Hardy deve fargli capire
perché il suo ragionamento era
viziato, e in particolare chiarire una
volta per tutte che l’accuratezza
fino a 1000 numeri interi in
matematica non significa niente.
Dall’altro, non vuole scoraggiare
Ramanujan. Vuole che capisca
perché il suo errore – ed è un
errore – per certi versi sia più
straordinario di qualsiasi suo
trionfo. Perché il problema a cui è
arrivato in sogno a Kumbakonam,
è lo stesso che i migliori matematici
d’Europa ci hanno messo un secolo
a formulare. E nessuno di loro – né
Hadamard, né Landau, né lo stesso
Hardy – lo ha risolto. Forse
Ramanujan lo farà.
Purtroppo, Ramanujan è
impaziente. Smania per pubblicare,
dice a Hardy, in modo da
dimostrare agli uomini di Madras
che lo hanno incoraggiato che il
tempo e il denaro che hanno
investito non sono stati sprecati. E
c’è di più, Hardy ne è certo.
Nessun essere umano, per quanto
spiritualmente evoluto, è privo di
vanità. Persino Ramanujan deve
sognare di sbandierare il suo
successo davanti a coloro che non
hanno saputo giudicare il suo
valore, e così facendo renderli
infelici come hanno reso infelice
lui. E non solo ai meschini
burocrati di provincia che gli
hanno tolto la borsa di studio a
Kumbakonam, il desiderio si
estende anche a Cambridge.
Per esempio, fin dall’inizio –
anzi, dal giorno stesso in cui ha
ricevuto la prima lettera di
Ramanujan – Hardy ha intuito di
non essere la prima autorità cui
Ramanujan si era rivolto. Adesso
chiede, e riceve conferma che, ben
prima di scrivere a Hardy,
Ramanujan aveva scritto a due dei
suoi colleghi di Cambridge, Baker
e Hobson. Nessuno dei due si era
degnato di rispondere.
La mattina dopo Ramanujan
vuole scoprire tutto quel che può
su Baker e Hobson. Dove e
quando tengono lezione? Se chiede
al portiere del college, può scoprire
dove abitano? Hardy glielo dice,
anche se con riluttanza. Non che
tema che Ramanujan possa
spingersi fino ad affrontare
apertamente questi uomini, che
non ha mai conosciuto. È troppo
timido. Tuttavia Hardy non si
meraviglierebbe se infilasse sotto la
loro porta dei ritagli di giornale che
annunciano il suo arrivo.
Istruirlo non si dimostra un
compito facile. Le prime due o tre
mattine Hardy le impiega cercando
di spiegargli cos’è una
dimostrazione, ma Ramanujan
continua a distrarsi. Per molti versi
è ancora il bambino che tracciava
quadrati magici per divertire i
compagni di scuola. Non si
concentra su Riemann, come
vorrebbe Hardy; la sua mente si
muove invece in venti direzioni
diverse allo stesso tempo e,
sebbene cerchi di tenerlo in
carreggiata, Hardy non osa
interrompere i suoi voli di fantasia
associativa che potrebbero portare
a scoperte inaspettate.
Una mattina, per esempio,
stanno parlando del pi greco (π).
Hardy sa che negli anni solitari
trascorsi sul pial della madre, tra le
molte formule escogitate da
Ramanujan ce n’erano parecchie
intese a stabilire il valore di π.
Alcune di queste sembravano
notevoli a Hardy, se non altro
perché erano così inconsuete; per
esempio:
Oppure:

Adesso Ramanujan è all’opera su


qualcosa di più sofisticato. Per
conto suo, ha scoperto che
mediante quelle che vengono
chiamate equazioni modulari è
possibile trovare dei percorsi nuovi
e incredibilmente rapidi per p:
serie che convergono con
sorprendente velocità,
consentendo al calcolatore, in
brevissimo tempo, di elencare il
valore di p con un numero
altissimo di decimali. E dove le ha
trovate queste equazioni? Per
divertirsi, Hardy lo immagina
addormentato nella stanza degli
ospiti dei Neville, immagina
Namagiri – dalla pelle scura, nella
sua fantasia, con una frangia alla
Cleopatra, le guance dipinte e
trenta braccia – che gli incide
pazientemente le formule sulla
lingua. Che genio doveva essere
quella dea per riuscire a fare quello
che Moore non aveva potuto,
viaggiare a suo piacimento nelle
foreste inesplorate della mente e
tornarne carica di gioielli e tesori!
C’è un sentiero che Hardy sta
incominciando a intravedere,
indistinto in mezzo al fogliame,
che, dallo sforzo viziato di
Ramanujan per perfezionare il
Teorema dei numeri primi,
conduce all’ipotesi di Riemann e
forse più in là. La domanda è: la
sua ambizione gli sarà di aiuto o di
ostacolo nell’orientarsi su questo
sentiero? O per dirla in altro modo:
adesso che Ramanujan ha
attraversato l’oceano, Namagiri lo
seguirà?
Così trascorrono le loro mattine,
e poi, il pomeriggio, Ramanujan va
ad assistere alle lezioni, o torna a
casa dei Neville, dove Dio sa cosa
combina con Mrs. Neville fino al
tramonto, quando viene il
momento di quelle cene
spaventose, almeno una o due la
settimana. Cosa dia da mangiare
Mrs. Neville a Ramanujan quando
non ci sono altri ospiti, Hardy non
osa immaginarlo.
Una sera, insieme a Littlewood,
propone di portare Ramanujan a
cena nella Hall. Lo passano a
prendere a casa dei Neville; si
allontanano con lui mentre Mrs.
Neville gli fa un cenno di saluto
dalla porta, triste come una madre
che manda a scuola il suo bambino
per la prima volta. Neville li aspetta
al Trinity, dove l’arrivo di
Ramanujan viene accolto da un
fermento di attenzione. Per la
prima volta, indossa la toga. Vari
uomini gli danno il benvenuto, e,
sebbene non sia consueto – non è
uno di loro – in questa occasione,
siede tra Littlewood e Hardy al
tavolo dei docenti. Poiché il cuoco
è stato avvertito del suo regime
vegetariano, gli viene servito un
piatto poco appetitoso di patate,
carote e rape bollite che lui guarda
con sospetto. Come dargli torto?
Del resto non è per il cibo che è
venuto qui stasera.
Russell gli siede di fronte. È
ansioso di conoscere le opinioni di
Ramanujan, sull’indipendenza
indiana, sul movimento per il
suffragio universale, sul governo
indipendente dell’Irlanda.
Ramanujan non sembra all’altezza
di questo interrogatorio. Risponde
in modo frettoloso e agitato,
soprattutto sul suffragio, dato che
non conosce nemmeno la parola.
Del resto come si può pretendere
che esprima un’opinione sul diritto
di voto alle donne quando viene
da un paese in cui le donne non
sanno neppure leggere e scrivere?
Non è che Russell lo stia
punzecchiando o lo voglia
provocare, è solo fuori pista. Per
Russell, Ramanujan è l’esatto
contrario dell’esemplare esotico
che rappresenta per Gertrude e
Alice: è un emissario di un’altra
parte del mondo di cui vuole
sollecitare le opinioni nella
speranza, indubbiamente, di
arruolarlo nella sua ardimentosa
campagna per creare una nuova
Inghilterra. Ma ben presto lo stesso
Russell sembra accorgersi che è
uno sforzo inutile, perché cambia
argomento. Chiede del lavoro che
Ramanujan sta facendo.
E Ramanujan si rilassa. Parla dei
metodi modulari per il calcolo di π
che ha trovato, uno dei quali
fornisce un valore di π fino
all’ottava cifra decimale già al
primo termine. Russell è estasiato.
Se c’è un argomento che può
strapparlo dalla politica, quello è la
matematica, e la conversazione
salva la serata.
Dopo cena, Hardy e Littlewood
riaccompagnano Ramanujan e
Neville in Chesterton Road. Lungo
la strada Ramanujan parla poco.
Zoppica a causa delle scarpe
strette. E se è esausto, non c’è da
stupirsi! Anche se è la cosa che
desiderava di più al mondo, o
diceva di desiderare di più al
modo, dev’essere destabilizzante
l’essere passato così in fretta dalla
solitudine del pial di sua madre
alla frenesia del tavolo docenti del
Trinity. E tutto in seguito a una
lettera che Hardy avrebbe potuto
gettare via con la stessa
noncuranza degli altri uomini cui
era stata spedita; nel qual caso,
Ramanujan sarebbe ancora a
Madras, a lavorare nell’ufficio
contabilità del porto.
Forse è troppo per lui, come se
un marinaio, naufragato su
un’isola deserta, venisse salvato
dopo molti anni e gli dicessero che
da quel momento in poi potrà
consumare tutti i suoi pasti al
Savoy. E allora che succede?
Succede che tanta abbondanza di
cibi ricchi lo fa ammalare, perché il
suo stomaco ormai si è abituato a
un regime di foglie, cardi e pesce
pescato con le sue mani. Allo stesso
modo, Ramanujan è sopravvissuto
per anni solo grazie a una dieta
poverissima di affermazione.
Dunque: hanno fatto uno sbaglio a
immaginare che il suo stomaco
fosse all’altezza del suo appetito?
Mrs. Neville li sta aspettando
quando arrivano a casa sua. «Ciao,
cara» dice Neville, baciandola sulla
guancia. «Temo che abbiamo
messo a dura prova il povero
Ramanujan questa sera. Domande,
domande e ancora domande.»
«È stato stimolante» dice
Ramanujan.
«Come vanno i piedi?» chiede
Alice.
«Non c’è male, grazie.»
«Bene, adesso è a casa.»
All’improvviso Alice guarda Hardy
allarmata, come se si fosse lasciata
sfuggire un sentimento di cui
preferirebbe tenerlo all’oscuro.
Sciocca ragazza. Hardy lo ha notato
fin dall’inizio.
Più tardi, tornando al Trinity,
Hardy ne parla con Littlewood.
«Faccio fatica a capire cosa prova
per lui» dice. «Da un lato, ha un
atteggiamento molto materno.
Dall’altro, sembra anche un po’
innamorata di lui.»
«Per le donne è spesso la stessa
cosa» dice Littlewood.
«Ma come, l’amore materno
e…»
«Esatto. È molto comune.»
«Neville però non ne ha idea.»
«Certo che no. Semplicemente
non gli interessa granché. Lo sai
come è fatto Neville.»
«Allora non credi che quei
due…»
«Oh, potrebbe anche darsi. Chi
lo sa? Certo sarebbe una bella
ironia! Perché non è ciò che ogni
madre indiana teme di più quando
il figlio va all’estero? Che una
perfida signora inglese lo seduca?
Ma chi l’avrebbe mai detto che la
seduttrice sarebbe stata Alice?»
Hardy si acciglia. Non riesce a
capire se Littlewood sta
scherzando, e gli secca ammettere
di non capirlo.
«Be’» dice dopo un momento,
«se vuoi la mia opinione, tra quei
due non c’è niente. Insomma,
guardali. Alice con la sua
inspiegabile devozione per Neville;
Ramanujan, che sembra un tale
bambinone. E non molto
interessato alle donne, mi par di
capire.»
«Non si può mai sapere.
Comunque sia, spero almeno che si
stia divertendo. Perché stasera
sembrava infelice.»
«Le compagnie troppo numerose
lo spaventano.»
«Dovrebbe lasciare la casa dei
Neville. Trasferirsi al Trinity. Ho
controllato, e alla fine del trimestre
dovrebbero esserci delle stanze in
Whewell’s Court.»
Astuto il nostro Littlewood!
Dopotutto, avere Ramanujan a
portata di mano non solo
renderebbe la loro collaborazione
più facile da orchestrare, ma
eliminerebbe, una volta per tutte,
le complicazioni di Mrs. Neville, le
sue ricette vegetariane, le sue cene!
«Che ne dici, affrontiamo
l’argomento domani?» chiede
Hardy.
«D’accordo» dice Littlewood.
«Da come reagisce potremmo
capire tutto quello che c’è da
sapere.»
4

Un pomeriggio piovoso in
Chesterton Road. Il fuoco
scoppietta. Alice e Ramanujan
sono seduti a un tavolo, uno di
fronte all’altra, chini su un puzzle
completato a metà, un vecchio
gioco di pazienza dell’infanzia di
Alice. Cinquecento pezzi. Da
quando ci stanno lavorando,
un’immagine ha incominciato a
emergere sul ripiano di legno
scuro: due gentiluomini in abiti
vittoriani, seduti a un tavolo non
dissimile da quello cui siedono
Alice e Ramanujan. Un tappeto
orientale di diverse tonalità rosse e
gialle copre il pavimento. Un terzo
uomo, vestito come un oste, in
piedi a sinistra del tavolo. Sono in
una taverna? Forse uno degli
uomini ha un bicchiere in mano.
Molto tempo prima, quando Alice
non aveva ancora quattordici anni,
un socio d’affari aveva regalato il
puzzle a suo padre, cui non
interessava affatto, col risultato che
il gioco finì per emigrare nella
nursery, dove Alice e sua sorella
Jane facevano ancora i loro
compiti. Ogni anno compivano un
valoroso tentativo per ricomporlo,
solo per lasciarsi distrarre dalle
forme deliziose in cui erano tagliati
molti dei pezzi: una testa di profilo,
un cane, un cuore, una mezzaluna.
A volte arrivavano quasi a
completare la cornice e un angolo
del tappeto prima che Jane
perdesse la pazienza e soffiasse sul
tavolo, facendo volare i pezzi sul
pavimento. Perché Jane faceva le
bizze. Era sempre la più impetuosa
delle due, mentre Alice era quella
che si metteva in ginocchio a
raccattare i resti della furia di sua
sorella. Fu forse per questo che,
quando il padre morì e la madre
chiuse la casa, Alice volle il puzzle
per sé e lo portò in Chesterton
Road. Quando arrivò Ramanujan,
lo riesumò. Lui non aveva mai
visto un puzzle in vita sua. Ma
Alice non ebbe nemmeno il tempo
di spiegargli come funzionava
prima che lui si mettesse al lavoro.
E adesso eccolo lì, intento a
guardare i tre gentiluomini
vittoriani, stringendo nella mano
destra un pezzo a forma di zucca,
con gli stessi colori del tappeto. Per
un momento studia il tappeto –
ancora a brandelli, come se i topi ci
avessero fatto dei buchi – e poi,
con un gesto in picchiata che le
ricorda un aeroplano, incastra il
pezzo al suo posto. La zucca
scompare mentre un altro pezzo di
tappeto prende forma. Questo
lasciava delusa Alice da ragazza.
Dopotutto, mettere insieme il
puzzle significava perdere quelle
forme deliziose.
«Ha elaborato un metodo?»
chiede a Ramanujan, mentre quel
che vorrebbe chiedergli è:
“Namagiri la aiuta anche con i
puzzle?”.
«Non lo definirei un metodo»
dice lui. «Però ho… un approccio,
chiamiamolo così. Vale a dire che,
avendo completato la cornice,
metto insieme i colori simili e parto
da lì.»
Alice soffoca un sorriso. Che
buffo, pensa, essere seduta di
fronte a uno dei più grandi geni
della storia dell’umanità, e
guardarlo perdersi in un puzzle! E
suo marito, l’accademico del
Trinity, non è da meno! Infatti sa
perfettamente che appena rientrerà
oggi pomeriggio, subito dopo
essersi asciugato e aver bevuto il tè,
Eric si siederà al tavolo a lavorare
al puzzle insieme a Ramanujan
fino all’ora di cena. Lavoreranno
come due bambini. Senza pensare.
E a lei non dispiacerà. Tuttavia, si
sentirà obbligata ad alzarsi dal
tavolo. Per lasciarli soli. E perché
poi? Non lo sa bene. Però sa che è
tutto più gradevole quando sono
solo lei e Ramanujan. Allora può
parlare con lui come non può mai
fare quando c’è Eric.
Adesso lui tiene in mano
qualcosa di simile a un’aragosta.
Come sempre, è in giacca e
cravatta, ma non porta le scarpe.
Accortasi presto della sofferenza
che gli causavano, Alice gli ha
comprato un paio di pantofole
morbide, che, gli ha detto, in
Inghilterra la gente indossa
abitualmente invece delle scarpe
quando sta in casa. Per metterlo
più a suo agio, ha comprato le
pantofole anche per sé e per Eric, e
adesso le indossano tutti e tre.
Invero, l’unica persona di casa che
non porta le pantofole è Ethel.
Tuttavia, quando Ramanujan
esce di casa deve mettersi le
temute scarpe. Alice sa che tortura
sia per lui camminare fino al
Trinity con le dita dei piedi strette
in una morsa, e vorrebbe che
facesse abbastanza caldo da
consentirgli di indossare dei
sandali. Ma chissà se lui lo farebbe,
anche se potesse? Girando per
Cambridge, Alice ha notato altri
indiani vestiti in una foggia più
consona alle loro origini. Ne ha
parlato con Ramanujan una volta,
e lui le ha raccontato che, quando
aveva preso la decisione di venire
in Inghilterra, uno dei suoi
protettori di Madras lo aveva
portato sul sidecar della sua
motocicletta da Spencer’s, il
vecchio e imponente grande
magazzino della città, in cui
Ramanujan non aveva mai messo
piede. Lì gli confezionarono
camicie, abiti e pantaloni su
misura. Poi era stato portato da un
barbiere inglese che gli tagliò il
kudimi, cosa che non avrebbe mai
permesso prima che sua moglie e
sua madre fossero partite per
Kumbakonam. «Che effetto le ha
fatto?» ha chiesto Alice, ricordando
il libro che aveva visto nel baule:
The Indian Gentleman’s Guide to
English Etiquette. E, dopo un
momento, lui ha risposto: «Mi
sentivo semplicemente ridicolo con
quei vestiti. Ma quando il barbiere
mi ha tagliato il kudimi, ho pianto.
Era come se stessi perdendo la mia
anima».
L’aragosta che Ramanujan
teneva in mano atterra sul tavolo, e
Alice, scossa da un sentimento di
empatia, scatta in piedi,
letteralmente. «Oh, santo cielo»
esclama, perché il semplice gesto di
alzarsi ha scompigliato i pezzi del
puzzle.
«Non importa» dice Ramanujan,
rimettendoli a posto.
Alice va al pianoforte. È un
vecchio Broadwood verticale con
lanterne su ciascun lato, ereditato
da suo nonno. Ultimamente ha
preso a suonare in presenza di
Ramanujan: pezzi semplici, perché
non è una pianista provetta.
Greensleeves, un minuetto di
Händel, qualche impromptu di
Schubert. Poi ieri, frugando tra gli
spartiti musicali che ha ereditato
insieme al piano, le è capitato tra le
mani lo spartito di I pirati di
Penzance. Era uno spartito
semplificato, per facilitare
l’esecuzione domestica. Ha suonato
Poor Wandering One ma non l’ha
cantata.
Adesso apre lo spartito della
canzone del Generale. Prova la
melodia. Poi, fattasi
improvvisamente audace, e senza
alcuna preparazione, si mette a
cantare:
Moderna incarnazione io son di un
Generale,
dotato di cultura in fatto vegetale,
animale e minerale.
Dell’Inghilterra i re conosco a menadito,
cito battaglie storiche
da Maratona a Waterloo, in schiere
categoriche.
Ramanujan la guarda dal tavolo.
«Mr. Ramanujan, venga qui con
me al piano» dice Alice. «Credo
proprio che le piacerà questa
canzone.»
Lui si alza esitante. Alice gli fa
posto sul panchetto e Ramanujan si
siede, abbastanza vicino perché lei
riesca a sentire il calore del suo
corpo, ma non tanto che i loro abiti
si tocchino. «Questa è una canzone
di una famosa operetta semiseria
intitolata I pirati di Penzance. Il
cantante è un ufficiale gentiluomo
che cerca di impressionare alcuni
pirati. Ma la verità è che è molto
pieno di sé. Stia a sentire.»
Son anche molto esperto di cose
matematiche,
capisco le equazioni, da semplici a
quadratiche,
al Teorema di Newton la mia mente è
ormai adusa
e a molti fatti allegri sul quadrato
dell’ipotenusa.
«Naturalmente» soggiunge Alice,
«quando è interpretata come si
deve, la canzone è molto più veloce
di come l’ho fatta io. Ed è cantata
da un uomo.»
Ramanujan sta guardando lo
spartito. «Teorema di Newton»
dice con un tono che potrebbe
essere divertito come sprezzante.
«Per questo pensavo che le
sarebbe piaciuta» dice Alice. «E
adesso canti con me, coraggio,
cantiamo insieme.»
«Cantare? Ma io non so
cantare.»
«E chi lo dice? Non ha mai
cantato nei templi?»
«Sì, ma… non ho mai cantato
una canzone inglese.»
«Be’, nemmeno io so cantare,
ma chi ci sentirà? Solo Ethel.
Quindi la faremo insieme. Al tre.
Un, due, tre…»
Inizia a cantare, e con sua
grande gioia Ramanujan si unisce a
lei:
Integrali e differenziali, io me li giostro i
calcoli
e i termini scientifici di molti
animalucoli;
in fatto vegetale, animale e minerale,
moderna incarnazione io son di un
Generale.
«Visto? È stato bravissimo.»
«Davvero?»
«Ha una bellissima voce tenorile.
E ancor meglio, ha un ottimo
orecchio. Dovrebbe essere
perfettamente intonato.»
Ramanujan abbassa gli occhi. Ha
il respiro affannoso. La fronte
imperlata di sudore, come sempre
quando è felice.
«Avanti» ordina Alice,
«continuiamo. Adesso finiamo la
canzone, e poi la cantiamo tutta
daccapo.»
Ramanujan tira un profondo
respiro.
«Uno, due, tre…»
Conosco i nostri miti, di re Artù e
Caradosso,*
risolvo duri acrostici, e adoro il
paradosso,
in distici elegiaci cito i mal di Eliogabalo
in coniche vi atterro stranezze da
parabolo.
«Stranezze da parabolo!» ripete
Alice, e scoppiano a ridere
entrambi. Ridono come bambini.
Fuori piove a catinelle. Sul tavolo,
il puzzle giace placido,
apparentemente soddisfatto del
suo stato semifinito. Comodi nelle
pantofole, gli alluci di Alice si
agitano, al pari, lei suppone, di
quelli di Ramanujan.
Poi, inaspettatamente, la porta si
apre. Si alzano entrambi, come se
fossero stati sorpresi a fare qualcosa
di sconveniente. «Ciao, cara» dice
Neville, entrando, mentre i suoi
passi ne precedono altri. Quelli di
Hardy e di Littlewood.
«Ciao» dice Alice, andandogli
incontro per ricevere il bacio di
rito.
«Ho portato Hardy e Littlewood
per il tè. Spero non ti dispiaccia.»
«Certo che no.»
«Cosa stavate facendo voi due?
Ah, il puzzle, vedo. Lavorano sodo
a quel puzzle. E questo cos’è? Il
piano aperto! Hai insegnato a
Ramanujan a suonare?»
«No, a cantare.» Alice suona il
campanello per Ethel, mentre
Neville va al piano a controllare lo
spartito.
«La canzone del Generale»
osserva. «Ma dico, Ramanujan,
avete cantato Gilbert e Sullivan?»
Ramanujan non dice niente.
Siede rigido sul divano.
«Mrs. Neville, lei non smette
mai di stupirmi» dice Littlewood.
«Ci sta facendo un servizio
enorme, iniziando Ramanujan a
tutto ciò che è inglese! Noi invece
parliamo solo di matematica con
lui.»
Alice si siede di fronte a
Ramanujan, in una delle poltrone
zitelle. «Come mai a casa così
presto?» chiede mentre Ethel porta
l’occorrente per il tè.
«Una notizia meravigliosa.
Littlewood ha trovato le stanze per
Ramanujan al college. In
Whewell’s Court. Può trasferirsi la
settimana prossima.»
Cosa dice il suo viso? Niente,
spera Alice. Non che suo marito se
ne accorgerebbe se il suo viso
mostrasse qualcosa. La sua
gentilezza, lo sa bene, nasconde
solo indifferenza ed egocentrismo.
Hardy però se ne accorgerebbe.
È questo che la spaventa. Che lui
veda qualcosa sul suo viso e lo
racconti a Gertrude.
E Ramanujan? Nota qualcosa
lui? Ethel gli porge il suo tè e lui
fissa la tazza. Aggiunge il latte e lo
mescola.
Alice sorride. In seguito, lo sa,
ne andrà fiera. Ma per adesso è
come se una ragazza furiosa si fosse
appena riempita le guance d’aria e
avesse soffiato sul pavimento tutti i
piccoli pezzi di cui è fatto il mondo.
Alice prende il suo tè. «Che
notizia meravigliosa» dice. «Non
dover fare tutte quelle camminate.
Sarà molto meglio, Mr.
Ramanujan, per i suoi piedi.»

* “Caradosso” è una licenza poetica: sta per


Sir Caradoc. [N.d.T.]
5

8 giugno 1914
Cambridge
Mia cara Miss Hardy,
spero che non giudichi impertinente
da parte mia se le scrivo in confidenza
a proposito di una questione che,
almeno in superficie, non ci riguarda
direttamente. Dietro suggerimento di
Mr. Hardy, Mr. Ramanujan lascerà tra
breve la mia casa, dove ha vissuto
felicemente per sei settimane, per
trasferirsi nelle stanze del Trinity. Non
so dirle fino a che punto io sia
convinta che sarebbe una decisione
disastrosa. Qui Mr. Ramanujan è
accudito amorevolmente. Mi assicuro
che abbia tutto il latte e la frutta che
desidera, e sono sempre
scrupolosamente attenta ai suoi
bisogni, sia dietetici sia di altra natura.
Come se la caverà al college? Non
sopporta il loro cibo e dice che si
cucinerà i pasti da solo su un fornello
a gas.
Sebbene io capisca il desiderio di
Mr. Hardy di avere Ramanujan più
vicino in modo da dedicare più ore del
giorno alla matematica insieme a lui,
temo che suo fratello non riesca a
prendere in considerazione la
necessità di assicurarsi che
Ramanujan abbia una vita al di fuori
della matematica. Ha fatto un grande
viaggio e sta ancora adattandosi a un
mondo radicalmente diverso dal suo.
Gli mancano sua moglie e la sua
famiglia. Sicuramente vale la pena che
faccia una camminata di mezz’ora
ogni mattina, se il risultato sarà di
essere più sano e felice.
So che lei ha una notevole influenza
su suo fratello e le chiederei di
intercedere presso di lui per il bene di
Ramanujan. La prego anche di non
fare il mio nome a questo proposito e
di non dirgli che le ho scritto.
Rimango, come sempre, la sua cara
amica
Alice Neville
«Bene, cosa te ne pare?» dice
Gertrude, posando la lettera.
«Suppongo» dice Hardy «che
confermi quello che abbiamo
sempre sospettato.»
«E cioè?»
«Che è innamorata di lui.»
Hardy tira una lunga boccata
dalla sua pipa. È un sabato mattina
di giugno, e sono nella cucina
dell’appartamento in St. George
Square. Littlewood è con loro, in
città per un appuntamento con
Anne, anche se non lo ha detto.
Sebbene sieda a tavola fingendo di
leggere il “Times”, ha ascoltato
attentamente la lettura di
Gertrude, chiedendosi come possa
ignorare con tanta nonchalance le
raccomandazioni di Mrs. Neville di
tenersi la lettera per sé.
«Se volete la mia opinione» dice
Hardy, «questo chiude
l’argomento. Ramanujan deve
trasferirsi al college il più presto
possibile.»
«Perché tanta urgenza?» chiede
Littlewood.
«È evidente. Finché è sotto il
tetto dei Neville, è anche sotto il
controllo di Mrs. Neville. Ha
bisogno della sua libertà.»
«Ma forse è felice lì. Hai visto la
scenetta domestica, Hardy. Il
fuoco, il puzzle e il piano. Mi
sembrava molto intimo e
accogliente.»
«Soffocante, direi.»
«Ma tu sei diverso. E quanto al
cibo Alice ha ragione.»
«Non vedo come. Ramanujan
non sembra minimamente
preoccupato all’idea di cucinarsi i
pasti da solo. Anzi, ho
l’impressione che non veda l’ora.
Una tregua dagli intrugli
spaventosi che Mrs. Neville tira
fuori dal ricettario di George
Bernard Shaw o come diavolo si
chiama.»
«Su questo punto non posso
darti torto.»
«Lo spero bene. Sei tu che gli hai
trovato le stanze.»
«Certo, ma non posso fare a
meno di chiedermi se, in fin dei
conti, non starebbe meglio sotto il
tetto di Neville, dove viene
accudito…»
«… da una donna con una
morbosa ossessione erotica.»
Al che Gertrude scoppia a
ridere. La sua risata sorprende
Littlewood: è più acuta e flautata
di come se l’aspettava.
«Cosa c’è di tanto divertente?»
«Voi due» dice lei, ridendo
ancora di più.
«Perché?» chiede Hardy.
«Perché saremmo così divertenti?»
«È mai venuto in mente a uno di
voi due di chiedere a lui dove
vuole vivere?»
6

Il baule di Ramanujan è pronto. È


accanto alla porta d’ingresso del
113 di Chesterton Road, insieme al
suo proprietario, che sta rigido
sull’attenti, come se stesse
presenziando a una cerimonia
militare o religiosa. Davanti a lui ci
sono i Neville e Ethel. Tutti vestiti
per l’occasione. Nessuno indossa le
pantofole.
Di lì a poco arriverà il fratello
maggiore di Neville con la sua
Jowett, la stessa automobile con cui
sono andati a prendere Ramanujan
quando la sua nave ha attraccato.
Il fratello resterà per il weekend.
«E pensare che era solo… quanto,
Alice, sei settimane fa?»
«Sette» dice Alice.
«Sette settimane. Devo dire,
Ramanujan, che è come se fossi
sempre stato qui.»
Ramanujan si guarda le scarpe.
Ha la fronte imperlata di sudore.
«Sentiremo la tua mancanza da
queste parti, vero signore mie?»
Neville mette un braccio intorno
alla vita di Alice, che rabbrividisce.
Ma, tra la sorpresa generale, è
Ethel che scoppia in lacrime.
«Via, Ethel, per favore» dice
Alice, chiudendo gli occhi.
«Mi scusi, signora» dice Ethel.
«È solo che non sarà più lo stesso
qui, senza il signore per cui tagliare
la frutta.»
«Ti dirò una cosa, Ethel»
annuncia Neville, ridendo. «Mi
aspetto un arrosto di montone per
cena.»
Ridono tutti della battuta. Ethel
si toglie un fazzoletto di tasca e si
soffia il naso.
Poi c’è il suono di un clacson.
«Ecco Eddie» dice Neville, aprendo
la porta per salutare. «Giusto in
tempo, come sempre!» grida, prima
di rivolgersi a Ramanujan. «No,
per essere assolutamente franchi, ci
mancherai qui a casa. A tutti noi.»
«Ma non sarò poi così lontano»
dice Ramanujan. «Solo al college.»
«Certo, e puoi venire a cena
quando vuoi. Giusto, Ethel? Ti
assicuro che non hai cucinato la
tua ultima oca vegetale.»
«Oh, signore» dice Ethel,
coprendosi il viso.
Eddie Neville entra in casa. È
rubizzo e gioviale, una versione più
attempata di Eric. Dà una gran
pacca sulla schiena a Ramanujan,
poi i fratelli sollevano il baule e lo
portano alla macchina. Ramanujan
si rivolge ad Alice.
«La ringrazio infinitamente per
la sua gentilezza» dice. «E non solo
io, anche mia madre la ringrazia.»
«Davvero?»
«Sì, l’ha scritto in una lettera e
mi ha chiesto di dirglielo.»
«E Janaki?»
«Da Janaki non ho ricevuto
lettere. Ma sono sicuro che la
ringrazierebbe anche lei.»
Si stringono la mano ed è tutto
molto amabile e innocente. E,
come Alice ricorda a se stessa, non
è che lui non volesse andare.
Avrebbe potuto rifiutarsi di farlo.
Dopo che gli uomini se ne sono
andati, la casa sembra molto
silenziosa. Ethel scompare in
cucina, indubbiamente a preparare
l’arrosto richiesto. E anche Alice
non può negare che le viene
l’acquolina in bocca, alla
prospettiva della carne, dopo una
così lunga astinenza.
Attraversa il salotto, diretta
verso il piano; lancia una breve
occhiata al puzzle sul tavolo… e
rimane senza fiato. Possibile?
Sì, Ramanujan lo ha finito. Deve
essere rimasto alzato quasi tutta la
notte. Eccoli lì i gentiluomini con
l’aria di altri tempi, e il locandiere.
Un bicchiere e un cappello a
cilindro sono appoggiati sul tavolo.
L’assito arriva fino alle nappe sul
bordo del tappeto. Però – Alice si
china sul tavolo, attenta a non
lasciarsi sfuggire il respiro – eh sì,
c’è qualcosa che non va. Manca un
pezzo. Nell’angolo in basso a
sinistra, dove finisce il tappeto e
incomincia l’assito, si intravede il
legno del tavolo sottostante. Il
legno vero e il legno
dell’illustrazione hanno una
tonalità così simile che se non si
guardasse attentamente non lo si
noterebbe. Ma Alice lo nota, e nel
farlo si ricorda i terribili accessi di
rabbia di sua sorella seguiti dalla
sua affannosa ricerca a tentoni sul
pavimento. Naturalmente ha senso
che un pezzo sia andato perso.
Anzi, è un miracolo che non ne
manchino di più.
Segue con le dita i contorni del
buco. Pensa alla vecchia nursery, al
divano e alle tende a fiori sbiadite.
L’ultima volta, mentre rimetteva i
pezzi nella loro scatola, uno,
marrone a strisce nere, doveva
essere rimasto fuori. La sua assenza
è ciò che tiene tra le mani adesso,
così le apre, liberandola nella
stanza: la forma di una farfalla.
7

New Lecture Hall, Università di


Harvard
Verso la metà del 1920 (disse
Hardy nella conferenza che non
tenne) Mrs. Neville venne a
trovarmi. A quel punto ero a
Oxford già da qualche anno.
Neville era a Reading. Invero
avevamo lasciato il Trinity lo stesso
anno, il 1919: io perché, dopo la
storia con Russell, non sopportavo
più il posto; Neville perché la sua
fellowship non era stata rinnovata.
A ragione, penso, sospettava che
fosse una ritorsione per essersi
dimostrato così apertamente
pacifista durante la guerra. Si era
fatto sentire, quasi quanto Russell.
Non eravamo rimasti in
contatto, anche se avevo saputo,
tramite Littlewood, che i Neville
avevano avuto un bambino, un
maschio, e che il bimbo era morto
prima di compiere un anno.
Quell’anno Littlewood e io
stavamo pubblicando parecchi
saggi insieme, scritti tramite uno
scambio di lettere. Ci vedevamo al
massimo ogni due o tre mesi.
Dovrei aggiungere che Alice non
piombò nei miei appartamenti al
New College senza annunciarsi.
Mandò un biglietto prima,
spiegando che lei e Neville
sarebbero stati a Oxford per un
giorno poiché lui teneva una
conferenza in uno dei college.
Neville sarebbe stato troppo
occupato, ma lei aveva del tempo a
disposizione e sperava di potermi
fare una visita. Le risposi che
naturalmente sarebbe stata la
benvenuta.
Incaricai il mio scout di ordinare
il tè e dei tramezzini dalla cucina –
per quelli di voi che non hanno
familiarità con queste materie
arcane, quello che a Cambridge
chiamiamo “gyp”, a Oxford è lo
“scout”, ma sempre di un servitore
si tratta – e a tempo debito, i
cinque minuti di rigore dopo l’ora
dell’appuntamento, Mrs. Neville
arrivò, un po’ più in carne di
quando era più giovane, ma ancora
con quel suo aspetto umidiccio,
come se fosse appena emersa da un
bagno. I vari fermagli e forcine di
cui era costellata la sua chioma non
riuscivano a tenere in ordine i
capelli, che erano ancora rossi. Il
suo profumo – di violette di Parma
– era lo stesso di sempre, lo stesso
che un tempo usava mia madre.
Si sedette di fronte a me, e dopo
i più noiosi convenevoli (non
accennai alla morte di suo figlio)
venne al dunque, spiegando che
qualche settimana prima era
venuto a trovarla un matematico
indiano. Si chiamava Ranganathan,
ed era venuto da poco a studiare il
funzionamento della biblioteca di
Reading. Come Ramanujan, questo
Ranganathan era di Madras; così,
nel sapere che Neville era a
Reading, aveva chiesto se poteva
andare da loro per parlare di
Ramanujan, che, a quanto pare,
negli anni successivi alla sua morte
era diventato una specie di mito
per i matematici di Madras. Infatti
Ranganathan aveva intenzione di
scrivere una biografia di
Ramanujan.
Essendo la donna che è, Mrs.
Neville si preparò per la visita
approntando un infuso di caffè
indiano e un dolce indiano, di cui
aveva trovato la ricetta in uno dei
suoi libri di cucina. Ci tenne a
farmelo notare, cosa che, adesso
me ne rendo conto, avrei dovuto
riconoscere come un segno
premonitore dello sfogo che
sarebbe seguito. A Cambridge
aveva sempre cercato di minare la
mia amicizia con Ramanujan
insistendo su quanto lei lo
“capisse” meglio di chiunque altro.
E nel caso di Ranganathan
l’espediente dovette funzionare,
perché lui si confidò liberamente
con Mrs. Neville. Atempo debito
arrivò a casa loro, disse Alice, e
indossava un turbante. La cosa la
lasciò semplicemente sbalordita,
disse, perché a Cambridge
Ramanujan si era spesso lamentato
con lei del fatto che portare il
cappello era per lui una tortura.
Non sarebbe stato più a suo agio
indossando un turbante? chiese.
Prima che potessi rispondere,
aveva ripreso il suo racconto.
Assorbito lo shock del turbante,
sembra avesse chiesto a
Ranganathan se gli aveva mai
causato dei problemi indossare il
turbante in Inghilterra, e lui aveva
risposto che solo in due occasioni
qualcuno aveva fatto delle
osservazioni sul suo copricapo. Una
volta fu a Hyde Park, allo Speaker’s
Corner, dove un oratore che
perorava la causa
dell’indipendenza dell’Irlanda lo
additò dalla piattaforma dicendo
che quell’“amico che viene
dall’India” doveva indubbiamente
capire la persecuzione di un popolo
schiavo da parte dell’Inghilterra.
L’altra volta fu mentre
Ranganathan era su un treno per
Croydon, un treno che viaggiava a
rilento per via di alcune riparazioni
sulla linea, e i facchini lo
guardarono attraverso il finestrino
e lo chiamarono “Mister A.”, che
era l’appellativo che i giornali
dell’epoca riservavano a un
principe indiano coinvolto in una
vertenza giudiziaria. Nessuno dei
due incidenti lo aveva turbato
minimamente, disse Ranganathan,
il che indusse Mrs. Neville a
chiedergli come mai, allora, al
povero Ramanujan non era stato
concesso di indossare il suo
turbante. Ranganathan rispose che
forse a quel tempo, a Madras, si
dava per certo che un uomo che si
fosse aggirato per le strade inglesi
con un turbante in testa sarebbe
stato deriso o addirittura lapidato.
Dopotutto, pochi dei protettori
indiani di Ramanujan erano mai
stati in Inghilterra, mentre i suoi
protettori inglesi erano partiti da
molti anni.
Tutto questo Mrs. Neville lo
spiegò con voce sempre più
concitata, accusatoria persino.
Come se, in qualche modo, fossi
complice del decreto per cui
Ramanujan non poteva indossare
un turbante, mentre a me, che lo
indossasse o meno, era del tutto
indifferente. In ogni caso, prima
che potessi dirglielo, lei passò dal
turbante al kudimi, il codino di
capelli prescritto dalla religione,
che Ramanujan si era fatto tagliare
prima della partenza. E lui lo aveva
ancora il suo kudimi, chiese Alice a
Ranganathan, e lui le disse che sì,
lo aveva ancora, e si tolse il
turbante per mostrarle il codino; a
quel punto le vennero le lacrime
agli occhi, disse, proprio come
succedeva adesso. «Perché mai»
chiese, «Ramanujan è stato
costretto a tagliarlo? Sarebbe stato
tanto più felice se avesse potuto
tenerlo.» Ma, di nuovo, non ebbi la
possibilità di ribattere, perché a
questo punto era passata agli abiti.
Sebbene Ranganathan indossasse
abiti occidentali, le disse che,
quando stava in casa, indossava il
suo dhoti, e che la sua padrona di
casa non trovava niente da ridire. E
nemmeno lei, disse Mrs. Neville,
avrebbe obiettato a che Ramanujan
indossasse il dhoti a casa sua. E
perché non gli era stato concesso di
indossare il dhoti al Trinity? «Forse
a lei sembrerà una questione da
poco, Mr. Hardy» disse, «ma per
Ramanujan avrebbe fatto la
differenza tra felicità e
disperazione.»
Vi faccio notare che, fino a quel
momento, non ero riuscito a
infilare una parola in questa
“conversazione” putativa. Mrs.
Neville non me ne aveva dato la
possibilità. Ma adesso si stava
asciugando gli occhi, così
approfittai di quella breve cesura
nella sua arringa per dire: «Sono
perfettamente d’accordo con lei.
Senza dubbio Ramanujan sarebbe
stato molto più felice se si fosse
concesso queste piccole libertà».
Mi guardò sorpresa. «Se se le
fosse concesse!» esclamò. «Mi sta
dicendo che aveva una scelta?»
Dissi: «È da anni che a
Cambridge ci sono degli indiani.
Ramanujan aveva amici indiani e
alcuni indossavano il turbante.
Avrebbe potuto seguire il loro
esempio. Al Trinity, comunque,
indossava quasi sempre le
pantofole, invece delle scarpe».
«Gli regalai io quelle pantofole»
disse quasi con gelosia.
«È stato molto gentile da parte
sua» osservai.
Strizzò il fazzoletto. «Fu un
terribile sbaglio, il suo
trasferimento al college. Sono
sicura che, se fosse rimasto sotto il
mio tetto, non si sarebbe mai
ammalato. Potrebbe essere ancora
vivo.»
Ah, allora di questo si trattava!
La guardai con la pietosa
incredulità che si riserva ai malati
di mente. E, in un certo senso,
penso che fosse un po’ folle in quel
momento. Le donne sono così
inclini a confondere le cose. Forse,
attraverso Ramanujan, stava
piangendo la morte di suo figlio.
In ogni caso, dopo aver detto la
sua, si tirò indietro. Di colpo
divenne molto vivace e
amichevole, come se la tensione
dell’ultima mezz’ora non ci fosse
mai stata. Che piacere era
rivedermi. Ero più felice a Oxford
che a Cambridge? Eric le aveva
chiesto di portarmi i suoi saluti e
dirmi quanto gli spiacesse di non
avere la possibilità di passare per
una visita.
E poi se ne andò, lasciandosi
dietro il suo profumo di violette di
Parma. È una dolorosa ironia che
anche le accuse più ingiuste e
ridicole lascino il segno, un
barlume di… di cosa? Di colpa?
No, non precisamente. Di dubbio.
Perché adesso mi aveva messo in
testa l’idea che, facendo trasferire
Ramanujan al college, avevo
provocato, o quantomeno
affrettato, la sua morte. Un’idea
simile, naturalmente, era pura
follia. Dopotutto, cosa c’entrava
con la sua malattia il luogo in cui
viveva? Eppure, forse se fosse stato
tenuto alla larga da una massa di
uomini come quella che passò dal
Trinity negli anni della guerra, se
non avesse preso a cucinarsi i pasti
da solo… Vedete? Una volta che la
scheggia del dubbio si è insinuata
sotto la pelle, non c’è più modo di
estrarla. Mrs. Neville aveva fatto il
suo lavoro mirabilmente.
Ma sono andato troppo oltre;
sono saltato agli anni della malattia
di Ramanujan, anzi li ho
addirittura scavalcati, mentre
quello di cui volevo parlarvi erano
le poche settimane felici prima
dello scoppio della guerra,
settimane distillate, per me,
nell’immagine di Ramanujan che
caracollava attraverso la New
Court in pantofole. E adesso
capisco che sono state proprio le
pantofole, oggi, a farmi ricordare la
visita di Mrs. Neville. Perché, come
ebbe a ricordarmi amaramente, era
stata lei a regalargliele.
Caracollare, naturalmente, non
è un bel verbo. E non è neppure
un modo accurato di descrivere
l’andatura di Ramanujan. Se
sembrava barcollare un po’, sono
convinto che fosse dovuto
soprattutto alla costrizione dei suoi
abiti, che, come ho detto, erano
troppo stretti per lui. Su questo,
Mrs. Neville e io siamo
perfettamente d’accordo:
Ramanujan era nato per indossare
un dhoti, o un altro indumento
sciolto e comodo. In abiti fluenti,
avrebbe avuto un aspetto
altrettanto regale di quel “Mister
A.” con cui i facchini avevano
confuso Ranganathan. In abiti
inglesi, invece, risultava un po’
assurdo.
In ogni caso, come sono certo
avrete già sentito dire mille volte,
quella fu un’estate
straordinariamente bella,
quell’ultima estate prima della
guerra; mai gli alberi avevano dato
fiori più profumati e via
discorrendo. Era per l’appunto
l’ultima settimana di maggio, la più
intensa a Cambridge, quando
Ramanujan si trasferì nei suoi
appartamenti, recapitato in
Whewell’s Court dal fratello di
Neville, con quella sua terribile
automobile. Lo stesso giorno
furono esposti i risultati del tripos, i
nomi adesso in una semplice riga
verticale. Littlewood e io
portammo Ramanujan a vederli, e
lui li esaminò scrupolosamente. Era
tutt’altra cosa dai vecchi tempi,
quando una folla avrebbe riempito
la Senate House per sentire la
lettura della lista degli onori…
Avevo messo fine a tutto questo,
gli dissi, una conquista di cui
andavo, a mio parere, giustamente
fiero. E credo che Ramanujan
capisse il mio orgoglio, lui che era
stato tradito e messo alle corde
dagli esami.
Dato che il tempo era così
eccezionalmente bello, Littlewood
e io lo portammo al Cam a vedere i
barchini a fondo piatto scivolare
lungo il fiume, gli uomini in
pantaloni di flanella e blazer del
college, le ragazze con i loro abitini
vivaci e i pittoreschi ombrelli
giapponesi. Niente di tutto questo,
mi disse poi, gli parve
particolarmente spettacolare: non a
lui che era abituato ai colori vivaci
dei sari delle donne di
Kumbakonam, e che aveva disceso
il fiume sacro di Cavary in barche
non molto diverse dai nostri
barchini a fondo piatto. Gli argini
del fiume erano disseminati di
picnic. Guardammo le gare di
canottaggio per un po’ – lui parve
trovarle piuttosto noiose – poi
andammo al Fenner’s per una
partita di cricket, Cambridge
contro Free Foresters. Mi duole
riferire che la partita lo interessò
anche meno delle gare di
canottaggio. Infine la sera
assistemmo a uno spettacolo
piuttosto frivolo messo in scena al
Footlights Dramatic Club, una
rivista intitolata Was it the
Lobster?, e con mio grande stupore
Ramanujan rise di cuore per le
canzoni e gli sketch. Aveva una
risata memorabile, abbastanza
fragorosa da farti sobbalzare, al che
si copriva la bocca con le mani.
Se fosse ancora vivo, sono sicuro
che potrebbe dirvi se era stata
davvero l’aragosta. Quel tipo di
cose se le ricordava. Quanto a me,
posso dirvi solo che ricorderò
sempre quei giorni con gioia, e in
particolare la visione di
Ramanujan, col viso rivolto verso il
sole, che attraversava la New Court
verso i miei appartamenti. Era una
visione che mi riempiva di
soddisfazione e di un certo
orgoglio, perché sapevo che era
solo grazie a me se era lì, che senza
di me non avrebbe mai percorso
quei viali di ciottoli.
Arrivava, per lo più, alle nove e
mezzo del mattino. Per qualche
momento lui e Hermione si
guardavano. Poi bevevamo il caffè
e facevamo due chiacchiere prima
di metterci al lavoro. Come si
trovava nelle sue stanze?
Benissimo, grazie. Aveva problemi
a cucinarsi i pasti? Niente affatto,
grazie. Comprava le verdure al
mercato ogni settimana (per la
verità all’inizio le trovava strane e
insapori, ma poi ci si era abituato),
inoltre aveva la possibilità di
ordinare riso, farina di riso e spezie
da un negozio di Londra. Un
amico di Madras gli aveva anche
mandato un tegame speciale, di cui
ho dimenticato il nome, fatto
d’ottone rivestito d’argento in cui
preparava uno dei suoi piatti
preferiti, una zuppa piccante di
lenticchie chiamata rasam. Nella
sua provincia natale, la gente
amava il cibo con un gusto aspro
oltre che piccante. All’inizio
Ramanujan cercò di dare al suo
cibo la giusta nota di asprezza
spremendoci dentro dei limoni, ma
i nostri limoni, disse, erano molto
meno aspri di quelli indiani. Per
fortuna un altro conoscente di
Madras, un ragazzo che stava per
venire a studiare matematica a
Cambridge, sarebbe arrivato da un
giorno all’altro portando una
grossa scorta di tamarindo, l’agente
acidificante preferito della regione,
col quale Ramanujan sarebbe
riuscito a preparare un rasam
quasi, se non del tutto, saporito
come quello di sua madre.
In una di queste occasioni,
mentre stavamo bevendo il nostro
caffè, notò il busto di Gaye. «Chi è
quell’uomo?» mi chiese. E io gli
spiegai che era un caro amico, forse
l’amico più caro che avessi mai
avuto, e che era morto, al che
Ramanujan abbassò tristemente gli
occhi. Anche lui, disse, aveva degli
amici che erano morti. Per fortuna
ebbe la delicatezza di non
chiedermi come era morto Gaye.
Poi, finito il caffè, ci mettemmo
al lavoro. In quei primi giorni stavo
ancora cercando di fargli capire
l’importanza di scrivere le
dimostrazioni: un errore inutile,
adesso lo capisco. Simili valori
devono essere impartiti presto a un
matematico; nel caso di
Ramanujan, me ne rendo conto,
era troppo tardi, ormai. Tuttavia, ci
provai.
Ho idee molto particolari sulla
dimostrazione. Credo che le
dimostrazioni dovrebbero essere
belle e, per quanto possibile,
concise. Una bella dimostrazione
dovrebbe essere snella come
un’ode di Shelley e, come un’ode,
dovrebbe suggerire vastità. Cercai
di imprimere questo nella mente di
Ramanujan. «Una buona
dimostrazione» gli dissi «deve
combinare la sorpresa con
l’inevitabilità e l’economia.» Non
c’è esempio migliore della
dimostrazione di Euclide che ci
sono infiniti numeri primi, una
dimostrazione attraverso la quale vi
guiderò passo passo, proprio come
feci con lui molti anni fa, non
perché voi non la conosciate (non
mi permetterei mai di insultarvi
insinuando una simile ignoranza)
ma perché voglio richiamare
l’attenzione su aspetti della
dimostrazione che il vostro
insegnante potrebbe aver
trascurato.
Questa, naturalmente, è una
dimostrazione per reductio ad
absurdum, quindi inizieremo
asserendo il contrario di quanto
vogliamo dimostrare: partiamo
dall’assunto che c’è solo un
numero finito di numeri primi e
chiamiamo l’“ultimo” numero
primo, “il più grande” numero
primo, P. Dobbiamo ricordare
anche che, per definizione, ogni
numero non primo può essere
scomposto in numeri primi. Per
fare un esempio a caso, 190 può
essere scomposto in 19 × 5 × 2.
In base all’assunto che P è il più
grande numero primo, possiamo
scrivere i numeri primi in
sequenza, dal più piccolo al più
grande, e la sequenza sarà così:
2, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 17, 19, 23 … P
Poi possiamo proporre un numero
Q che superi di 1 tutti i numeri
primi moltiplicati tra loro. Vale a
dire:
Q = (2 × 3 × 5 × 7 × 11 × 13 … ×
P) + 1
Ora, o Q è un numero primo o non
lo è. Se Q è un numero primo,
questo contraddice l’assunto che P
è il numero primo più grande. Ma
se Q non è un numero primo,
allora deve essere divisibile per un
numero primo, e questo non potrà
essere nessuno dei numeri primi
fino a e incluso P. Quindi il
divisore di Q deve essere un
numero primo maggiore di P, il
che, ancora una volta, contraddice
il nostro assunto originale.
Pertanto non esiste un numero
primo più grande di tutti. Esiste
un’infinità di numeri primi.
Non so dirvi quale piacere io
continui a trarre, ancor oggi, dalla
bellezza di questa dimostrazione;
dal breve eppur straordinario
tragitto che traccia, da un assunto
apparentemente ragionevole (che
c’è un numero primo più grande di
tutti) alla conclusione inevitabile
eppure del tutto inaspettata che
l’assunto è falso. Né vi direi la
verità se raccontassi che
Ramanujan era indifferente alla
bellezza della dimostrazione. Lui
capiva quella bellezza; apprezzava
quella bellezza. Ma la apprezzava
nello stesso modo in cui io
apprezzo i romanzi di Mr. Henry
James. Vale a dire che li ammiro,
ma non riesco ad amarli. Allo
stesso modo, non ho mai avuto
l’impressione che Ramanujan
provasse un grande amore per la
dimostrazione. Quello che amava
erano i numeri in sé. La loro
infinita flessibilità e al tempo stesso
il loro ordine rigido. Il grado in cui
le leggi naturali, molte delle quali
capiamo a malapena, mettono alla
prova la nostra capacità di
manipolarle. Littlewood
considerava Ramanujan un
anacronismo. Secondo Littlewood,
apparteneva all’era delle formule,
che è finita un secolo fa. Se fosse
stato tedesco, e fosse nato nel
1800, Ramanujan avrebbe
cambiato la storia del mondo. Ma
purtroppo è nato troppo tardi, e
sulla sponda sbagliata dell’oceano,
e anche se non lo ammise mai sono
certo che lui lo sapesse.
Questi, credo, furono giorni di
grande felicità per Ramanujan,
checché ne dica Mrs. Neville. Del
resto lei non era esclusa dalla
scena. Un weekend, per esempio,
ricordo che venne a prendere
Ramanujan per portarlo a Londra,
a incontrare Gertrude per una
visita al British Museum. Forse si
fece degli amici. A volte lo vedevo
in compagnia di altri indiani.
Soprattutto lavorava e, prima della
fine dell’estate, pubblicò il suo
saggio sulle equazioni modulari e i
percorsi per π.
Ogni tanto andavo a trovarlo
nelle sue stanze, che erano al pian
terreno di Whewell’s Court. Erano
straordinariamente ordinate e non
contenevano quasi nessun arredo,
a parte il letto e l’armadio di
ordinanza, e, per qualche ragione,
una pianola che non funzionava.
Viveva in modo ascetico, come uno
di quei mistici indù di cui ogni
tanto si legge. Dalla piccola cucina
emanava sempre un odore di curry
e di burro chiarificato, quel tipo di
burro tanto caro agli indiani che si
chiama ghee. Se mai passava
un’ombra di preoccupazione sulle
nostre conversazioni di quei giorni,
era dovuta al fatto che sua moglie
non gli scriveva mai. Non importa
se quella povera creatura sapeva a
malapena leggere e scrivere.
Ramanujan desiderava
ardentemente una qualsiasi
comunicazione da parte sua, senza
contare che, in India,
apparentemente c’erano scrivani ai
quali ci si poteva rivolgere per farsi
scrivere una lettera. Da sua madre
arrivavano regolarmente delle
missive, pagine e pagine coperte di
una scrittura fitta che per me era
misteriosa quanto deve esserlo il
linguaggio dei teoremi per chi non
conosce la matematica. Sua moglie,
invece, non scriveva niente,
nonostante lui le scrivesse,
immancabilmente, una volta la
settimana.
C’è da chiedersi cosa sarebbe
successo se non fosse scoppiata la
guerra. Se lo chiedono in molti, per
i più svariati motivi. Naturalmente
non c’è una risposta.
QUARTA PARTE

Le bellezze dell’isola
1

La Germania invade il Belgio e


sulle prime lo scoppio della guerra
ha su Hardy lo stesso effetto di una
bella dimostrazione: gli sembra a
un tempo inevitabile e inaspettato.
Quasi tutti quelli con cui parla,
adesso pretendono di averlo
previsto, mentre lui, ripensando
all’ultimo mese, ricorda di aver
sentito solo Russell dire che
spiravano venti di guerra. Erano
invece le crisi nazionali – scioperi,
disordini nell’Ulster – a dominare
la conversazione al tavolo dei
docenti. L’assassinio di Sarajevo,
naturalmente, aveva provocato
qualche commento. Ma la Serbia
era così lontana! Un piccolo paese
primitivo. Niente di ciò che vi
accadeva poteva toccare
Cambridge.
Russell, per contro, era in uno
stato di grande agitazione. Aveva
trascorso la maggior parte del mese
di luglio sfrecciando tra Londra e
Cambridge, annunciando a destra
e a manca di non conoscere
nessuno che fosse favorevole alla
guerra, che tutti quelli con cui
aveva parlato consideravano la
prospettiva della guerra una vera
follia. Come se la pubblica
opinione avesse mai influenzato le
decisioni del governo. Come se
affermare che qualcosa non
sarebbe mai potuto accadere
avrebbe impedito che accadesse.
Il giorno dopo che fu annunciata
la notizia, Russell rincorse Hardy e
lo bloccò in mezzo alla Great
Court. «E così è successo» disse,
senza il compiacimento del “lo
dicevo io”, ma con un tono a un
tempo sgomento e scoraggiato.
«Tutto ciò in cui abbiamo creduto
finora è finito.» E adesso le
dichiarazioni di guerra venivano
presentate come biglietti da visita.
È tutto molto sconcertante per
Hardy. La guerra con la Germania,
dopotutto, significa guerra con
Gottinga, l’adorata Gottinga, terra
di Gauss e Riemann. Tuttavia la
Germania adesso ha invaso il
Belgio puntando verso la Francia.
Per proteggere il Belgio,
l’Inghilterra deve stringere
un’alleanza con la Russia – la
selvaggia, autocratica Russia – e
tutto al fine di sconfiggere la
Germania, terra di Gauss e
Riemann… Come è appropriato
che solo Russell abbia predetto il
peggio! L’immaginazione di Hardy
si avvita in una regressione infinita,
il barbiere che fa la barba solo agli
uomini della sua città che non si
radono da soli. E la città (quale
altra se no?) è Gottinga. Appena
viene dichiarata la guerra, tra i suoi
conoscenti il tono cambia: passa
dal rifiuto alla negazione dei fatti.
Invece di rassicurarsi a vicenda che
l’Inghilterra resterà neutrale,
prendono a rassicurarsi l’un l’altro
che la guerra, se dovesse mai
cominciare, sarà rapida. Sarà finita
per Natale. Lord Grey, per
esempio, ha appena accettato
colloqui segreti con la Francia.
Chissà se questo porterà a un
rapido armistizio? Parole
confortanti risuonano in tutta New
Court e Nevile’s Court, ma dietro
queste Hardy sente l’esile,
incessante balbettio della
disperazione.
«È la fine» dice Russell. È
appena tornato dall’ennesimo
viaggio a Londra. Il giorno prima
dello scoppio della guerra, la sua
amante, Ottoline Morrell, lo ha
convocato, perché suo marito
doveva tenere un discorso in
Parlamento, per raccomandare al
governo britannico di non
scendere in campo. Non essendo
riuscito a guadagnare l’accesso alla
tribuna, Russell ha camminato su e
giù per Trafalgar Square ed è
rimasto inorridito nel sentire
uomini e donne seduti sotto i leoni
esprimere il loro entusiasmo, la
loro gioia persino, alla prospettiva
della guerra. «Oggi non è ieri» dice
Russell, parlando delle reazioni
della gente “comune”. Eppure,
anche qui a Cambridge, dove in
teoria nessuno è “comune”,
risuonano rombi sotterranei di
patriottismo. Persino tra i
confratelli, Rupert Brooke, per
esempio, ha detto di essere pronto
ad arruolarsi volontario –
«indubbiamente influenzato da
quell’odioso piccolo Eddie Marsh»
dice Russell – mentre Butler ha
offerto tutte le strutture del Trinity
College allo sforzo bellico. «È la
fine» ripete Russell, poi torna a
Londra perché non sopporta di
stare lontano dal centro delle cose.
«Per quanto orribili» dice, «devo
ricevere le notizie appena
arrivano.»
L’ironia, naturalmente, è che
spesso le notizie arrivano prima al
Trinity che alla sede del “Times”. I
confratelli hanno contatti
invidiabili: Keynes con il Tesoro,
Marsh, tramite Churchill, con
Downing Street. Norton scrive a
Hardy che ha visto Marsh a un
party a Londra, “impettito nel suo
impeccabile completo da sera,
tronfio della sua importanza”.
Brooke era con lui. “Abita
nell’appartamento di Marsh. Ha
disdegnato Bloomsbury e i ragazzi
a favore della virilità e delle
uniformi. Eppure non è strano che
abbia scelto proprio Edwina, come
suo mentore?”
Intanto non smette di essere
estate. E questo è struggente.
Cambridge si è più o meno
svuotata per la lunga vacanza.
Littlewood sta a Treen, e torna,
presumibilmente, solo quando il
dottor Chase si insedia in casa.
Hardy divide le sue settimane tra il
Trinity e la casa di sua madre a
Cranleigh. Quando è al Trinity,
passa giorni interi senza vedere
nessuno, a parte Ramanujan, con il
quale fa lunghe passeggiate sul
fiume, e a volte siede sugli argini.
Eliotropico per natura, alza il viso
verso il sole ogni volta che fa
capolino tra le nuvole. A dire la
verità, apprezza quella quiete.
Sembra inconcepibile che il mondo
possa finire in una stagione così
bella.
Si sforza di vedere Ramanujan.
Visto di profilo davanti al fiume, le
braccia incrociate dietro la schiena
e la pancia appena prominente,
potrebbe essere la silhouette di un
gentiluomo vittoriano, ritagliata da
un cartoncino nero incollato su
fondo bianco. Controllo e
disciplina, una certa riservatezza, se
non elusività, sono i suoi tratti
distintivi. Eccetto quando
discutono di matematica,
Ramanujan parla raramente se non
è interpellato, e quando gli fanno
delle domande risponde quasi
sempre pescando in quella che
Hardy vede come una riserva di
risposte stereotipate, acquistate
senza dubbio nello stesso giro di
compere a Madras in cui si è
rifornito di pantaloni, calze e
biancheria intima. Risposte quali:
«Sì, è davvero delizioso». «Grazie,
mia madre e mia moglie stanno
bene.» «La situazione politica è
davvero molto complessa.» È lì,
dopo tutto, in abiti inglesi e su
suolo inglese, eppure Hardy non
riesce a penetrare la sua corazza di
educata imperscrutabilità. Solo in
rare occasioni Ramanujan si lascia
sfuggire qualcosa, una folata di
panico o di passione supera la
barriera (Hobson! Baker!), e allora
Hardy sente l’anima dell’uomo
come un mistero, un formicolio
che si sposta rapidamente sotto la
pelle.
In questi pomeriggi parlano per
lo più di matematica. Integrali
definiti, funzioni ellittiche,
approssimazione diofantea. E,
naturalmente, numeri primi, la
loro tendenza diabolica a
disorientare, che Hardy vuole
assicurarsi che Ramanujan non
perda mai di vista. Per esempio,
Littlewood di recente ha fatto
un’altra importante scoperta. Ha a
che vedere con un
perfezionamento che Riemann fece
della formula di Gauss per contare
i numeri primi. Fino a poco tempo
prima, la maggior parte dei
matematici dava per scontato che
la versione di Riemann avrebbe
sempre fornito una stima più
accurata di quella di Gauss. Ma
adesso Littlewood ha dimostrato
che, sebbene la versione di
Riemann sia più accurata per il
primo milione di numeri primi,
superata questa cifra la versione di
Gauss a volte è più accurata. Ma
solo a volte. Questa è una scoperta
di enorme importanza per una
ventina di persone in tutto.
Purtroppo, la metà di queste
persone sono in Germania.
Mentre passeggiano, Hardy
chiede a Ramanujan se conosce la
storia della terribile governante di
Riemann, e quando Ramanujan
scuote la testa gliela racconta.
«Naturalmente» conclude, «è
probabile che la storia sia falsa.»
«Che età aveva quando è
morto?»
«Trentanove anni. È morto sul
Lago Maggiore, di tubercolosi.
Quindi perché mai la governante
avrebbe dovuto sentirsi in dovere
di bruciare le sue carte? Sembra
tutto sospettosamente conveniente,
un modo per dire: “Sì, una
dimostrazione esiste, basta
trovarla”.»
Ramanujan tace per un istante.
Poi chiede a Hardy di Gottinga e
Hardy gli racconta quel poco che sa
della città; descrive il Rathaus sulla
cui facciata è decorato il motto
“Lontano da qui non c’è vita”, e le
strade di acciottolato lungo le
quali, nella sua immaginazione,
Gauss e Riemann – ormai liberi
dalle costrizioni del tempo –
passeggiano insieme discutendo
dell’ipotesi. Ogni pochi passi,
quando Riemann arriva a un
passaggio cruciale della sua
dimostrazione perduta, si fermano,
deviando i passanti come un masso
devia un corso d’acqua. Allo stesso
modo, quando parlano di
matematica, Hardy e Ramanujan a
volte si fermano; solo che in questo
periodo dell’anno ci sono pochi
passanti da deviare.
Hardy chiede a Ramanujan della
sua infanzia. Ha mai giocato a
scacchi? Ancora una volta,
Ramanujan scuote la testa. Ha
imparato a giocare a scacchi solo
dopo essere arrivato a Madras,
dice. Però, quando era molto
piccolo, lui e sua madre facevano
un gioco composto di diciotto
pezzi, di cui quindici
rappresentavano le pecore e tre i
lupi. «Quando i lupi accerchiavano
una pecora, la mangiavano. Ma
quando le pecore accerchiavano un
lupo, lo immobilizzavano soltanto.»
«Immagino» dice Hardy «che
per le pecore fosse difficile
vincere.»
«Sì. Comunque, dopo
pochissimo tempo ero riuscito a
calcolare le probabilità del gioco, e
da quel momento ho battuto
sempre mia madre, sia che giocassi
coi lupi che con le pecore.»
«E lei se ne rammaricava?»
«Niente affatto.»
«Quanti anni avevi?»
«Sei. Cinque, forse.»
Hardy non è sorpreso. A cinque
anni batteva sempre sua madre a
scacchi.
«Entrambi i miei genitori erano
portati per la matematica» dice.
«Soprattutto mia madre. Però non
ha mai avuto la possibilità di
coltivare il suo talento. Faceva
l’insegnante.»
Ramanujan non dice niente.
«E i tuoi genitori?»
«Sono povera gente. Non hanno
avuto un’istruzione adeguata. Mio
padre è un gumasta, un semplice
impiegato contabile.»
Si fermano a guardare il fiume.
Nessun barchino in vista. Hardy
sente il cinguettio degli uccelli, il
debole fruscio dei rami nella
brezza. Ramanujan si gira a
guardarlo, come fa raramente, e i
suoi occhi, così neri e intensi, lo
incantano. Occhi così, pensa,
indurrebbero anche la mente più
rigorosa a scrivere pessimi versi.
Liquide pozze di metallo fuso, /
portali verso un mondo al di là…
Di notte, a volte mentalmente,
lavora alla poesia, che però non
annota mai.
«Hardy» dice Ramanujan, «è
vero che in Belgio i tedeschi stanno
incendiando interi villaggi?»
«Così dicono i giornali.»
«E che uccidono i bambini e si
disfano dei vecchi?»
«Pare di sì.»
Ramanujan aggrotta la fronte.
«Sono preoccupato per due giovani
di Madras che stanno venendo qui
a studiare. Ananda Rao e Sankara
Rao. Mi stanno portando molte
scorte alimentari, compreso il
tamarindo.»
«Non è il caso di preoccuparsi»
dice Hardy, «nessuno attaccherà
una nave passeggeri britannica.»
«Ma loro non stanno viaggiando
su una nave britannica. Sono su
una nave austriaca. Pensavano di
arrivare in Austria e venire qui in
treno. Cosa ne sarà di loro
adesso?»
«Oh, una nave austriaca.» Un
pettirosso passa in volo. «Be’, una
volta arrivati a Trieste, loro…
insomma, non vedo perché
qualcuno dovrebbe dar loro dei
fastidi. In fondo sono solo
studenti.»
Di nuovo Ramanujan aggrotta la
fronte. «Stanotte ho sognato che
erano intrappolati in un villaggio in
fiamme» dice. «Li ho visti
bruciare.»
«No, non credo che possa
succedere. In fondo non si
avvicineranno neppure al Belgio.»
In silenzio, adesso, proseguono
la loro passeggiata. Ramanujan
tiene gli occhi fissi a terra davanti a
sé. E per un momento Hardy,
girandosi a guardarlo, si pone una
domanda terribile, una domanda
che si rimprovera di aver anche
solo concepito. Di cosa si
preoccupa veramente Ramanujan:
del destino dei due giovani o del
suo tamarindo?
2

Il venerdì successivo alla


dichiarazione di guerra, Hardy
partecipa a una spedizione a
Leintwardine Manor, sul confine
del Galles, per assistere a una
rappresentazione all’aperto della
Tempesta. Alice Neville ha
organizzato l’escursione all’inizio di
luglio, quando nessuno ancora
immaginava che la guerra fosse
imminente. Ha dei parenti vicino a
Leintwardine, e lo spettacolo sarà a
favore di un’opera pia della quale
fanno parte. Giovedì Hardy le ha
mandato un biglietto chiedendo se,
date le circostanze, non avrebbe
preferito annullare la gita, e lei ha
risposto che non vedeva motivo per
farlo. «Non ci sono combattimenti
nell’Hertfordshire, almeno a
quanto mi risulta» ha risposto, cosa
che ha irritato e deluso Hardy, che
sperava che la guerra,
quantomeno, gli avrebbe fornito
una valida scusa per esimersi dal
fare cose che non desiderava.
E così quel venerdì mattina si
ritrova a casa dei Neville, insieme a
Ramanujan, a Littlewood, al
fratello di Neville, Eddie, e
all’amico di questi, Mr. Allemby.
Di tutti gli invitati, solo Gertrude si
è tirata indietro, invocando un
finto raffreddore. Ramanujan e i
Neville viaggeranno con Eddie
sulla sua Jowett, Hardy e
Littlewood con Mr. Allemby, sulla
sua Vauxhall.
Una volta partiti, Cambridge
svanisce rapidamente, lasciando
posto all’aperta campagna. Il tempo
è bellissimo. Tuttavia, il fastidio di
Hardy per il rombo e la puzza della
Vauxhall gli inibisce ogni capacità
di godersi il panorama. È seduto
dietro, da solo. Littlewood è
davanti, con Allemby, che ha le
guance rubizze e la mascella
pesante. Come il maggiore dei
Neville, vive a nord di Londra, a
High Barnet. Entrambi sono
membri di un club automobilistico.
«Pazzi per i motori» dice a
Littlewood, che annuisce in quel
suo modo irritante e inevitabile –
Littlewood, con la sua sconcertante
capacità di trovarsi a suo agio
ovunque, anche nelle circostanze
più spaventose. Hardy invece trova
che più invecchia, più si sente a
disagio nell’avventurarsi fuori dalle
mura del Trinity. Le macchine non
gli sono mai piaciute, e Allemby
non è quel che si dice un guidatore
prudente. Prende le curve con una
ferocia che fa balzare il cuore in
gola al povero Hardy, e tutto senza
smettere di ridere e chiacchierare
con Littlewood al di sopra del
rombo fragoroso del motore,
mentre Hardy, allucinato, vede
canne di fucile sbucare dalle siepi
che fiancheggiano la strada. Le ore
diventano settimane, poi anni, le
canne di fucile sembrano
pungolargli le budella con
insistenza sempre più pressante a
ogni miglio, finché, grazie a Dio, si
fermano fuori da Leintwardine
Manor. Hardy vien fatto scendere
dal sedile posteriore. È rimasto
seduto per tanto di quel tempo che
si sente le gambe molli, sul punto
di cedere. Ha bisogno di un
gabinetto. Barcolla verso
Ramanujan, che sembra
abbastanza soddisfatto, anche se
un po’ impolverato.
«Piaciuta la scarrozzata?» gli
chiede.
Ramanujan si limita a sorridere.
«Il panorama era splendido» dice.
Altra risposta da grande
magazzino.
Una visita alla toilette, seguita
da una pinta in un pub vicino,
rimette un po’ in sesto Hardy.
Ormai il sole sta tramontando, e il
gruppo si dirige – a piedi questa
volta, grazie al cielo – verso il
maniero. Un grande prato scende
dalla casa verso un campo da
tennis sul quale è stato allestito un
palcoscenico, completo di riflettori.
Alcuni membri del pubblico, per lo
più donne anziane, siedono su
sedie pieghevoli, mentre altri sono
sparpagliati sul prato a fare un
picnic; e adesso, cosa che non lo
sorprende affatto, Hardy scopre
che anche Alice ha portato un
picnic, un’accozzaglia dei suoi
orrori vegetariani, che procede a
disporre su una tovaglia di tela da
materassi di un rosso sbiadito.
Vigorosamente distribuisce le
vivande, passando un piatto di
qualcosa farcito di qualcos’altro a
Mr. Allemby, che lo guarda con
un’espressione sbalordita. Un altro
piatto lo porge a Hardy. Mentre ne
esamina il contenuto, Hardy
percepisce, come da una grande
distanza, frammenti di
conversazione su Shakespeare,
sull’opera pia di Alice, sui pregi
della Vauxhall e su quelli della
Jowett. Che fatica deve essere tutto
questo sforzo per allontanare la
conversazione dall’argomento a cui
anela, un po’ come cercare di
tenere un magnete lontano da un
polo! E perché si danno tanta
pena? E, soprattutto, che ci fanno
qui?
Sta incominciando a imburrare
un pezzo di pane – l’unico
alimento commestibile che riesce a
tollerare – quando sente chiamare
il suo nome. Alza gli occhi, e vede
Harry Norton che punta deciso
verso di lui, accompagnato da
Sheppard, Taylor, Keynes e,
qualche passo indietro, il conte
Békássy.
Hardy si alza. Briciole gli cadono
dai pantaloni sull’erba. In seguito
rifletterà tristemente che c’è
qualcosa di inevitabile in
coincidenze di questo tipo. Lungi
dal negare la casualità, la
confermano. Pertanto 331, 3331,
33.331, 333.331 e 3.333.331 sono
numeri primi, ma 33.333.331 non
lo è.
«Salve, Hardy» dice Norton.
«Come mai da queste parti?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
«Siamo venuti a vedere Bliss,
naturalmente. Oh, scusate se
disturbiamo…»
«Bliss?»
«Sì, lo conosci Bliss.» Norton si
china su di lui. «La nuova recluta.
Fa la parte di Calibano e suo
fratello quella di Ferdinando.
Siamo venuti con Békássy ad
assistere al momento di gloria del
suo ragazzo. Vero Feri?»
Békássy, cui Keynes accarezza la
schiena, annuisce.
«Ma non avevo idea che Bliss
fosse nella commedia» dice Hardy.
«Noi siamo venuti perché Mrs.
Neville… Scusatemi, posso
presentarvi Mr. Norton? Mrs.
Neville…»
Oh, l’orrore delle presentazioni!
Mentre Hardy snocciola i nomi, i
«Molto lieto» si incrociano come
spade; l’inevitabile «Volete unirvi a
noi?» è seguito dall’altrettanto
inevitabile «Non ci
permetteremmo mai di
disturbare…». «Ma c’è cibo in
abbondanza.» «Be’, se è sicura…»
«Ma certo. Vi prego,
accomodatevi.»
E poi, prima che Hardy capisca
cosa sta succedendo, viene fatto
spazio, una seconda tovaglia da
picnic, azzurra stavolta, viene stesa
sul prato. I quadranti che si
toccano. Sheppard, abbandonando
sconsideratamente ogni pretesa di
discrezione, punta il dito su
Ramanujan e si mette a parlottare
con Taylor, che resta a bocca
aperta. Nella luce crepuscolare i
suoi capelli sembrano ancor più
bianchi che nelle sue stanze del
King’s. E cosa pensa Ramanujan di
questi uomini curiosi? Prende il
dito puntato di Sheppard come
un’indicazione della propria
celebrità (“il calcolatore indù”) o
del suo palese essere straniero? O
della sua pelle scura? O del suo
naso camuso?
Vengono sgomberati i piatti.
Animato dalla sua invadente
curiosità, Sheppard si accosta a
Ramanujan, facendogli le solite
domande – come si trova, è felice
al Trinity – ma anche altre di
natura decisamente più
“apostolica”, come: «Parlando da
indù, lei crede che il Paradiso
possa accogliere tanto i devoti dei
vostri dei che quelli del nostro
Dio?».
«Ci sono molti cristiani in India»
dice Ramanujan. «E musulmani. In
genere, gli aderenti rispettano le
reciproche fedi, anche se
naturalmente un certo conflitto è
inevitabile.» (Risposta acquistata da
Spencer’s, al prezzo di una rupia.)
«Naturale, naturale. Tuttavia, gli
induisti devono avere dei
sentimenti in proposito, per
esempio quando vedono i cristiani
entrare in una chiesa, o gli ebrei in
una sinagoga.»
«È mia personale opinione che
tutte le religioni siano più o meno
egualmente vere.»
«Sul serio?» dice Keynes.
«Affascinante! Peccato che
McTaggart non sia qui.» Lui e
Sheppard adesso stanno scrutando
Ramanujan con occhio da
estimatori, come se fosse un
embrione. È un embrione? E
questa è tutta una messa in scena?
E se è così, perché Hardy non è
stato informato? E chi è il padre?
Sta calando il crepuscolo. Le luci
della ribalta lampeggiano, il
pubblico si zittisce, la commedia
comincia. Dall’oscurità dietro il
palcoscenico emerge Bliss, la sua
bellezza stranamente esaltata dalla
postura curva che assume, dagli
sbaffi di tintura sul viso. Un
Calibano niente male, nell’insieme.
Hardy chiude gli occhi mentre
Bliss recita alcuni versi che Gaye
amava particolarmente:
I primi tempi della tua venuta
in questi luoghi tu mi accarezzavi,
e mi tenevi in gran conto;
m’offrivi a bere infusi di more
e m’insegnavi quali nomi dare
alla luce maggiore e alla minore
ch’ardono in cielo di giorno e di notte.
Ed io, che pure ti volevo bene,
ti mostrai le bellezze di quest’isola:
le fresche polle, le pozze salmastre,
le plaghe sterili e quelle feconde…
Ch’io sia maledetto per averlo fatto!
Hardy si gira a guardare Békássy.
Lacrime luccicano sotto quelle
pesanti palpebre da ussaro. Ecco
com’è, allora, il vero amore o il
cameratismo o quel che sia, tra
uomini! Quello che Hardy pensava
di aver conosciuto con Gaye; ciò
che a volte spera ancora di
conoscere. E chissà se lo conoscerà
mai di nuovo? Forse poiché il
mondo sta per finire, quel vecchio
desiderio per l’amore romantico,
per la passione, si è risvegliato in
lui; si guarda intorno, esitante,
chiedendosi se c’è qualcuno qui
stasera, non importa chi…
Poi il primo atto finisce. Norton
si alza per fumare, e Hardy lo
segue. Stanno vicini, in disparte,
fuori portata d’orecchio dagli altri
componenti del picnic.
«Onestamente, Harry» dice
Hardy, «non sapevo di Bliss. È per
pura coincidenza che siamo qui.»
«Tipico da parte tua, nascondere
la fiaccola sotto il moggio» dice
Norton. «Insomma, avresti dovuto
almeno presentarmelo, almeno a
me. A volte penso che ti
dimentichi che sono un
matematico.»
«Solo perché sei tu il primo a
dimenticarlo.»
«Sì, sì, lo so. È solo che cercare
di prendere la laurea mi ha quasi
fatto impazzire.»
«Sheppard ha tutta l’aria di
essere ansioso di conoscerlo.»
«Sheppard è condannato a
essere un gran parlatore.»
Norton soffia fuori il fumo.
Tacciono per un momento, poi
Norton dice: «È una cosa bestiale,
questa guerra, eh?».
Hardy quasi scoppia a ridere.
Dopo tanta forzata evasione
dall’argomento, sentirlo nominare
così apertamente – e con tanta
noncuranza! – è un vero sollievo.
«Mi sorprende che Keynes abbia
potuto liberarsi, non deve essere
stato facile con il suo lavoro al
Tesoro.»
«È stato a causa di Békássy.»
«In che senso?»
«Ma come, non hai saputo?
Tornerà in Ungheria per arruolarsi
nell’esercito. Per combattere contro
la Russia. Sembra che saremo in
guerra con l’Ungheria la settimana
prossima, quindi se non lascia il
paese prima d’allora sarà internato.
Naturalmente Keynes ha cercato
con tutte le sue forze di
dissuaderlo, ma Feri non ha voluto
sentire ragioni. Così adesso Keynes
ha acconsentito a pagargli il
viaggio, dal momento che le
banche sono chiuse e Feri non può
ritirare i suoi soldi. Ma è disperato
per tutta la faccenda. Lo siamo
tutti.»
«E Bliss?»
«Dice che si arruolerà anche lui.
Seguendo l’esempio di Rupert
Brooke. È romantico, non trovi, gli
amanti che combattono su fronti
opposti? Stasera abbiamo portato
qui Feri perché, insomma, è la sua
ultima occasione di vedere Bliss
prima di partire.»
Hardy guarda la casa, dove
presumibilmente gli attori hanno
allestito i camerini. Békássy sta
emergendo da una porta laterale.
«Come è nobile» dice Norton.
«Cosa? Che vadano a morire?»
«No, che vadano a difendere
ciascuno la propria patria.»
«Io disprezzo questa guerra.
Non riesco a credere che qualsiasi
essere umano intelligente non
disprezzi questa guerra.»
«Be’, da quel che mi dice
Keynes, Moore non ha ancora
deciso che posizione prendere. E
McTaggart si è già dichiarato un
accanito oppositore dei tedeschi.»
«Non me lo sarei aspettato
dall’uomo che ha scritto Violette o
fiori d’arancio?»
«Però devi ammettere che gli
unni si stanno dimostrando
piuttosto brutali. Una fredda
macchina da guerra. Ho letto che
passano i bambini alla baionetta.»
«È solo propaganda.»
«Non mi sorprenderebbe però.
Voglio dire, con Nietzsche e la
faccenda dell’Übermensch. Non
tutti i tedeschi sono dei Goethe,
Hardy.»
«Stanno difendendo i loro
interessi. Hanno paura della
Russia, proprio come noi abbiamo
paura di loro. La temuta Marina
tedesca. Ciascuno ha paura,
ciascuno agisce per prevenire le
mosse di qualcun altro che agisce
per prevenire le mosse di qualcuno
che agisce per prevenire… e via
dicendo.»
«Come la regressione infinita di
Russell.»
«Esattamente.»
Le luci della ribalta
lampeggiano, segnalando la fine
dell’intervallo.
«Dovremmo tornare» dice
Norton. «A proposito, ti fermi per
la notte?»
Hardy annuisce. «I Neville
staranno dalla cugina di Alice. Il
resto di noi si sistemerà in una
locanda. AKnighton, credo.» Esala
il fumo. «E tu?»
«Da un amico della mezzatacca
abusiva. Almeno è lì che siamo
diretti Sheppard, Keynes, la
mezzatacca e io. Forse alla fine
avrò modo di vedere “le famose
tre”. Chi lo sa?» Norton abbassa le
palpebre. «Non è un peccato che
non possiamo… cioè…»
Ma il secondo atto sta iniziando.
Spengono le sigarette e tornano sul
prato a guardare il resto della
commedia. Che continua. E
continua. All’infinito. È la
rappresentazione della Tempesta
più lenta cui Hardy sia stato
costretto ad assistere. Quando
finisce, gli si sono addormentate le
gambe. Ma poi guarda l’orologio e
vede che sono passate solo due ore.
In realtà la rappresentazione è stata
abbastanza rapida.
E poi, forse ancora più
angoscianti per lui delle
presentazioni, iniziano i commiati.
Ramanujan probabilmente
potrebbe produrre un’equazione
per calcolare T, la quantità di
tempo che ci vuole prima che
ognuno se ne vada, basata su P, il
numero di persone presenti, e su I,
la variabile dell’interruzione, che
naturalmente moltiplica la durata
del tempo richiesto da ciascun
commiato per un numero incerto.
E le parole, santo cielo! – “Davvero
incantevole…” “Dobbiamo
rivederci presto…” “Affascinante
aver saputo del vostro club
automobilistico” – dopo una sfilza
interminabile di parole, finalmente
Norton bacia la guancia di Alice,
Littlewood stringe la mano a
Keynes, e Békássy si affretta verso
la casa per cercare Bliss, col quale
indubbiamente si rifugerà presto
nelle ombre della notte estiva, la
foresta e la sua volta scura.
È finita, grazie al cielo! Hardy
sale sulla macchina bestiale di
Allenby, che porta lui e Littlewood
a Knighton, al George & Dragon
Inn, dove vengono a sapere che c’è
stato un errore; invece di riservare
cinque stanze, come aveva chiesto
Alice, il locandiere ne ha tenute
solo due. Per la verità, la locanda
non le ha neppure cinque stanze!
Una stanza ha un letto doppio;
Eddie Neville e Allenby
acconsentono allegramente a
dividerla. Quanto all’altra: «Ci
sono due letti grandi, signore» dice
il locandiere a Hardy.
«Sicuramente grandi abbastanza
per tre gentiluomini.»
«A me non dà nessun fastidio»
dice Littlewood.
Certo che no! Ma come la
prenderà Ramanujan? La sua
espressione è impenetrabile. Forse
non gli importa. Acasa sua, in
India, non dormono alla rinfusa
sul pavimento?
E così il locandiere, reggendo
una candela, li guida verso la
stanza, che è in soffitta, spartana e
odorosa di chiuso, con i due grandi
letti che si fronteggiano, uno
appoggiato contro la parete nord,
l’altro contro la parete sud. Non c’è
luce elettrica, ma solo la candela,
che il locandiere appoggia sulla
mensola del camino e che diffonde
nella stanza il suo caldo,
tremolante bagliore.
Littlewood si stiracchia. «Bene, è
stato uno spettacolo decisamente
spossante» dice, togliendosi il
panciotto. «Non so voi, ma io sono
cotto.»
Dopodiché, con la disinvoltura
per cui è famoso, si toglie i vestiti,
tira indietro le coperte di uno dei
letti e si sdraia. A quanto pare, non
ci pensa nemmeno a lavarsi.
«Buonanotte» dice, e nel giro di
pochi secondi sta russando.
Hardy e Ramanujan rimangono
soli, a tutti gli effetti. Si scambiano
un’occhiata.
«Credo che il bagno sia da
basso» dice Hardy.
«Grazie» risponde Ramanujan.
Apre la sua valigetta e prende un
servizio da toilette e un pigiama.
Portandoli con sé, apre la porta
della stanza ed esce in punta di
piedi.
Hardy espira pesantemente.
Adesso ha giusto il tempo di
visitare il gabinetto e infilarsi –
rapido e furtivo – il pigiama. Dopo
averlo fatto, controlla i due letti,
uno ordinato, l’altro mezzo sfatto
dalla forma scomposta e nuda di
Littlewood. Littlewood ha spinto
giù le coperte, fin sotto l’ombelico.
Per un momento, Hardy osserva
l’espansione e la compressione del
suo diaframma, nota i peli sparsi
sul torace… Allora, in quale letto
infilarsi? Se entra nel letto con
Littlewood non chiuderà occhio
per tutta la notte. Ma se entra nel
letto vuoto, non farà che trasferire
il fardello della scelta sulle spalle di
Ramanujan. E cosa farà
Ramanujan?
Poi sente una porta aprirsi da
qualche parte – la porta del bagno
da basso, forse – seguita da un
rumore di passi sulle scale.
Quasi senza pensarci, fa la sua
scelta. S’infila nel letto vuoto.
Passano cinque minuti. Li conta.
La porta della stanza si apre e si
richiude. Sente le assi scricchiolare
sotto dei piedi nudi. Poi c’è un
attimo di silenzio, prima che
Ramanujan soffi – forte – e Hardy
senta il rumore e anche l’odore
della candela spenta. L’oscurità
avvolge la stanza. Sente il peso di
un altro corpo premere sul
materasso, che si inclina dall’altra
parte. Lenzuola e coperte si
tendono intorno alla sua cassa
toracica. Sente odore di lana, di
spazio esterno, e poi capisce cosa è
successo. Ramanujan non si è
infilato nel letto, ci è solo salito
sopra. Sta dormendo sopra il
copriletto, le lenzuola e le coperte
con il cappotto buttato sul torace.
Bah, che stranezza! Hardy non
sa proprio come interpretarla.
Tuttavia, deve confessare che gli
piace il modo in cui, grazie a
Ramanujan, le lenzuola si tendono
e lo spingono giù, avvolgendolo
come in un bozzolo.
Si addormenta, e si sveglia dopo
quello che gli sembra un istante,
vedendo la luce dell’alba che entra
dalla finestra.
«Harold» dice una voce… di
Ramanujan? Ma no. È solo Gaye.
Si siede sul bordo del letto.
«Ehilà» gli dice. «Che nottata, eh?»
«Cosa vuoi dire?»
«Un dramma a tutto tondo,
sulla scena e anche fuori. Caspita, è
il genere di cosa di cui avrebbe
dovuto scrivere Shakespeare, e
forse lo ha fatto, ma non per
metterlo in scena, naturalmente.
Soldati amanti divisi dalla guerra,
capisci? Sembra uscito da un
poema greco.»
«Sei tu il classicista.»
«Ho sempre amato La
tempesta.» Gaye si toglie di tasca
quella che sembra una lima. «E
Bliss è stato un Calibano
perfettamente accettabile, non
credi? Non brillante ma…
accettabile.»
«Che fai, ti limi le unghie?»
«Crescono le unghie di un uomo
morto? Sono sicuro che ti ricordi
quello che dicevo sempre, che
bisogna vedere Shakespeare
rappresentato per apprezzarlo
pienamente. E che poesia!
Ascolta.» Si mette la mano sul
diaframma. «“Ed io, che pure ti
volevo bene, ti mostrai le bellezze
di quest’isola…” Proprio come tu
hai mostrato al tuo amico indiano
le bellezze dell’isola, Harold. “Le
fresche polle, le pozze salmastre, le
plaghe sterili e quelle feconde…” E
alla fine, il commiato brutale:
“Ch’io sia maledetto per averlo
fatto!”. Cancella tutto ciò che viene
prima. Perché ciò che Calibano
riconosce è di aver amato, il che è
nobile, ma, poiché ha amato, ha
perduto la cosa cui teneva di più.
“Ch’io sia maledetto per averlo
fatto!”»
Hardy è quasi sul punto di
levarsi a sedere. Sta quasi per
mettersi a discutere. Ma sa che
Gaye non sarà lì ad ascoltarlo.
Tipico da parte sua lasciarlo così,
con le parole sospese, e nessuna
possibilità, mai, di controbattere.
3

Fine d’agosto. Dall’altra parte della


strada, di fronte alla casa dei
Neville, il Terzo battaglione della
Rifle Brigade (irlandese) si è
accampato sul Midsummer
Common. Alle sette Alice viene
svegliata dal rumore delle loro
esercitazioni, dall’ufficiale in carica
che grida gli ordini con un pesante
accento irlandese. Eric è già uscito,
per andare nel suo studio al
college. Alice fa colazione con
Ethel, che le mostra una cartolina
che le ha spedito il figlio dal
Woolwich Arsenal. È nei
Territoriali. Per tutta la mattina
Ethel spadella in cucina, mentre
Alice siede accanto alla finestra
della sala da pranzo a guardare i
soldati, aspettando… che cosa?
Che il mondo finisca? Che
Ramanujan le faccia una visita?
Lui arriva poco dopo le undici.
Senza annunciarsi. Quando sente
bussare alla porta, Alice si siede al
pianoforte e aspetta che Ethel lo
faccia entrare. Non vuole che si
accorga di come è felice di vederlo,
o di come è contenta che Eric sia
fuori. Il puzzle è esattamente dove
lui lo ha lasciato. Con grande
irritazione di Ethel (e divertimento
di Eric) lei non vuol saperne che
venga smantellato. Serve il caffè a
Ramanujan – ha insegnato a Ethel
a bollire il latte come si usa a
Madras – e poi si siedono insieme
al piano. Gli insegna delle canzoni.
Adesso è la volta di Greensleeves.
Le tue promesse hai infranto, ed il mio
cuore,
Oh, perché son tua schiava d’amore?
C’è uno sparo improvviso: i soldati
che si esercitano nel parco
comunale. «Perché devono farlo
sempre quando sto suonando?»
chiede Alice irritata. «Va bene,
ricominciamo.»
Le tue promesse hai infranto, ed il mio
cuore,
Oh, perché son tua schiava d’amore?
Or io rimango in un mondo distante
ma questo cuore rimane in catene.
Chi vede Ramanujan quando canta
queste parole? Janaki? Ogni volta
che viene a trovarla, lei gli chiede
se ha ricevuto notizie da sua
moglie, e ogni volta lui dice di no.
All’inizio sosteneva di non essere
preoccupato per questo. «Sono
sicuro» diceva, «che riceverò una
lettera la settimana prossima.» Poi,
visto che non arrivava nessuna
lettera, diceva: «Indubbiamente la
guerra sta interferendo con la
consegna della posta». Ma le
lettere di sua madre continuavano
ad arrivare.
Altri spari di fucile. E nessuna
lettera. «Probabilmente non è
niente» dice Alice. «Forse è andata
a trovare la sua famiglia.»
«Me lo avrebbe detto.»
«E sua madre non la nomina
mai nelle sue lettere?»
«No.»
«Non potrebbe chiedere a sua
madre?»
«Non sarebbe… No, non potrei
farlo.»
Appoggia il gomito sul bordo di
legno del piano, con delicatezza, in
modo da non toccare i tasti. Poi
appoggia la testa alla mano. E Alice
si strugge dal desiderio di
accarezzare quei capelli neri! Ma
accarezzarlo equivarrebbe a
confessare l’ondata di speranza, di
gioia persino, che la invade ogni
volta che lui le dice di non aver
ancora ricevuto notizie da Janaki.
Poiché, se Janaki lo ha lasciato, o
se n’è andata, o è morta,
Ramanujan avrà più che mai
bisogno di lei. E se avrà bisogno di
lei, verrà più spesso; forse tornerà
persino a vivere a casa sua.
Dopo che se n’è andato, Alice si
scioglie i capelli. Li spazzola. Si
guarda allo specchio. «Sei una
donna terribile» dice, e sente che è
vero. Ha avuto dei pensieri
tremendi. Per esempio, ha pensato:
“Che peccato che Eric abbia una
vista così debole!”. Perché se avesse
una vista normale, potrebbe
arruolarsi e andare in Francia.
Allora gli estranei la tratterebbero
con grande gentilezza, sapendo che
ha un marito che combatte in
Francia. Sarebbe sola nella casa.
Potrebbe stare sola con
Ramanujan.
Non è che sia innamorata di lui,
non esattamente. Quantomeno,
non ne è innamorata come lo era
(o lo è) di Eric. Perché la maggiore
attrattiva di Eric è la sua
familiarità. Fin dall’inizio, l’aveva
attratta proprio perché era così
facile da capire. Era il proverbiale
libro aperto, le frasi scritte con i
grandi caratteri leggibili di un
sussidiario infantile. A questo
riguardo non avrebbe potuto essere
più diverso da sua sorella Jane, una
creatura di strati e stratagemmi, le
cui parole erano spesso esche o
trappole. Eric, per contro, era
incapace di sotterfugi. Occhialuto,
virginale e perennemente allegro,
viveva per il suo lavoro – la
prospettiva di farvi ritorno il
mattino era sufficiente a tenerlo
sveglio gran parte della notte – e
per fare l’amore, attività in cui è
piuttosto maldestro. Però ci prova.
Adesso è più lento che all’inizio. La
aspetta. Nonostante tutta la sua
esasperazione, Alice non può fare a
meno di commuoversi per i suoi
grugniti di piacere e la gratitudine
che segue. Stranamente, sono
proprio gli aspetti del carattere di
suo marito che più la irritano – la
sua distrazione e la sua ottusità –
quelli che suscitano in lei la più
grande tenerezza.
E poi c’è Ramanujan. Con lui
niente, o quasi niente, è semplice e
diretto. Lungi dall’essere un
sussidiario, Ramanujan è un testo
scritto in una lingua che lei non sa
leggere. Anche quando è in sua
presenza, anche quando è
fisicamente seduto al suo fianco,
Alice non riesce a indovinare i suoi
pensieri. I pensieri di Eric riesce a
intuirli facilmente, e non si sbaglia
quasi mai. Ramanujan, invece, è
per lei come una porta chiusa
dietro la quale ci sono immensi
tesori. Cose che non riesce a
immaginare. Misteriose tecniche
amorose orientali, tradizioni
occulte, e una certa antica
saggezza. Non ha dettagli a sua
disposizione, solo la vaga
sensazione di un’atmosfera molto
diversa da quella del suo salotto:
una stanza rivestita di drappi del
colore delle spezie da cui
occhieggiano frammenti di specchi,
profumata da petali di gelsomino
messi a seccare in una ciotola
d’argento.
La sua vita, pensa a volte, si è
ridotta a un alternarsi di attesa e
angoscia. La mattina si chiede con
ansia se lui verrà. Se non viene, si
dispera. Se viene, incomincia a
preoccuparsi, quasi nell’istante in
cui entra dalla porta, di cosa farà
quando lui se ne sarà andato. E,
quando se ne va, la paura cala
come il crepuscolo d’inverno.
La mattina dopo si sveglia, come
sempre, con la voce del
comandante del battaglione, e
scopre che non riesce più a
sopportarlo. Non l’attesa, non gli
spari. Senza dirlo a nessuno,
nemmeno a Ethel, prende
ombrello e cappello, va a piedi alla
stazione e sale sul treno per
Londra. La piattaforma è piena di
giovani uomini che vanno a
raggiungere i loro reggimenti. Solo
alcuni sono in uniforme. “Ogni
giorno la riserva di giovani a
Cambridge si assottiglia un po’ di
più” pensa, mentre si siede in uno
scompartimento i cui altri
occupanti sono tre di questi
giovanotti, uno in kaki scuro, gli
altri due in giacca da campagna.
Questi stanno discutendo le ultime
notizie dal Belgio con voci animate,
come se la guerra fosse una partita
di football, mentre quello in kaki
guarda svogliatamente fuori dal
finestrino.
Non volendo attirare
l’attenzione su di sé, Alice apre la
borsetta e prende una copia del
“Times”.
Quasi tutte le persone che ho
interrogato avevano storie da
raccontare sulle atrocità dei tedeschi.
Interi villaggi, dicevano, erano stati
messi a ferro e fuoco. Un uomo, che
non ho visto personalmente, ha
raccontato a un funzionario della
Catholic Society di aver visto con i
propri occhi la soldataglia tedesca
mozzare le braccia di un bambino che
si aggrappava alle gonne della madre.
Con un sibilo il treno esce dalla
stazione. Alice posa il giornale;
osserva il binario dare la
precedenza a un altro treno che va
nella direzione opposta, e poi i
giardinetti sul retro di misere case.
In uno di questi un bambino sta
guardando un giaggiolo. Il
giovanotto apatico prende un libro
dalla sua cartella: La guerra dei
mondi. Uno dei preferiti di Eric. E
cosa succederà se la Germania
invade l’Inghilterra? Questo
giovane la proteggerà? Sarà
violentata dagli unni? Passeranno
alla baionetta il povero
Ramanujan? Non dovrebbe farsi
domande del genere, lo sa. Lei è
una pacifista, dopotutto. E questi
ragazzi potrebbero essere allievi di
Eric, quelli che a volte porta a casa
per il tè e la geometria
differenziale.
Riprende la lettura.
Tutti gli uomini con cui ho parlato
hanno convenuto che, a parte la loro
artiglieria pesante e il numero
schiacciante, non c’era niente di
necessariamente temibile nei soldati
tedeschi. Descrivono il
comportamento del nemico come
troppo brutale per qualsiasi nazione
civile, e la maggior parte di loro ha
visto gli abitanti dei villaggi belgi
trascinati davanti ai tedeschi per far
loro da scudo. Un uomo ha dichiarato
che uno degli espedienti preferiti dei
tedeschi è terrorizzare gli abitanti dei
villaggi belgi trascinandoli
immediatamente di fronte alla loro
artiglieria pesante, dove, data
l’elevazione delle macchine da guerra,
in realtà sono abbastanza al sicuro.
Hanno constatato che i tedeschi non
hanno nessun rispetto per la Croce
Rossa, anzi, aspettano che siano stati
raccolti i feriti per aprire il fuoco.
In Liverpool Street, Alice butta il
giornale nel bidone della
spazzatura. Prende un taxi e si fa
portare a St. George Square, a un
indirizzo che ha cercato
furtivamente sull’agenda di Eric
prima di partire. Non che abbia
motivo di credere che Gertrude
sarà lì, però lo spera. Ha bisogno di
parlare con qualcuno, con una
donna.
Pagato il tassista, si avvicina
all’edificio. È alto e stretto, in una
fila di case ammassate troppo
vicine tra loro, come libri stipati
sullo scaffale di una libreria. Gli
infissi della finestra hanno bisogno
di essere riverniciati. Uno dei
campanelli (la cui placca di bronzo
ha bisogno di una lucidata) è
quello di Hardy. Alice lo suona ed
è sollevata quando, un minuto
dopo, la porta si apre e Gertrude le
si para davanti, con un abito un po’
tristanzuolo, sbattendo gli occhi
per la sorpresa.
«Mrs. Neville» dice.
«Salve» dice Alice, «spero che
non le dispiaccia che sia passata
così all’improvviso. Io… io dovevo
uscire da Cambridge.»
«Ma mio fratello non c’è.»
«Lo so. Non è suo fratello che
volevo vedere.»
Gertrude non sembra
particolarmente felice di
sentirglielo dire. «Oh, be’, entri»
dice dopo un momento, facendole
spazio nel corridoio angusto.
«Temo di non avere molto da
offrirle» soggiunge, mentre salgono
una scala stretta, i cui gradini
scricchiolano sotto le scarpe di
Alice.
«Non mi aspettavo niente.»
«E l’appartamento non è molto
in ordine.»
«Non importa, veramente.»
Entrano insieme. Gertrude
chiude la porta e accompagna Alice
attraverso un salotto che odora di
chiuso ed è quasi privo di mobilio
ed entra in una cucina col
pavimento di linoleum marrone e
un tavolo su cui sono sparpagliati
dei giornali. «Si sieda, la prego.
Vuole una tazza di tè?»
«Sì, grazie.» Alice si toglie il
cappello. Non sa dire perché, ma
per qualche ragione si sente
immensa, in questa stanza. Non
che sia così piccola, o lei così
grande. È solo che ogni volta che si
muove urta contro qualcosa. Prima
urta lo scolapiatti col gomito, poi
sbatte la testa contro lo stipite della
porta. Infine, mentre tira fuori da
sotto il tavolo la sedia che Gertrude
le ha indicato, la spinge per sbaglio
contro il muro.
«Santo cielo» dice, «spero che
non lasci il segno.»
«Non importa. Lo prende col
latte?»
Non avrebbe dovuto venire.
«Sì, per favore.» La copia del
“Times” di Gertrude, guarda caso,
è aperta sull’articolo a proposito
delle atrocità in Belgio. «Lo ha già
letto?» chiede Alice.
«Sì, proprio adesso.»
«Mi chiedo se si debba credere a
queste storie, se i soldati tedeschi
mozzano davvero le mani ai
bambini.»
«Be’, io non stento a crederlo, se
penso che appartengono alla
nazione che ci ha dato Struw-
welpeter.»
«Chi?»
«Pierino Porcospino. È un libro
di storielle per bambini. In una c’è
un bimbetto che si succhia i pollici,
e sua madre lo ammonisce che se
continuerà a succhiarseli “entrerà il
sarto, tutto a un tratto, e taglierà i
pollici col forbicione come se
fossero pezza o cartone” come
recita la storiella. Ma il bambino
continua a succhiarseli ed ecco che
il sarto arriva davvero e gli taglia
via i pollici.»
«Che orrore!»
«Le illustrazioni sono favolose,
col sangue rosso vivo che sprizza
dalle amputazioni.»
«E lo danno da leggere ai
bambini?»
«Be’, perché crede che i soldati
tedeschi non si succhino mai il
pollice?»
Gertrude posa una tazza di tè
davanti ad Alice, le si siede di
fronte e incrocia le braccia.
All’improvviso sembra impaziente,
come a dire: d’accordo, basta con i
convenevoli adesso, perché sei
venuta a disturbarmi? E perché
Alice è venuta a disturbarla?
«Sospetto che si stia chiedendo
che ci faccio qui» dice Alice. «La
verità è che non lo so bene
neppure io. È solo che a
Cambridge… c’è un’atmosfera
piuttosto triste adesso.»
«Così mi dice mio fratello.»
«Oggi il treno era pieno di
giovani. Studenti. Ogni giorno la
riserva di giovani di Cambridge si
assottiglia un po’ di più.»
Nessuna risposta. E Alice era
così fiera di quella frase.
«Un battaglione è accampato di
fronte a casa nostra, proprio
dall’altra parte della strada.
Irlandese. Tutte le mattine fanno
le loro esercitazioni e iniziano
all’alba.»
«E suo marito?»
«Lui se la cava. Al college i feriti
sono alloggiati all’aperto. Nella
Nevile’s Court. Gli ufficiali
pranzano nella Hall.»
«Così mi racconta mio fratello.»
«E Mr. Hardy si arruolerà
volontario?»
«Non ha ancora deciso, anche se
è difficile immaginarlo in
uniforme. E che mi dice di Mr.
Neville?»
«Ha la vista debole.» Alice
sorseggia il tè, poi soggiunge: «Ed è
un peccato, perché è molto
coraggioso. È un grande nuotatore.
Lo scorso inverno si è tuffato nel
Cam e ha salvato un bambino
dall’annegamento».
Perché lo ha detto?
Indubbiamente Gertrude sa
benissimo che, anche se la vista di
Eric fosse perfetta, lui non si
offrirebbe mai volontario. Non fa
mistero del suo pacifismo. Eppure,
all’improvviso sembra imperativo
che Gertrude sappia che non è un
codardo. «L’altra sera, Eric ha
sentito qualcuno dire: “Per come
stanno andando le cose, presto il
Trinity sarà vuoto, con l’eccezione
di Hardy e di una congrega di
indiani”.»
«Mi sembra un’esagerazione.»
«Forse… Tuttavia non sarebbe
sbalorditivo se in capo a pochi mesi
lui e Mr. Ramanujan fossero tutto
ciò che resta del Trinity?»
«Ci sarà anche suo marito. E il
rettore.»
«Lo so. Stavo esagerando.»
«E come se la passa Mr.
Ramanujan?»
«Bene, direi. Non che lo veda
spesso di questi tempi.»
«Vuol dire da quando non è più
sotto il vostro tetto.»
«Naturalmente viene a farmi
visita un paio di volte la settimana.
Gli insegno a cantare.»
«A cantare?»
«Ha una bella voce. Ieri gli ho
insegnato Greensleeves.»
«Mi piacerebbe sentirlo.»
«Naturalmente è troppo timido
per cantare di fronte a estranei…
solo con me.»
«È bello sapere che ha trovato
un’amica così cara in lei, Mrs.
Neville.»
Alice alza gli occhi. Finora è
riuscita a evitare lo sguardo di
Gertrude. Adesso, però, incrocia
quegli occhi allarmanti. Il destro la
sta soppesando, mentre il
sinistro… come dire? Galleggia.
E all’improvviso, ancor prima di
pensarci, le chiede: «Come è
successo?».
«Cosa?»
«Come ha perso l’occhio?»
Gertrude sembra impennarsi
sulla sedia. Come un gatto. Bene.
Fin da quando è arrivata, Alice ha
voluto prendere il sopravvento. Far
trasalire Gertrude. Ottimo.
«Spero non le dispiaccia che
glielo chieda.»
«Crede di essere la prima a
farlo?»
«Be’…»
«Non lo è. La gente me lo
chiede in continuazione.
Soprattutto le donne.»
Con sorpresa di Alice, Gertrude
scioglie le braccia.
«Se proprio vuole saperlo, avevo
nove anni quando accadde. Harold
mi colpì in faccia con una mazza da
cricket. Un incidente. Persi i sensi.
Quando rinvenni ero in ospedale,
ed era sparito. L’occhio era sparito.
Tutto qui.»
«Ma è terribile!»
«Suppongo di sì. Ero così piccola
che praticamente non ricordo
com’era, prima. Naturalmente, in
seguito, la cosa importante era
proteggere Harold.»
«Perché?»
«Perché era stato un incidente, e
lui era così appassionato di cricket;
non doveva in nessun modo essere
indotto a provare un senso di
responsabilità o di colpa. E così mi
fu detto di non parlarne mai.»
«Da suo padre?»
«Da mia madre.»
«Le dispiacque?»
«Solo all’inizio. Ma poi mi resi
conto che era una cosa molto
sensata, davvero. Mia madre era
decisa a far sì che nessuno fosse
deviato dal proprio corso. Fin da
allora, sapevamo che Harold era
un genio. L’ultima cosa che
volevamo era che questo
intralciasse il suo cammino. E ha
aiutato anche me. Dovermi
comportare, fin dall’inizio, come se
non fosse successo niente mi ha
reso possibile farne… il mio modus
operandi.»
«Me lo faccia vedere.»
«Cosa?»
«L’occhio. Se lo tolga. Me lo
faccia vedere.»
Gertrude ride.
«Perché è così divertente?»
«Perché tutte quelle che hanno
voluto vederlo, credevano di essere
le prime a chiedermelo.»
«Erano sempre donne?»
«Sempre. In ogni caso, felice di
accontentarla. Solo la prego di non
guardare mentre lo tolgo.»
Alice distoglie lo sguardo. Sente,
o immagina di sentire, un rumore
come di qualcosa che viene svitato,
un plop e uno schiocco, e poi
Gertrude dice: «Fatto. Può girarsi
adesso».
Alice si gira. Gertrude è di
spalle, tiene la mano destra dietro
la schiena, le dita arricciate intorno
a… qualcosa.
La cosa viene passata dal palmo
di Gertrude a quello di Alice. Alice
la esamina. L’occhio è bianco e
globulare e più pesante di quanto
si aspettava, grande come una
grossa biglia, con l’iride e il
cristallino lievemente rialzati. E che
superba fattura: il marrone
perfettamente intonato all’occhio
vero di Gertrude, il bianco venato
di sottili linee rosse per suggerire i
capillari!
«Posso riaverlo adesso?»
«Come funziona? Come fa a
inserirlo?»
«Basta tirare indietro la palpebra
e inserirlo. L’orbita gli si chiude
perfettamente intorno.»
«È fastidioso?»
«Era un po’ strano, all’inizio.
Questa immensa “cosa” aliena. Ma
poi ci si abitua. Ormai non ci penso
quasi più. Posso riaverlo adesso,
per favore?»
«Si secca? Deve tenerlo
lubrificato?»
«Le ghiandole lacrimali non
sono state offese. Posso riaverlo
adesso?»
Ancora una volta, Gertrude
allunga il braccio dietro la schiena.
Alice le deposita l’occhio nel
palmo.
«Non guardi.»
Alice chiude gli occhi. Poi
Gertrude dice: «È a posto adesso»,
e quando Alice guarda di nuovo, la
faccia di Gertrude è dall’altra parte
del tavolo, soffusa di calore, di
affetto persino.
«Bene» dice. «Soddisfatta
adesso?»
«Molto, grazie.»
«Bene, sono contenta che questa
l’abbiamo superata.» Guarda verso
la finestra della cucina. «Sta
diventando una bella giornata,
vero? Cosa ne direbbe di andare
allo zoo?»
«Allo zoo?»
«Sì, perché no?»
«Direi che è un’idea splendida»
risponde Alice. E si alza in piedi,
facendo sbattere, ancora una volta,
la sedia contro il muro già
ammaccato.
4

C’è una stanza, un appartamento,


un posto dove vanno a volte
quando sono entrambi a Londra.
Di solito dietro richiesta di
Littlewood. Come C. Mallet
dell’India Office, il proprietario è
un amico di suo fratello. Ci
rimangono un’ora o due, poi,
quando viene il momento di
uscire, Anne sembra incapace di
sistemarsi la biancheria. Poiché
l’appartamento è vicino a Regent’s
Park, vanno a piedi allo zoo, dove
siedono su una panchina davanti
alla gabbia in cui passeggia una
tigre del Bengala. È la fine di
settembre, e Littlewood le ha
appena detto che tra un mese
partirà, probabilmente per la
Francia. È stato arruolato nella
Guarnigione dell’Artiglieria
britannica come sottotenente. «A
quanto pare potrei essere utile per i
calcoli della gittata delle armi.
AHardy gli prenderà un colpo
quando lo verrà a sapere.»
«Vorrei che non lo avessi fatto.»
«Ho pensato di non farlo. Ma
poi mi sono detto: senti, non è che
avremo scelta in materia ancora
per molto. La coscrizione sta
arrivando, te lo assicuro. Churchill
si sta già battendo per ottenerla.»
«E tu come lo sai?»
«Da Hardy. Il segretario di
Churchill è uno dei suoi Apostoli.»
Anne si accende una sigaretta.
Al di là del vialetto, la tigre è
accovacciata e si lecca la zampa
enorme. Assomiglia al gatto di
Hardy, solo che emana un odore
più selvatico. L’odore che
Littlewood attribuisce
all’impazienza. Una piccola si
avvicina con la bambinaia per
guardare la tigre. Si attacca alla
mano della bambinaia. Tenendosi
a distanza di sicurezza.
«Quando ci rivedremo?»
«Con un po’ di fortuna, sarò a
Londra tra pochi mesi. O nei
pressi. A Woolwich,
probabilmente.»
«Ma riuscirai a venire giù a
Treen?»
«Non con la stessa frequenza di
adesso, temo.»
Anne gli prende la mano.
Trattiene a stento le lacrime.
All’improvviso la tigre fa un balzo,
emettendo un ruggito minaccioso
che spaventa la bambina, facendola
piangere. La bambinaia la porta
via, verso gli elefanti.
«Che ne sarà di te?» chiede
Anne, piangendo.
«Tesoro, non fare così. Starò
bene.»
«E se poi ti mandano in
battaglia? Ho letto i servizi dal
fronte.»
«Ma è proprio questo il punto,
non mi manderanno in battaglia.
Non mandano in battaglia uomini
come me. Siamo troppo preziosi
nelle retrovie.»
«Scusami.» Prende un fazzoletto
dalla borsetta, si asciuga gli occhi.
«Mi sento così sciocca. Forse è per
via dei bambini. Fanno domande,
capisci. Tutto questo è così… Dio,
è orribile. Non posso credere che
dovrò spiegare questo ai bambini.»
«Mi dispiace tanto che tu debba
farlo.»
«E intanto, Hardy continua per
la sua strada… Mi sembra di capire
che lui non si è sentito in dovere di
arruolarsi volontario.»
«Può ancora farlo, però. So che
ci sta pensando.» «Allora perché
non puoi fare lo stesso anche tu?
Aspettare?»
«Perché se rimando, potrei non
ottenere una postazione così
sicura.»
«Ma Hardy, con tutte le sue
conoscenze, non potrebbe fare in
modo da assicurartela?»
«La sua influenza non arriva così
lontano, temo. Io non faccio parte
di quella cerchia. Probabilmente
Hardy può solo proteggere se
stesso.»
«Eppure dice che non può
lavorare senza di te!»
«Non biasimarlo.»
«Perché no? Devo pur biasimare
qualcuno.»
«Prenditela con Kitchener allora.
Prenditela con Churchill. Hardy
non lo conosci nemmeno.»
«Solo perché tu non hai mai…»
«Sst. Quella è sua sorella.»
Anne alza gli occhi. Due donne
stanno passeggiando sul viale,
verso la gabbia della tigre.
Senza pensarci, Anne lascia la
mano di Littlewood. Lui si alza in
piedi.
«Miss Hardy, Mrs. Neville. Che
bella sorpresa!»
Gertrude squadra Anne da capo
a piedi. «Buongiorno, Mr.
Littlewood» dice. «Cosa la porta
allo zoo?»
«Oh, semplicemente un bel
pomeriggio. E voi?»
«È un nostro piccolo rito» dice
Alice. «Ogni volta che mi capita di
essere a Londra.»
«Oh, posso presentarvi Mrs.
Chase?»
Anne si alza a sua volta. Deve
stringere la mano a Gertrude con
la sinistra, perché nella destra c’è il
fazzoletto appallottolato.
«Posso offrire a lor signore una
tazza di tè?» chiede Littlewood,
sempre galante, sempre in grado di
adattarsi alla situazione in cui
viene a trovarsi.
«Oh, no» dice Alice. «Non
vorremmo disturbare.» «Non
disturbate affatto.»
«Be’, allora…»
«No, dobbiamo andare» dice
Gertrude con fermezza, e prende
Alice per il braccio. «È stato un
piacere vederla, Mr. Littlewood. E
un piacere conoscerla, Mrs…»
«Chase.»
«Chase. Buona giornata.»
S’incamminano, e dopo pochi
passi si fermano davanti agli
elefanti, che guardano con zelo
accademico, apparentemente senza
scambiarsi una parola.
Littlewood e Anne si siedono di
nuovo e tutt’a un tratto Anne si
mette a ridere. Ride tanto che deve
asciugarsi di nuovo gli occhi.
«E adesso cosa c’è?»
«Non è niente, solo sembra così
buffo… Insomma, ormai che
importa? Se indovinano tutto.»
«Detesto dirtelo, cara, ma noi
due non siamo certo un segreto di
stato.»
«Lo so. Per questo sto ridendo.»
«Perché non ha voluto fermarsi per
un tè?»
«Perché evidentemente stavano
avendo un litigio. O qualcosa del
genere.»
«Ma chi è lei?»
«Ma come, non capisce?»
«Oh… Ma Littlewood l’ha
presentata come la signora Chase.»
«Be’, come si aspetta che Russell
presenterebbe Ottoline Morrell?»
Si stanno avvicinando alla casa
dei pipistrelli. Gertrude ha
un’espressione di malizioso
divertimento, ma per Alice è come
se una nuova idea fosse entrata nel
mondo. Russell e Mrs. Morrell.
Littlewood e Mrs. Chase.
Be’, perché no?
Decide, quindi, che rivedrà Mrs.
Chase. Riuscirà a scovarla. Quella
donna con i capelli castani e la
pelle abbronzata e
quell’espressione – eh, sì – radiosa,
la definirebbe Alice – anche in
lacrime, a suo modo radiosa – è
una donna con cui può parlare. È il
tipo di donna che, se sarà
fortunata, potrebbe imparare a
essere un giorno.
5

New Lecture Hall, Università di


Harvard
In quella conferenza che non
tenne, Hardy disse:
C’è, credo, una deplorevole
tendenza – una tendenza che,
sospetto, non farà che intensificarsi
col passare degli anni – a ritrarre
Ramanujan come uno di quei
recipienti nei quali il misterioso
Oriente ha riversato la sua essenza.
La cosa non è sorprendente.
Dopotutto, stiamo parlando di un
giovane uomo che non aveva mai
indossato le scarpe prima di
imbarcarsi su una nave per
l’Inghilterra; che non mangiava il
cibo nella Hall per paura di essere
contaminato; che affermava
pubblicamente che le formule che
aveva scoperto gli venivano scritte
sulla lingua da una divinità
femminile. Né lui scoraggiava
questo mito su se stesso – al
contrario, faceva molto per
rafforzarlo – il che spiega come
mai, per coloro che non lo hanno
conosciuto, il suo retaggio avrà
sempre un profumo d’incenso e di
templi. Tuttavia, per quelli di noi
che invece lo hanno conosciuto,
come spiegare che il mito non ha
niente a che fare con l’uomo che
conoscevamo?
Il Ramanujan che conoscevo io
era, più di ogni altra cosa, un
razionalista. A dispetto delle sue
occasionali eccentricità di
comportamento, in mia compagnia
non era mai men che sano di
mente, ragionevole e sagace. Per
temperamento era un agnostico, e
con questo intendo che non
vedeva nessun bene e nessun male
particolare nell’induismo o in
qualsiasi altra religione. Come ci
disse quel pomeriggio in cui
andammo a vedere La tempesta a
Leintwardine, tutte le religioni
erano per lui più o meno
egualmente vere. Nell’induismo,
per quel che ne so, l’osservanza è
molto più importante della fede.
La fede, come concetto, appartiene
al cristianesimo. Fa parte del
pernicioso sforzo da parte del
cristianesimo di schiavizzare i suoi
discepoli prospettando loro il
prezioso sogno di una nuova
Gerusalemme, una ricompensa che
riceveranno in cambio di una vita
di devozione. E non è sufficiente
neppure rispettare le apparenze. Il
cristiano non può fingere, deve
accettare nel profondo del cuore
che Dio è reale se spera di
guadagnarsi il paradiso.
Il destino dell’induista nell’aldilà
dipende invece interamente da
come si comporta. Se rispetta le
regole, si reincarnerà in un
membro della casta più alta. Se le
infrange, tornerà sulla terra sotto
forma di scarafaggio o di
intoccabile o di malerba, a
prescindere da quello in cui crede.
E così quando l’induista si attiene a
determinate proibizioni e
restrizioni in nome della
correttezza e del decoro, invece che
perché accetta le dottrine della
propria religione come verità
letterali, non si comporta da
ipocrita, quale sarei io, per
esempio, se dovessi andare in
chiesa, o assistere alla messa, o
ringraziare il Signore per la mia
cena.
Posso immaginare come
reagirebbe Mrs. Neville a questa
affermazione. Direbbe: “Se le cose
stanno così, Hardy, perché allora
Ramanujan non mangiava la
carne? Soprattutto dopo lo scoppio
della guerra, quando divenne così
difficile ricevere delle provviste
dall’India, perché scelse di
rovinarsi la salute piuttosto che
violare i divieti alimentari della sua
religione? Credo proprio che lo
facesse perché era un credente”.
No, Mrs. Neville, non perché era
un credente. Rimase vegetariano
innanzi tutto perché il regime
vegetariano era per lui una
seconda natura. Non aveva mai
mangiato carne in vita sua e
trovava ripugnante l’idea di farlo. E
poi temeva che sua madre, se le
fosse giunta voce che lui aveva
adottato le abitudini occidentali, gli
avrebbe reso la vita impossibile al
suo ritorno a Madras. Infatti
Komalatammal, così si chiamava,
non era affatto la figura devota e
premurosa che hanno descritto gli
ammiratori indiani di suo figlio. Al
contrario, era quello che la mia
vecchia cameriera, Mrs. Bixby,
avrebbe definito “un osso duro”.
Era intelligente, possessiva e
manipolatrice. Non mi
sorprenderebbe scoprire che
impiegava altri studenti indiani di
Cambridge come spie per
assicurarsi che suo figlio non
deviasse dalla retta via. Potrebbe
anche averlo tormentato, o
minacciato di tormentarlo, con
mezzi occulti.
Un ammiratore di Ramanujan
mi ha spedito di recente una sua
fotografia. Nel ritratto, una donna
molto piccola siede su una sedia
altissima, tanto alta che i suoi piedi
non toccano terra. Ha una faccia
gretta e cattiva, ma non stupida
come potrebbe esserlo, per dire, la
faccia di una pecora: no, nella sua
faccia c’è il barlume di
un’intelligenza primitiva. Guarda
spavaldamente l’obiettivo, come a
sfidarne la potenza o ipnotizzare
chi la guarda, attirandolo nel
puntino nero dipinto tra i suoi
occhi. No, non è una fotografia che
posso guardare a lungo.
Lasciate che vi riassuma
brevemente la sua vita. Proveniva
da una famiglia di bramini, povera
ma colta. Suo padre era una specie
di funzionario del tribunale per
reati minori e, come era costume in
India, i genitori organizzarono il
matrimonio della figlia. Dalle
notizie che ho raccolto, per i primi
anni dopo il matrimonio non
riusciva a rimanere incinta, così
suo padre e i nonni decisero di
intercedere pregando la dea
Namagiri. Aquanto si dice, la
nonna aveva già un rapporto molto
saldo con Namagiri, e
occasionalmente cadeva in trance
durante le quali la dea parlava
attraverso di lei, e in una di queste
occasioni aveva annunciato che se
Komalatammal avesse generato un
figlio avrebbe parlato anche
attraverso di lui. Così loro si
inginocchiarono e pregarono la dea
di concedere la fertilità a
Komalatammal e, finalmente, nove
mesi dopo, la donna diede alla luce
un bambino.
Da allora, ogni volta che parlava
del concepimento del figlio,
Komalatammal invocava il nome
della dea. Non nominava mai suo
marito, Kuppuswamy, anche se,
evidentemente, aveva avuto un
ruolo nella faccenda. Né
Kuppuswamy si sognò mai di
protestare. Da quanto mi è stato
detto, era un uomo mite e
inconcludente, che non tardò a
riconoscere i vantaggi di non
immischiarsi nel percorso feroce
della moglie. Perché
Komalatammal era di
un’ambizione sfrenata. Molto
presto, si dice, lesse l’oroscopo di
suo figlio e ne dedusse che aveva
due possibilità: o diventare famoso
in tutto il mondo e morire giovane
o rimanere oscuro e vivere fino a
tarda età. A quanto pare era
un’esperta sia di astrologia che di
numerologia. A un certo punto
deve aver deciso che se c’era una
possibilità che il figlio morisse
giovane, lei doveva approfittare
delle sue doti finché poteva. Di
conseguenza, dal momento in cui
cominciò a mostrare i primi segni
della sua precocità in matematica,
fin dall’età di tre o quattro anni,
Komalatammal si valse
dell’assistenza del figlio nelle varie
manipolazioni numerologiche nelle
quali indulgeva al fine di
interpretare il proprio futuro e
assicurarsi che i suoi nemici
subissero dei danni. Mentre il
padre oziava sullo sfondo, madre e
figlio lavoravano insieme; il loro
legame per molti versi era più
intimo di quello tra marito e
moglie.
Komalatammal – e la cosa non
sorprende – professava anche di
essere un’abile interprete dei sogni,
e di aver trasmesso questa abilità a
suo figlio, che in seguito si dichiarò
esperto in quest’arte. Non ho
dubbi che l’ultima parte di questa
proposizione, che Ramanujan si
dichiarò esperto in quest’arte, è
assolutamente vera. Infatti sarebbe
stato tipico da parte sua pretendere
di possedere delle capacità
psichiche se così facendo poteva
assicurarsi la sua posizione sociale
o aiutare un amico. Quasi tutte le
cosiddette profezie, dopotutto,
sono semplici ragionamenti
induttivi rivestiti di panni
zingareschi.
Saranno sufficienti due esempi,
presi da lettere inviatemi da
conoscenti indiani di Ramanujan.
Nel primo, Mr. M.
Anantharaman racconta che una
volta, nella Kumbakonam della
loro infanzia, suo fratello descrisse
a Ramanujan un sogno che aveva
fatto. Allora Ramanujan interpretò
il significato del sogno come
l’annuncio che presto ci sarebbe
stata una morte nella strada dietro
la loro casa. E, neanche a dirlo,
pochi giorni dopo una vecchia
signora che viveva in quella strada
morì.
Consideriamo attentamente il
caso. Ramanujan aveva vissuto
quasi tutta la vita a Kumbakonam.
Doveva conoscere quasi tutti gli
abitanti del paese e, tramite sua
madre, essere al corrente delle loro
disgrazie finanziarie, delle
condizioni dei loro matrimoni e dei
vari malanni che li affliggevano.
Immaginate, dunque, che la madre
di Ramanujan lo informi che la
vecchia signora X, che abita nella
strada dietro i fratelli
Anantharaman, è prossima alla
morte. Il giorno dopo, gli viene
chiesto di interpretare un sogno.
Non sarebbe necessario alcun
talento psichico per prevedere – e
annunciare – l’imminente dipartita
di quella vecchia signora.
Il secondo esempio viene da Mr.
K. Narasimha Iyengar, che
proviene a sua volta di
Kumbakonam e, per un certo
periodo, condivise gli alloggi con
Ramanujan a Madras. Nella sua
lettera, questo signore descrive la
sua preparazione per un esame al
Christian College di Madras, la cui
parte matematica temeva di non
superare. Come ricorda, il giorno
dell’esame Ramanujan “sentì
istintivamente” che dovevano
incontrarsi e, quando lo fecero, gli
fornì dei “suggerimenti profetici”
grazie ai quali riuscì a superare
l’esame di matematica con il
punteggio minimo richiesto del 35
per cento. Senza l’intervento di
Ramanujan, dice Mr. Iyengar,
sarebbe stato bocciato.
Questo, naturalmente, è un caso
più complesso. Quello che Mr.
Iyengar vuol dare a intendere è
che i “suggerimenti” per l’esame
furono forniti a Ramanujan da una
forza esterna. Forse gli furono
scritti sulla lingua. In effetti, però,
come matematico e vittima di
lunga data del sistema educativo
indiano, Ramanujan doveva sapere
esattamente a quale tipo di
problemi andava incontro Mr.
Iyengar in un esame del genere.
Spiegandogli con pazienza questi
problemi, e poi attribuendo la sua
intuizione a un intervento
spirituale, Ramanujan riuscì a
ridurre l’ansia del giovane e a
instillargli la sicurezza di cui aveva
bisogno per ottenere un voto
sufficiente. Perché, più di ogni
altra cosa, egli era – e questo viene
spesso dimenticato – un uomo
gentile.
Vi fornisco questi esempi perché
voglio sottolineare che Ramanujan,
per quanto possa aver interpretato
il ruolo del devoto induista,
invocando persino doti
soprannaturali, in realtà non era
minimamente soggetto alle
stravaganze del cosiddetto
sentimento religioso. Era invece un
razionalista convinto, nel cuore e
nell’anima. Capisco che potrebbe
sembrare un ossimoro, ma secondo
me lo descrive perfettamente. Se,
in qualche occasione, fece
economia di verità, fu perché aveva
soppesato i pro e i contro e
concluso che in certi casi era
necessario, se non mentire, almeno
lasciare che certe false impressioni
persistessero. Per esempio,
ricorderete che, quando si trattò di
venire in Europa, un “sogno”
molto conveniente gli permise di
eludere l’ingiunzione braminica
contro la traversata dell’oceano. Fu
sua madre a fare il sogno. Anche
lei, sospetto, è lungi dall’essere la
creatura riverente che ci hanno
descritto. Al contrario, comprese i
vantaggi che avrebbe tratto dal
viaggio del figlio in Inghilterra, e
proprio come durante l’infanzia ne
aveva sfruttato le doti per essere
assistita nelle sue imprese
numerologiche, in seguito cercò di
succhiargli non solo una buona
dose di notorietà, come santa
madre del “calcolatore indù”, ma,
dopo la sua morte, anche una certa
quantità di denaro sonante.
Sì, Mrs. Neville, sento le sue
proteste. Sto giudicando troppo
duramente quella povera donna. Si
sacrificò molto per suo figlio,
lavorò duramente per pagare la sua
istruzione e per occuparsi di lui,
senza mai perdere la fede nel suo
genio anche quando tutte le porte
gli venivano chiuse in faccia. Tutto
questo è vero. Ciò non toglie che
fosse una donna avida e
interessata.
E questo è più che mai evidente
nei suoi rapporti con la sposa
bambina di suo figlio, Janaki.
Quanto a Janaki, non so bene
cosa pensare. Ramanujan sembrava
molto affezionato a lei. La
chiamava “la mia casa”. Quando,
dopo un lungo periodo a
Cambridge, non aveva ancora
ricevuto neppure una lettera da lei,
disse a Chatterjee, il giocatore di
cricket: «La mia casa non mi ha
scritto». «Le case non sanno
scrivere» rispose allegramente
Chatterjee: una battuta infelice,
forse, perché il fatto di non
ricevere lettere dalla moglie era
fonte di grande pena per
Ramanujan, anche se non saprei
dire se era perché la ragazza gli
mancava, o perché temeva che sua
madre l’avesse uccisa. Secondo Mr.
Anantharaman, Ramanujan non
conobbe la “felicità coniugale” con
Janaki, perché la ragazza, a suo
dire, era “alquanto sventurata”.
Eppure, Mr. Anantharaman mi
rammenta anche che, poco prima
del matrimonio, Ramanujan era
stato operato di idrocele – un
rigonfiamento dello scroto dovuto
a un accumulo di fluidi sierosi –
dopodiché per più di un anno non
aveva potuto praticare alcuna
attività sessuale. Secondo altre
fonti, Komalatammal si rifiutava di
lasciar dormire insieme la coppia,
accampando la scusa dell’idrocele.
Probabilmente voleva Ramanujan
tutto per sé. Non so dirvi se
Ramanujan considerasse questa
astinenza forzata, quale che ne
fosse la causa, una disgrazia o una
benedizione.
In ogni caso, doveva essere
perfettamente in grado di
immaginare cosa stava succedendo
a casa sua. Anche nel migliore dei
casi, la suocera indiana è una
tiranna, alla quale le usanze
consentono di rimproverare
aspramente, e persino di picchiare,
la povera nuora, di costringerla a
ogni genere di compito ingrato e di
dispensare punizioni liberamente.
La nuora, dal canto suo, deve
trattare la suocera con riverenza,
mostrarsi sempre sorridente di
fronte a lei e accettare qualunque
maltrattamento le venga inflitto
senza protestare. La vendetta, lo sa,
arriverà in seguito, quando avrà un
figlio suo e lui si sposerà, dandole
la possibilità di perpetrare sulla
propria nuora le stesse crudeltà che
ha subito lei. Così il ciclo continua,
di generazione in generazione, in
gran parte delle famiglie indiane.
Se poi considerate le circostanze
estreme – l’imprevedibilità di
Komalatammal; l’assenza del figlio
e del marito a far da mediatore; la
giovane età e il carattere ribelle
della nuora – ebbene, potete
immaginare che razza di polveriera
doveva essere quella casa di
Kumbakonam.
Sono sicuro che Ramanujan
presagiva tutto: i commenti
offensivi, i sari dozzinali, i secchi di
escrementi. Il povero
Kuppuswamy, ormai quasi cieco,
passava la maggior parte del tempo
a evitare le traiettorie delle pentole
volanti. E, frattanto – questa è la
grande ironia – la povera ragazza
continuava a scrivere lettere al
marito, lunghe lettere lamentevoli,
pregandolo di aiutarla a venire in
Inghilterra, se non altro per
sottrarsi al dispotismo della
suocera; solo che Komalatammal
intercettava le lettere e le
distruggeva prima che fossero
spedite. Così come intercettava le
lettere di Ramanujan a sua moglie
prima che Janaki riuscisse a
impadronirsene. Una volta Janaki
cercò di infilare un biglietto in uno
dei pacchi di alimenti che venivano
spediti a Ramanujan, ma
Komalatammal lo trovò prima che
il pacco partisse. Potete
immaginare la sfuriata che dovette
subire Janaki!
Era una situazione intollerabile,
e Ramanujan, anche se da una
grande distanza, ne sentiva le
ripercussioni. In seguito, sua
madre accennò casualmente al
fatto che il suo risentimento nei
confronti di Janaki era dovuto a
certe caratteristiche dell’oroscopo
della ragazza, che la sua famiglia
aveva deliberatamente contraffatto
prima del matrimonio. Aquanto
pare, l’oroscopo, se letto nel modo
giusto, rivelava che il matrimonio
con Janaki avrebbe affrettato la
morte di Ramanujan. I genitori di
lei, consapevoli che questo avrebbe
messo a repentaglio le possibilità di
trovare marito di una figlia
tutt’altro che desiderabile, erano
ricorsi all’imbroglio per liberarsi di
lei. Si dà il caso, però, che non se
ne siano liberati per molto tempo.
Vorrei tanto aver capito, allora,
le sofferenze di Ramanujan con la
stessa chiarezza con cui le capisco
adesso. Grazie alla stessa potente
intuizione che in passato aveva
spacciato per una dote profetica,
Ramanujan doveva aver “visto” le
scene orripilanti che avvenivano a
Kumbakonam. Tuttavia non
poteva fare niente. Gli attacchi dei
sottomarini tedeschi gli
impedivano di tornare in patria. E
nel frattempo, in assenza delle
lettere, cercava di interpretare il
silenzio. E questa, nel migliore dei
casi, è un’impresa pericolosa. Lo so
bene, perché l’ho tentata spesso
anch’io. Quando coloro che
desideri sentire non parlano o non
possono parlare, finisce che parli
“per conto” loro, proprio come, ai
tempi della nostra giovinezza, Gaye
soleva parlare “per conto” del
gatto, dicendo cose come “Non mi
sento molto bene” o “Hardy, sei
cattivo, non vuoi accarezzarmi il
pancino”. Allo stesso modo,
Ramanujan deve aver parlato “per
conto” di Janaki, per poi
rispondere a questa Janaki che, per
quel che ne sappiamo, non
assomigliava minimamente alla
ragazza che aveva lasciato in India.
E questo era solo uno dei suoi
molti affanni. La guerra lo
spaventava, come tutti noi, del
resto. Il cibo di cui non poteva fare
a meno, in particolare la verdura
fresca che era un alimento
essenziale della sua dieta, stava
diventando sempre più irreperibile.
E poi le usanze inglesi, mi disse, gli
sembravano molto strane. Non c’è
un modo gentile di dirlo: ci
considerava sporchi. Una volta, per
esempio, sentimmo una donna in
una sala da tè lamentarsi che se i
membri della classe operaia
puzzavano era perché si facevano il
bagno solo una volta la settimana.
«Se solo si facessero un bagno,
come noi, una volta al giorno!»
Ramanujan mi guardò allarmato.
«Non vorrai dirmi che voi vi fate il
bagno solo una volta al giorno?»
chiese.
Le nostre abitudini igieniche
non erano le uniche a sconcertarlo.
Perché, mi chiese, i figli non
restavano con i genitori dopo il
matrimonio? Non amavano i loro
genitori? Non si sentivano soli? Gli
risposi che gli inglesi apprezzavano
l’indipendenza, e anche questo
concetto lo trovava strano.
Abituato a dormire ovunque, in
una piccola casa condivisa da molte
persone, trovava strano persino
avere una stanza tutta per sé.
Si avvicinava l’autunno e
cominciava a far freddo, un freddo
come non l’aveva mai conosciuto.
Questo è forse l’aspetto della sua
esperienza inglese che sono meno
in grado di immaginare, io, che fin
dall’infanzia mi ero abituato agli
estremi dell’inverno: le dita
addormentate, le labbra screpolate,
la lotta per costringere la coperta a
produrre qualche grado in più di
calore. Gli abiti, che Ramanujan
aveva sempre considerato come
una specie di decorazione, un
modo per abbellire il corpo mentre
ne proteggevano la modestia,
adesso doveva usarli, per la prima
volta, come strati di difesa contro i
rigori dell’inverno. Si trovò a dover
combattere non solo con le terribili
scarpe strette, ma anche con
guanti, sciarpe, galosce, cappotti e
cappelli. Conosceva la pioggia dai
monsoni, ma era una pioggia calda,
che si lasciava dietro una scia di
vapore e umidità. Qui, invece,
anche la breve camminata fino alla
New Court poteva essere una lotta
con folate di vento che gli
buttavano negli occhi scrosci di
nevischio e di grandine, e
rompevano le stecche dell’ombrello
che gli avevo regalato. Fare il
bagno era un vero incubo. Non
c’era da meravigliarsi che gli inglesi
fossero, dal suo punto di vista, così
sporchi! Infatti, chi poteva
sopportare più di un bagno al
giorno quando la temperatura
nella stanza da bagno era sotto lo
zero?
Quando arrivava nei miei
appartamenti la mattina, lo
guardavo liberarsi di sciarpa e
cappotto e poi gli offrivo il caffè,
che beveva con gratitudine e in
gran quantità. Gli tostavo i
pasticcini salati sul fuoco, ma
sembrava che lui non riuscisse mai
a scaldarsi abbastanza. Dal canto
mio, rifiorivo nel clima freddo; la
mattina mi trovava fresco e
vigoroso, con le guance arrossate
dopo una passeggiata tonificante.
Ramanujan, invece, era pallido.
Non dormiva bene, mi disse. Forse
avrei dovuto prenderlo come un
segnale d’allarme; ma c’era tanto a
distrarre l’attenzione in quei giorni
di guerra!
Disattenzione: la scusa perenne
dello studente. “Stavo guardando
qualcos’altro.” “L’altro ragazzo mi
ha colpito per primo, non stavo
ascoltando, signore.” Che diritto
ho di ricorrere a questa scusa
adesso, proprio io che non l’avrei
mai accettata da uno studente?
No, quella che sto offrendo non
è una scusa. È una confessione.
QUINTA PARTE

Sogni terribili
1

A settembre, il Trinity è un mondo


diverso. Whewell’s Court è una
caserma. Ogni mattina, quando va
da Hardy, Ramanujan deve
procedere tra brande e tende, e
una mensa. Nevile’s Court è un
ospedale da campo. Soldati feriti, le
facce e gli arti bendati e
insanguinati, giacciono su letti di
ferro sotto le arcate della Wren
Library. Sul lato opposto, sono
state calate delle luci dal soffitto
del chiostro sud, che è stato
trasformato in una sala operatoria.
Per quanto gli è possibile, Hardy
rimane nei suoi appartamenti.
Soldati sfilano ovunque. Nella
Great Court, Butler tiene sermoni
alle truppe, esortandole a resistere
alle tentatrici francesi. Colonnelli e
capitani in kaki pranzano al tavolo
dei docenti, brindando con
champagne ogni volta che uno dei
loro è in partenza per il fronte. Per
Hardy è uno spettacolo così
sgradevole che prende a mangiare
da solo nei suoi appartamenti.
Uova e pane tostato. Il cibo della
sua infanzia. Quando esce, si trova
stranamente attratto dall’arcata
della biblioteca, dai soldati che
neppure un mese prima correvano
ancora liberi e sani. Adesso ne
arrivano a dozzine ogni giorno,
febbricitanti per le ferite infette,
malati di tetano, di tifo, di
meningite. Mentre passa, gli
chiedono le sigarette, che lui
distribuisce con gran disappunto
delle infermiere. Alle infermiere
non piace vedere i loro pazienti
fumare.
Non c’è quasi nessuno in giro, il
che intristisce Hardy; la sua è una
tristezza che ricorda dall’infanzia,
la tristezza associata ai giorni di
settembre che precedevano l’inizio
delle scuole, ciascuno più breve del
precedente, quei giorni in cui
sembrava che tutti al mondo
tranne lui avessero qualcosa da
fare, un posto dove andare.
Adesso, quando passeggia lungo il
fiume non incontra più nessuno.
Littlewood è partito, arruolato
come sottotenente nella
Guarnigione dell’Artiglieria
britannica. Keynes è al Tesoro.
Russell è in giro a tenere discorsi
contro la guerra. Rupert Brooke,
grazie all’intervento di Eddie
Marsh, ha ottenuto un posto di
ufficiale nella Divisione navale
britannica di Churchill. Békássy è
in Ungheria, Wittgenstein in
Austria. Non importa che stiano
combattendo sull’altro fronte. Quel
che conta è che ciascuno sta
difendendo la propria patria, e,
così facendo, partecipa a un
esaltante, antico rito di virilità. O
così la mette Norton. Norton si
picca di spiegare le cose. Si picca di
capire.
Un fine settimana ritorna al
Trinity da Londra. Si porta dietro,
o così pare a Hardy, l’olezzo di
Bloomsbury, la sua appartata,
libresca desolazione. Chiede a
Hardy che cosa intende fare se ci
sarà la coscrizione, e Hardy
risponde: «Andrò in guerra,
suppongo».
«Vuoi dire che non farai
l’obiettore di coscienza?»
«Disapprovo gli obiettori di
coscienza come classe» dice Hardy,
e con ciò intende dire che
disapprova Norton come classe;
Bloomsbury come classe;
l’immagine che gli evoca, di
Strachey e Norton e Virginia
Stephen (adesso Woolf) seduti
nelle loro biblioteche, a guardare la
pioggia e borbottare: «Che
orrore!». Strachey, dice Norton,
non vuole parlare della guerra.
Passa le sue serate leggendo libri
che lo allontanino il più possibile
dalla guerra. Adesso, per esempio,
sta leggendo le Memoirs of the
Lady Hester Stanhope. E perché
l’idea di Strachey seduto a letto,
indubbiamente con un berretto da
notte, e le Memoirs of the Lady
Hester Stanhope aperte sulle
ginocchia lo disgusta tanto? In
fondo lui non è migliore. Il suo
chiostro è la New Court. E invece
di Lady Hester Stanhope, sta
leggendo Ritratto di signora.
Quanto a Norton, ebbene, se c’è
una prova di quanto si sia
rimbambito, è che non coglie
l’insulto di Hardy e si limita a dire
che lui si dichiarerà senz’altro
obiettore di coscienza, dovesse
rendersi necessario; non, subodora
Hardy, per problemi di coscienza,
ma per proteggere se stesso. E
come dovrebbe reagire Hardy? Gli
sembra che lui e il suo vecchio
amico abbiano sempre meno da
dirsi ogni giorno che passa, anche
se vanno ancora a letto insieme di
quando in quando.
Ciò che lo preoccupa di più è
come dovrebbe definirsi. È un
pacifista? Indubbiamente la sua
disapprovazione per questa guerra
vergognosa è altrettanto assoluta di
quella di Russell. Tuttavia non può
affermare di disapprovare tutte le
guerre. Una guerra giusta la
combatterebbe. Quindi la
domanda è: questa guerra,
malgrado i suoi inizi, è divenuta
una guerra giusta adesso? I soldati
feriti, quando si siede con loro,
non riescono a non parlare delle
atrocità di Lovanio, del saccheggio
e dell’incendio di case, negozi,
fattorie, e, peggio ancora, della
biblioteca, la famosa biblioteca,
altrettanto illustre per la sua
collezione di libri rari e preziosi di
quella alla cui ombra giacciono
adesso. È curioso: pochi di questi
uomini sono istruiti. La maggior
parte, immagina Hardy, non legge
affatto. Eppure il sacco della
biblioteca sembra averli scossi fin
nel midollo. «Radere al suolo una
biblioteca» dice Hardy a Moore,
col quale adesso passeggia sotto le
arcate, come un tempo passeggiava
nei prati di Grantchester… Ma non
riesce a finire la frase. Come si fa a
concludere una frase del genere?
Tra i libri bruciati dovevano esserci
testi tedeschi, opere di Goethe e
Novalis e Fichte. E chi li ha
bruciati? I connazionali di Goethe
e Novalis e Fichte.
Il segreto è cercare di mantenere
un senso di equilibrio, e, a questo
riguardo, scrivere lettere aiuta.
A Russell, che sta facendo un
giro di conferenze in Galles, scrive:
“Come è possibile che l’Inghilterra
desideri tanto annientare e
umiliare la Germania? Quel che ci
vuole è una pace a condizioni
eque”.
A Littlewood, con il quale cerca
a fatica di continuare a collaborare,
scrive: “Istruirlo si sta rivelando più
difficile di quanto sospettassi. La
sua mente è come quella di Isabel
Archer, continua a saltare fuori
dalla finestra. Non riesco mai a
tenerlo abbastanza a lungo su un
argomento”.
A Gertrude, che adesso può
vedere molto meno di prima,
scrive: “Per favore, di’ a nostra
madre di non preoccuparsi. Con
ogni probabilità, se mi
chiamassero, verrei riformato per
motivi di salute… entre nous, io
spero di no, ma questo non glielo
dire”.
Anche Ramanujan scrive lettere.
Scrive a entrambi i genitori. “Non
c’è la guerra in questo Paese” dice
a sua madre. “La guerra
imperversa in un Paese vicino, un
Paese che è lontano da qui quanto
Rangoon lo è da Madras. Centinaia
di migliaia di persone sono venute
dal nostro Paese a unirsi alle forze.
Settecento rajah sono venuti dal
nostro Paese a combattere. La
guerra attuale coinvolge milioni di
persone. La piccola nazione del
Belgio è quasi distrutta. Ogni città
ha edifici che valgono cinquanta o
cento volte di più di quelli di
Madras.”
La lettera a suo padre è molto
più breve. “Ho tutti i sottaceti”
scrive. “Non c’è bisogno che me ne
mandi altri. A parte quello che stai
spedendo adesso, non spedire più
niente. Non preoccuparti per me,
me la cavo bene. Non lasciare che
il canale di scolo trabocchi come al
solito. Pavimentalo coi mattoni. Io
me la cavo bene.”
2

Quell’autunno Ramanujan inizia a


pubblicare. Il “Quarterly Journal of
Mathematics” pubblica il suo
Equazioni modulari e
approssimazioni di p. Per
festeggiare, Hardy lo porta in un
pub, dove lui si rifiuta di bere
qualsiasi cosa. Dice a Hardy che sta
lavorando a un grosso studio sui
numeri altamente composti. La sua
equazione è ingegnosa, e
tipicamente ramanujaniana (un
aggettivo che Hardy non dubita
sarà presto in circolazione). Si
presenta così:
n = 2a2 × 3a3 × 5a5 × 7a7 × … pap
dove n è il numero altamente
composto e a2, a3, a5… ap sono le
potenze alle quali vanno elevati i
numeri primi successivi in modo
che il numero possa essere scritto
come un multiplo di numeri primi.
Così, se il numero altamente
composto che stiamo trattando è
60, possiamo scriverlo come
60 = 22 × 31 × 51
Qui a2 = 2, a3 = 1 e a5 = 1. Se
fossimo alle prese con il più grande
numero altamente composto che
Ramanujan ha scoperto,
6.746.328.388.800 (lo annota su
un pezzo di giornale strappato; non
ha perso la sua abitudine indiana
di accumulare pezzi di carta),
scriveremmo
6.746.328.388.800 = 26 × 34 × 52 ×
72 × 11 × 13 × 17 × 19 × 23
Quello che Ramanujan è riuscito a
dimostrare è che, per ciascun
numero altamente composto, a2
sarà sempre maggiore di o uguale
ad a3, a3 sarà sempre maggiore di
o uguale ad a5 e così via. E per
ogni numero altamente composto
– un’infinità di numeri altamente
composti – l’ultimo fattore sarà
sempre 1, con due eccezioni: 4 e
36. Per molti versi sono le
eccezioni che intrigano di più
Hardy, in quanto rivelano, ancora
una volta, come i numeri siano
malauguratamente resistenti
all’impulso ordinatore che, per loro
natura, essi invocano. Ogni volta
che pensi di essere prossimo a
vedere l’insieme in tutta la sua
incantevole simmetria – il palazzo
che emerge dalla nebbia
autunnale, con tutti suoi piani
maestosi, come disse Russell una
volta – la matematica ti lancia una
palla che non puoi colpire. È
esattamente per questo che Hardy,
malgrado ogni prova contraria, non
accetterà la verità dell’ipotesi di
Riemann senza una dimostrazione.
I numeri 4 e 36 arrivano presto.
Ma con la funzione zeta le
eccezioni potrebbero presentarsi a
distanze così remote dalla capacità
umana di contare che Hardy fatica
a concepirle. Come Ramanujan ha
imparato a sue spese – come ogni
matematico ha imparato a sue
spese – il mondo dei numeri non
ammette né compromessi né
scorciatoie. Non si può imbrogliare
qui. Se lo fai, vieni sempre
scoperto.
In ogni caso, Hardy non ha mai
incontrato nessuno che conosca i
numeri altrettanto intimamente di
Ramanujan. «È come se ciascuno
dei numeri interi fosse un suo
amico personale» aveva detto
Littlewood all’inizio, un’arguzia
che, secondo Hardy, non coglie
l’erotismo di lavorare coi numeri, il
calore che sprigionano, la loro
vitalità, l’imprevedibilità e, a volte,
il pericolo. Quand’era piccolo, sua
madre gli aveva regalato una serie
di blocchi numerati, e poi si era
lamentata che non facesse altro che
sbatterli uno contro l’altro, il 7
contro l’1, il 3 contro il 9. Quello
che non riusciva a riconoscere era
il suo bisogno, fin da allora, di
penetrare nel brusio della vita
all’interno. Attrazioni e repulsioni,
suoni armoniosi e strilli di megere.
Ben presto li aveva rotti tutti
tranne il 7. Per tutta la vita il 7 è
stato il suo numero preferito. A
dispetto del suo ateismo, ne
rispetta il fascino mistico, come
rispetta associazioni meno salutari
legate a due numeri che si rifiuta
di nominare, e ancor più di
scrivere. Non è che creda in
superstizioni specifiche, ma è
convinto che i numeri stessi
emanino vapori malefici. Altri
numeri che la gente
considererebbe perfettamente
benigni, lui li disprezza: 38. E 404.
E 852. Altri invece li ama. Ama
quasi tutti i numeri primi. Ama,
per ragioni che gli sfuggono, il
numero 32.671. E adesso che
Ramanujan lo ha iniziato alle loro
proprietà, ama i numeri altamente
composti, e di questi, quelli che
predilige sono il 4 e il 36, perché
sfidano la regola di Ramanujan… il
4, il 36 e il 9, il ponte tra di loro: il
9 che è 32. Attraversa il ponte e si
addentra in campi dove sa che
Ramanujan ha indugiato a lungo.
Fin dove può vedere, non vi cresce
niente di commestibile. Sono
sterili, o mietuti fino all’ultima
spiga.
3

Il “Times” lo ha reso ufficiale: metà


degli uomini di Cambridge sono
andati in guerra. “Del cinquanta
per cento di quelli rimasti nel
college” legge Hardy, “molti sono
stranieri o orientali, e molti degli
altri sono sotto il limite di età, o
sono stati riformati dai medici per
difetti fisici.”
E lui dove si situa?
Il “Times” gli dice anche che per
il momento l’università ha bloccato
tutte le manifestazioni atletiche
organizzate: “Non ci sono uomini,
e non c’è interesse per il fiume o i
campi da gioco”. Be’, è tentato di
scrivere, c’è almeno un uomo che
ha interesse per il cricket; anzi, per
almeno un uomo l’idea di una
primavera senza cricket è quasi
intollerabile da contemplare. Ma
questa lettera, sebbene la ricopi,
non la spedisce mai.
Ovunque vada, vede indiani.
Non si tolgono mai il tocco e la
toga, forse per assicurarsi che
nessuno metta in discussione la
loro presenza qui. Nel migliore dei
casi erano nervosi, ma adesso la
guerra sembra aver acuito il loro
disagio. Un pomeriggio, per
esempio, mentre Hardy sta
attraversando il Corn Exchange,
vede una folata di vento strappare
il tocco dalla testa di un giovane
indiano in toga del King’s College.
Divertito e impietosito, osserva la
comica giravolta del ragazzo che
rincorre il tocco e si china a
raccoglierlo, solo per vederlo
spazzato via ancora una volta – con
giocosa crudeltà – dal vento. Alla
fine il tocco atterra ai piedi di
Hardy che lo recupera, lo rassetta e
lo porge all’indiano, che ha il fiato
corto per la corsa. L’indiano lo
ringrazia, poi si precipita nella
direzione opposta.
Qualche minuto dopo, Hardy lo
rivede, sull’angolo di Trinity Street
e Bridge Street, insieme a tre suoi
connazionali. Uno è Chatterjee, il
bel giocatore di cricket che un
tempo (sembra un secolo fa) Hardy
sovrapponeva a Ramanujan. Il
secondo è alto e curvo e porta gli
occhiali e il turbante. Il terzo è lo
stesso Ramanujan. Ciondola la
testa alla volta di Hardy. E Hardy,
come dovrebbe rispondere?
Salutandolo con un cenno della
mano? Avvicinandosi per dire
salve? In questa occasione, sceglie
di fargli un semplice cenno con la
mano.
La mattina seguente chiede a
Ramanujan chi erano gli altri.
«Chatterjee» dice Ramanujan. «È
di Calcutta. E Mahalanobis, anche
lui di Calcutta, studia scienze
naturali al King’s, e Ananda Rao.»
«Ah, sì» dice Hardy. «Non è
quello che stava venendo in
Inghilterra su una nave austriaca?
Mi sembra di ricordare che temevi
che non ce la facesse.»
«Infatti ha avuto una notevole
avventura. Quando lui e Sankara
Rao arrivarono a Port Said, la
guerra era incominciata. Vicino a
Creta una nave inglese cominciò a
fare fuoco sulla nave e ordinò di
fermarsi. Per fortuna la loro nave
non era armata. Se lo fosse stata e i
marinai avessero risposto al fuoco,
sarebbero stati affondati.»
«E poi cos’è successo?»
«Furono fatti tutti prigionieri e
portati ad Alessandria, dove la
nave fu confiscata. Gli indiani e gli
inglesi furono messi su un’altra
nave e mandati in Inghilterra. Così
lui e Sankara Rao arrivarono senza
problemi.»
«E il tamarindo?»
«Era intatto.»
«Dimmi ancora, per cosa lo usi?»
«Per il rasam. È una zuppa di
lenticchie molto liquida.
Piccantissima e aspra. Gli inglesi in
India la chiamano “acqua di pepe”.
Se vuoi te la preparo, Hardy.
Adesso ha davvero il sapore del
rasam, al contrario di quando
usavo i vostri limoni.»
«Mi piacerebbe provarla.»
«Forse darò una cena. Inviterò
alcuni amici. Chatterjee e
Mahalanobis, forse.»
«Ne sarei felice» dice Hardy. Ma
Ramanujan o cambia idea o si
dimentica di aver fatto l’offerta,
perché l’invito – con una certa
delusione di Hardy – non arriva.
4

New Lecture Hall, Università di


Harvard
L’ultimo giorno d’agosto del 1936,
mentre fuori la luce sbiadiva,
Hardy continuò la sua conferenza
immaginaria, senza smettere
frattanto di scrivere equazioni sulla
lavagna e disquisire, con la sua
voce, di serie ipergeometriche:
Mi chiedo (non disse) se stasera
riuscirò a spiegarvi – a voi che siete
giovani americani, educati dai
vostri padri a sentirvi vittoriosi e, a
ragione, gonfi d’orgoglio per aver
vinto la guerra e averne tratto
profitto – mi chiedo se riuscirò a
spiegarvi come furono bui, e persi e
strani quegli anni per l’Inghilterra.
Per me fu un periodo frenetico, il
dito che rimestava mille pentole, e
cercava di tappare, per così dire, la
falla di mille dighe; ma allo stesso
tempo fu un periodo tetro e
monotono, durante il quale
sembrava che la pioggia non
cessasse mai, e c’erano sempre
ampie opportunità di agitarsi e
darsi da fare, per quanto piene
fossero le giornate. Perché
agognavamo sentire che le nostre
vite, e il mondo in cui vivevamo,
erano reali, a dispetto di tutte le
insensatezze sanzionate dal
governo che ci propinavano i
giornali. Per esempio, a un certo
punto dell’autunno 1915 ci fu
detto che la Servia d’ora in avanti si
sarebbe chiamata “Serbia”, in
modo che il suo nobile popolo non
pensasse che lo consideravamo
“servile”. Offerte di
“equipaggiamenti da guerra con
breve preavviso” condividevano la
stessa pagina con le réclame delle
automobili. Poiché la maggior
parte degli sport ricreativi erano
stati sospesi più o meno
forzatamente, la stampa popolare
prese a paragonare la guerra a una
partita di cricket. Un certo capitano
Holborn della divisione di
artiglieria prese l’abitudine di
calciare una palla in territorio
nemico prima di sferrare un
attacco. E veniva considerato un
comportamento degno di lode.
Persino i rompicapo sullo “Strand”
cominciarono ad avere titoli
collegati alla guerra: Addestrare le
spie, Evitare le mine. Il che non mi
impedì di continuare a risolverli.
Oggi, naturalmente, conosciamo
la verità. Abbiamo le memorie e le
lettere, testimonianze di quale
orrore fosse la Francia, con topi e
pidocchi, e arti amputati che
volavano. Cose che quelli di noi
che non c’erano non hanno il
diritto, né il permesso, di
descrivere. E sappiamo anche che
spreco vergognoso sia stato
(“wastage”– spreco per l’appunto –
era il termine burocratico per la
morte in battaglia), e quanto fosse
stupida la guerra nelle idee e nei
fatti, e quanto stupidamente ci
giocassimo.
All’epoca, però, anche se il
razionalista in me cercava di
ricordare il fine ingannevole della
propaganda, il sentimentale traeva
piacere e a volte conforto dall’idea
che la guerra fosse una sorta di
allegro giochetto. «Un vero spasso»
come ebbe a dire una volta Rupert
Brooke. Né Brooke era d’aiuto
quando, nelle sue lettere,
diventava poetico sulle nuotate con
i “nudi e superbi” uomini del suo
reggimento. Naturalmente, Brooke
aveva le sue ragioni per sentirsi
nudo e superbo, a differenza di
me. Tuttavia, non posso negare che
l’idea di nuotare nudo con un
manipolo di uomini giovani e
attraenti mi eccitasse. Da bambino
avevo divorato racconti di
battaglia, di gloria e di vittoria. Ero
un po’ innamorato del giovane
principe Harold. Quando si prese
una freccia nell’occhio a Hastings,
avrei voluto essere lì con lui, a
curare le sue ferite e cullarlo tra le
mie braccia. Allora c’era una
fantasia erotica molto potente che
mi piaceva contemplare – penso
fosse la stessa cui mi abbandonai la
prima volta che mi toccai con
intenti carnali – in cui immaginavo
di giacere ferito sul campo di
battaglia, con i vestiti strappati in
parte dal corpo, e che due ufficiali,
uno dei quali medico, mi
caricavano su una barella e mi
portavano in una tenda, dove
procedevano a spogliarmi degli
indumenti che rimanevano, fino a
lasciarmi nudo… La fantasia non
andava mai oltre questo momento.
Quello che sarebbe successo dopo
non potevo immaginarlo. E ora, nei
primi anni di guerra, ecco che
questa fantasia si ripresentava, più
potente che mai, forse perché negli
anni intercorsi avevo avuto
esperienze che mi consentivano di
estendere la visione oltre il
momento in cui mi venivano tolti i
vestiti, per arrivare a quello in cui il
medico si chinava su di me per
baciarmi, e anche più in là…
Per qualche ragione sognavo la
possibilità della mia morte, me ne
gloriavo persino. Quando leggevo
la lista dei caduti di Cambridge,
pubblicata dal “Cambridge
Magazine”, cercavo di inserire il
mio nome tra quello degli uomini
del Trinity, tutti uomini che avevo
conosciuto, perlomeno di vista, e
alcuni dei quali erano stati miei
allievi. Hardy tra Grantham e
Heyworth. Come suonava bene!
Grantham, Hardy, Heyworth.
E i nomi dei reggimenti! Solo
l’Inghilterra poteva fare poesia
battezzando i reggimenti: Settimo
Seaforth Highlanders, Primo
Fucilieri del Galles, Nono
Sherwood Foresters,
presumibilmente con Robin Hood
al comando e frate Tuck e tutti gli
altri membri di quell’allegra
masnada.
L’azione, capite, per non parlare
dell’orrore, era in Francia. Al
Trinity le notti erano abbastanza
tranquille per sognare. Cercavo di
convincermi che apprezzavo il
silenzio, ma in realtà mi
mancavano i canti da ubriachi che
spesso mi svegliavano, e le
discussioni filosofiche sotto le mie
finestre, le cupe dichiarazioni
pronunciate – come solo i giovani
possono pronunciarle – con fervida
gioia. Questo infatti era sempre
stato il sapore delle prime
settimane dopo l’inizio del
trimestre. Potevi godere con i
giovani della loro libertà tutta
nuova, la libertà di stare alzati fino
a tardi, e discutere, e dire:
“Quando finisce la gioventù,
finisce la vita. A trent’anni mi
ucciderò”. (Il ragazzo che aveva
espresso questo particolare
sentimento, ho saputo, non ha
superato i diciannove.) Mi
mancavano persino quei rituali che
un tempo affermavo di disprezzare:
i sanguigni “atleti” che invadevano
gli alloggi degli “esteti”, rompendo
le loro stoviglie e lanciando i cocci
nella New Court. Perché ormai
non c’era più nemmeno un atleta –
i giovani gagliardi ed esuberanti
erano andati a combattere – e solo
pochi esteti, perché anche molti di
loro stavano combattendo, e di
quelli rimasti pochi avevano voglia
di cantare o azzuffarsi.
Una mattina, all’inizio di
quell’inverno, ero seduto a leggere
nei miei appartamenti, con
Hermione sulle ginocchia, mentre
aspettavo Ramanujan. Alzai gli
occhi e vidi che stava cadendo la
prima neve. E in qualche modo la
sua innocenza, la sua apparente
ignoranza delle condizioni del
mondo, mi commosse e mi intristì.
Perché forse la neve stava cadendo
anche sulle campagne devastate di
Francia e Belgio, stava cadendo
sulle trincee nelle quali i soldati
aspettavano quello che poteva
essere il loro ultimo tramonto. E
stava cadendo su Nevile’s Court,
per esser contemplata dai feriti che
giacevano nei loro lettini da
campo. E stava cadendo su
Cranleigh, dove mia madre, ormai
quasi fuori di senno, la guardava
attraverso la finestra della sua
stanza da letto, e mia sorella
attraverso la finestra di un’aula in
cui ragazze in divisa dipingevano
un vaso di fiori. Togliendomi
Hermione dalle ginocchia, mi alzai
e andai alla finestra. Fuori faceva
ancora abbastanza caldo perché la
neve non attecchisse; si scioglieva
all’istante, non appena toccava
terra. E lì, fermo nel cortile sotto di
me, c’era Ramanujan. I fiocchi gli
si scioglievano sul viso e gli
colavano sulle guance. Rimase lì
impalato per cinque minuti buoni.
E allora mi resi conto che doveva
essere la prima volta in vita sua che
vedeva la neve.
Venne di sopra e ci mettemmo
al lavoro. Non saprei dire con
esattezza su cosa stavamo
lavorando. È difficile ricordarlo con
Ramanujan, perché era sempre alle
prese con due o tre cose alla volta,
oppure aveva fatto un altro sogno,
e aveva altre stranezze da
condividere. Chissà, per esempio,
se eravamo già sulla teoria dei
“numeri rotondi”? Questo era il
genere di cosa in cui poteva
perdersi per giorni di fila, contando
tutti i numeri da 1 a 1.000.000, e
poi ordinandoli per rotondità. «Sai,
Hardy, 1.000.000 è molto
rotondo» mi disse un giorno. «Ha
12 fattori primi, mentre se prendi
tutti i numeri tra 999.991 e
1.000.010 la media è solo 4.» Mi
piaceva immaginarlo seduto nei
suoi alloggi a preparare liste del
genere. In realtà stava facendo
molto di più. Stava gettando le basi
della formula asintotica della
rotondità, che in seguito avremmo
perfezionato.
Alla metà di ottobre, gli ultimi
feriti erano stati sgombrati da
Nevile’s Court. Stavano costruendo
nuove strutture ospedaliere sui
campi da cricket del Clare e del
King’s College, uno dei campi da
gioco migliori della città, pensai
tristemente all’epoca.
Però, andavo a far visita
all’ospedale. La prima volta portai
Ramanujan con me. Le corsie si
allungavano per tre quarti di
miglio, divise in dieci padiglioni,
con sessanta letti ciascuno. La cosa
più strana era che avevano solo tre
pareti ciascuno. Dove avrebbe
dovuto esserci la quarta parete,
c’erano il cielo aperto, le nuvole e i
prati.
Chiesi a una delle infermiere
come mai mancavano le pareti. «È
per l’aria fresca» disse, sfregandosi
le braccia per scaldarsi. «L’aria
fresca sconfigge i germi. E anche il
mal di testa e la debolezza.»
«E che succede quando piove?»
«Ci sono gli avvolgibili. Anche
se, a dire il vero, non funzionano
molto bene. Non che abbia
importanza. Questi uomini sono
abituati a dormire all’addiaccio, e
in condizioni molto peggiori.»
Poco più in là, un soldato
cominciò a gemere. Le sue parole
erano irriconoscibili. Forse era
belga. L’infermiera andò a
soccorrerlo, e io guardai gli uomini,
la maggior parte dei quali erano
avvolti in bozzoli di coperte e
fasciature. Come avrebbero fatto a
star caldi d’inverno? mi chiesi. Ma
forse l’idea era proprio questa.
Forse nelle alte sfere avevano
pensato che, se fossero stati troppo
comodi, sarebbero stati meno
disposti a tornare al fronte. Non mi
era difficile immaginare che
un’idea del genere guadagnasse
credibilità nei circoli militari.
Dopo la visita, Ramanujan
espresse il suo sgomento per le
pareti mancanti. «I pazienti di
tubercolosi vengono curati allo
stesso modo» gli dissi, ancora
ignaro, naturalmente, del futuro a
venire. «Aria fresca! Aria fresca!
Gli inglesi sono fermi sostenitori
dei poteri terapeutici dell’aria
fresca.»
«Ma cosa succede quando
piove?»
«Be’, si bagnano.»
Quel pomeriggio, neanche a
dirlo, piovve. Piovve a catinelle.
Per qualche ragione non riuscivo a
star seduto nella mia stanza a
guardare il diluvio, così presi
l’ombrello, quello che avevo rubato
a Gertrude, e tornai in corsia.
L’infermiera stava lottando con gli
avvolgibili, che sbatacchiavano nel
vento. Ai suoi piedi c’erano pozze
d’acqua piovana, tanto che si era
messa le galosce. Quando il vento
soffiava a raffiche, schegge di
pioggia sferzavano gli uomini più
vicini agli avvolgibili, alcuni dei
quali imprecavano o ridevano,
mentre altri giacevano immobili,
apparentemente indifferenti alle
raffiche.
Il più silenzioso di tutti – lo
notai solo allora – era un ragazzo
dai capelli biondo scuro e gli occhi
verdi. Ciuffetti di peli solo
lievemente più scuri dei capelli
sbucavano dalla sua camicia da
notte. Mi avvicinai con
circospezione al suo letto. «Posso?»
chiesi, aprendo l’ombrello sopra la
sua testa.
«Non credo che dovrei
ringraziarla» disse.
«Perché no?» chiesi.
«Perché aprire un ombrello al
chiuso porta sfortuna» rispose.
«Non questo ombrello» dissi.
«Questo è un ombrello fortunato.
E poi, non siamo esattamente al
chiuso. Direi che siamo… sulla
soglia, le pare? Mezzi fuori e mezzi
dentro.»
«Lei è un don?»
«Sì. Come lo ha capito?»
«Parla come un don.»
«Ah sì?»
«Sì, dice un sacco di
stupidaggini.»
Ero contento che mi
considerasse abbastanza giovane da
prendermi in giro. Gli chiesi se
potevo sedermi accanto a lui per
un po’.
«Non è proibito dalla legge»
disse, così mi sedetti sulla seggiola
accanto al suo letto, badando a
non spostare l’ombrello.
«Come si chiama?» gli chiesi.
«Thayer» disse. «Fanteria.
Birmingham. Mi sono preso delle
schegge di shrapnel nella gamba
vicino a Wipers.»
«Wipers?»
«Sì, in Belgio, no?»
«Ah, Ypres.»
«Esatto, I-prey.»
«Le fa male?»
«Non la gamba. Non sento
niente alla gamba. Dicono che la
perderò al cinquanta per cento.»
D’improvviso mi guardò fisso. «È
un brutto segno non sentire
dolore? Significa che devo
considerare persa la gamba? Perché
sa Dio se qui riesci ad avere una
risposta diretta da qualcuno!»
«Vorrei poterglielo dire» risposi.
«Ma sono solo un matematico.»
«Non sono mai stato bravo con
le divisioni estese.»
«Nemmeno io.» Lo dissi senza
nemmeno pensare a che effetto
potevano fargli le mie parole. Si
mise a ridere.
«Le fa male da qualche altra
parte? Oltre alla gamba, voglio
dire.»
«Ho solo un gran mal di testa.
Una specie di martellamento. Da
dopo l’esplosione.» Indicò una
ciotola accanto al letto, in cui c’era
una pezza bagnata. «L’infermiera la
imbeve di acqua calda e me la
mette sulla fronte. Un po’ mi aiuta.
Potrebbe chiederle di farlo adesso?
È diventata fredda.»
«Naturalmente» dissi, e mi alzai
per chiamare l’infermiera. Ma la
poverina stava ancora lottando,
valorosamente e invano, con gli
avvolgibili, una lotta da cui veniva
richiamata, a intermittenza, dai
lamenti di un paziente.
Diedi un’occhiata in giro. Nel
reparto c’erano un altro paio di
infermiere, che si stavano
occupando dei pazienti. Poi notai
una stufa in un angolo. Su una
delle piastre c’era una pentola
d’acqua da cui si levava vapore.
«Solo un minuto» dissi, e
sistemai l’ombrello, meglio che
potevo, contro la sedia, in modo
che potesse ripararlo almeno un
po’. «Torno subito» soggiunsi. Poi
presi la pezza dalla ciotola e la
portai alla stufa, dove la immersi
nell’acqua e la strizzai.
«Ecco fatto» dissi. «Posso?»
Alzò il mento con una sorta di
cavalleresca sopportazione. Molto
delicatamente, gli tirai indietro i
capelli. Poi presi la pezza e gliela
appoggiai sulla fronte. Rabbrividì e
fece un sospiro di sollievo.
Gli rimasi accanto per tutto il
pomeriggio. Lui mi parlò non
perché gli interessassi
particolarmente, intuii, ma perché
aveva delle cose da dire e io ero lì
ad ascoltarle. Devo essere onesto
su questo. Parlò del fronte, dei ratti
grossi come cani, e del fatto curioso
che non vedevi quasi mai il nemico
– «mai visto un Jerry», come la
metteva lui – ma ne sentivi sempre
la sinistra vicinanza. In un modo o
nell’altro sapevi che era lì, nella sua
trincea, a meno di cento metri di
distanza, eppure, quando dall’altra
parte della Terra di Nessuno
emergeva un segno di vita –
quando sentivi dei canti o l’odore
di cibo che friggeva – era sempre
uno shock.
«Che tipo di canti?»
«Canti dei Jerry. Solo una volta
– fu una cosa stranissima – sentii
una radio, ed era una trasmissione
inglese, un programma di varietà.
E loro ridevano ascoltandolo.»
E intanto continuava a diluviare.
Gli uomini gemevano, si
lamentavano e chiedevano – anzi
imploravano – delle sigarette. Ogni
venti minuti circa, gli toglievo la
pezza e la scaldavo nell’acqua
calda. Il problema era che, durante
questi intervalli in cui ero alla
stufa, l’ombrello, appoggiato contro
la mia seggiola, continuava a
cadere. La pioggia gli arruffava i
capelli e gli inzuppava le coperte.
Facevo del mio meglio per
asciugarlo. Poi mi rimettevo seduto
e cercavo di tener fermo
l’ombrello, anche se a furia di
reggerlo avevo il braccio
indolenzito. Ero deciso a non
lasciare che gli cadesse addosso
nemmeno una goccia d’acqua, a
parte quella della pezza sulla sua
fronte.
Alla fine il temporale si placò.
L’infermiera esausta poté togliersi
le galosce e ritirarsi per una tazza
di tè. Thayer si stiracchiò e sbatté
le palpebre. In quel momento avrei
fatto qualsiasi cosa per proteggerlo.
Sarei rimasto, reggendo l’ombrello,
per tutta la notte. Ma temevo che
la mia presenza prolungata fosse
considerata sconveniente, vuoi
dall’infermiera, vuoi dallo stesso
Thayer. Così presi l’ombrello e
dissi: «Bene, sarà meglio che
vada». E con mia grande sorpresa
lui mi chiese se sarei tornato
l’indomani. E se, prima di
andarmene, potevo bagnare ancora
una volta la pezza e mettergliela
sulla fronte.
Dissi che l’avrei fatto, certo, sia
bagnare la pezza sia tornare
l’indomani. E tornai davvero. Ogni
giorno per due settimane, tornai.
Parlammo incessantemente. Mi
chiese di raccontargli di che tipo di
matematica mi occupavo, e io
cercai di spiegargli Riemann, e, con
mia grande sorpresa, lui afferrò
l’essenziale. Oppure parlavamo di
cricket. (Condivideva la mia
ammirazione per Shrimp Levison-
Gower.) Oppure mi parlava di sua
madre e delle sue sorelle, e del suo
amico Dick Tarlow, con cui era
stata fidanzata una delle sue
sorelle, e di come, a Wipers, Dick
Tarlow fosse saltato in aria, e
quanto gli mancava e quanto
mancava a sua sorella.
Alla fin fine, Thayer non perse
la gamba. Invece, un pomeriggio,
arrivando all’ospedale con un
regalo per lui – il primo regalo che
osavo portargli, una copia della
Macchina del tempo di Wells – mi
sentii dire dall’infermiera che era
stato dimesso proprio quel
pomeriggio, e mandato dai suoi a
Birmingham, per qualche
settimana di riposo prima di
tornare al fronte. Circa un mese
dopo, mi spedì una di quelle
orribili lettere prestampate che il
governo forniva ai soldati in quei
giorni, in cui era stata spuntata la
voce della lista che diceva: “Mi
hanno spedito alla base.
Seguiranno lettere alla prima
occasione”. Solo la sua firma in
calce – J.R. Thayer – indicava un
collegamento tra il modulo e il
ragazzo che lo aveva compilato.
Quell’inverno fu diabolicamente
freddo: talmente freddo che non
avevo più il coraggio di far visita
all’ospedale, per paura di assistere
a troppe sofferenze e sentirmi
impotente di fronte alla mia
incapacità di alleviarle. Il che
includeva anche la mia, di
sofferenza. A Thayer, se non altro,
ero riuscito a offrire un minimo di
conforto, anche se non avevo mai
toccato nessuna parte del suo
corpo eccetto la fronte, sulla quale,
ogni mezz’ora, posavo quella pezza
calda e umida. Era per amor suo,
in quei giorni, che pregavo perché
piovesse. Ogni mattina mi alzavo e
pregavo Dio di far piovere. Avolte
Lui mi accontentava, il che mi
infastidiva. Mi preoccupava che
partecipasse al gioco. La maggior
parte dei giorni, però, le nubi non
si rompevano, e una o due volte
brillò persino il sole attraverso il
vasto spazio dove avrebbe dovuto
esserci la parete sud, sollevando il
morale dei soldati, e dando loro un
motivo per sorridere. In giornate
del genere ero grato per l’ombrello,
che potevo appoggiare, chiuso,
contro la parete vicina al letto di
Thayer. Chiuso, portava fortuna.
Aperto, chissà cosa avrebbe
portato?
Devo confessare che adesso ho
paura io stesso di scoprirlo.
5

Nel marzo 1915, Russell gli manda


un biglietto per informarlo che ha
invitato D.H. Lawrence a visitare il
Trinity. Hardy vuole raggiungerli,
dopo cena, per uno sherry negli
appartamenti di Russell?
La maggior parte degli ufficiali
ormai è partita, quindi quella sera
Hardy va nella Hall. Un uomo che
suppone essere Lawrence siede di
fronte a Russell e accanto a Moore.
Hardy è seduto troppo lontano dal
tavolo dei docenti per sentire la
loro conversazione. Tuttavia,
capisce che è tesa. Ci sono lunghi
silenzi, durante i quali l’eupeptico
Moore mangia con gusto, mentre
Lawrence fissa il piatto con
un’espressione contrariata sul viso
oblungo. Sebbene Hardy non abbia
letto nessuno dei suoi libri, ha
sentito molto parlare dello
scrittore: la sua infanzia in una
cittadina di minatori vicino a
Nottingham, e gli anni passati
come maestro elementare, e il
recente matrimonio con una
procace divorziata tedesca, figlia di
un barone, e più vecchia di lui di
sei anni. Chissà cosa deve pensare
di questi uomini del Trinity, che
affettano la loro carne mentre
Byron e Newton e Thackeray
guardano dall’alto? Gli sembrano
ridicoli con le loro toghe? È
intimidito? È disgustato?
Come gli è stato chiesto, Hardy
arriva negli appartamenti di Russell
verso le nove. Ci sono anche altri
ospiti: Milne – ex direttore di
“Granta”, e adesso di “Punch” – e
Winstanley, che si spaccia per il più
grande conoscitore della storia del
Trinity e adesso sta pontificando a
beneficio di Lawrence sulla
costruzione della Wren Library nel
1695. Ci sono anche Moore e
Sheppard (senza Madame Cecil,
grazie al cielo), che aspetta il suo
turno per parlare con l’autore.
La caratteristica di Lawrence che
più impressiona Hardy è la sua
magrezza. Per una magrezza così
bisogna faticare. Con la sua testa
grossa e le spalle curve, potrebbe
essere un doccione denutrito. I
capelli sono folti e castani, e
sembra siano stati tagliati alla
vecchia maniera, con una scodella
sulla testa, che ha una strana
forma, grossa e con la fronte
prominente, e rastremata verso il
basso fino a un mento aguzzo,
accentuato dalla barba a punta.
Non parla molto. Sembra ascoltare
con attenzione, al momento
Russell, che ha appena ricevuto,
per posta, un articolo che Edmund
Gosse ha scritto per la “Edimburg
Review” all’inizio della guerra.
«Senta qui» dice Russell. «“La
guerra è il grande spazzino del
pensiero. È il disinfettante sovrano,
e la sua rossa scia di sangue è il
fluido di Condy che risana le pozze
stagnanti e i canali intasati
dell’intelletto.”» Sbatte giù la
rivista. «Qualcuno di voi ha mai
visto una bottiglia di fluido di
Condy? Io ho dovuto chiedere alla
mia cameriera. Me ne ha fatta
vedere una. Un liquido violaceo.
Dice che la usa per “scacciare gli
odori”. E questo da un uomo che
non esce da Londra da dieci anni!
Cosa ne sa lui? Cosa ne sa ciascuno
di noi?»
«La guerra non è bella» dice
Lawrence. «Questo odio astratto
per un orco tedesco da favola…
mah, ci sono cose più belle per cui
vivere o morire.»
Poi tace di nuovo. Chissà se il
suo accenno all’orco è dovuto
all’influenza della moglie tedesca?
Da quel che ha sentito Hardy, lei
ha lasciato il primo marito, a sua
volta inglese, per sposare
Lawrence.
«Gosse è una merda» dice
Russell. «E Eddie Marsh… anche
peggio. Si vende i suoi beni
personali solo per potersi mettere
in ghingheri e andare alle feste con
Churchill. Questi uomini sono
insetti osceni, che sbucano dalle
loro crepe nell’oscurità, strisciano
sui cadaveri, contaminandoli con la
loro bava.»
«Suvvia, Bertie» dice Milne.
«Sicuramente non sono così
spregevoli.»
«Sì invece. Sono così spregevoli.»
«Perbacco, siamo sprofondati
nella malinconia!» dice Sheppard.
«E dire che lo scopo della serata
era dare il benvenuto a Cambridge
a Mr. Lawrence.» Detto questo,
marcia verso Lawrence e
incomincia a parlargli dei suoi libri.
Ed è davvero un portento, il suo
dono per imbastire una
conversazione. Che abbia
realmente letto i libri è irrilevante:
quello che importa è che riesce a
dare l’impressione, e in modo
brillante anche, di averlo fatto. E
chiaramente qualcosa ha letto,
perché adesso comincia a citare per
Lawrence brani dall’opera di
Lawrence. «Figli e amanti,
naturalmente, è un capolavoro»
dice, «anche se personalmente
nutrirò sempre un affetto speciale
per Il pavone bianco. E quel
capitolo, “Un poema d’amicizia”, i
due ragazzi che giocano nell’acqua
e dopo si asciugano a vicenda!» Si
schiarisce la voce. «“Vide che
m’ero scordato di continuare ad
asciugarmi, e ridendo mi afferrò e
cominciò ad asciugarmi
vigorosamente, come se fossi un
bambino, o piuttosto una donna
che egli amasse e non temesse. Mi
abbandonai del tutto inerte alle
sue mani, ed egli, per tenermi
meglio, mi circondò con un braccio
e mi premette contro di sé, e la
dolcezza del contatto tra i nostri
corpi nudi premuti l’uno contro
l’altro fu stupenda.”»* Sheppard fa
un respiro profondo. «Che prosa!
Vede, l’ho imparata a memoria.»
Il silenzio accoglie questa
inattesa declamazione. Lawrence
dice: «La ringrazio» e si allontana.
A questo punto Russell lo
presenta a Hardy, cui Lawrence
stringe la mano con calore, con
ardore quasi, e troppo a lungo.
Forse è semplicemente grato per il
salvataggio dalla piccola, subdola
esibizione di Sheppard. Molto più
gradevole, senza dubbio, ascoltare
Hardy che, dietro richiesta di
Russell, disserta sull’ipotesi di
Riemann. Infatti, anche dopo che
Russell è andato a chiacchierare
con Winstanley, Lawrence gli resta
appiccicato; si aggrappa a lui come
a una zattera di salvataggio. Questa
sì che è una bella ironia,
considerando le di lui – come dire?
– predilezioni. Tuttavia Hardy ne
va piuttosto fiero, si compiace del
fraintendimento; se Lawrence lo
scambia per normale, se non lo
associa a Sheppard, tanto di
guadagnato.
Frattanto, sul fondo, Sheppard
non smette di declamare. Cose da
pazzi. Non ha un pubblico. Sa che
Lawrence si sforza valorosamente
di non ascoltarlo, eppure lui
continua a declamare, con
un’ironia quasi brutale: «“Essa
soddisfaceva in certa misura la
brama vaga, indecifrabile del mio
animo, e lo stesso era per lui”».
«Ci vuole una rivoluzione dello
Stato» dice Lawrence a Hardy.
«Bisogna nazionalizzare tutto: tutte
le attività industriali, tutti i mezzi
di comunicazione. E,
naturalmente, la terra. Con un
colpo netto. Allora un uomo avrà il
suo salario in ogni caso, che sia
malato o sano o vecchio. Se
qualcosa gli impedisce di lavorare,
riceverà egualmente il suo salario.
Così non dovrà vivere nel terrore
del lupo.»
Sheppard: «“Quando mi ebbe
ben scaldato sfregandomi, mi lasciò
andare, e ci guardammo con un
tacito riso negli occhi, e il nostro
amore fu per un attimo perfetto,
più perfetto di qualsiasi altro
amore io abbia in seguito
conosciuto, sia per un uomo sia per
una donna”».
Lawrence: «E anche ogni donna
avrà il suo salario, purché lavori
finché è in condizione di farlo».
Sheppard: «“La fragranza fresca
e umida del mattino, la quiete
intenta di ogni cosa, degli alti
alberi azzurrini, dei fiori umidi e
schietti” – Non è meraviglioso? “I
fiori umidi e schietti” – delle falene
fiduciose che nell’erba falciata
chiudevano e schiudevano l’ali,
erano strumento perfetto di
comprensione”».
Lawrence: «Ma adesso viviamo
intrappolati in un guscio. E il
guscio è una prigione a vita. Se non
lo infrangeremo, le nostre vite si
ripiegheranno su se stesse. Ma se
riusciremo a spaccare il guscio,
allora tutto sarà possibile. Allora e
solo allora cominceremo a vivere.
Potremo pensare al matrimonio,
all’amore e a tutto il resto. Ma fino
ad allora saremo costretti dentro
quel guscio duro, impervio e privo
di vita».
Hardy, imitando Ramanujan,
ciondola il capo. Lawrence aggrotta
la fronte. «Deve aver pazienza con
me. So che a volte il mio linguaggio
non è chiaro.»
Hardy non si aspetta di rivedere
Lawrence. Il pomeriggio seguente,
invece, mentre sta attraversando la
Great Court, sente chiamare il suo
nome e quando si gira vede
Lawrence che gli corre incontro, su
gambe da cicogna.
«Che benedizione» dice,
prendendo Hardy sottobraccio.
«Ho avuto una mattinata
tremenda. La prego, posso
passeggiare con lei?»
«Certamente.»
«È stato uno dei momenti
peggiori della mia vita.»
S’incamminano verso il fiume.
Hardy sentendosi lusingato e al
tempo stesso imbarazzato dalla
rapacità con cui Lawrence gli si
aggrappa. «Non so se Keynes sia
un suo amico» dice. «E se è suo
amico, e lei mi detesterà, sarà un
peccato, ma devo parlare altrimenti
scoppio.»
«Quello che mi dirà resterà tra
noi, questo va da sé.»
«Russell voleva che lo
conoscessi… Keynes intendo» dice
Lawrence. «Così stamattina siamo
andati nei suoi appartamenti, ma
lui non c’era. C’era un bel sole e
Russell gli stava scrivendo un
messaggio quando Keynes è uscito
dalla sua camera da letto, ancora
intorpidito dal sonno. Ed era…
ebbene, era in pigiama. E mentre
se ne stava lì impalato, ho avuto
una strana sensazione. Non so
come descriverla. Ho provato uno
spaventoso senso di repulsione.
Come di fronte a una carogna. Lo
stesso effetto che fa un avvoltoio.»
«Santo cielo!»
«E il pigiama…» rabbrividisce.
«A righe. Questi piccoli personaggi
decadenti, uomini che amano altri
uomini, mi danno la nausea, un
senso di corruzione, di putrescenza
quasi. Mi fanno sognare scarafaggi.
Uno scarafaggio che punge come
uno scorpione. Nel sogno lo
uccido, uno scarafaggio enorme, lo
schiaccio e lui sparisce, ma poi
ritorna e devo ucciderlo un’altra
volta.»
«Che orrore… e col pigiama a
righe…»
«Ho pensato molto alla sodomia.
L’amore è questo: vai con una
donna per conoscere te stesso e,
conoscendo te stesso, esplorare
l’ignoto, che è la donna. Ti
avventuri sulla costa dell’ignoto, e
sveli ciò che scopri a tutta
l’umanità. Ma ciò che fanno quasi
tutti gli inglesi è questo: un uomo
va con una donna, prende una
donna, e non fa che ripetere una
reazione nota, senza cercare una
reazione nuova. E questa è solo
masturbazione. L’inglese comune
delle classi istruite va con una
donna per masturbarsi. E la
sodomia non è altro che una forma
di masturbazione più accentuata,
perché ci sono due corpi invece di
uno, ma l’oggetto è lo stesso. Un
uomo d’animo forte ha troppa
dignità per l’altro corpo, quindi
rimane neutrale. Celibe. Come
Forster, per esempio.»
Hanno fatto il giro del Trinity, e
per tutta la strada non hanno
incontrato nessuno, ma adesso
passano due soldati, studenti
soldati, in uniforme sotto la toga.
«Come sono brutti» dice Lawrence.
«Mi fanno pensare a quella frase di
Dostoevskij: “Agli insetti, la
lussuria”. Un insetto che ne monta
un altro… Oddio, i soldati. Mi
tenga lontano da loro!» Hardy lo
pilota verso Nevile’s Court, e
finalmente Lawrence gli lascia
andare il braccio. «Mi sento
meglio» dice. «Il legame della
fratellanza di sangue è cruciale.»
Poi si avvicina. «Ma come fa a
sopportare questo posto? Io aborro
Cambridge, la sua puzza di marcio,
di paludi stagnanti. Venga a farci
visita, a me e Frieda. Viviamo a
Greatham, nel Sussex. L’aria è
fresca e il cibo semplice. Venga a
trovarci.»
«Lo farò» dice Hardy,
massaggiandosi il braccio, che si è
addormentato. Poi Lawrence gli
stringe la mano: una stretta così
debole, così fiacca e umida, che
Hardy si ritrae e varca la porta
delle scale di Russell.
Scarafaggi in pigiama a righe…

* Da D.H. Lawrence, Il pavone bianco, trad. it.


di Attilio Landi, in Id., Romanzi, Milano,
Mondadori, 2000. Lo stesso vale per le citazioni
successive. [N.d.T.]
6

Ancora una volta, incontra


Ramanujan con i suoi amici
indiani. Al riparo di un olmo ha la
possibilità di studiarli più
attentamente. Quello curvo con il
turbante sta leggendo qualcosa agli
altri. Il più giovane – quello cui era
volato via il tocco – ha occhi intensi
e guizzanti, da fauno. Quando
vede Hardy, distoglie lo sguardo.
La mattina seguente,
Ramanujan dice: «Ananda Rao ha
una gran soggezione di te».
«Perché?»
«Perché studia matematica, e tu
sei il grande matematico. Il grande
Hardy. Ma è troppo timido per
presentarsi.» «Non ne ha motivo.»
«Glielo dico sempre, ma lui non
mi ascolta. È giovane.»
«Digli che può venire a trovarmi
quando vuole.»
Hardy apre il taccuino,
segnalando che è ora di mettersi al
lavoro. «Ananda Rao sta
preparando un saggio per lo
Smith’s Prize» dice Ramanujan.
«Buon per lui.»
«Forse potrei presentare anch’io
un saggio per lo Smith’s Prize?»
«Ma lo Smith’s Prize è per
studenti universitari. Tu sei molto
più avanti di così.»
«Ma io non ho una laurea.»
«Vero, nel tuo caso si è deciso di
rinunciare al requisito.»
«Però mi piacerebbe avere una
laurea.»
«Be’, suppongo che si possa
provvedere.»
«Come?»
«Potresti conseguirla “per
ricerca”, come dicono loro. Forse
con il tuo saggio sui numeri
altamente composti. Dovrai
chiedere a Barnes.»
Il mattino dopo Ramanujan
dice: «Ho chiesto a Barnes, ed è
d’accordo. Posso prendere la laurea
per ricerca con il saggio sui numeri
altamente composti».
«Ottimo.»
«Poi posso presentare la ricerca
per lo Smith’s Prize?»
«Ma sei avanti anni luce allo
Smith’s Prize! Non capisco perché
lo prendi in considerazione.»
«Tu lo hai vinto, lo Smith’s
Prize.»
«I trofei sono del tutto inutili.
Servono solo a raccogliere polvere
sopra una mensola.» Poi si
interrompe. Come può spiegare
l’inutilità dei premi a qualcuno che
ha tanto sofferto per non averne
presi abbastanza?
«Hardy» dice Ramanujan, «posso
chiederti una cortesia?»
«Cosa?»
«Mi chiedo se mi consentiresti…
di non venire nei prossimi tre
giorni.»
«Oh! E perché?»
«Chatterjee mi ha invitato ad
andare a Londra con lui.»
«A Londra?»
«Sì. Con lui e Mahalanobis e
Ananda Rao. Ha trovato una
pensione con una signora molto
gradevole che serve, a quanto dice,
eccellenti piatti vegetariani.»
«E cosa farete a Londra?»
«Andremo a vedere La zia di
Carlo.»
«La zia di Carlo!» Hardy soffoca
una risata. «No, certo. Voglio dire,
sì. Dovresti cominciare a conoscere
qualcosa di più dell’Inghilterra
oltre ai corridoi del Trinity.»
«Grazie. Prometto che a Londra
continuerò il mio lavoro. Avrò le
mattine libere.»
«Non ce n’è bisogno. Prenditi
una pausa dal lavoro. Ti schiarirà
le idee.»
«No. Lavorerò ogni mattina,
dalle otto a mezzogiorno.» Quattro
giorni dopo, è di nuovo accanto al
caminetto di Hardy.
«Allora, com’era Londra?»
«Molto gradevole, grazie.»
«E ti è piaciuta La zia di Carlo?»
«Ho riso molto.»
«Cos’altro hai fatto?»
«Sono andato allo zoo.»
«Lo zoo di Regent’s Park?»
«Sì. E ho incontrato Mr.
Littlewood e la sua amica. Mi
hanno portato a prendere il tè.»
Ciondola il capo. «È molto
amabile, l’amica di Mr.
Littlewood.»
«Già, l’ho sentito dire.»
«E dopo il tè mi hanno portato a
vedere Winnie.»
«E chi è Winnie?»
«Winnie è un cucciolo di orso
bruno del Canada. È stata allevata
da un soldato. Il suo nome è un
diminutivo di Winnipeg, non di
Winifred. Ma poi la brigata del
soldato è stata mandata in Francia,
e adesso Winnie vive allo zoo.»
«E com’è questa Winnie?»
«È molto mansueta. Un signore
dello zoo le ha dato da mangiare.
Sono rimasto a guardarla per
un’ora, insieme a Mr. Littlewood e
alla sua amica.»
«Allora tornerai ancora a
Londra?»
«Penso di sì. La pensione era
molto accogliente. È a Maida
Vale.»
«Ottima posizione per lo zoo.»
«E la padrona di casa, Mrs.
Peterson, ha imparato la cucina
indiana. Una sera ha persino
preparato un sambar. Be’, una
specie di sambar.»
«Questo farebbe senz’altro
piacere a tua madre.»
«Sì, ne sarebbe contenta. Posso
chiederti un consiglio su una
piccola questione?»
«Certamente.»
«Sul treno di ritorno,
Mahalanobis ci ha mostrato un
problema sulla rivista “Strand”. Ne
pubblicano ogni mese – indovinelli
matematici – e questo non riusciva
a risolverlo.»
«Cos’era?»
Ramanujan tira fuori di tasca un
ritaglio della rivista e lo porge a
Hardy. “Indovinelli alla locanda
del villaggio”; l’ambiente è
familiare a Hardy, è il Red Lion
Inn nel villaggio di Little
Wurzelfold. Solo che adesso gli
uomini parlano della guerra.
«L’altro giorno» disse William Rogers
agli altri villici riuniti intorno al fuoco
della locanda, «stavo parlando con un
gentiluomo di quel posto chiamato
Lovanio, quello che i tedeschi hanno
bruciato. Lui ha detto che lo conosceva
bene, perché ci andava a trovare un
suo amico belga. Ha detto che la casa
del suo amico era in una strada lunga,
numerata, sul suo lato, uno, due, tre e
così via, e che la somma dei numeri
delle case del suo lato prima della sua
era la stessa di quelli delle case dopo la
sua. Strano, eh! Ha detto che sapeva
che c’erano più di cinquanta case, ma
non tante come cinquecento. Io ne ho
parlato col nostro parroco e lui ha
preso una matita e ha calcolato il
numero della casa dove abitava il
belga. Non so proprio come ha fatto.»
«Bene» dice Hardy. «E qual è la
soluzione? Non dovrebbe essere
difficile, per te.»
«La soluzione è che la casa è il
numero 204 su 288. Ma non è
questo a essere interessante.»
«E cosa allora?»
«È una frazione continua. Il
primo termine è la soluzione del
problema come è stato posto. Ma
ogni termine successivo è la
soluzione dello stesso tipo di
rapporto tra due numeri mentre il
numero di case aumenta
all’infinito.»
«Ottimo.»
«Penso che mi piacerebbe
pubblicare uno studio sulle frazioni
continue. Forse su questa frazione
continua. Sai, con il mio teorema
adesso potrei risolvere l’indovinello
a prescindere da quante case ci
sono. Anche su una strada
infinita.»
Una strada infinita, pensa
Hardy, di case belghe. E
Ramanujan che calpesta le
macerie, tenendo la sua frazione
continua davanti a sé, come un
sestante. Mentre tutte le case
bruciano.
«Credo che sarebbe un saggio
eccellente» dice.
«Secondo te» chiede
Ramanujan, «potrebbe farmi
vincere lo Smith’s Prize?»
7

Guardare Ramanujan insieme a


Chatterjee ha uno stranissimo
effetto su Hardy: ricorda quando,
prima di conoscere Ramanujan,
cercava di immaginare che aspetto
avesse, e vedeva Chatterjee. E
adesso Ramanujan è con
Chatterjee, ed è come guardare
due incarnazioni della stessa
persona. Per quanto ci provi, non
riesce più a ricatturare l’immagine
che si era fatto della sala di ritrovo
dei docenti dopo aver letto A
Fellow of Trinity; la vera sala di
ritrovo dei docenti l’ha cancellata.
Chatterjee invece rimane, e
fintantoché lui rimane rimarrà
anche l’immagine di Ramanujan
che questi, con il suo arrivo,
avrebbe dovuto cancellare.
È geloso? Non è che gli
manchino le giornate estive in cui
lui e Ramanujan passeggiavano da
soli lungo il fiume, non
esattamente. Né gli invidia i suoi
nuovi amici. Eppure non può fare a
meno di sentirsi… sentirsi come?
Tagliato fuori. Cerca di essere
logico con se stesso. Cosa vuoi? si
chiede. Che gli indiani ti invitino
ad aggregarti a loro in una delle
gite di piacere a Londra? Dividere
una stanza con Ramanujan nella
pensione di Mrs. Peterson? Andare
con lui allo zoo, a vedere Winnie, il
cucciolo di orso bruno del Canada,
e a prendere il tè con Littlewood e
Mrs. Chase?
No di certo. Dopotutto, lui ha il
suo appartamento. La sua vita.
Ogni volta che si vedono in
pubblico, Ramanujan gli fa un
cenno di saluto, lui annuisce e poi
ciascuno va per la sua strada. Un
pomeriggio, però, in Great Court,
Ramanujan, vedendolo, si sbraccia.
Hardy non ha altra scelta se non
attraversare il prato, dove
Ramanujan lo presenta ai suoi
amici. Chatterjee ha una stretta di
mano salda, Mahalanobis si
inchina, Ananda Rao non riesce a
guardarlo negli occhi. Parlano della
campagna di Gallipoli per qualche
minuto, poi Chatterjee dice:
«Bene, devo andare. Arrivederci,
caro Jam».
«Arrivederci» dice Ramanujan.
“Caro Jam?”
«Cos’è, un soprannome?»
«È così che mi chiamano.»
Caro Jam. Per quanto ne sa
Hardy, a Ramanujan la marmellata
non piace nemmeno, la britannica
jam, per l’appunto. Per lo meno
l’ha sempre rifiutata ogni volta che
Hardy gliel’ha offerta. Però nelle
parole “caro Jam” c’è una vaga eco
del suo nome. Anche un
anagramma parziale. Le lettere
ARJAM fanno parte del nome
Ramanujan. È da lì che viene il
soprannome? E averlo sentito
autorizza Hardy a usarlo?
“Caro Jam.” Si allena a dirlo
quando torna nei suoi
appartamenti. “Caro Jam.” Non
riesce nemmeno a pronunciarlo.
«Perché preoccuparsi?» chiede
Gaye. «Gli indiani si danno sempre
dei nomignoli idioti. Pookie e
Bonky e Oinky e Binki. È un vezzo
da collegio.»
Hardy si gira. Gaye è
inginocchiato vicino al fuoco ad
accarezzare Hermione.
«Com’è che sei diventato tanto
esperto?»
«Io ascolto.»
«E cosa senti?»
«Che sei geloso. Ammettilo, di’
la verità.»
«Non sono geloso!»
«Allora sei invidioso. Tu vuoi i
suoi amici. Soprattutto quel
giocatore di cricket… E non posso
darti torto.»
«Sei completamente fuori strada.
Era lo stesso quando eri vivo,
Russell; credevi sempre che fossi
innamorato di tutti quanti. Eri
ridicolo, lasciatelo dire.»
«Allora qual è la verità?»
«Semplicemente che l’origine di
questo nomignolo mi incuriosisce.
E il fatto stesso che abbia un
nomignolo non mi sembra in
carattere con lui.»
«O, forse, lui non è l’uomo che
tu credi – anzi pretendi – che sia.»
«Io non pretendo che sia niente
di particolare.»
«E invece sì, Harold. Tu hai
bisogno che Ramanujan sia timido
e riservato e ossessionato dal suo
lavoro, così non devi preoccuparti
di portarlo in giro. Non interferisce
con la tua vita. Ma se è lui a tenerti
nell’ombra, la cosa non ti piace, e
devo dire che è piuttosto ipocrita
da parte tua, visto che non hai
fatto quasi niente per introdurre
quel pover’uomo nella tua,
chiamiamola così, sfera sociale.»
«Questo non è vero. Littlewood
e io lo abbiamo portato nella Hall e
lui non ha affatto gradito. Odia il
cibo che servono. Ci abbiamo
provato. Cosa puoi fare quando
offri a qualcuno qualcosa e lui non
la vuole?»
«Be’, non posso dire di essere
sorpreso.» Gaye accarezza il collo
di Hermione e lei fa le fusa.
«Dopotutto hai fatto la stessa cosa
anche con me.»
«Cioè, cosa ho fatto?»
«Lo sai benissimo. La cosa di cui
non puoi parlare. La cosa del
sabato sera.»
«Ah, quella.»
«Sì, quella.»
«Era una situazione
completamente diversa.»
«Ah, davvero? Mi hai tagliato
fuori. Come stai tagliando fuori
lui.»
«Ma lui non vuole essere
introdotto.»
«Perfetto.» Gaye si alza,
lasciando andare Hermione.
«Bene, visto che sai tutto del caso,
io me ne vado, d’accordo?»
«Non andare.»
«Perché? Che senso ha che io
stia qui quando è evidente che non
ti interessa affatto sentire quello
che ho da dire? Era lo stesso
quando ero vivo, Harold. Mi
lasciavi parlare ma non mi stavi
mai a sentire.»
Si allontana. Hermione si affila
gli artigli sul tappeto. Poi Hardy
dice: «Aspetta».
«Cosa?»
«Prima mi hai detto che c’era
qualcosa che volevi che
ammettessi. Ebbene, cos’era?»
«Che vuoi tenerlo tutto per te.
Che hai paura di perderlo.»
«E sia, voglio tenerlo tutto per
me. Ho pura di perderlo. Ecco. Sei
contento adesso?»
«E vorresti fartela con il
giocatore di cricket.»
«E mi piacerebbe parlare di
cricket con il giocatore di cricket e
poi vedere gli sviluppi.»
Hermione si affila gli artigli sul
tappeto. Gaye sorride. «Sono
contento che tu l’abbia detto. È un
sollievo sentirti dire la verità per
una volta.»
«Perché, a te sembra la verità?»
chiede Hardy. «A me no. D’altra
parte, da quando è cominciata la
guerra, niente mi sembra vero.»
8

Il tegame, dello stesso tipo che sua


madre ha usato per tutta la sua
giovinezza, è fatto di ottone
battuto, con un sottile strato di
argentatura all’interno. Anche la
ricetta è di sua madre. Prima mette
a bagno la polpa di tamarindo in
acqua bollente. Poi schiaccia la
polpa con le dita per strizzare fuori
tutto il succo. Nella pentola mette
lenticchie, curcuma e acqua e fa
cuocere il tutto finché le lenticchie
si sfaldano, fino a ottenere una
specie di farinata giallastra e
semiliquida. Mescola le lenticchie
per sciogliere i grumi, poi aggiunge
altra acqua calda, e fa riposare il
brodo in modo che i solidi si
depositino sul fondo. Poi filtra il
brodo, mettendo da parte i solidi
che userà per il sambar. Al brodo
filtrato aggiunge coriandolo,
cumino in polvere, peperoncino in
polvere, zucchero, sale e il succo di
tamarindo. Fa cuocere il brodo per
altri quindici minuti, e a questo
punto il rasam è pronto, da
completare con una guarnizione di
semi di senape fritti nel ghee.
A casa, sua madre preparava il
rasam fresco ogni giorno, ma lui
non ha tempo per questo. Del resto
non potrebbe nemmeno
consumare tutto il rasam in un
giorno solo. Così lo prepara il
lunedì, e poi, per tutta la
settimana, ce l’ha pronto e può
riscaldarlo ogni volta che ne vuole
un po’. In questo modo evita di
essere distratto dal suo lavoro
troppo a lungo.
I suoi amici notano l’odore ogni
volta che vanno a trovarlo e ogni
tanto ne offre loro una tazza.
Parlano o lavorano insieme e, nel
frattempo, il tamarindo corrode
l’argentatura scoprendo l’ottone e
sciogliendo il piombo.
Probabilmente, se lui non sente il
sapore del piombo è perché il gusto
piccante del peperoncino in
polvere e l’acidità del tamarindo
sarebbero sufficienti a coprire
sapori molto più acri.
Così passano i mesi. Ramanujan
mangia il suo rasam con il riso, o lo
beve da una tazza. Il tegame se ne
sta placidamente sul fornello.
9

Russell va negli appartamenti di


Hardy per dirgli che Rupert Brooke
è morto, cosa che Hardy ha già
appreso dal “Times”. Entra senza
bussare, interrompendo la sua
conversazione con Sheppard.
«“Gioioso, impavido, versatile,
profondamente colto”» legge ad
alta voce Russell, «“baciato dalla
simmetria classica tra mente e
corpo…” E dicono che lo abbia
scritto Winston Churchill!»
«Sento una penna distintamente
“edoardiana” dietro queste parole»
dice Sheppard.
«Il lezzo di quelle che il tuo
amico Mr. Lawrence chiamerebbe
paludi stagnanti»* soggiunge
Hardy.
«Molto divertente. Il momento
ideale per fare dello spirito, con un
giovane morto. E le impronte delle
zampe di Marsh su tutto il corpo.»
Hardy abbassa lo sguardo. La
verità è che non ha mai sottoscritto
quello che ultimamente ha sentito
chiamare “il culto di Rupert
Brooke”. Per lui, Brooke era solo
un bel giovanotto piuttosto pallido
che emanava un’aura di
autocompiacimento unita
all’incapacità di controllarsi; incline
a uscirsene, inopinatamente, con le
affermazioni più scabrose: contro
gli ebrei, contro gli omosessuali,
nonostante alle riunioni della
Società parlasse spesso delle sue
esperienze con altri ragazzi,
quando era giovane, e dicesse di
aver perso la verginità con un altro
ragazzo. A Brooke piaceva James
Strachey e detestava Lytton;
sembrava perennemente
impegnato in relazioni asessuate
con le donne; scriveva versi che
Hardy giudicava banali e
sentimentali. E adesso era morto.
Era colpa di Marsh?
Secondo Sheppard, Marsh non
era da biasimare. «Ammettilo,
Bertie» dice, «sei troppo duro con
Eddie.»
«Lo ha praticamente ucciso. Lo
ha sedotto. Lo ha portato nei suoi
circoli snob, lo ha presentato ad
Asquith, gli ha messo in testa di
essere il grande eroe. E poi, Brooke
non abitava nell’appartamento di
Eddie?»
«Però è stato Brooke ad
arruolarsi.»
«Eddie gli ha procurato il posto
da ufficiale.»
«Solo perché lui insisteva.
Sarebbe partito comunque.»
«Sì, ma così in fretta?»
«Forse Eddie ha cercato di
salvarlo» dice Hardy. «Forse ha
cercato di procurargli l’incarico più
sicuro che poteva trovare.»
«Non che sia servito a granché.
Brooke era deciso a morire» dice
Sheppard.
«E adesso è morto… di
insolazione, ci informa il “Times”»
dice Hardy.
«In realtà sembra di no» dice
Russell. «È quello che pensavano
all’inizio. È stato un avvelenamento
del sangue, dovuto a una puntura
di zanzara.»
«Una puntura di zanzara!»
«L’insolazione però è più efficace
per la propaganda.»
«Abbattuto dai raggi gloriosi di
Febo» declama Sheppard. «Sepolto,
come Byron, dove gli ellenici raggi
inondano la sua tomba, lontano da
casa.»
«E dire che non ha nemmeno
visto una battaglia.»
«Ah no? Pensavo fosse stato ad
Antwerp.»
«Infatti, ma il suo battaglione
non ha mai combattuto.»
«Stroncato da una zanzara sulla
strada di Gallipoli. Che peccato, se
pensi che sperava tanto di essere
ucciso da un colpo di fucile, o di
saltare in aria su una mina.»
«Se non altro è riuscito a farsi
pubblicare piuttosto alla svelta
quelle poesie di guerra.»
«Le hai lette?»
«Le ho lette.» E recita:
Volger le spalle lieti, nuotatori tuffati in
acque chiare,
a un mondo vecchio ormai, e freddo e
stanco.
Lasciar cuori malati che non mosse
l’onore
e mezzi uomini, e le loro sporche, tristi
canzoni
E tutto il misero vuoto dell’amore!
«Suppongo che noi siamo i mezzi
uomini» dice Hardy «che cantano
le loro sporche canzoni.»
«Tuffati nel fluido di Condy,
direi» commenta acido Russell,
appallottolando il necrologio.

* Riferimento intraducibile a Eddie Marsh, il


cui cognome significa appunto “palude” o
“acquitrino”. [N.d.T.]
10

Ethel, affranta, in un gesto di


dolorosa, silenziosa protesta,
continua a preparare il caffè alla
maniera di Madras, bollendolo con
latte e zucchero. Anche quando
Neville si lamenta – «Non si
potrebbe avere del caffè normale?»
– lei continua a prepararlo così.
«Non puoi farci niente» gli dice
Alice. «La conosci Ethel. Quando si
mette in mente qualcosa…»
Ethel è tracagnotta, rubizza,
sulla cinquantina a giudicare
dall’aspetto, ma potrebbe essere
più giovane. Proviene da Bletchley,
e ci torna ogni mercoledì a trovare
la figlia, che lavora in una fabbrica
di busti. Non è mai stato nominato
un marito.
«Notizie del figlio?» chiede
Neville ad Alice.
«Lei non ne parla e io non
chiedo. Credo sia in Francia.»
«Povero ragazzo. Be’, continua
pure.»
A causa della vista debole del
marito, Alice ha preso l’abitudine,
ogni mattina, di leggergli il giornale
ad alta voce. «“Sabato, presso il
tribunale per reati minori di Bow
Street» legge, «“gli editori della
spettabile Methuen e Co., Essex
Street, Strand, sono stati convocati
davanti a Sir John Dickinson per
perorare la causa per cui 1011
copie del romanzo di D.H.
Lawrence, L’arcobaleno, non
dovrebbero essere distrutte.”
Dovremmo tenerci stretta la nostra
copia, Eric. Potrebbe valere
qualcosa. “Gli imputati si sono
dichiarati dispiaciuti che il libro sia
stato pubblicato, e il magistrato ha
ordinato che le copie siano
distrutte e ha condannato gli
imputati a pagare le spese di dieci
sterline e dieci scellini.”»
«Quindi hanno gettato la
spugna?»
«Non mi stupisce, vista l’aria che
tira di questi tempi. “Mr. H.
Muskett, a nome del Commissario
di polizia, ha detto che gli imputati,
che sono editori di lunga data e
ottima reputazione, non si
opponevano alla citazione in
giudizio. Il libro in questione era
una massa di oscenità, nel
pensiero, nelle idee e nell’azione,
presentate in un linguaggio che, in
alcuni quartieri, poteva essere
considerato uno sforzo artistico e
intellettuale.»
«Come al 113 di Chesterton
Road.»
«Deve essere la scena saffica. Le
due donne.»
«Alice, tu non dovresti sapere
queste cose!»
«Zitto! C’è Ethel.»
«Sei stata tu a dirlo!» Neville
imburra i toast. «Comunque la
storia dell’oscenità è solo una
copertura. In realtà è perché il libro
è così apertamente contrario alla
guerra.»
«È diventato tanto pericoloso
essere contrari alla guerra?»
«Temo di sì.» Fa una smorfia per
il caffè troppo dolce. «E il fatto che
Lawrence sia sposato con una
crucca non è certo d’aiuto. C’è
qualche novità sulla faccenda del
Derby?»
«Sì, qui c’è un articolo.»
«Oh. E che succede?»
Alice scorre l’articolo, poi dice:
«Niente di nuovo, le solite cose».
Lo dice per risparmiare una
preoccupazione al marito, perché
in realtà l’articolo tocca un punto
che sta molto a cuore a entrambi.
Secondo le clausole del Derby
Scheme,* gli uomini sotto i
quarantun anni potevano
“attestare” volontariamente la loro
disponibilità ad arruolarsi senza
arruolarsi di fatto. Ciò di cui parla
l’articolo è l’ordine in cui i “Derby
men”, come sono stati
soprannominati questi uomini,
verranno chiamati alle armi. Per
placare le ansie degli uomini
sposati – e assicurarsi che attestino
– Asquith ha assicurato che non
sarà arruolato nessun uomo
sposato finché anche l’ultimo
uomo celibe, inclusi quelli che non
hanno ancora attestato la loro
disponibilità, non sarà stanato e
spedito al fronte. Il risultato è stato
un improvviso aumento del
numero dei matrimoni registrati.
Neville non ha attestato. E
neppure Moore. Altri di loro
conoscenza lo hanno fatto. Un
“Derby man” si riconosce dalla
fascia che porta al braccio, grigia
con una corona rossa. Nel caso di
Neville, che attesti o no, ai fini
pratici non ha nessuna importanza;
ha una vista così malandata che
sarebbe riformato alla visita
medica. Tuttavia, il suo rifiuto di
adempiere a questa formalità basta
a suscitare disapprovazione. Perché
il fine ultimo del Derby Scheme è
di far ricadere su quelli che non
attestano un fardello tale di
responsabilità da spingerli ad
attestare per la vergogna. È una
forma discreta di coscrizione. La
coercizione è la regola del giorno.
Ieri, per esempio, Neville ha saputo
che James Strachey ha lasciato il
suo posto allo “Spectator” piuttosto
che attestare, come voleva il suo
editore. E dire che il suo editore è
suo cugino! E, anche se le cose al
Trinity non vanno così male,
Neville sa perfettamente che, ogni
giorno che passa senza andare
all’ufficio di reclutamento, la sua
situazione diventa più rischiosa.
Butler ha detto chiaramente
quanto disapprovi le attività
pacifiste all’interno del college.
Tiene un elenco accurato dei
fellow che appartengono
all’Unione per il controllo
democratico e all’Associazione
anticoscrizione. Neville, come
Russell, appartiene a entrambe. E,
a differenza di Russell, non ha la
fama a proteggerlo.
«Stiamo arrivando al punto che
se non porti una fascia al braccio
dai nell’occhio» dice.
«E Hardy? Ha attestato?»
«Non lo so. Perché me lo
chiedi?»
«Così, tanto per sapere. Sono
curiosa di vedere se avrà il coraggio
delle sue convinzioni… il coraggio
di non farlo.»
La verità, naturalmente, è che
Alice spera che Hardy attesti e che,
in qualità di uomo celibe, sia
richiamato. Al più presto, anche.
«Be’, da quel che ho sentito»
dice Neville, «qualunque cosa
succeda, non andrà a combattere.
Ha problemi di salute.»
«Che genere di problemi?»
«Come faccio a saperlo, cara?
Non sono il suo medico. Ethel,
degli altri toast per favore.»
«Ma se sai che ha qualche tipo
di malattia…»
«Sono solo voci. L’ho sentito dire
nella sala ritrovo dei docenti.»
«Chi te lo ha detto?»
«Non ricordo. Chapman,
credo.»
«Chiediglielo. Scopri cos’ha
veramente. Magari sta pensando di
procurarsi un certificato medico di
esenzione. Ho sentito che puoi
comprarli al mercato nero per
quindici sterline…»
«Calmati!» Neville si sporge
attraverso il tavolo e prende la
mano della moglie. «Alice, cosa ti
succede? Perché ti arrabbi tanto
per Hardy?»
Lei ritrae la mano. «Non sono
arrabbiata. Vorrei solo che si
decidesse a prendere posizione.»
Neville si toglie gli occhiali e li
pulisce. «È per via di Ramanujan,
vero?»
«In parte. In parte è a causa sua.
Non lo nego. Ho sempre avuto
l’impressione che Hardy lo
consideri – non so come dire – una
specie di macchina matematica, da
spremere fino all’ultima goccia
prima che si guasti. Ma non gli
importa niente della felicità di quel
pover’uomo, di quello di cui
potrebbe avere bisogno, o di come
se la cavi col freddo di qui. Lo
sfrutta come un cavallo da tiro.»
«Be’, da quel che ho visto l’altro
giorno, quando erano insieme,
Ramanujan sembrava in ottima
forma.»
«Ah sì? E cosa hai visto?»
«Stavano passeggiando insieme,
e Ramanujan sorrideva. Anzi,
rideva. Inoltre, non è che si occupi
di matematica ventiquattr’ore al
giorno. La settimana scorsa è
andato a Londra.»
«Davvero? E con chi? L’ha
portato Hardy?»
«No. È andato con dei suoi
amici indiani.»
«Oh, capisco. Allora va bene.»
«E ha traslocato di nuovo. Si è
trasferito al Bishop’s Hostel.»
«Perché?»
«Per essere più vicino a Hardy,
suppongo.» Neville si alza. «Devi
smetterla di preoccuparti per lui,
Alice. Ramanujan sta benissimo.»
«Vorrei poterlo credere.»
Si piega su di lei. «La mia cara
mammina» le sussurra fra i capelli.
«Quello di cui hai bisogno è un
bambino. Un piccolo Eric Harold
in miniatura.»
«Questo non dipende
interamente da noi.»
«Più di quanto tu creda. Sai che
cosa intendo.» Neville fa una pausa
a effetto. Lei storna gli occhi. Poi le
dà un buffetto sulla testa, come se
fosse lei il bambino. «Be’, devo
andare adesso.»
«Arrivederci.»
La bacia sulla guancia; esita un
momento; la bacia sulla bocca,
tenendole la mano posata sulla
nuca.
Entra Ethel, e si separano.
«Puoi sparecchiare, per favore?»
dice Alice. Poi si alza da tavola e va
in salotto. Il puzzle, dopo tutto
questo tempo, è ancora lì. Alice lo
guarda. Tremando. E perché poi?
Al diavolo tutti questi uomini…
Hardy, Eric, Ramanujan. Hardy
non parte. Ramanujan sì. Eric
potrebbe essere costretto a farlo. Al
diavolo tutti quanti.
Guarda il puzzle; i gentiluomini
alla Lord Brummell e il locandiere
che serve loro da bere. Altri tre
uomini. E da quanto tempo sono
seduti lì? Un anno? Un anno e
mezzo? Sorvegliati, protetti da lei.
E perché?
Con un improvviso colpo di
mano, fa cadere il puzzle sul
pavimento. Lo fa senza pensare,
prima di riuscire a fermarsi.
Dunque è così che ci si sente, è così
che deve essersi sentita Jane, quei
pomeriggi nella nursery. Esultante
di rabbia.
Alice ha il cuore in tumulto.
Alcuni frammenti – un pezzo
singolo o due pezzi attaccati
insieme – volano sul tappeto,
mentre grosse strisce del puzzle,
dieci o dodici pezzi attaccati
insieme, penzolano per poi cadere
dal bordo del tavolo, come detriti
di una frana. E mentre cadono,
cade anche qualcosa dentro di lei.
Le conseguenze. Sempre le
conseguenze.
Quando arriva Ethel, Alice è
inginocchiata sul pavimento a
raccogliere i pezzi.
«Il puzzle di Mr. Ramanujan»
dice Ethel.
«È stato un incidente» dice
Alice. «Ho urtato il tavolo.»
«Lasci fare a me, signora.»
Adesso anche Ethel è in ginocchio.
«Grazie. Oh, guarda, questo è a
forma di teiera.»
«Devo dire che sono contenta di
non vederlo più sul tavolo. Almeno
adesso posso lucidare il mogano.»
«Dici sul serio?» Alice si ferma e
guarda Ethel. «Sei davvero
contenta?»
«Serviva solo a raccogliere
polvere» dice Ethel. Con molta
efficienza, stacca i grossi pezzi e
accumula il resto in una pila.
Quando lei e Alice avranno finito,
non resterà alcun segno del gesto
violento. E, se Eric farà domande,
Ethel non dirà niente per
contraddire Alice quando gli dirà:
“Abbiamo deciso che era ora di
disfarlo”.

* Sistema messo a punto nel 1915 da Lord


Derby (Edward George Villiers Stanley, conte
di Derby), direttore del reclutamento, per non
ricorrere alla coscrizione obbligatoria. [N.d.T.]
11

Persino per lei – persino per una


donna che ha girato per Madras in
gharry e legge Israfel – è una
mossa audace. E lei lo sa. Una cosa
è andare a Londra e presentarsi
senza preavviso alla porta di
un’amica. Un’altra è attraversare i
cortili del Trinity College in pieno
giorno – una donna, la moglie di
un fellow – ed entrare, sotto gli
occhi dei don e degli studenti in
toga, nella porta della scala D del
Bishop’s Hostel.
Non sa cosa le è preso, sa solo
che, date le circostanze, i codici del
decoro che hanno regolato la sua
giovinezza sembrano non
vincolarla più. È molto semplice:
dal momento che lui non viene a
trovarla, va lei a fargli visita.
Stranamente, non ha nessuna
paura. Come in sogno, sale le scale
e bussa alla porta che sa essere la
sua.
Quando lui viene ad aprire,
l’espressione sgomenta del suo viso
la riscuote dal sogno. Santo cielo,
cosa sta facendo? Ma ormai è
troppo tardi.
«Mrs. Neville» dice Ramanujan.
«Salve» dice lei. «Spero di non
disturbarla.»
«No. Entri, la prego.»
Ramanujan indietreggia, la fa
entrare dalla porta, che si affretta a
chiudere. Solo allora Alice si rende
conto che è vestito con abiti
indiani, una camicia morbida e un
dhoti di un pallido color lavanda.
Sulla fronte ha il segno della sua
casta, ai piedi le pantofole che gli
ha regalato. Le sue gambe sono più
muscolose di quanto immaginasse,
e più pelose.
«Spero di non disturbare.»
«No, niente affatto. Posso
offrirle un tè?»
«Sì, lo gradirei molto. Tè
indiano?»
Ramanujan ciondola il capo, poi
si eclissa nella stanza di servizio in
cui, come intravede Alice, ha
allestito la sua cucina. La camera è
pulita e spartana. C’è il suo baule,
nell’angolo. Oltre a questo, ci sono
pochissimi mobili: una scrivania,
una seggiola, una vecchia poltrona
recuperata nella soffitta di Alice.
Attraverso una porta semiaperta,
vede il letto, perfettamente rifatto.
Nessun quadro alle pareti. L’unico
oggetto decorativo che riesce a
distinguere è la statuetta di Ganesh
che le era capitata tra le mani
quando aveva frugato nel suo
baule. Adesso è appoggiata sulla
mensola del caminetto.
«Il suo alloggio è molto
gradevole» gli dice.
«Grazie.»
«So che si è trasferito di
recente.»
«Sì. In Whewell’s Court ero al
pianterreno. Qui sono al primo
piano.»
«E lo preferisce?»
«C’è meno rumore.»
Alice esamina il libro sulla
poltrona, che è in tamil. «Cosa sta
leggendo, Mr. Ramanujan?»
Lui esce a precipizio dalla stanza
di servizio. «Non è niente.»
«Un testo di matematica?»
«No, è il Panchangam. Quello
che noi chiamiamo un
Panchangam. Una specie di
almanacco.»
«Affascinante.» Alice prende il
libro e lo sfoglia. «E per cosa lo
usa?»
«È solo una vecchia tradizione»
dice lui. «Il Panchangam copre
tutto l’anno, registrando le
posizioni delle stelle e della luna.
Così, a casa, lo consultano per
determinare i periodi e i giorni
propizi per… gli eventi
importanti.»
«Quali, per esempio?»
«Matrimoni. Funerali.»
«Ma al momento qui non
abbiamo matrimoni o funerali,
no?»
«No, non solo per questo, anche
per i viaggi. Quali sono i giorni più
propizi per viaggiare e quali no, e
via dicendo.»
«Vuol dire che ci sono giorni in
cui potrebbe andare a Londra e
giorni in cui farebbe meglio a non
andare?»
Ramanujan ciondola il capo.
«O traslocare?»
Ramanujan tace.
«Oh, devo sembrare orribile»
dice Alice. «Sembra che la stia
sottoponendo a un interrogatorio.
Non è questa la mia intenzione. Io
non sono come gli altri, Mr.
Ramanujan. Io voglio davvero
sapere.»
Lo guarda negli occhi e lui
sostiene il suo sguardo; sbatte le
palpebre, ma non guarda altrove.
Poi il bollitore comincia a
fischiare. «Mi scusi» dice
Ramanujan, e torna nella stanza di
servizio, dalla quale riemerge,
pochi minuti dopo, portando un
vassoio con due tazze.
«Si accomodi, la prego.»
«Lei dove si siede?»
«Qui.»
Allora Alice si siede sulla
poltrona, e Ramanujan sul
pavimento, non lontano da lei.
«Indossa sempre il suo dhoti
quando sta in casa?» «Non quando
aspetto visite.»
«Allora è un caso fortunato che
non le abbia detto della mia visita.»
Ramanujan sorride e cerca di
nascondere il sorriso.
«Indosserebbe mai il dhoti a una
lezione, Mr. Ramanujan? O
quando va da Mr. Hardy?»
«Oh, no. No di certo.»
«Perché no?»
«Non sarebbe appropriato.»
«Mi farà piacere se lo indossa
quando viene a trovarmi.»
«Mi spiace di non averle fatto
visita ultimamente. Sono stato
molto preso dal mio lavoro.»
«Ma certo. È qui per questo. Per
lavorare.» Posa la tazza. «Sa, Mr.
Ramanujan, dicevo sul serio prima:
io non sono come gli altri. Come
Hardy, o persino come mio marito.
Gli altri non credono nella sua
religione. Anzi, sono convinti che
non ci creda neppure lei. Che si
limiti a osservare i vostri… rituali…
solo per abitudine, o per
compiacere la sua gente. Io invece
sono convinta che lei crede. E mi
interessa. Davvero molto. Che
peccato che non capisca la vostra
lingua! Altrimenti potrebbe
insegnarmi a leggere le stelle.»
«Non sono un esperto.»
«Spero di non offenderla con le
mie domande. Non sono dovute a
oziosa curiosità. Vorrei tanto
qualcosa in cui credere, Mr.
Ramanujan… Soprattutto adesso,
con la guerra. Sembra che le
vecchie garanzie, che se ti
comportavi bene e mangiavi le tue
verdure… no, sembra che ormai
non funzionino più, vero? Perché
tutti quei giovani, la maggior parte
di quei giovani… Ma se si
potessero leggere le stelle, leggere il
futuro…»
«Non è una cosa che si può
insegnare.»
Alice si sporge verso di lui. «Mi
racconti della prima volta che ha
fatto il sogno.»
«Quale sogno?»
«Quando Namagiri scriveva
sulla sua lingua.»
«Ma la prima volta non era
Namagiri nel sogno. Era
Narasimha.»
«Chi è Narasimha?»
«È l’avatar di Vishnu, con la
faccia da leone.» Ramanujan posa
la tazza sul pavimento, accanto a
sé. «Scusi, devo darle qualche
spiegazione. Nella religione
induista, un dio può manifestarsi
in molte forme. E Narasimha è una
delle forme che Vishnu assume. La
quarta forma. La forma adirata.
Allora, c’era un dio demone
chiamato Hiranyakashipu che
odiava Vishnu. Costui fece molti
atti di penitenza per ottenere da
Brahma il dono dell’immortalità,
ma Brahma gli accordò solo la
possibilità di scegliere le condizioni
della sua morte. Così
Hiranyakashipu rispose che le sue
condizioni erano che non doveva
essere ucciso né da un animale né
da un uomo, né di giorno né di
notte, né dentro né fuori dalla sua
casa, né sulla terra né nello spazio,
e da un’arma che non fosse né
animata né inanimata. Pensava di
aver messo nel sacco Vishnu, e di
essere ormai immortale, così si
proclamò re dei tre mondi. Ma
quello che non sapeva, era che suo
figlio Prahlada era un devoto di
Vishnu. Così, quando lo venne a
sapere, Hiranyakashipu cercò di
uccidere il figlioletto. Cercò di farlo
bollire, di dargli fuoco e di
liberarsene. Ma Prahlada era
protetto dalla sua devozione per
Vishnu. E poi, un pomeriggio al
crepuscolo, nel suo palazzo,
Hiranyakashipu sfasciò una
colonna in un accesso di rabbia, e
dalla colonna balzò fuori
Narasimha. Poiché era mezzo
uomo e mezzo leone, non era né
animale né uomo. Poiché era il
crepuscolo, non era né giorno né
notte. Combatterono e infine, sulla
soglia del palazzo, che non era né
dentro né fuori, Narasimha mise il
demone in ginocchio, che non era
né sulla terra né nello spazio, e
usando le sue unghie, che non
erano un’arma animata e
nemmeno inanimata, fece a
brandelli Hiranyakashipu.»
«Che storia straordinaria.»
«Mia nonna me la raccontò
molte volte quand’ero bambino.
Mi disse che il segno della grazia di
Narasimha erano le gocce di
sangue viste in sogno. Fu quella la
prima volta. Le gocce di sangue
caddero, e poi fu come… come se
davanti a me si srotolassero delle
pergamene, che contenevano una
matematica bellissima e complessa.
Pergamene infinite. Formule
infinite. Poi, quando mi svegliai,
mi affrettai a scrivere ciò che avevo
visto.»
«Quanti anni aveva?»
«Avevo dieci anni.»
«E poi?»
«Poi è sempre stato così. Quello
che vedo nei sogni è sconfinato. Le
pergamene non finiscono mai.»
«Deve essere bellissimo» dice
Alice. «Quando si srotolano le
pergamene.»
«Oh, no. È terribile.»
«Terribile? E perché?»
«Perché ciò che posso riportare
nel mondo è solo un frammento di
ciò che ho letto sulle pergamene. È
sempre molto di più quello che
non riesco a portare con me! E
ogni volta, lasciarmelo dietro è
come essere dilaniato. Sì, sono
sogni terribili.»
Abbassa lo sguardo mentre lo
dice. Non sta piangendo. Ha le
mani placidamente incrociate in
grembo.
«Lei soffre, vero?» chiede Alice.
Ramanujan non risponde.
Poi Alice si alza. E Ramanujan,
forse perché crede che stia per
andarsene, si alza a sua volta, e la
guarda. «Lei non è molto più alto
di me» dice Alice. «Un paio di
centimetri al massimo.» E, proprio
come poche ore prima aveva
allungato una mano e buttato il
puzzle sul pavimento, adesso
allunga una mano per toccargli la
guancia.
Lui trasale, ma non si muove.
Lei gli si avvicina ancora di più.
E lui continua a non muoversi.
Gli mette una mano sulla nuca,
come aveva fatto Eric con lei quella
mattina. Sente umidità e calore e
sente dei piccoli, ispidi spunzoni.
Lo attira a sé e lui non fa resistenza
quando preme le labbra contro le
sue. Non ricambia il bacio, però.
Resta assolutamente immobile. Le
loro labbra si toccano. Ma non è
un bacio.
E adesso cosa dovrebbe fare, si
chiede Ramanujan? Alice intuisce
che potrebbe guidarlo verso la
camera, spingerlo sul letto, tirargli
su il dhoti, rincalzarsi la gonna e
montarlo, e lui non protesterebbe.
Ma non la incoraggerebbe
neppure. Non la incoraggerebbe né
la scoraggerebbe.
Il suo alito è caldo e sa di tè. Le
sue labbra sono secche. Ma non si
aprono.
Alla fine, Ramanujan si scosta.
Sembra sul punto di parlare, e lei si
mette un dito sulle labbra: un gesto
universale, spera. E lui non parla.
Non si muove nemmeno.
Alice si allontana da lui
lentamente, come se non ci fosse
più niente per cui affrettarsi. Poi
apre la porta ed esce.
12

New Lecture Hall, Università di


Harvard
La fascia sul braccio era di lana
color acciaio (disse Hardy nella
conferenza che non tenne),
decorata con una corona
scintillante ricamata in rosso
imperiale. Io la portai solo un paio
di volte. Portarla a Cambridge
significava farmi approvare
unicamente dagli uomini che
detestavo.
Adesso è riposta nel secondo
cassetto in alto a sinistra di un
cassettone di noce che avevo fin
dal mio arrivo al Trinity, nel secolo
scorso. Nello stesso cassettone ci
sono un paio di guanti di Gaye,
una palla da cricket e alcune palle
da tennis che usavamo per giocare
a cricket in casa, adoperando un
bastone da passeggio come mazza.
C’è anche la nostra collezione di
biglietti ferroviari. Gaye e io
condividevamo una passione per il
mondo delle ferrovie. Ci
divertivamo a programmare gli
itinerari tra i posti più improbabili
– Wolverhampton e Lipsia, per
dire – e vedere chi dei due trovava
quello che richiedeva più cambi.
Adoravamo la metropolitana, e
quando venne aperta la linea di
Bakerloo nel 1906 andammo a
Londra solo per sperimentarla.
Non ci sono lettere nel
cassettone. Non ci scrivevamo mai
delle lettere. Né ci sono collari per
il gatto, o vasetti vuoti che un
tempo contenevano vermifughi. Le
cose che conservi… le conservi,
suppongo, così quando sei vecchio
puoi coccolarle e accarezzarle,
sentendo sul viso la brezza della
nostalgia.
Quello che nessuno pensa bene
di dirti è che, quando sei vecchio,
ricordare è l’ultima cosa che
desideri. Sempre che, a quel punto,
ti ricordi dove hai messo tutta
quella roba.
Mi presentai per l’attestazione
l’ultimissimo giorno in cui era
possibile farlo, il giorno prima che
il Derby Scheme scadesse. Era la
metà di dicembre del 1915. Lo feci
a Londra, in modo che nessuno dei
miei amici di Cambridge mi
vedesse. Verso la metà di quel
mese la coscrizione sembrava una
certezza e, sebbene nessuno nel
governo lo dicesse chiaramente,
eravamo convinti (a torto,
avremmo scoperto) che, se
avessimo attestato, a suo tempo
avremmo ricevuto un trattamento
preferenziale. Inoltre, Littlewood
mi aveva scritto di recente che, in
considerazione delle sue doti
matematiche, era stato esonerato
dalle esercitazioni dell’artiglieria, e
messo al lavoro per perfezionare i
calcoli della gittata dell’antiaerea.
Non avrebbe lasciato l’Inghilterra.
Così suppongo di aver sperato che,
nella peggiore delle ipotesi, anch’io
sarei stato assegnato a una
postazione analoga, il che mi
poneva di fronte al dilemma se
fosse giusto da parte mia
acconsentire a prestare le mie
capacità al perpetuarsi di una
guerra in cui non credevo. Sempre
che, naturalmente, mi venisse
chiesto di farlo. Per quel che ne
sapevo, avrei potuto essere spedito
in Francia come punizione per aver
attestato così tardi.
Ricordo che il pomeriggio in cui
andai all’ufficio di reclutamento
aspettai cinque ore in coda, sotto il
nevischio. Quando entrai
nell’ufficio era mezzanotte passata
e le volontarie avevano finito i
moduli. Così dovetti tornare il
mattino dopo e aspettare altre
cinque ore. Sebbene la visita
medica dovesse essere fatta sul
posto, a quel punto c’era una tale
ressa che dovette essere tralasciata.
Invece saremmo stati visitati, ci
informarono, quando ci avrebbero
richiamato, o convocato davanti ai
tribunali che avrebbero deciso se
accordarci o meno l’esonero.
Naturalmente, altri si rifiutarono
di attestare. Recisamente. Neville,
James Strachey, Lytton Strachey.
Avrei potuto rifiutarmi anch’io.
Ma, in un modo o nell’altro, non
mi vedevo a trascorrere gli anni
successivi, al pari di alcune chicche
di Bloomsbury, facendo “lavori
agricoli” e bisticciando con gli altri
nella fattoria di Ottoline Morrell.
Né riuscivo a digerire, come Lytton
sembrava tranquillamente disposto
a fare, la prospettiva di andare in
prigione. Potendo scegliere tra la
prigione e la trincea, preferivo la
trincea.
Perché? Credo sia riconducibile
al fascino della battaglia di cui mi
ero nutrito fin dalla prima infanzia.
Il penitenziario di Wormwood
Scrubs non esercitava su di me lo
stesso fascino. Credo che pochi di
voi qui stasera possano immaginare
come fosse crescere in un mondo
che non aveva ancora conosciuto la
Grande Guerra. Eppure era questo
il mondo della mia giovinezza, un
mondo in cui la guerra
apparteneva a un passato lontano,
o a terre lontane: l’Africa, l’India.
Tutte le idee che avevamo della
guerra provenivano dai libri che
leggevamo da bambini, in cui dei
ragazzi poco più grandi di noi
indossavano armature, cavalcavano
destrieri, e combattevano con le
spade. E i ministri del governo,
poiché avevano letto gli stessi libri,
approfittarono di questo retaggio
condiviso per svilire i tedeschi. I
tedeschi, ci raccontarono,
raccoglievano i corpi degli inglesi
morti e ne usavo il grasso per il
sego. Avevano crocifisso due
soldati canadesi. Tenevano donne
francesi nelle trincee e le usavano
come schiave bianche. Loro
discendevano dagli orchi, mentre
noi discendevamo dai cavalieri.
Che strano… oggi ho così pochi
ricordi precisi di quei mesi! Senza
dubbio ero molto occupato – lo so
dai miei diari – eppure, quando ci
ripenso, mi vedo, sempre e
soltanto, davanti alla mia finestra
del Trinity a contemplare la
pioggia. Naturalmente, non è
possibile. Il mio diario del 1916,
per esempio, mi dice che a partire
da gennaio passavo parte della
settimana a Londra. I diari servono
solo da cartelli indicatori per il
ricordo. E adesso, dai e dai, ecco
che mi rivedo, una volta, a
incontrare per puro caso
Ramanujan, ai Kensington
Gardens, dove il governo,
impegnato nella sua strenua
campagna per persuadere la
popolazione che la guerra stava
andando a meraviglia e che il
fronte era una sorta di rustico e
solido campo vacanze, aveva
pensato bene di scavare “trincee
dimostrative” perché il pubblico
potesse ispezionarle e persino
calarvisi. Queste trincee erano una
presa in giro. Erano asciutte e
pulite, tagliate a zigzag, con pareti
fortificate e pavimentate con
passerelle pulite. Dentro c’erano
brande e sedie e persino cucinotti
da campo. Quel giorno alcuni
soldati stavano ispezionando le
trincee dimostrative, a casa in
licenza da un mondo
spaventosamente remoto e allo
stesso tempo così vicino, in linea
d’aria, che la gente di Devon
poteva sentire il fuoco
dell’artiglieria nelle proprie cucine.
E questi soldati ridevano. Non si
presero neppure la briga di dire
qualcosa. Guardarono dentro le
trincee e risero.
Fu dentro la pseudotrincea che
trovai Ramanujan, intento a
studiare le pareti in quel suo strano
modo spettrale. Era da solo. Gli
diedi una pacca sulla schiena,
cogliendolo di sorpresa, e
facendolo sobbalzare. «Hardy»
disse, e sorrise. Parve contento di
vedermi.
Dopo che fummo risaliti, mi
chiese delle trincee autentiche. «È
vero» chiese «che i soldati ci
devono stare tutto il giorno?»
«E anche buona parte della
notte.»
«E che le trincee sono
ininterrotte, dalla costa del Belgio
alla Svizzera? Ho saputo che,
volendo, un uomo potrebbe
camminare sottoterra per tutta la
lunghezza della Francia.»
«In teoria sarebbe possibile. Ma
in pratica ne dubito.»
Uscimmo dal parco insieme,
Ramanujan con le mani ficcate in
tasca per tenerle calde. Stava di
nuovo a Maida Vale, nella
pensione gestita dalla sua adorata
Mrs. Peterson. Descrisse con
entusiasmo il percorso fatto per
arrivare a Kensington. Aveva
iniziato il suo viaggio alla stazione
nuova di zecca di Maida Vale, poi
aveva cambiato a Paddington,
passando dalla Bakerloo alla
District line. Mi disse che aveva
studiato la metropolitana e adesso
sapeva qual era la stazione più
profonda, e qual era la distanza più
lunga e quella più corta tra una
stazione e l’altra. Mi parlò di un
manifesto che aveva visto quel
giorno, un manifesto che avevo
notato anch’io. Sotto la fotografia
di un bambino che giocava in un
prato al crepuscolo, c’erano le
parole
PERCHÉ PREOCCUPARSI CHE I TEDESCHI
INVADANO IL PAESE?
INVADETELO VOI STESSI IN
METROPOLITANA E IN AUTOBUS
Mi chiese se intendeva essere
divertente, e dissi che a modo suo
lo era: una specie di “umorismo
macabro”, termine che poi dovetti
spiegargli.
In seguito, quando entrambi ci
trovavamo a Londra, a volte
andavamo in giro insieme.
Ovunque fossimo diretti,
Ramanujan insisteva che ci
andassimo in metropolitana, anche
quando sarebbe stato più rapido
prendere un taxi o un autobus.
Non discussi mai con lui su questo
punto. E come avrei potuto,
proprio io, che da bambino
credevo che le lettere viaggiassero
da sole da una cassetta all’altra,
attraverso gallerie sotterranee?
Viaggio al centro della Terra di
Verne era stato il mio romanzo
preferito. Così andai da Foley’s e
gliene comprai una copia, che
divorò in una notte; e non c’era di
che stupirsi! All’improvviso, il
nostro era un mondo
semisotterraneo. Trincee
intersecavano l’Europa come linee
della metropolitana, mentre sotto
le trincee tedesche, anche se allora
non lo sapevamo, i minatori
aprivano pazientemente delle
gallerie, scavando cunicoli da
riempire con la dinamite. Un
milione di libbre di dinamite.
Un pomeriggio andammo in
metrò allo zoo. Lo zoo era l’altra
passione di Ramanujan. Sembrava
conoscere personalmente tutti gli
animali. E arrivò al punto di
scusarsi per le giraffe. «Hanno un
odore offensivo» disse, «anche se i
guardiani dello zoo mi dicono che
per loro noi abbiamo un odore
altrettanto sgradevole.» Poi mi
presentò a Winnie, il cucciolo
d’orso del Canada, l’orsacchiotta
alla quale si era affezionato
moltissimo, e di cui ormai sapeva
tutto quello che c’era da sapere:
che nel Quebec sua madre era
stata abbattuta a fucilate e che lei
era stata catturata dall’assassino
della madre, e poi venduta a un
membro dei Canadian Mountain
Rifles, un veterinario di nome
Colebourn. Quando Colebourn si
arruolò, Winnie attraversò
l’Atlantico con lui e poi restò in sua
compagnia al quartier generale
della sua brigata a Salisbury Plain,
dove seguiva gli uomini e
mangiava dalle loro mani.
Colebourn voleva portarla con sé
in Francia, ma il suo comandante
non ne voleva sapere di un orso al
fronte, così Winnie fu mandata a
vivere allo zoo di Londra finché il
suo padrone non tornava dalla
guerra.
Forse gli eventi successivi – in
particolare la trasformazione di
Winnie in Winnie the Pooh a
opera di Milne – hanno
influenzato i miei ricordi delle
molte visite che Ramanujan e io
facemmo alla sua gabbia. Milne,
cui penserò sempre come all’amico
letterato di Russell, direttore di
“Granta”, giovane intelligente e
acuto, adesso naturalmente è
famoso per una serie di libri su un
orso, un porcellino e un asinello;
libri che ho letto e dai quali, non
esito ad ammetterlo, ho tratto
molto più piacere che non dalla
maggior parte della cosiddetta
letteratura seria pubblicata negli
ultimi decenni. (Datemi Milne in
cambio di Virginia Woolf in
qualsiasi momento!) In ogni caso,
quando ricordo quelle visite, vedo
Winnie nera, come di fatto era, e
non dorata come la sua omonima;
eppure la vedo anche tirar su il
miele con la zampa da un vasetto
che le porge un guardiano dello
zoo. È possibile che si sia mai
verificata una scena del genere?
Non ho modo di saperlo. È tutto
così confuso. Sogno e realtà si
sovrappongono, e non riesco a
tenere tutto in ordine. Quando fu
affondato il Lusitania? E in quale
sequenza si succedettero le
battaglie? Ypres, Second Ypres, la
Somme, Mons, Loos,
Passchendaele. E i nomi dei morti:
Brooke, Békássy, Bliss. Che trio
allitterativo! Brooke, Békássy, Bliss.
Ecco a voi, la musica della perdita.
Ogni settimana leggevo la lista
dei caduti, e cercavo di tenere a
mente quali degli uomini che
conoscevo al fronte erano stati
eliminati, quanti erano dispersi,
quanti mutilati. Sempre più nomi
ogni settimana, per lo più solo
vagamente familiari, legati a volti
che mi passavano accanto
frettolosamente nella Great
Court… Avete mai considerato il
fatto curioso che la popolazione dei
morti aumenta sempre più, mentre
sulla terra il nostro numero rimane
più o meno costante? Solevo
pensare che, con tutti i giovani che
morivano, il purgatorio in quegli
anni doveva essere terribilmente
affollato. Doveva assomigliare a
una stazione della metropolitana in
cui, per un errore cosmico di
segnalazione, non arrivava mai un
treno, di modo che la piattaforma
era sempre più gremita. Tutti su
un’unica piattaforma: i dolenti, i
furiosi e i sofferenti, tutti in attesa
dei treni che li avrebbero portati al
giudizio e, forse, al riposo. Qui
sulla terra, invece, c’erano meno
giovani di quanti avrebbero dovuto
essercene. Là dove avrebbe dovuto
esserci un giovane, c’era una croce,
e una madre che piangeva, e
offriva prontamente altri figli alla
gloria dell’Inghilterra.
E in tutto questo… quanto
dovevo essere occupato! Studiando
i diari, scopro che, in fasi diverse,
ero stato segretario: a) della sede di
Cambridge dell’Unione per il
controllo democratico, b) della
London Mathematical Society
(LMS). Che la prima, sebbene
niente affatto radicale quanto
l’Associazione anticoscrizione, fosse
considerata sovversiva non è
sorprendente: durante la guerra
qualsiasi gruppo perorasse la causa
della pace era considerato
sovversivo. La seconda potrebbe
sembrare l’organizzazione che
meno di ogni altra al mondo
poteva suscitare i sospetti, e tanto
meno l’attenzione, del governo.
Tuttavia la London Mathematical
Society si era sempre adoperata per
il libero scambio di idee attraverso i
confini, e continuò a farlo anche
dopo lo scoppio della guerra. «La
matematica» avrebbe detto in
seguito Hilbert in una
dichiarazione che divenne famosa
«non conosce razze. Per la
matematica, l’intero mondo
culturale è un unico paese.» Nel
1917 questa era un’idea ancora più
radicale, in quanto poteva minare
l’odio per l’Altro da cui dipendeva
la popolarità della guerra. Se
avessimo potuto farlo, noi della
London Mathematical Society
saremmo stati lieti di pubblicare su
periodici tedeschi. In mancanza di
questo, ci adoperammo per
pubblicare sul maggior numero
possibile di riviste non inglesi.
Adesso vedo che, tra il 1914 e il
1919, ho pubblicato qualcosa come
cinquanta saggi, alcuni con
Ramanujan, altri con Littlewood, e
quasi tutti all’estero: su “Comptes
Rendu”, sul “Journal of the Indian
Mathematical Society”, sul
“Tohoku Mathematical Journal” e
su quella rivista dal titolo
meraviglioso che era “Rendiconti
del Circolo matematico di
Palermo”. Inoltre, cosa assai più
discutibile, dal punto di vista degli
sciovinisti, collaboravo con una
certa frequenza con “Acta
Mathematica”, il cui editore
svedese aveva l’ardire di pubblicare
articoli di tedeschi e inglesi sullo
stesso numero. Inoltre firmai un
libro breve con l’ungherese Marcel
Riesz, scritto per corrispondenza.
La nostra epigrafe, in latino,
concludeva: Auctores Hostes
Idemque Amici. “Gli autori, nemici
e allo stesso tempo amici.” Questo,
probabilmente, era più che
sufficiente a includere il mio nome
nella lista governativa degli
agitatori interni.
E che dire dell’altra società, la
società segreta, dalla quale mi ero
eclissato, anche se talvolta, con
riluttanza, mi prestavo alle sue
iniziative? Andava avanti
zoppicando, a modo suo. Ogni
anno ci riunivamo per una cena a
Londra. Alla cena del 1915
brindammo alla memoria di
Rupert Brooke. Tuttavia
l’animosità che si era creata tra
Dickinson e Moore da una parte e
McTaggart dall’altra era insanabile.
Dickinson e Moore consideravano
McTaggart un traditore della pace.
McTaggart considerava Dickinson
e Moore traditori dell’Inghilterra.
Sedevano alle estremità opposte
del tavolo e non si rivolgevano la
parola.
A unirci era solo il lutto. Dei tre
ragazzi caduti, Békássy fu il
secondo a morire, qualche mese
dopo Brooke e circa un anno prima
di Bliss. Fu Norton che venne a
darmi la notizia compiangendomi
per la mia sofferenza. La mia
sofferenza? Ma se conoscevo a
malapena quel povero ussaro
malato d’amore! Norton,
soprattutto a quei tempi, aveva il
vezzo di dare per scontato che il
suo dolore, la sua gioia, la sua
disperazione o le sue smanie – ogni
tipo di emozione, insomma –
fossero necessariamente condivisi
dal resto del mondo. Iniziava
spesso le sue frasi con “Non trovi?”
o “Non sei anche tu…?”. Cosa
piuttosto irritante quando la frase
era: “Non trovi che questa torta al
limone sia deliziosa?”. (Io detesto
la torta al limone.) Ma di fronte
alla frase: «Non sei affranto anche
tu dal dolore per il povero
Békássy?» avrei potuto picchiarlo.
Cosa potevo dire? No, non sono
affranto, e ti sarei grato se non mi
attribuissi delle reazioni
prefabbricate? In realtà,
consideravo la morte di Békássy
un’idiozia. Come tanti altri, si era
messo in testa l’idea che la guerra
lo avrebbe nobilitato, che doveva
parteciparvi perché, come disse a
Norton, andare in guerra faceva
parte della «bella vita». Ma mentre
aspettava di essere spedito al
fronte, scrisse che non voleva
pensare al perché era andato in
guerra. «Voglio parteciparvi e
dimenticare quello che penso.» E
naturalmente, poiché era un
aristocratico, si arruolò nella
cavalleria. A quanto dice Norton,
mise tre rose rosse sulla testa del
suo cavallo perché facevano parte
dello stemma di famiglia, e poi
cavalcò verso il fronte russo,
indubbiamente su un “fido
destriero”, rampollo di una
generazione di equina nobiltà,
Békássy, e là morì.
E adesso il dilemma (con Norton
c’era sempre un dilemma) era se
dirlo o no a Bliss. Nessuno sapeva
con precisione dove fosse Bliss – in
Francia, o ancora in Inghilterra,
per l’addestramento – o se dargli la
notizia che il suo grande amore era
morto fosse una buona idea, dal
momento che anche lui era stato
arruolato. Cercai di rendermi utile.
Cercai di rintracciare il fratello di
Bliss, ormai famoso come
compositore, anche se io,
altrettanto famoso per essere
stonato, avrei potuto benissimo
non saperlo. Ma Arthur Bliss era
già in Francia. Non osavo
coinvolgere la famiglia, così
rinunciai. Non so se Bliss abbia mai
saputo della morte di Békássy. Del
resto lui stesso morì poco tempo
dopo, nella battaglia della Somme,
ucciso da una scheggia di shrapnel
che gli era penetrata nel cervello.
Oggi non riesco a commuovermi
molto quando penso a queste
morti. Ne morirono troppi altri, le
cui vite sarebbero state più
importanti. Da quei tre, in ogni
caso, non sarebbe mai venuto
niente di grande, sospetto.
In quegli anni, invece, una
morte mi addolorò
profondamente. Quella di
Hermione. Sheppard, se fosse qui
oggi, s’intrometterebbe per dire che
i miei sospetti in materia sono
“paranoici”. (Come tanti altri è
diventato un patito della
psicanalisi, e gli piace condire la
sua conversazione con il gergo di
quella disciplina.) Dal canto mio,
gli risponderei che è troppo incline
a pensare il meglio della gente.
Perché i fatti sono quelli che sono.
Hermione morì all’improvviso di
una crisi digestiva che non fu
diagnosticata. E io sono convinto
che fu a causa del veleno. Sì, sono
sicuro che qualcuno le diede della
carne o del pesce avvelenato. Era
l’inizio del 1916, proprio quando
cominciavo a essere attivamente
coinvolto, insieme a Moore e
Neville, in una battaglia con il
Consiglio del Trinity.
Ed ecco cosa accadde. Come ho
accennato prima, ero segretario per
la sezione di Cambridge
dell’Unione per il controllo
democratico, un’organizzazione
relativamente innocua, il cui scopo
era battersi per una giusta
definizione del conflitto una volta
che fosse finita la guerra, e insistere
che il governo non intrattenesse
più “accordi” segreti con gli alleati
senza che il parlamento avesse
prima la possibilità di votare. Come
obiettivo era disperatamente
ingenuo, in quanto nasceva dal
presupposto che la guerra sarebbe
stata breve. Quando divenne
evidente che la guerra non sarebbe
stata affatto breve, noi dell’UCD –
almeno privatamente –
cominciammo a pensare in termini
di un armistizio. Questa era una
linea a dir poco impopolare da
seguire e, mentre si spargeva la
voce che la nostra segreta e reale
ambizione era mediare un cessate
il fuoco con i tedeschi, prendeva
anche piede la convinzione che
l’UCD non era affatto ciò che
fingeva di essere, ma, al contrario,
era un gruppo radicale deciso a
minare le aspirazioni
dell’Inghilterra.
La sezione di Cambridge,
ovviamente, era molto attiva, tanto
che, alla fine del 1915, avevamo
già tenuto parecchie riunioni
private e ne avevamo ospitato una
pubblica alla Guildhall. I problemi
iniziarono quando pubblicammo
un avviso relativamente innocuo
sul “Cambridge Magazine”,
annunciando che avremmo tenuto
la nostra riunione generale annua
nelle stanze di Littlewood e che
Charles Buxton avrebbe parlato su
“Nazionalità e definizione del
conflitto”. Sebbene a quel tempo
Littlewood fosse a Woolwich, era a
sua volta membro dell’UCD. (I
nostri membri in divisa erano più
numerosi di quanto potreste
immaginare.) Littlewood aveva
acconsentito a lasciarci usare il suo
appartamento vuoto per la
riunione, mentre Buxton era un
esperto dei Balcani, la cui moglie,
Dorothy, selezionava articoli dalla
stampa estera e li pubblicava in
una rubrica del “Cambridge
Magazine” che offriva
un’alternativa all’irriducibile
sciovinismo anticrucco del
“Times”. In altre parole, era tutto
alla luce del sole, quand’anche un
filino antigovernativo. Ma la
riunione non ebbe mai luogo. Una
settimana dopo che fu pubblicato
l’annuncio, sulla stessa rivista
comparve una lettera. Ne era
autore il segretario del Consiglio
del Trinity e comunicava la
decisione del Consiglio di proibire
all’UCD di tenere qualsiasi riunione
sulla proprietà del Trinity. La
pubblicazione di questa lettera non
fu preceduta da alcuna
comunicazione privata, dal che
deducemmo che il messaggio non
era diretto solo a noi dell’UCD del
Trinity, ma a tutta Cambridge. Il
giorno in cui eravamo arrivati al
college come matricole, Butler ci
aveva detto che l’università
avrebbe «nutrito gli uomini di
cultura come Dio nutre i passeri».
Ora invece l’ateneo non tollerava
più neppure un dissenso pacifico.
Moore aveva la sua soluzione.
Una settimana dopo pubblicò una
sorta di “modesta proposta” sul
“Cambridge Magazine”, in cui
plaudiva all’“energico”
provvedimento del Consiglio e
suggeriva che, per amor di
coerenza, il Consiglio avrebbe
dovuto “sospendere tutte le
funzioni nella cappella del college
fino alla conclusione della guerra”
per il buon motivo che “alle
funzioni della chiesa cristiana era
possibile che fossero portate
all’attenzione dei giovani massime
altrettanto pericolose per il loro
patriottismo di quelle che
avrebbero sentito a una riunione
dell’Unione per il controllo
democratico”. La considerai una
mossa brillante, in quanto
denunciava l’ipocrisia del
Consiglio: come poteva, dopotutto,
un’istituzione che si professava
fondata sulla dottrina cristiana
sopprimere un’organizzazione che
lottava per la pace? Bella
contraddizione! Reductio ad
absurdum. Quello che allora non
sapevo era che i rappresentanti
dell’autorità, come parte del loro
addestramento, imparano a
giudicare quando è meglio limitarsi
a tacere. Così non fu aggiunto
altro, e in breve il pubblico dei
lettori – o meglio i suoi membri
abbastanza perspicaci da cogliere
l’intenzione swiftiana di Moore –
distolse l’attenzione da questa
tempesta in un bicchier d’acqua al
Trinity, per volgerla a questioni più
pressanti di vittoria politica e
sconfitta di trincea.
Tuttavia, noi ci sentivamo in
dovere di fare qualcosa, e in
gennaio Neville e io indicemmo
una riunione speciale del college
per protestare contro l’espulsione
dell’UCD da parte del Consiglio. Col
senno di poi, lo svolgimento della
riunione risulta comico da riferire,
il che forse è tipico di assemblee
del genere. Innanzi tutto
proponemmo una delibera, così
concepita: “Questa assemblea è
dell’opinione che un fellow del
college dovrebbe avere il diritto di
ricevere come ospiti nei suoi
appartamenti i membri di
un’associazione, invitati per
promuoverne gli obiettivi, quando
non fossero né illegali né
immorali”. Comunque, prima che
questa delibera potesse essere
votata, fu proposto un
emendamento, ovvero “che
l’avverbio ‘privatamente’ fosse
inserito tra le parole ‘associazione’
e ‘invitati’”. L’emendamento passò
con una votazione di 41 a 2. (Io
ero uno dei dissenzienti.) Poi fu
proposto un secondo
emendamento, ovvero “aggiungere
alla fine della delibera le parole ‘a
patto che non vengano pregiudicati
gli interessi del college’”.
L’emendamento passò con una
votazione di 28 a 14. Così adesso la
delibera recitava: “Questa
assemblea è dell’opinione che un
fellow del college dovrebbe avere il
diritto di ricevere come ospiti nei
suoi appartamenti i membri di
un’associazione, privatamente
invitati per promuoverne gli
obiettivi, quando non fossero né
illegali né immorali, purché non
vengano pregiudicati gli interessi
del college”.
Neville e io osservammo tutto
questo a bocca aperta, per così dire.
Era sbalorditivo: con una sorta di
burocratica diligenza, e grazie a
una discussione altrettanto priva di
animosità della lettera che il
Consiglio aveva inviato alla rivista,
i fellow presenti all’assemblea
erano riusciti a trasformare la
delibera originale in una
dichiarazione notevole solo per la
sua assoluta impotenza. E tutto
grazie all’aggiunta di nove parole.
La democrazia, pur essendo l’unica
scelta che abbiamo, a volte, proprio
con la sua tolleranza, può farci
desiderare una dittatura benevola.
Ricordo che a questa riunione
ero seduto tra Butler e Jackson, il
classicista, che a questo punto
doveva avere quasi ottant’anni, e
oltre che miope era anche sordo
come una campana. Per quel che
ricordo, ero nel bel mezzo di un
discorso – in risposta all’aggiunta
della clausola finale alla proposta,
la clausola che ne annullava
l’efficacia – quando Jackson mi
interruppe, forse perché non
poteva né vedermi né sentirmi
parlare. «Io sono un uomo
vecchio» disse, «e spero che la
guerra continui per molti anni
dopo la mia morte.» Giuro che
disse esattamente queste parole.
Il pomeriggio seguente trovai
Hermione morta. Se abbia sofferto
un’agonia pari a quella dei soldati
che morivano da soli, abbandonati
nella Terra di Nessuno, non lo
saprò mai, perché quel giorno ero
stato a Londra fino a tardi, e al mio
ritorno la trovai che giaceva
immobile davanti a una pozza di
vomito. Sembrava serena, e aveva
disteso il corpo come faceva
quando dormiva. Sebbene non
fosse sulla sua ottomana preferita,
le era molto vicina. C’era del
vomito anche sull’ottomana, un
mucchietto ordinato. Hermione
era sempre stata una gatta molto
ordinata…
La portai nei Backs, e la seppellii
vicino a dove Gaye e io avevamo
sepolto Euclide. E poi decisi che,
appena avessi avuto occasione di
farlo, avrei lasciato il Trinity.
La morte di Euclide era stata
meno improvvisa. Soffriva di
vermi. Lo portammo dal
veterinario, che ci spiegò che ogni
volta che cercava di mangiare, i
vermi gli salivano dallo stomaco
nell’esofago rischiando di
soffocarlo. Il veterinario ci diede
una polvere, che aggiungevamo al
latte. Sfortunatamente, ogni volta
che cercava di deglutire il latte con
la polvere, rimetteva.
Il ricordo del pomeriggio prima
della sua morte è molto più vivido
della maggior parte dei miei ricordi
di guerra. Leonard Woolf era
venuto a trovarci, insieme a un
certo Fletcher che pensò bene di
raccontarci una storia
assolutamente disgustosa. In un
circo in Francia aveva visto una
donna, immensa e a seno nudo,
strisciare intorno a un buco con un
paio di mutande rosso vivo,
catturando ratti con i denti e
uccidendoli. Non riesco a ricordare
con precisione cosa portò Fletcher
a raccontarci questa storia, solo che
il racconto era vivido e lui lo
intercalava con le stesse espressioni
ripetitive – «Era davvero
repellente», «Era davvero schifosa»
– alle quali ricorreva abitualmente
nella conversazione. Quando ebbe
finito, Euclide, lasciandoci
sgomenti, prese a camminare
all’indietro, il che fece chiedere a
Gaye se camminare all’indietro
fosse un brutto sintomo nei gatti.
Nessuno lo sapeva. Infine, quando
Woolf e Fletcher se ne andarono,
noi restammo soli con Euclide, che
continuava a camminare
all’indietro per la stanza, urtando
contro le pareti e sbattendo contro
i mobili. Non osavamo fermarlo,
come non si osa svegliare un
sonnambulo, e quando, una volta
o due, Gaye cercò di raddrizzarlo,
dopo pochi secondi lui riprendeva
a camminare all’indietro.
Alla fine andò a sbattere contro
la porta della mia camera e
stramazzò a terra. Lo portammo
nella sua cesta e, ancora una volta,
cercammo di dargli un po’ della
sua medicina. Di nuovo la vomitò.
Poco dopo, Gaye e io ci
augurammo la buonanotte.
Sebbene dividessimo la suite già da
un anno, non avevamo ancora
passato una notte nello stesso letto.
Ma quella notte Gaye venne nella
mia stanza, mi svegliò, e disse:
«Harold, posso venire nel tuo
letto?». E io dissi che naturalmente
poteva. Poi mi abbracciò da dietro:
eravamo entrambi in pigiama, ma
anche così, mentre mi abbracciava,
sentii che aveva un’erezione e si
strusciava contro di me. Io risposi
alla pressione.
Restammo così per più di un’ora,
strusciandoci e dormendo a
momenti alterni, finché Gaye si
lamentò che gli si stava
addormentando il braccio sinistro,
al che cambiammo posizione, e io
presi a strusciarmi e lui a
rispondere alla pressione. Dopo un
po’ mi si addormentò il braccio
destro, così per tutta la notte
scambiammo le posizioni mentre le
nostre rispettive braccia si
addormentavano.
Aun certo punto, durante quella
notte, Euclide morì. Lo
seppellimmo il mattino dopo,
vicino al fiume. Ma la notte
seguente, e per molte notti da quel
momento in avanti, Gaye dormì
nel mio letto. E sebbene in
presenza di altri continuassimo a
chiamarci “Gaye” e “Hardy”, in
privato cominciammo a chiamarci
“Russell” e “Harold”.
E ben presto il pigiama venne
tolto.
SESTA PARTE

Partizioni
1

Ancora una volta, Ramanujan sta


preparando il rasam nella sua
stanza di servizio. È metà gennaio
del 1916. Indossa due maglioni e
una pesante sciarpa di lana fatta
espressamente per lui, gli ha detto
Hardy, da uno scrittore che,
soffrendo di insonnia acuta in
seguito alle preoccupazioni per la
guerra, ha preso a sferruzzare per
far passare le lunghe nottate
insonni. Ormai lo scrittore produce
più di venti sciarpe la settimana,
che spedisce in gran numero alle
truppe in Francia. Questa, però,
l’ha fatta espressamente per
Ramanujan quando ha saputo
della sua difficoltà a far fronte
all’inverno inglese. La sciarpa è
verde e arancione. «No, non verde
e arancione» si è corretto Hardy
quando l’ha data a Ramanujan,
«menta e zafferano». In realtà, il
verde ha più la tonalità delle foglie
di banana che delle foglie di
menta, mentre all’arancione manca
la sfumatura dorata dello
zafferano. Fa pensare di più a un
mango maturo o alla curcuma.
Proprio adesso, Ramanujan sta
versando delle cucchiaiate di
curcuma in una ciotola. Le
lenticchie per il rasam sono già in
una seconda ciotola.
Controllandole per mondarle di
possibili pietruzze, come gli ha
insegnato sua madre, ne fa cadere
qualcuna sul ripiano del tavolo.
Mentre le raccoglie, le conta. Sette
lenticchie. In quanti modi si
possono ripartire sette lenticchie?
Be’, non c’è che fare la prova. Si
possono ripartire in 7 gruppi di 1
lenticchia ciascuno, o in uno di 6 e
uno di 1, o in uno di 5 e due di 1,
o in uno di 5 e uno di 2, o in uno
di 4 e uno di 3, o in uno di 4 e uno
di 2 e uno di 1, o in tre di 2 e uno
di 1, o…
15 in tutto. Sì, 7 lenticchie si
possono ripartire in 15 modi.
Allora in quanti modi si possono
ripartire 8 lenticchie? Prende
delicatamente un’unica lenticchia
dalla ciotola e la mette sul tavolo
insieme alle altre.
Otto gruppi di 1 lenticchia
ciascuno, un gruppo di 7 e uno di
1, un gruppo di 6 e uno di 2, un
gruppo di 6 e due di 1…
22 modi.
E 9?
30 modi.
Non smette. Non mangia. È
mezzanotte passata quando ha
calcolato il numero di modi in cui
si possono ripartire fino a 20
lenticchie, e a quel punto ci sono
lenticchie dappertutto: sparpagliate
sul tavolo in ordinate
configurazioni, sul pavimento,
sotto il piano di cottura. Alcune,
non tarderà a scoprire, sono
emigrate nel suo letto. Rimangono
attaccate alle fibre della sciarpa
fatta dal famoso scrittore. Per tutto
l’anno seguente, la sua cameriera le
troverà sulla paletta quando spazza
il pavimento. Nel 1994 uno
studente di ingegneria di Giakarta,
mentre cerca di recuperare una
lente a contatto, ne estrarrà una da
una fessura tra due assi del
pavimento.
Il rasam non viene cucinato.
627 modi.
2

La mattina dopo va negli


appartamenti di Hardy. Quando si
toglie il cappotto, cadono lenticchie
dalla fodera.
«Che ti succede?» dice Hardy.
«Hai un’aria esausta.»
«Ho passato la notte a cucinare.
Darò una cena. Martedì prossimo.
Mi chiedo se mi faresti l’onore di
partecipare.»
«Ma certo» dice Hardy. «Qual è
l’occasione?»
«Chatterjee si sposa.»
«Oh, davvero. Che gioia per lui.
Allora, numeri rotondi.»
«Sì, numeri rotondi.»
Hardy va alla lavagna. Al
momento sta cercando di far
concentrare Ramanujan su una
dimostrazione che quasi tutti i
numeri n sono composti
approssimativamente di log log n
fattori primi. Hardy è
particolarmente determinato a
completare questa dimostrazione,
non solo perché il risultato sarà la
loro prima pubblicazione
congiunta, ma perché, se la
porteranno a termine, sentirà di
essere riuscito, finalmente, a
convertire Ramanujan alla sua
religione: la religione della
dimostrazione.
Il problema, come al solito, è che
Ramanujan non si concentra.
Giocherella con la penna.
Continua a soffiarsi il naso.
«Sei sicuro di star bene?» chiede
Hardy.
Ramanujan ciondola il capo.
«Te lo chiedo solo perché sembri
un po’ distratto. È per la cena?»
«Oh, no. Per le lenticchie.»
«Le lenticchie?»
«Per il rasam.» E Ramanujan
procede a spiegare che, mentre
preparava gli ingredienti per il
rasam, aveva cominciato a contare
le lenticchie, e questo lo aveva fatto
pensare alla partizione.
Non è la prima volta che parlano
di partizioni. Anzi, la teoria della
partizione è sempre stata presente
alle loro menti, anche se in modo
discontinuo, fin da quando Hardy
ricevette la prima lettera di
Ramanujan, e s’imbatté in una
enunciazione sulla serie theta la cui
stessa imprecisione evidenziava un
aspetto sorprendentemente nuovo
della questione. Calcolare (p)n – il
numero di partizione di un
numero – è facile quando n è 5 o
7; il problema è che, man mano
che si sale nella fila dei numeri,
(p)n aumenta a un ritmo
vertiginoso. Per esempio, il numero
di partizione di 7 è 15, mentre il
numero di partizione di 15 è 176.
E qual è il numero di partizione di
176?
476.715.857.290.
Quale sarebbe, allora, il numero
di partizione di 476.715.857.290?
«E dove ti hanno portato le
lenticchie?»
«A una formula per calcolare il
numero di partizione di un
numero. Anche un numero molto
grande.» Si alza in piedi. «Posso?»
«Naturalmente.» Hardy cancella
la lavagna e Ramanujan comincia a
tracciare diagrammi: piccoli punti
che rappresentano le lenticchie. Poi
scrive la serie theta come nella sua
prima lettera. Allora Hardy
accenna a una funzione generante
scoperta da Eulero, che porta alla
serie di potenza

E si perdono. Sulla lavagna


emergono i primi termini grezzi
della formula. Quello che stanno
cercando di costruire lo si potrebbe
considerare come una sorta di
macchina in cui si inserisce una
palla contrassegnata da un numero
intero – n – solo per vederla
emergere, qualche secondo dopo,
contrassegnata da un secondo
numero intero: p(n). Ma a quante
mutazioni deve essere sottoposta la
palla nel suo viaggio! E che
elementi inaspettati devono essere
impiegati nella costruzione della
macchina! Numeri immaginari, p,
funzioni trigonometriche. Ancora
una volta, per una domanda
semplicissima si dimostra
necessaria una risposta
complicatissima.
A mezzogiorno Hardy è sfinito,
eccitato. Vuole fare una pausa per
il pranzo e rimettersi
immediatamente al lavoro, solo
che Ramanujan obietta. «Ho delle
commissioni da fare» dice.
«Oh, benissimo» dice Hardy, la
voce carica d’impazienza. «Ma
cerca di arrivare presto domani.
Tutto questo è esaltante. Siamo
davvero sulla buona strada.»
La mattina seguente Ramanujan
arriva in ritardo, scarmigliato e con
un odore particolarmente acre.
«Ho preparato il rasam» dice a
mo’ di scusa.
«Ma non lo avevi preparato
l’altra sera?»
«Volevo farlo, ma poi le
lenticchie…»
«Non capisco perché questo
particolare rasam stia diventando
una tale impresa» dice Hardy,
cancellando la lavagna.
«Ma questo non è il solito
rasam. È un rasam molto raffinato.
Con i pomodori. E devo
prepararne in gran quantità.»
«Bene, lasciamo perdere la
cucina per il momento e passiamo
a questioni più importanti, ti
spiace?» E Hardy comincia a
scrivere. Vuol parlare del Teorema
di Cauchy e di alcune idee che ha
avuto a proposito della
circonferenza unitaria sul piano
complesso che, sebbene a prima
vista non paiano incidere in alcun
modo sulle partizioni, di fatto
possono illuminare il percorso che
stanno cercando. Hardy parla e
Ramanujan, sebbene sembri
ascoltare attentamente, non dice
quasi niente. A quanto pare la cena
lo sta ossessionando. Quando più
tardi Hardy gli chiede cosa ha in
programma di preparare,
Ramanujan non vuole rispondere.
Però evidentemente ha bisogno di
misteriosi ingredienti, perché la
mattina dopo si eclissa – lasciando
solo un messaggio conciso – per
tornare solo il pomeriggio (così
dice il portiere a Hardy) carico di
sacchetti della spesa. Che sia
andato a Londra? E chi altri pensa
di invitare, oltre a Chatterjee e alla
sua fidanzata?
«Ci sarà Miss Chattopadhyaya»
dice Ramanujan. «Studia etica a
Newnham ed è la sorella di
un’illustre poetessa. E anche
Mahalanobis.»
«E Ananda Rao?»
«Avevo pensato di invitarlo, ma
è troppo immaturo.»
«E i Neville?»
Ramanujan esita. «Non credo
che sia il tipo di evento che Mrs.
Neville apprezzerebbe.»
«Tu dici? Io invece sono certo lo
apprezzerebbe moltissimo.»
«No, niente affatto. Ne sono
sicuro.»
Hardy decide di non toccare più
l’argomento.
3

Nei giorni seguenti Ramanujan è


sulle spine per la cena. Non riesce
a concentrarsi su nient’altro e
Hardy lo trova estremamente
frustrante. Dopotutto, chi può
sapere quanto durerà la fase di
fermento creativo in cui si trova
adesso? Episodi del genere sono
notoriamente capricciosi. Un
giorno ti svegli pronto a fare il
lavoro migliore della tua vita, e il
giorno dopo, senza un motivo
preciso, ispirazione ed energia si
sono esaurite. Vorrebbe che
Ramanujan riuscisse a capirlo.
D’altra parte sa che, se avesse
avuto a che fare con Littlewood, a
lui avrebbe concesso un respiro più
ampio. Infatti, il successo della sua
collaborazione con Littlewood è
dovuto in gran parte alla loro
disponibilità a concedersi l’un
l’altro ampia autonomia. Allora
perché con Ramanujan fa sempre
capolino questa sensazione che il
matematico indiano, come
ricompensa per averlo portato a
Cambridge, gli debba il pieno e
costante beneficio del suo genio?
Una simile pretesa, lo sa bene, è
assolutamente irragionevole. In
fondo, come non mancano di
ricordargli sempre tutti quanti,
anche Ramanujan ha i suoi
bisogni. E alcuni non hanno niente
a che fare con la matematica.
Finalmente arriva il fatidico
martedì. Come c’era da aspettarsi,
Hardy non vede Ramanujan quella
mattina. Lavora da solo e risolve il
rompicapo sul nuovo numero dello
“Strand”. Dopo pranzo, consumato
nella Hall, si incontra con Neville e
Russell per discutere della crisi
crescente dell’UCD. Neville non
accenna alla cena. Possibile che
non ne sappia niente?
Cala il crepuscolo. Hardy fa un
bagno, si rade, lucida le scarpe, e
indossa giacca e cravatta. Sta per
uscire quando si ricorda di non
aver riempito la ciotola dell’acqua
per Hermione… poi si ricorda che
Hermione è morta. La ciotola
adesso è sulla mensola del
caminetto, accanto al busto di
Gaye, che stasera sembra guardarlo
con occhio più torvo che mai. «Che
ci posso fare?» gli chiede. «Non
sono pronto per un altro gatto…
anche se la sorella di Mrs.
Bixby…» Ma è stanco di
conversare con i morti, quindi
scende le scale, esce nell’aria
fredda della New Court, fa la
camminata di un minuto fino al
Bishop’s Hostel e sale le scale quasi
identiche che portano all’alloggio
di Ramanujan. Al di là della porta
c’è un mormorio di voci in una
lingua incomprensibile. Bussa, e
Ramanujan – la faccia strigliata, la
giacca che tira sui bottoni e gli
fascia strettamente il torso – lo fa
entrare.
La conversazione cessa
all’istante. Hardy si guarda intorno
sconcertato. La poltrona e la
scrivania sono state spinte contro il
muro per fare spazio a una grande
tavola coperta da una tovaglia
bianca, indubbiamente presa in
prestito dal college per l’occasione.
Sono state preparate le sedie della
Hall e anche i coperti e i cartellini
segnaposto. Il tavolo è talmente
grande, e la stanza così piccola, che
c’è a malapena posto per stare in
piedi. Gli ospiti di Ramanujan sono
raggruppati negli angoli o contro la
parete. E tutti nel più assoluto
silenzio.
Ramanujan guida Hardy verso
una di loro, una donna dalla pelle
scura, vestita con eleganza di un
sari verde e azzurro, intrecciato di
fili d’oro.
«Posso presentarti Miss
Chattopadhyaya?» dice.
Miss Chattopadhyaya gli tende
la mano. «Come sta?» chiede.
«Benissimo, grazie» dice Hardy.
«E lei?»
«Benissimo, grazie.»
Che razza di convenevoli! Invece
di stringergli la mano,
Mahalanobis, con tanto di
turbante, s’inchina; tuttavia lo
scambio è praticamente identico a
quello che Hardy ha appena avuto
con Miss Chattopadhyaya. Invece
Chatterjee, che evidentemente
proviene da un ambiente più
sofisticato, lo saluta con la
disinvoltura di un uomo da public
school: una pacca sulla schiena, un
saluto da vecchi compagni,
dopodiché gli presenta la sua
fidanzata, Miss Rudra (che nomi
hanno questi indiani!), che ha una
bocca giovane e fresca che copre
perennemente con la mano, come
per soffocare un accesso di riso. È
una studentessa, annuncia
orgoglioso Chatterjee, dell’istituto
magistrale di Cambridge. Si
sposeranno alla fine del mese. È
difficile, le loro famiglie sono così
lontane… All’accenno alle
famiglie, Miss Rudra si porta la
mano alla bocca, mentre
Chatterjee, la snella muscolatura
quasi indistinguibile sotto gli strati
di giacca e camicia, le mette una
mano sulla spalla.
Ramanujan nel frattempo è
andato nella stanza di servizio,
dalla quale emana un complesso di
aromi: un odore acido, fumo, la
pungente aggressività del cumino,
la dolcezza un po’ rancida della
polvere di coriandolo. Hardy lo
segue nello stanzino. Il piccolo
tavolo è ingombro di cibo: non solo
il rasam nel suo tegame argentato,
ma anche tortini bianchi al vapore
(tortini di riso?), triangoli di pasta
ripieni, yogurt con cetrioli e
pomodori, patate arrosto, e uno
spezzatino rosso.
«E sei riuscito a preparare tutta
questa roba su un fornello a un
solo fuoco?»
Ramanujan annuisce.
«Ecco perché hai dovuto
lavorare tanto!» Hardy si sfrega le
mani. «Bene, ha tutto un profumo
delizioso. Hai fatto un lavoro
notevole, amico mio.» Dà una
pacca sulla schiena a Ramanujan e
lui sobbalza. «Calma! Non c’è
bisogno di essere nervosi. Sei tra
amici.»
«Ho bruciato il pongal.»
«Non importa. Nessuno ci farà
caso.»
«Ma ho faticato tanto per il
pongal. Solo un negozio di Londra
aveva i ceci verdi. Me li ha trovati
Mrs. Peterson.»
«Non importa.»
«E il riso è scotto.»
«Non importa, te lo assicuro. La
cosa importante è la compagnia.»
«Be’, ormai non c’è più niente
da fare. Dobbiamo andare avanti.»
Poi lascia la stanza di servizio,
tallonato da Hardy. «La cena è
pronta» dice quasi luttuosamente.
«Vogliamo sederci?»
Ancora una volta, la
conversazione s’interrompe di
colpo. Gli ospiti siedono ai loro
posti. Ramanujan porta in tavola la
pentola di rasam; serve la zuppa –
come ha detto che la chiamano gli
inglesi? Acqua di pepe? – nelle
scodelle.
Hardy assaggia. Il liquido nel
suo cucchiaio è diluito, rossastro, e
sembra il distillato di una dozzina
di sapori, nessuno dei quali riesce a
nominare. C’è un gusto aspro, uno
dolce, uno piccante, e uno un po’
melmoso; il sapore che immagina
possa avere la terra. «I miei
complimenti» dice Miss
Chattopadhyaya. Miss Rudra
ciondola il capo. Chatterjee mangia
in fretta e con noncuranza,
Mahalanobis con un garbo che
sfiora l’indifferenza, Ramanujan
non mangia affatto.
All’improvviso scatta in piedi.
«Oh, ma ho dimenticato i
pappadum!» dice. E si precipita
nella stanza di servizio, per tornare
dopo pochi secondi con un cestino
di cialde croccanti. «Ormai sono
freddi.»
«Non importa» dice Hardy,
rompendo il suo in piccoli pezzi.
Ha finito la sua scodella di zuppa.
L’hanno finita tutti, eccetto Miss
Rudra, che mangia con estrema
lentezza. Non che mangi poco, solo
che riesce a tenere in bocca ogni
cucchiaiata più a lungo di qualsiasi
essere umano Hardy abbia mai
conosciuto. Un bel tipetto, la
mogliettina!
Viene servita la seconda razione
di rasam. La conversazione volge
sul cricket, argomento sul quale
Mahalanobis si dimostra
sorprendentemente ferrato. Che
Chatterjee conosca il cricket non è
una sorpresa, ovviamente. Parla
della storia del gioco in India, dei
grandi giocatori che ammirava da
bambino, del Maidan di Calcutta.
E le donne ascoltano attente; Miss
Rudra, per una volta, con la bocca
scoperta. Le scodelle adesso sono
vuote. «Chi ne vuole una terza
razione?» chiede Ramanujan.
«Io non dico di no» risponde
Hardy.
«È molto gentile da parte sua,
Mr. Ramanujan. Ma io devo
rifiutare» dice Miss
Chattopadhyaya.
«Miss Rudra?»
Miss Rudra si copre la bocca con
le mani e scuote la testa.
«Molto bene.»
Ramanujan torna nella stanza di
servizio. Hardy comincia a elencare
i suoi giocatori di cricket preferiti,
incluso Levison-Gower, che
Chatterjee, a quanto pare, ammira
meno di quanto dovrebbe. Ne
nasce una disputa amichevole. Le
signore sorridono. Poi Hardy sente,
o pensa di sentire, lo scatto di una
porta che si chiude.
Per qualche secondo nessuno
dice niente. La conversazione
langue. Furtivamente Hardy lancia
un’occhiata nella stanza di servizio.
«È uscito?» chiede Mahalanobis.
«Forse gli serviva qualcosa dalla
cucina del college» dice Chatterjee.
Aspettano. Alla fine Hardy si
alza e apre la porta che dà sul
corridoio.
«Non c’è traccia di Ramanujan»
dice.
Cala un silenzio imbarazzato. Ci
sono certe possibilità che nessuno
degli uomini vuole nominare di
fronte alle signore, quindi Hardy è
piuttosto sorpreso nel sentire Miss
Chattopadhyaya dire: «Non è
meglio che qualcuno scenda a dare
un’occhiata nei gabinetti? Potrebbe
aver bisogno di aiuto».
«Vado io» dice Chatterjee.
«Lo accompagno» dice
Mahalanobis, ed escono decisi
dalla porta, solo per tornare, pochi
minuti dopo, da soli.
«Non è nella toilette» dice
Chatterjee.
«Cosa può essere successo?»
chiede Miss Chattopadhyaya.
Viene organizzata un’altra
spedizione. Lasciando le signore a
casa, i tre uomini vanno rapidi
nelle cucine del college. No, Mr.
Ramanujan non è passato di lì,
riferisce lo chef. Allora vanno nella
guardiola del portiere.
«È uscito un quarto d’ora fa»
dice il portiere.
«Dove stava andando?»
«Non mi ha parlato. Ma devo
dire che mi è parso strano vederlo
uscire senza il cappotto.»
«In che direzione è andato?»
«Verso King’s Parade.»
Hardy varca il cancello del
college; guarda su e giù per la
strada, in entrambe le direzioni.
Nessuna traccia di Ramanujan.
«È sparito» dice Chatterjee, con
più sorpresa che ansia nella voce.
«Cos’altro possiamo fare?»
chiede Mahalanobis.
«Niente» dice Hardy. E tornano
verso l’alloggio di Ramanujan,
dove le signore li stanno
aspettando.
Adesso il dilemma è cosa fare di
tutto quel cibo. Dovrebbero
incartarlo e riporlo? Nessuno lo sa.
Alla fine lo lasciano sul tavolo.
Senza dubbio Ramanujan tornerà
più tardi. Se incartassero il cibo o lo
buttassero via, Ramanujan
potrebbe offendersi.
Inutile dire che non
continueranno a mangiare.
Ai piedi delle scale, i membri
dello sconcertato gruppetto si
salutano e ciascuno va per la sua
strada.
Hardy, ancora affamato,
vorrebbe aver preso la terza
porzione di rasam.
4

La mattina seguente, Ramanujan


non si fa vedere negli appartamenti
di Hardy. «Curioso» dice Hardy a
nessuno in particolare. Ma si
dedica comunque alle sue
occupazioni. Legge i giornali;
lavora, meglio che può, alla
formula per la funzione di
partizione; vedendo che non riesce
a concentrarsi, prende il
“Cambridge Magazine” ma poi lo
mette da parte. Che seccatura! La
fase di fermento sta finendo, lo
sente. Potrebbe andar perduto del
lavoro importante, e sarà tutta
colpa di Ramanujan. Ma è inutile
perdere tempo in recriminazioni,
quindi recupera il “Cambridge
Magazine” da dove l’ha lasciato
cadere. Da qualche mese Mrs.
Buxton, moglie di quel Charles
Buxton che avrebbe dovuto parlare
alla sfortunata riunione dell’UCD,
sta curando una sezione intitolata
“Note dalla Stampa estera” che
consiste in estratti di articoli da
una dozzina di giornali stranieri,
inclusi i giornali nemici, che è
riuscita a ottenere il permesso di
importare dalla Scandinavia,
tradotti in inglese. La “Neue Freie
Press” (il principale quotidiano di
Vienna), il “National Tidende” (di
Copenaghen, conservatore), il
“Vorwärts” (tedesco,
socialdemocratico)… Come sono
diverse le reazioni alla guerra, e
come si ritiene nel giusto ogni
fazione! Il suo sguardo si sposta
sugli annunci pubblicitari. Under
the Red Robe è in programma al
cinema Victoria, accompagnato da
His Soul Reclaimed (“un episodio
molto drammatico della Staircase
Life”) e da un filmato su “20.000
prigionieri tedeschi catturati nella
Champagne”. Marmellata
d’arancia Chivers’ Olde English,
uniformi da ufficiali da Joshua
Taylor & Co., “La Salute Über
Alles” a Le Strange Arms e Gold
Links Hotel, Hunstanton.
Hunstanton? Un posto di unni?…
Fuori dalla finestra, è spuntato il
sole. Una passeggiata? Perché no?
Si mette il cappotto, scende da
basso, poi gli capita di passare
davanti al Bishop’s Hostel.
Sul pianerottolo di Ramanujan
incontra la cameriera. «Non si è
visto, signore» gli dice. «E tutto
quel cibo che va a male.»
«Perché non lo mangia lei?»
La donna arrossisce. «Oh,
signore, è roba un po’ strana quella
che mangia. Avrei paura.»
«Be’, mi faccia sapere quando
torna, le spiace? O lo dica a Mrs.
Bixby.»
«Certo, signore.»
Quella sera, nella Hall, Russell
gli chiede cos’è successo. «Sospetto
che sia andato a Londra» dice
Hardy. «Niente di cui
preoccuparsi.» Ma più tardi,
quando torna nella New Court,
trova il giovane Ananda Rao che
aspetta ai piedi delle scale in tocco
e toga.
«Non è a Londra» dice Ananda
Rao. «Ho telegrafato a Mrs.
Peterson. Non è nella sua
pensione.»
«Non mi preoccuperei. Sono
sicuro che sta bene.»
Ananda Rao non si muove.
Spera forse che Hardy lo inviti di
sopra?
«Bene, buonanotte» dice Hardy
alla fine.
«Buonanotte signore» dice
Ananda Rao. E si allontana. C’è
un’espressione di rammarico sul
suo viso mentre s’incammina verso
il passaggio ad arco?
Hardy chiude la porta. Forse sta
perdendo un’occasione. In questo
caso, era un’occasione che era
meglio perdere. Dopotutto Ananda
Rao è uno studente, e “immaturo”,
per giunta, a detta dello stesso
Ramanujan.
5

Passano quattro giorni senza alcun


segno di Ramanujan. Alla fine
Hardy dice a Mrs. Bixby di dare
alla cameriera di Ramanujan il
permesso di buttare via il cibo della
loro cena, che incomincia a
puzzare. Manda un biglietto a
Chatterjee, chiedendo se ha
qualche notizia. “No, non ho
saputo più niente” risponde
Chatterjee. “Però una persona che
conosce Ramanujan meglio di me
mi ha detto che sparizioni del
genere non sono insolite per lui. Lo
ha già fatto altre volte.”
Poi arriva un altro biglietto, di
Mrs. Neville.
Caro Mr. Hardy,
sono profondamente addolorata
nell’apprendere da mio marito della
“cena” di Mr. Ramanujan la settimana
scorsa e della sua successiva
scomparsa. Ancor più del possibile
motivo della sua scomparsa (una
questione su cui posso fare solo delle
ipotesi), mi addolora l’impressione che
non si stia facendo niente al riguardo.
Non le è venuto in mente che potrebbe
giacere malato o ferito sul ciglio di una
strada? Aveva con sé del denaro
quando se n’è andato? Non sarebbe il
caso di avvertire la polizia?
La prego di informarmi al più presto
sulle misure che sono state prese. Se
non ho sue notizie prima di sera,
provvederò io stessa a informare la
polizia.
Alice Neville
Brutta strega ficcanaso. Come se
fossero affari suoi! Però scrive la
risposta richiesta.
Mrs. Neville,
sebbene, naturalmente, io capisca la
sua preoccupazione per il benessere di
Mr. Ramanujan, la pregherei di non
trarre conclusioni affrettate. È un
uomo adulto e capace di badare a se
stesso. E, a quel che so, non è insolito
per lui “sparire” di quando in quando.
Il genio ha spesso strane abitudini.
Finché non ci sarà un motivo
ragionevole per farlo, non vedo cosa ci
sia da guadagnare a contattare la
polizia, se non umiliare Mr.
Ramanujan e indurlo a credere che
qui, nel nostro paese, non è libero di
andare dove gli pare e di fare quel che
meglio crede.
G.H. Hardy
Non arriva nessuna risposta, non
da Alice perlomeno. Però scrive
Gertrude.
Caro Harold,
Alice è in uno stato di estrema
ansietà per Ramanujan, e il tuo
biglietto non ha contribuito a
sollevarla. Non puoi fare qualcosa per
alleviare la sua preoccupazione? E se
non puoi, prometti di non peggiorare
le cose? Alice è molto sensibile e si
preoccupa veramente per Ramanujan.
Con affetto, tua sorella
Gertrude
Questa poi! E da Gertrude, per
giunta! Vuoi vedere che Alice è
riuscita a conquistarla? Gertrude,
lui lo sa bene, non tollera l’isteria.
Allora com’è che tutt’a un tratto è
diventata la paladina di Alice
Neville?
Mah… le donne non
smetteranno mai di stupirlo.
6

Martedì, una settimana dopo la


cena, Hardy sente bussare alla
porta. Va ad aprire e si trova
davanti Chatterjee.
«Ho ricevuto un telegramma da
Ramanujan» dice Chatterjee.
«Grazie a Dio. Dov’è?»
«A Oxford.»
«E cosa ci fa a Oxford?»
«Non lo dice. Mi chiede solo di
spedirgli cinque sterline.»
«Sant’Iddio!»
«L’indirizzo è quello di una
pensione. Sospetto che debba
pagare il conto e il biglietto di
ritorno per Cambridge.» «Ha già
spedito il denaro?»
Chatterjee guarda il pavimento.
«Potrei farlo tra una settimana»
dice, «ma al momento, vecchio
mio, non ho cinque sterline di
troppo… i preparativi per il
matrimonio… Potrei disporre di
due…»
«Nessun problema» dice Hardy.
«Le spedisco io. Qual è
l’indirizzo?»
Chatterjee gli porge un foglietto
di carta. Vanno insieme all’ufficio
postale. «Appena ha sue notizie me
lo faccia sapere, la prego» dice
Hardy dopo, mentre stanno
uscendo in strada.
«Senz’altro. È bello da parte sua
dargli una mano.»
«E mi spiace per la cena… Spero
che Miss Rudra non si sia offesa.»
«È una ragazza semplice. Cose
simili non la turbano.»
Si stringono la mano e si
separano. Hardy ritorna nei suoi
appartamenti. Per tutto il
pomeriggio e la sera combatte
l’impulso di passare dal Bishop’s
Hostel, o quello, ancor più forte, di
controllare l’orario dei treni e
aspettare alla stazione i treni da
Oxford.
Invece chiede a Mrs. Bixby di
raccomandare alla cameriera di
informarla appena Ramanujan sarà
tornato.
«È tornato ieri sera tardi,
signore» gli dice Mrs. Bixby la
mattina seguente.
«Ottimo. Grazie» dice Hardy.
Poi si dà un gran daffare a
sistemare le cose nella stanza per
dare l’impressione che, nel
frattempo, non ha sentito la
mancanza di Ramanujan. Giornali
aperti sul tavolo, numeri sulla
lavagna, carta sulla scrivania.
Come si aspettava, verso le nove
bussano alla porta. Hardy va ad
aprire.
«Buongiorno» dice Ramanujan.
«Buongiorno» dice Hardy.
Ramanujan entra. Tiene in
mano quella che sembra essere una
pagina strappata dal “Daily Mail”,
sporca e sgualcita. «Credo di aver
fatto dei perfezionamenti alla
formula per la funzione di
partizione» annuncia.
«Eccellente. Sono ansioso di
vederli.»
Ramanujan srotola la pagina del
“Daily Mail”, i cui margini, vede
Hardy, ha riempito di piccole cifre
e simboli, scritti nella sua familiare
grafia ordinata. «È lungi dall’essere
completa. Tuttavia, con valori bassi
ottengo un risultato che è
abbastanza vicino a p(n). Con uno
scarto del cinque per cento.»
«Sì, anch’io ho ottenuto più o
meno lo stesso risultato, lavorando
da solo, mentre eri via.»
«Ah sì? Bene, allora…»
Ramanujan ripiega il foglio di
giornale; si siede. Hardy gli si siede
di fronte.
«Il problema è che ci occorre
una tavola di valori più alti per
avere soluzioni più accurate a cui
confrontare i risultati della
formula.»
«Proprio così.» Hardy tace per
qualche secondo. Poi dice:
«Ramanujan, non voglio
intromettermi, e tu non sei
assolutamente obbligato a
rispondere, ma… Insomma,
eravamo tutti piuttosto preoccupati
quando te ne sei andato. Ma
dimmi, perché sei andato a
Oxford?»
Ramanujan abbassa gli occhi e si
torce le mani.
«È stato per via delle signore»
dice dopo un momento. «Le
signore?»
«Miss Rudra e Miss
Chattopadhyaya. Non hanno
voluto accettare il cibo che offrivo.»
«Ma lo hanno accettato.»
«Ho offerto loro una terza
scodella di rasam e non l’hanno
accettata. Ero ferito e offeso, e sono
uscito per la disperazione. Non
volevo tornare. Non finché loro
erano lì. Ma avevo un po’ di soldi
in tasca, così sono andato alla
stazione e ho preso il primo treno
per Oxford.»
«Ma le signore avevano già preso
due scodelle. Non so come sia in
India, ma devi ricordare che, per lo
meno in Inghilterra, alle signore
piace farci credere che, insomma,
che hanno stomaci meno capaci
dei nostri. Pensano che sarebbe
maleducato, poco femminile,
mangiare troppo.»
«Ho lavorato più di una
settimana per preparare quel pasto.
Mi hanno offeso. Non potevo
restare lì seduto mentre…»
«Ma almeno avresti potuto
farmelo sapere. Il fatto è che è
stato un bell’inconveniente, la tua
assenza.»
«Non sono stato in ozio però.
Come ho detto, ho apportato dei
miglioramenti alla formula. E
adesso, se solo riuscissimo a
ottenere alcuni valori alti per la
funzione, saremmo in grado di
verificarla.»
«Oh, non preoccuparti per
questo. Chiederemo al maggiore
MacMahon.»
«Chi è il maggiore MacMahon?»
chiede Ramanujan.
«Lo vedrai presto» dice Hardy.
«È molto curioso di conoscerti.»
7

Chi è il maggiore MacMahon? È il


genere d’uomo che sarebbe
perfettamente rappresentato dai
suoi titoli. Tra le altre cose è, o è
stato, vicedirettore dell’Ufficio
metrico del ministero del
Commercio, membro del Comitato
internazionale dei Pesi e delle
Misure, segretario generale della
British Association, Fellow della
Royal Society, ex presidente della
London Mathematical Society e
della Royal Astronomy Society,
membro del Permanent Eclipse
Committee e consigliere della
Royal Society of Art.
Il maggiore MacMahon è figlio
del generale di brigata P.W.
MacMahon. Per alcuni anni militò
nell’Artiglieria Britannica a
Madras, dove partecipò a una
famosa spedizione punitiva contro i
Jawaki Afridis in Kashmir. Al suo
ritorno in Inghilterra fu nominato
professore di matematica
all’Artillery College di Woolwich,
dove adesso sta sgobbando
Littlewood. Poi si è ritirato
dall’esercito e ora vive con Mrs.
MacMahon in Carlisle Place a
Westminster. Ha enormi favoriti, e
sarebbe il primo ad ammettere che
niente gli piace di più di un
bicchiere di buon porto e di una
partita a biliardo.
Nel marzo 1916, Hardy porta
Ramanujan a conoscerlo. Quando
arrivano a casa sua, la cameriera li
fa accomodare non in salotto, ma
nella sala del biliardo, il cui
pavimento è coperto da tappeti
indiani saccheggiati, con ogni
probabilità, durante quella famosa
incursione in Kashmir. Tutti i
mobili – il divano, la poltrona
Queen Anne con i suoi piedi a
zampa, e lo stesso tavolo da
biliardo – grondano di frange con
nappe rosse e oro. Da sopra il
caminetto, una testa di cervo
guarda giù con quell’espressione
tra il disprezzo e la noia che
sembra la specialità dei
tassodermisti. Ramanujan la
guarda, poi storna gli occhi,
chiaramente sconcertato.
«Non hai mai visto un trofeo di
caccia?» chiede Hardy.
Ramanujan scuote la testa.
«In Inghilterra loro uccidono per
sport. Dico “loro” perché io non
parteciperei mai a una forma di
svago così barbara.»
«E poi lo mangiano il cervo?»
«Solo qualche volta.»
Il maggiore MacMahon entra
nella stanza, accompagnato dalla
sua signora, la quale si premura di
annunciare che non capisce
un’acca di matematica e deve
andare in cucina a sovrintendere a
una preparazione di conserve.
Dopodiché lascia la stanza. Il
maggiore invita Hardy e
Ramanujan ad accomodarsi sul
divano. Apre una scatola di sigari,
ne prende uno e lo accende; offre
la scatola a Hardy e a Ramanujan,
che declinano entrambi. «Bene,
vuol dire che fumerò da solo» dice
con tono lievemente seccato.
«Allora, Mr. Ramanujan»
soffiando il fumo nella sua
direzione, «ho saputo che lei è un
calcolatore fuoriclasse. Come forse
le avrà detto Hardy, anch’io sono
piuttosto bravo con l’aritmetica
mentale. Che ne dice di una
piccola gara?»
«Una gara?»
«Sì, una gara.» Il maggiore si
alza di nuovo in piedi, spinge una
lavagna a rotelle da un angolo
della stanza. «Ecco cosa voglio fare,
Hardy. Voglio che lei nomini un
numero, un numero qualsiasi a suo
piacimento, e poi vedremo chi di
noi due riesce a scomporlo per
primo.»
Lancia un pezzo di gesso a
Ramanujan, che se lo lascia
sfuggire.
«Lei si metta qui, vicino a me, e
quando ha una risposta la scriva
sulla lavagna.»
Ma Ramanujan è chino sul
pavimento a cercare il pezzo di
gesso, che è rotolato sotto il
divano. Solo dopo averlo
recuperato, va alla lavagna.
«Ci siamo» dice il maggiore.
«Primo numero?»
«Diciamo… 2.978.946.»
Passano alcuni secondi. Poi
entrambi gli uomini scrivono col
gesso.
Il maggiore finisce per primo – la
risposta è 2 × 32 × 167 × 991 –
anche se Ramanujan non è molto
lontano. «Siete praticamente pari?»
chiede Hardy.
«No, credo che il maggiore mi
abbia battuto» dice Ramanujan.
«Allora continuiamo.» E Hardy
dice un altro numero. E poi un
altro. Il più delle volte, vince il
maggiore.
Alla fine Hardy lancia il numero
4.324.320.
Ramanujan scrive la risposta
all’istante: 25 × 33 × 5 × 7 × 11 ×
13.
«Ma non vale, Hardy» dice il
maggiore. «Questo è uno dei suoi
numeri altamente composti. È
avvantaggiato.»
«Non vedo perché dovrebbe
avere importanza» dice Hardy.
«Anche se è vero che li ha
scomposti fino… a che numero
Ramanujan?»
«6.746.328.388.800» dice
Ramanujan.
«Sì, ma ne ha saltato uno» dice il
maggiore.
«Ne ha saltato uno?»
«Già. Non vedevo l’ora di
dirvelo.» E adesso il maggiore si
fruga in tasca ed estrae un foglietto
di carta stropicciato.
«29.331.862.500» legge. Porge il
foglietto a Ramanujan, che lo
guarda con un’espressione
sbigottita.
«Come lo ha trovato?» chiede
Hardy.
«È la mia specialità» dice il
maggiore. «È per questo che siete
venuti qui, no?»
La combinatoria è una vecchia
scienza. Come spiega il maggiore,
affonda le sue radici nel paese di
Ramanujan, in un trattato indiano
del VI secolo avanti Cristo, il
Sushruta Samhita. «In realtà è un
libro di cucina» dice il maggiore.
«Allora, quel che fa questo testo è
di prendere i sei sapori diversi, che
sono amaro, acido, dolce, salato,
piccante… Maledizione, qual è il
sesto? Vediamo. Amaro, acido,
dolce, salato, piccante, e…»
«Aspro?»
«Sì, aspro. Grazie.» Mentre
parla, prepara una partita a
biliardo.
«Allora, dicevo, il trattato
prende i sei sapori e li combina,
prima uno alla volta, poi due alla
volta, poi tre, e ti ritrovi con un
totale di sessantaquattro
combinazioni possibili anche
contemplando l’aggiunta della
cucina inglese, che è del tutto
insapore. Ah! E questa, in sostanza,
è analisi combinatoria
enumerativa. Solo che ovviamente
i nostri metodi odierni sono in
qualche modo più sofisticati.» Il
maggiore mette una palla in buca.
Tira di nuovo, ma sbaglia e passa la
stecca a Ramanujan.
«Ha mai giocato a biliardo?»
«No.»
«È facile. Basta che tenga la
stecca così» si piazza dietro
Ramanujan, lo allinea, «e miri alla
palla bianca.»
Ramanujan si concentra. Con
sorprendente perizia, punta la
stecca, colpisce, e manda in buca la
palla. «Bravo» dice il maggiore
applaudendo. «Adesso tiri di
nuovo.» Di nuovo, Ramanujan
prende la mira. Questa volta, però,
inciampa e per poco non strappa il
tappeto verde con la stecca. La
palla bianca rimbalza oltre il bordo
del tavolo, rotola sul pavimento e
infine va a sbattere contro un piede
a zampa della poltrona.
«Niente paura» dice il maggiore.
«È la sua prima volta.»
Ramanujan dice che
preferirebbe osservare e imparare,
così Hardy prende la stecca al suo
posto. Mentre giocano, lui e il
maggiore parlano di partizioni.
Quello che stanno cercando di
ottenere Ramanujan e Hardy è un
teorema: la famosa macchina in
cui, inserendo la palla da biliardo
contrassegnata da un numero, la si
vedrebbe emergere, pochi secondi
dopo, contrassegnata da un altro.
Naturalmente, poiché il teorema
sarà derivato da una formula
asintotica, è molto probabile che il
numero non sia esatto; dovrà
essere arrotondato. Questo
preoccupa Ramanujan più di
quanto non preoccupi Hardy. «La
grande debolezza dei giovani
matematici alle prese con un
problema numerico» dice Hardy «è
che non riescono a capire dove
l’accuratezza è essenziale e dove è
superflua.»
«Si potrebbe pensare anche alla
combinatoria come a una
macchina» dice il maggiore. «Un
tipo diverso di macchina, però.
Avete sentito parlare del motore
analitico di Babbage? Non lo ha
mai costruito. E la figlia di Byron –
era una matematica, sapete, e
lavorava con Babbage – disse
dell’invenzione:» il maggiore si
schiarisce la voce «“Per fare un
esempio molto appropriato,
potremmo dire che il motore
analitico tesse disegni algebrici,
proprio come il telaio jacquard
tesse fiori e foglie.” Un modo
elegante di dirlo, vero? Del resto
non sorprende, venendo dalla
figlia di Byron.» Tira di nuovo e
manda la palla in buca. «Ebbene, è
quel che faccio io. Io tesso disegni.
Ho un motore analitico tutto mio,
proprio qui.» E si batte la fronte
con un dito.
«E mi par di capire che
ultimamente lei ha tessuto numeri
di partizione, o sbaglio?» chiede
Hardy.
«No, non sbaglia. Sto avanzando
sulla fila dei numeri, in modo
approssimativo, saltandone
qualcuno qua e là.»
«Fin dove è arrivato?»
«Ieri ho trovato il p(n) per 88.»
«Quanto le ci è voluto?»
«Qualche giorno.»
«E qual è la risposta?»
«Non si aspetterà che me la
ricordi a memoria!» Il maggiore
ridacchia. Poi si mette la destra sul
petto, stende il braccio sinistro e
declama: «44.108.109».
«44.108.109» ripete Ramanujan,
con l’aria di coccolare il numero.
«Un uomo che mi va dritto al
cuore» dice il maggiore, dandogli
una pacca sulla schiena.
8

Nel mezzo di tutte le grandi


tragedie, le piccole spiccano con un
curioso pathos. Per esempio,
Littlewood apprende che le
affittacamere di Cambridge sono
sull’orlo dell’indigenza, dal
momento che rimangono così
pochi studenti ad affittare le loro
stanze. «“Frattanto, comunque”»
legge ad alta voce dal “Cambridge
Magazine”, «“potrà essere di
consolazione a molti, nell’ora del
bisogno, sapere che tutto ciò che è
accaduto si è svolto secondo un
ordine perfetto, e in stretta
conformità con le leggi, tanto della
logica che della filologia: gli
occupanti sono partiti per
diventare tenenti”.»
Anne non ride. È mattina
inoltrata nell’appartamento vicino
a Regent’s Park. Dall’altra parte
della stanza rispetto a dove è
seduto Littlewood, al di là di un
fascio di luce solare che penetra
dalla finestra come una sciabola,
Anne si sta appuntando i capelli.
«Se vuoi sapere la mia opinione,
penso che dovrebbero trasformare
tutte quelle pensioncine in
altrettanti bordelli» dice
Littlewood.
«È piuttosto insensibile da parte
tua» dice Anne, togliendosi una
forcina di bocca. «Quelle donne
dipendono dagli studenti per la
loro sussistenza.»
«Era solo una battuta» dice lui.
«Che fine ha fatto il tuo senso
dell’umorismo?»
«Niente mi sembra molto
divertente al momento.»
«Se non riesci a ridere diventi
matta, credi a me» dice Littlewood.
E si accende una sigaretta. Sebbene
Anne sia quasi del tutto vestita, lui
è ancora in shorts e canottiera. Sta
rimandando più che può il
momento in cui dovrà indossare
l’uniforme, perché indossare
l’uniforme significa che la sua
licenza è davvero finita e che deve
tornare a Woolwich. E non solo:
Anne dovrà tornare a Treen.
Sempre che “dovere” sia la parola
giusta, visto che a quanto pare
sembra piuttosto ansiosa di
andarsene. Caspita, avrei detto
(pensa) che sarebbe stata felice di
passare tre giorni con me. E invece
è stata tutta una preoccupazione.
Preoccupazione per i suoi figli.
(Uno aveva il mal di denti.)
Preoccupazione per il cane.
Preoccupazione che suo marito
scoprisse che in realtà non era
andata a trovare sua sorella nello
Yorkshire. E non era neppure
molto desiderosa di sesso, cosa che
di per sé non è una catastrofe –
hanno superato da un pezzo la fase
in cui il sesso è una necessità per
loro – tuttavia avrebbe dovuto
capire, almeno era auspicabile, che
dopo tutte quelle settimane
rinchiuso con un branco di uomini
avrebbe gradito la possibilità di
accarezzare un corpo femminile.
Cosa che Anne non gli ha concesso
granché. Ha forse smesso di
amarlo?
Il pensiero lo trafigge come il
raggio di sole trafigge la finestra, lo
trapassa da parte a parte.
Impossibile. Impossibile.
Lei finisce di acconciarsi i capelli.
Lui spegne una sigaretta, ne
accende un’altra. «Vuoi fare
colazione?» le chiede.
«No, grazie. Farò tardi al treno.»
«Del tè allora?»
«Per carità, il solo pensiero mi
dà la nausea.»
Littlewood ride. «Si direbbe che
sei incinta.»
«In effetti lo sono.»
La sigaretta gli penzola dalle
labbra. «Cosa hai detto?»
«Non intendevo parlartene, ma
visto che hai toccato
l’argomento…»
«Incinta!»
«Non essere così sorpreso!
Succede, alle donne.»
«Ma come…»
Lei finisce di abbottonarsi la
camicetta. «Jack, so che i ragazzi
della tua generazione sono
cresciuti nella più totale ignoranza
delle leggi di natura, ma santo
cielo, credevo che a questo
punto…»
«Non essere ridicola. Certo che
so.» Si alza, si guarda intorno come
se avesse dimenticato qualcosa. Poi
si rende conto che quel che ha
dimenticato è la gioia. «Tesoro»
dice, e l’abbraccia. «Ma è
meraviglioso, meraviglioso!»
«Calmati.» Lo allontana da sé.
«Complica le cose.»
«Perché?»
«Arthur.»
«Non mi dirai che tu e
Arthur…»
«Certo che no. Non essere
stupido. Arthur e io non
facciamo… insomma, da anni. Ed
è proprio questo il guaio. Capirà
che ci sei di mezzo tu. E le cose
potrebbero mettersi male.»
«Ma non dovremmo sposarci?»
Si gira a guardarlo. «Ma cosa
dici, Jack?»
«Be’, perché no? Tu e Arthur,
come hai detto tu stessa, sono anni
che non…»
«Ma non hai mai parlato di
matrimonio finora.»
«Lo so, ma adesso…»
«Perché sono incinta?»
«No, certo che no. È che il fatto
che tu sia incinta… mi fa capire
quanto ti amo, quanto sia
importante tutto questo.»
«Potresti dirlo con un po’ più di
convinzione.»
«Sono assolutamente convinto.»
«Non si direbbe.»
Ha ragione. Non sembra così
convinto. Presto, deve trovare un
motivo per cui lei non lo ritenga
spregevole.
«È solo perché è una tale
sorpresa! Non ho ancora avuto il
tempo di abituarmici.»
Anne si mette la giacca. «Allora,
vediamo di chiarire una cosa» gli
dice. «Non ho intenzione di
divorziare da Arthur o di sposarti.
E se ci pensi bene, capirai che ho
ragione. Tu e io non siamo fatti per
il matrimonio, almeno non tra noi.
Noi siamo fatti per vivere al di
fuori delle regole.» All’improvviso
gli mette una mano sulla guancia.
«Non è che non ti ami. Anzi, forse
ti amo troppo.» O forse – ma
questo lui non glielo dice – è che
ami troppo Treen; ami troppo
questa tua vita nella quale io vado
e vengo, ma non ci sono mai in
permanenza. Tu non mi vuoi
sempre lì. E, per essere onesti,
nemmeno io voglio esserci sempre.
«Cosa dirà Arthur? Si
arrabbierà?»
«Probabilmente. E se si
arrabbia… be’, non c’è niente che
si possa fare, non credi?» Prende il
cappello. «Il bambino sarà allevato
come fosse suo. Lui, o lei, penserà
ad Arthur come a suo padre, e a te
come allo zio Jack. Esattamente
come gli altri.»
Littlewood si porta una mano
alla fronte. Con suo grande
stupore, sta piangendo. «Non so
cosa dire» mormora. «Non so come
abituarmi a questo.»
«Ti sei abituato a cose peggiori.
Lo abbiamo fatto tutti.» Lo bacia
sulla fronte. «E adesso devo andare
o perderò il treno.»
«Ma è anche figlio mio.» Lo dice
come se se ne fosse appena reso
conto.
«Figlio nostro» lo corregge
Anne.
«Non cambierà niente?»
«Oh, cambierà tutto.» Adesso
Anne è sulla porta. «Anche se non
necessariamente in peggio.»
«Anne…»
«No» dice lei con fermezza,
improvvisamente sostenuta. E poi
se ne va.
9

Senza Anne l’appartamento sembra


squallido, finto. Un posto per
convegni amorosi, non solo il suo.
Altri uomini ci vengono, lo sa. Con
altre donne. E, quanto a questo,
anche con altri uomini.
Il più rapidamente possibile si
lava, indossa l’uniforme, prepara la
sua sacca. Scendendo le scale,
incrocia una donna che porta un
pacco della drogheria. Lo squadra
da capo a piedi come a dire: so da
quale appartamento stai uscendo.
Ha una voglia scarlatta sulla
guancia sinistra, una specie di
rossore permanente che, per
quanto strano, Littlewood trova
attraente. Ma quando si offre di
aiutarla con il pacco della spesa, lei
dice: «No, grazie» e sale in fretta le
scale.
Littlewood esce in strada. Fa
freddo e sta piovigginando. Una
raffica di vento lo colpisce in faccia
come un pugno, come un colpo da
KO che sa di aver meritato; che non
solo merita, ma desidera. Presto il
lato sinistro del suo viso è
intorpidito. Cammina – strada
dopo strada senza nome – poi
smette di camminare e guarda
l’orologio. Mancano quattro ore e
venti minuti al suo rientro a
Woolwich, un’ora e venti minuti al
suo appuntamento con Hardy alla
sala da tè vicino al British
Museum, sette minuti al treno di
Anne. E come farà ad affrontare
Hardy – il freddo Hardy asessuato
– e parlare di matematica, o di
politica del Trinity, o di cricket,
adesso che Anne ha aperto uno
squarcio nel tessuto stesso della sua
vita? La sua vita: una superficie che
si tende senza strapparsi, una
superficie “le cui proprietà spaziali
si conservano sotto deformazione
bicontinua”. Topologia. È così che
l’ha sempre considerata, fino a
stamattina. Ma poi Anne l’ha
strappata a metà. Vuole una birra.
Non può affrontare Hardy senza
una birra.
Entra nel primo pub che vede. È
mezzogiorno in punto. Di questi
tempi, grazie alla Defence of the
Realm Act, i pub sono aperti solo
da mezzogiorno alle due e trenta e
poi dalle sei e trenta alle undici.
Butta giù una pinta, poi ne ordina
un’altra. Pensa: cosa sono io per
lei? Per lui Anne è un mistero. Lo
è sempre stato. Si erano conosciuti,
più o meno per caso, cinque anni
prima, quando lui era a Treen in
vacanza. C’era un garden party e
lei ci era andata con Chase, che
aveva sentito parlare di Littlewood
da Russell e si mise a parlare con
lui. Ovviamente, Chase voleva fare
colpo, ma fu sua moglie, che
giocava con un cane dimentica di
tutto, a fare colpo. Mentre Chase
parlava, lei stava facendo ballare il
cane tenendolo ritto sulle zampe
posteriori e ci riuscì per
quarantacinque secondi buoni –
Littlewood li contò –
semplicemente facendogli
dondolare davanti al muso un
boccone immaginario, che fingeva
di tenere tra le dita. Aveva una
pelle ambrata e lentigginosa. Le
scarpe, su di lei, sembravano in
qualche modo sbagliate. Pareva
talmente parte della costa fuori
dalla finestra, dei marosi e della
spiaggia e degli scogli, che
Littlewood credette fosse nata e
cresciuta a Treen, mentre invece
era cresciuta nelle Midlands. Era
venuta a Treen solo dopo aver
sposato Arthur, alla cui famiglia
apparteneva la casa. «Non ci crede
nessuno» gli disse quando
finalmente riuscirono a parlare,
«ma fino a diciassette anni non
avevo mai visto il mare. Poi sono
venuta qui, e nel momento stesso
in cui scendevo dalla carrozza ho
capito di aver trovato il mio posto.
Mi considero estremamente
fortunata. Ho una teoria: che per
ciascuno di noi c’è un posto al
mondo a cui apparteniamo. Solo
pochissimi di noi lo trovano,
perché Dio è capriccioso. No, non
capriccioso. Maligno. Ci sparpaglia
sulla terra a caso, non ci radica nei
nostri posti. Così potresti crescere a
Battersea senza mai sapere che il
tuo posto vero, il posto a cui
appartenevi, era un villaggio in
Russia, o un’isola al largo della
costa americana. Credo sia per
questo che tanta gente è così
infelice.»
«Ed è felice» chiese Littlewood,
«adesso che ha trovato il suo
posto?»
«Sarei più felice» disse lei, «se
trovarlo non mi avesse costretto a
rinunciare a qualcos’altro. Ma forse
siamo tutti condannati a simili
compromessi.»
La mattina dopo averla
conosciuta, con suo grande
rammarico Littlewood dovette
rientrare a Cambridge. Però era
ansioso di tornare a Treen e
quando, qualche settimana dopo,
scrisse per dirle che progettava
un’altra visita, lei gli propose di
ospitarlo a casa sua. Littlewood
arrivò e, guarda caso, per una felice
quanto sospetta circostanza, Arthur
non c’era. All’ultimo minuto
un’emergenza medica lo aveva
trattenuto a Londra per il fine
settimana.
«Sei tu il mio posto» le disse
quella notte. Era vero. Per quanto
amasse Treen, non era a Treen che
apparteneva, ma ad Anne. Lei
sembrava un’estensione della costa,
come se una spiaggia, sfuggendo
alle avance di un dio marino,
avesse assunto forma umana e
fosse emersa sulla terra su tremule
gambe di sabbia. In questo mito
inventato da Littlewood, era facile
riconoscere la naiade marina dalla
scia di sabbia che si lasciava sempre
dietro, per quanto all’interno si
inoltrasse, una scia che si poteva
seguire a ritroso, come una traccia
di briciole, fino alle scogliere e alle
spiagge della Cornovaglia. Fin da
quella prima notte, in qualche
modo Littlewood seppe che
avrebbe passato quel che gli restava
della sua vita, o gran parte di essa,
cercando di ripercorrere quella scia
fino alla sua fonte.
Dopodiché si adattarono a una
routine adultera. Dedizione
significava per entrambi routine.
Quasi ogni venerdì Littlewood
prendeva il treno per Treen. Lei
andava a prenderlo alla stazione,
gli serviva una cena tardiva in
salotto. Il giorno dopo, alle otto
precise, caffè a letto, poi, nella
mattinata, lavoro sulla veranda,
seduto su una poltrona malandata,
i piedi su un ceppo e le sue carte
tenute ferme da sassi raccolti sulla
spiaggia. A mezzogiorno faceva
una nuotata di venti minuti esatti,
cronometrati. Poi il pranzo. E
dopo, un riposino. Nel pomeriggio,
un’altra nuotata o, se faceva troppo
freddo, una passeggiata. Dopo il tè,
un solitario. Dopo il solitario, cena
con birra. Dopo cena, altre partite
a carte, altri giochi, a volte con i
bambini. E altra birra.
Altra birra! Ecco di cosa ha
bisogno! Ordina una terza pinta.
Quei fine settimana prima della
guerra dormiva sempre in una
stanza degli ospiti al secondo
piano, lontano dai bambini. Anne
lo raggiungeva dopo averli messi a
letto, e tornava nella sua stanza
appena prima dell’alba. Arthur (in
qualche modo era stabilito) veniva
il terzo weekend di ogni mese, e
quel weekend (anche questo era in
qualche modo stabilito) Littlewood
aveva impegni pressanti che lo
tenevano lontano. Infatti era
chiaro che Anne aveva stipulato un
contratto con Arthur, che da
qualche parte nel chiuso della
camera che dividevano (a quanto
sapeva, la dividevano) c’era stato
uno scambio di parole, di
recriminazioni forse, erano state
intavolate trattative e concordate
condizioni. Quali fossero
esattamente queste condizioni,
Littlewood non lo chiese: faceva
parte del loro accordo che lui non
lo chiedesse. Né era tollerabile
alcuna protesta. Infatti intuiva che
se Anne accettava una certa
equiparazione, un pareggio tra
piacere e sacrificio, era perché
credeva che questo pareggio
facesse parte dell’ordine naturale
delle cose. Anne voleva Treen e
voleva Littlewood. E li ottenne
entrambi, ma non avrebbe mai
rivelato a quanto doveva
rinunciare in cambio.
E adesso era incinta.
Finisce la terza pinta; guarda
l’orologio. Tra venti minuti dovrà
incontrare Hardy. Bella seccatura.
Comunque, paga il conto ed esce
nel freddo. Di nuovo il vento lo
colpisce in faccia. Adesso è la
guancia destra che si intorpidisce.
Passa un’automobile, così vicina
che sente il metallo sfiorargli la
pelle. Il conducente gli grida:
«Maledetto idiota, guarda dove
vai!».
“Potresti dirlo con un po’ più di
convinzione.”
Avrebbe potuto? Suppone di sì.
“Sposami” avrebbe potuto dire, in
ginocchio. Se l’avesse implorata,
avrebbe ceduto? Aveva lanciato
solo quella piccola allusione, aperto
una porta, solo per un istante, una
porta che lui avrebbe potuto aprire
del tutto. Ma non lo aveva fatto, e
adesso, lo sa, la porta si è richiusa.
Ha perso la sua occasione, e la
naiade marina è tornata alla sua
spiaggia.
Un’altra automobile sfreccia via.
Dall’altra parte della strada, una
donna sta portando a spasso un
cane che assomiglia a quello che
Anne aveva fatto ballare sulle
zampe posteriori così a lungo.
Proprio come faceva ballare lui.
E dov’è il suo posto? Il posto a
cui lui – con o senza Anne –
appartiene?
Si ferma; chiude gli occhi. Vede
un caminetto, una finestra
attraverso le cui vecchie vetrate
intravede architravi e ombre
d’alberi. Il Trinity è antico. Esisteva
da decenni prima che lui ne
varcasse incerto i cancelli.
Indubbiamente continuerà a
esistere per altri decenni dopo che
la sua bara verrà portata attraverso
quegli stessi cancelli. (Sempre che
qualcosa continui; che lui non
muoia prima; che i tedeschi non
vincano la guerra.) È dunque il
Trinity il suo posto? Se è così, è
un’illusione. Dopotutto, gli
appartamenti che chiama suoi lo
sono solo come lo è il pezzo di
marmo della Roma Imperiale che
ha sgraffignato al Foro. Queste
cose ci sopravvivono. Le
reclamiamo, le teniamo in casa, ne
facciamo la nostra casa. Ma solo
per un certo tempo. Eppure non
può fare a meno di pensare a
quegli appartamenti come ai “suoi”
appartamenti.
Stranamente, nella sua
giovinezza non pensava quasi mai a
Dio. Ma poi ha conosciuto Anne, e
Hardy, e adesso è convinto che
Dio, sul Suo trono, trascorra le sue
ore libere a tracciare i percorsi più
rapidi per portare i Suoi sudditi
all’infelicità. Anime umane
scaraventate, volenti o nolenti,
sulla terra, connivenze con la
natura per assicurare la pioggia alle
partite di cricket. E nel suo caso?
La passione per una donna che
non potrà mai possedere,
combinata con l’attaccamento a un
posto che non sarà mai suo. Una
specie di condanna al celibato
perpetuo.
Ancora una volta, guarda
l’orologio. Venti a mezzogiorno.
Presto dovrà incontrare Hardy. Lo
spaventa? No. Anzi, scopre con
una certa sorpresa che non vede
l’ora. Perché anche se non sposerà
mai Anne, anche se non avrà mai
un figlio che porti il suo nome,
Hardy ci sarà sempre, non andrà
da nessuna parte. Hardy è
permanente. Coniuge o
collaboratore, in fondo è lo stesso.
E c’è del lavoro da fare. C’è
sempre, immancabilmente, del
lavoro da fare.
10

Arriva per primo alla sala da tè.


Prende un tavolo; attraverso la
vetrata, osserva Hardy che, in
impermeabile e bombetta, sguscia
verso la porta. Sguscia, sì, è
l’espressione giusta per Hardy. È
flemmatico e lustro, come una
lontra. Entra nella sala, chiude
l’ombrello, gli fa un cenno di saluto
col mento. «Littlewood» dice,
togliendosi il guanto da una mano,
che Littlewood stringe. Com’è
asciutta, quella mano! Il che
contraddice l’idea della lontra. Un
uomo magro come un chiodo,
tutto spigoli. Chissà com’è
abbracciarlo? Rabbrividisce al solo
pensiero.
«Scusa il ritardo. Sono appena
sceso dal treno.»
«Non preoccuparti.»
«Va tutto bene, spero.»
Una frase del genere non lascia
possibilità di risposta. «Tutto bene,
certo.»
«Ottimo.»
«Ho qualcosa da mostrarti.»
Littlewood fruga nella sua sacca.
«È il mio primo saggio di balistica,
appena stampato. Vedi quella
macchiolina in fondo all’ultima
pagina?»
«Sì, cos’è?»
«Un piccolo sigma. L’ultima riga
doveva essere “Pertanto s dovrebbe
essere reso il più piccolo
possibile”.» Littlewood si appoggia
allo schienale. «Ebbene, il tipografo
ha fatto il suo lavoro. Deve aver
ribaltato tutte le tipografie di
Londra per trovare un carattere
così piccolo.»
Hardy ride così forte che la
cameriera si gira e gli lancia
un’occhiata.
«Sono contento che lo trovi
divertente» dice Littlewood. «Mi è
mancato avere qualcuno vicino che
capisse perché è così buffo.»
«Forse ti raggiungerò presto. Chi
lo sa? Ormai la coscrizione sembra
cosa certa.»
«E sei proprio tu a dirlo, il
segretario dell’UCD! A proposito,
come va tutta la faccenda?»
«Il college è in subbuglio. Butler
sta cercando di eliminare tutti
quelli che hanno qualcosa a che
fare con noi. Dicono che si stia
dando da fare per buttare fuori
Neville. E nel frattempo nessuno di
noi può lamentarsi, perché ha tre
figli al fronte. Butler, intendo. E il
pover’uomo è fuori di sé. Non
riesce a concentrarsi su niente, non
sente neppure quello che gli dici.»
Arriva la cameriera. «Oh, sì, salve.
Earl Gray per favore.»
«E lei, signore?»
«Lo stesso. Qualcosa da
mangiare, Hardy?»
«No, preferisco di no.»
Il modo in cui dice “preferisco di
no” irrita Littlewood. Adesso, se lui
chiederà qualcosa da mangiare – e
come sembrano allettanti le paste!
– Hardy lo guarderà dall’alto in
basso, con aria di rimprovero. È
pur vero che, dall’ultima volta che
si sono visti, Littlewood ha messo
su qualche chilo… ma insomma,
cosa ci può fare? Non si può
rimanere snelli sui tavoli del
poligono, col rancio a base di
patate.
«Solo il tè. Niente da mangiare.»
«Benissimo, signore.»
La cameriera si allontana.
«Negli ultimi tempi ho pensato
molto al tuo amico Ramanujan»
dice Littlewood. «Sai, non ho mai
capito se credeva veramente a tutti
i suoi discorsi sui sogni matematici.
Ma poi, l’altra notte, ho fatto un
sogno in cui ho visto, con
chiarezza, la soluzione di un
problema. E naturalmente la
mattina dopo l’ho dimenticata.
Così ho cominciato a tenere un
blocco e una penna accanto al
letto, e quando è successo di nuovo
ho scritto tutto e mi sono rimesso a
dormire. Poi la mattina ho
guardato il blocco, e sai cosa avevo
scritto?»
«Cosa?»
«Higamus, bigamus, l’uomo è
poligamo. Hogamus, bogamus, la
moglie è monogama.»
Questa volta Hardy non ride.
«Allora, come mai in città questa
volta?»
«Una faccenda della
Mathematical Society. Stiamo
cercando di aiutare un fisico
tedesco che è rimasto bloccato a
Reading. Adesso è internato.»
«Nobile da parte vostra.»
«Be’, ci sono inglesi bloccati in
Germania e anche i tedeschi
stanno cercando di aiutarli.»
«Strano pensare che noi siamo
qui e loro sono là. Su due fronti
opposti.»
«È solo un cambiamento di
segno. Banale. Il più in meno, e il
meno in più.»
«Credi davvero che si tratti solo
di questo?»
«Questa guerra è ridicola.»
«Però, se vincono i tedeschi…»
«Potrebbe essere un bene per
l’Inghilterra.»
Littlewood sorride. «Una cosa
che mi manca è sentirti fare
affermazioni oltraggiose. Sai che le
affermazioni oltraggiose non sono
permesse a Woolwich?»
«Non dovrebbero, infatti. Sono
la prerogativa di Cambridge.»
«A dirti la verità, quel lato di
Cambridge non mi manca. La
conversazione brillante, le battute
di spirito. Tutta la merce esposta in
vetrina.»
«Perché, Woolwich è meglio?»
«Per lo meno c’è una certa
inevitabile onestà. C’è un lavoro da
fare, e lo fai.»
«Attento, Littlewood, stai
cominciando a parlare come un
ingegnere.»
«Non vedo perché non dovrei
finire i miei giorni come tale. Temo
che perderò il dono dopo i
quarant’anni. E allora quale sarà
l’alternativa? I matematici andati a
male diventano eccellenti
vicecancellieri.»
«Ti vedo bene come
vicecancelliere.»
«Preferirei prendermi una
fucilata.»
«Dato il lavoro che stai facendo
adesso, sicuramente sarai in grado
di puntare l’arma.»
«Sì, questo sì. Anche se non
sono un bravo tiratore. Per questo
mi lasciano risolvere i problemi
sulla carta.»
La cameriera porta il tè. Due
donne dalla schiena molto dritta
siedono al tavolo vicino. È stata
loro servita un’alzata a tre ripiani,
carica di sandwich, focaccine dolci,
pasticcini, e quelle paste tempestate
di uvette che Littlewood agogna.
E perché non le mangiano? Con
studiata indifferenza le donne
sorseggiano il tè, si scambiano
qualche parola e ignorano le
leccornie. Non hanno messo lo
zucchero nel tè. Con ogni
probabilità, non è stato usato
zucchero per le paste; e nemmeno
uova, perché siamo in tempo di
guerra, e Hardy ha scelto una sala
da tè molto costosa, la cui clientela
tiene alle apparenze. Dio non
voglia che queste donne vengano
scambiate per operaie che devono
nutrirsi in abbondanza e in fretta,
se vogliono finire il lavoro! O che si
possa pensare che non rispettino le
leggi suntuarie imposte dalla
guerra, per lo meno in pubblico.
Chissà cosa hanno nascosto, a casa
loro?
D’altra parte, nelle sale da tè
della classe operaia – ce n’è una a
Woolwich che Littlewood
frequenta – i clienti mettono lo
zucchero nel tè.
Se Hardy si preoccupa di tutto
questo, non lo dà a vedere. Versa il
tè. Non chiede lo zucchero. Ma a
pensarci bene, Littlewood lo ha
mai visto mettere lo zucchero nel
tè? È come se, per tutta la vita,
avesse obbedito a leggi suntuarie
tutte sue.
«A proposito di Ramanujan, ti
manda i suoi saluti» dice Hardy.
«E come se la passa il nostro?»
«Bene, credo. Vorrei riuscire a
farlo concentrare.»
«Non farlo concentrare troppo,
però. È felice?»
«Adir la verità sembra un po’
depresso. Forse è tutto quel leggere
che lo stanca. Ho l’impressione che
finalmente si sia reso conto di
quante cose non sa.»
«Allora forse non dovrebbe
leggere tanto.»
«Anche se non lo facesse, è
troppo intelligente per non capire
quello che non riusciva a capire in
India. Adesso si rende conto di
essere svantaggiato. Ormai ha
capito che proprio quello che era il
suo biglietto da visita – la sua
mancanza di istruzione – lo ha
danneggiato.»
«Cos’è che diceva Klein? La
matematica è progredita più grazie
alle persone insigni per intuizione
che a quelle insigni per il rigore nei
loro metodi di dimostrazione.»
«Facile a dirsi per Klein. Con la
sua preparazione.»
«Forse dovremmo lasciare
Ramanujan in una stanza vuota
con una lavagna e permettergli di
inventarsi quello che vuole.»
«Peccato che sia ambizioso. E
questo a dispetto della sua dea
Namby-Pamby, dei suoi sogni e
quant’altro. Lo sai che continua ad
assillarmi per lo Smith’s Prize? Un
premio per studenti! E sta
prendendo la laurea. Dio, è deciso
a portarsela in India, quella
laurea!»
«La laurea è importante in
India.»
«Quindi meglio una laurea che
dimostrare l’ipotesi di Riemann?
Meglio una laurea
dell’immortalità?»
«Ma cos’è l’immortalità?»
«Chi dimostrerà l’ipotesi di
Riemann sarà immortale.»
«La differenza tra una grande
scoperta e una scoperta ordinaria è
una differenza di categoria, non di
grado.»
«Già, ma la differenza tra una
differenza di categoria e una
differenza di grado è una
differenza di categoria o una
differenza di grado?»
«La risposta è elementare.»
Littlewood guarda il suo tè per
qualche secondo. Poi dice: «Hardy,
qualche anno fa – non te ne ho
mai parlato all’epoca – Norton mi
disse che stavi scrivendo un
romanzo. Un romanzo giallo».
«Ma è ridicolo!»
«Be’, lui lo diceva. E diceva
anche che nel libro la vittima
dimostra l’ipotesi di Riemann e
l’assassino ruba la dimostrazione e
la rivendica come sua.» Littlewood
svuota la tazza. «È un’ottima idea.»
«E quand’è che avrei tempo di
scrivere romanzi, secondo te?»
«È solo che non vorrei che
pensassi che mi seccherebbe se tu,
diciamo, prendessi spunto da me
per uno dei personaggi. Magari per
l’assassino. Potresti inserire la
prospettiva balistica. E il piccolo
sigma.»
«Non dare mai retta a Norton.
Metà di quel che dice è frutto della
sua fantasia malata. Ci serve
dell’altro latte.» Hardy si guarda in
giro. «Vorrei riuscire ad attirare
l’attenzione di quella cameriera!
Guardano sempre da qualche altra
parte quando cerchi di chiamarle.
Penso lo facciano di proposito.»
«Hai fretta?»
«No, solo che non sono ancora
passato da casa.»
«Anne è incinta.»
Hardy s’interrompe; deglutisce.
«Inutile che tu finga di non
sapere di noi. Me lo ha annunciato
stamattina.»
«Be’, non so proprio cosa dire…
Vanno bene le congratulazioni?»
«Direi proprio di no. Non vuole
sposarmi. È decisa a rimanere con
suo marito.» Si prende la testa tra
le mani. «Oh, Hardy, cosa devo
fare? Non è che io voglia sposarla,
non riesco a immaginare noi due
che viviamo come i Neville in
Chesterton Road… Ma io la amo.
E il bambino. È sbagliato da parte
mia desiderare che il bambino mi
riconosca come suo padre?»
«No, non è sbagliato… solo che,
se non vuole sposarti, cosa puoi
fare?»
«Niente. Non posso fare niente.»
Si passa le dita tra i capelli. «Bene,
questo è quanto. Avevo bisogno di
dirlo a qualcuno. Spero non ti
dispiaccia.»
«Certo che no.»
Ancora una volta Hardy cerca di
fare un cenno alla cameriera.
Allunga il braccio e Littlewood
glielo blocca, lo spinge,
gentilmente, sul tavolo.
«Non ancora. Solo pochi minuti.
Resta con me ancora pochi minuti.
Sono affamato.»
Adesso è Littlewood a far segno
alla cameriera. E lei arriva
all’istante.
«Quelle paste sembrano
terribilmente buone» dice. «Quelle
con le uvette. Me ne porti una, per
favore. Anche tu Hardy?»
«No, preferirei…» Tossisce. «Ma
sì, perché no?»
«Benissimo, ufficiale» dice la
cameriera a Littlewood,
indietreggiando senza staccargli gli
occhi di dosso.
E Littlewood ammicca.
11

Uscito dalla sala da tè, Hardy gira a


sinistra e va alla stazione della
metropolitana. In tasca ha una
lettera di Thayer. Una lettera
piuttosto stringata; del resto le
lettere di Thayer non contengono
mai molto di più delle
informazioni fondamentali
(quando avrà la prossima licenza e
in che giorno pensa di essere a
Londra) e le domande
fondamentali: a che ora può
passare a casa di Hardy “per un
tè”? Se Thayer usi questo
eufemismo a beneficio dei censori
o per soddisfare un criterio tutto
suo, Hardy non lo sa; sa solo che
trova tutta questa faccenda di
rispondere alle lettere di Thayer –
la risposta spedita a un indirizzo
militare, il testo limitato all’ora
suggerita per l’appuntamento del
“tè”, come se lui fosse una
benevola prozia – tanto eccitante
quanto irritante.
In ogni caso sembra che il
sistema funzioni. Finora si sono
dati convegno due volte
nell’appartamento di Pimlico, nel
primo pomeriggio. La prima volta
Hardy era ansioso; si era persino
preso la briga di comprare dei
biscotti, bollire l’acqua e tirar fuori
il servizio da tè, tutte cose che si
rivelarono superflue. Il tè non
venne servito. Invece, nell’istante
stesso in cui si chiuse la porta,
Thayer si lanciò su Hardy, lo
avvolse nell’odore lanuginoso e
umido del suo pastrano, premette
le labbra su quelle di Hardy, e i
loro denti si scontrarono. Poi
finirono sul pavimento, a togliersi i
vestiti con tanta foga che Hardy
sentì lo strappo dei bottoni. Che
Thayer volesse essere sodomizzato
non fu una sorpresa. Keynes lo
aveva avvertito circa il fatto curioso
che i soldati in licenza, quando
avevano abboccamenti con gli
omosessuali, volevano assumere il
ruolo passivo. «Non che mi
lamenti, intendiamoci» aveva detto
Keynes, «solo che sembra un po’
strano, non trovi? Credevo che
sarebbero stati loro a voler
sodomizzare l’altro, in modo da
poter dire a se stessi che non sono
“veri” froci, ma stavano solo
approfittando di un’occasione,
peraltro meno costosa di una
prostituta, e invece no.»
Nossignore. Per dirla con le parole
di uno dei drudi di Keynes,
sembrava volessero “vedere che
effetto fa”. Era come se, dopo tante
settimane in trincea, dopo aver
ucciso ed essere quasi morti,
avessero bisogno di una varietà di
stimolazione erotica più estrema di
quella che poteva fornire un
normale rapporto sessuale. Del
resto Hardy non esitò ad
accontentare Thayer quando questi
si mise in ginocchio e sollevò il
sedere in aria, il tutto a dispetto del
fatto che, sebbene non l’avesse mai
ammesso con nessuno dei suoi
amici (nemmeno con Keynes), non
aveva mai praticato la sodomia,
limitando il suo repertorio sessuale
ad alcuni dei vari imprecisati “atti
osceni” che la legge puniva con
sentenze meno severe. Fare seghe
e pompini, anche se, nel caso di
Hardy, più la prima attività della
seconda, per via della convinzione
inculcatagli da sua madre che i
germi entrano soprattutto
attraverso la bocca. Gaye aveva riso
di lui per questo.
Chissà cosa avrebbe pensato
Gaye se l’avesse visto quel
pomeriggio con Thayer, in
ginocchio a pompare a tutto gas
mentre Thayer si dimenava e
grugniva sotto di lui? In effetti,
doveva aver fatto un bel lavoretto,
a giudicare da come gemeva e
imprecava Thayer: un lavoretto
così ben fatto che per un momento
si chiese se, dopotutto, non
avrebbe potuto metterlo in atto con
una donna. Ma no. La cosa che gli
piaceva veramente non era tanto la
scopata quanto l’evidente
parossismo di piacere che Thayer
stava sperimentando. Thayer si
divincolò, si girò sulla schiena e
mise le gambe sulle spalle di
Hardy. Adesso la cicatrice della
ferita da granata era proprio a
sinistra della bocca di Hardy –
rossa e frastagliata – e mentre si
abbassava su Thayer non poté fare
a meno di leccarla in tutta la sua
lunghezza. Thayer mugolò e
venne. Anche Hardy venne.
«Accidenti» disse Thayer, tirandosi
indietro sui gomiti. «La mia
maledetta gamba.»
«Ti ho fatto male?»
«No, è solo la posizione.» Poi si
alzò in piedi. Sembrava molto più
nudo dopo l’amplesso che non
durante. «Posso lavarmi adesso?»
chiese. E Hardy disse che sì,
naturalmente poteva lavarsi.
E dopo, solo dopo, Thayer volle
il tè. Da non crederci! C’era da
aspettarsi che avrebbe cercato di
uscire di lì il più in fretta possibile,
sopraffatto dalla vergogna e
dall’orrore per la sua vorace
passività. E invece niente. Si rimise
l’uniforme, si sedettero a prendere
il tè con i biscotti, e si mise a
parlare. Raccontò di nuovo di sua
sorella, e dei suoi genitori, e della
ragazza di nome Daisy, una
ragazza che conosceva da qualche
anno e con la quale, insomma,
anche se non era stato detto o
scritto niente, il matrimonio era
praticamente sottinteso… Ma
adesso, con la guerra, era giusto da
parte sua sposarla se con ogni
probabilità ne avrebbe fatto una
vedova? D’altronde, se aspettavano
che la guerra finisse – e chi poteva
dire quanto sarebbe durata? –
sarebbe stato un po’ tardi per
metter su famiglia, no? E lui voleva
dei figli. Voleva un maschietto, che
avrebbe chiamato Dick, come il
suo amico Dick Tarlow.
Hardy ascoltava. Avrebbero
potuto essere ancora all’ospedale,
con la pioggia che cadeva
attraverso gli avvolgibili, e il campo
da cricket fuori. Poi Thayer smise
di parlare, guardò l’orologio e
disse: «Bene, sarà meglio che vada.
Devo prendere il treno per
Birmingham». E si alzò. Si alzò
anche Hardy, e andarono alla
porta, dove Thayer s’infilò il
pastrano e si girò verso di lui.
Quello che Hardy non aveva
realizzato all’ospedale era quanto
fosse alto. «Senti» disse Hardy,
«perché non prendi un po’ di…»
Stava cercando il portafoglio, ma
Thayer gli bloccò la mano e scosse
la testa. «Per favore» disse Hardy.
«No» disse Thayer. Gli tese la
mano e se la strinsero virilmente.
All’improvviso Thayer lo attirò a sé
e lo baciò con tanta forza da farlo
sanguinare. «Ecco fatto» furono le
sue ultime prole, insieme al saluto
militare, prima di girare sui tacchi e
scendere zoppicando le scale.
Questo era accaduto altre due
volte. Poi, ieri è arrivata un’altra
lettera, seguita da uno scambio di
telegrammi. Oggi il loro
appuntamento è fissato per le due,
e Hardy è ansioso di arrivare a
casa, preparare il letto e se stesso
prima dell’arrivo di Thayer.
Da Ramanujan ha preso
l’abitudine di andare dappertutto
in metropolitana. Adesso scende le
scale a Russell Square, prende la
Piccadilly Line per South
Kensington, dove passa sulla
District, che prende fino a Victoria.
Alla stazione compra un pacchetto
di biscotti (Bath Oliver, la varietà
preferita di Thayer), e anche dei
fiori da mettere nel vaso sul tavolo
di cucina. È un pomeriggio
assolato, anche se freddo, e
sebbene la prospettiva di vedere
Thayer lo riempia di quella che
non esiterebbe a definire gioia, la
consapevolezza delle tribolazioni
del mondo, della sua vita, della
vita di Littlewood, smorza il suo
buonumore. Ormai sembra che ti
vengano accordati momenti
sempre più brevi di spensieratezza,
prima che ritornino le
preoccupazioni. E ciò che
intensifica la sua gioia nel vedere
Thayer, ogni volta che lo vede, è
naturalmente la grazia che Thayer
non sia ancora morto.
In St. George’s Square sono
sbocciati i crochi. Togliendosi i
guanti, Hardy si china a
raccoglierne qualcuno, che
aggiunge al bouquet che ha
comprato, poi saltella su per le
scale dell’appartamento. Fischietta.
Cosa? Qualcosa di sciocco,
qualcosa che deve aver sentito alla
radio da qualche parte:
Il Belgio invero ha fatto fuori il Kaiser:
l’Europa col baston l’ha malmenato;
sul trono adesso siede con dolore,
e quando John Bull comincerà a colpire
mai più sul trono lui potrà sedere.
Controlla l’orologio. L’una e
mezzo. Solo mezz’ora da aspettare,
prima che Thayer suoni il
campanello.
Apre la porta. Una donna strilla.
Dalla porta della cucina, Alice
Neville lo sta fissando con gli occhi
spalancati e una mano sul cuore.
12

«Buon Dio!» dice Hardy.


«Mi ha spaventato a morte» dice
Alice.
«Che ci fa lei qui?»
«Gertrude non glielo ha detto?»
«Detto cosa?»
«Che stavo qui.»
«No, le assicuro che non lo ha
fatto.»
«Dalla settimana scorsa» dice
Alice. «Ha detto che le aveva
scritto per avvertirla…»
«Gertrude sa che non sempre
leggo le sue lettere.» (È vero; un
effetto collaterale della sua
collaborazione con Littlewood.)
Alice piange in silenzio. «L’avevo
avvertita che poteva succedere»
dice. «Glielo avevo detto che a lei
non sarebbe piaciuto quando lo
avesse scoperto.»
«Oh, per l’amor di Dio…»
«Ma Gertrude ha detto che
l’appartamento era anche suo, e
fintantoché dormivo nella sua
stanza… e ha anche detto che lei
sarebbe venuto solo il fine
settimana, mentre per il fine
settimana io torno a Cambridge.»
«Non vengo solo il fine
settimana. Che assurdità è mai
questa?» (Ma è vero che l’ultima
volta che ha visto Gertrude, le ha
detto che sarebbe venuto a Londra
solo il fine settimana.)
«Allora deve chiedere a
Gertrude.»
«Oh, santo cielo. La smetta di
piangere, per favore.»
Alice non smette di piangere.
Prende un fazzoletto dalla tasca e
se lo porta al naso. Nel frattempo,
assurdamente, Hardy è ancora in
piedi nel vestibolo, con la porta
aperta, e i vicini che, per quel che
ne sa, stanno sentendo tutto.
«Via, non è il caso. La prego non
pianga… la smetta di
piagnucolare.» Si chiude la porta
alle spalle; appende il cappotto
all’attaccapanni; le passa davanti
per entrare in cucina e appoggia sul
tavolo i fiori avvolti nel giornale
bagnato. «Non sopporto i
piagnistei.»
«Ma come crede che mi senta?
Ero qui, a fare le mie cose, quando
si spalanca la porta e lei… avrei
potuto essere in vestaglia.»
«Per fortuna non lo era.»
Hardy si siede. Lei rimane in
piedi.
«Come mai è qui, in ogni caso?»
le chiede.
«Sto lavorando con Mrs.
Buxton» dice Alice.
«Mrs. Buxton?»
«Per le “Note dalla Stampa
estera”, sul “Cambridge
Magazine”. Sono una dei suoi
traduttori.»
«Da quale lingua?»
«Svedese e tedesco.»
«Svedese! Dove diavolo lo ha
imparato lo svedese?»
«In Svezia, guarda caso. Vi ho
trascorso del tempo da ragazza.
Mia madre è mezza svedese. Parlo
anche il francese, ma Mrs. Buxton
ha più bisogno d’aiuto col tedesco
che col francese, perché pubblica di
più dalla stampa tedesca e ha un
eccesso di traduttori dal francese.
Anche Gertrude lavora con lei, si
occupa del francese.»
«Non ne sapevo niente.»
«Se si degnasse di leggere le
lettere di sua sorella, avrebbe
saputo tutto.»
Hardy guarda il tavolo. Adesso
che sa perché Alice è a Londra, si
vergogna un po’ della sua reazione
nel trovarla nell’appartamento.
Dopotutto, non può che
apprezzare Mrs. Buxton. La sua
rubrica sulla rivista è praticamente
l’unica fonte per scoprire cosa sta
succedendo nel mondo. “Una
signora intrepida” ha detto l’altra
sera Russell nella Hall, “e sta
rendendo un grande servizio a tutti
noi, fornendo un’alternativa alle
scemenze che si leggono sul
‘Times’.” Quindi, se Alice sta
lavorando per Mrs. Buxton, be’,
non può che congratularsi con lei.
«Non vuole sedersi?» le chiede.
«No, grazie.»
«Forse potrei preparare un tè.»
«Oppure potrei prepararlo io.»
«Chiunque dei due lo prepari,
un po’ di tè ci starebbe bene.»
«Lo preparo io.» Alice va verso i
fornelli, dove riempie il bollitore,
una femminilità che sbandiera
possesso.
«E dove le fa tutte queste
traduzioni?» chiede Hardy dopo
un momento.
«Per lo più le faccio qui» dice
Alice. Adesso ha gli occhi asciutti.
«Anche se in genere la mattina
sono a Golders Green. È lì che
vivono i Buxton, a Golders Green.
È il loro quartier generale. Vado a
ritirare gli articoli che Mrs. Buxton
mi ha assegnato, poi o resto lì a
lavorare – se c’è spazio, perché la
casa può essere molto affollata –
oppure prendo il lavoro e torno
qui. Ho organizzato una scrivania
in camera di Gertrude. Con i
dizionari.»
«Vuol dire che sta qui tutta la
settimana? Da quanto tempo va
avanti questa storia?»
«Solo da una settimana.
Abbiamo tutti bisogno di un lavoro
da fare, Mr. Hardy. Soprattutto in
quest’ora buia.»
«Certo, ma Neville come prende
la sua assenza?»
«Lui capisce. Devo fare anch’io
la mia parte.»
«Ma non gli dispiace che lei non
ci sia?»
Alice si asciuga le mani in uno
strofinaccio. «Senta, Mr. Hardy,
non c’è bisogno di fare allusioni
così pesanti» gli dice. «È evidente
che la mia presenza qui non le è
gradita. Quindi io…»
«No, non è questo.»
«… naturalmente, quanto
prima, cercherò un’altra
sistemazione. Comunque, data
l’ora, e il fatto che la rivista va in
stampa domani e devo consegnare
un articolo in mattinata, confido
che mi lascerà passare un’altra
notte sotto il suo tetto.»
«Va bene… la prego…»
«Nella stanza di sua sorella,
naturalmente, per la quale, vorrei
aggiungere, le pago l’affitto.»
«Mrs. Neville, la prego. Le ho
detto che va bene. Va bene che lei
stia qui. Non intendevo… è stato
un po’ uno shock anche per me,
trovarla qui. Io… insomma, non
me l’aspettavo.»
Alice rimane accanto ai fornelli,
la schiena eretta, mentre il bollitore
comincia a fischiare.
«Inutile dire che non mi
permetterei mai di fare qualcosa
che possa interferire con la sua
libertà o crearle un incomodo.»
«Non mi dà nessun fastidio.
Gertrude ha ragione, di solito sto
qui solo il fine settimana. Oggi è
un’eccezione. E naturalmente sono
un grande ammiratore di Mrs.
Buxton – tutti ammirano Mrs.
Buxton – e voglio fare tutto ciò che
è in mio potere per sostenerla, e
anche lei Mrs. Neville, in uno
sforzo così nobile.»
«Per il quale, inutile dirlo, non
riceviamo alcun compenso.»
«Inutile dirlo.»
«Bene, mi conforta che la veda
così.» Spegne il fuoco sotto il
bollitore; versa l’acqua nella teiera.
«E naturalmente, va da sé, Mr.
Hardy, che non le sarò d’impiccio.
Appena avrò bevuto il tè, mi
chiuderò nella stanza di Gertrude.
Sarò muta come un pesce. Non si
accorgerà neppure che ci sono.»
D’improvviso, suona il
campanello. Hardy sussulta. «Oh
mio Dio» dice.
«Che succede?» chiede Alice.
«Un amico. Un appuntamento.
Me n’ero scordato.»
«Ebbene, lo faccia entrare. O
preferisce che io…»
«No, scendo io. Non importa.»
Si affretta verso la porta e arriva
prima di lei. «È solo una consegna.
La ritiro da basso.» E chiudendo la
porta si precipita giù nell’ingresso;
apre il portone, e trova Thayer, che
sorride raggiante sotto la pioggia.
La pioggia sui suoi capelli.
«Thayer» dice.
«Ciao, Hardy» dice Thayer, e sta
per entrare quando Hardy gli
sbarra la strada.
«Che succede?»
«Temo…» dice Hardy uscendo e
chiudendosi la porta alle spalle,
«temo che ci sia un
inconveniente.» Poi si china verso
di lui e, abbassando la voce,
soggiunge: «Sai, io divido questo
appartamento con mia sorella e,
be’, senza avvertirmi lei lo ha
subaffittato… c’è una sua amica
che occupa la sua stanza. Così non
sono solo. C’è una signora di
sopra.»
Un’ombra oscura il viso di
Thayer. «Oh, capisco» dice. «Una
signora.»
Hardy annuisce e allo stesso
tempo scuote la testa; senza
rendersene conto, se ne accorgerà
più tardi, sta imitando Ramanujan.
«Sono assolutamente sincero» dice,
«è un’amica di mia sorella. Di
Cambridge. Sta lavorando a
Londra e Gertrude, senza
dirmelo…»
«Caspita, è fenomenale, eh? E
dire che sono venuto in treno da
Birmingham solo per…»
«Mi spiace. Mi spiace tanto. Se
avessi saputo che era qui…»
«Ma certo.» Thayer sorride di
nuovo, ma questa volta è un
sorriso di derisione. «Bene, questo
è tutto, immagino. Grazie tante.»
Si gira. Hardy gli mette una
mano sul braccio. «Aspetta» dice.
«Senti, se aspetti un minuto –
fammi pensare – potremmo andare
da qualche altra parte. Potremmo
vederci dopo, in un albergo.»
«Un albergo? Per chi mi hai
preso, per una puttana?»
«Ma no, non è così.»
«Avresti potuto dire: “Mi spiace
Thayer, c’è qui ‘l’amica di mia
sorella’, a causa dell’amica di mia
sorella temo di non poterti offrire
altro che una tazza di tè, vieni di
sopra a sederti e toglierti il freddo
dalle ossa, e lascia che ti presenti
l’amica di mia sorella prima di
riprendere il treno…”.»
«Mi spiace.»
«“Amica di mia sorella, questo è
Thayer, del Primo Reggimento
West Yorks. Thayer, questa è
l’amica di mia sorella.” “Molto
lieta.” “Molto lieto.” E invece in
pratica mi dici: “Mi vergogno che
qualcuno ti veda, aspettami qui per
strada e poi ci vedremo in un
albergo”.»
«Per favore, non essere così
arrabbiato…»
«Be’, va a farti fottere!»
«Aspetta, ti prego. Mi spiace.
Avrei dovuto fare così. Non ci ho
pensato. Certo che puoi venire di
sopra.» Tossisce. «Lasciami
ricominciare daccapo. Thayer, vuoi
venire di sopra e…»
«Troppo tardi.»
«Vuoi venire di sopra per una
tazza di tè?»
«Voi ricconi non capite mai, eh?
Non puoi ricominciare daccapo
quando hai incasinato tutto.
Provaci in trincea, col culo pieno di
stramaledette granate di Jerry.»
Ancora una volta Hardy mette la
mano sul braccio di Thayer.
Thayer la scosta con rabbia. «Non
toccarmi!»
«Scusami, vorrei…»
Thayer si gira; attraversa la
strada e si dirige verso la piazza.
«Thayer…» grida Hardy. Sta
quasi per piangere, come piangeva
Alice prima. «Thayer, per
favore…»
E in quel momento, proprio
mentre sta per inseguirlo, passa un
poliziotto. Fiutando aria di
discordia, va verso Hardy. «Tutto
bene, signore?» chiede. «Quel tizio
la sta importunando?»
«No, va tutto bene, grazie» dice
Hardy.
«La sta importunando?» grida il
poliziotto a Thayer.
«Io importunare lui?»
«No, è tutto a posto.» Hardy
atteggia il viso a un simulacro di
compostezza. «Grazie, agente.
Buonasera.»
E girando sui tacchi rientra
nell’edificio.
13

C’è qualcosa di struggente, per


Alice, nell’ignoranza di suo marito.
Lui non capisce. E quel che è
peggio, non sa cosa non capisce.
Mentre lei capisce tutto
perfettamente, anche troppo.
Quel fine settimana, per
esempio, è seduta nella stanza che
è arrivata a considerare la stanza di
Ramanujan – la stanza degli ospiti,
adesso trasformata in ufficio, un
posto in cui lavorare alle sue
traduzioni – quando Eric entra
dalla porta in punta di piedi e le
posa le mani sulle spalle. Lei
trasale. «Per favore, non
spaventarmi così» gli dice.
«Scusa» dice lui. «È solo che
avevo urgenza di toccare la mia
adorata mogliettina.»
«Sì, d’accordo, ma la prossima
volta che hai un’urgenza, bussa alla
porta prima, ti spiace?»
«Certo, cara. Allora cosa stai
traducendo adesso?»
«Un articolo.»
«Su cosa?»
«L’Inghilterra e la pace.»
«E cosa dicono?»
«Che noi stiamo ritardando la
pace.»
«Fammi vedere.» Legge al di
sopra della sua spalla.
«“L’Inghilterra ha attribuito alla
Germania il desiderio di
continuare la guerra per tutto il
luglio del 1914; dalla fine
dell’agosto 1914 ha però ripetuto
che la Germania vorrebbe la pace,
ma che il tempo non è ancora
arrivato.” Scusa, non sarebbe
meglio dire: “Non è ancora venuto
il momento”?»
«A Mrs. Buxton piace
mantenere le traduzioni il più
letterali possibili.»
«Ah, quella Mrs. Buxton, che
attira mia moglie lontano da casa, a
lavorare nel suo bordello cinque
giorni la settimana.»
«Sì, Eric, so che ti sembra molto
divertente.»
«E chissà a che strani tipi
d’uomini devi offrire i tuoi servigi.»
«Grazie, Eric. Adesso, se non ti
dispiace…»
«Ma lavori sempre! Non puoi
staccare per qualche ora?»
«E tu che mi dici di tutte le ore
che passavi a lavorare, quando
stavi finendo la tua tesi? Io restavo
sola per ore e ore, e mi sono mai
permessa anche solo di alzare la
voce?»
«Ti prego, cara…»
«È assolutamente vero. Non
puoi pretendere che io passi il resto
della mia vita seduta qui, in ozio, a
tua completa disposizione.»
«D’accordo, cara.»
«E non è che stia via tutta la
settimana a far compere o andare
ai concerti. Questo è un lavoro
importante. È un lavoro bellico, a
modo suo.»
«D’accordo, mi hai convinto. È
solo che… insomma, stai via così
tanto di questi tempi, e quando
torni a casa sei sempre chiusa qui
dentro. Se non avessi un po’ di
buonsenso, penserei che stai
cercando di evitarmi.»
Alice chiude gli occhi. Quindi ci
è arrivato alla fine. A capire. È
quasi sollevata.
«Ma naturalmente, mi guardo
bene dal pensarlo…»
Accidenti!
«Mi spiace, sono terribilmente
egoista.» Le struscia il naso tra i
capelli. «E hai ragione, sei stata
paziente con me, in tutti quegli
anni. E adesso io sarò paziente con
te.»
Indietreggia in punta di piedi;
chiude la porta; la riapre e sbircia
nella stanza.
«Posso portarti qualcosa? Una
tazza di tè?»
«No, niente.»
«Qualcosa da mangiare?»
«No, sto bene così, Eric.»
«Scusa, allora.» La voce un
sussurro. E di nuovo chiude la
porta.
Alice fa un respiro profondo. Poi
guarda la pagina davanti a sé – la
traduzione – e nota una macchia
proprio alla fine della proposizione
a cui stava lavorando. Le è senza
dubbio scivolata la penna quando
Eric l’ha spaventata.
Bene, se non altro è andato via.
Ma com’è possibile che, dopo
tutto questo tempo, non afferri la
verità, non si accorga che – sì – lei
lo ha lasciato, lo sta lasciando?
E perché? Forse non lo ama più?
Quando iniziò a lavorare per
Mrs. Buxton, la giustificazione che
si diede fu che non sarebbe
sopravvissuta un giorno di più
rinchiusa in casa con Ethel mentre
una guerra infuriava
spaventosamente vicino. Malgrado
tutti i suoi sforzi per apparire
allegro, Eric non riusciva a
nascondere la sua preoccupazione.
Lei sapeva che aveva dei problemi
con Butler per la sua opposizione
alla guerra. Sapeva che c’era la
possibilità che perdesse la sua
fellowship. Ammirava la sua stoica
devozione ai suoi ideali – come
poteva non ammirarla? – eppure,
nonostante tutto il rispetto che
aveva per lui, non sopportava che
la toccasse. Anche dopo che la sua
fantasia su Ramanujan che
s’innamorava di lei si era conclusa
in un’umiliazione, non sopportava
che il marito la toccasse. E lui era
incredibilmente ottuso.
Le chiese cos’è che non andava.
A parole, lei si lamentò soltanto
della noia, del suo desiderio di fare
qualcosa, invece di star seduta in
casa tutto il giorno. Lui menzionò
ogni genere di possibilità.
ACambridge, il Women’s
Emergency Corps si stava
impegnando ad assumere donne
per costruire giocattoli. Altre
donne lavoravano come controllori
sui treni, o a dissodare la terra.
Alice cercò di non ridere della sua
ingenuità. Quello che voleva fare,
naturalmente, era scrivere: saggi
feroci, obliqui, che attaccassero
l’ottusa soddisfazione inglese per la
guerra senza mai nominare la
guerra; quel genere di cose,
insomma. Tuttavia, pur avendo il
talento, le mancavano i contatti. A
differenza di zia Daisy o di Israfel,
lei non si muoveva nei circoli
letterari. Così restò a casa, sempre
più insofferente, finché una
mattina ricevette un biglietto di
Gertrude che le diceva col tono più
casuale che nel tempo libero aveva
cominciato a tradurre per Mrs.
Buxton. E naturalmente, dato che
Alice, al pari di suo marito, era
diventata una lettrice entusiasta
delle “Note dalla Stampa estera”, le
venne subito in mente che anche
lei, forse, avrebbe potuto dare una
mano con le traduzioni.
Dopotutto, quanti inglesi potevano
esserci che capivano lo svedese?
Fu così che iniziò. Scrisse
immediatamente a Gertrude, che
le rispose il giorno dopo dicendole
che doveva andare a Londra
appena possibile. Gertrude aveva
parlato di lei a Mrs. Buxton, aveva
accennato alla sua conoscenza sia
del tedesco sia dello svedese, e
Mrs. Buxton l’aveva pregata di
chiedere ad Alice di aiutarla. E
com’era stimolante, finalmente,
sentirsi necessaria per qualcosa,
richiesta da qualcuno! Così il
sabato prese il treno per Londra, e
la metropolitana per Golders
Green, dove vivevano i Buxton.
Gertrude venne ad aprirle la porta.
Dall’interno arrivava ogni genere
di rumore: macchine da scrivere,
discussioni animate in lingue che
solo in parte riconosceva. Un
bambino sfrecciò via come un
fulmine: il figlio dei Buxton. Poi
Gertrude la guidò nel salotto, che
era nel caos, ritagli di giornale
dappertutto, su ogni ripiano
disponibile e su ampie porzioni del
pavimento, mentre su varie
poltrone e divani e, in alcuni casi, a
gambe incrociate sul tappeto,
sedevano uomini e donne intenti a
leggere ad alta voce l’uno per l’altro
in svariate lingue, sfogliando
freneticamente le sottili pagine di
vocabolari e dizionari dei sinonimi,
e controllando a vicenda le varie
possibilità. Un uomo che lavorava
a un articolo italiano chiese a una
donna che batteva a macchina:
«Come tradurresti “magari” in
inglese?».
«Perhaps?»
«No, quello va bene per “forse”.
“Magari” è più if only o I wish.»
«Com’è la frase?»
Ma prima che Alice potesse
sentir leggere la frase – e il suo
italiano era abbastanza buono da
consentirle di dare un
suggerimento – Gertrude l’aveva
condotta nella sala da pranzo dove
due donne sedevano alle estremità
opposte di un tavolo coperto di
giornali, proprio come il pavimento
del salotto. Una delle donne si alzò
in piedi. Aveva un viso bello e
severo, quasi come un vaso
Wedgwood; indossava abiti
eleganti ma comodi: una gonna
lunga e una camicetta i cui motivi
facevano pensare ai vetri istoriati
delle chiese. «Lei deve essere Mrs.
Neville» disse, porgendole la
mano. «La prego, si accomodi.
Posso presentarle mia sorella?
Eglantyne Jebb.»
La sorella si alzò. Era al tempo
stesso più mascolina e meno diretta
di Mrs. Buxton, l’effetto della sua
vigorosa stretta di mano smorzato
dalla riluttanza a guardarla negli
occhi. Quando parlava, alzava le
mani in aria, gesticolando, sospettò
Alice, più per coprirsi il viso che
per dare enfasi alle parole.
Mrs. Buxton, al contrario, era
un’oasi di calma in mezzo al
pandemonio che regnava nella sua
casa, un pandemonio che accettava
allegramente, quand’anche con
una punta di rammarico, mentre
diceva ad Alice: «Mi scuso per il
disordine, sono appena arrivati i
giornali. Lei legge il tedesco,
giusto?».
«E lo svedese.»
«Eccellente. Con lo svedese sono
in alto mare. Non capisco una
parola. Il tedesco invece lo leggo
abbastanza bene da essere in
grado, all’occorrenza, di dare
un’opinione sulle traduzioni
eseguite da chi ha una conoscenza
della lingua più approfondita della
mia.» Aprì una copia di
“Vorwärts”. «Forse potrebbe
aiutarci dandoci la sua opinione,
Mrs. Neville. Un lettore piuttosto
impertinente ci ha inviato una
lettera lamentandosi che avevamo
tradotto in modo errato la parola
Ausnahmegesetze. Non è il tipo di
parola che si trova nei dizionari.
Lei come la tradurrebbe?»
Alice sedeva rigida. Stavano
forse mettendola alla prova, anche
se discretamente?
«Vediamo. Ausnahme dovrebbe
essere “eccezione”, suppongo, e
Gesetze, “legislazione” o “leggi”,
giusto? Quindi: leggi eccezionali?»
Mrs. Buxton sorrise. «Proprio
così. Visto? Te lo avevo detto,
Eglantyne, quell’uomo aveva
torto.» Porge una lettera ad Alice.
«Dopo parecchi paragrafi di lodi di
circostanza, questo signore, un
certo Mr. Marx, butta lì
altezzosamente che secondo lui
abbiamo sbagliato a tradurre la
parola, che dovrebbe essere resa
con “leggi d’emergenza”. Ma “leggi
d’emergenza” non sarebbe
Ausnahmegesetze, bensì qualcosa
come Notstandgesetze.» Chiuse il
giornale. «Come vede, Mrs.
Neville, bisogna fare molta
attenzione. E per quanto sodo
lavoriamo, ci sarà sempre qualcuno
che si lamenta. Tuttavia, deve
essere fatto.»
«Non so dirle quanto ammiri
l’integrità della vostra impresa»
disse Alice.
«Grazie» disse Mrs. Buxton, poi
all’improvviso esclamò: «Santo
cielo, non le ho offerto niente da
mangiare o da bere. Desidera
qualcosa? Per fortuna ci sono due
donne qui con noi che, non
sapendo battere a macchina e non
conoscendo altra lingua oltre
l’inglese, si sono offerte di gestire la
cucina. Cosa che, devo aggiungere,
mio marito e i bambini apprezzano
molto. Sono immensamente
fortunata, mi creda. C’è tanta
gente disposta a dare una mano.
Allora, cosa possiamo offrirle?».
«Non voglio niente» disse Alice,
«ma la ringrazio per avermelo
chiesto. Per la verità, sono
impaziente di mettermi al lavoro.»
«Splendido. Allora perché non
inizia con questo pezzo del
“Vorwärts”? Mi sarà molto utile
per la discussione con Mr. Marx,
dal momento che contiene sia il
controverso Ausnahmegesetze sia
Sondergesetz, che è più prossimo a
ciò di cui lui parla.»
«È molto stimolante avere
questa opportunità» disse Alice
prendendo il giornale.
«Temo che non la penserà così
tra qualche giorno. Anzi, forse
vorrà scappare a gambe levate! Ma
pazienza. Le saremo grate per tutti
i minuti o le ore che vorrà
accordarci.»
«Non scapperò a gambe levate»
disse Alice e avrebbe voluto
aggiungere: è qui che finisce la mia
fuga. Ma non disse niente.
Ed ecco cosa è diventata la sua
vita: cinque giorni a Londra,
nell’appartamento di Gertrude, e il
fine settimana a casa. Arriva il
venerdì sera, e riparte tardi la
domenica. Due notti sono il
massimo che riesce a sopportare
con Eric. Come per festeggiare la
sua presenza, Ethel ha preso a
preparare piatti elaborati nei fine
settimana, carni e fagiani arrosto e
un’anatra al curry che le fa
ricordare con affetto i giorni in cui
cucinavano per Ramanujan. Ma lei
non tollera più questo genere di
cose. La sua vita a Londra è
caratterizzata da un’accurata
frugalità. Beve tè leggero, mangia
sandwich con le fettine di
formaggio più sottili che si possano
immaginare tra due fette di pane
altrettanto sottili. Ogni tanto
un’arancia. Ha perso peso, il che
irrita Eric. «Preferisco una donna
un po’ più in carne» dice, dandole
una pacca sul sedere ormai non più
abbondante.
Lei lo ignora. Come può farsi
capire da un uomo che non
riconosce neppure il proprio
dolore? Forse dovrebbe dirgli:
“Eric, quel che provi è dolore,
perché tua moglie, che tu ami, non
ti ama più”. Allora capirebbe. Ma
se gli dicesse: “Non posso
sopportare, in questo momento, di
essere nutrita in abbondanza e di
dormire comodamente, devo
camminare nel freddo senza stivali
e senza ombrello, devo dormire in
un appartamento poco riscaldato,
in un letto che è una tortura per la
mia schiena”, sarebbe in grado di
capire questo bisogno di penitenza,
di contrizione? Il bisogno, forse, di
sperimentare anche solo un
frammento delle sofferenze che
patiscono i soldati al fronte. O il
bisogno di liberarsi di quel sapore
terribile che ha in bocca, quel gusto
di tè di cui sapeva il fiato di
Ramanujan, quando aveva
premuto le labbra sulle sue, e lui…
lui era rimasto lì impalato.
Le sembra impossibile di aver
fatto una cosa simile. Di essersi
svergognata così. È una cosa che
non potrebbe mai dire a Eric.
E se non può dirgli, se non può
esprimere né per lui né tanto meno
per se stessa, ciò che aveva provato
quel pomeriggio, mentre rincasava
dal Trinity, come può spiegargli
come mai ha bisogno dell’austerità
del letto stretto di Gertrude, in
quello squallido appartamento?
Hardy non è più tornato. Non
dopo quell’unica visita. Né lei ha
chiesto a Gertrude se ha parlato
con suo fratello del fatto che lei sta
a casa loro.
Strano che nel corso di
quell’unica notte, la notte in cui
entrambi hanno dormito
nell’appartamento, non abbiano
mai parlato di Ramanujan. Lei non
ha mai accennato, e lui neppure,
alla famosa cena alla quale, così
palesemente, non era stata invitata.
O alla scomparsa di Ramanujan e
alla sua successiva riapparizione. O
alla corrispondenza piuttosto tesa
che quella scomparsa aveva
provocato.
Neppure Eric nomina mai
Hardy. O Ramanujan. Come mai?
Forse perché, senza ammetterlo,
intuisce l’imbarazzo che i loro nomi
suscitano in lei? È ovvio che li vede
entrambi. Hardy ogni giorno.
Quando non parlano di
matematica, devono parlare di
politica, del rifiuto di Russell di
tenere la bocca chiusa, dello sforzo
quasi puntiglioso che sta facendo
per provocare Butler. Eric è felice
di raccontare ad Alice tutto quello
che succede al Trinity. Ma per
qualche ragione, quando lo fa, non
nomina mai il nome di Hardy.
Sta calando il crepuscolo. Alice è
contenta. Ancora una notte,
ancora un giorno e poi potrà
tornare a Londra. Non vede l’ora
di tornare a Londra. E non solo
perché lì è più felice che qui, di
questi tempi, ma anche perché
nella sua vita è entrato qualcuno la
cui sola presenza basta a resuscitare
in lei il senso della possibilità.
Prospettive di piacere,
quand’anche remote, le si
presentano ogni volta che vede
questa persona. Questa persona
che ha rivisto, per la prima volta, la
settimana scorsa, a casa di Mrs.
Buxton. Una nuova recluta. «Ah,
Alice» aveva detto Dorothy –
ormai si davano del tu – «mi
chiedo se potresti accompagnare in
giro questa signora. È venuta a
prendere del lavoro da portare a
casa. Vive in Cornovaglia e parla
un perfetto italiano.»
Alice si era girata. Davanti a lei,
raggiante e molto incinta, c’era
Mrs. Chase. L’amica di Littlewood,
che lei e Gertrude avevano
incontrato, anche se brevemente,
allo zoo.
«Ci conosciamo» aveva detto
Alice.
«Davvero?» aveva chiesto Mrs.
Chase aggrottando la fronte,
confusa. «Mi scusi. La mia
memoria è terribile di questi tempi.
È singolare, questa è la terza volta
che sono incinta, e ogni volta
succede qualcosa di molto strano.
L’ultima volta ero costantemente
assetata.»
«Non si preoccupi» aveva detto
Alice. «Sono Alice Neville. Ci
siamo conosciute allo zoo… oh,
sembrano secoli fa. Ero con
Gertrude Hardy.»
Allora il ricordo era tornato, un
risveglio visibile negli occhi di Mrs.
Chase. Ma era un buon ricordo?
«Certo» aveva detto, sorridendo.
«Che bello rivederla!»
E, prendendo il braccio di Alice
– che eccitante mistero – l’aveva
baciata sulla guancia.
14

New Lecture Hall, Università di


Harvard
Alla fine del 1916 avevamo la
formula per la funzione di
partizione. Ecco come si
presentava:

dove
essendo la somma estesa a tutti i p
interi positivi minori e primi
relativi di q,v è dell’ordine di , e
wp,q è una certa radice 24-esima
dell’unità

Oggi, ogni volta che scrivo quella


formula, penso: che creatura
straordinaria! È come uno di quegli
orsi da circo addestrati a tenere
un’automobile in equilibrio sul
naso, o qualcosa del genere. C’è
uno splendore in ogni sua barocca
tortuosità; ma è uno splendore che
cela il laborioso processo che ci ha
condotto a essa: un procedimento
basato, a volte, su tentativi ripetuti,
come se ci fossimo trovati in una
stanza le cui pareti erano ricoperte
di migliaia e migliaia di interruttori
della luce, e avessimo dovuto
provarli uno a uno allo scopo di
ottenere, alla fine, un livello molto
preciso di luminosità. Un
interruttore ci portava vicino, poi
ne provavamo un altro e la luce
diventava accecante, oppure la
stanza piombava nel buio.
Tuttavia, nel giro di alcune
settimane, ci arrivammo vicini, e
poi, quasi senza accorgercene, un
bel giorno avevamo la luce giusta.
Adesso, ancora una volta, dovrò
rivolgermi alla fazione mistica che
accetta, senza ombra di incredulità,
la pretesa di Ramanujan che le sue
scoperte matematiche gli venissero
in sogno, o che le formule gli
fossero scritte sulla lingua da una
divinità. Sono sicuro che lui ci
credeva davvero, come sono sicuro
che, talvolta, riusciva a estrarre
dagli abissi della sua
immaginazione bauli di tesori dai
quali facevano capolino gioielli
luccicanti, mentre il resto di noi
continuava a lavorare di scalpello
nelle miniere di diamanti. Eppure,
la capacità di viaggiare
regolarmente (come il povero
Moore non riusciva a fare) in
regioni della mente dalle quali la
maggior parte di noi è esclusa non
richiede necessariamente
l’intervento di una dea. Al
contrario, tutti noi, a volte,
sperimentiamo simili “miracoli”.
Lasciate che vi faccia un
esempio. Tutti quelli di voi che lo
conoscono, converrebbero che
nessun matematico è meno
“mistico” di Littlewood. Eppure,
persino Littlewood una volta mi
descrisse un’occasione in cui,
mentre lavorava al problema M1 <
(1 - c)M2 per polinomi
trigonometrici reali, «la sua matita
scrisse» una formula casuale che si
rivelò essere la chiave della
dimostrazione. Secondo
Littlewood, questo episodio era
avvenuto «quasi senza la
partecipazione della coscienza»,
affermazione che, se la psicanalisi
fosse stata in voga durante la
guerra, sarebbe stata di notevole
interesse per i suoi adepti. In
quegli anni, invece, sarebbe stata
interessante solo per gli adepti
della tavola Ouija. Ed è proprio
questo il punto. Se io oggi
annunciassi che una divinità ha
scritto formule sulla mia lingua, mi
indichereste la strada per il
manicomio. Ma Ramanujan era
indiano, e pertanto veniva
etichettato come “visionario”.
Tuttavia ciò che questa etichetta
trascura è il prezzo che egli dovette
pagare per la sua visione, e quanto
duramente dovette lavorare per
conquistarla.
Sebbene sia vero, per esempio,
che la formula sgorgò da una delle
congetture che si era portato dietro
dall’India, bisogna sapere che il
viaggio da quella congettura
iniziale al prodotto finale fu lungo
e laborioso. Fu un processo di
perfezionamento, e sebbene sia
giusto dire che se non avessi
contribuito con un certo know-
how tecnico che io possedevo e lui
no non saremmo mai arrivati alla
formula, lasciate che vi dica che il
mio contributo non fu soltanto
tecnico. Diedi anch’io il mio
contributo visionario.
Ricordo che era Natale quando
finimmo. Io ero a Cranleigh, nella
casa in cui ero cresciuto, la casa che
mia madre condivideva con mia
sorella, e dove io tornavo per le
vacanze. Mia madre, a questo
punto, stava morendo da anni.
Ogni pochi mesi sembrava in
punto di morte, vedeva gli angeli
che la chiamavano, e poi, all’ultimo
momento, qualcosa la strappava
dal baratro e in men che non si
dica era scesa dal letto e preparava
il tè, proponendo una partita di
Vint. Di questo gioco – chissà se
qualcuno se ne ricorda ancora? –
era una vera appassionata.
All’origine era russo, una variante
del bridge. (Mi dicono che “Vint”
significa “vite” in russo.) Quel
Natale lo giocammo per ore ogni
giorno, con la vicina e amica di mia
madre, Mrs. Chern, a fare da
quarta. Mrs. Chern barava, credo.
Chissà se mia madre se ne
accorgeva.
Forse ho già accennato al fatto
che possedeva un certo talento
matematico, un talento, mi duole
dire, che applicava solo al gioco del
Vint, che se non altro ha il
vantaggio di essere un passatempo
innocuo, al contrario degli occulti
malefici in cui indulgeva la madre
di Ramanujan. E mia madre,
bisogna concederglielo, era
un’ottima giocatrice di Vint. Brava
quasi quanto me. Quell’anno mi
venne l’idea di scrivere un libro su
come vincere a Vint, e ricavarne
abbastanza soldi da poter smettere
di insegnare. Il mio obiettivo, dissi
a Russell, era di realizzare un
milione di punti, in modo che in
seguito, quando la gente mi
avrebbe chiesto qual era stato il
mio ruolo nella Grande Guerra,
avrei potuto dire che ero diventato
presidente della Lega del Vint e
regalato al mondo il beneficio della
mia competenza. Ma non scrissi
mai il libro, come non scrissi mai il
giallo sull’ipotesi di Riemann; e
adesso, quando la gente mi chiede
cosa ho fatto nella Grande Guerra,
rispondo che mi sono occupato di
Ramanujan. Forse quando sarò
vecchio e rimbambito scriverò
entrambi i libri.
Ma sto divagando. Per tornare
alle partizioni, quel Natale
Ramanujan mi spedì una cartolina
dal Trinity, fornendomi l’ultimo
tassello del puzzle e chiedendomi
di scrivere la dimostrazione finale.
Nel frattempo MacMahon, che era
davvero la più cara delle creature,
gli aveva fornito la copia
dattiloscritta dei valori che aveva
trovato per p(n) fino a n = 200, e
Ramanujan aveva fatto i suoi
confronti. La formula non era
precisa: dava una risposta che era
corretta solo se arrotondata al
numero intero più vicino. Tuttavia
la differenza era estremamente
piccola. Nel caso di n = 100, per
esempio, la nostra formula dava un
valore per p(n) di
190.569.291,996, mentre il valore
effettivo era 190.569.292. Per
essere precisi, una differenza di
0,004.
Ramanujan era entusiasta dei
risultati. Li definiva “notevoli”; una
valutazione insolitamente positiva,
venendo da lui. La notizia era
abbastanza eccitante perché ne
accennassi a mia madre, alla quale
parlavo di rado del mio lavoro, ma
poiché la questione non aveva
alcun rapporto con il Vint lei reagì
con un’aria di finta vaghezza,
dicendo qualcosa come “Che bello”
prima di tornare al tavolo delle
carte.
Era davvero una vecchia volpe,
sapete. La vaghezza era per lei una
buona scusa, alla quale ricorreva
quando un argomento la annoiava.
La sua malattia le permetteva di
farla franca con un sacco di cose
che non le sarebbero state
consentite se fosse stata in buona
salute. E nel frattempo la mia
povera sorella le prestava
assistenza, assecondando ogni suo
capriccio senza mai riuscire a
distinguere i disturbi reali da quelli
puramente immaginari. Povera
Gertrude. Aquesto proposito era
molto più credulona di me.
Chissà se l’affare Russell era in
pieno svolgimento allora. Penso di
sì. Ma no: il grosso dell’azione – il
suo arresto, il processo, il suo
allontanamento dal Trinity –
doveva essersi verificato verso la
fine dell’estate o l’inizio
dell’autunno, perché ricordo che la
luce entrava dalla finestra mentre
leggevo una delle sue lettere
bevendo il tè. ANatale sarebbe già
stato buio all’ora del tè, un buio
che, durante la guerra, il divieto di
accendere i lampioni stradali
rendeva ancor più fitto.
L’abitudine della memoria – della
mia perlomeno – è di organizzare
per categoria, non per data. È come
se una segretaria di lunga data
avesse sradicato gli eventi dalla
loro sequenza naturale per poi
schedarli sotto etichette quali
“Ramanujan”, “Guerra”, “Affare
Russell” talché, adesso, per
distinguere chiaramente la
cronologia devo prima estrarre da
ogni fascicolo i dettagli riguardanti
un determinato momento e poi
sistemarli accanto ai dettagli di un
altro momento, estratti da un altro
fascicolo. E nemmeno quando ho
completato questa elaborata
ricostruzione sono del tutto
convinto della sua veridicità.
In ogni caso, questo è un
episodio che se mai voi uomini di
Harvard ne avete sentito parlare è
solo perché ha toccato
superficialmente la storia della
vostra illustre università. Nel 1916,
infatti, non solo Russell fu
allontanato dal Trinity, ma gli
venne anche negato il passaporto
dal Foreign Office, cosa che gli
impedì di ricoprire il posto che gli
era stato offerto a Harvard. E tutto
questo, naturalmente, soddisfaceva
in pieno le sue intenzioni.
Cercherò di essere il più breve
possibile. Russell, al contrario di
quanto comunemente si crede,
non fu allontanato dal Trinity
dopo essere stato incarcerato. In
realtà, quando fu mandato in
prigione erano già passati due anni
dal suo licenziamento. Il suo
secondo arresto fu la conseguenza
di un articolo scritto per il
“Tribunal” che fu giudicato una
minaccia per i rapporti tra
l’Inghilterra e gli Stati Uniti; la mia
personale convinzione è che scrisse
quell’articolo proprio per essere
incarcerato, dimostrando così, una
volta per tutte, di essere
assolutamente pronto a sopportare
sofferenze, se non eguali, per lo
meno vicine a quelle che pativano
gli uomini al fronte. Perché era
difficile, nella sua posizione,
sfuggire all’etichetta di imboscato,
e la prigione avrebbe dimostrato la
virilità della sua opposizione.
Ma sto correndo troppo. Nel
1916 non credo che Russell avesse
già in mente la prigione. Quello
che aveva fatto era riconoscere, in
una lettera al “Times”, la paternità
di un opuscolo distribuito
dall’Associazione anticoscrizione.
L’opuscolo conteneva un
linguaggio che il governo
considerava incendiario e
verosimilmente illegale, così,
quando Russell annunciò di
esserne l’autore, la Corona non
ebbe altra scelta se non intentare
un’azione legale contro di lui.
L’accusa specifica fu che
nell’opuscolo Russell aveva fatto
affermazioni che “potevano
pregiudicare il reclutamento e la
disciplina delle forze di Sua
Maestà”. Era proprio quel che
Russell voleva, perché adesso
poteva usare il processo come cassa
di risonanza per il suo pacifismo.
Facendosi portare in giudizio e, se
possibile, incarcerare, sperava sia di
attirare l’attenzione sulle ingiustizie
che subivano gli obiettori di
coscienza, sia di ottenere un
pubblico più vasto per le sue tirate.
Il problema era che le sue tirate
potevano scavalcare
completamente il pubblico cui
erano dirette. Al processo, Russell
si comportò in tutto e per tutto
come il logico che smantella le
argomentazioni dell’accusa come
fossero uno specioso ragionamento
matematico. Per esempio,
nell’affrontare l’accusa principale
contro di lui – che l’opuscolo
pregiudicava il reclutamento – fece
notare che, all’epoca in cui
l’opuscolo era stato distribuito, gli
uomini celibi erano già soggetti alla
coscrizione, mentre gli uomini
sposati non lo erano. Pertanto,
l’unica influenza deleteria che
l’opuscolo avrebbe potuto avere
sarebbe stata esercitata sugli
uomini sposati che stavano
prendendo in considerazione
l’arruolamento volontario e
pertanto, ex hypothesis (Russell usò
effettivamente questa espressione),
non erano obiettori di coscienza.
L’opuscolo, concluse Russell, si
limitava a informare questi uomini
che, se sceglievano di “spacciarsi”
per obiettori di coscienza,
rischiavano fino a due anni di
lavori forzati. «Non credo proprio»
disse Russell, «che venire a
conoscenza di questo fatto possa
indurre un uomo di questo genere
ad atteggiarsi a obiettore di
coscienza se non lo è.»
Un’argomentazione che, mentre
poteva abbagliare uno studente del
Trinity, nel caso di un giudice
sarebbe risultata solo indisponente.
E in effetti Russell si inimicò il
giudice. Direi che la strategia gli si
ritorse contro, col risultato che
Russell fu giudicato colpevole e
condannato a una multa di 100
sterline, che si rifiutò di pagare. E
l’ironia è che avrebbe potuto
cavarsela facilmente. La causa della
Corona contro di lui era
incredibilmente debole. Adesso ho
il sospetto che il suo gioco fosse
molto più scaltro di quanto
ciascuno di noi pensasse; ovvero
che, resosi conto della debolezza
dell’accusa, aveva scelto
intenzionalmente di adottare un
approccio che avrebbe irritato il
giudice, assicurandogli la
detenzione. Ora, dal momento che
si rifiutava di pagare la multa, tutti
i beni dei suoi appartamenti al
Trinity sarebbero stati messi
all’asta. I giornali avrebbero
pubblicato dei servizi sull’asta e lui
avrebbe fatto la figura del perfetto
martire.
D’altra parte, dubito molto che
si aspettasse che il Consiglio del
Trinity arrivasse davvero a
licenziarlo. Io non me lo aspettavo
di certo. Dopotutto, una cosa è
negare a un gruppo pacifista il
permesso di riunirsi all’interno del
college, tutt’altra cosa è revocare la
fellowship a un uomo eminente,
rispettato e famoso come Bertrand
Russell. E sebbene il regolamento
del college conferisse al Consiglio il
diritto di licenziare un fellow
condannato per un crimine, non lo
obbligava a farlo. C’era una scelta
da fare e, nel farla, il Consiglio si
rivelò dispotico e codardo, e minò
– forse in modo permanente – le
fondamenta stesse della libertà
intellettuale su cui era costruito,
suscitando l’ira sia all’interno sia
all’esterno di Cambridge.
Ma fu ancora peggio di così.
Degli undici membri del Consiglio
che votarono contro Russell,
cinque erano Apostoli, McTaggart
e Jackson tra gli altri. Ancor oggi
sono convinto che quell’individuo
spregevole di McTaggart avrebbe
dovuto essere maledetto e roby-
zzato per ciò che fece, perché Roby
a suo tempo aveva semplicemente
deciso che la Società degli Apostoli
non era degna del suo tempo,
mentre McTaggart si era rivoltato
contro un confratello che un
tempo lo aveva considerato il suo
mentore. Quell’anno, ogni volta
che vedevo McTaggart strisciare
lungo un muro, o arrancare sul suo
triciclo sgangherato, andavo dalla
parte opposta, per timore di
perdere le staffe e prenderlo a
calci. Finalmente capivo perché,
nei suoi giorni di scuola, prenderlo
a calci fosse stata una tentazione
così irresistibile per gli altri ragazzi.
Naturalmente, se Russell era
scosso, parve riprendersi
abbastanza in fretta, tanto che nel
giro di pochi giorni mi disse che il
licenziamento dal college era la
cosa migliore che sarebbe potuta
succedergli perché, per come la
mise lui, “aveva risolto il
problema”. Adesso sarebbe stato
libero dal Trinity una volta per
tutte, e avrebbe potuto viaggiare in
giro per il paese offrendo “cibo
intellettuale” agli uomini della
classe operaia, a minatori e via
dicendo. Se ci credesse davvero o
avesse stretto un patto con il suo
orgoglio, non saprei dirlo, ma partì
veramente, andò in Galles e in altri
posti a tenere delle conferenze. Né
posso dire che avesse l’aria di
rimpiangere il Trinity, nelle
occasioni in cui lo vidi a Londra.
Non posso dargli torto. Anch’io
detestavo il Trinity.
Sì, lo odiavo con tutta l’anima.
Oggi lo dico senza un’ombra di
rammarico o d’imbarazzo, anche
se, nel frattempo, ho lasciato il
Trinity per Oxford e poi ci sono
tornato di nuovo. Licenziando
Russell, ne convenimmo tutti, il
Consiglio aveva davvero passato il
segno. Eppure eravamo divisi su
come reagire, alcuni (me incluso)
ritenevano necessaria un’azione
militante, altri invece credevano
che dovessimo mantenere un basso
profilo almeno fino alla fine della
guerra. Arrivammo dunque a un
compromesso. Invece di una
dichiarazione dai toni forti,
pubblicata sul “Cambridge
Magazine”, alla fine ci
accontentammo di una fiacca
petizione da diffondere solo
all’interno del college:
I sottoscritti Fellow del College,
sebbene non propongano di prendere
provvedimenti in materia durante la
guerra, desiderano mettere agli atti che
non concordano con la decisione del
Consiglio di privare Mr. Russell del
suo incarico di docente.
La cosa sconcertante, ripensandoci,
è che persino con questo
linguaggio stemperato
raccogliemmo solo ventidue firme.
Furono soprattutto i fellow con un
incarico permanente, ovvero quelli
le cui firme avrebbero contato di
più, a rifiutarsi di firmare. Né
Russell ci facilitò le cose quando
scrisse al portiere del Trinity e
chiese che il suo nome venisse
cancellato dai libri del college.
Forse vi sembrerà strano che un
gesto del genere fosse considerato
provocatorio, ma al Trinity di
quegli anni qualsiasi azione potesse
essere interpretata come
un’espressione di disprezzo per la
tradizione veniva presa molto sul
serio. A causa di questa sua
iniziativa, per poco non
rinunciammo a qualsiasi sforzo,
concludendo che se Russell non
desiderava essere aiutato non
aveva senso mettere a repentaglio il
nostro futuro per aiutarlo. Lui,
infatti, in quel periodo se la stava
spassando, bevendo birra con i suoi
nuovi compagni minatori del
Galles, e dormendo con tre donne
alla volta, anche se non riesco a
immaginare come facessero a
sopportare il suo alito pestilenziale.
E Ramanujan, che cosa ne
pensava di tutto questo? Si rendeva
almeno conto che stava
succedendo? Vorrei tanto saperlo.
Vorrei averglielo chiesto. Ma non
lo feci.
Indubbiamente, il momento più
assurdo di tutto l’affare Russell fu
l’asta dei suoi beni; asta resasi
necessaria, come ricorderete, in
seguito al suo rifiuto di pagare la
multa. Comunque, fin dall’inizio
mantenne un subdolo controllo sul
procedimento. Dovete sapere che
aveva due domicili: oltre alle sue
stanze al Trinity, teneva un
appartamento a Londra e in un
modo o nell’altro era riuscito a
convincere il tribunale a non
intervenire sull’appartamento di
Londra e a sequestrare solo quello
che c’era al Trinity. Ho il sospetto
che, dal suo punto di vista, l’asta
dei suoi beni al Trinity risultasse
doppiamente benefica: non solo lo
spettacolo dell’asta avrebbe
rafforzato la sua reputazione
pubblica, ma l’avrebbe anche
esonerato dalla fatica di tornare al
Trinity per svuotare i suoi
appartamenti, che avrebbe lasciato
in ogni caso. Adesso il suo giro di
conferenze nel Galles non doveva
più essere interrotto. E
naturalmente – perlomeno questo
è quel che disse all’inizio – non gli
importava granché delle sue cose al
Trinity. La verità è che non
avevano molto valore. In
circostanze normali non avrebbero
mai fruttato le 110 sterline (100
per la multa più 10 per i costi) che
Russell era tenuto a pagare se
voleva evitare la prigione. Infatti
era robaccia, scelta volutamente, o
così pensavamo Norton e io, per
suggerire il tipo di studiata
indifferenza all’ambiente che
Russell pensava si addicesse a un
intellettuale.
Ora, nel rileggere l’annuncio
della vendita (la segretaria di lunga
data lo ha conservato), sono
davvero sbalordito dalla sua
brutalità. I banditori d’asta, i
signori Catling e figlio, erano
esperti nell’uso di un certo tipo di
linguaggio il cui unico scopo è
stuzzicare l’appetito di antiquari e
collezionisti rapaci. Infatti dovete
sapere che la maggior parte degli
oggetti era priva di gusto e di
valore, e fu proprio per questo che
Norton e io ridemmo nel vedere
un tavolino particolarmente
orrendo descritto come “Scatola da
tè in legno di Coromandel,
decorata da 10 medaglioni
d’ottone incastonati” o la
sgangherata scrivania di Russell
trasformata in uno “scrittoio di
noce” o i tappeti macchiati descritti
come “tappeti turchi della miglior
qualità”. Invero, di tutti i mobili di
Russell, solo un pezzo – un divano
Chippendale a sei piedi – aveva
una certa bellezza, e alla fine lo
comprai io stesso.
Comunque, tutta l’ilarità che
poteva aver suscitato questo
annuncio venne meno con il primo
paragrafo. Infatti, dopo aver
incluso nella lista “più di 100 once
di vasellame d’argento, Articoli
placcati, Orologio d’oro da uomo
con catena”, i signori Catling e
figlio saltavano una riga e
annunciavano – il testo qui è
centrato e maiuscolo – il pezzo
forte: “MEDAGLIA D’ORO BUTLER
DELLA COLUMBIA UNIVERSITY ,
conferita a Bertrand Russell nel
1915”. Infine i libri: Royal Society
Proceedings and Transactions,
London Mathematical Society
Proceedings; le opere complete di
Blake, Bentham, Hobbes; il
Baldwin’s Dictionary of Philosophy
and Psychology; la Cambridge
Modern History. Vendere la
medaglia di un uomo! E i suoi
libri! Persino Russell al pensiero di
queste perdite deve aver provato
una stretta al cuore sufficiente a
ricredersi sul suo desiderio di
vedere tutto venduto; infatti, pochi
giorni prima dell’asta scriveva che,
benché non gli importasse
rinunciare ai testi di filosofia e di
matematica, non gli sarebbe
piaciuto perdere i libri di
letteratura. E infine – un’ulteriore
finezza – benché fosse vero che
non gli importava rinunciare ai
libri di filosofia e di matematica,
pensava che gli sarebbe piaciuto
tenere le opere complete dei grandi
filosofi, poiché erano appartenute a
suo padre. E poi c’era il tavolino da
tè, per il quale sembrava nutrire un
affetto spropositato. Ma la
medaglia poteva andare. Avrebbe
fatto notizia, questo emblema della
sua fama d’oltreoceano fuso e
messo sul mercato come oro
grezzo. Era irresistibile per lui.
La mattina dell’asta chiesi a
Ramanujan se voleva venire con
me e lui acconsentì. Era una di
quelle giornate calde che mi
avrebbero dato molto più piacere
in tempo di pace. Adesso infatti
non desideravo più il sole e le
foglie e il fiume. Volevo un grigiore
che si avvicinasse almeno
vagamente alla cupezza della
Somme. E suppongo che anche
altri provassero lo stesso
sentimento, perché quando
arrivammo al Corn Exchange
vedemmo che l’asta aveva attirato
solo un pubblico esiguo. C’era
Norton, naturalmente, blocco e
penna in mano, perché teneva i
conti degli incassi e doveva
annotarsi il prezzo che ciascun
lotto spuntava. Non c’erano
rappresentanti della stampa,
neppure del “Cambridge
Magazine”. Persino il banditore
sembrava accusare la meschinità
della cosa, perché il suo
imbonimento mancava di
convinzione, e abbassava il
martelletto senza forza o
entusiasmo. Se Russell fosse stato
presente, sospetto che avrebbe
provato una cocente delusione.
Il primo lotto, disse il banditore,
era già venduto. Consisteva
nell’argenteria, nell’orologio con
catena, nella medaglia e nel
famoso tavolino da tè a cui Russell
era tanto affezionato, ed era stato
pagato con i fondi raccolti da
Morrell e Norton tramite la loro
sottoscrizione. Ma adesso anche la
maggior parte dei libri era stata
ritirata, per cui restavano solo i
mobili, le lenzuola, i tappeti e
alcune cianfrusaglie ripescate in
fondo ai cassetti. Tutto questo
spuntò, in totale, 25 sterline. Io mi
accaparrai il divano Chippendale
per poco più di 2 sterline, l’unico
gesto di sottile rappresaglia che mi
concessi. Norton comprò delle
tovaglie danesi, mentre
Ramanujan, con mia grande
sorpresa, fece un’offerta per un
piccolo ritratto di Leibniz che
ricordavo di aver visto sulla
mensola del caminetto di Russell,
appoggiato in mezzo a due
candelabri d’argento. Nessuno fece
un’altra offerta e lui ottenne il
ritratto per poco o niente.
Dopo l’asta facemmo tutti e tre
una passeggiata lungo il fiume.
«Naturalmente gli ridarò le
tovaglie» disse Norton.
«Perché?» dissi io. «Delle
vecchie tovaglie macchiate di tè.
Probabilmente non ricorda
nemmeno di averle avute.»
«Ma è una questione di
principio» disse Norton. «Tu gli
restituirai il divano, vero?»
«No, credo che starà molto
meglio nei miei appartamenti che
nei suoi» risposi. «Potrei persino
farlo rivestire. Pensavo a una toile
de Jouy. Adisegni azzurri su fondo
bianco. Non sarebbe un bel
cambiamento, Ramanujan, quando
lavoriamo alla formula per la
funzione di partizione?»
Ramanujan non disse niente.
Chiaramente non sapeva cosa fosse
una toile de Jouy.
«Senza dubbio Mr. Ramanujan
trova la nostra britannica
preoccupazione per i mobili e gli
arredi alquanto bizzarra» disse
Norton.
«A proposito, perché hai
comprato il ritratto di Leibniz?»
«Leibniz era un grande
matematico. Ma naturalmente lo
restituirò a Mr. Russell, se pensi
che dovrei.»
«No, tienilo. Se l’avesse voluto,
Russell l’avrebbe fatto sapere a
Norton.»
Ci sedemmo su una panchina.
Alcuni cigni stavano approdando
sulla riva del fiume. «Perfide
creature» disse Norton e cominciò
a raccontare una storia di come un
cigno avesse attaccato lui e sua
madre quando era piccolo. Prima
che potesse finire, Ramanujan si
mise a tossire rumorosamente, si
alzò e disse: «Scusatemi, ma temo
di dover tornare nelle mie stanze».
Dopodiché se ne andò.
«Che stranezza» dissi
guardandolo mentre si allontanava
con passo incerto. «Mi chiedo se
non stia male.»
«Altroché!» esclamò Norton.
«Cosa vuoi dire?» gli chiesi.
«Ma come, non lo hai notato?»
disse. «Sono settimane che sembra
un fantasma.»
Guardai i cigni. La loro
compiaciuta bellezza, la diligente
attenzione che prestavano al loro
bianco piumaggio, celava una
spavalda brutalità. Scivolavano via,
trasportati dalla corrente,
apparentemente dimentichi della
nostra presenza, ma era
un’illusione, la perenne illusione
che le creature dotate di occhi
laterali suscitano in quelle con gli
occhi frontali. Il nostro errore,
come sempre, era presumere che la
prospettiva degli altri fosse uguale
alla nostra; scambiare una
sorveglianza ostile per
disattenzione. Sì, ci stavano
osservando.
Ci alzammo e c’incamminammo
verso il college. Forse dovremmo
essere perdonati per il fatto di non
accorgerci dei cambiamenti fisici
nel compagno con cui trascorriamo
la maggior parte del tempo.
Norton, che lo vedeva con minore
frequenza, se ne accorse prima di
me.
«Probabilmente è perché sta
lavorando troppo» dissi. «A volte
sta alzato tutta la notte. Si
dimentica di mangiare.»
«Certo, è molto probabile» disse
Norton, «tuttavia non credi che
dovrebbe andare da un dottore?»
«Perché?»
«Be’, tanto per essere sicuri.»
«Sì, ma se gli chiedessi se si sente
poco bene, lui negherebbe di avere
qualsiasi problema. Direbbe che
non ha bisogno di un dottore. E
anche se gli venisse ordinato, non
si concederebbe un po’ di riposo. È
ossessionato dal suo lavoro.»
«L’ossessione per il lavoro può
portare a un crollo nervoso» disse
Norton, indubbiamente
ricordando la propria esperienza.
Ci separammo nella New Court,
e io tornai nei miei appartamenti,
dove quella sera pensai a
Ramanujan come non facevo da
parecchio tempo. Era vero, una
patina di malinconia offuscava
quasi sempre la sua studiata
gentilezza. Era forse il clima, come
al solito, il problema? La difficoltà
di trovare gli alimenti che riusciva
a tollerare? Se non si fosse trattato
di Ramanujan, gli avrei chiesto
cos’è che non andava. Ma
trattandosi di Ramanujan, mi
avrebbe risposto che non c’era
niente che non andava, mentre in
realtà c’era parecchio di cui
preoccuparsi, anche se, di cosa
esattamente, lo avrei saputo solo
molto tempo dopo.
Come ho già detto, per molti
mesi, sebbene avesse ricevuto
molte lettere da sua madre, non ne
aveva ricevuta nessuna da sua
moglie Janaki. Ebbene, sembra che
a un certo punto nel corso di
quell’estate avesse finalmente
ricevuto una lettera da Janaki, una
lettera molto inquietante, in cui lo
informava di non essere più a
Kumbakonam; adesso stava a
Karachi, a casa di suo fratello. Lei e
il fratello sarebbero tornati presto
al loro villaggio, perché lui stava
per sposarsi; quindi Ramanujan
poteva spedirle del denaro per un
sari nuovo da indossare al
matrimonio? E con che strano
miscuglio di amarezza e sollievo
Ramanujan accolse quella lettera!
Perché finalmente, dopo due anni,
Janaki aveva riconosciuto la sua
esistenza. Ma la riconosceva solo
per chiedergli del denaro. Non
veniva detta una parola sulle molte
lettere che le aveva scritto, e che
presumeva lei avesse ignorato,
mentre la verità, come apprese in
seguito, era che sua madre le aveva
intercettate. La reticenza della
ragazza, dovuta in realtà al fatto
che sapeva scrivere a malapena, fu
interpretata da Ramanujan come
freddezza. Pertanto spedì il
denaro, ma controvoglia.
Komalatammal, naturalmente,
approfittò della fuga di Janaki per
avanzare le sue accuse contro la
ragazza. Il matrimonio del fratello,
disse a Ramanujan, era solo una
scusa. La triste verità era che
Janaki era una pessima ragazza,
una pessima nuora e una pessima
moglie. Probabilmente
Komalatammal insinuava che ci
fosse un altro uomo sulla scena. Il
vero motivo di Janaki per scappare
– sfuggire alla tirannia della
suocera che la stava portando al
punto di rottura – Komalatammal
lo teneva nascosto, forse anche a se
stessa.
Dio, quella donna! Se almeno
Janaki avesse spiegato tutto questo
a Ramanujan! Ma non lo fece,
forse perché non vedeva alcuna
necessità di farlo; oppure non si
rendeva conto che Komalatammal
avrebbe distorto i fatti per
rafforzare la sua posizione; oppure
dava per scontato che Ramanujan
avrebbe capito implicitamente i
suoi motivi. E non aiutò certo la
sua causa quando, al termine della
“visita” al fratello, scelse di
rimanere a casa dei suoi genitori
invece di tornare in quella della
suocera. Questo “abbandono”
diede a Komalatammal le
munizioni di cui aveva bisogno.
Eppure, nonostante tutti i suoi
supposti poteri occulti, non ne
possedeva abbastanza in fatto di
intuizione psicologica per capire
che i suoi sotterfugi avrebbero
compromesso il rapporto di
Ramanujan con lei più che con sua
moglie. Ramanujan infatti doveva
aver intuito, anche a quella
distanza, gli sforzi rapaci di
Komalatammal per frapporsi tra lui
e Janaki e, mentre prima le
scriveva ogni settimana, adesso
cominciò a scriverle solo una volta
al mese, e poi ogni due mesi, e
infine smise del tutto.
Quindi vedete bene che aveva
delle preoccupazioni di cui io ero
praticamente all’oscuro. Ma, in
tutta onestà, anche se mi avesse
confidato alcune di queste
preoccupazioni, è probabile che
non ci avrei fatto caso. La mia
attenzione, al pari della sua, era
quasi tutta concentrata sulla
matematica. Quel poco che restava
era assorbito dall’affare Russell.
Non che gli imponessi del lavoro.
Ramanujan e io eravamo uniti
nella nostra dedizione a un
compito di fronte al quale il
bisogno di mangiare, il bisogno di
amare perfino, scomparivano. Sarei
tentato di dire che la nostra
intimità era ancor più forte per
tutte le emozioni che annullava,
perché quando lavoravamo
insieme lo strano miscuglio di
compassione e irritazione,
soggezione e perplessità che l’idea
di Ramanujan suscitava in me si
affievoliva, fino a diventare
inconsistente e svanire del tutto.
Sospetto che, qualunque cosa io
rappresentassi per lui, svanisse a
sua volta. In un’atmosfera del
genere, tutto ciò che minacciava di
incidere sul lavoro mi irritava.
Eppure lavoravamo insieme al
massimo quattro ore al giorno. E
quindi per venti ore eravamo
separati.
Mrs. Neville aveva torto ad
accusarmi di ignorare,
sostanzialmente a suo rischio e
pericolo, l’infelicità di Ramanujan.
Se fosse stata più sagace o più
intelligente avrebbe formulato
l’accusa giusta, e precisamente che
non riuscivo a rispettare la sua
infelicità. Nei confronti delle sue
sparizioni, dei suoi malumori, dei
suoi momenti di caparbietà, ero
semplicemente tollerante. Non mi
curavo di chiedermi cosa ci fosse
dietro. O, se ci pensavo, era solo
per la frustrazione, quando il suo
comportamento interferiva con il
nostro lavoro.
Quell’autunno, per esempio,
prese finalmente la laurea. Scrissi a
Madras una relazione entusiastica
dei suoi progressi. Lessi persino
uno dei suoi saggi alla Cambridge
Philosophical Society, anche se lui
non venne alla riunione. Lo
invitai? Probabilmente no.
Probabilmente pensai che sarebbe
stato troppo intimidito per voler
partecipare.
Eppure la laurea, contrariamente
a quanto speravo, non lo placò né
mitigò il suo bisogno di
approvazione. Al contrario, il
conseguimento di questo emblema
del successo – due lettere, B.A.,
che adesso poteva far seguire al suo
nome – non fece che esacerbare la
sua brama di ulteriori trofei. E qual
era il prossimo trofeo da
conquistare? Sembrava che Barnes,
che nel frattempo aveva lasciato
Cambridge, prima di partire avesse
detto a Ramanujan che poteva
contare sull’assegnazione di una
fellowship del Trinity entro
l’autunno del 1917. Io non ne ero
così sicuro. La sua reputazione era
molto legata alla mia, e in quel
periodo non ero esattamente
benvisto al Trinity. Senza contare
che, fino ad allora, non c’era mai
stato un fellow indiano. Però non
me la sentivo di spiegargli tutto
questo. Non volevo dargli un
motivo di ulteriore
preoccupazione. Allo stesso tempo,
non potevo certo confermare le
assicurazioni fatte da Barnes, col
risultato che Ramanujan, che aveva
il vizio di diventare assillante di
fronte all’incertezza, prese a
sollevare la questione della
fellowship quasi ogni giorno, come
aveva fatto con lo Smith’s Prize.
Sappiate che la sua ambizione in
sé e per sé non mi preoccupava.
Capivo e apprezzavo
quell’ambizione, dal momento che
io stesso ne avevo sofferto. Aquei
tempi, infatti, c’era una successione
precisa che garantiva, per così dire,
l’autenticità di un matematico. Lo
Smith’s Prize portava a diventare
fellow del Trinity, essere fellow del
Trinity portava a diventare
membro della Royal Society. Se
non fossi riuscito a ottenere una di
queste onorificenze – che nel mio
caso arrivarono tutte a tempo
debito, “secondo il programma” –
sarei precipitato in un parossismo
di rabbia e dubbi su me stesso.
Quindi perché rimproveravo a
Ramanujan lo stesso bisogno di
affermazione? Perché, suppongo,
intuivo che nel suo caso nessun
premio, per quanto grandioso,
sarebbe stato sufficiente a placare il
suo desiderio. Ma desiderio di
cosa, esattamente? Proviamo a
definirlo, per reductio ad
absurdum, immaginando che non
esistesse. Anni di porte sbattute in
faccia potevano fare di qualcuno
un uomo felice? O quegli anni
avrebbero necessariamente lasciato
in eredità una brama che nessuna
quantità di medaglie avrebbe
saziato? Non c’è da meravigliarsi
che non riuscissi a conciliare quella
brama con la presunta spiritualità
di Ramanujan, quel crogiolo in cui,
sosteneva, venivano forgiate le sue
scoperte! C’erano due domande
diverse: una aveva a che fare con le
origini e l’altra con le conseguenze.
Adesso che sono più vecchio, ho
un atteggiamento più spassionato
verso queste faccende. A
Cambridge ci avevano insegnato a
considerare le nostre vite come
viaggi in treno lungo itinerari
stabiliti, stazione dopo stazione
finché saremmo arrivati a
un’ultima fermata, il capolinea che
in realtà era l’inizio delle cose. Da
quel momento in avanti ci
saremmo crogiolati nel calore del
riposo e dell’agio, di un benessere
sancito istituzionalmente. O
almeno così pensavamo. Ma in
realtà quanti modi ci sono per
uscire dal tracciato e lasciare le
rotaie! E quante volte vengono
cambiati gli orari e i ferrovieri
scendono in sciopero! Come è
facile addormentarsi e svegliarsi
solo per scoprire che si è mancata
la stazione dove bisognava
cambiare treno, o addirittura di
aver preso il treno sbagliato fin
dall’inizio! Quanta preoccupazione
ci costa… eppure, tutta quella
preoccupazione è inutile, perché
questo è il più crudele dei segreti:
tutti i treni vanno nello stesso
posto. A un certo punto,
Ramanujan dovette incominciare a
capirlo.
In ogni caso, la mattina dopo
l’asta venne da me come sempre.
Questa volta lo squadrai da capo a
piedi e mi allarmai nel constatare
che, benché il suo corpo avesse
conservato la sua robustezza, le
guance erano scavate. Aveva le
borse sotto gli occhi: due
mezzelune carnose, più chiare
della pelle che le circondava.
Contraddicendo quanto avevo
detto a Norton, gli chiesi se stava
bene, se aveva bisogno di un
dottore. Ma, come mi aspettavo,
liquidò la domanda in modo
brusco. «Non ho dormito bene»
disse. «Stavo pensando a…» Chissà
a che cosa? Probabilmente a un
dettaglio nel teorema della
partizione. E poi passammo ad
altro.
Non sono mai stato un uomo
incline a scavare a fondo nei motivi
e nei processi. La matematica, per
me, è sempre stata così: stai
guardando un paesaggio montano.
La vetta Ala vedi chiaramente, la
vetta B la distingui a stento tra le
nuvole. Poi trovi il crinale che
porta dalla vetta A alla vetta B, e a
questo punto puoi procedere oltre,
a vette più lontane. Un’analogia
molto graziosa – la usai in una
conferenza che tenni nel 1928 –
peccato che io trascuri di
specificare se, nel condurre questa
esplorazione, dovremmo fare
affidamento solo sul binocolo o
metterci in cammino a piedi. Nel
secondo caso non contempli più le
vette da lontano, ti ci immergi. E
questo è un gioco molto più
pericoloso. Perché adesso ci sono
rischi che non affronti guardando a
distanza di sicurezza, attraverso un
binocolo: congelamento,
spossatezza, il rischio di smarrire la
strada. Potresti anche perdere il
tuo appiglio e cadere dalla parete
che stai scalando, per precipitare
nell’abisso. Sì, l’abisso è sempre lì.
Facciamo fronte al rischio di
cadere in diversi modi. Io lo
fronteggiavo non guardando,
fingendo che non ci fosse l’abisso.
Ma Ramanujan, penso, guardava
sempre in fondo all’abisso.
Trattenendosi. O forse
preparandosi a saltare.
E cos’è l’abisso? Qui il linguaggio
viene meno, devo ricorrere alle
immagini. È il luogo dove tutti i
pezzi, tutti i simboli, tutte le lettere
greche e tedesche, volano in giro, si
mischiano e si accoppiano nei modi
più assurdi e arbitrari. Talvolta
nascono miracoli, più spesso esseri
grotteschi, fenomeni da
baraccone… In seguito, quando
era malato, Ramanujan mi disse
che durante i suoi accessi di febbre
attribuiva il suo mal di pancia alla
cuspide che si forma nel punto in
cui la funzione zeta, tracciata su un
grafico, assume il valore di 1 e si
innalza verso l’infinito. La cuspide,
disse, gli perforava l’addome. A
quel punto, naturalmente,
Ramanujan viveva nell’abisso.
Ripensando a quegli anni,
l’unica cosa che mi sorprende è
che, a parte Thayer, non entrò in
scena nessun nuovo giocatore. I
giocatori furono semplicemente
spostati, collocati altrove. Russell,
che avrebbe dovuto essere a
Cambridge, era nel Galles.
Littlewood era a Woolwich. Alice
Neville, chi l’avrebbe mai detto, era
nel mio appartamento di Londra.
A queste riconfigurazioni mi
adattai con quello che,
ripensandoci, mi sembra un
notevole sangue freddo. Mi abituai
a vedere il cappello di Alice
sull’attaccapanni di Pimlico, e a
ricevere lettere da Littlewood su
carta dell’esercito. Inoltre, le lettere
delle madri che mi dicevano che
questo o quello dei miei ex
studenti era morto non suscitavano
più in me lo stesso sgomento di
prima. È brutto da dire, ma ci
avevo fatto il callo. Eppure c’era
una persona da cui desideravo
ricevere una lettera, e non arrivava.
Dov’era Thayer? Era morto?
Non ne avevo idea. Dopo
quell’orribile pomeriggio in cui era
arrivato all’appartamento di
Pimlico e non lo avevo fatto
entrare, non avevo più ricevuto
una parola da lui. Sarebbe
disdicevole, credo, descrivere qui le
mortificazioni cui mi sottoposi, le
ore che passai a reinscenare
l’accaduto, questa volta trattando
Thayer, anche se solo nella mia
immaginazione, con il rispetto che
meritava e che gli avevo negato
provocando il suo giusto disprezzo.
Mi sarebbe piaciuto metterlo in
una lettera, ma dubitavo che la
descrizione pornografica delle orge
di autoflagellazione nelle quali un
don indulgeva, a mo’ di espiazione,
nell’intima sicurezza dei suoi
appartamenti non avrebbe
significato granché per un ragazzo
che combatteva al fronte. Gli
scrissi, naturalmente, ma erano
lettere inadeguate: ancora una
volta ero la prozia che esprimeva la
speranza che suo nipote le facesse
visita per un tè la prossima volta
che era in licenza. Per qualche
ragione, non riuscivo a trovare un
modo di esprimere, anche in un
linguaggio abbastanza cifrato da
confondere i censori, la mia
speranza che mi perdonasse. Né, a
quanto pare, i miei sforzi per lenire
la sua offesa erano vicini alla
sufficienza, perché non rispose
mai. Quindi o era morto, o era
arrivato alla conclusione che non
meritavo il disturbo. E, per quanto
egoista e terribile possa sembrare,
io speravo davvero che fosse
morto. Perché, se era morto, c’era
una possibilità che prima di morire,
anche se solo nella sua testa, mi
avesse perdonato.
Quello che non riuscivo a fare,
per quanto mi sforzassi, era
dimenticarlo. Almeno una volta
alla settimana andavo all’ospedale
nel campo di cricket, in teoria per
offrire parole di conforto e
rassicurazione ai soldati feriti, in
pratica per vedere se, grazie a uno
strano miracolo, Thayer era
ricomparso in uno dei reparti. Nel
frattempo le cose erano cambiate.
Oltre alle infermiere, tra le corsie si
aggiravano membri in divisa del
Reparto medico del Corpo di
addestramento ufficiali. Erano
addetti alle medicazioni
chirurgiche o caporeparto. Mentre
mi muovevo negli ampi spazi
dell’ospedale, fingendo un
interesse puramente accademico,
chiedevo loro di spiegarmi le
terapie che stavano sperimentando,
mentre in realtà volevo solo trovare
Thayer. Ma lui non c’era mai.
Ogni tanto facevo una
chiacchierata con qualcuno degli
altri ragazzi. Con sorprendente
frequenza, la conversazione
prendeva una piega invitante. Ma
io non riuscivo a racimolare
l’entusiasmo necessario per seguire
le piste che mi venivano offerte.
Thayer mi aveva reclamato per sé.
Dovevo essere innamorato di lui,
suppongo. Non desideravo nessun
altro.
Nel migliore dei casi, la speranza
ha vita breve. In tempo di guerra
ha una vita ancora più breve. A
mezzanotte del Capodanno 1917,
alzai il calice al cielo (ero solo a
Cranleigh, Gertrude e mia madre
dormivano) e dichiarai
coraggiosamente di aver rinunciato
a Thayer. Era un anno nuovo, e
sarei andato avanti.
Due settimane dopo arrivò la
lettera, e allora la gioia quasi
vertiginosa che provai nel vedere la
sua calligrafia mi fece quasi cadere
in ginocchio. Non era neppure una
vera lettera, solo uno di quei
moduli che prima del litigio mi ero
abituato a ricevere da lui ogni volta
che mi annunciava una licenza. Ho
ancora il modulo. In cima c’è il
solito avvertimento:
NIENTE deve essere scritto su questo
lato eccetto la data e la firma del
mittente. Frasi non richieste possono
essere cancellate. Se viene aggiunto
qualcos’altro la cartolina sarà distrutta.
E poi, sotto, le varie righe da
spuntare:
Sto bene.
Sono stato ricoverato in ospedale

malato e sto migliorando.


ferito e spero di essere dimesso presto.

Verrò spedito alla base.


Ho ricevuto

la lettera con la data _____________


il telegramma ” _____________
il pacco ” _____________

Seguono lettere alla prima occasione.


Non ho ricevuto nessuna vostra lettera

ultimamente
da molto tempo

Firma
Data___________________
Prima, Thayer aveva sempre
spuntato solo la riga che diceva
“Seguono lettere alla prima
occasione”. Questa volta, invece,
aveva spuntato anche la voce
“ferito” ma non “spero di essere
dimesso presto”.
La lettera vera e propria arrivò il
giorno dopo. Comunicava solo il
nome di un ospedale militare, fuori
Oxford.
Presi il primo treno per Oxford e
arrivai nel primo pomeriggio. Dato
che l’ospedale era più piccolo di
quello di Cambridge, ed era
allestito in un vero edificio, una
scuola femminile requisita allo
scopo, trovarlo fu questione di
pochi minuti.
Thayer era sdraiato
tranquillamente nel suo letto,
proprio come la prima volta che
avevo parlato con lui. La sua faccia
era illesa. Con mio grande sollievo,
sorrise quando mi vide.
«Allora hai ricevuto il
messaggio» disse.
«Sì» risposi, «questa mattina.
Sono venuto il più presto
possibile.»
Mi sedetti, chiusi la mano a
pugno e la abbassai, piano, sui
muscoli della sua spalla. Lui non
rise.
«Allora, cosa ti è successo
stavolta?»
«Mi hanno beccato l’altra
gamba. Vedi?» Tirò indietro il
lenzuolo, mettendo a nudo la
gamba nella sua fasciatura, appena
sopra il ginocchio. «Quindi due
gambe fuori uso, un braccio fuori
uso, uno in funzione.»
«Cosa ti è successo al braccio?»
«Oh, quello è stato settimane fa.
Un proiettile. Non ha fatto grossi
danni: solo quel tanto che basta
perché non possa più alzarlo
completamente.»
«E adesso invece?»
«Una grossa scheggia. Ma non
perderò la gamba. Me l’hanno
assicurato. E mi fa male. Dio,
quanto mi fa male! Però è un buon
segno.»
«Sarai congedato?»
«Ne dubito. A quanto pare non
sono abbastanza fortunato da
beccare i proiettili necessari per il
congedo. Forse dovrei perdere una
gamba per essere congedato, e
francamente…» Abbassò la voce.
«La verità è che non voglio tornare.
In Inghilterra, intendo. Non finché
non è tutto finito. È difficile da
spiegare. Là fuori, in trincea, sei
disperato ma vivo. Poi torni qui e
tutto va avanti come se fosse un
mondo normale. E ti senti – come
dire – ti senti morto. E anche tutti
gli altri sembrano morti. Così non
vedi l’ora di tornare al fronte
perché non ti piace stare con tutta
quella gente morta.» Aggrottò la
fronte. «Capisci cosa voglio dire?»
«Sì, lo capisco.»
«Non lo so. Non so più niente
ormai.»
Passò qualche secondo di
silenzio, poi dissi: «Sono contento
che tu mi abbia scritto».
«Sì, volevo farlo prima, solo che
le ultime licenze… sai, mia sorella
sta per avere un bambino, così
sono stato parecchio su a
Birmingham. Ero a Birmingham
per il braccio. Non ce l’ho mai fatta
a venire a Londra.»
Avrebbe accennato a quello che
era successo a Pimlico? O si
aspettava che fossi io a parlarne?
Oppure aveva deciso di far finta
che non fosse mai successo?
«Quanto rimarrai in ospedale?»
«Ancora una settimana o poco
più. Poi sarò libero per un po’.»
Alzò gli occhi timidamente.
«Quella signora, l’amica di tua
sorella, è ancora a casa tua?»
«Solo durante la settimana. Non
nel weekend.» Trattenni il respiro.
«Adesso però andiamo più
d’accordo. Mi lascia dei sandwich.
Immagino che non saresti libero
qualche sabato, oppure sì?»
Thayer sorrise. «Per venire a
prendere un tè?»
«Esatto.»
«Sì, penso che potrei farcela»
disse.
E ce la fece. Due sabati dopo. Ce
la fece anche alla licenza
successiva. Questa volta lo avevano
colpito all’altro braccio. «Due
braccia, due gambe» disse. «A cosa
toccherà dopo?»
«Spero non a questo» dissi,
brancicandolo nelle parti intime,
che era quel che voleva.
E la cosa sorprendente fu che
non lo lasciarono andare. Lo
rompevano, lo spedivano a casa per
le riparazioni, poi lo rompevano di
nuovo. Allo stesso modo, mi resi
conto in seguito, noi rompemmo
Ramanujan, lo rappezzammo alla
bell’e meglio, e lo rompemmo di
nuovo, finché non riuscimmo a
spremerlo fino all’osso. Finché non
ce la fece più.
Solo allora lo lasciammo andare
a casa.
SETTIMA PARTE

Il treno infinito
1

Gertrude, mentre il fuoco langue,


aspetta che arrivi suo fratello. Alle
cinque del pomeriggio è già buio
pesto e lei sta leggendo un libro
che le ha dato Alice, un romanzo
ambientato in Italia. «Che paese
assurdo!» sta dicendo l’eroina al
suo amante. «È quasi mezzanotte e
la serata è così tiepida che non mi
serve lo scialle!» Le parole però
non sciolgono il gelo, a meno di
buttarle nel fuoco, e Gertrude
venera troppo i libri – anche quelli
scadenti – per bruciarli. Quindi
chiude il romanzo e chiama il suo
fox terrier, una femmina di nome
Daisy, che sta dormendo nel suo
angolino accanto al caminetto.
Daisy è dotata di un misterioso
buon gusto: ha mangiucchiato
Ouida ma ha lasciato intatto D.H.
Lawrence. Gertrude le mette il
libro sotto il naso – One Tuscan
Summer – e Daisy lo annusa; lecca
il dorso, fa dietro-front e torna
nella sua cuccia. Indifferente.
Gertrude ride. C’è un improvviso
scampanio, che sveglia sua madre
nella stanza accanto.
«Margaret?»
«Va tutto bene, mamma» grida
Gertrude.
«Isaac?»
«Stai tranquilla. Sono solo le
campane della chiesa.»
Sophia Hardy (il suo vero nome
è Euphemia, ma non lo ha mai
usato) geme e si rivolta nel letto.
Ultimamente parla più con i morti
che con i vivi. Come infinite altre
volte, sembra sul punto di varcare
il confine di un mondo
sconosciuto. La domanda è: lo
oltrepasserà questa volta? Gertrude
spera di sì. Il dottore pensa che il
trapasso sia vicino. Secondo lui, la
situazione è abbastanza grave da
rendere necessario richiamare
Harold da Cambridge. Perché
indubbiamente vorrà dire addio a
sua madre, prima che se ne vada.
Ma Harold è scettico, Gertrude lo
sa bene. Troppe volte ha dovuto
fare lo stesso viaggio, per lo stesso
motivo.
Un altro gemito, questa volta più
profondo, e Gertrude, con un
moto d’impazienza, si alza e va in
salotto, che è l’attuale camera da
letto di sua madre. Adispetto del
nome italiano, Mrs. Hardy è una
creatura ancor più nordica di sua
figlia, tanto pallida che sul suo viso
traspare un sottile reticolo di vene,
fragile come una ninfa, ma una
ninfa d’inverno, di foreste gelide e
betulle argentee. Ed esile come un
giunco. Gertrude ricorda che, il
giorno del suo settantesimo
compleanno, si era vantata di
riuscire ancora a entrare nel suo
abito da sposa. Poi se lo era
provato e aveva volteggiato per la
sala da pranzo a passo di valzer,
una Miss Haversham
dell’ultim’ora. Quella volta
pensarono che ormai era andata.
Ma tornò indietro. Tornava
sempre.
La vecchiaia, pensa spesso
Gertrude, può assomigliare molto a
una seconda infanzia. Di certo è
facile prendere l’abitudine di
trattare gli anziani come dei
bambini, come fanno le infermiere
con le sue colleghe in pensione alla
Casa per signore bisognose,
trascinandole in orge di merletti,
lavori di cucito e acquerelli, donne
che vent’anni prima insegnavano
chimica, matematica,
Shakespeare… Alla Casa per
signore bisognose l’anno è scandito
dalle festività, vischio per l’anno
nuovo, cuori per San Valentino,
verde per il giorno di San Patrizio,
agnello e uova per Pasqua. «Così
non perdono la nozione del
tempo» aveva spiegato la capo
infermiera la prima volta che
Gertrude era andata a visitare il
posto, quando ancora pensava che
sua madre sarebbe andata a vivere
lì e lei avrebbe cambiato lavoro,
trasferendosi a Londra in pianta
stabile. Ma non sarebbe successo.
«Mamma, stai bene?» Gertrude
le sprimaccia il cuscino.
«Mi massaggeresti le gambe?»
chiede Mrs. Hardy.
«Ma certo.» Gertrude si siede,
solleva le coperte ai piedi del letto;
infila le mani nella camicia da
notte della madre e inizia a
massaggiarle le gambe, dalla coscia
alla caviglia coperta dalle calze,
uno strofinio costante, ritmico, che,
per misteriosi motivi, sembra dare
tanto sollievo a Mrs. Hardy. Avanti
e indietro; pelle e ossa. È rimasto
così poco di lei! Un corpo senza
polpa, senza consistenza. Quale
che sia il problema, Gertrude lo
riconosce, è qualcosa di molto
brutto. Il dottore non lo dice e
Gertrude non lo chiede. Sa solo
che già in due occasioni il dolore è
diventato così insopportabile da
richiedere la morfina. Per il
momento, però, Mrs. Hardy è
tranquilla. Si appoggia ai cuscini,
esalando piccoli sibili. «Margaret,
porta i fiori in cucina» dice. E:
«Sguscia i piselli». E: «Ti sei messa
l’occhio?».
Gertrude sussulta. Mrs. Hardy
emette un gridolino.
«Mi spiace.»
«Anche se nessuno vede» dice
Mrs. Hardy, «c’è sempre qualcuno
che osserva. Ricordatelo.»
«Sì, mamma.»
«Bisogna sposarsi. Ma lei è
bruttina.»
«Lei chi?»
«Margaret.»
«E chi è Margaret?»
«Insegnava con me alla scuola
professionale.»
«Ed era bruttina?»
«Oh, no! Era bella come un
quadro.»
«Allora chi è che era bruttina?»
Ma conosce già la risposta, e
continua a massaggiare. Non la
turba particolarmente. Nessuna
delicatezza in questa casa, ormai,
non adesso che la figlia, con una
brusca efficienza che sorprende
anche lei, lava due volte la
settimana quelle parti della madre
da cui, decenni prima, è sbucata lei
stessa. “I lombi.” Che parola! Lava
i lombi di sua madre, le pudenda
(un’altra parola che le piace molto)
ormai quasi glabre. Come la testa
di un vecchio.
Bussano alla porta, e c’è solo
Gertrude per andare ad aprire.
Maisie, che fa le pulizie per loro, è
andata a casa.
«Arrivo!» grida Gertrude, e sfila
delicatamente le mani dalla
camicia da notte di Mrs. Hardy;
rimbocca le coperte.
«Vado un attimo ad aprire la
porta, mamma. È Harold.»
«Harold è qui?»
«Sì, è venuto a trovarti.»
«Ma sono impresentabile!»
Gertrude si alza. Daisy l’ha
battuta sul tempo ed è già alla
porta; abbaia e salta verso la
maniglia. «Sta giù» dice Gertrude
senza troppa convinzione, perché
sa che a suo fratello non piacciono
i cani. È stato il motivo principale
per cui ha preso Daisy.
Apre la porta, e Hardy entra,
scuotendo l’ombrello. «Che
tempaccio!» dice, e la bacia sulla
guancia.
«Come è stato il viaggio?»
«Stancante. Ormai ci vogliono
ore per andare in qualsiasi posto.
Oh…» Daisy gli sta facendo le
feste. «Sì, lo so che sei contenta di
vedermi. Sì, adesso sta’ giù, a
cuccia!»
«Scusa» dice Gertrude,
prendendo in braccio Daisy.
Hardy appende il cappotto
all’attaccapanni. «Come sta? È
grave?»
«Vieni a vedere tu stesso.»
«Non ancora. Preferirei
sistemarmi prima.»
«Harold, sei tu?»
«Sì, mamma, sono io.»
«Vieni a salutarmi.»
Guarda torvo Gertrude, come se
il tono insistente di sua madre
fosse colpa sua. Poi si liscia i
capelli, ed entra con la sorella. Mrs.
Hardy sorride. Di colpo è lucida,
garrula. Vuole mettersi a sedere.
Vuole una boule dell’acqua calda.
«E se facessimo una partita a
Vint?» chiede. «Quanto ti fermi?»
«Non lo so. Devo essere a
Londra lunedì. Ho un impegno
con la Mathematical Society.»
«Bene, puoi andare e tornare in
giornata.»
«Vedremo.»
Ma lei non ammette rifiuti.
Vuole chiacchierare, vuole giocare
a Vint, vuole che Harold le
prometta di restare. È come una
bambina che si rifiuta di andare a
dormire, che deve essere indotta a
riconoscere la propria stanchezza.
Alla fine, dopo molte moine e
mercanteggiamenti («Cerca di
dormire adesso, mamma, e
domattina giocheremo a Vint»), e
molte proteste («Ma non ho per
niente sonno!»), tutt’a un tratto,
senza preavviso, Mrs. Hardy si
addormenta. Adesso Gertrude e
Hardy possono ritirarsi, come
desiderano, in cucina. Gertrude
prepara le uova, deposte dalle
galline che alleva. Bevono il tè.
«Be’, è stato più facile del solito»
dice Gertrude.
«Più facile!»
«Sì, la mamma sa che ore sono.
Ieri mi ha svegliato alle due del
mattino chiedendomi il pranzo.
Ma almeno sa leggere l’orologio.»
Gertrude perfora il suo uovo
facendo uscire il tuorlo. «Bene,
anche se lunedì dovrai andare a
Londra, sono contenta che tu possa
rimanere per il fine settimana.
Domani devo andare in città a fare
delle compere.»
«E io che c’entro?»
«Qualcuno deve stare con lei.»
«Perché non Maisie?»
«Maisie ha sedici anni, non si
può fare affidamento su una
ragazzina. Comunque non è molto
complicato, Harold, non devi far
altro che portarle i suoi pasti e
assicurarti che stia comoda.»
«Ma se deve andare in bagno?»
«A questo provvederà Maisie.»
«Ma io domani devo incontrare
un amico per il tè, in città.»
«Quale amico?»
«Nessuno che tu conosca.»
«E non puoi spostare
l’appuntamento?»
Hardy posa la tazza. «Mi hai
mentito per costringermi a venire»
la accusa. «Mi hai detto che stava
morendo.»
«È quello che ha detto il
dottore.»
«Mi hai detto che stava
morendo solo perché volevi andare
a fare compere in città.»
«Anch’io ho bisogno di
biancheria intima, non credi?»
Hardy fa una smorfia alla
menzione della biancheria intima.
«Sono un uomo molto occupato,
non posso piantare in asso tutto
ogni volta che…»
«D’accordo» dice Gertrude. «Vai
pure. Vai a Londra a vedere il tuo
amico. Vuol dire che e io resterò
qui, come faccio ogni sabato, a
vegliare e aspettare. E quando
chiamerà, andrò io da lei. E
domenica sarà la stessa cosa. E poi
lunedì, prima a scuola, e poi, la
sera, seduta qui con lei un’altra
volta.»
«So che deve essere difficile.»
«Ma non mi dire! Te ne sei fatto
un’idea?»
«Certo. Senti, non sto passando
tutto il mio tempo a dare
ricevimenti all’ora del tè
ultimamente. Non vado a Londra
per spassarmela, sai? Ho due
incarichi di segretario, poi ci sono
la Mathematical Society, la Royal
Society e, a Cambridge, le mie
lezioni; per non parlare dell’affare
Russell…»
«Ma almeno tu riesci ad
andartene. Non sei bloccato a
Cranleigh settimana dopo
settimana!»
«No, sono bloccato a
Cambridge, settimana dopo
settimana.»
«Hai idea di quando sia stata
l’ultima volta che ho avuto la
possibilità di evadere da questo
posto? Per fare delle cose
assolutamente normali, come
pranzare in un ristorante, o andare
in un negozio?»
Hardy non dice niente. Si stringe
l’attaccatura del naso tra le dita.
«Sei arrabbiato con me perché ti
ho fatto venire da Londra, e lei ha
tutta l’aria di star bene. Ma il
dottore ha detto che stava
morendo. Cosa dovevo fare,
secondo te, dirti di non
preoccuparti? E se poi moriva
davvero?»
«Sì, capisco.»
«E se devo comprarmi della
biancheria intima… Scusa tanto,
ma una donna deve pur
procurarsi…»
«Sì, lo so. D’accordo, resterò
domani, almeno per una parte
della giornata. Forse, se tu potessi
tornare per le tre…»
«Non ti è neppure venuto in
mente di chiedermi perché ho
detto ad Alice Neville che poteva
affittare la mia camera
nell’appartamento, vero? È perché
non ho più uno straccio di
possibilità di andarci, ormai…»
«Sì, Gertrude.»
«Ecco perché.» Si soffia il naso.
«Scusa, sono un po’ irritabile di
questi tempi.»
«Non c’è bisogno di scusarsi. Lo
sono anch’io. Le cose vanno molto
male al Trinity. E adesso devo
scendere in campo un’altra volta,
perché una ragazza del
Newnham… insomma, quella
merda di nome Ridgway non vuole
ammetterla alle sue lezioni perché
è un membro dell’UCD. Ha
approfittato del fatto che le donne
non sono iscritte ufficialmente,
quindi lui può buttarle fuori dalle
lezioni senza una ragione. Con uno
studente maschio non potrebbe
farlo.»
«Stai diventando un femminista
convinto, eh?» dice Gertrude, ma
Hardy non coglie il suo tono
ironico.
«Non si tratta di questo.
Ridgway dice che se potesse
bandirebbe anche gli studenti
maschi, se appartenessero all’UCD.
È solo una tattica. La verità è che
sta punendo la ragazza perché ha
detto qualcosa nella Newnham
Hall che è stato interpretato come
una dichiarazione a favore di
Russell. Sto lavorando a un pezzo
su questa vicenda. Probabilmente
un volantino. Sai, non abbiamo
rinunciato a far reintegrare Russell
nella sua carica, dopo la guerra.»
«È davvero ammirevole fino a
che punto sei pronto a lottare per
aiutare gli altri.»
«Faccio quello che posso.»
«Non ne dubito.»
Hardy tossicchia e si alza.
«Bene» dice, «sono un po’ stanco.
Credo che andrò a letto presto, se
non ti dispiace.»
«Perché dovrebbe dispiacermi?»
«E tu? Non vai a dormire?»
«Direi di no, visto che sono solo
le sei e mezzo.»
«Sì, certo, ma come ho detto, il
viaggio…» Si sporge verso di lei, le
mani piantate sul tavolo.
«Gertrude, quanto a domani…
Questo mio appuntamento è molto
importante, quindi, se non ti
dispiace, forse potresti andare in
città la mattina presto, e io vedrò di
partire verso le due del pomeriggio.
In questo modo la mamma resterà
sola con Maisie per un paio d’ore al
massimo, no?»
Gertrude non dice “Sì che mi
dispiace”. Non è nel suo stile. Il
suo stile è concentrare l’amarezza,
spremerla nella centrifuga del suo
spirito, finché rimane solo
l’essenza, sottaciuta, inestirpabile.
«Come vuoi, Harold.»
«E se succede qualcosa, se per
caso… puoi sempre telefonarmi, e
prenderò il primo treno.»
«Come vuoi.»
Harold si allontana; Gertrude
non si alza. Attraverso la porta
della cucina sente Daisy saltare,
guaire… «Sì, certo, buonanotte,
cane» dice Hardy, facendola
sorridere debolmente. Tra un
momento, lo sa, dovrà alzarsi per
sparecchiare e impilare i piatti sul
bancone perché Maisie li lavi
l’indomani; un’altra cosa che a suo
fratello non verrebbe mai in mente
di fare. Ma questo può aspettare. I
momenti di solitudine sono così
rari per lei ultimamente, che ha
imparato a farne tesoro. Infatti per
ora se ne sta lì seduta, ad ascoltare
il silenzio, a fissare il buio.
2

«Mi scusi, signore, ma sta


chiedendo di lei.»
Hardy si sveglia col profumo del
caffè misto a cicoria e la visione di
una faccia sulla porta, giovane,
pallida, grassa. «Chi?»
«Sua madre.»
«Oh, sì.» Si rizza a sedere nel
letto. Questa dev’essere Maisie.
«Tu non c’eri l’estate scorsa,
vero?»
«No, signore. Ho iniziato appena
prima di Natale.» Al piano di sotto
si leva un grido. «Mi scusi, signore,
ma come ho detto, sta chiedendo
di lei. È stata intrattabile tutta la
mattina.»
«Bene. Scendo tra un minuto.»
«Benissimo, signore.»
«E chiudi la porta!»
«Scusi, signore.» La porta si
chiude con uno scatto. Una casa di
donne. Scende dal letto, si veste, e
sta giusto finendo di pettinarsi,
quando sente di nuovo quella
voce. «Mr. Hardy…»
«Sì?»
«Sono molto spiacente, signore,
ma adesso è proprio arrabbiata.
Non vuole la sua colazione, vuole
che lei scenda.»
«Benissimo. Sto arrivando,
mamma!» grida Hardy e si
precipita da basso, la camicia
ancora mezzo sbottonata. La
mamma moribonda. Perché gli
sembra tutta una messa in scena?
Nel letto che è stato portato in
salotto perché lei ci muoia, Mrs.
Hardy giace immobile, fissando il
soffitto. I capelli grigi sono raccolti
in una crocchia. Maisie siede al suo
fianco, sollevando un cucchiaio da
una scodella.
«Bene, mamma, eccomi qui»
dice Hardy.
«Harold» dice lei debolmente.
«Siediti. Siediti qui vicino a me.»
Maisie, servizievole, si alza. Gli
porge la scodella, il cucchiaio.
«Veda se riesce a farla mangiare»
dice; poi, col brusco vigore della
giovinezza, marcia decisa verso la
cucina.
Sua madre gli sorride. Lui
ricambia.
«Bene» le sussurra. «Che ne dici
di fare colazione?»
«Caro Harold. Oggi stavo
parlando di te con tuo padre.»
«Ah sì?»
«Era appena rientrato per la
cena… dal… i ragazzi erano…»
«Dove, mamma?»
«E poi stavamo sgusciando i
piselli.»
«Ma che dicevi di papà?»
«Non si disturbi a chiederlo»
dice Maisie, tornando con una
tazza di caffè per lui. «Non arriva
mai fino in fondo a una frase.» E
Maisie ha ragione. La
conversazione di Mrs. Hardy, se
tale si può definire, è una sequela
di frasi che passeggiano, vagolano e
crollano su se stesse; regressioni
infinite, come il barbiere di Russell.
Cose che Hardy riconosce dal
passato si mescolano a riferimenti a
persone di cui non ha mai sentito
parlare, come se sua madre si fosse
insinuata nella vita di qualcun
altro.
«Mi massaggeresti le gambe?»
«Le gambe?»
«Mi fanno così male.»
«Ti chiamo Maisie» dice, ma
prima che possa alzarsi lei gli
afferra il polso. La sua presa è più
forte di quanto si sarebbe
aspettato.
«No, non la ragazza» gli dice.
«Voglio te.»
«Mamma, io… Maisie!»
La ragazza arriva, asciugandosi
le mani nel grembiule.
«Maisie, potresti massaggiarle le
gambe?»
«No, io non gliele massaggio le
gambe; l’ultima volta che l’ho fatto
per poco non mi staccava le mani a
morsi. Permette solo a Miss Hardy
di farlo.»
«Massaggiami le gambe,
Harold.»
«È meglio che la accontenti,
signore. Le mostro come si fa.
Tranquilla, Mrs. Hardy, non la
tocco, sto solo scostando le
coperte…»
«Mamma, forse dovresti
aspettare che…»
«Ecco fatto.» Le coperte sono
state tirate indietro, scoprendo il
fragile busto di sua madre nella sua
camicia da notte, i piedi coperti
dalle calze. Ricorda Lawrence che
descriveva, con orrore e con gusto,
la visione di Keynes nel suo
pigiama a righe. «Adesso le tiro su
anche la camicia da notte, Mrs.
Hardy…»
«No, non toccarmi!»
«Benissimo, Mrs. Hardy, non si
preoccupi!» Maisie si scosta dal
letto. «Lo faccia lei» dice a Hardy.
«Coraggio.»
Esitante, Hardy si china su sua
madre; appoggia le mani al bordo
della camicia da notte.
«Fin dove?»
«A metà sopra il ginocchio.»
Ma a metà di cosa? A metà tra il
ginocchio e cosa?
Hardy solleva delicatamente la
camicia da notte; lei alza le gambe
premurosa; non ha paura che lui la
tocchi. Il suo sorriso è quasi
civettuolo, mentre la camicia da
notte in parte rimboccata mette a
nudo la pelle rugosa e macchiata,
le ginocchia ossute, i polpacci
coperti di lividi.
«Maisie, come se li è fatti questi
lividi?»
«Le vengono facilmente,
signore.»
«Ma mamma, potrei farti male
se…»
«Per favore, massaggiami le
gambe.»
«Va bene.» E sfiora la pelle, che
è calda, ha la consistenza della
carta. Muove le mani su e giù. «Va
bene così?»
Lei chiude gli occhi.
«Bene, allora io torno in cucina»
dice Maisie.
«Lo sai che questo edificio un
tempo era una scuola?»
«Davvero?»
«Sì, e le insegnanti si
arrabbiavano moltissimo. Le
ragazze piangevano. L’altro giorno
in città ho incontrato… ho
incontrato… Florence Turtle e
lei… Con delle violette
incantevoli…» Sembra annaspare,
in cerca d’aria quanto del suo
pensiero. «È questo che gli
conferisce la sua atmosfera»
conclude.
«Allora, mamma, cosa ne pensi
del nuovo cane di Gertrude?»
«Il cane guaiva fuori dalla
cucina… Abbiamo dovuto
annegare i cuccioli… Le ragazze…
Margaret ha detto che non
dovevano vedere ma io… e la
scuola.» All’improvviso alza gli
occhi e lo guarda. «Dovresti
sposarti. Sono in pensiero per te,
tesoro.»
Hardy distoglie lo sguardo.
«Mamma…»
«L’occhio ti preoccupa, lo so. Ma
puoi essere discreta. Basta che non
ti faccia mai vedere da lui prima di
averlo messo…»
«Oh, certo.» Hardy continua a
massaggiare, con più vigore adesso,
tanto che sente le ossa attraverso la
carne rinsecchita. Lo colpisce che
nei suoi vaneggiamenti (come altro
si potrebbero definire?) continui a
emergere un tema comune. Parla
della scuola. E perché no? Ha
passato tutta la vita nelle scuole.
Sia lei sia suo padre. Dal punto di
vista di Ramanujan, deve esserci
poca differenza tra lui e
Littlewood, tra lui e Russell. Sono
tutti figli del benessere, per lui. Del
resto, come si può pretendere che
riconosca ciò che separa Hardy
dagli altri? Littlewood proviene da
una famiglia di Cambridge; Russell
è un aristocratico. Hardy invece è
solo figlio di insegnanti. Nato, a
differenza di Russell, senza alcuna
garanzia. Senza una rendita
personale. È facile per Russell
dichiarare che, se il Trinity non lo
vuole, insegnerà per conto suo a
Londra. Può permetterselo. Ma
Hardy dipende dal Trinity, proprio
come suo padre dipendeva dal
Cranlaigh, sua madre dalla scuola
professionale e sua sorella dalla St.
Catherine’s. L’unica differenza sta
nel prestigio. Senza il sostegno di
istituzioni munifiche, tutti loro
sarebbero perduti. Lui è più simile
a Mercer che a Littlewood.
Dopo che sua madre si è
addormentata, e le ha rimboccato
le coperte, Hardy va in salotto.
Vorrebbe scambiare due parole
con Gertrude – a proposito di
qualcosa, anche se non sa bene
cosa – ma, naturalmente, il suo
piano è di partire prima che
Gertrude rientri. E se vuole
arrivare puntuale al suo
appuntamento – la cui prospettiva
lo fa arrossire di piacere, misto a
una lieve ripugnanza, al pensiero
che queste sue mani, che hanno
appena massaggiato le gambe di
sua madre, presto accarezzeranno
quelle di Thayer; un paio vecchie,
l’altro mutilate –, se vuole essere
puntuale, dovrà partire tra poco.
Quindi parte. Ha il suo rendez-
vous con Thayer. Passa la notte a
Londra, nell’appartamento. Ma la
domenica ritorna a Cranleigh.
Gertrude sembra solo lievemente
sorpresa di rivederlo a casa.
«Com’è stata la tua giornata in
città?» le chiede Hardy.
«Discreta» dice Gertrude. «Mi
sono concessa un tè da Fortnum’s.
Un assortimento limitato, però,
dato il razionamento.»
«Già, ormai si fa sentire anche a
Cambridge. Al Trinity servono
pesce e patate, ma niente carne il
martedì e il venerdì, carne ma
senza patate per il resto della
settimana. E neanche l’ombra di
verdura.»
«Mi chiedo come faccia
Ramanujan a sopravvivere.»
«Sì, davvero.» Distoglie gli occhi
e guarda il fuoco, accanto al quale
dorme Daisy. Poi dice: «Gertrude,
voglio parlarti della mamma».
«Sì?»
«È diventata molto esigente. Per
tutto il tempo in cui sei stata via ha
insistito perché le sedessi accanto e
le massaggiassi le gambe.»
«Sì, sembra le dia sollievo.»
«Ho l’impressione che tu la vizi
troppo. Poi, siccome tu le massaggi
le gambe, va a finire che devo
massaggiargliele anch’io, altrimenti
apriti cielo!»
«Osservazione interessante» dice
Gertrude. «Però, vista la rarità
delle tue visite, direi che finora
non è stato un grosso problema.»
«Certo, ma quando sono qui…
d’estate, per esempio…»
«Quindi dovrei negare a nostra
madre moribonda la soddisfazione
di farsi massaggiare le gambe, solo
perché tu, nelle rare occasioni in
cui vieni a casa, non sia disturbato?
È questo che volevi dire?»
«No, non volevo dire questo.
Quello che voglio dire è che,
insomma, non può farle bene.»
«No, certo, non dobbiamo
viziare il bambino, altrimenti lo
roviniamo.»
«Per l’amor del cielo, Gertrude.
Senti, solo perché tu sei disposta a
rinunciare a tutto…»
«Sì, ho scelto di fare questo.
Avrei potuto fare un’altra scelta.
Avrei potuto andarmene, così
sarebbe toccato a te.»
«Quindi devo essere punito
perché ho la vita che ho?»
Si accascia sulla sedia; appoggia
il mento alla mano. Come sembra
indifeso. Tanto, pensa Gertrude,
da dissipare l’ira. Da ispirare
tenerezza. E dire che si considera
un femminista!
È tentata di mettergli una mano
sulla spalla. Di aiutarlo a uscire dal
buco che si è scavato da solo. Di
concedergli una via d’uscita. Si
sente quasi pacificata. Ma non del
tutto. Non del tutto.
3

È un gravoso fardello conoscere il


destino di un uomo che non sa
cosa lo aspetta.
Nel crepuscolo della sala in cui
la Mathematical Society tiene le
sue riunioni, Hardy guarda
Neville. Gli occhiali di Neville gli
pendono bassi sul naso e lui si sta
guardando le mani, mentre si
arrotola intorno all’anulare un
pezzo di spago, talmente stretto da
far gonfiare il dito. Hardy riesce a
vederlo perché, a differenza di
Neville, è dotato di una vista
eccellente, oltre che di un’istintiva
capacità di riconoscere i nervosi
stratagemmi dell’ansia. Nocche
scrocchiate, occhiali puliti
ripetutamente, un bottone lento
cincischiato fino a staccarlo del
tutto. E, mentre vorrebbe poter
andare subito da Neville a dargli la
rassicurazione di cui ha tanto
bisogno, dirgli “La tua fellowship è
stata rinnovata”, la triste realtà è
che la sua fellowship non è stata
rinnovata, e Hardy lo sa, mentre
Neville ne è all’oscuro, anche se
con ogni probabilità lo sospetta.
Quindi Hardy non dice niente. Il
viso di Neville tradisce una
preoccupazione ancora venata di
speranza. Speranza contro ogni
speranza. Neville alza gli occhi, e
per un istante i loro sguardi si
incrociano. Hardy risponde al suo
cenno di saluto con un rapido
cenno del capo, badando a non
tradire alcunché. Quantomeno
non vuole essere accusato di
diffondere false speranze.
Gli ci vuole circa un’ora per
leggere il saggio sulle partizioni.
Dopo una decina di minuti
dall’inizio, arriva Littlewood, in
uniforme e male in arnese. Si siede
in fondo alla sala, estrae dallo
zaino una matita e quella che
sembra essere una cartolina e inizia
a prendere furiosamente appunti.
Ogni volta che Hardy alza gli occhi,
Littlewood sta prendendo appunti,
e sempre sulla stessa cartolina, che
continua a rigirare, verosimilmente
per trovare un altro angolino da
riempire di cifre. È il suo solito stile
maniacale, estremamente irritante
per Hardy, che crede nella
calligrafia ordinata, nella spessa
carta color crema e nella leggibilità.
Se Hardy fa un errore quando sta
scrivendo qualcosa, non lo
cancella, ma ricomincia daccapo su
un foglio intatto. Littlewood invece
sembra trarre una particolare
soddisfazione proprio dal disordine
della pagina, come se da quel
groviglio di simboli, equazioni e
scarabocchi potesse emergere una
visione.
Neville non prende appunti.
Non si muove, non batte ciglio. Ha
le mani strette in grembo.
Hardy ha opinioni molto precise
su come si debba leggere un saggio
ad alta voce. Alcuni dei suoi
colleghi, quando si trovano di
fronte a un pubblico, si
trasformano in attori da
filodrammatica; si producono in
frizzi e lazzi, usano la bacchetta alla
stregua di un fioretto, si
abbandonano alle più volgari
ostentazioni. Hardy invece crede
che il centro della scena, il vero
protagonista, debba essere il saggio
stesso, pertanto oggi cerca di
parlare con voce priva
d’inflessione, col risultato che due
o tre dei membri più anziani si
addormentano. Quando finisce,
viene accolto da un applauso
alquanto fiacco. Nessuno capisce
l’importanza del saggio. Risponde a
due domande, una di Littlewood,
l’altra di Butler, entrambe tecniche,
dopodiché la riunione è sciolta e
Hardy si trova accerchiato da un
gruppo di rapaci docenti di oscure
università, tutti con piccole
domande insignificanti da fare,
domande che sembrano studiate
per tendergli una trappola e
coglierlo in fallo. Comunque
Hardy è perfettamente in grado di
parare questi flebili affondi, e i suoi
persecutori se ne vanno delusi,
insoddisfatti.
L’accerchiamento si sfalda,
rivelando Neville che prende la
mano destra di Hardy tra le sue.
«Ottimo lavoro» dice. «Mi fa bene
al cuore vedere quanto è riuscito a
fare Ramanujan da quando è
venuto qui.»
«Sì, davvero.»
«Peccato che non abbia potuto
venire.»
«Oh, sai com’è Ramanujan,
questo tipo di situazione non fa per
lui.»
«Ma tu lo hai invitato a venire,
no?»
«No, io… sai, non è stato bene
ultimamente.»
«Mi dispiace per lui.» Poi Neville
sorride e guarda Hardy negli occhi,
come in cerca di un indizio, di un
segno. Di qualcosa. Hardy si
sottrae a questa ricerca. Perché non
se la sente di dirgli, come vorrebbe:
Neville, è come temevi. Ti stanno
buttando fuori, apparentemente
perché ti considerano un talento
mediocre (giudizio che, per inciso,
sarei incline a condividere) ma in
realtà per punirti per il tuo
pacifismo, per essere un membro
dell’UCD, per la tua difesa di
Russell… È orribile, è ingiusto, ma
è così. Non sei abbastanza famoso
per essere difeso a spada tratta. Tu
non sei Russell. Ti stiamo lasciando
libero. E all’improvviso, solo per un
istante, Hardy si chiede se invece
non dovrebbe dirglielo, se non
attutirebbe il colpo, per Neville,
sentirlo da lui invece che da Butler.
Solo che non spetta a lui farlo. Si
accolla già fin troppe
responsabilità.
«E vedrai Alice mentre sei in
città?»
Neville ride. «No» dice, «è
troppo occupata con le traduzioni
per vedermi. Torno subito a
Cambridge, adesso che è finita la
riunione. Alice mi raggiungerà
domani.» Abbassa la voce. «Strano,
eh, che stia nel tuo appartamento.
Se non ti conoscessi così bene,
direi: “Giù le mani da mia
moglie!”.»
Con una risata, Neville gli dà un
pugno leggero sulla spalla.
«Be’, non c’è niente di cui
preoccuparsi su quel fronte» dice
Hardy, «perché di fatto non la
vedo mai. Non uso l’appartamento
durante la settimana, solo nei
weekend.»
«Lo so. Stavo solo scherzando.
Salve, Littlewood.»
«Neville» dice Littlewood.
«Hardy.»
«Littlewood.» Hardy sente
l’odore di birra nel suo fiato.
«Bene, adesso devo andare» dice
Neville. Ma esita. «Hardy…»
Nessuna risposta. «Be’, non fa
niente. Ci vediamo.»
Con un cenno di saluto,
scompare attraverso il grande
portone scuro.
Littlewood lo segue con gli
occhi. «Povero diavolo» dice.
«Già.»
«Chissà cosa ne penserà
Ramanujan.»
«Littlewood, secondo te avrei
dovuto invitare Ramanujan a
venire oggi?»
«Credevo l’avessi fatto.»
«No, io… cioè, davo per
scontato che anche se glielo avessi
chiesto non sarebbe venuto.»
«Sarebbe stato un gesto gentile
da parte tua. Dopotutto
Ramanujan è il coautore. Oddio,
sembra che ci stiano dando il
benservito» dice, perché ormai la
sala si è svuotata, e una sguattera è
ferma accanto al portone,
impaziente di fare le pulizie. Lui e
Hardy s’incamminano verso la
porta. «Spiacenti di averla
trattenuta, cara» dice Littlewood,
strizzando l’occhio alla sguattera,
che fa loro un sorriso.
Escono nel corridoio, scendono
le scale, si immergono nella luce
crepuscolare di Piccadilly.
«Facciamo due passi?»
«Come vuoi. Dove sei diretto?»
«Torno all’infame Woolwich. È
la fine di una licenza molto breve
che ho trascorso, mi duole dirlo,
impegnato in attività della più
malsana natura.»
Con o senza Mrs. Chase? si
domanda Hardy. Ma non lo
chiede: non perché, come prima, sa
di non doverlo fare, ma perché
non sa come farlo.
«E hai visto Winnie, l’amica di
Ramanujan, di recente?»
«Sono secoli che non vado allo
zoo.» Si fermano davanti a
Hatchards, guardano attraverso la
vetrina l’esposizione di romanzi,
ciascuno dei quali proclama la
propria capacità di trasportare i
lettori lontano da Londra, lontano
dalla guerra. «A proposito, Hardy»
dice Littlewood, «non è che mi
lasceresti usare il bagno del tuo
appartamento? Sono sporco, e le
possibilità di fare un bagno decente
a Woolwich sono praticamente
nulle a quest’ora così tarda.»
«Un bagno?» Hardy concentra la
propria attenzione su uno dei
romanzi: One Tuscan Summer. Un
bagno! Ma Littlewood non è mai
stato a casa sua, senza contare che
c’è il problema di Alice Neville, e
per di più… Tuttavia, come può
rifiutare un bagno a un vecchio
amico quando è così evidente che
ne ha un bisogno estremo? E di
farsi la barba. Per non parlare di
qualche ora di sonno. Perché,
sebbene nel viso di Littlewood
possa ancora riconoscere – anche
se a stento – il giovane che soleva
correre nudo fino al Cam ogni
mattina, strati di preoccupazione e
fatica sembrano offuscarlo.
«Certo che puoi farti un bagno»
dice Hardy. «Prendiamo la
metropolitana, che ne dici?»
«Grazie.» E scendono. Dalla
biglietteria, una scala mobile li
porta senza sforzo nel sottosuolo.
Hardy sente il ronzio del
meccanismo; guarda le facce
stanche di uomini e donne
dall’altra parte del divisorio, che
salgono mentre lui e Littlewood
scendono.
«Sai che una volta ti ho visto
arrampicarti su un albero?»
«Cosa? Quando?»
«Appena prima che facessi il
tripos. Ricordo che mi parve
piuttosto bizzarro che tu ti stessi
arrampicando su un albero mentre
tutti gli altri aspiranti wrangler si
stavano esercitando a risolvere
problemi al cronometro.»
«Non ricordo di essermi mai
dedicato a un’attività del genere.
Detto questo, è vero che cercavo di
mantenere un atteggiamento
spensierato nei confronti del tripos.
Prendevo le cose come venivano.»
«A differenza di Mercer.»
«Povero Mercer… Prendeva
tutto sul serio. Troppo sul serio.»
Scendono sulla piattaforma
proprio mentre arriva il treno. La
stazione odora di pane. La carrozza
è affollata. Vicino a loro, che sono
in piedi attaccati alle maniglie per
mantenere l’equilibrio, una donna
cerca di tranquillizzare un bambino
che piange. Quando Littlewood la
guarda, l’espressione del suo viso
s’incrina e Hardy, per evitare una
scena, dice: «Se queste incursioni
aeree non ci danno un po’ di
tregua, finirà che vivremo tutti
nella metropolitana».
«Mi sentirei più al sicuro» dice la
donna col bambino.
«Ma ultimamente sono
diminuite» dice Littlewood.
«Uomini in cielo su grossi
palloni» dice la donna. «Non è
naturale. Non intende esserlo.»
Hardy non vuole avere una
conversazione con questa donna.
Eppure Littlewood – è la sua
caratteristica – riesce sempre a
comunicare con gli estranei.
«Quanto ha il suo bambino?»
«Tre mesi. Si chiama Oscar.»
«Povero piccolo, non devono
piacergli le folle. Sono un padre
anch’io.»
«Ma davvero!»
«Sì, solo da pochi mesi. È una
bambina.»
«Come si chiama?»
«Elizabeth.»
«Elizabeth. Che bel nome. Sa,
mia sorella ha appena avuto una
bambina e ha pensato bene di
affliggere la povera creatura col
nome di Lucrezia. Per favore, le ho
detto, dà una possibilità alla
piccola, lascia che sia Gladys, o Ida.
E invece no. Mia sorella si è
sempre data delle arie. E sua
moglie come sta? A volte dopo il
parto le donne diventano un po’
strane…»
«Be’, effettivamente…» No,
questa storia deve finire, decide
Hardy, quindi si china su
Littlewood e gli chiede a bassa
voce, una voce intesa a escludere:
«Credi che ci sarà una rivoluzione
in Russia?».
«Russell pensa di sì.»
«Oh, hai visto Russell di
recente?»
«Abbiamo cenato insieme la
settimana scorsa.»
«Come sta?»
«In ottima forma. Dice che ha
scritto un pezzo sarcastico su
uomini ricchi che traggono piacere
dalla morte dei figli, ma Ottoline
non gli ha permesso di
pubblicarlo.»
«Saggio da parte sua. Lo sai
perché stanno licenziando Neville,
vero?»
«Ho i miei sospetti.»
Adesso il treno è arrivato alla
stazione di Embankment.
Littlewood si tocca il cappello
salutando Oscar e sua madre, e
scendono; prendono la District
Line, diretti a Victoria. Nel
frattempo il sole è tramontato e
quando entrano nell’appartamento
buio di Hardy questi accende la
luce mettendo in evidenza tutti gli
effetti personali di Alice
sparpagliati in giro, biancheria
intima appesa ad asciugare in
cucina, libri e giornali sparsi
disordinatamente sul tavolo. Hardy
diceva la verità quando ha
affermato di non usare mai
l’appartamento durante la
settimana – anche quando ha
avuto le riunioni della
Mathematical Society, è stato in un
albergo o a casa di amici – e adesso
vede per la prima volta come vive
Alice quando lui non c’è, perché il
venerdì rimette sempre tutto in
ordine e lascia la casa immacolata.
«Cosa significa tutto questo?»
«Ma come, non lo sapevi? Mrs.
Neville sta qui durante la
settimana. Sta lavorando per Mrs.
Buxton. Sul materiale della stampa
estera.»
«E tu allora?»
«Be’, stasera pensavo di tornare
a Cranleigh. Per via di mia madre,
sai…»
«Quindi sei venuto qui con me
solo perché potessi farmi un
bagno?»
«Non è un problema.»
«È molto gentile da parte tua,
Hardy» dice Littlewood. Poi si
toglie cappello e cappotto e va
dritto in bagno. Rimasto solo,
Hardy esamina le cose di Alice. C’è
un articolo di giornale in tedesco –
non ci capisce granché se non che
parla di un attacco di Zeppelin su
Parigi – e accanto, completata a
metà, la traduzione: “… hanno
fatto scorrerie incursioni su città
aperte, come Stuttgart e Karlsruhe,
e scelto come bersaglio i palazzi
castelli di queste città non
fortificate, laddove la vita della
regina di Svezia è stata messa in
pericolo…”. Sempre sul tavolo, c’è
lo stesso romanzo che ha visto
nella vetrina di Hatchards: One
Tuscan Summer. Dall’altra parte
della stanza, sul divano, un
soprabito e – assolutamente
irresistibile – quello che sembra
essere il diario di Alice, che Hardy
apre sull’ultima pagina
dell’annotazione più recente:
la pellicola che si forma sul latte caldo.
Perché la gente non può essere onesta?
Mrs. Chase, per es., che si ostina a dire
che il bambino è di suo marito, o
Hardy che immagina che nessuno
sappia che è omosessuale. Eppure
insistiamo nel pensare che mentire sia
la cosa giusta da fare, bloccati dalle
pastoie dei nostri comportamenti
innati, chiudiamo le finestre al sole e
diciamo: “Peccato che la pioggia renda
tutto
Hardy lascia cadere il diario, come
se lo avesse morso. Dal bagno,
sente Littlewood cantare:
Nelle Fiandre andò marciando Perks, il
giovane soldato
con quel suo sorriso strano, con quel suo
sorriso buffo.
Da soldati e comandanti era sempre
molto amato
per quel suo sorriso strano, per quel suo
sorriso buffo…
All’improvviso a Hardy viene in
mente che non ci sono
asciugamani in bagno, così ne
prende uno dall’armadio e bussa
alla porta.
«Sì?» risponde Littlewood.
«Ti ho portato un asciugamano.»
«Entra, allora.»
Esitante, Hardy entra. Il vapore
si leva dalla vasca, dentro la quale
Littlewood, nudo e impudico come
sempre, sta fumando mentre si
striglia con una grossa spazzola
antiquata che Hardy non
riconosce. Deve appartenere ad
Alice. «Te lo appendo qui al
gancio.»
«Grazie.» Littlewood alza il
braccio per insaponarsi l’ascella. E
che stranezza! Qui nel bagno
potrebbe essere ancora una volta il
giovanotto che si arrampicava sugli
alberi prima del tripos, come se
avesse strofinato via non solo lo
sporco di una notte di stravizi, ma
anche tempo, preoccupazioni e
vecchiaia. A Hardy la sua testa
sembra troppo vecchia per il corpo,
come se, per uno scherzo infantile,
la faccia baffuta di un uomo di
mezza età fosse stata piantata sul
collo e sul busto di un ragazzo:
spalle esili, costole visibili, i
capezzoli piatti e rosei sulla carne
bianca. Littlewood ha il braccio in
aria, e per un momento Hardy è
come ipnotizzato dalla visione dei
suoi peli sotto l’ascella; un
mulinello, acqua nera sbiancata da
macchioline di schiuma.
Infila i guai nella tua vecchia sacca
e sorridi, sorridi, sorridi…
«Grazie, Hardy.»
«Non c’è di che» dice Hardy, e
sta per andarsene quando, giusto
in tempo, scatta la serratura; la
porta dell’appartamento si apre
cigolando. «Mrs. Neville!» grida, e
si precipita fuori dal bagno,
chiudendosi la porta alle spalle.
Da dove si è fermata, accanto al
portaombrelli, Alice lo guarda. E
sbatte gli occhi.
«Mr. Hardy.»
«Non si preoccupi, non mi
fermo.»
A che serve preoccuparsi?
Non ne è mai valsa la pena…
«Non si allarmi, è solo Littlewood.
Siamo stati alla riunione della
Mathematical Society. Aveva
bisogno di un bagno, così gli ho
detto…»
«Oh, ma certo.» Alice appende il
cappotto. «Se vuole, posso
andarmene.»
«Non è necessario.
Assolutamente. Appena Littlewood
avrà finito, usciamo di qui.»
Entrambi guardano il divano, su
cui c’è il diario aperto. Se Alice si
accorge che è spostato un po’ più a
destra di dove l’ha lasciato, non lo
dà a vedere. In ogni caso, sono
entrambi troppo occupati con i
convenevoli, con il problema di chi
di loro sia da considerare, in
questo giovedì sera dell’inverno
1917, il legittimo occupante
dell’appartamento, e pertanto
responsabile di invitare l’altro a
sedersi, per pensare al diario.
Alla fine, si seggono entrambi
allo stesso tempo. «E come sta sua
madre, Mr. Hardy?» chiede Alice.
«Ho sentito che non è stata bene.»
«No, non bene. Infatti stasera
torno a Cranleigh.»
«Capisco. E Mr. Littlewood?»
«Direi che se la cava.»
In quel momento Littlewood
esce dal bagno, con un aspetto
ancora umidiccio, mentre sistema i
polsini della giacca dell’uniforme.
«Salve, Mrs. Neville.»
Alice si alza. «Mr. Littlewood.»
«Abbiamo visto suo marito alla
riunione» dice Hardy.
«Sì, mi ha detto che sarebbe
venuto in città.»
«Peccato che non si sia potuto
fermare.»
«Le sue lezioni.» Alice si rimette
a sedere. «E io ho visto la sua
amica, Mrs. Chase, oggi
pomeriggio.»
«Anne? Veramente? Dove?»
«Dai Buxton. Viene una volta
alla settimana a portare le sue
traduzioni.»
«Oh, capisco.»
«Sembra stia benissimo da
quando è nata la bimba.»
«Mi fa piacere.» Littlewood si
mette il cappello. «Bene, temo che
dovrò andare. Devo rientrare alla
base. È stato un piacere vederla,
Mrs. Neville.»
«Anche per me.»
«Ti accompagno» dice Hardy.
Alice li accompagna alla porta.
Scendono le scale in silenzio,
finché emergono nella fumosa
oscurità di St. George Square.
«Da che parte vai?»
«Waterloo.»
«Stessa direzione. Dividiamo un
taxi?»
«Perché no?»
Ne fermano uno e salgono.
Lungo il tragitto, Hardy contempla
la vastità di Londra, la giungla di
strade e vicoli attraverso i quali li
porta il conducente. Deve
memorizzare tutta questa
complessità. È il suo tripos.
«La Conoscenza, la chiamano»
dice a Littlewood.
«Cosa?»
«Quello che i tassisti devono
imparare prima di prendere la
licenza. Le strade di Londra. La
chiamano la Conoscenza.»
«Ah, sì.» Ma Littlewood è
lontanissimo dalle scene che sta
osservando, facciate in mattoni e
pietra, coperte di muschio, umide
di nebbia e di pioggia. Hardy riesce
a immaginare a cosa sta pensando.
Si chiede se Alice volesse essere
crudele – forse intendeva esserlo –
e vorrebbe poter dire qualcosa per
consolare l’amico. Ma parlare a
Littlewood non gli è affatto più
facile che parlare a Neville, ed è
questo il maledetto problema. Non
ha la Conoscenza. Non sa da che
parte incominciare.
4

«È occupato questo posto?» chiede


Alice.
Una donna con la faccia da cane
pechinese alza gli occhi dal lavoro a
maglia e la guarda. La sua bocca si
muove e le sue mani continuano a
sferruzzare allo stesso modo in cui
le zampe di un animale a volte
scalciano dopo che è morto. Ma
non dice niente. È malata?
Straniera?
«È occupato questo posto?»
Adesso la donna spalanca gli
occhi. Si appiattisce contro la
parete dello scompartimento, come
in cerca di protezione. Nel
frattempo, l’uomo seduto dall’altra
parte dello scompartimento si è
alzato. Ha un paio di baffi che
ricordano ad Alice quelli di suo
nonno, e si avvicina con
un’espressione di protettiva
autorità. «Temo che la signora non
parli la sua lingua» dice. «Allora,
qual è il problema qui?»
Alice quasi scoppia a ridere.
Dunque ha fatto la domanda in
tedesco! Mrs. Buxton l’aveva
avvertita che poteva succedere; è
uno dei rischi del mestiere per un
traduttore che passa la propria vita
nei contesi territori di confine che
dividono una lingua da un’altra.
Talvolta le parole emigrano da una
zona all’altra. Nel negozio di
abbigliamento ti capita di chiedere
se una gonna può essere
ausgetaken. O passeggiando in St.
George Square ti ritrovi a dire alla
tua vicina che il suo terrier scozzese
è “un cane molto jolie”.
«Sono terribilmente spiacente»
dice Alice in perfetto inglese. «Mi
stavo solo chiedendo se il posto era
occupato, dal momento che c’è una
borsa…»
«No, è la mia borsa» dice la
donna, e si affretta a toglierla.
«Grazie.» Alice si siede. L’uomo
dall’altra parte dello
scompartimento si siede a sua
volta, la fronte aggrottata dall’ansia
e dalla disapprovazione. Chissà
cosa deve pensare di lei? Che parla
tedesco… Una spia? Un’evasa da
un campo di internamento?
Mentre Alice apre la sua borsa, la
donna con la faccia tirata si ritrae.
Il treno esce dalla stazione. Alice fa
uno sforzo per non ridere. È
venerdì pomeriggio, e lei sta
tornando a Cambridge, da Eric, in
Chesterton Road. Una prospettiva
deprimente. Tuttavia deve farlo,
non tanto per amore di Eric,
quanto per tener fede al suo
accordo con Gertrude. Non che
Hardy venga spesso, adesso che la
madre è così malata.
Prende la “Cambridge Review”
dalla borsa. Ma non riesce a
concentrarsi, non oggi, perché è
troppo consapevole di ciò che
l’aspetta alla fine di questo breve
viaggio: Eric seduto in salotto,
raggiante di gioia per il suo ritorno;
Ethel in cucina, di certo dopo aver
preparato una cena speciale. Anche
col razionamento il venerdì sera
riesce a fare miracoli. Ma mai un
curry o un’oca vegetariana. E
nemmeno il nome di Ramanujan
viene mai nominato. Che abbiano
intuito? Eric non ci sarebbe mai
arrivato. Ma Ethel forse sì.
È ancora una sorpresa per lei
quanto le piaccia la sua vita
londinese. Se fosse il personaggio
di un romanzo, avrebbe una
relazione in città. Ma naturalmente
non è così. In realtà si sta godendo
la solitudine. Ogni domenica sera,
arrivando nell’appartamento, inala
con estremo piacere l’odore di
umidità e di naftalina. Il lunedì
mattina si crogiola ancora
nell’angustia del letto da zitella di
Gertrude. Verso il lunedì sera
incomincia a provare un po’ di
malinconia, certo, ma persino
quella malinconia è interessante,
perché è così nuova; non ha mai
avuto tempo di abbandonarvisi,
prima. Il mercoledì, la solitudine è
diventata la sua condizione
naturale. Il giovedì, incomincia a
paventare il ritorno a Cambridge. Il
venerdì le si chiude lo stomaco, si
sente malata. E poi, sul treno,
all’ansia quotidiana ecco che si
aggiunge questa bizzarra
sensazione di essere scambiata per
qualcuno che non è. Le batte forte
il cuore. Deve fare uno sforzo per
impedirsi di ridere. Così chiude gli
occhi; cerca di ricordare, come fa
spesso quando ha bisogno di
calmarsi, una conversazione avuta
con Eric all’inizio del loro
matrimonio, prima che lui
rinunciasse a tentare di spiegarle la
matematica. Quella volta stava
cercando di farle capire il concetto
di infinito, e ricorse all’analogia di
un treno. Immagina un treno, le
disse, con un numero infinito di
posti a sedere, numerati da 1
all’infinito. La piccola Alice sale sul
treno – era così che la chiamava a
quei tempi: Piccola Alice – e non
c’è neanche un posto a sedere.
Tutti i posti dal numero 1
all’infinito sono occupati. Cosa può
fare la Piccola Alice? Ma aspetta…
è un treno infinito, quindi non c’è
da preoccuparsi. Basta spostare il
passeggero del posto 1 al posto 2, il
passeggero del posto 2 al posto 3, il
passeggero del posto 3 al posto 4, e
così via. Ed ecco che, sorpresa!, il
posto numero 1 è libero.
Ma com’è possibile? Tutti i posti
a sedere dall’1 all’infinito sono
occupati.
Ebbene, è proprio questo il
punto. È un treno infinito, quindi
puoi far posto a un numero infinito
di nuovi passeggeri, perché se
sposti il passeggero del posto 1 al
posto 2, il passeggero del posto 2 al
posto 4, il passeggero del posto 3 al
posto 6, e così via, tutti i posti a
sedere contrassegnati da un
numero dispari saranno
disponibili.
Ma com’è possibile? Tutti i posti
a sedere dall’1 all’infinito sono
occupati.
È un treno infinito.
Arriva il controllore. Alice gli
porge il suo biglietto. Si chiede se la
donna con la faccia da pechinese
gli dirà qualcosa, o l’uomo
dall’altra parte dello
scompartimento. Sarebbe
divertente essere denunciata come
spia tedesca. Ma nessuno dice
niente, e il controllore procede col
suo giro.
“È occupato questo posto?”
Dal posto 1 al posto 2, dal posto
2 al posto 4…
L’altro giorno avevano parlato
del treno infinito, lei e Anne,
mentre pranzavano nella cucina di
Mrs. Buxton. Anne era venuta da
Treen per ritirare degli articoli da
tradurre, e aveva lasciato la piccola
con la bambinaia. «Jack mi ha
detto la stessa cosa» le aveva
confidato, «solo che nella sua
versione c’era un albergo con un
numero infinito di stanze, dove
arrivava un cliente che voleva una
stanza.»
«Non lo capisco. Non riesco a
visualizzarlo. Forse sono stupida.»
«Non c’è niente da capire. È un
paradosso. Tutta la matematica è
costruita su paradossi. E questo è il
più grande di tutti i paradossi –
tutta questa precisione, e, alla base,
l’impossibilità. La contraddizione.
Il paradiso costruito sulle
fondamenta dell’inferno.»
Alice aveva dato un morso al
suo sandwich. Adesso nutriva per
Anne lo stesso rispetto che, in un
altro momento della sua vita,
avrebbe potuto nutrire per una
ragazza più grande e più esperta a
scuola. A Gertrude invece
guardava ormai con una sorta di
sussiego, fin da quando l’aveva
indotta a togliersi l’occhio. Perché,
una volta che Gertrude si era tolta
l’occhio, non aveva più nessun
vantaggio su Alice, mentre Anne
dominava Alice perché, a
differenza della povera, segaligna
Gertrude, anche lei era la moglie
(più o meno) di un matematico.
Era saftig. Fertile. E la sapeva lunga
sul sesso.
«Eric vuole che io faccia un
bambino» aveva detto Alice.
«Be’, perché non lo fai?» aveva
chiesto Anne.
«Perché alla fine dovrei
starmene a Cambridge, a fare la
moglie.»
«Non mi sembra così terribile»
aveva detto Anne. E Alice si era
augurata che non menzionasse,
come faceva spesso sua madre, il
bicchiere d’acqua che poteva essere
mezzo pieno, ma anche mezzo
vuoto. “Immagina un bicchier
d’acqua infinito…” Tuttavia era
vero, un tempo aveva adorato Eric.
Cos’era successo?
«Ho già fatto dei compromessi. È
più di un anno che non lo vedo e
non gli parlo.»
«Che succederà quando finisce
la guerra?»
«Tornerà in India, credo.»
«Da sua moglie.»
«Sì. E dire che la conosce
appena. È solo una bambina.»
«E tu? Cosa farai?»
«Non ne ho idea. Suppongo che
non ci sarà più una sezione
intitolata “Note dalla Stampa
estera”, giusto?»
«Probabilmente non ci sarà più
nemmeno un “Cambridge
Magazine”.»
«Allora suppongo… suppongo
che me ne tornerò a Cambridge,
riprenderò i miei doveri di moglie,
e avrò un bambino. Ho altra
scelta?» La rabbia nella sua voce
l’aveva sorpresa.
«Potresti scoprire che questo
cambia tutto» aveva detto Anne. E
preso un blocchetto dalla borsa si
era annotata un appunto. «Solo
un’idea per la traduzione.»
Strano, si comportava con tanta
sicurezza! Eppure, a pensarci bene,
la sua vita era tenuta insieme con
gli spilli: un marito che non amava
ma che non voleva lasciare, figli da
padri diversi, Littlewood disperato
a Woolwich. Eppure Anne
rimaneva serena, come se la
sofferenza di Littlewood non fosse
che un’inezia da sopportare finché
lui “non se ne fa una ragione”;
parlava di lui come una madre
parlerebbe di un bambino che ha
girato la faccia contro il muro e si
rifiuta di voltarsi finché lei non gli
dà una caramella. Non si può
cedere. Presto gli passerà. E poiché
Alice adorava e temeva Anne, non
le diceva che provava compassione
per Littlewood, che capiva la sua
sofferenza, il suo bisogno di vedere
il suo matrimonio (cos’altro era, se
no?) legittimato; la sua paternità
legittimata. No, non avrebbe osato
dirlo ad Anne.
La voce del controllore le fa
aprire gli occhi. Il treno sta
entrando nella stazione di
Cambridge. La donna con la faccia
da pechinese sta prendendo il suo
cappotto e il lavoro a maglia. “Ma
un treno infinito non avrebbe
bisogno di rotaie infinite?” Bene,
non resta che alzarsi, scendere dal
treno, prendere un taxi, e andare
dalla stazione su per Magdalene
Street, oltre Thompson’s Lane.
Quando arriva a casa, ha il cuore
in gola. Apre la porta, preparandosi
al balzo di Eric, al suo grido
“Tesoro!” e alla corsa precipitosa
per prenderle la valigia. Ogni
weekend è la stessa cosa. C’è
quello sgomento all’inizio, ma poi,
come si adegua in fretta! Perché
questa è casa sua. I mobili Voysey
e il pianoforte e il tavolo sul quale
Ramanujan soleva fare il suo
puzzle. E naturalmente la poltrona
su cui Eric legge, felice solo di
averla lì accanto; senza chiederle
niente se non la sua vicinanza. Ed
Ethel, che arriva barcollando con
tazze e piattini, prova evidente di
quanto lo spirito umano sia più
malleabile di quel che la maggior
parte di noi penserebbe. Infatti il
figlio di Ethel è in Francia da mesi
ormai, eppure sembra che lei sia
passata dal terrore a una sorta di
euforia dell’incertezza. Sì, ha
imparato il trucco grazie al quale
tanti di noi tirano avanti: l’infelicità
può essere meravigliosamente
comoda. Ci si può sistemare come
in una soffice poltrona. Certo, sta
succedendo ad Alice proprio
adesso, mentre si toglie il cappotto
nell’atrio. Lo sente, il richiamo
allettante della soffice poltrona. E
ogni weekend è lo stesso. La
domenica, lo sa, avrà una mezza
idea di restare. Il bicchiere mezzo
pieno…
La cosa strana, stasera, è che
nessuno viene ad accoglierla,
anche se sente il profumo di cibo
dalla cucina. «Ethel?» chiama.
«Eric?» Nessuna risposta. Entra in
salotto, e trova Eric sulla solita
poltrona. Le luci sono spente. Lui
sta fissando l’oscurità che si
addensa intorno al pianoforte.
«Eric? Stai bene?»
Lui si gira debolmente. «Oh,
ciao, Alice.»
«Dov’è Ethel?»
«A preparare la cena,
suppongo.»
«Eric, qualcosa non va?»
Eric non dice niente. Alice va
verso di lui, gli si inginocchia
accanto, e vede che ha il viso rigato
di lacrime.
«Eric, cos’è successo?»
«Mi buttano fuori.»
«Chi?»
«Il Trinity. Non rinnoveranno la
mia fellowship.»
Alice vacilla. Cerca di mantenere
un contegno. Dice a se stessa: non
essere scioccata. Sapevi che questo
era possibile. Anzi, più che
possibile. Eppure è uno shock
quello che prova – uno shock
egoistico – perché se Eric deve
lasciare Cambridge, che ne sarà di
loro? Che ne sarà della sua vita a
Londra? E poi la vecchia domanda,
repressa per più di un anno ormai:
rivedrà mai Ramanujan?
«Non è la fine del mondo» dice,
quasi automaticamente. «Troverai
un altro posto.»
«Certo che lo troverò.»
«È a causa del tuo pacifismo»
soggiunge Alice, con un tono che
lascia trapelare una nota d’accusa.
«Cosa stai insinuando? Che
avrei dovuto mentire?»
«È il bicchiere mezzo pieno
contro il bicchiere mezzo vuoto.»
«Non riesco a credere che tu lo
stia dicendo! Pensavo che credessi
nelle stesse cose in cui credo io. Mi
aspettavo che mi offrissi almeno un
po’ di conforto.»
«Avresti potuto stare più
tranquillo. Non c’è niente di male
nell’essere cauti. Guarda Hardy.» E
si alza in piedi. Il veleno che sente
montare dentro di lei la eccita e la
inorridisce. Non vorrebbe dire
queste cose, vorrebbe essere di
nuovo in ginocchio, ad
accarezzargli il viso, assicurandogli
che andrà tutto bene… Ma non
andrà tutto bene. E questa
rabbia… Dio, come la fa sentire
libera!
«Non capisco perché te la prendi
tanto, visto che di questi tempi non
ci sei quasi mai.»
«Cosa vorresti dire?»
«Be’, ormai vivi praticamente a
Londra, no? Dovresti essere
contenta di liberarti di questo
posto.»
«È sempre casa mia.»
Eric si alza e le si avvicina. Alice
non indietreggia. È più calma
adesso. Lo shock, si rende conto,
non è una vera e propria
emozione: è quello che succede
quando due emozioni si scontrano,
la paura assale la contentezza
quotidiana o il dolore quotidiano.
E quando forze così opposte si
scontrano, ebbene, la corrente si
alza, scuotendo il corpo fin nelle
fondamenta, per poi traboccare,
lasciandosi dietro un
intorpidimento, un formicolio. E in
questo intorpidimento si aprono
delle possibilità. Potresti fuggire.
Potresti infliggere castighi. Potresti
cedere.
«Sai, ho avuto un’idea» dice
Eric. «Potrebbe risolvere tutto.»
«Cosa?»
«Potremmo trasferirci a Londra.
Quest’estate. Vivere lì finché… be’,
finché non avrò trovato un altro
posto.» Cerca di prenderle il mento
tra le mani, ma lei si ritrae.
«Sarebbe bello, Alice. Tu potresti
continuare il tuo lavoro. E non
dovresti stare a casa di Hardy.
Potremmo avere una casa nostra.»
Sulle prime Alice ha voglia di
ridere, della sua ignoranza, della
sua innocenza. Possibile che dopo
tutto questo tempo non abbia
ancora capito? O si sta prendendo
gioco di lei, sta cercando di farsi
compatire, fingendosi un bambino?
Be’, forse dovrebbe
semplicemente dirlo, quel che non
ha mai osato dirgli prima: “È da te
che voglio scappare…”. Ma
qualcosa la trattiene.
I suoi occhi. Alice lo guarda
negli occhi. No, non sta fingendo.
È davvero innocente, non sa cosa
sia la slealtà, e tanto meno la
psicologia. Eric la ama, vuole che
stia con lui, vuole renderla felice,
vuole restare fedele ai suoi ideali, e
vuole stare al Trinity… Vuole
tutto, vuole cose che non vanno
d’accordo tra loro. Solo che non
riesce a capirlo. E in qualche modo
l’espressione nei suoi occhi, la
semplicità del suo desiderio e del
suo dolore, placano la sua ira. Non
potrebbe più ferirlo. Non finché
non capirà la fonte del proprio
dolore.
Lascia che la sua espressione si
addolcisca. «Sì, d’accordo» dice.
«Ci trasferiremo a Londra. Ma c’è
abbastanza denaro per vivere?»
«C’è la rendita che ricevo da mio
nonno. E mio fratello ci aiuterà.
Può trovarci un posto vicino a lui, a
High Barnet.»
«No, non voglio stare a High
Barnet. Dovremo trovare un posto
più centrale. Bloomsbury, forse.»
«Come preferisci.»
«E i mobili che non riusciremo a
far entrare nell’appartamento, li
lasceremo dai miei genitori finché
ci saremo sistemati da qualche altra
parte.»
«Sì, certamente.»
«E gliela farai vedere, Eric. Forse
puoi andare a Oxford. Questo sì
che sarebbe un bello smacco per
loro!»
«Dubito che potrei trovare un
posto a Oxford.»
«Da qualsiasi altra parte, allora.»
Gli accarezza il viso ed Eric si
rimette a piangere.
«Tesoro…»
«Avremo un bambino?» gli
chiede Alice.
«Oh sì, ti prego!» E si baciano.
Ecco fatto, Eric è felice. È tanto più
facile che far felice Ramanujan, o
Gertrude, o Littlewood. E se può
rendere felice almeno una persona
è già qualcosa, no? Qualcosa di cui
andare fiera. Lo libera
dall’abbraccio e si lascia
sprofondare nella soffice poltrona.
OTTAVA PARTE

Il fulmine abbatte un
albero
1

Mahalanobis va negli appartamenti


di Hardy per comunicargli che
Ramanujan si è ammalato. È
ricoverato in una clinica
convenzionata con il Trinity, in
Thompson’s Lane.
«In clinica!» dice Hardy. «Ma
perché?»
«Eravamo con lui ieri sera» dice
Mahalanobis. «Ananda Rao e io.
Ci aveva invitato a cena da lui.
Stavamo mangiando il rasam e
discutendo del lavoro di Mr. Oliver
Lodge…»
«Oliver Lodge?»
«E nel bel mezzo della
conversazione il povero
Ramanujan si è piegato in due con
un mal di pancia lancinante.»
«Perché non mi avete
chiamato?»
«Ha insistito che non dovevamo
disturbarla. Abbiamo chiamato il
portiere, che ha chiamato un
dottore. E il dottore ha detto che
doveva essere ricoverato in
clinica.»
«Ma l’ho visto solo ieri, e
sembrava stesse bene.»
«La mia impressione» dice
Mahalanobis, «è che sia già da un
po’ che nasconde la gravità dei suoi
sintomi.»
Hardy si infila il cappotto, e
s’incamminano insieme verso la
clinica. È l’inizio della primavera, la
stagione in cui si tende a spostarsi
sul lato soleggiato più che sul lato
ombreggiato della strada, il
momento in cui a dispetto del gelo
– i ghiaccioli pendono ancora dalle
tettoie – si sente sul capo il calore
incipiente. Ramanujan in ospedale:
anche se non lo direbbe a
Mahalanobis, Hardy è irritato oltre
che allarmato. O Dio ha deciso
ancora una volta di contrariarlo, o
Ramanujan sta agendo per pura
perversità, come ha fatto la sera in
cui ha piantato in asso i suoi ospiti
ed è andato a Oxford. Infatti è
riuscito ad ammalarsi non solo
all’inizio della primavera, ma
proprio quando stavano per
completare il loro grosso saggio
sulla funzione delle partizioni, e
questa è una cosa che Hardy non si
sarebbe mai permesso di fare.
Anche se si fosse ammalato, non
avrebbe permesso che la malattia
gli impedisse di lavorare. Avrebbe
continuato a farlo.
No, no, è irragionevole. Un
uomo non è responsabile per
quello che succede alla sua pancia.
Non si può pretendere che ignori il
dolore. Inoltre, per quel che ne sa
Hardy, Ramanujan potrebbe essere
al lavoro anche adesso, intento a
scrivere formule nel suo letto.
Quando arrivano alla clinica,
una caposala con una cuffia severa
ed elaborata li conduce nella
stanza di Ramanujan. Sebbene sia
una stanza destinata a due degenti,
Ramanujan la occupa da solo.
L’arredamento consiste in due letti
con la testata di ferro, due
comodini, due seggiole e un
armadio. Niente quadri alle pareti
bianco gesso, solo una finestra,
affacciata sul Cam. E l’odore di
disinfettante che permea l’aria.
Ramanujan è nel letto più vicino
alla finestra, e guarda con pallida
indifferenza il fiume.
Niente taccuino, niente matita.
«Ramanujan» dice Hardy, e lui
si gira; gli sorride debolmente.
Hardy accosta una seggiola al
letto e gli si siede accanto. Ha un
aspetto allarmante. Forse è la luce
abbagliante dell’ospedale che rivela
un pallore e una magrezza che
l’illuminazione crepuscolare del
Trinity occultava. Oppure è vero
che chiunque sembrerebbe malato
sotto una luce del genere? Anche
lui? Hardy vorrebbe che ci fosse
uno specchio nella stanza per
verificarlo.
«Ho saputo che ti sei ammalato»
gli dice.
Le labbra di Ramanujan,
quando parla, sono riarse. «Avevo
un terribile mal di pancia» dice.
«Forse per via del curd che ho
mangiato. È una specie di cagliata,
sai?»
«Dov’è che ti fa male,
esattamente?»
«Qui. Sul lato destro.»
«È un dolore acuto o un dolore
sordo?»
«Non è un dolore costante. Mi
sembra di star bene e poi, di colpo,
ci sono come delle… delle
pugnalate, diciamo così.»
«E hai visto il dottore?»
«Il dottor Wingate arriverà più
tardi in mattinata» dice la caposala,
che sta versando l’acqua di una
brocca in una catinella. «Allora
visiterà il paziente.»
«Capisco.»
«Il problema è che non vuole
fare colazione.»
«Mr. Ramanujan è induista.
Segue una dieta molto rigorosa.»
«Era solo porridge.»
«Non ho appetito, la ringrazio»
dice Ramanujan, lanciando
un’occhiataccia a Mahalanobis, che
distoglie lo sguardo. Hardy si
chiede se sia arrabbiato perché
Mahalanobis ha contravvenuto alle
sue istruzioni e ha detto a Hardy
che lui era in clinica.
«Mi hai portato il libro?»
«Te lo porto nel pomeriggio»
dice Mahalanobis.
«Quale libro? Posso portarteli io
i libri» dice Hardy.
«Non importa.»
«Ma ti assicuro che…»
«Non importa.»
Mahalanobis storna gli occhi. E
adesso Hardy capisce, o crede di
capire: evidentemente Ramanujan
non vuole che Hardy sappia del
suo desiderio di leggere il libro in
questione. Forse è un romanzo da
quattro soldi. O qualcosa di Oliver
Lodge?
Poi entra il dottore, tutto
sussiego e ostentazione,
irrompendo nella stanza mentre,
secondo Hardy, un medico
dovrebbe entrare con delicatezza,
così come un conferenziere
dovrebbe parlare con un tono più
neutro possibile. Come il
personaggio di una commedia
shakespeariana, entra in scena
dalla parte sinistra del palco, bloc
notes alla mano, seguito da un
codazzo di assistenti e
un’infermiera. È sulla cinquantina,
con occhietti a forma di uva passa e
guance butterate. «Ehilà» dice, e la
caposala fa segno a Hardy di
alzarsi. «Eccoci qui, Mister… come
si chiama?»
«Ramanujan» dice Ramanujan.
«Non cercherò nemmeno di
pronunciarlo. Allora, qual è il
problema?»
«Ha mal di pancia, dottore.»
«Vogliamo lasciar parlare il
paziente?» il dottor Wingate mette
la mano sulla fronte di Ramanujan.
«Febbre?»
«Niente stamattina, dottore. Ieri
sera 37,5.»
«E dov’è esattamente il dolore?
Lei parla inglese, vero?»
«Sì.» Ramanujan indica il lato
destro dell’addome.
«Capisco. Posso?» Il dottore
allunga la mano e flette le dita.
«Non premerò troppo forte. Mi
dica quando sente dolore. Qui?
Qui?» Ramanujan ciondola il capo.
«E questo cosa significa?»
«Dolore, e ancora dolore» dice
Hardy.
«Qui?»
Ramanujan fa una smorfia e
grida. «Eccolo qui, il punto critico»
dice trionfante il dottor Wingate, e
scrive qualcosa sul blocco. «E cosa
la porta al Trinity, giovanotto?
Cosa studia?»
«Matematica.»
«Interessante. Una volta avevo
un matematico per paziente. Gli
dissi: “Signore, lei ha un senso
dell’umorismo assai singolare” e lui
disse: “Cioè ne ho uno solo?”.»
Ramanujan guarda la finestra.
«A quello stesso matematico,
dissi: “Lei deve finire le sue
medicine, al pari di tutti gli altri”. E
lui disse: “Perché non al dispari?”.»
«Quando potrò andare a casa?»
«Non molto presto, temo.»
«Ma il mio lavoro…»
«Lei non è in condizioni di
lavorare. Febbre intermittente e un
dolore intenso, non diagnosticato.»
Il dottor Wingate si mette il blocco
sotto il braccio. «No, lei dovrà
rimanere in osservazione, almeno
finché non avremo capito cos’è che
non va. A proposito, lei chi è?»
dice rivolto a Hardy.
«G.H. Hardy.»
«E qual è il suo rapporto col
paziente?»
Hardy si blocca. Nessuno gli ha
mai fatto questa domanda. E in
che modo dovrebbe descrivere il
suo rapporto con Ramanujan?
«Mr. Hardy è un fellow del
Trinity» dice Mahalanobis. «Mr.
Ramanujan è il suo allievo.»
«Capisco. Una parola, se non le
spiace.» E fa segno a Hardy di
seguirlo in corridoio. «Senta, io
non le ho detto niente» dice a
bassa voce, «ma, dieci contro uno,
il suo amico soffre di ulcera
gastrica. È stato sotto stress
ultimamente?»
«Non saprei… Ha lavorato
molto. Ma non più del solito.»
«Preoccupazioni per la guerra?
Problemi di famiglia?»
«Non che io… Cioè, a me non
ha detto niente.»
«Bene, lo terremo d’occhio. Se è
ulcera gastrica, dovrà seguire una
dieta speciale.»
«Segue già una dieta speciale. Si
cucina tutti i pasti da solo. È un
vegetariano stretto.»
«Potrebbe essere questo il
problema. Non si trovano molte
verdure fresche di questi tempi.» Il
dottor Wingate gli porge la mano.
«Fellow di matematica, eh? Roba
bestiale, la matematica. Mio
fratello era più bravo di me in
questa materia, è stato senior
optime nel… 1898, mi pare.»
«Sì, ricordo un Wingate.»
«Veramente? È al ministero
degli Interni adesso. Bene, buona
giornata, Hardy.»
«Buona giornata.»
Poi il dottore, seguito dai suoi
assistenti, esce di scena. Hardy
torna nella stanza di Ramanujan.
La caposala sta armeggiando con
una brocca di smalto bianco e una
vaschetta. Mahalanobis, che si è
seduto sulla seggiola accanto al
letto, balza in piedi appena vede
Hardy.
«Va bene così» dice Hardy.
«Resti pure dov’è.»
«No, la prego» dice
Mahalanobis, offrendogli la sedia
con l’ossequiosità di un cameriere.
«Ma io non voglio sedermi.»
«Cosa ha detto il dottore?»
chiede Ramanujan.
«Pensa che tu soffra di ulcera
gastrica.»
«Cosa significa?»
«Non lo so esattamente. So solo
che è causata dallo stress. Quindi
dovrai rilassarti.»
«Probabilmente è qualcosa che
hai mangiato» dice Mahalanobis.
«O non hai mangiato.»
«Il curd, credo.»
«Devi prenderti più cura di te,
Jam! Non si sta mai troppo attenti
con il curd.»
«Non ho avuto tempo di pensare
a cucinare. Ero troppo occupato.»
Hardy guarda l’orologio. «Bene,
adesso bisogna che vada. Devo
tenere una lezione. Lei che fa,
Mahalanobis, viene o rimane?»
«Devo andare anch’io» dice
Mahalanobis. «Tornerò nel
pomeriggio.»
Ramanujan non dice niente.
Appoggia la testa sul cuscino e si
gira, ancora una volta, a guardare il
fiume. E Hardy si chiede: dal suo
punto di partenza, dal pial al
crepuscolo, avrebbe potuto
spingersi più lontano?
2

«Non sapevo che Ramanujan fosse


interessato a Oliver Lodge» dice
Hardy a Mahalanobis mentre
attraversano Bridge Street.
«Oh sì» dice Mahalanobis. «Lo
siamo tutti.»
«Presumo lei si riferisca al suo
lavoro sulle onde radio.»
«No, ci interessano i suoi scritti
sui fenomeni psichici. Lo sa che
Mr. Lodge è il presidente della
Society for Psychical Research,
immagino.»
«Così mi si dice.»
«Ramanujan in particolare è
interessato ai fenomeni psichici.
Bacchette da rabdomante,
poltergeist, scrittura automatica.
Fantasmi.»
«Ramanujan?»
«Sì.»
«Probabilmente non la
sorprenderà sapere che, secondo
me, sono tutte sciocchezze.»
«No, non mi sorprende. E
nemmeno Lodge sarebbe sorpreso.
Si aspetta di essere deriso, e lo
accetta come un fatto inevitabile.»
«Allora perché insiste?»
«Perché crede che i fenomeni
soprannaturali meritino di essere
studiati.»
«Ma questi fenomeni non sono
reali, sono frutto
dell’immaginazione della gente.»
«Chi può dirlo? Lei ha mai avuto
esperienza del soprannaturale, Mr.
Hardy?»
Hardy pensa a Gaye; alle sue
visite sporadiche, ancorché poco
gradite. Come potevano essere
sconcertanti quelle improvvise
apparizioni! Eppure erano tutte un
sogno, giusto?
«No, non mi è mai capitato. E a
lei, Mr. Mahalanobis?»
«In India» dice Mahalanobis,
«queste cose sono considerate
come… come parte della vita
quotidiana, diciamo. Mia nonna
affermava spesso di avere delle
visioni. Una volta ricevette un
messaggio dalle fiamme del
focolare. Una voce la avvertì di
non andare a far visita a casa di
una vicina. Obbedì, e proprio quel
giorno, a casa della vicina, ci fu
un’epidemia di tifo.»
«Forse è stata una coincidenza.
O forse sua nonna ha creduto di
avere la visione dopo il fatto.»
«Per quel che mi riguarda,
dicono che alcune stanze del King’s
siano infestate dai fantasmi.
L’inverno scorso, una sera misi una
sciarpa sul telaio del letto prima di
andare a dormire. La mattina non
c’era più. Ribaltai la stanza per
cercarla. Pensai che la memoria mi
avesse ingannato, e che l’avessi
lasciata nella Hall o sul treno. Poi,
l’inverno successivo, nel primo
giorno freddo, la sciarpa
ricomparve, perfettamente piegata,
nel mio cassettone.»
«Be’, potrebbe averla messa nel
cassettone ed essersene
dimenticato.»
«Ho aperto quel cassettone tutti
i giorni. No, ho il sospetto che il
fantasma avesse bisogno della
sciarpa.»
«Non credo che i fantasmi
soffrano il freddo.»
«Ecco, questo è esattamente il
tipo di cosa che Sir Oliver ci
farebbe prendere in
considerazione.»
Hardy ride. «Così è di questo
che parlate, quando cenate
insieme?»
«All’inizio Ananda Rao e io
eravamo scettici. Ramanujan però
ci ha convinti. Sa, anche lui ha
avuto certe… esperienze.»
«Ah sì? E quali?»
«Dubito che mi crederà.»
«Mi metta alla prova.»
Mahalanobis storna gli occhi per
un momento, come se cercasse di
decidere se dirlo a Hardy equivarrà
a tradire la fiducia dell’amico. Alla
fine dice: «D’accordo. Questo
succedeva a Kumbakonam, prima
che Ramanujan venisse in
Inghilterra. Una notte fece un
sogno. Era in una casa che non
conosceva e sotto una delle
colonne sulla veranda vide un
lontano parente. Il parente era
morto e i suoi erano in lutto. Poi il
sogno finì e lui se ne dimenticò
finché, qualche tempo dopo, ebbe
occasione di far visita a quello
stesso parente, che all’epoca viveva
lontano da Kumbakonam.
Immagini la sua sorpresa quando
scoprì che la casa era la stessa che
aveva visto in sogno; e non solo:
c’era anche un paziente sotto cure
mediche che stava nella casa. Più
tardi vide l’uomo sdraiato su un
materasso sotto la stessa colonna
che aveva visto in sogno. E l’uomo
morì proprio lì».
Hardy solleva le sopracciglia.
«Ma nella visione era il suo parente
che moriva» dice. «Non un
estraneo a casa del suo parente.»
«Sì. Un’incongruenza. Forse una
sorta di… errore di traduzione, o
di comunicazione. Sir Oliver fa
notare che i messaggi ricevuti
durante una seduta spiritica non
sempre possono essere presi alla
lettera.»
«Scommette sul sicuro, eh.»
«Forse. Tuttavia, perché non
studiare questi fenomeni?
Scientificamente, è ovvio. Con
esperimenti controllati.»
«Ma come si fa a studiarli? Quali
strumenti dovremmo impiegare?»
«Le bacchette da rabdomante, la
tavoletta… Gli strumenti ci sono,
per chi vuole usarli.»
Sono arrivati al cancello del
Trinity. Con grande formalità
Mahalanobis si inchina. «Bene, ora
devo lasciarla. Devo tornare al mio
college. Buona giornata, Mr.
Hardy.»
«Buona giornata, Mr.
Mahalanobis.» E si stringono la
mano. “Molto stravagante” pensa
Hardy entrando nella guardiola del
portiere. Se solo Gaye apparisse
proprio adesso, sputando una delle
sue acide e sagge sentenze, e così
facendo aiutasse Hardy a lasciarsi
alle spalle i ragionamenti
farraginosi di Mahalanobis!
Eppure, se Gaye apparisse, sarebbe
un fenomeno psichico. Nel qual
caso Lodge avrebbe ragione.
Hardy si avvicina al banco del
portiere. Questi sta annotando
delle cifre su un libro mastro.
«Buon pomeriggio, signore» dice.
«È stato a trovare Ramanujan?»
«Proprio così.»
«Era ridotto male ieri sera. Spero
stia meglio.»
«Meglio, sì. Mi ha chiesto di
portargli un libro. Posso prendere
la chiave delle sue stanze?»
«Certo, signore.» E il portiere
toglie un mazzo di chiavi enorme
da un gancio sotto il suo bancone.
Con sorprendente rapidità, fa
passare le chiavi prima di staccarne
una e porgerla a Hardy.
«Conosce tutte quelle chiavi a
memoria?» chiede Hardy, notando
per la prima volta una cosa che ha
sempre visto ma senza farci caso.
«Sì, signore.»
«Ma è straordinario.»
Il portiere avvicina un dito alla
testa. «Fa parte del lavoro.»
«Capisco. Bene, la ringrazio.
Gliela riporto più tardi.» Ed esce
nella Great Court, pieno di
meraviglia e irritazione. Niente ha
senso oggi. Salendo le scale del
Bishop’s Hostel, sente di doversi
muovere con circospezione, come
un ladro. Perché poi? Non è un
ladro. Tuttavia, quando apre la
porta di Ramanujan, e i cardini
cigolano rumorosamente, fa una
smorfia. Entrando, accosta la porta
più piano di quando l’ha aperta,
ma questo serve solo a prolungare
il cigolio. Altrettanto lentamente la
chiude finché scatta la serratura.
Fatto. È entrato. Nessuno lo ha
visto, per quello che ne sa.
Si guarda intorno. È la prima
volta che viene nelle stanze di
Ramanujan dopo la famigerata
cena. Quella sera tutto era in
ordine. Oggi la stanza è nel caos.
Un largo indumento viola è gettato
sulla spalliera della poltrona. Le
ciotole in cui presumibilmente
Ramanujan e i suoi amici stavano
mangiando la sera in cui lui ha
avuto il suo attacco sono impilate
accanto al fornello. La scrivania è
ingombra di carte. Confermando la
sua precedente sensazione di
essere un intruso, Hardy le passa in
rassegna: per lo più si tratta di
matematica, relativa al lavoro che
stanno svolgendo sui numeri
composti e i numeri primi. Però c’è
un foglio che lo sorprende e lo
tenta almeno quanto il diario di
Alice. Il titolo è “Teoria della
realtà”. Lo legge due volte.
Teoria della realtà
= l’Assoluto, il Nirguna-Brahman, la
realtà cui non può essere attribuita
alcuna qualità, che non può mai essere
definita o descritta a parole.
(Negazione degli attributi.)
∞ = la totalità di tutti gli attributi
possibili, Saguna-Brahman, ed è
pertanto inesauribile.
× ∞ = l’insieme dei numeri finiti.
Ogni atto della creazione è un prodotto
particolare di e ∞, da cui emerge un
particolare individuo. Pertanto ciascun
individuo può essere simbolizzato dal
particolare numero finito che, nel suo
caso, è il prodotto.
Hardy sbatte gli occhi. La scrittura
è quella di Ramanujan. I tratti
precisi, ordinati sono
inconfondibili. Ricorda il suo
sconcerto, ricevendo la prima
lettera di Ramanujan, quando
s’imbatté nell’equazione 1 + 2 + 3
+ 4 + … = . Dunque quello che
sta leggendo adesso è forse un altro
esempio della particolare
stenografia di Ramanujan? Oppure
le idee che Ramanujan sta
cercando di esprimere sono
filosofiche anziché matematiche?
Quando, ai suoi tempi, McTaggart
teneva le sue conferenze per gli
Apostoli, Hardy sbadigliava e
guardava l’orologio, mentre Moore
non si perdeva una parola. Ancora
oggi Hardy non sa cosa abbia
sentito Moore che a lui è sfuggito.
Quindi forse Moore potrebbe
capire il senso della “teoria della
realtà” di Ramanujan.
Hardy posa il foglio di carta. Sul
bracciolo della poltrona ci sono
due libri aperti. Uno è scritto in
quello che Hardy suppone sia
hindi. L’altro è Raymond di Oliver
Lodge, e Hardy prende
quest’ultimo. Sebbene non abbia
letto il libro, ha letto moltissime
recensioni, comparse su tutti i
giornali all’epoca della
pubblicazione, quindi sa che
racconta di come Lodge, due giorni
prima della morte di suo figlio a
Ypres, avesse avuto una
premonizione dell’evento. Un
messaggio gli era giunto durante
una seduta spiritica. Sembra che il
suo racconto delle successive
comunicazioni con lo spirito di
Raymond abbia dato conforto a
migliaia di genitori in lutto:
ridicolo, aveva pensato Hardy
all’epoca. Ma cosa dice
effettivamente Lodge?
Sfoglia le prime pagine; legge:
Raymond rimase ucciso vicino a Ypres
il 14 settembre 1915, e noi ricevemmo
la notizia tramite un telegramma del
ministero della Guerra il 17 settembre.
Un albero caduto o che sta per cadere
è usato di frequente come simbolo
della morte; forse per
un’interpretazione inesatta di
Ecclesiaste 11,3. Da allora ho posto a
parecchi altri classicisti la domanda
che avevo rivolto a Mrs. Verrall, e tutti
mi hanno rimandato a Orazio,
Carmina II 17, come riferimento
inconfondibile.
Hardy conosce Mrs. Verrall,
naturalmente, anzi la conosceva.
Era la vedova di Verrall, uno degli
Apostoli più anziani che
esercitavano il potere ai tempi della
sua giovinezza, e a sua volta una
classicista. Era morta solo l’estate
precedente. E adesso, tornando
indietro di qualche pagina,
incomincia ad afferrare la sequenza
degli avvenimenti. Auna seduta
spiritica, “Richard Hodgson” (un
fantasma?) lasciò un oscuro
messaggio per Lodge, che questi
poi passò a Mrs. Verrall, la quale lo
interpretò come un riferimento a
un passaggio di Orazio. Lo stesso
Hardy ricorda il passaggio di
Orazio dai suoi giorni al
Winchester: descrive come un
fulmine colpì un albero che poi
cadde, e si sarebbe abbattuto su
Orazio se Fauno, guardiano del
poeta, non lo avesse fermato.
Lodge dunque interpretò questo
messaggio come un segno che
“stava per ricevere un duro colpo,
o era probabile che lo ricevesse,
anche se non sapeva ancora di
quale natura…”.
Qualche giorno dopo suo figlio
morì. L’eponimo Raymond. Hardy
va al frontespizio. È solo perché ne
conosce il destino che Hardy vede
sul viso del giovane una certa
espressione di fatale indifferenza?
Raymond è tutt’altro che attraente,
con una testa a pera e piatti capelli
castani. La prima sezione del libro
è descritta come la sua “parte
normale” e consiste nelle lettere di
Raymond dal fronte e degli ufficiali
con i quali Raymond combatteva.
Poi c’è una “parte supernormale” e
una sezione chiamata “Vita e
morte”. Aprendo una pagina a
caso, Hardy legge:
L’ipotesi di un’esistenza che prosegue
in un’altra dimensione, e di una
possibile comunicazione attraverso un
confine, non è un’ipotesi gratuita
creata per dare conforto e
consolazione, o per un’avversione
verso l’idea dell’estinzione; è
un’ipotesi che è stata gradualmente
imposta all’autore – e a molte altre
persone – dalla ferrea coercizione di
una precisa esperienza, non meno
forte, per lui, dei fondamenti della
teoria atomica in chimica. Le prove
sono cumulative, e hanno divelto alla
radice ogni legittimo e ragionevole
scetticismo.
Bussano alla porta. Hardy sussulta,
lasciando quasi cadere il libro.
«Mr. Hardy» sente chiamare
una voce in corridoio.
È Mahalanobis. Hardy apre la
porta e lo fa entrare. «Mi ha
spaventato» gli dice.
«Mi spiace» dice Mahalanobis.
«Il portiere mi ha detto che l’avrei
trovata qui.»
«Sì, ho pensato di prendere il
libro che voleva Ramanujan.»
«Sono venuto per la stessa
ragione.»
«Suppongo sia questo» dice
Hardy, mostrando la copia di
Raymond. Ma Mahalanobis scuote
la testa.
«Ah, capisco. Allora è l’altro, in
hindi?»
«Quello è il Panchangam, un
almanacco scritto in tamil.»
«Quindi non è nemmeno questo
che vuole?»
«No, signore. Ha chiesto il
Carr.»
«Il Carr?»
«Posso?»
«Naturalmente.»
Con circospezione, Mahalanobis
gli passa accanto ed entra nella
stanza da letto. Torna un momento
dopo con un tomo pesante e
logoro. «A Synopsis of Results in
Pure and Applied Mathematics»
annuncia. «Questo è il primo testo
di matematica che abbia mai
ricevuto Ramanujan. Da ragazzo
soleva leggerlo sulla veranda di sua
madre.»
«Lo so. Ma perché mai dovrebbe
volere il Carr adesso? È obsoleto.
Ormai lo ha superato di molte
lunghezze.»
«Credo sia fonte di conforto per
lui. Ho notato che legge spesso le
equazioni numerate di notte,
quando non riesce a dormire.»
«Conforto, dal Carr?»
«Sì, signore.» Mahalanobis si
sistema il turbante. «Bene, devo
andare adesso. Buona giornata.»
«Buona giornata.»
Poi Mahalanobis se ne va,
altrettanto silenziosamente di come
era venuto, e Hardy si ritrova da
solo tra le poche cose di
Ramanujan; quei pochi segnali di
una vita di cui, si rende conto, sa
molto meno di quanto pensasse.
Alla parete è appeso il ritratto di
Leibniz. Dalla mensola del camino
lo guarda una statuetta con la testa
da elefante. Ha quattro braccia. Ai
suoi piedi siede un topo. Dalla
cucina il familiare tegame di rasam
emana un odore acido. Hardy
esamina il tegame e vede che
l’argentatura all’interno si è
consumata.
Uscendo si porta via Raymond.
Suo malgrado, scopre di essere
incuriosito dal mistero: la seduta
spiritica, il passaggio di Orazio,
fantasmi e visioni. Quante cose
non sa! Per le scale incontra una
donna delle pulizie, armata di
secchio e spazzettone. Chi le
fornisce lo spazzettone? E come ha
fatto il portiere a memorizzare
tutte le chiavi? Eppure il mondo
continua, le serrature scattano
incessantemente, gli spazzettoni
schiaffeggiano incessantemente i
pavimenti. E intanto Hardy, cieco
pressoché a tutto, percorre il suo
stretto, costante sentiero attraverso
il deserto.
È solo quando entra nella
guardiola del portiere che l’idea lo
colpisce. Zero e infinito. Le cose
che non potremo mai conoscere
perché sono inconoscibili e le cose
che non potremo mai conoscere
perché sono troppe. Un’infinità.
Da questo accoppiamento nasce
una vita.
«Ha visto l’indiano che la stava
cercando, signore?» chiede il
portiere.
«Sì, grazie. Ecco la chiave.»
«Molto bene, signore» dice il
portiere, e rimette la chiave nel
mazzo enorme. Quante chiavi ci
sono in quel mazzo? Una di
queste, Hardy lo sa, apre la sua
porta, mentre altre aprono le porte
degli assenti e dei morti.
3

All’inizio dell’estate, Sophia Hardy


muore. A Cranleigh, il vicario
dell’infanzia di Hardy, ormai un
corpulento uomo di mezz’età, fa
una visita a lui e a Gertrude. Dice
che pregherà per la loro madre,
cosa che a Hardy sembra una
provocazione, visto il suo aperto
ateismo e l’indifferenza di
Gertrude verso la religione. «Deve
mancarvi moltissimo» dice il
vicario, esprimendosi come
Norton, al che Hardy vorrebbe
rispondere: “Niente affatto”. La
sua morte è stata noiosa; forse non
per lei; lei aveva il dolore a tenerla
occupata, e un sacco di compagnia,
vivi e morti che sfilavano su e giù
per la sua stanza in rapida
successione. Uomini e donne di cui
loro non avevano mai sentito
parlare, un fratellino morto
affogato ancora in fasce, il padre
(ma raramente). Verso la fine, era
sempre occupatissima. Sembrava
più indaffarata di quanto non fosse
stata per anni. Parlava
costantemente, anche se negli
ultimi giorni non riuscivano a
capire quello che diceva. Fino
all’ultimo, ogni volta che era stata
in punto di morte era tornata
indietro, ma ogni volta era meno
collegata al mondo dei vivi, come
se si fosse lasciata alle spalle un
altro pezzo di sé. E poi, un giovedì
mattina di giugno, era morta sul
serio. Forse perché Hardy, per una
volta, non era tornato in tempo per
darle motivo di resuscitare. Era
rimasto bloccato a Cambridge in
seguito a un misterioso ritardo dei
treni. Quando arrivò a Cranleigh,
sua madre era morta da due ore, la
serie divergente che era la sua
morte – a metà strada, poi a un
quarto, poi a un ottavo – aveva
finalmente compiuto la sua
traversata nell’infinito. Quando
Gertrude glielo disse, la abbracciò,
non nel dolore, ma nella gioia. Se
dio vuole era finita per entrambi.
Naturalmente non dicono
niente di tutto questo al vicario. La
madre era una donna osservante, e
per rispetto nei suoi confronti si
adeguano alle formalità richieste
dai vicari: organizzare il funerale,
dare a quest’uomo, che in realtà
non sa niente della madre, le
informazioni di cui ha bisogno per
pronunciare l’elogio funebre. Dopo
mezz’ora, il vicario annuncia che
deve andar via, e Hardy lo
accompagna alla porta. Sta
cominciando a calare il crepuscolo.
«Non ho dimenticato la
conversazione che abbiamo avuto,
sa» dice il vicario. «Ricorda?
Stavamo camminando nella
nebbia».
«Sì, mi ricordo» dice Hardy, e
non dice che è sorpreso che il
vicario se ne ricordi ancora.
Dopotutto era passato un sacco di
tempo. E il vicario doveva avere al
massimo venticinque anni, mentre
oggi ne ha… cinquantaquattro?
Possibile?
«Allora la giudicai impertinente,
anche se adesso capisco che avrei
dovuto prenderla più sul serio.
Avrei dovuto pregare per la
salvezza della sua anima. Lei è
diventato un miscredente.»
«È vero.»
«Ma un tipo molto particolare di
miscredente. Che cerca sempre di
battere Dio in astuzia. Lasci che le
dia un avvertimento: alla fine
perderà.»
«Chi glielo ha raccontato?»
«Una nave dalla Svezia, il mare
in burrasca…» Il vicario mette una
mano sulla spalla di Hardy, e lui si
ritrae. «Prenda almeno in
considerazione la possibilità della
grazia. Forse Dio voleva che lei
sopravvivesse. E forse lei è davvero
un credente. Altrimenti perché
combatterebbe così
strenuamente?»
«Come fa a sapere tutte queste
cose?»
«Cambiando argomento, ho
saputo che il suo studente indiano
non sta bene. Mi dispiace.»
«La ringrazio.»
«Per favore, gli dica che è
presente nelle mie preghiere.»
«Perché? Non è della sua
religione.»
«La preghiera può trascendere le
particolarità della fede. Può
aiutarlo sapere che altri pensano a
lui.»
«Non sono sicuro di essere
d’accordo. Nella mia esperienza,
quando la gente prega per i
moribondi, questi muoiono prima,
vuoi perché credono che la
preghiera funzionerà e smettono di
prendersi cura di sé, vuoi perché
sapere che tanta gente sta
costantemente pregando per loro li
fa sentire in obbligo di migliorare,
e la pressione li uccide.»
«Teoria interessante. In questo
caso è meglio che non dica niente
al suo studente, anche se
naturalmente io pregherò per lui in
ogni caso. Bene, la saluto, Mr.
Hardy.» E il vicario gli porge la
mano. Hardy la stringe: dita
flaccide gli scivolano sul palmo. Poi
il vicario si allontana, lasciando
Hardy a chiedersi, ancora una
volta, chi gli abbia raccontato
quello che è successo a Esbjerg.
Che sia stata Gertrude? Sembra
improbabile. Sua madre allora? Ma
aveva mandato una cartolina a sua
madre? Non riesce a ricordarlo.
Rientra in casa. Gertrude sta
aprendo le tende, facendo entrare
la pallida luce in una stanza che è
stata buia per settimane. Hardy va
da lei, e finalmente si
abbandonano a un’euforia che
stava montando da ore. Chiamano
Maisie e insieme, con euforico
abbandono, spostano dal salotto il
letto in cui Mrs. Hardy è morta,
restituendo i mobili al loro assetto
originario. Luce, luce! Gertrude
passa la scopa, spazzando via la
polvere che era stata la pelle di sua
madre, mentre Maisie strofina il
pavimento. Dopodiché non sanno
bene che fare, per cui si lanciano in
una partita a scacchi. Hardy, con
sua sorpresa, perde. La cosa
sembra far felice sua sorella, che,
ancora una volta, scoppia a ridere.
Infine, esaurite le risate, vanno a
letto, anche se è ancora presto,
anche se fuori non è ancora buio.
Il mattino dopo fanno una
passeggiata nel villaggio. Uomini e
donne che riconoscono a malapena
– negozianti, ex studenti del padre,
ormai uomini di mezz’età – li
salutano e fanno loro le
condoglianze. Quando tornano a
casa, Gertrude è agitata. «È solo
questione di tempo» dice,
togliendosi i guanti. «Vedrai che
l’impresario delle pompe funebri ci
telefonerà per dirci che nostra
madre si è svegliata e ha proposto
una partita a Vint.» Ride di nuovo,
e questa volta la sua risata è
stridula, lievemente folle.
«Mi sembra improbabile» dice
Hardy. «Anche se con nostra
madre non si può mai dire.»
«Come si chiama, il posto dove
un impresario delle pompe funebri
fa… insomma quello che deve
fare?»
«Non ne ho idea. Negozio?
Studio?»
«Salon?»
«Come un parrucchiere
francese.» All’improvviso anche
Hardy sta ridendo; ridono
entrambi come bambini, una risata
contagiosa, finché sono
letteralmente piegati in due, con le
lacrime agli occhi.
Due giorni dopo il vicario
celebra il funerale. Riescono ad
arrivare in fondo alla funzione
senza un sorriso, anche se Hardy
sta per cedere quando, durante il
suo elogio funebre, il vicario si
riferisce a sua madre come a “una
giocatrice di carte fuori dal
comune”. Dopo c’è un
ricevimento, figure spettrali, poche
delle quali riconoscibili, si aggirano
per il salotto tenendo in mano
tazze da tè, mentre Maisie serve
sandwich che nessuno osa
mangiare. Chissà perché, si chiede
Hardy, mangiare dopo un funerale
è considerata una mancanza di
rispetto verso i morti? Mentre beve
il tè, guarda il vicario sbirciare i
sandwich, osserva la battaglia
spirituale che infuria nella sua
anima, tra desiderio e dovere,
l’attrazione esercitata dai sandwich
demoniaci e la volontà di resistere.
E alla fine vince la resistenza.
«Deve essere così fiero di sé» dice
Hardy a Gertrude dopo che
l’ultimo ospite se n’è andato e loro
si stanno rimpinzando di panini.
«Sono sicuro che proprio in questo
momento si sta preparando dei
panini al rettorato. Panini enormi.
Come quelli che mangiano gli
americani.» Gertrude ride con
tanta foga che per poco non si
strozza.
Quanta ilarità! Andando a letto
quella sera, Hardy è sconcertato:
non avrebbe mai immaginato che
la morte potesse essere una tale
farsa. E quale piega comica porterà
il giorno seguente? Il giorno dopo
hanno un appuntamento con
l’avvocato della madre, l’anziano
Mr. Fanning, che sembra uscito da
un altro secolo, catapultato in
avanti dalla macchina del tempo di
Wells, completo di penne e
pennini e libri mastri scritti a
mano. Naturalmente questa è una
faccenda molto più seria. La verità
è che nessuno dei due sa quanto
denaro avesse la madre. E dato
che, con ogni probabilità, Hardy
non scriverà mai il suo trattato sul
Vint, o il suo libro giallo, un po’ di
soldi gli farebbero comodo. E
anche a Gertrude. Come previsto,
la casa e il patrimonio dovranno
essere divisi equamente tra i figli
della defunta, Godfrey Harold e
Gertrude Edith. Quanto al suo
valore… Qui Mr. Fanning fa una
pausa; mette giù il testamento.
«Sfortunatamente» dice, «sembra
che negli ultimi anni vostra madre
abbia lasciato che si
accumulassero… certi debiti.»
«Che tipo di debiti?» chiede
Hardy.
«Per lo più sono debiti di natura
ordinaria, denaro dovuto ai
negozianti per il carbone e la
consegna del latte. E naturalmente
il conto del dottore. Ma ci sono
altri debiti – debiti più vecchi – che
sembra aver ereditato da vostro
padre. Aveva chiesto del denaro in
prestito, molti anni fa, e con gli
interessi la somma dovuta adesso
è… considerevole.»
«Ma non ce ne ha mai parlato!»
«Ho il sospetto che sperasse che
gli avvisi di pagamento, una volta
chiusi in un cassetto, sarebbero,
per così dire, scomparsi. Succede
spesso con le persone anziane.»
«A quanto ammonta il debito?»
chiede Gertrude.
«La somma non è tale per cui il
patrimonio non possa estinguere il
debito. Ma resterà ben poco.»
«Questo include la casa?»
«No, la casa è al sicuro.»
«Grazie a Dio!» dice Gertrude.
«Grazie al cielo, almeno per
questo.»
Rientrati a casa, per una volta,
non ridono. «Mi chiedo come mai
papà avesse chiesto del denaro in
prestito» dice Hardy. «Credi avesse
un’amante? O giocasse d’azzardo?»
«Papà? Non essere ridicolo.»
«Non si sa mai. Giù, per
piacere.» È di nuovo il terrier, che
zampetta contro le ginocchia di
Hardy mentre lui si toglie il
cappello. «Be’, se non altro quando
venderemo la casa realizzeremo
qualcosa.»
«Vendere la casa? Ma cosa vai
dicendo?» Gertrude si stringe il
cane al petto.
«Be’, credevo volessi trasferirti a
Londra.»
«Forse, sì. Ma anche se lo
facessi… non accetterò di vendere
questa casa. È qui che siamo
cresciuti, Harold. Dobbiamo
tenerla in famiglia.»
«Non mi sembra probabile che
tu o io avremo dei figli.»
«Non si può mai dire.»
«Cosa stai insinuando? Che
potrei sposarmi?»
«E tu stai insinuando che io non
lo farò mai?»
All’improvviso si mette a
piangere. Hardy è sconcertato.
«Gertrude» dice, ma lei si rifiuta di
guardarlo. Ha sepolto il viso nella
pelliccia del cane, il povero cane,
ormai immobile tra le sue braccia,
che al pari di Hardy è del tutto
impreparato alle sue smancerie.
«Gertrude, perché piangi?»
«Non è ovvio? Nostra madre è
appena morta.»
«Ma ieri eri contenta.»
«Non che fosse morta. Che fosse
finita. Non è la stessa cosa. Vuoi
davvero dire che non vedi la
differenza?»
Hardy non dice nulla. Gertrude
mette giù il cane. «Sono sicura che
lo provi anche tu» dice.
«Cosa?»
«Dolore.»
Ma la verità è che non prova
alcun dolore. Né riesce a capire il
cambiamento della sorella.
Dopotutto, non era stata proprio
lei a dire, solo qualche giorno
prima, che era solo l’onere di
doversi occupare della madre che
la tratteneva a Cranleigh? E adesso
che quel fardello è stato sollevato,
non vuole alzare un dito per
sfuggire alla sua prigione. Invece va
a letto. Si toglie l’occhio di vetro e
si infila, come ha fatto per tutta la
vita, nello stretto lettino della sua
infanzia.
Adesso il suo atteggiamento
verso di lui cambia. Per la prima
volta nella loro vita, sembra
considerarlo un avversario.
Sebbene non ne parlino, la casa, e
le loro idee assai diverse su quello
che dovrebbero farne, diventa una
barriera. L’appartamento di
Pimlico è vuoto; Alice Neville si è
trasferita, con il marito, a
Bayswater. Eppure Gertrude,
nonostante la rimozione di
quest’ultimo ostacolo, non vuole
andare a Londra nemmeno per il
weekend. «Ho paura delle
incursioni aeree» dice; mentre
Hardy non è minimamente
spaventato dalle incursioni aeree.
Al contrario, vagheggia la
possibilità di essere sorpreso da un
raid, di vedere gli Zeppelin passare
in cielo come grandi balene
aviotrasportate. Eppure sa
benissimo che se dovesse trovarsi
davvero nel bel mezzo di un
bombardamento non lo
prenderebbe così tanto alla leggera.
Tuttavia… come spiegare questo
desiderio segreto che nutre per
l’apocalisse? Anche altri lo
condividono, sospetta. La
catastrofe potrebbe riscuoterli tutti
dalla loro apatia. Talvolta, a notte
inoltrata, dalla finestra
dell’appartamento di Pimlico
guarda il cielo nero, nella speranza
di vedere un’improvvisa luce
abbagliante, di udire un rombo
lontano. Ma non gli succede mai.
Sembra che il cielo si tinga di
arancio, che le sirene gemano solo
quando lui è a Cambridge o a
Cranleigh. Ogni giorno i giornali
pubblicano liste di morti, ogni
giorno le scorre, in cerca di nomi
familiari. Se ce ne sono sempre
meno, è solo perché molti degli
uomini che conosceva sono già
morti. Non c’è una riserva infinita
di giovani. E sebbene non veda mai
il nome di Thayer, questo non
significa che Thayer non sia morto.
Frattanto aspetta un messaggio,
che non arriva mai.
Per ragioni che non riesce a
capire completamente, incomincia
a trascorrere più tempo a Cranleigh
di quanto non fosse solito fare
prima che sua madre morisse.
Gertrude si finge indifferente, non
tanto alla sua presenza, quanto ai
suoi sforzi per riconquistare la sua
simpatia. Un pomeriggio, mentre
stanno pranzando all’aperto, nel
giardino sul retro della casa, Hardy
prova persino a fare amicizia col
suo cane. Gertrude sembra non
notarlo neppure. «Qui Daisy»
grida, e le tira una vecchia palla da
tennis sul prato. Ma Daisy,
sebbene la rincorra e la recuperi,
non gli restituisce mai la palla;
corre da lui ma, quando Hardy
cerca di toglierle la palla di bocca,
scappa via; corre di nuovo da lui e
scappa via, in continuazione.
«È ridicolo» dice Hardy, dopo
qualche minuto. «Dovrebbe
piacerti rincorrere la palla.»
«È un terrier, non un cane da
riporto» dice Gertrude.
«Probabilmente tra un minuto
cercherà di seppellirla.»
«Allora perché mi sto
scomodando?»
«Non te lo ha chiesto nessuno.»
Sua sorella sorride al di sopra del
suo lavoro a maglia, uno strano
frammento di pullover che pende
dai suoi ferri, i bordi frastagliati
che sfiorano i resti del pranzo nel
suo piatto. «Dovresti prenderti un
altro gatto, sai?»
«Un giorno o l’altro lo farò,
immagino. Qui, Daisy!» E si alza
per rincorrere Daisy, che, pazza di
gioia, lascia cadere la palla; poi la
pungola col naso; aspetta che lui si
pieghi per raccoglierla e allora
l’addenta di nuovo e scappa via.
«Accidenti a te!» grida Hardy
esasperato, perché ha capito che
quel cane vuole solo tormentarlo.
E, neanche a farlo apposta,
continua a portarlo nel punto in
cui, trentacinque anni prima,
agitando una mazza da cricket,
aveva udito uno schianto e
indietreggiando aveva visto sua
sorella distesa a terra, con la gonna
sollevata sopra le mutande. Sempre
lo stesso punto. L’erba era rimasta
rossa per settimane, finché,
all’arrivo della primavera, il
giardiniere l’aveva tagliata ed era
ridiventata verde.
L’ironia è che Gertrude non
ricorda niente. Ma lui sì.
All’improvviso, una farfalla
distrae l’attenzione di Daisy. È il
suo momento. «Ti ho preso!»
grida, placcando il cane che si
divincola dalla sua stretta, riesce a
liberarsi e scappa via, facendolo
stramazzare sul prato. Gertrude
ride.
Hardy si rialza; si riassetta i
pantaloni. «Ridicola bestia» dice a
Daisy, che gli siede di fronte,
scodinzolando, la palla stretta tra i
denti.
4

Un mese dopo il suo ricovero,


Ramanujan è ancora nella clinica
in Thompson’s Lane. Hardy va a
trovarlo più sovente che può. Si
porta del lavoro quando va a fargli
visita: fogli per gli appunti, penne,
annotazioni su quello che hanno
già fatto. Sfortunatamente
Ramanujan è abulico e il suo
contributo è praticamente nullo.
Sembra che nessuno sappia di
preciso cos’è che non va, se non
che il suo mal di pancia è
persistente. Adesso lo descrive
come un dolore sordo, e per Hardy
sordo è la parola esatta per
definirlo, soprattutto dopo tante
settimane passate ad ascoltare il
dottor Wingate far congetture sulla
sua origine. L’ulcera gastrica poteva
essere la causa solo finché
perdurava lo stato di “piressia
intermittente”. “Piressia”, come
Hardy non tardò ad apprendere,
significava semplicemente “febbre”.
Com’erano insopportabili i medici,
col loro linguaggio specialistico e la
loro pomposità! Ciò nondimeno, e
con suo grande fastidio, si ritrova
ben presto a usare lo stesso
linguaggio. Quando arriva a
trovarlo, nel pomeriggio, chiede
alla caposala un rapporto sulla
piressia di Ramanujan. «È scesa di
un grado» dice. Oppure: «Salita di
un grado alle tre esatte». La febbre,
in altre parole, è capricciosa, va e
viene a suo piacimento, finché in
luglio – per ragioni che nessuno
sembra in grado di determinare –
si fissa in una precisa routine.
Adesso non c’è piressia durante il
giorno. Ma alle dieci di sera la sua
temperatura s’impenna.
Ramanujan trema e suda tanto che
devono cambiargli le lenzuola, e
mentre le cambiano, dice la
caposala a Hardy, lui borbotta in
modo misterioso, spaventando le
infermiere. «Probabilmente sta solo
parlando in tamil» dice Hardy. «La
sua madrelingua.»
«Ame non sembra una lingua»
dice la caposala. «Sembra il
diavolo.»
Per forza Ramanujan è stanco
durante il giorno! Le notti sono un
incubo per lui. Un pomeriggio,
visitandolo, il dottor Wingate dice:
«Potrebbe trattarsi di tubercolosi».
Sembra stia facendo una previsione
del tempo.
«Ma la tubercolosi non colpisce i
polmoni?»
«Di solito sì.»
«E lui ha avuto dei disturbi ai
polmoni?»
«I suoi polmoni sono sgombri,
per ora. Tuttavia, gli indiani in
Inghilterra contraggono sempre la
tubercolosi. Il cambiamento di
dieta» soggiunge, agitando le dita.
«Per non parlare del clima freddo.
Dobbiamo tenerlo sotto stretta
osservazione. Gli altri sintomi
dovrebbero cominciare a
manifestarsi molto presto.»
Dopo che il dottor Wingate se
n’è andato, Hardy torna al
capezzale di Ramanujan. Spera che
riuscirà a leggere sul viso
dell’amico come ha reagito alla
notizia. Sarà sollevato per il fatto
che, se non altro, si sia arrivati a
una diagnosi? Per lo meno la
tubercolosi può essere curata e, in
alcuni casi, guarita persino. Ci sono
i sanatori per questo. Tuttavia, se
Ramanujan sia sollevato, o
terrorizzato, o addolorato, Hardy
non riesce a indovinarlo, perché il
suo viso rimane impassibile. La
tubercolosi! In One Tuscan
Summer (Hardy a questo punto lo
ha letto, di nascosto) un altro
giovane genio, un pianista, contrae
la tubercolosi. La malattia è
circondata da un alone di
romanticismo. Forse Ramanujan
sta riflettendo sulla totale idiozia
del ragionamento arretrato del
dottore: poiché molti indiani
contraggono la tubercolosi, deve
trattarsi di tubercolosi. Il fatto che
lui non mostri alcun sintomo della
malattia non ha importanza. Ora si
tratta solo di mettersi tutti seduti
ad aspettare che incominci a tossire
e sputare sangue.
Ma il fatto è che non succede
niente di simile. L’estate è quasi
alla fine e i polmoni di Ramanujan
continuano a essere sgombri. E
questa inadempienza dei suoi
polmoni nel fare ciò che
dovrebbero sembra disorientare
tanto il dottor Wingate che lo
stesso Hardy. Se disorienti anche
Ramanujan rimane incerto. Il più
delle volte, quando Hardy lo va a
trovare, lui giace nel letto senza
forze, e guarda il fiume. Continua
a mostrare scarso interesse per la
matematica, e di conseguenza il
lavoro sulle partizioni e sulle
proprietà dei numeri composti si
inceppa. Anche quando Hardy gli
dice che ha letto Raymond e gli
chiede il suo parere sulla seduta
spiritica, Ramanujan risponde con
un vago borbottio.
Hardy arriva al punto di
chiedersi se valga la pena di
continuare a fargli visita. «A cosa
serve?» chiede a Mahalanobis, che
lo guarda con un’espressione
addolorata.
«Ma Mr. Hardy» dice
Mahalanobis, «ogni giorno, prima
del suo arrivo, Ramanujan chiede
se lei verrà. Aspetta le sue visite
con ansia, più di qualunque altra
cosa.»
È mai possibile? Sembra
alquanto improbabile. Eppure
Hardy prende in parola
Mahalanobis, e continua a fargli
visita. Talvolta, quando arriva, c’è
un altro paziente nel letto accanto
a quello di Ramanujan, di solito un
vecchio docente con disturbi ai
polmoni o uno studente
universitario rimandato dal fronte
con un’infezione. Invariabilmente
questi compagni se ne vanno nel
giro di pochi giorni. Ramanujan,
da quel che riesce a capire, non
scambia mai nemmeno una parola
con nessuno di loro. Né, a quanto
pare, loro si presentano a
Ramanujan. La situazione fa venire
in mente a Hardy una barzelletta
che aveva sentito una volta, su due
inglesi bloccati su un’isola deserta
per trent’anni. Alla fine una nave li
trae in salvo, e il capitano rimane
sconcertato nell’apprendere che
non si sono mai scambiati una
parola. Chiede perché, e uno degli
uomini dice: “Non siamo stati
presentati”.
Però, se l’uomo nel letto accanto
conosce Hardy, con lui parla. Di
solito parlano di guerra. A questo
punto è arrivata in Inghilterra la
notizia dell’esplosione sotto il
Messines Ridge. Per più di un
anno i minatori britannici hanno
scavato gallerie sotto le linee
tedesche, minando il terreno con
cataste di dinamite che sono state
fatte detonare tutte insieme, lo
stesso giorno. Le mine hanno fatto
saltare la cima del crinale.
L’esplosione si è sentita fino a
Dublino. Lloyd George affermava
di averla sentita in Downing Street.
È il punto di svolta: Hardy ne è
certo. Finalmente, dopo aver
condotto per mesi i suoi uomini al
macello, l’Inghilterra ha fatto una
cosa intelligente. Plumer ha colto i
tedeschi di sorpresa; ha minato,
letteralmente, la loro sicumera, le
trincee nelle quali, se si deve
credere alle dicerie, i loro ufficiali
dormivano in comodi letti,
mangiavano la loro carne in piatti
di porcellana, e bevevano la loro
schnapp in bicchieri di cristallo su
tavole apparecchiate con le
tovaglie, in bunker illuminati dalla
luce elettrica. Tutto questo è finito.
Un duro risveglio: la frase
riecheggia nel cervello di Hardy,
perché la battaglia di Messines è
stata un risveglio anche per lui.
All’improvviso si rende conto di
quanto si sia assuefatto a vivere in
uno stato di guerra cronica. Fuori,
nel mondo, Russell si batte
strenuamente; i minatori scavano
gallerie; e anche loro a Cambridge
stanno scavando gallerie, con
l’intento di far saltare certe
fondamenta, e precisamente quelle
su cui i membri del consiglio del
Trinity appoggiano i loro gran
deretani. Eppure com’è modesta la
loro ambizione! Punta solo a
reintegrare un filosofo che è
decisamente ambivalente rispetto
all’essere reintegrato e, anche in
questo caso, solo una volta che sarà
finita la guerra. Ma quando sarà? E
cosa sta facendo Hardy per far
giungere quel giorno? Niente.
Un pomeriggio va a far visita a
Ramanujan e trova Henry Jackson
nel secondo letto. È da tempo che
non parla con Jackson, fin dalla
riunione in cui disse che sperava
che la guerra continuasse anche
dopo la sua morte. Adesso giace
nel letto accanto a quello di
Ramanujan con il piede sinistro
fasciato fuori dalle coperte, le
pesanti palpebre rugose abbassate
sugli occhi, e Hardy pensa: “Il tuo
desiderio si sta avverando. A
giudicare dal tuo aspetto, la guerra
durerà più a lungo di te”.
Sperando di non svegliare
Jackson, si siede, com’è sua
abitudine, al capezzale di
Ramanujan. Gli chiede come si
sente, e la sua voce è sufficiente a
svegliare il vecchio sonnacchioso; le
palpebre pesanti sbattono e si
aprono rivelando le fessure
arrossate dei suoi occhi. «Hardy»
dice, «che ci fai tu qui?»
«Sono venuto a trovare Mr.
Ramanujan» dice Hardy.
«Ah, il calcolatore indù» dice
Jackson, come se Ramanujan non
ci fosse nemmeno. Poi soggiunge:
«Io sono qui per la mia gotta. È
una brutta bestia, questa gotta.
Sono vecchio, Hardy. Ho
settantacinque anni. Sono quasi
sordo, e soffro di reumatismi, oltre
che di gotta. La mia vita non è
altro che dolore». Senza un’ombra
di imbarazzo, passa aria. «E c’è la
guerra. C’è sempre la guerra.»
«Mi spiace che tu non stia
bene.»
«Cosa?» Jackson si mette la
mano a coppa intorno all’orecchio.
«Sai, mi rallegra immensamente
vedere le truppe che si addestrano
in Nevile’s Court.»
«Sai come la penso al riguardo,
Jackson.»
«Cosa?»
«Conosci la mia posizione.»
«Quanti morti! Amici, studenti.
Non è rimasto quasi più nessuno
qui a Cambridge. Stiamo girando
tutti a vuoto.»
Jackson ha ragione. La stasi –
una stasi infelice – è la condizione
delle loro vite. Le esplosioni sotto il
Messines Ridge hanno smosso le
cose per un po’, ma solo per un po’.
«Temo tu abbia ragione» dice
Hardy. Ma Jackson si è
addormentato.
In seguito, la guerra torna al suo
immobilismo esitante,
insopportabile. Ancora una volta
azioni offensive mal pianificate
falliscono, i nomi dei morti sono
pubblicati sui giornali, i soldati
traumatizzati sono portati a casa
balbettanti, “curati” e rispediti al
fronte. A intermittenza si sente
parlare di armistizio; la speranza
balugina all’orizzonte, poi si
allontana. Hardy non tarda a
capire che deve accogliere ogni
accenno a un armistizio con lo
stesso scetticismo con cui lui e
Gertrude accoglievano le
assicurazioni del medico della
madre che la sua morte era
imminente. Non prendere niente
per certo. Aspettarsi il peggio.
E Ramanujan? Lui vive in una
stasi tutta sua, mentre le sue
condizioni non peggiorano né
migliorano. Vengono consultati gli
esperti. Uno stuolo di medici lo
tasta e lo pungola. Il dolore sordo,
osservano, adesso è costante.
Mangiare e bere non lo peggiora
né lo migliora. Non è tipico della
tubercolosi. Di cosa soffre dunque?
Di un misterioso germe orientale,
suggerisce un medico, ma non
riesce ad andare oltre. Specialisti
visitano Ramanujan, alzano le
braccia in segno di resa e
raccomandano altri specialisti, che
a loro volta alzano le braccia e
raccomandano altri specialisti
ancora, finché tutti convengono
che Ramanujan deve andare a
Londra a vedere Batty Shaw. Sì,
Batty Shaw è l’uomo giusto. Uno
specialista dei polmoni. Lui saprà
cosa fare.
5

Lo aiutano a vestirsi, Hardy e


Chatterjee. Dopo tante settimane a
letto, Ramanujan è incerto sulle
gambe. I pantaloni gli pendono
addosso, anche con la cintura
stretta al massimo, prova evidente
di quanto sia dimagrito. «Devi
mangiare di più» dice Hardy ogni
volta che lo va a trovare. Ma
Ramanujan non mangia. Anche
quando Mahalanobis fornisce alla
cuoca le ricette di piatti di suo
gradimento, Ramanujan dice che li
prepara nel modo sbagliato. E non
si fida che non frigga le patate nel
lardo.
Prendono un taxi per la
stazione, il treno per Liverpool
Street, un altro taxi per
l’ambulatorio di Batty Shaw, che si
trova a Kensington. Durante la
visita Hardy e Chatterjee siedono
nella sala d’attesa. Chatterjee legge
l’“Indian Magazine”, le forti gambe
da giocatore di cricket che fremono
e si agitano nelle loro pieghe di
morbida flanella. Quanto a Hardy,
non ha portato libri. Si sente
troppo stanco per leggere. Nelle
ultime settimane non ha dormito
bene. Appena si mette a letto, una
serie di immagini gli balena
davanti agli occhi: Jackson che si
mette la mano a coppa intorno
all’orecchio, il vicario che mangia
un panino, una cassetta delle
lettere sul molo di Esbjerg. Solo
durante il giorno scopre di riuscire
a dormire in pace, ma solo in
momenti come questo, quando un
sonno prolungato è impossibile.
Infatti, non appena sente che gli si
stanno chiudendo gli occhi, ecco
che l’infermiera di Batty Shaw li sta
chiamando. Chatterjee posa la
rivista; l’infermiera li guida lungo
un corridoio in uno studio pieno di
libri, diagrammi, mappe, vecchi
dipinti scuri. Su una mensola,
Hardy nota il modellino in scala di
un polmone. Poco più in là,
qualcosa di torbido galleggia nella
formaldeide. Tre seggiole sono
disposte di fronte a un’enorme
scrivania di quercia dietro la quale
un uomo sulla sessantina con la
testa piatta e la fronte alta, lucida e
solcata di rughe, sta leggendo un
testo medico. Ramanujan è seduto
su una delle seggiole, e si guarda le
mani, strette sulle ginocchia.
Si mettono a sedere e Batty
Shaw alza gli occhi; sul suo naso
sono appollaiati gli occhiali più
piccoli che Hardy abbia mai visto.
Si alza, porge loro la sua mano
asciutta e immensa da stringere e si
rimette a sedere. «Ho visitato a
fondo Mr. Ramanujan» dice. «Il
dottor Wingate – mi correggano se
sbaglio – segnala piressia notturna,
un costante dolore addominale
senza legami apparenti con la
digestione, perdita di peso, e una
conta dei globuli bianchi più bassa
del normale, anzi, eccessivamente
bassa.»
«Non sapevo che gli avessero
fatto il conteggio dei globuli del
sangue.»
«È una procedura standard»
dice Batty Shaw. «Un ulteriore
esame da parte mia ha rilevato un
ingrossamento del fegato, che è
molle al tatto. Ho anche osservato
una cicatrice frastagliata di circa
quattro centimetri di lunghezza
sullo scroto di Mr. Ramanujan.»
Chatterjee tossicchia.
«Quando ho chiesto a Mr.
Ramanujan di questa cicatrice, mi
ha detto che in India, prima della
sua partenza per l’Inghilterra, ha
subito un intervento chirurgico per
un idrocele. Un rigonfiamento dei
testicoli. È corretto, Mr.
Ramanujan?»
Ramanujan ciondola il capo.
«Eppure, per quanto sembri
incredibile, nessuno dei medici che
lo hanno visitato ha preso nota
della cicatrice, né Mr. Ramanujan
li ha informati di aver subito il
suddetto intervento.»
«Non lo consideravo pertinente»
dice Ramanujan.
«Pertanto» dice Batty Shaw, «la
mia ipotesi è che l’operazione non
fosse per il trattamento di un
idrocele, bensì per la rimozione di
una crescita maligna nel testicolo
destro di Mr. Ramanujan. Per
qualche motivo, il medico ha scelto
di non informare Mr. Ramanujan
di quanto aveva scoperto. In
seguito il tumore maligno si è
diffuso e adesso la mia teoria è che
Mr. Ramanujan soffra di un cancro
da metastasi al fegato.»
«Cancro?»
«Spiegherebbe tutti i sintomi, ma
soprattutto l’ingrossamento e la
consistenza molle del fegato.»
Hardy guarda Ramanujan. La
sua faccia, come sempre di questi
tempi, è priva di espressione. Ma
che razza di bruti possono essere
questi dottori! Annunciano le
notizie più spaventose senza
un’ombra di compassione, come se
il paziente non fosse neppure nella
stanza.
«La diagnosi giustificherebbe
anche la febbre notturna e la conta
insufficiente dei globuli bianchi»
dice Batty Shaw.
«Ma è sicuro che sia cancro?
Come fa a esserne certo?»
Batty Shaw si toglie i minuscoli
occhiali. «Niente è definitivo» dice.
«Anche se, nei miei molti anni di
esperienza, devo dire che quando i
sintomi corrispondono a una
diagnosi, la diagnosi è corretta.»
«Quindi non c’è modo di
stabilirlo con certezza? Non esiste
un esame che possa confermarlo?»
«Il tempo sarà l’esame.» Shaw si
rimette gli occhiali. «Se, come
suppongo, Mr. Ramanujan ha un
cancro al fegato, nel giro di poche
settimane le sue condizioni
cominceranno a deteriorarsi
notevolmente.»
«C’è una terapia?»
«Né terapia né speranza di
guarigione. Vivrà sei mesi al
massimo.» Come per un
ripensamento, soggiunge: «Mi
dispiace molto». La cosa curiosa è
che lo dice a Hardy, non a
Ramanujan. Non guarda neppure
Ramanujan.
Si alzano per andarsene. Batty
Shaw li segue attraverso la porta
che dà sul corridoio, Chatterjee
con il braccio intorno alle spalle di
Ramanujan. Cosa starà pensando
Chatterjee? È ammutolito dal
dolore? O è furibondo, al pari di
Hardy, non solo per l’arroganza,
ma per la sciatta approssimazione
dei medici? “Quando i sintomi
corrispondono alla diagnosi, la
diagnosi è corretta…” Anessuno
studente di matematica sarebbe
consentito di cavarsela con una
logica così fallace! Hardy pensa che
i medici dovrebbero esser tenuti a
dimostrare le loro diagnosi, come i
matematici debbono dimostrare i
loro teoremi. Reductio ad
absurdum. Postuliamo che
Ramanujan abbia il cancro al
fegato. Pertanto…
«Signore.»
Hardy si gira. Batty Shaw gli sta
facendo segno di avvicinarsi.
«Mi chiedo se sia possibile
scambiare due parole con lei in
privato.»
«Certamente.»
Batty Shaw chiude la porta della
sala d’aspetto, attraverso la quale
sono già passati i due indiani.
«Spero non le dispiaccia se lo
chiedo» dice a bassa voce, «ma mi
stavo domandando del conto…»
«A che proposito?»
«A chi devo addebitarlo?»
«A Mr. Ramanujan,
naturalmente.»
Batty Shaw solleva le
sopracciglia. «Ma può permettersi
la spesa?»
«Tutti i suoi conti medici
vengono pagati con la sua
scholarship. Il Trinity lo può
garantire.»
«Capisco.» All’improvviso Batty
Shaw sembra colpito. «Non mi ha
detto niente di sé. Chi è
precisamente?»
«È il più grande matematico
degli ultimi cento anni. Forse degli
ultimi cinquecento.»
«Veramente» dice Batty Shaw.
«Veramente» dice Hardy. E
senza aggiungere una sola parola,
apre la porta ed esce nella sala
d’attesa.
6

Ciò che non sa chi non lo abbia


sperimentato di prima mano,
Hardy lo sta imparando in fretta.
La malattia è noiosa. Per ogni
breve episodio di dolore o
disperazione, ci sono ore di inerzia
da sopportare, durante le quali la
paura tace. Sebbene la paura sia
sempre presente nella stanza di un
invalido, non sempre si riesce a
udirla. Ma la si percepisce. È come
un ronzio, o un tremito nelle vene.
In seguito alla diagnosi di Batty
Shaw, non c’è niente che Hardy o
gli altri amici di Ramanujan
possano fare, se non prepararsi al
peggio. Ogni giorno aspettano che
si manifestino i segni del
deterioramento, e ogni giorno
Ramanujan rimane esattamente lo
stesso. Il suo peso si stabilizza, le
febbri notturne si attengono al loro
programma, il dolore non si
intensifica né diminuisce. Durante
il giorno è lucido, anche se
letargico. Poi di notte arriva la
febbre e lui delira. Vede fantasmi,
sente voci che gridano. Certe notti
vede il proprio addome galleggiare
in aria sopra il suo letto. «Come
uno Zeppelin?» chiede Hardy, e lui
scuote la testa.
«No, direi che assume più la
forma di… una specie di appendice
matematica, corredata di punte che
sono arrivato a considerare, o mi è
stato detto di considerare, come
“singolarità”. E ciò che definisce
queste singolarità sono precisi,
quand’anche misteriosi, picchi
matematici. Per esempio, quando il
dolore è al massimo, so che c’è un
picco a × = 1. Allora devo faticare
per abbassare il dolore, e quando è
metà della precedente intensità, so
che c’è un picco a × = -1. Fatico
per tutta la notte, cercando di star
dietro ai picchi e alleviare il dolore
manipolando le singolarità, e così
quando arriva la mattina, e la
febbre scende, sono esausto.»
«Sembra l’ipotesi di Riemann»
dice Hardy. «La funzione zeta che
s’innalza all’infinito a 1.»
«Sì» dice Ramanujan. «Sì,
potrebbe trattarsi di questo.»
«Forse» suggerisce Hardy, «potresti
trovare la dimostrazione durante
una delle tue allucinazioni.»
«Forse» risponde Ramanujan.
Ma la sua voce è distante, delusa, e
lui si gira a guardare fuori dalla
finestra: a quanto pare, per il
momento è stanco di parlare.
Lo riportano da Batty Shaw. Di
nuovo viene visitato, di nuovo
Hardy (questa volta accompagnato
da Mahalanobis) viene condotto
dall’infermiera nello studio con
quella cosa che galleggia nella
formaldeide e il modellino di
polmone. «Bene, avete ragione»
dice Batty Shaw, pulendo i suoi
occhialini. «Sembra non ci siano
cambiamenti nelle sue condizioni.»
«Questo altera la sua diagnosi?»
«Forse. Potrebbe essere ancora
presto per dirlo. Il cancro non è la
mia specialità. Dovremo prendere
un appuntamento per una visita
con il dottor Lees, lo specialista di
cancro.»
E così, a tempo debito,
Ramanujan viene portato dal
dottor Lees, lo specialista di cancro.
Aquesto punto sembra che le sue
condizioni siano un po’ migliorate;
vale a dire che riesce a sopportare il
viaggio in treno meglio della prima
volta, e sembra persino contento di
essere a Londra. Sfortunatamente,
il dottor Lees si dimostra ancor
meno utile di Batty Shaw. Pur
convenendo che la malattia non
segue il corso tipico del cancro al
fegato, non riesce a stabilire che
corso stia seguendo. Il fegato
rimane ingrossato e molle, la conta
dei globuli bianchi è leggermente
aumentata. «Una malattia
contratta in India?» chiede, e
Hardy ricorda la prima ipotesi di
un “germe orientale”. Questo
richiede il parere di un altro
esperto ancora, il dottor Frobisher,
specialista in malattie tropicali.
Sfortunatamente, per quanto è in
grado di determinare il dottor
Frobisher, i sintomi di Ramanujan
non corrispondono alla patologia
di alcuna malattia esotica. I
tamponi per la malaria sono
risultati negativi. «Tubercolosi?»
chiede il dottor Frobisher, con
esitazione e umorismo nella voce,
come se stesse azzardando la
soluzione di un indovinello. E così
sono tornati alla tubercolosi! Dio,
che scienza approssimativa è la
medicina!
Viene deciso che non c’è ragione
per cui Ramanujan continui a
rimanere in clinica. D’ora in avanti
farà la convalescenza nelle sue
stanze al Trinity. Hardy spera che
questa notizia gli faccia piacere, ma
Ramanujan la accoglie con la solita
indifferenza. Ancora una volta, lo
vestono; poi lo aiutano a salire su
un taxi. Percorrono la breve
distanza che li separa dal Trinity,
dove il portiere li sta aspettando.
«È bello rivederla, signore» dice
aprendo lo sportello del taxi e
prendendo la valigia di
Ramanujan.
«Sono contento di essere a casa»
dice Ramanujan, e Hardy è colpito,
se non sbalordito, dal fatto che sia
arrivato a considerare il Trinity
come “casa”.
Poi Hardy lo aiuta ad
attraversare la Great Court verso il
Bishop’s Hostel e a salire le scale
verso i suoi alloggi. A quanto pare
la cameriera li ha puliti durante la
sua assenza. Il letto è rifatto. In
cucina i piatti sono stati lavati e
riposti. Però non ha buttato via il
rasam; è ancora nel suo tegame,
con una lieve pellicola di muffa in
cima. Forse aveva paura a toccarlo.
Quasi immediatamente, dopo
essere entrato nella stanza,
Ramanujan comincia a spogliarsi.
La cosa sorprende Hardy, che lo ha
sempre creduto un uomo pudico.
Ma forse il soggiorno in ospedale è
bastato per abolire ogni modestia,
perché adesso si libera dei vestiti
con una disinvoltura pari a quella
di Littlewood. Hardy distoglie lo
sguardo, ma solo dopo aver
intravisto il corpo marrone chiaro
di Ramanujan, la pancia piatta che
scende verso i genitali, che sono
piccoli e scuri, infossati tra le
gambe. Non riesce a distinguere
una cicatrice tra quelle ombre. E
che oggetto vulnerabile è l’organo
riproduttivo maschile,
specialmente quando viene esposto
davanti a un medico perché lo
strizzi o lo incida! La maggior parte
del giorno se ne sta placido nel suo
nido, una cosina piccola,
inoffensiva, come un uccellino
appena nato o un cucciolo di
canguro. Poi gli stimoli lo
risvegliano, lo gonfiano di sangue,
ne raddoppiano o ne triplicano la
dimensione, e allora diventa il
grande pompatore, la grande
spada, avida e penetrante della
pornografia. Solo che, vedendolo a
riposo, sembrerebbe impossibile.
In ogni caso, Ramanujan si è
denudato nel giro di pochi secondi.
In men che non si dica si è infilato
il pigiama, ha tirato indietro le
lenzuola e si è messo a letto.
E adesso chi si prenderà cura di
lui? Se tutto questo fosse successo
un anno prima, Hardy avrebbe
potuto contare sui Neville per un
aiuto. Ma ormai i Neville sono a
Londra, la loro casa in Chesterton
Road è stata affittata, quindi la
responsabilità ricade sulle spalle di
Hardy. La prima settimana,
Mahalanobis, Chatterjee e Ananda
Rao si danno il cambio
nell’assistere l’invalido, s’informano
dei suoi dolori e si assicurano che
mangi. Ananda Rao, al meglio
delle sue capacità, gli prepara i
pasti. Sfortunatamente questa
rotazione si dimostra sostenibile
solo finché inizia il trimestre, ma a
quel punto sono tutti troppo
occupati e Hardy deve assumere
un’infermiera per seguire
Ramanujan. Tre volte la settimana
l’infermiera gli misura la febbre, gli
controlla l’addome, gli ausculta il
torace e il cuore, e manda un
rapporto al dottor Wingate.
Ananda Rao continua a preparare
pranzo e cena per Ramanujan.
Mrs. Bixby si fa carico delle
lenzuola, che, a causa dei sudori
notturni, devono essere cambiate
ogni mattina.
Sono mesi che non parla di
matematica. All’inizio questo
irritava Hardy, ma poi si era reso
conto di non avere altra scelta se
non frenare il suo disappunto e
concentrare la sua attenzione su
lavori fuori dalla sfera delle
partizioni. Da allora ha scritto
parecchi saggi da solo e due con
Littlewood, che, a suo modo, si sta
dimostrando un collaboratore men
che affidabile. Littlewood infatti è
altrettanto depresso di Ramanujan.
Disprezza il suo lavoro a
Woolwich. Desidera ardentemente
stare a Treen con Mrs. Chase, e
allo stesso tempo non sopporta di
stare a Treen con Mrs. Chase,
perché Mrs. Chase sta crescendo
sua figlia nella convinzione che
Chase, e non Littlewood, sia suo
padre. Ogni volta che lui e Hardy
si vedono a Londra, Littlewood
vuole andare in un pub. Beve
troppo: birra e, più di rado, whisky.
Inoltre non ha voglia di fare
granché rispetto al lavoro sui saggi
che stanno scrivendo insieme.
«Lascio a te il gas» dice a Hardy,
laddove “gas” è la loro parola in
codice per le infiorettature
retoriche e il tocco di eleganza che
ogni buon saggio richiede. Come se
non bastasse, è altrettanto restio a
svolgere la sua parte dell’umile
lavoro tecnico che ogni buon
saggio richiede almeno quanto
richiede “gas”. Il lavoro umile lo
annoia, dice. La balistica lo annoia.
Troppa noia lo farà crollare.
Così vanno le cose per il
momento. Dei due collaboratori di
Hardy, uno è malato e l’altro
depresso, quindi non può contare
su nessuno dei due.
Per quanto gli è possibile, nei
pomeriggi Hardy va a trovare
Ramanujan. Gli siede accanto e
cerca di convincerlo a mangiare,
ma così come in clinica Ramanujan
si lamentava che la cuoca non
preparava nel modo giusto i piatti
che lui voleva, adesso si lamenta
che il rasam di Ananda Rao non è
di suo gradimento. «Non è
abbastanza aspro» dice. «Sono
sicuro che usa i limoni invece del
tamarindo.»
«Anche se così fosse, devi
mangiare.»
«Lo sapevi» dice all’improvviso
Ramanujan, «che ho fatto
un’importante scoperta sulle
partizioni mentre preparavo il
rasam?»
«Veramente?»
«Sì. Stavo contando le lenticchie,
e incominciai a dividerle in
gruppi.» Hardy intravede uno
spiraglio, finalmente, anche se
molto piccolo. «MacMahon e io
stiamo continuando le nostre
ricerche, naturalmente. Ha chiesto
di te l’altro giorno.»
«Ah sì? E come sta?»
«Direi che sta benone, date le
circostanze. Ti manda i suoi
migliori auguri.»
«Gentile da parte sua.»
«Naturalmente procede tutto a
rilento, senza di te.»
«Lo so, temo di aver trascurato il
lavoro sulle partizioni quando mi
sono ammalato, e mi scuso per
questo.»
«Non devi scusarti.»
«E che progressi avete fatto tu e
il maggiore?»
Inavvertitamente Hardy sorride.
Sa bene che non deve indulgere in
quel poco di speranza che sta
provando in questo momento,
perché l’esperienza gli ha insegnato
che non si può fare affidamento
sulla speranza. E ha ragione: la
scintilla di curiosità che può aver
acceso in Ramanujan, si spegnerà
molto presto. Eppure, per il
momento, la speranza è reale, e lui
vi si aggrappa. La guerra gli ha
insegnato a far questo, ad
aggrapparsi a qualsiasi cosa, finché
dura. Dice a Ramanujan quello che
ha pensato. Ramanujan ciondola il
capo. Hardy prende carta e penna
dalla tasca e, per una mezz’ora,
mentre il rasam di Ananda Rao si
raffredda nel suo tegame, Hardy e
Ramanujan si dedicano a
un’attività che hanno trascurato fin
dalla primavera: lavorano.
7

A quel tempo non prese la cosa


molto sul serio. Oppure sì? Ricorda
la burrasca di quel giorno, la
piccola imbarcazione attraccata al
molo di Esbjerg. Ricorda la paura?
No. È curioso – e forse è qualcosa
di cui essere grati – che la paura,
come il dolore, non persista nel
ricordo. Ovvero, Hardy riesce a
ricordare di aver provato paura o
dolore in vari momenti della vita,
ma non ricorda in cosa consistesse
la sensazione di paura o di dolore.
Espressioni quali “fiato corto” o
“costrizione allo stomaco” non
provocano, in sé e per sé, il fiato
corto o la costrizione allo stomaco,
forse perché il fatto stesso di
riuscire a ricordare significa che
qualunque cosa abbia provocato
paura o dolore ormai è stata
superata, le siamo sopravvissuti. La
burrasca, le onde, la piccola
imbarcazione che saliva e
scendeva. L’acqua che schizzava sul
ponte di coperta. La cassetta della
posta poco più in là, sulla
banchina.
Era andato a trovare Bohr a
Copenaghen. Prima della guerra,
andava spesso a trovare Bohr a
Copenaghen. Bohr era più giovane
di Hardy – sui venticinque anni –
ed era stato nella squadra
nazionale danese di football
quando si era piazzata al secondo
posto nei mondiali del 1908. Non
era esattamente attraente: i capelli
castani, che teneva lunghi,
tendevano a rizzarglisi in testa,
mentre le sopracciglia folte,
all’ingiù, ricordavano a Hardy
l’accent grave e l’accent aigu in
francese. Tuttavia c’era qualcosa di
nobile e memorabile nel suo viso.
Aveva un corpo magro e diritto.
Come Littlewood, era un
appassionato di donne, e le notava,
mentre non faceva caso agli
uomini.
Le visite erano sempre uguali.
Bohr dava il benvenuto a Hardy
nel suo appartamento, poi,
attraversando il salotto, lo guidava
dritto in cucina, dove si mettevano
a stendere un programma per i
giorni seguenti. La prima voce era
sempre la stessa: “Dimostrare
l’ipotesi di Riemann”. Poi facevano
una passeggiata lungo i fossati e i
ponti dell’Østre Aenlag Park,
anche quando era inverno, anche
se gli alberi erano spruzzati di neve
sottile e i sentieri sdrucciolevoli. A
volte uomini e donne correvano da
Bohr e gli chiedevano l’autografo,
che lui concedeva con un certo
imbarazzo. Perché non era
l’autografo del matematico che
volevano, ma quello del giocatore
di football. Sembrava che Bohr
fosse destinato ad arrivare sempre
secondo: in seguito dopo il fratello
fisico, Niels; a quei tempi, dopo se
stesso.
Una volta tornati nella cucina di
Bohr, si mettevano al lavoro. Di
solito bevevano caffè. A volte
bevevano birra. A Hardy piaceva
guardare Bohr che, dall’altra parte
del tavolo, scriveva su un bloc
notes, col boccale di birra che
ostruiva parzialmente la vista dei
folti capelli che gli si rizzavano in
cima alla testa.
Un altro uomo brillante, dalle
gambe forti, che amava le donne.
Di solito, Hardy si tratteneva tre
giorni. Non riuscirono mai a
dimostrare l’ipotesi di Riemann.
Bohr lo accompagnava sempre alla
stazione, dove Hardy prendeva il
treno per Esbjerg; andava sul molo
e cercava la barca che lo avrebbe
riportato a casa. Questa volta era
una piccola imbarcazione, che
rollava su grosse onde. Era sicura?
C’era brutto tempo, un cielo grigio
e minaccioso e un vento sferzante.
Cercò il capitano e gli chiese se
viaggiare era sicuro, e questi indicò
il cielo tempestoso come se non ci
fosse niente di cui preoccuparsi.
Fu allora che Hardy notò la
cassetta delle lettere. Pensò a Dio.
In seguito, si sarebbe detto che lo
aveva fatto solo per avere una bella
storia da raccontare nella Hall. E in
effetti se ne valse per parecchi
anni, ai pranzi nella Hall. Tuttavia
al momento – adesso è disposto ad
ammetterlo – ebbe veramente
paura. Gli venne il fiato corto, gli si
strinse lo stomaco. Vide la barca
capovolgersi, i passeggeri che
lottavano disperatamente in acque
gelide.
C’era un negozietto sulla
banchina che vendeva cartoline di
Esbjerg. Ne comprò una manciata.
Non ricorda quante. E su ciascuna
scrisse: “Ho dimostrato l’ipotesi di
Riemann. G.H. Hardy”. E poi
comprò i francobolli, portò le
cartoline alla cassetta della posta e
le imbucò.
Achi le spedì? ALittlewood, di
sicuro (ricorda che Littlewood lo
strapazzò in seguito).
Probabilmente a Russell.
Sicuramente allo stesso Bohr. E a
Gertrude. O a sua madre? O a
entrambe? Forse spedì la cartolina
a sua madre perché sapeva che
l’avrebbe conservata, anche se non
l’avrebbe capita. In ogni caso,
qualcuno doveva averlo detto al
vicario.
L’idea, ancora una volta, era di
battere Dio in astuzia. Perché se
l’imbarcazione fosse affondata, e
Hardy fosse morto, le cartoline
sarebbero arrivate dopo la sua
morte, e la gente avrebbe creduto
che lui aveva dimostrato l’ipotesi di
Riemann, e che la sua
dimostrazione era andata a fondo
insieme alla barca, era andata
persa, come la dimostrazione di
Riemann che era stata data alle
fiamme. Così Hardy sarebbe stato
ricordato come il secondo uomo
che aveva dimostrato l’ipotesi di
Riemann e aveva perso la sua
dimostrazione, e questo Dio non
l’avrebbe consentito. Almeno così
credeva Hardy. Per non essere
battuto da Hardy, Dio avrebbe
fatto in modo che Hardy non
morisse. Avrebbe fatto arrivare la
barca a destinazione, sana e salva,
assicurandosi così che a Hardy
fosse negata qualsiasi gloria
immeritata.
In seguito fu piuttosto
imbarazzante, per Hardy, dare
spiegazioni. Ricevette un
telegramma urgente da Bohr cui si
vide costretto a rispondere. In
seguito Bohr ci rise sopra. E anche
Littlewood rise, superato lo shock
iniziale. Forse erano delusi, forse
erano sollevati. Perché se l’ipotesi
di Riemann rimaneva
indimostrata, se non altro uno di
loro poteva ancora essere l’uomo
che la dimostrava. La partita non
era chiusa.
Tutto questo, naturalmente,
avvenne molto prima di
Ramanujan. È solo un aneddoto, e,
come la maggior parte degli
aneddoti, aveva perso forza a furia
di esser raccontato. Hardy non lo
sfruttava più ai suoi pranzi.
E poi il vicario lo tirò di nuovo in
ballo.
Ciò che disturbava Hardy era
che il vicario aveva l’aria di pensare
che gli desse un vantaggio su di lui:
avere scoperto una crepa
nell’armatura del suo ateismo. E
chi poteva dire che non fosse vero?
Hardy infatti sapeva che avrebbe
fatto la figura dell’idiota se avesse
finto che era tutto uno scherzo. La
batteria anti-Dio – maglioni,
scartoffie, l’ombrello enorme di
Gertrude – Hardy la conserva
ancora, e di quando in quando
ancora se ne vale, così come a
volte, senza rendersene conto, si
ritrova ancora a pregare per il
contrario di ciò che desidera.
Tornato a Cranleigh, guarda con
attenzione Gertrude. Lungi
dall’accogliere gioiosamente la sua
ritrovata libertà, sua sorella si
radica ogni giorno più a fondo
nella vita del villaggio. Sì, si è calata
in trincea, esattamente come un
soldato, entrando a far parte del
comitato di numerose
organizzazioni caritatevoli e
accollandosi degli allievi privati,
oltre al suo insegnamento regolare.
Uno di questi allievi è con lei
quando Hardy arriva, un
pomeriggio d’autunno, una
ragazzina di quattordici anni, una
zotica dalla faccia acida, alla quale
Gertrude sta cercando di spiegare
la coniugazione del verbo francese
prendre. Questa volta sono due i
fox terrier accucciati davanti al
fuoco. Due? Sì, Gertrude ne ha
preso un altro, un maschio. Epée.
Spera che lui e Daisy si
accoppieranno.
«Je prends, tu prends, il prend,
vous prendez…»
«Vous “prenez”.»
«Vous prenez, nous prendons…»
Hardy sguscia nella sua stanza. È
tutto molto strano. Quella sera, a
cena, Gertrude gli dice che sta
lavorando col vicario a un progetto
per raccogliere fondi per il restauro
di alcuni vetri istoriati della chiesa.
Lavora col vicario, eh? Dunque è
Gertrude, forse, la fonte
dell’indiscrezione. Non starà
pensando di sposare il vicario?
Sembra una cosa folle, impossibile.
In ogni caso, si tiene ben strette le
sue carte. Taglia la carne
furtivamente, ed evita di guardarlo
in faccia. I cani sono accucciati ai
suoi piedi, nella speranza di
qualche boccone, senza avvicinarsi
mai a Hardy, come se sapessero
che è meglio non farlo, anche se in
realtà avrebbero più probabilità di
ricevere qualche boccone da lui
che da Gertrude. Infatti la
prospettiva di minare gli sforzi
della sorella per instillare in loro
una disciplina gli sembra molto
allettante.
Non parlano della casa. Come
ogni volta che Hardy è venuto a
Cranleigh dopo la morte della
madre, è arrivato deciso a
intavolare l’argomento, e poi gli è
mancato il coraggio. I cani stessi
sembrano impedire ogni accenno
all’argomento, piazzati come sono
su ciascun lato di Gertrude, come
due sentinelle. Dormono in cucina,
dove Hardy, svegliandosi nel cuore
della notte, dà loro degli avanzi di
carne fredda. Soddisfatto di
infrangere una delle regole di
Gertrude, li guarda ingoiare le fette
di carne in un boccone, senza
smettere di fissarlo, con lingue
nervose che leccano labbra nere.
Prima di tornare a Cambridge,
fa una visita al vicario, che siede di
fronte a lui nel suo studio con le
mani in grembo. Per qualche
ragione le mani del vicario lo
ripugnano più di qualsiasi altra
parte di lui: più delle sue guance
ben rasate, o delle sue labbra
tronfie, o dell’ampio torace su cui
pende la croce. Le mani sono
grasse e lustre. A un dito c’è un
anello. Il vicario si appoggia allo
schienale e sorride a Hardy,
soddisfatto della sua piccola fetta
di autorità e del buon pranzo che
ha appena consumato. Quando
Hardy incomincia a parlare, fa un
rutto. Le dita intrecciate. «Mi
scusi» dice.
«Voglio parlarle di quella
cartolina» dice Hardy. «Suppongo
che non sia libero di dirmi chi
glielo ha raccontato?»
Il vicario non dice niente. Si
limita a sorridere.
«In ogni caso, ho ritenuto
importante spiegarle il mio
ragionamento.»
«Lo capisco, il suo
ragionamento. Lei ha contato sul
fatto che Dio l’avrebbe salvata per
farle dispetto. In modo che non
morisse da uomo famoso.»
«Ci ho pensato molto
attentamente. Credo fosse una
tattica psicologica, un mezzo per
combattere l’arbitrarietà della
natura e dell’universo. Questa
arbitrarietà io la chiamo Dio, e la
trasformo nel mio avversario.»
«Vuol dire che questo Dio che
lei dice essere il suo nemico…
insomma, vuol dire che non crede
in Lui?»
«Dio è solo un nome che do a
qualcosa… senza significato.»
«Allora perché sceglie il nome di
Dio?»
«Per divertirmi.»
«E si diverte?»
Hardy storna gli occhi. «Io sono
un razionalista. Glielo dissi anni fa,
quand’ero ancora un bambino. Un
aquilone non può volare nella
nebbia.»
«E la barca ha incontrato la
nebbia? O solo il vento?»
«La pioggia. E un forte vento.»
«Lei ha temuto per la sua vita.»
«Sì. Però mi sentivo protetto,
grazie alle cartoline.»
«Quindi Dio l’ha protetta.»
«No, non Dio…»
«Allora cosa?»
«Un talismano. Un mezzo per
allontanare la paura finché
raggiungevamo le coste
dell’Inghilterra.»
«Dio l’ha protetta. L’ha salvata.
Forse intende che sia lei a risolvere
l’ipotesi di Raymond.»
«Riemann.»
«Mi scusi. Non sono un
matematico.»
Hardy si sporge in avanti. «Chi
glielo ha detto? Non può essere
stata mia madre. Non sarebbe
arrivata a capire tanto. Dev’essere
stata Gertrude.»
Ancora una volta, il vicario non
risponde. Il suo sorriso si allarga.
«Perché glielo avrebbe detto?»
«Perché è venuto qui?»
«Per farle sapere che non ha
vinto. Continuo a non credere in
Dio.»
«Una cosa è se lei creda o non
creda in Dio» dice il vicario.
«L’altra è se Dio creda in lei.»
8

Sulle prime, mentre sale sulla


Queensway dalla stazione della
metropolitana, con la sua borsa di
giornali stranieri, non è sicura che
sia proprio lui: un uomo sciupato,
troppo esile per gli abiti che
indossa, e più magro di come lo
ricordava. È fermo fuori dalla
stazione, e studia, con una sorta di
fascinazione, la mappa appesa al
muro. Poi si gira, ed è troppo tardi
per decidere se vuole fuggire, e
ancor meno per fuggire. «Mr.
Ramanujan» dice.
«Mrs. Neville» risponde lui, e
sorride. «Che bella sorpresa!»
Alice gli stringe la mano. Non
vuole lasciar trapelare che, nel giro
di pochi secondi, tutte le
convinzioni cui si è aggrappata per
sopravvivere in questi ultimi mesi
sono crollate. Il passato non è più
un romanzo finito e riposto sullo
scaffale; lei non è più la donna
indifferente che era, una
londinese, insensibile alle
suppliche dei mendicanti e all’eco
luttuosa dei treni della
metropolitana. Perché lui è
tornato, e adesso lei è la stessa
Alice che viveva in Chesterton
Road. Non ha mai smesso di essere
innamorata di lui.
Quello che è successo, si rende
conto mentre s’incamminano
insieme sulla Queensway, è che
questo incontro fortuito le ha fatto
scavalcare il momento che temeva,
il momento in cui avrebbe dovuto
prendere atto di quella visita
tremenda nelle sue stanze. È come
se un vento l’avesse sollevata
trasportandola al di là di quel
confine che non si sarebbe mai
permessa di varcare di sua volontà,
e adesso è qui, dall’altra parte.
Stanno andando insieme al suo
appartamento, lo ha invitato per
un caffè.
Su per le scale fino alla porta.
Sebbene l’appartamento sia solo al
secondo piano, Ramanujan è
trafelato. «Miss Hardy mi ha detto
che non è stato bene» dice Alice,
facendolo entrare. «Mi dispiace
tanto.»
«Sono stato in clinica per
parecchi mesi» dice Ramanujan.
«Ma adesso sto meglio. Sono
tornato al Bishop’s Hostel.» La
segue nel piccolo salotto quadrato,
nel quale sono stati stipati la
maggior parte dei mobili di
Cambridge: il pianoforte, il divano
Voysey, le due poltrone zitelle.
«Mi scuso per la stanza così
ingombra. L’appartamento è
talmente più piccolo della nostra
casa!»
«Va benissimo» dice
Ramanujan, sedendosi su una
delle poltrone. «È come rivedere
dei vecchi amici.» E accarezza
l’imbottitura del bracciolo con
quello che le sembra autentico
affetto.
«Adesso le preparo il caffè.
Temo che non ci sia latte, e solo
poco zucchero, quindi non sarà un
vero caffè di Madras. Il
razionamento, capisce.»
«Capisco. E come sta Mr.
Neville?»
«Se la cava» dice Alice dalla
cucina. «Oggi è fuori, è a Reading.»
«Ah sì?»
«L’università forse gli offrirà un
posto.»
«Lo spero.»
«Sì, lo spero anch’io, suppongo.
Anche se significherà lasciare
Londra, e mi sono appena abituata
a Londra.» Dopo aver messo il
caffè sul fuoco, Alice torna in
salotto; si siede nella seconda
poltrona. Ci sono tante altre cose
che potrebbe dire – a lui, a
chiunque – su ciò che ha imparato
in questi ultimi mesi! In un
matrimonio, è la ripetizione che
uccide: la ripetizione dei pasti;
delle conversazioni; dei battibecchi
(«Come hai dormito?» «Ti ho detto
di non farmi più questa
domanda!»); del sesso o
dell’assenza di sesso; delle cattive
abitudini (le tracce dell’urina di lui
sull’asse del water, la flatulenza di
lei); della distrazione dell’uno e
della durezza dell’altra; del suo
chiamarla “tesoro”; della
consapevolezza che ci saranno
sempre cose di suo marito che lei
non capirà mai e cose di lei che suo
marito non capirà mai; della
consapevolezza che, per quanto
lontano lui vada e quanto a lungo,
alla fine tornerà sempre.
Sì, pensa Alice, in un
matrimonio è la ripetizione che
uccide. Ed è la ripetizione che
salva.
Si gira verso Ramanujan. Solo
adesso si accorge di quanto sia
dimagrito. Il suo viso, privo della
sua paffutaggine, è scarno e serio, e
Alice, come per la prima volta, ne
vede la bellezza: gli occhi neri,
inquieti, le sopracciglia folte, il
naso piatto, le narici larghe.
Ramanujan si è messo la brillantina
sui capelli folti, li ha pettinati a
sinistra. Ha il colletto aperto. Ciò
che un tempo la carne soda
nascondeva – i legamenti nodosi
del suo collo – la malattia ha messo
a nudo. La malattia, e il colletto
aperto. Non lo ha mai visto col
colletto aperto, tranne quella volta,
nella sua stanza.
«Non pensavo che l’avrei più
rivista» dice Alice senza
sentimento. Come una semplice
constatazione. «E invece, eccola
qui.»
«Sì.»
«È strano. Sono cambiate tante
cose, eppure è ancora tutto lo
stesso. Gli stessi mobili, in un
appartamento diverso.»
«È un piacere star di nuovo
seduto su questa poltrona. La sua
casa è stato il mio primo assaggio
dell’Inghilterra.»
«Se solo avessimo potuto farci
entrare tutto! Ma è una
sistemazione temporanea, sa;
l’appartamento intendo. Finché
Eric trova un impiego. È ridicolo. Il
tavolo ci sta a malapena nella sala
da pranzo. Non si può nemmeno
tirare indietro le seggiole senza
sbattere contro il muro.»
«E come sta Ethel?»
«Purtroppo non è più con noi.
Lo sa che suo figlio è stato ucciso.»
«No, non lo sapevo.»
«È scappato dal fronte. Non lo
sopportava. Lo hanno fucilato
come disertore.»
«Intende gli inglesi?»
Alice annuisce. «Abbiamo
cercato di convincerla a venire con
noi a Londra, ma non voleva stare
così lontana da sua figlia. Lo
capisco, naturalmente. Così adesso
abbiamo solo una donna delle
pulizie che viene due volte la
settimana.»
«La prego di porgerle i miei
saluti se le scrive.»
«Lo farò. La guerra è un tale
orrore, Mr. Ramanujan. Ma se non
altro mi sono trovata qualcosa da
fare.» E gli racconta del suo lavoro,
di Mrs. Buxton, della casa a
Golders Green. Parla e parla,
finché si rende conto di averlo
lasciato indietro, di essersi
dimenticata di lui. «Mi scusi tanto»
gli dice, «non le ho nemmeno
chiesto come mai è venuto a
Londra.»
«Solo per una visita dal dottore.»
«Ma certo, la sua malattia. E
cosa ha detto il dottore?»
«Mah, tanti dottori, hanno detto
tante di quelle cose! E adesso
sembra che dovrò andare in un
sanatorio. A Mendip Hills. Vicino
a Wells. Il dottore che lo dirige è
indiano. E anche la maggior parte
dei pazienti.»
«Ma non è un sanatorio per la
tubercolosi?»
«Sì. I miei sintomi non
corrispondono a nessun’altra
diagnosi, quindi per eliminazione
hanno concluso che deve trattarsi
di tubercolosi.»
«Ma lei non ha la tosse.»
«Nessun disturbo ai polmoni.
Solo il dolore e la febbre. Non
cambia niente. Ogni giorno è lo
stesso. La malattia è davvero molto
noiosa, Mrs. Neville.»
«Ripetizione» dice Alice
debolmente. E all’improvviso si
ricorda del caffè; corre in cucina; lo
versa nelle tazze e lo riporta in
salotto. «Ho un po’ di zucchero
qui.»
«Non ce n’è bisogno. Lo berrò
senza.»
Siedono dunque, in una piccola
stanza quadrata a Bayswater, a
bere il loro caffè scuro e amaro. Lei
sta pensando che la stanza è come
una di quelle bancarelle al mercato
delle pulci di Parigi, allestite per
sembrare delle stanze, ma stanze in
cui nessun essere umano potrebbe
mai vivere perché non c’è spazio
per muoversi. E qui è la stessa cosa:
le loro vite in vendita. Cosa
succederà dopo? Solo pochi passi la
separano dal divano, dal tavolo su
cui Ramanujan faceva il puzzle, dal
pianoforte. Lo guarda, poi guarda
Ramanujan.
«Canta ancora qualche volta?»
Lui ciondola il capo.
«“Moderna incarnazione io son
di un Generale…” ricorda?»
«“Dotato di cultura in fatto
vegetale animale e minerale…”»
«Oh, allora se lo ricorda!»
«Naturalmente.»
Poi insieme:
«“Dell’Inghilterra i re conosco a
menadito, cito battaglie storiche,
da Maratona a Waterloo, in schiere
categoriche.”»
Finiscono la canzone, ridendo.
«Non avrei mai creduto che
ricordasse i versi» dice Alice.
«Li ricordo tutti.»
Ancora una volta Alice si gira a
guardare il piano. «Deve essere
accordato. Non so che suono avrà.
Sono mesi che non lo uso…»
«Non importa.»
Si alzano, e siedono insieme sul
panchetto. Lei sente il calore della
sua vicinanza, fin nel midollo, lo
sente. Eppure non gli tocca il
braccio. Non gli tocca la mano.
Mette lo spartito sul leggio.
Il sole del tardo pomeriggio
entra a fiotti dalla finestra. Altrove,
a Londra, una donna riceve un
telegramma con la notizia che il
figlio disperso è vivo. Hardy cerca
di scrivere una lettera a sua sorella.
Russell tiene un discorso. E, sul
treno da Reading, Eric Neville si
sistema gli occhiali; apre una copia
malandata di Alice nel Paese delle
meraviglie. È felice, perché Reading
gli darà una fellowship, e sua
moglie gli ha appena detto che è
incinta.
Dita sui tasti: il semplice
accompagnamento suona strano
sul piano stonato. Mentre loro
cantano, il passato li abbraccia, e il
futuro fa da testimone.
9

New Lecture Hall, Università di


Harvard
Questa mattina, camminando per
le strade della vostra bella città,
questa seconda Cambridge, ho
avuto la più strana delle
allucinazioni. Ero in Harvard
Square, a guardare la vetrina di
una libreria, quando mi è capitato
di notare i riflessi degli uomini e
delle donne nel vetro sovrapposto
ai libri, e all’improvviso ho avuto
l’impressione – anzi, la certezza –
che una delle donne avesse degli
ami da pesca che le pendevano
dalla carne. Ami da pesca le
sbucavano dalle guance, dalle
braccia, dalle gambe e dal collo.
Alcune delle ferite erano fresche e
sanguinanti, mentre in altri punti
la carne sembrava essersi ispessita
intorno agli ami, come se li avesse
accettati. Poi, quando mi sono
girato – poiché ciò che sto
descrivendo è palesemente un
sogno a occhi aperti, ricorrerò alla
locuzione di Milton – quando mi
sono girato mi è parso di vedere un
passante la cui carne era a sua volta
trafitta da ami da pesca. Poi, dietro
di lui, un altro uomo, e un’altra
donna, finché sono giunto alla
conclusione che questa mattina
ogni passante nella piazza aveva
degli ami da pesca che gli
pendevano dalla carne, alcuni con
pezzi di lenza sfilacciati, mentre in
altri casi la lenza non era tagliata;
la lenza veniva strattonata, così
questi uomini e donne venivano
frenati nei loro sforzi di sfuggire ai
loro inseguitori. Sì, alcuni
cercavano di scappare, invece altri
sembravano felici di seguire le
lenze, di adattarsi volontariamente
al loro corso. E poi… mi è parso di
vedere, lì in Harvard Square, un
intreccio di lenze che avviluppava
questi poveri uomini e donne, i
loro piedi e i loro corpi. Ciascuno
intrappolato, agganciato, ciascuno
che frenava il mulinello nel
momento stesso in cui lo avvolgeva
nelle sue spire.
Cosa ha a che fare questa visione
con Ramanujan? È pur vero che,
mentre attraversavo Harvard
Square, stavo pensando al mio
defunto amico; ripassando
mentalmente il discorso che
dovevo tenere in sua memoria.
Quindi è stata forse la dea
Namagiri a fornirmi questa visione,
come a indicarmi la linea che
Ramanujan desidera io segua. O
forse l’allucinazione era
semplicemente il prodotto di
un’immaginazione sempre più
vecchia e malata. Non lo so. Tutto
ciò che posso offrire è
un’interpretazione: tutti noi,
passiamo la nostra vita a cercare di
prenderci all’amo a vicenda.
Agganciamo e veniamo agganciati.
A volte ci opponiamo e a volte
accogliamo gli ami con gratitudine,
li affondiamo nella nostra stessa
carne, e talvolta cerchiamo di
battere in astuzia quelli che ci
hanno preso all’amo prendendoli
all’amo a nostra volta, come io,
nella mia giovinezza, ho cercato
costantemente di prendere all’amo
Dio.
Ramanujan, negli ultimi mesi
del 1917 e nei primi mesi del 1918,
era un uomo dal cui corpo
pendevano molti ami. Di questi,
all’epoca almeno, riuscivo a
vederne solo alcuni. C’era l’amo
che lo collegava a me, alla mia
ambizione per lui, che Ramanujan
si sentiva obbligato a soddisfare, e
alla mia paura di lui, che si sentiva
obbligato a mitigare; e poi c’era
l’amo della sua malattia, che lo
obbligava a fare affidamento
sull’assistenza dei medici; e gli ami
del dovere e dell’amore che lo
legavano ai suoi tre amici,
Chatterjee, Rao e Mahalanobis; e
l’amo rapace (quest’ultimo
particolarmente acuminato e
minaccioso) conficcatogli nelle
carni da sua madre, fin dalla prima
infanzia; e l’amo della
responsabilità e del desiderio che
lo legava alla sua sposa
d’oltreoceano; e l’amo della guerra,
conficcato nella carne di ciascuno
di noi in quegli anni; e infine l’amo
della propria ambizione, col quale
si era trafitto egli stesso.
Capite, adesso, come doveva
essere per lui? Capite in che
groviglio di doveri, speranze e
terrori era intrappolato? Spero che
voi lo capiate, perché io non ne fui
capace, a suo tempo. Dopotutto
c’erano tante cose di cui non mi
rendevo conto, e sulle quali non
pensai di fare domande. A quel
punto, Ramanujan era uscito dalla
clinica e viveva, ancora una volta,
al Trinity. La sua salute era
migliorata solo quel tanto da
consentirgli di non essere costretto
a letto. Riusciva di nuovo a lavarsi
e vestirsi da solo, e a venire a
trovarmi la mattina, e ogni tanto si
sentiva abbastanza bene da
affrontare un viaggio a Londra,
dove stava dalla sua adorata Mrs.
Peterson, cui avrebbe presto
spezzato il cuore. Tuttavia non si
era affatto ristabilito. Il dolore
all’addome persisteva, e anche la
febbre. La malattia doveva averlo
reso vulnerabile, e forse è per
questo che, in quei mesi, si ritrovò
a pensare più che mai a sua moglie
Janaki, la ragazza con la quale, in
India, era riuscito a trascorrere così
poco tempo, perché sua madre
(come seppi in seguito) impediva
loro di dormire nello stesso letto,
con la scusa della sua operazione.
Sì, posso immaginare che nella sua
solitudine, nella sua confusione –
separato dal suo paese dalla guerra,
privato (sempre dalla guerra) di
tutto tranne gli alimenti più
rudimentali, di fronte a un altro
cupo, rigido inverno di Cambridge
– Ramanujan abbia ricominciato a
sognare quella giovane ragazza alla
quale si riferiva, secondo il
costume indiano, come alla sua
“casa”. (Fu durante queste
settimane che disse a Chatterjee:
«La mia casa non mi ha scritto» e
che Chatterjee rispose: «Le case
non sanno scrivere».) Eppure
sarebbe un errore immaginare che
continuasse a sognarla con un
desiderio genuino. C’era grande
amarezza in Ramanujan, come non
tardai ad apprendere da una fonte
inaspettata.
Ecco cosa accadde: all’inizio
dell’autunno ricevetti una lettera
da un suo amico d’infanzia, uno
studente di ingegneria di nome
Subramanian, che mi disse di
essere andato a far visita alla
madre di Ramanujan e che tutti a
casa, lei, il padre cieco e i fratelli,
erano in uno stato di grande
agitazione perché Ramanujan non
scriveva da mesi. Naturalmente,
quando Ramanujan venne da me
quella mattina, gli parlai della
lettera del suo amico. «È vero» gli
chiesi, «che non scrivi più ai tuoi?»
«Anche loro non mi scrivono
quasi mai.»
«Ma perché? Cos’è successo?»
Allora mi raccontò, per la prima
volta, della fuga di Janaki da
Kumbakonam a Karachi, a casa del
fratello. «Adesso non so nemmeno
dov’è» disse. «Mi ha scritto solo
qualche lettera formale,
chiedendomi del denaro. E mia
madre… lei mi ha scritto che crede
che io abbia nascosto mia moglie in
un posto segreto in India, che io
abbia nascosto Janaki lontano da
lei e che Janaki mi scriva cose
contro di lei, in attesa che io vada a
raggiungerla, in quel posto segreto,
senza che mia madre lo sappia, e si
lamenta perché io le do sempre
retta.»
«Ma è tua moglie. È naturale
che tu le dia retta.»
«Mia madre si è offesa quando
Janaki è scappata di casa. Ma
quello che non capisce è che Janaki
offende anche me, perché mi scrive
solo queste lettere formali.»
La gelosia di sua madre mi parve
oscena. Gli suggerii che forse era
stato proprio il suo atteggiamento
irragionevole ad allontanare
Janaki, ma Ramanujan scosse la
testa. Era un no deciso, non il
solito ciondolio ambivalente. Era
chiaro che entrambi gli ami
stavano facendogli male.
Alla fine lo persuasi, se non
altro, a scrivere ai suoi per
rassicurarli che stava bene.
Diciamo che credo di esserci
riuscito, ma non ne sono sicuro,
perché, proprio come alla
menzione della lettera di
Subramanian Ramanujan
all’improvviso si era aperto con me,
adesso che eravamo tornati al
problema di scrivere delle lettere si
era richiuso in se stesso. Era
affascinante da osservare questa
chiusura, simile a quella di quei
fiori che chiudono i loro petali di
notte. «Puoi dire a Subramanian
che mi hai convinto a scrivere ai
miei» disse. Una richiesta molto
astuta, come noterete, perché non
contiene alcuna promessa. La misi
nella mia risposta, parola per
parola. Se poi abbia scritto ai
familiari, non lo so davvero.
Eravamo in ottobre. Per qualche
tempo Ramanujan scomparve.
Andò in un sanatorio chiamato
Hill Grove, vicino a Wells, sulle
Mendip Hills. Era un istituto
diretto da un certo dottor Chowry-
Muthu, che Ramanujan aveva
conosciuto quando era arrivato in
Inghilterra dall’India; vi si
curavano soprattutto pazienti
indiani affetti da tubercolosi. Ma a
Ramanujan il posto non piaceva, e
quando Chatterjee e Rao andavano
a trovarlo non faceva che
lamentarsi. A quanto pare il dottor
Chowry-Muthu impiegava metodi
di cura alquanto curiosi, uno dei
quali era far indossare ai pazienti
degli inalatori simili a maschere
che contenevano germicidi. Li
costringeva a partecipare a esercizi
di canto e a segare legna in un
laboratorio. Gli “chalet” in cui
vivevano erano baracche
rudimentali. Né Ramanujan aveva
qualcosa di buono da dire sul cibo
o sui letti. Per peggiorare le cose,
Ramanujan era in uno stato di
forte agitazione, mi disse Ananda
Rao, perché sapeva che molto
presto al Trinity avrebbero deciso
se sarebbe stato eletto per una
fellowship. Come ho accennato in
precedenza, fin dalla primavera del
1916 Ramanujan stava cercando di
indurmi a rassicurarlo che questa
elezione, come gli aveva
stupidamente assicurato Barnes,
era un fatto compiuto. Ma ormai
Barnes se n’era andato,
lasciandomi la responsabilità di
cercare di far passare l’elezione. Il
problema era, sospettavo – a
ragione come poi risultò – che, a
dispetto di quanto aveva detto
Barnes, Ramanujan non sarebbe
stato votato.
Ripensandoci, capisco che molto
di ciò che accadde fu colpa mia.
Non avrei dovuto essere io a
proporre la sua candidatura per
l’elezione. All’epoca infatti ero a dir
poco impopolare al Trinity, a causa
della mia militanza a favore di
Russell. Soprattutto tra la vecchia
guardia, c’erano uomini che si
sarebbero opposti a qualsiasi
candidatura io avessi proposto, per
quanto valida potesse essere. E non
possiamo neppure sottovalutare la
diffidenza, l’odio persino, che la
semplice vista della pelle scura può
scatenare nell’uomo bianco.
Camminando per strada con lui,
mi era capitato di sentire dei
ragazzi chiamare Ramanujan, con
perfetta tranquillità, “negro”.
Infine, alla riunione per decidere le
fellowship, Jackson – con la stessa
tranquillità – giurò che finché lui
era vivo il Trinity non avrebbe
avuto dei “fellow negri”. La sua era
una farneticazione da tiranno e
Herman, bisogna rendergliene
atto, lo rimproverò aspramente.
Ma alla fine, quando si trattò di
votare, Ramanujan perse.
Ora mi chiedo: lo sentì accadere,
Ramanujan, su a Hill Grove, uno
strattone alla lenza che attraversava
il paese, attraversava valli e fiumi,
per collegare un indiano malato
con la sala del Trinity in cui i don
si erano riuniti per decidere il suo
destino? In quella stessa sala, solo
pochi mesi prima, era stato deciso
l’allontanamento di Neville. E
sicuramente Ramanujan dovette
pensare a Neville, quel pomeriggio,
mentre sedeva su una delle
verande dell’Hill Grove, avvolto
nelle coperte, con l’odiata
maschera sul viso. Aspettava –
speranzoso – un telegramma. Ma
non ne arrivò nessuno. Non potevo
dirgli, come avrei voluto, che
adesso era un fellow, così non gli
dissi niente.
Il giorno dopo lasciò il sanatorio.
Prese un autobus da Wells a
Bristol, dove prese un treno per
Paddington. Probabilmente ci
furono dei ritardi: il servizio
ferroviario all’epoca veniva
interrotto di continuo, perché
sempre più carrozze venivano
requisite per scopi bellici. Ma alla
fine Ramanujan arrivò, e da
Paddington si recò
immediatamente – solo due
fermate sulla linea Bakerloo – alla
pensione di Mrs. Peterson, a
Maida Vale. Era una di circa una
dozzina di case più o meno
identiche, disposte intorno a uno
stretto rettangolo di giardino,
dietro la stazione di Maida Vale.
Chiunque di voi abbia trascorso
qualche tempo a Londra conoscerà
la tipologia di questi posti: l’atrio
con il suo attaccapanni e il
telefono, il salotto formale, le scale
ricoperte dalla guida che salgono
verso le stanze degli inquilini, le
porte contrassegnate come “Sala da
pranzo” e “Privato” e “Cucina”. La
sola cosa che rendeva unica la
pensione di Mrs. Peterson era che
la sua clientela era costituita
interamente da indiani. Non era
una cosa che lei avesse pianificato,
mi spiegò quando andai a farle
visita nel 1921; dopo che suo
marito era rimasto ucciso in un
incidente tranviario, aveva dovuto
trovare un modo per sbarcare il
lunario, così aveva aperto la
pensione, e si dà il caso che il
primo cliente fosse un indiano.
«Mr. Mukherjee» mi disse.
«Studiava economia. Mi scrive
ancora, da Poona. E il posto gli
piacque, così ne parlò agli amici, e
si sparse la voce.»
Era un piovoso pomeriggio
d’aprile quando Mrs. Peterson me
lo raccontò. Eravamo seduti nel
suo tragico salotto, con le sue
poltroncine rigide, le statuette di
Meissen e la carta da parati
floreale; una stanza divenuta
soffocante per la sua stessa
protezione, per il fatto di essere
stata riservata, così a lungo, a
occasioni cerimoniali che non si
sarebbero mai verificate: una visita
della famiglia reale, una veglia
funebre. Di quando in quando,
suppongo, veniva a farle visita
qualcuno che lei si sentiva
obbligata a intrattenere in un posto
diverso dalla cucina, e a quel punto
le tende venivano tirate, i
pavimenti lavati e i fiori freschi
disposti sul tavolo, col risultato che
l’atmosfera della stanza si
risollevava un po’. Una giovane
donna grassa, che ritenni essere la
figlia di Mrs. Peterson, portò
l’immancabile tè. Mrs. Peterson
però non era grassa; era una donna
piccola e ben proporzionata sui
sessantacinque anni, che aveva
subito molte perdite: due figli
morti in guerra, oltre al marito.
«Dopo Mr. Mukherjee ci fu Mr.
Bannerjee, e Mr. Singh, e due Mr.
Rao.» Annuii, mentre un indiano
in abito a scacchi e turbante si
toglieva silenziosamente il cappotto
nell’atrio, lo appendeva
all’attaccapanni e saliva le scale.
Parlammo di Ramanujan. A
Mrs. Peterson vennero le lacrime
agli occhi mentre mi raccontava
delle sue prime visite, la silenziosa
gratitudine che le esprimeva
quando lei gli serviva la cena e
vedeva che si trattava di piatti
familiari. «Perché, capisce, ho
dovuto imparare a cucinare cibi
indiani, per amore dei miei
gentiluomini» disse. «Fu Mr.
Mukherjee che mi insegnò a
preparare le cose che gli piacevano.
Mi indicò i negozi dove potevo
procurarmi gli ingredienti. E
poiché volevo che fosse a suo agio,
lo accontentai, anche se all’inizio il
cibo mi sembrava un po’ strano.
Sono un’allieva modello in cucina.»
Posò la sua tazza. «Volevo solo far
contenti i miei gentiluomini. È
questa la cosa triste. Ero così
affezionata a Mr. Ramanujan.
Sembrava così solo in Inghilterra.
Le ultime volte che venne da me
sembrava così malato. C’era una
stanza che preferiva alle altre, una
stanzetta all’ultimo piano, e
cercavo sempre di sistemarlo lì.»
Chiesi se potevo vedere la
stanza. «Certamente» disse Mrs.
Peterson, e mi guidò su per le
scale, oltre il primo piano, dove i
pensionati permanenti vivevano in
suite più grandi, fino all’attico con i
suoi soffitti bassi e i suoi spazi
ristretti. Un tempo, questi erano
stati gli alloggi della servitù. La
stanza che mi mostrò era sotto il
tetto, intima e ordinata, con una
piccola scrivania accanto alla
finestra e un letto contro la parete
sotto il soffitto inclinato. La vista
dava su altri tetti. La carta da
parati, di rose rampicanti, faceva a
pugni con la moquette, che era
marrone scuro con disegni di
esagoni intrecciati. Eppure era una
stanza accogliente, una stanza
calda: io stesso ci avrei dormito
volentieri.
«Mr. Ramanujan era felice qui»
disse Mrs. Peterson, mentre mi
precedeva da basso. «So che era
felice.» E io pensai, sì, lei è il tipo di
persona che riesce a capire queste
cose. Io no. «Per questo mi ha
colto di sorpresa ciò che è successo.
Non me lo sarei mai aspettato. Sa,
sto sempre molto attenta a quello
che do ai miei signori. Tengo
persino una serie diversa di pentole
in cui cucinare i pasti, per quelli
che non mangiano carne. Non mi è
mai venuto in mente di guardare
l’etichetta sulla lattina di Ovaltine.»
«Non si preoccupi, nessuno
pensa che lei volesse fargli del
male» dissi. «E Ramanujan era gia
piuttosto teso, diciamo, a quel
punto.»
«Tuttavia mi rincresce. Lo
ricordo come fosse ieri… lui seduto
a tavola in cucina e io che
mescolavo il bicchiere. Pensavo che
sarebbe stata una delizia per lui,
prima di ritirarsi. “Prenda un
bicchiere di questa Ovaltine, Mr.
Ramanujan” dico io, “è un
sostituto del latte” e lui prende il
bicchiere e beve. “Le è piaciuto,
Mr. Ramanujan?” dico io.
“Altroché, Mrs. Peterson” dice lui.
“Bene, ecco la lattina, così può
scriversi il nome” gli dico, “e poi se
la può comprare da solo a
Cambridge.” “Grazie” dice lui e si
mette a leggere l’etichetta…»
Tacque e le vennero di nuovo le
lacrime agli occhi. «Non c’è
bisogno che continui» le dissi,
perché avevo già saputo il seguito
della storia dagli amici di
Ramanujan. Sapevo che,
nell’esaminare la lattina, gli capitò
di guardare la lista degli
ingredienti, e vide che uno di
questi erano uova in polvere. Le
uova, naturalmente, gli erano
proibite. Mangiare uova era
altrettanto impuro che mangiare
carne.
Allora, credo che abbia perso la
testa. Balzando in piedi, gridò:
«Uova, uova!» e lanciò la lattina a
Mrs. Peterson come se non
sopportasse neppure di toccarla.
Quando lesse la parola “uova”,
Mrs. Peterson rimase sbigottita.
«Lo rincorsi» mi disse, «gli assicurai
che non mi sarei mai sognata di
dargli delle uova, e che mi
dispiaceva tantissimo, ma lui non
mi diede retta. Adire la verità non
so nemmeno se mi sentì. Salì nella
sua stanza, e mentre io restavo
sulla porta a scusarmi e a cercare di
calmarlo lui fece la valigia. Lo
seguii in fondo alle scale. Cercò di
darmi del denaro, ma non lo
accettai. “Mr. Ramanujan!” gli
gridai dalla porta mentre lui
scendeva lungo il vialetto: stava
correndo, e non doveva fargli
bene. “Mr. Ramanujan, dove
andrà adesso?” Erano le nove di
sera, capisce. Ma lui non rispose.»
Si asciugò gli occhi. «Quella fu
l’ultima volta che lo vidi.»
Mrs. Peterson posò la sua tazza.
Guardò al di sopra della mia testa,
la mensola del camino con le sue
statuine in bella mostra. «Non è
colpa sua» le dissi. «Si ricordi, era
molto malato, e probabilmente un
po’ fuori di testa.» Al che avrei
potuto aggiungere: chi può
fargliene una colpa, dopo tanti
mesi di malattia, e il fatto di non
essere stato eletto per la fellowship,
e la guerra, e i problemi a casa? Un
uomo da cui pendevano decine di
ami, come un grosso pesce che è
sfuggito più volte alla cattura, e
sfreccia attraverso Baker Street col
veleno sulle labbra. Dov’era
diretto? Alla stazione di Liverpool
Street, mi disse in seguito. Voleva
tornare a Cambridge. Era la notte
del 19 ottobre 1917, e Londra era
calma. Era talmente tanto tempo
che non c’erano incursioni aeree
che quando la flottiglia di Zeppelin
sorvolò la Manica e cominciò a
sganciare il suo carico nessuno era
preparato. La reazione fu
stranamente blasée; in due teatri le
rappresentazioni furono sospese, il
pubblico fu informato che poteva
andarsene se voleva, ma che, una
volta finito il raid, lo spettacolo
sarebbe andato avanti. Frattanto le
bombe caddero sulle strade, le
finestre andarono in frantumi,
alcune persone restarono uccise
fuori da Swan & Edgar’s. Ma, come
sembrava accadere spesso a quei
tempi, la maggior parte dei morti
erano bambini poveri,
addormentati nelle casette degli
operai.
E Ramanujan? Da quanto mi
raccontò in seguito, stava giusto
uscendo dalla metropolitana
quando udì le esplosioni. Poiché
sapeva che Liverpool Street era
stato uno dei bersagli preferiti dei
tedeschi in passato, non tornò nella
stazione. Corse invece nella
direzione opposta. Alzò gli occhi,
ma non riuscì a vedere gli
Zeppelin. Erano troppo alti, e
oscurati dal fumo. Se fossi stato al
suo posto, mi sarei chiesto cosa
stava pensando il pilota, mentre
guardava giù da quella immensa
pillola che galleggiava sopra le
fiamme astratte. Che suono ha la
carneficina dall’alto? Che aspetto
ha? Presto avrebbe fatto
dietrofront, avrebbe sorvolato il
canale silenzioso, sospeso
pacificamente tra le stelle, solo per
essere a sua volta abbattuto sopra
la Francia. Ma Ramanujan non
pensava al pilota. Aveva solo un
pensiero in testa: le uova in
polvere. L’impurità sulla sua
lingua. Aveva fatto
l’imperdonabile, e adesso gli dei
stavano impartendogli la
punizione. Il raid aereo non era
destinato a Londra: era destinato a
lui. Così si mise al riparo, e pianse,
e implorò pietà, se non in questa
vita, almeno nella prossima.
Questo, almeno, è quanto
affermava. In seguito scrisse una
lettera a Mrs. Peterson descrivendo
ciò che era successo. Lei mi mostrò
la lettera. Mentre la leggevo, mi
chiesi fino a che punto era
credibile. Ma ormai avevo stancato
abbastanza quella povera signora
per un giorno solo, inoltre mi
sembrava inutile interrogarla sugli
scrupoli religiosi di Ramanujan.
Così mi alzai e mi accomiatai, e,
proprio come qualche anno prima
aveva guardato Ramanujan
scappare via, adesso Mrs. Peterson
guardò me che m’incamminavo
verso la stazione della
metropolitana. Quando mi girai a
guardare, era ancora ferma sulla
porta. Il sole stava tramontando.
Incrociai un altro indiano sul viale,
e lei si scostò per farlo entrare,
prima di girarsi e chiudersi la porta
alle spalle.
NONA PARTE

Crepuscolo
1

Hardy detesta i telefoni. Li ha


sempre detestati. Per tutto il primo
anno in cui divisero l’appartamento
di Pimlico, lui e Gertrude non
avevano il telefono. Ma poi la
madre si ammalò e Gertrude
insistette per farne installare uno,
in modo che la cameriera potesse
trovarla in caso di emergenza. E,
dopo la morte della madre, non
fece rimuovere l’odioso
apparecchio, nonostante non ci
fosse più motivo di tenerlo. Adesso
troneggia in corridoio sul suo
tavolino; ridicolo, pensa Hardy,
che sia stato inventato un mobile al
solo scopo di sostenere un aggeggio
del genere. Sebbene non squilli
mai, sembra sempre molto ansioso
di farlo. Hardy non ha dato il
numero a nessuno, eccetto Thayer,
che non lo ha mai usato.
E così, quando il nero
marchingegno comincia a strillare,
quel martedì pomeriggio d’ottobre,
il primo pensiero di Hardy è che
sia scattato un allarme o una specie
di sirena. Forse sta per arrivare
un’incursione aerea. Una volta
identificata la fonte del rumore, gli
viene in mente che fino a questo
momento nessuno gli ha mai
telefonato nell’appartamento. Non
ha mai sentito la vocetta terribile di
quell’aggeggio, così frenetica nella
sua urgenza. Precipitatosi in
corridoio, guarda l’apparecchio. È
infervorato come un gatto in
calore. Vibra. Se non altro per farlo
tacere, Hardy alza il ricevitore.
La voce all’altro capo è maschile,
rauca e strepitante. Hardy capisce a
malapena quel che dice. Intere
parole non arrivano a destinazione:
«Professor Hardy? Qui è
[inudibile] Scotland Yard». Ma
perché mai dovrebbe chiamarlo
Scotland Yard? «[Inudibile] sua
sorella.»
«Mia sorella?»
«Trinity College [inudibile] sua
sorella e sua sorella ci ha dato
questo numero. Mi duole dirle
[inudibile] in arresto.»
«Cosa?»
La voce ripete le parole mutilate.
Lui le ripete a sua volta. Solo dopo
averle ripetute per la terza volta,
Hardy si rende conto che la voce
sta cercando di pronunciare
“Ramanujan”.
«In arresto? Perché?»
«Non posso [inudibile] per
telefono, signore. Con tutto il
rispetto, devo chiederle di venire a
Scotland Yard poiché [inudibile] ci
ha dato il suo nominativo e
[inudibile].»
«È stato arrestato?»
Hardy non riesce a capire la
risposta. Abbassa il ricevitore, si
mette cappotto e cappello e scende
a prendere un taxi. Cosa diavolo è
successo? si chiede, mentre il taxi
lo porta oltre la folla,
precipitandosi alla Victoria Station.
L’ultima volta che lo ha sentito,
Ramanujan era in un sanatorio di
campagna. Cosa è venuto a fare a
Londra? E cosa può aver
combinato per farsi arrestare dalla
polizia? Molestie: è il primo
pensiero che viene in mente a
Hardy. All’improvviso immagina
Ramanujan in uno dei famigerati
bagni pubblici vicino a Piccadilly
Circus, quelli di cui gli ha parlato
Norton, ma che non ha mai osato
visitare. È solo perché il suo
desiderio lo ha attirato spesso nei
pressi di quei vespasiani che vede
Ramanujan in uno di essi, che
allunga una mano sui pantaloni di
un agente in borghese? Ma no. È la
trama sbagliata. E allora cos’altro
può aver fatto? Ramanujan in
passato è gia fuggito, più
precisamente durante la cena che
aveva dato nelle sue stanze. Può
essere che il sanatorio abbia
diramato un bollettino?
Ramanujan è un fuggitivo? La
legge proibisce di fuggire da posti
del genere? Oppure se n’è andato
di sua volontà, ha finito i soldi ed è
stato arrestato per vagabondaggio?
O è finito in una rissa? E per cosa?
Per i numeri altamente composti?
Guarda fuori dal finestrino. Ha
incominciato a cadere una neve
leggera. In Parliament Square una
donna si toglie il cappello e alza il
viso verso i fiocchi. Gli sorride –
Hardy ricambia – poi la donna
scompare e il taxi imbocca Bridge
Street, poi Victoria Embankment,
dove si ferma davanti alla sede di
Scotland Yard. Fa davvero troppo
caldo per la neve; i fiocchi simili a
piume si sciolgono appena toccano
terra. Hardy comunque si rialza il
bavero del cappotto e, dopo aver
pagato il tassista, si affretta a
entrare nella fortezza di mattoni
con le sue torrette e i fregi
medievali. I corridoi sono ampi e
illuminati a giorno. Dice a una
donna poliziotto il motivo per cui è
venuto e lei gli indica un’enorme
sala d’attesa. Qui Hardy vede una
prostituta imbellettata e un soldato
ubriaco. Ci sono uomini che si
agitano e uomini che si guardano
le scarpe in silenzio. Ci sono donne
rette e orgogliose che assomigliano
alle domestiche della sua infanzia,
mogli e madri indubbiamente,
convocate per riportarsi a casa
mariti e figli scioperati. Uno degli
uomini irrequieti parla da solo. La
puttana imbellettata parla con tutti.
L’aria puzza di birra e frutta marcia
e, in lontananza, Hardy sente
qualcuno che tossisce.
Che razza di posto! Sempre
timoroso dei germi, Hardy pulisce
il sedile prima di accomodarsi e
tiene il bavero rialzato fino alla
bocca. Si meraviglia dello strano
corso che ha preso la sua vita negli
ultimi anni: che una lettera che
avrebbe potuto facilmente
ignorare, come altri l’avevano
ignorata, lo abbia strappato alla
sicurezza dei suoi appartamenti al
Trinity per portarlo in questo
posto.
Aspetta. Passano ore. Nessuno
chiama il suo nome. Per far passare
il tempo, ascolta il monologo della
prostituta, che è stranamente
avvincente: elaborato, sagace e
pieno di riferimenti a uomini e
donne che lei dà per scontato che
tutti i presenti conoscano. Gli
ingredienti sono quelli di un
romanzo: una sorella gelosa, un
marito infedele, un amante
sposato. «“Tienitelo per te, Jack” gli
dico, “non voglio aver niente a che
fare con questa storia.” Ma credete
che lui ascolti? Macché. È proprio
uguale ad Annie, lo è sempre stato,
deve fare di testa sua…»
La storia sta arrivando alla sua
conclusione quando la donna
poliziotto entra a grandi passi e
grida un nome. «Un po’ di
pazienza» dice la puttana e,
sistemato il suo armamentario –
calze, borsetta, collana –, si
allontana rumorosamente sui
tacchi a spillo. E com’è silenziosa
all’improvviso la stanza! Aparte i
colpi di tosse, Hardy non sente che
il borbottio dell’uomo che si agita.
Ma cosa sta dicendo? Hardy tende
l’orecchio e riesce a cogliere solo
una parola – “burro” – poi sente il
suo nome. «Per favore mi segua»
dice la donna poliziotto e lui si alza
e la segue giù per un lungo
corridoio, in un ufficio senza
finestre dove ci sono due seggiole
davanti a una scrivania alla quale
non siede nessuno. «Per favore
aspetti qui» gli dice l’agente.
«L’ispettore sarà qui tra breve.»
E si chiude la porta alle spalle.
Hardy si guarda intorno. Le pareti
sono spoglie tranne che per un
calendario e un orologio a muro
che ticchetta rumorosamente. Tic
tac. Perché non si è portato
qualcosa da leggere? Dov’è la
toilette? All’improvviso teme che
l’agente abbia chiuso la porta a
chiave, chiudendolo dentro. L’idea
lo mette in agitazione. “Caro Dio,
fa’ che la porta sia chiusa a chiave
in modo che la prostituta non mi
molesti.” Poi si alza, va alla porta e
prova la maniglia. Con suo grande
sollievo, la porta si apre. La
richiude e si rimette a sedere.
Dieci minuti dopo, due poliziotti
entrano nell’ufficio, entrambi
grossi e baffuti, uno sui
sessant’anni e l’altro sui
venticinque al massimo. «Scusi se
l’abbiamo fatta aspettare» dice il
più anziano. «Sono l’ispettore
Callahan. Questo è l’agente
Richards.» Hardy stringe le loro
mani enormi. Poi l’ispettore si
siede alla scrivania e l’agente si
sistema sulla terza seggiola, vicino a
quella di Hardy. «Ha cercato di
buttarsi sotto un treno» dice
l’ispettore, aprendo un registro.
«Cosa?»
«L’indiano. Ha cercato di
buttarsi sotto un treno alla stazione
di Marble Arch.»
«Oh mio Dio.» Hardy si zittisce.
Dio non è esattamente la persona
che vuole nominare davanti a
questi uomini. «Ma perché? Si è
buttato? Non è caduto?»
«Ci sono testimoni. La stazione
era affollata. Una donna ha
gridato: “Non si butti!” e lui si è
buttato.»
«Ma adesso sta bene?»
«Sì, sta bene» dice il poliziotto
più giovane, quello di nome
Richards. «Io sono l’ufficiale che è
stato chiamato sulla scena. Da
quanto mi dicono i testimoni,
signore, il capostazione, vedendolo
saltare, ha spento l’interruttore, e il
treno si è fermato a pochi passi da
lui. È stato un miracolo, ha detto
una donna. Ho dovuto calarmi
sulle rotaie e aiutarlo a risalire; il
che non è stato facile, dato che si è
ferito gravemente le gambe.»
«Dov’è adesso? Posso vederlo?»
«È in una cella di detenzione»
dice l’ispettore. «Lo abbiamo fatto
medicare. Di regola in casi del
genere sarebbe in ospedale sotto
sorveglianza. Ma non ci sono
abbastanza letti. Questa maledetta
guerra.» L’ispettore si accende una
sigaretta. «Sarò onesto con lei, non
li sopporto questi aspiranti suicidi.
Vogliono solo attenzione. Sono
come bambini viziati. E se si pensa
a tutti i giovani che muoiono al
fronte… È un crimine, sa, il tentato
suicidio. Nessun magistrato lo
considererà con indulgenza,
soprattutto di questi tempi.»
«Ma lui non sta bene.»
«Il suo comportamento è stato
strano negli ultimi tempi?» chiede
il poliziotto più giovane.
«Non saprei dirlo. È molto che
non lo vedo. È stato in un
sanatorio. È molto malato.»
«Cos’è, uno studente di
matematica?»
«È il più grande matematico
vivente, e anche un FRS, Fellow
della Royal Society.»
Cosa lo ha indotto a dirlo, si
chiederà Hardy in seguito? È una
bugia. Ramanujan non è un
membro della Royal Society. Né,
fino a quel momento, a Hardy è
mai venuto in mente che forse
dovrebbe esserlo; che avrebbe
dovuto proporlo per l’ammissione.
Se Hardy avesse pensato prima di
parlare, in seguito avrebbe potuto
dire che la sua era stata solo una
mossa azzardata, nella speranza
che l’ispettore rimanesse
abbastanza colpito dall’idea che
Ramanujan era un FRS da lasciarlo
andare. E in effetti l’ispettore
rimase colpito, e anche il suo
aiutante. Ma fu un puro colpo di
fortuna. «Un FRS» disse, e si poteva
leggerglielo in faccia: un passo
indietro, in ossequio alla
superiorità intellettuale sancita da
un’istituzione rispettata. «Non lo
sapevo. Ci ha detto solo che era a
Cambridge. Bene, bene.»
«Come ho detto, è stato
piuttosto male ultimamente. E poi
si sa, i geni hanno sempre la
tendenza a essere… balzani,
diciamo.»
«Naturalmente, se dovrà
comparire davanti a un magistrato,
verranno formulate delle accuse.»
«È proprio necessario? Sarebbe
molto imbarazzante… non solo per
lui, ma anche per il College. E
sarebbe disastroso per il suo futuro.
Una fedina penale sporca.» Hardy
sussurra confidenzialmente: «Che
rimanga tra noi, perché non è cosa
che vogliamo diventi di pubblico
dominio – i giornali e via dicendo
– ma Mr. Ramanujan è in procinto
di fare quella che potrebbe essere
considerata da molti la più
importante scoperta nella storia
della matematica».
«Dice sul serio? Bene, vediamo
cosa si può fare. Dovrò parlare col
capo, naturalmente.»
L’ispettore esce, sbattendo la
porta.
«Le va una tazza di tè?» chiede
Richards.
«Sì, grazie» dice Hardy.
«Chiederò a Florence di
portarcelo. Florence!» E grida
attraverso la porta aperta,
chiamando la donna poliziotto con
cui Hardy ha parlato all’inizio. Lei
entra di soppiatto, con l’aria offesa,
col suo cappello a bombetta, la
lunga gonna nera e la cravatta
sottile. Un rappresentante della
legge, requisito per preparare il tè.
«Può portarci del tè, cara?»
La donna non dice niente;
scompare in fondo al corridoio.
Richards accosta la porta. È la
prima volta che Hardy ha la
possibilità di guardarlo per bene. I
baffi sono un peccato, perché gli
nascondono le labbra, che sono
sottili e umide. I suoi occhi
marroni sono spalancati e curiosi
sotto le sopracciglia sottili e una
massa di folti capelli scuri.
Sorridendo, si mette a sedere; dice
a Hardy: «Questa scoperta di cui
parlava… non mi dispiacerebbe
affatto sapere di cosa si tratta. Mi
ha sempre interessato la scienza. E
le assicuro che sarò una tomba».
Hardy si sporge per la
confidenza. E pensa: caspita, è
proprio giovane questo Richards.
Allora come mai non è in Francia?
Una lesione? Buoni contatti? O è
semplicemente fortunato, tenuto
lontano dalla guerra per pattugliare
le strade di Londra?
«Mr. Ramanujan è prossimo a
dimostrare l’ipotesi di Riemann»
dice Hardy.
«L’ipotesi di…»
«Ha a che fare con i numeri
primi. Sa, per centinaia di anni i
matematici si sono interrogati sui
numeri primi e la loro
distribuzione.» Sembra la lezione
che tenne per le allieve della St.
Catherine’s. Solo che Richards
ascolta più attentamente di quanto
avevano fatto le ragazze. Si irrita
quando Florence li interrompe con
il tè, ogni tanto blocca Hardy per
fare delle domande, e sembra sul
punto di afferrare l’essenziale,
quando la voce dell’ispettore
rimbomba di nuovo in corridoio.
Al primo scatto della maniglia,
Richards si ritrae all’istante, quasi a
mettere una distanza di sicurezza
tra sé e Hardy. E come è immensa,
sgraziata e fuori luogo la presenza
dell’ispettore! Era la sua, si rende
conto Hardy, la voce che abbaiava
al telefono. «Allora, ho parlato con
il capo» dice prendendo posto alla
scrivania, «ed è del parere, come
me del resto, che il tentato suicidio
sia un reato grave. Attenzione, se
lo ha fatto una volta potrebbe farlo
di nuovo, capisce? C’è un motivo
se in questo paese è considerato un
crimine: è per proteggere il
pubblico e proteggere da se stesso
un uomo che potrebbe ammazzarsi
in qualsiasi momento.» L’ispettore
si sfrega il naso, facendo tremare i
baffi. «Tuttavia, il capo capisce la
delicatezza della situazione e così,
data la reputazione di questo
signore e il suo status di FRS e via
dicendo, siamo disposti a non
formulare accuse a suo carico, a
patto che entri immediatamente in
un ospedale e ci rimanga per
almeno un anno. Lei ha detto che
è malato, che è stato in un
sanatorio.»
«Sì. Tubercolosi.»
«Bene, lo riporti al sanatorio. E
si assicuri che non scappi. Perché
se lo troviamo a passeggiare per le
strade di Londra, o sul bordo di
una piattaforma della
metropolitana, non ci sarà nessuna
indulgenza.»
«Capisco. Posso vederlo
adesso?»
«Richards, va’ a prenderlo.»
«Sì, signore.» Richards balza
dalla sedia ed esce.
«Sigaro, Mr. Hardy?» chiede
l’ispettore. Hardy declina. «Bene,
vuol dire che fumerò da solo.» E si
accende il sigaro, allungando le
gambe sotto la scrivania. «Un
matematico eh?» dice.
«Proprio così.»
«Bah, io ero un disastro in
matematica. Da ragazzo non
riuscivo a fare due più due. Ancora
adesso, per la verità. Mia moglie
non mi lascia neanche avvicinare ai
libri contabili.» Ride.
«Naturalmente, suppongo che lei
potrebbe assommare numeri di
cinque cifre mentalmente in mezzo
minuto.»
«No, come la maggior parte dei
matematici di professione, sono di
un’incapacità abissale in quello che
lei chiama“assommare”. Ma
Ramanujan potrebbe farlo.»
«Ah sì?»
«È famoso per le sue imprese di
aritmetica mentale. Una volta
abbiamo organizzato una gara, tra
lui e il maggiore MacMahon, per
vedere chi scopriva un numero
primo in meno tempo.»
«Un che cosa?»
«Un numero primo. Un numero
che…» Ma prima che possa
completare la sua spiegazione la
porta si apre, e Richards fa entrare
Ramanujan, che zoppica
malamente. Ha entrambe le gambe
fasciate e Richards lo sorregge
tenendogli un braccio intorno alla
vita.
«Ramanujan!» dice Hardy,
balzando su dalla seggiola. Ma
Ramanujan non risponde. Evita lo
sguardo di Hardy. E di colpo
Hardy si rende conto che tutte
queste amenità – spiegare l’ipotesi
di Riemann al bel Richards, parlare
di gare di calcolo col meno
attraente ispettore Callahan – sono
state solo una cesura, una tregua.
Perché adesso Ramanujan è
davanti a lui, e nei suoi occhi non
ci sono lacrime. Non c’è rabbia.
Non c’è dolore. Non c’è niente.
Questo è un uomo che ha appena
cercato di morire.
«Ecco fatto, Mr. Hardy» dice
Richards. «Siamo a posto.» E gli
consegna Ramanujan come un
pacco. Un braccio libero, un altro
braccio intorno alle spalle di
Ramanujan, che si regge in piedi a
malapena; per un momento Hardy
barcolla sotto il peso finché i suoi
piedi non trovano un punto
d’appoggio. Ramanujan ha un
leggero odore di sangue; di sabbia;
della brecciolina e dei fumi di
scarico che si levano nelle stazioni
della metropolitana.
«Bene, amico mio, sei al sicuro
ora» dice Hardy. «Adesso
prendiamo un taxi e ti portiamo a
casa.» E guida Ramanujan verso la
porta, pregando per tutto il tempo
che Ramanujan dica o faccia
qualcosa di folle – si metta a
gridare “Voglio morire!” o si butti
contro il muro – qualcosa che
metta a repentaglio questa tenue
libertà vigilata che Hardy è riuscito
a negoziare. Ma Ramanujan non
dice niente.
«Si ricordi le condizioni» grida
l’ispettore dalla porta. E Hardy dice
che sì, ricorderà le condizioni. Poi
lui e Ramanujan se ne vanno,
seguiti da Richards, che li aiuta a
scendere gli scalini e a salire su un
taxi, e resta a guardare mentre il
taxi si allontana.
2

Solo una volta che sono sul taxi, e


procedono contromano sul
Victoria Embankment, Hardy si
rende conto di non avere un posto
dove portare Ramanujan, a parte il
suo appartamento. È troppo tardi
per prendere un treno per
Cambridge, né, date le circostanze,
Hardy può immaginare di scaricare
Ramanujan nella pensione di Mrs.
Peterson.
Per tutto il tragitto Ramanujan
rimane in silenzio. La neve ha
cominciato ad attecchire. Hardy la
guarda cadere su donne in
uniforme e impermeabile da
bigliettaie di bus, su uomini d’affari
in bombetta, su soldati in licenza e
sulla prostituta che era nella sala
d’attesa di Scotland Yard e che
adesso si ripara sotto un ombrello
che le tiene aperto un portiere. In
questi giorni Londra è
particolarmente frenetica al
crepuscolo, i suoi abitanti si
affannano per tornare a casa prima
che si spengano le luci, e diventi
un mondo diverso. «Una volta ero
a Venezia» dice Hardy, e
Ramanujan si gira e lo guarda con
occhi vuoti. «Sì, e fu piuttosto
terrorizzante. Sai, la città era così
vivace durante il giorno, e poi, la
sera, neanche un’anima. Mi persi
cercando di tornare in albergo. Era
come camminare in una città di
morti.»
Chissà se è la cosa sbagliata da
dire? È probabile. Infatti, come
dovrebbe reagire, Ramanujan, che
non è mai stato a Venezia? E cosa
dovrebbe dirgli Hardy, adesso che
il taxi sta rallentando, nel traffico
che a momenti scorre e a momenti
si addensa, come una minestra che
ha bisogno di essere mescolata?
Non vede l’ora di arrivare in St.
George Square, almeno potrà
occuparsi dei preparativi per la
notte! E poi guarda Ramanujan,
rincantucciato in un angolo del
taxi, e capisce che non fa nessuna
differenza. Ramanujan non gli sta
chiedendo di parlare. Anzi, sembra
desiderare il silenzio.
Finalmente il taxi accosta al
marciapiede. Hardy aiuta
Ramanujan a scendere, ed è
lievemente sorpreso che non tenti
di fuggire, finché abbassa gli occhi
e vede ancora una volta le gambe
fasciate, e capisce che, anche
volendo, Ramanujan non potrebbe
allontanarsi. Non ora. «Ti sei
ammaccato per bene» gli dice,
mentre lo aiuta a entrare e a salire
le scale.
«Sono caduto sulle rotaie» dice
Ramanujan. «Mi hanno lacerato i
muscoli delle gambe.»
«Dev’essere stato doloroso.»
«Non ci sono ossa rotte, però.»
C’è delusione nella sua voce?
Un pianerottolo, poi un altro.
«Eccoci arrivati.» Ed entrano
nell’appartamento. La luce è
rimasta accesa da quando Hardy è
uscito, il libro che stava leggendo è
aperto sulla poltrona, la cornetta
del telefono ciondola sul
pavimento del corridoio. Hardy la
rimette sulla forcella. «Siediti,
adesso.» Ramanujan si siede piano
piano, espira rumorosamente.
«Non sei mai stato qui prima, vero?
Nel mio appartamento.»
«No.»
«O meglio, dovrei dire
nell’appartamento che divido con
mia sorella. Miss Hardy.»
«Già.»
«Allora, c’è una stanza in più.
Quella di mia sorella. Stanotte puoi
dormire lì, e domani prenderemo il
treno per Cambridge.»
«Che ne sarà di me, adesso?
Dovrò essere rimandato a Hill
Grove?»
«Non vedo perché no, se ci stavi
bene.»
«No, non ci stavo bene. Non
sopportavo quel posto. Me ne sono
andato quattro giorni fa.»
«E sei venuto a Londra?»
Ramanujan annuisce. Ha
imparato a esprimere la certezza
alla maniera inglese. «All’inizio
stavo da Mrs. Peterson, ma poi c’è
stato… un incidente. Me ne sono
andato, e sono stato sorpreso da un
bombardamento. Non potevo
prendere un treno per Cambridge,
così ho trovato un albergo. Ci sono
rimasto finché ho finito i soldi.»
Tace di colpo. E cosa può fare
Hardy per farlo continuare? E
dovrebbe farlo continuare? Quanto
alla psiche umana – sarebbe il
primo ad ammetterlo – è lo
studioso più inetto che si sia mai
visto. Non per niente i matematici
vivono in regni astratti. Ma anche
Ramanujan è un matematico. È
questo che li ha avvicinati. Allora
perché non dovrebbero riuscire a
parlarsi?
«Naturalmente non sei costretto
a parlarne, se non lo desideri» dice
Hardy, «ma… insomma, inutile
dirlo, ero molto allarmato quando
l’ispettore mi ha detto… È vero che
ti sei buttato?»
Ramanujan resta a occhi bassi
per parecchi secondi. Poi dice:
«Non ha importanza».
«Perché?»
«Morirò presto in ogni caso.»
«Questo non puoi saperlo.»
«A Hill Grove c’era un vecchio
nella capanna accanto alla mia. Le
chiamano chalet, ma sono solo
capanne. Questo vecchio veniva da
un villaggio non lontano dal mio.
Non lontano da Kumbakonam. Si
era bagnato nel fiume ogni giorno,
come me, prima di venire in
Inghilterra. Per molti anni ha
avuto un ristorante a Notting Hill,
poi sono subentrati i suoi figli. Ma
litigavano sempre, ed è stato
venduto. Sono stati i litigi dei figli a
farlo ammalare, e loro lo hanno
mandato a Hill Grove. E ogni
giorno tossiva sangue e alla fine il
rumore che arrivava dalla sua
capanna era spaventoso.»
«Mi spiace.»
«Non importa. Il suo destino è
uguale al mio, solo che nel mio
caso si concluderà prima. Fin da
quando ero un bambino ho sempre
saputo che sarei morto giovane.
Non importa come.»
«Ma è una sciocchezza. Non c’è
ragione perché tu non possa
campare fino a ottant’anni. E ti
restano ancora tante cose da
realizzare! Abbiamo del lavoro da
fare, Ramanujan, il teorema delle
partizioni, l’ipotesi di Riemann
ancora da dimostrare.»
Ramanujan sorride debolmente.
«Sì, un po’ ci ho pensato all’ipotesi
di Riemann.»
«Davvero? Racconta.»
«Sono molto stanco adesso.»
«Ma certo. Scusami.» Hardy si
alza e va nel corridoio che dà adito
alle stanze. Apre la porta della
camera di Gertrude. «Dovresti
trovare tutto l’occorrente qui» dice.
«Però temo che il letto non sia
stato usato da parecchio tempo. Le
lenzuola potrebbero essere
umidicce.»
«Non m’importa.»
«Oh, ma non ti ho offerto
niente. Vuoi qualcosa da mangiare,
o da bere? Del tè?»
«No. Voglio solo dormire.»
«D’accordo. Vuoi fare un
bagno?»
Un altro reciso no con la testa.
Poi arranca attraverso la porta della
stanza di Gertrude; si toglie gli abiti
fino a restare in mutande. Solo
allora Hardy vede la gravità delle
sue ferite. Le bende gli coprono le
gambe dalle caviglie fin sopra il
ginocchio, e in alcuni punti sono
insanguinate.
«Quelle dovranno essere
cambiate.»
«Domani.» Ramanujan s’infila
nel letto. «Vedi?» dice, tirandosi le
coperte fin sotto il mento. «Ho
imparato. Quando sono arrivato
qui, non capivo i vostri letti.
Dormivo sopra le coperte e mi
imbottivo di maglioni e cappotti
per stare caldo. Poi Chatterjee mi
ha spiegato… che bisogna infilarsi
nel letto come una lettera dentro
una busta.» Ride. «Pensare che ero
così ignorante!»
«Ma quanto ci hai messo prima
di imparare?»
«Oh, mesi. Almeno fino a
novembre del primo anno.»
«Ma è terribile. Devi esserti
congelato!» E, senza pensarci,
Hardy si mette a ridere a sua volta.
Ridono insieme.
«È stato molto tempo fa.»
«Già. Bene, adesso ti lascio.
Buonanotte.» E fa per chiudere la
porta. Ma Ramanujan gli dice:
«Aspetta».
«Sì?»
«Ti spiace lasciare la porta
aperta?»
«No, certo. Lascerò la porta
aperta.»
«E la porta della tua stanza…
Potresti lasciare aperta anche
quella?»
«Ma certo. Dormi sodo.»
«Dormi sodo?»
«È un modo di dire. Ancora
buonanotte.»
«Ancora buonanotte.»
Hardy si gira ed è a metà strada
nel corridoio, a metà strada verso
la sua stanza, quando gli viene un
pensiero, e si ferma.
«Ramanujan.»
«Sì?»
«Non ci riproverai, vero?»
«No.»
«Bene, allora buonanotte,
ancora una volta.»
«Buonanotte, ancora una volta.»
Fuori dalla finestra, la città è
buia. Hardy entra silenziosamente
nella sua stanza, facendo
attenzione a lasciare la porta
socchiusa; si toglie i vestiti; resta,
per un momento, nudo al buio,
prima di mettersi il pigiama. Poi se
ne libera. Adesso correnti d’aria lo
collegano a Ramanujan, correnti
che trasporteranno ogni suono, i
gemiti d’intimità come quelli di
dolore; l’agitazione della
solitudine; il suo lieve russare. Il
sonno reclama il sofferente, lo
stesso oblio che, questa notte,
eluderà il suo salvatore putativo.
Hardy sente dei rombi in
lontananza, e si crogiola nella
sensazione poco nota della
corrente d’aria che dal corridoio gli
sfiora la pelle nuda.
3

«Bene, bene, bene.»


Sobbalza nel sentire la voce, la
sensazione di un peso che tira le
coperte. Gaye, in giacca e cravatta,
è seduto sul bordo del letto. Ha in
braccio Hermione. Con sua
sorpresa, Hardy è felice di vederlo.
«È da tanto tempo che non vieni
a trovarmi» dice.
«Impegni, impegni, impegni!»
dice Gaye. «Qui ogni settimana è la
settimana di maggio. Balli, balli, e
ancora balli. E ne hai fatta di
strada, Harold, dall’ultima volta
che ti ho visto!»
«Che vuoi dire?»
«Un altro suicidio al tuo attivo.»
«Tentato suicidio. E non è stata
colpa mia…»
«Mi correggo, tentato suicidio.»
Gaye accarezza il collo di
Hermione, e la gatta fa le fusa. «Il
mio ha funzionato, naturalmente.
D’altra parte non ho mai
desiderato il contrario. Sai, se
guardi attentamente, riesci quasi
sempre a capire la differenza tra
quelli che fanno sul serio e quelli
che vogliono solo un po’ di
attenzione. Raramente è ambiguo.»
«Non era ambiguo, nel tuo
caso.»
«No, io volevo morire. Sono
metodico, capisci. Ci ho pensato in
anticipo, e molto attentamente. Ho
fatto una lista di tutti i metodi
possibili, correlando la probabilità
di successo con il livello di dolore.
Sfortunatamente per me, ho paura
del dolore. Alcuni non lo temono.
Hermione, per esempio. Tu sei
stata una bambina coraggiosa,
anche nelle sofferenze della morte,
vero piccola?» E la solleva, in modo
che il nasino rosa tocchi il suo.
«Ma dov’ero rimasto? Ah, sì. Così
mi annotai tutte le opzioni. Fu
all’inizio di febbraio che cominciai
a progettarlo, quando ormai era
evidente che tu non volevi aver più
niente a che fare con me.»
«Ma io non ho mai…»
«Prima opzione, le pillole… Ora,
Harold, le pillole sono ottime in
quanto non provocano molto
dolore, d’altro canto però non sono
necessariamente garantite, quanto
al funzionamento. Se scegli quelle
sbagliate, finisce che vomiti e basta,
e anche se prendi quelle giuste c’è
sempre la possibilità che qualcuno
entri e ti trovi bocconi sul
pavimento e ti trascini in ospedale.
Quindi, via le pillole. Poi, i coltelli,
ma qui il fattore dolore è molto
alto, e poi è facile tagliarsi nei posti
sbagliati e finire vivi e mutilati; così
l’ho tagliato via dalla lista. Scusa,
non voleva essere un gioco di
parole.»
«Ti prego, smettila.»
«Poi ho pensato di buttarmi da
una finestra; è un metodo piuttosto
sicuro, se riesci a salire abbastanza
in alto. Sfortunatamente, al Trinity
ci sono buone probabilità di
atterrare su un cespuglio, o di
cadere con un impatto sufficiente
solo a romperti l’osso del collo e
restare paralizzato per il resto dei
tuoi giorni. A quel punto, dato che
sarai paralizzato, ti toccherà
chiedere a qualcun altro di aiutarti
a farlo, ed essendo gli esseri umani
le pavide creature che sono, per
quanta compassione possano
provare, avranno paura, perché si
tratta di omicidio; e chi ha voglia di
andare in prigione? Tu, per
esempio, non mi avresti mai
aiutato. Hermione sì, se avesse
potuto. I gatti non sono
sentimentali.»
«Perché mi stai facendo
questo?»
«Il che ha aperto la strada alle
armi. Ora, ecco i vantaggi di una
pistola. Prima di tutto, se te la
ficchi in bocca, è istantanea, quindi
non c’è dolore. In secondo luogo,
l’effetto è davvero impressionante.
Sai, il bel giovane che giace sul suo
letto col cervello spappolato,
schizzato sul cuscino. E la
domenica di Pasqua, per giunta!
L’unico neo è che fu la cameriera a
trovarmi.»
«Non volevi che ti trovasse?»
«Certo che no! Non avevo
niente contro la cameriera. Povera
donna, le ho fatto prendere lo
spavento della sua vita!»
«Dio, quanto dovevi odiarmi.»
«No, qui ti sbagli, caro. Io ti
amavo.» Gaye alza il mento verso
la porta aperta. «E quello là… be’,
non ne sono certo, ma ti ama
anche lui. Quindi bravo, Harold.
Con lui fanno due che hai portato
al suicidio.»
«Non ho portato nessuno a un
bel niente. Voglio chiarirlo una
volta per tutte, entrambi siete
dotati di libero arbitrio. Tu ti sei
messo una pistola in bocca, lui si è
buttato…»
«Ma io non ho mai detto che hai
ucciso qualcuno, ho detto che ci
hai spinto a farlo. Prendi me, per
incominciare. Io ti amavo e tu hai
smesso di amarmi. Dicevo che non
potevo vivere senza di te e l’ho
dimostrato. E nel suo caso…»
«Lui non mi ama.»
«Ti deve tutto. Tu lo hai fatto
venire in Inghilterra, tu gli hai dato
una possibilità quando nessuno
l’avrebbe fatto. “Il calcolatore
indù.” Solo che il risultato è che si
è ammalato. E per completare
l’opera, adesso il Trinity non lo
vuole più.»
«Non è opera mia.»
«Non ho detto questo. Inoltre
non avrebbe necessariamente
migliorato le cose. Alcuni sono nati
per la fama. Io, per esempio. Era la
mia vocazione. Io avevo sete di
fama, e avevo tutto l’armamentario
per fronteggiarla. Ma ahimè, non
avevo le qualità necessarie. Il
talento. Che ironia… Quelli che
possono reggere la fama non la
ottengono, e quelli che la
ottengono non sono in grado di
reggerla.»
«Quindi è per questo che lo ha
fatto? Perché non era in grado di
reggere la fama?»
«Non c’è mai un’unica ragione.
Il Trinity ha scaricato anche me,
ricordi, grazie a Barnes…»
«Barnes non c’entrava niente
con questo.»
«Che c’entrasse o meno, io persi
la mia fellowship. E allora cosa
avrei dovuto fare? Tornare a vivere
con la mia famiglia? Accettare un
lavoro d’insegnante in un’orrida
public school di quinta categoria?
Tu non puoi saperlo, a te non è
mai successo. Lavori come uno
schiavo, e un bel giorno qualcuno
decide che non gli vai a genio, e
questo è quanto, amico.»
«Ti posso assicurare che Barnes
non ebbe niente a che fare con la
tua perdita della fellowship,
Russell.»
«Be’, ci sono altre strade per la
fama. Così terminai la traduzione
di Aristotele, vi apposi il mio
nome, e diedi istruzioni perché te
ne fosse spedita una copia.
Immagino tu l’abbia ricevuta.»
«Sì.»
«Ma non sei venuto al funerale.»
«Non potevo affrontare la tua
famiglia.»
«Già. Il coraggio non è mai stato
il tuo forte.»
«Russell…»
«Il fatto è che viene il momento
in cui le cose si accumulano, e un
bel giorno ti ritrovi nella stazione a
guardare quella linea, sai, quella
che non devi mai superare, perché
se la superi sarai troppo vicino alle
rotaie. E di colpo pensi, perché
diavolo non dovrei farlo? Perché,
sai, è così facile scavalcare quella
linea… Come una delle tue
formule asintotiche, Harold, mezzo
pollice più vicino, poi un quarto di
pollice, poi un ottavo, un
sedicesimo, un trentaduesimo… E
più ti avvicini, più è evidente che
nessuno muoverà un dito per
fermarti, perché nessuno ti sta
prestando la minima attenzione.
Stanno tutti pensando a se stessi. E
anche se non sai cosa troverai
dall’altra parte della linea, se non
altro sai che sarà qualcosa di
diverso da questo. E questo è
l’inferno, giusto? Così, piano piano,
muovi i piedi… e la oltrepassi.»
«Io non sono mai stato tentato
di scavalcarla.»
«No, non ancora.»
«Cosa vorresti dire con questo?»
Gaye ride. «Dovresti saperlo. Sei
tu quello che ha Oliver Lodge sul
comodino. Quando i morti
vengono a farti visita dall’altro
mondo, di solito portano degli
avvertimenti, giusto? Presagi,
premonizioni. Be’, non vorrei
deluderti. Quindi scrivitelo sulla
lingua. Guardati da un uomo in
nero. Guardati dall’ora del
crepuscolo. Può esserci un
incidente nel tuo futuro. E non
credere che anche tu, un giorno,
non tenterai di superare quella
linea…»
«Tenterò?»
«Ah!» Gaye alza le mani.
«Ahimè, lo spirito se n’è andato!
La candela si spegne, la medium
crolla con la testa sul tavolo, sfinita
dalle sue fatiche.»
«Non è giusto. Io ho sempre
cercato solo di aiutare.»
«No. Tu volevi salvare. È
diverso.»
«Oh Dio!»
«Esattamente. Perché credi che
abbia scelto la domenica di
Pasqua?»
«Bertie disse a Norton che ti
avevo vampirizzato. Usò proprio
questa parola: “Vampirizzato”.»
«Bertie: ecco un uomo che sa
come gestire la fama. Ha avuto la
sua chance, ha piantato il seme, lo
ha curato. E adesso guarda dov’è.
Mentre tu, Harold, tu sei uno di
quelli che non ricaverà mai niente
da ciò che ha ricevuto in dono.»
Gaye sorride. «Povero Harold.» E
gli posa una mano sulla guancia,
una mano che Hardy sente
distintamente. È fredda e asciutta,
e come gli è gradita! Ma quando
cerca di posare la sua mano su
quella di Gaye, questi si ritrae. Si
alza dal letto e solleva Hermione in
aria. «Sto volando! Sto volando!»
dice, come se fosse la gatta a
parlare. «Ricordi, Harold? Ricordi
quando la facevamo volare?»
«Sì, ricordo.»
«E adesso vola tutto il tempo.
Adesso sei un angelo, gatta, vero,
Hermione?»
Per tutta risposta, la gatta si
divincola dalla sua stretta,
sgambetta sul pavimento e
comincia ad affilarsi le unghie sulle
tende. Gaye la segue. «Bambina
cattiva» dice, chinandosi a staccare
i suoi artigli, che rigano la seta.
«Non andare via» dice Hardy,
ma sente già il distacco, sente già
l’odore di fumo della candela
spenta.
Scende dal letto; accende la
lampada. La stanza è vuota.
Sebbene sappia ancor prima di
provare che non troverà striature o
strappi nella seta, si inginocchia
egualmente davanti alle tende e
tasta l’orlo. Nel silenzio profondo
non ode alcuna voce, solo il respiro
di Ramanujan dall’altra parte del
corridoio. E a questo Hardy si
aggrappa con la stessa forza con cui
stringe l’orlo delle tende. Il suo
ritmo regolare è come un
corrimano per lui, qualcosa che lo
guida fino al mattino. Ama anche
quest’altro giovane, e lui, ricorda a
se stesso, è ancora vivo.
4

New Lecture Hall, Università di


Harvard
Un pomeriggio, verso la fine del
1917 (disse Hardy in quella
conferenza che non tenne mai),
Littlewood e io ci sedemmo
insieme a risolvere quello che
eravamo arrivati a considerare “il
problema di Ramanujan”. Ora io
credo che la parola “problema”
non dovrebbe mai essere usata in
rapporto a questioni relative allo
spirito umano. Appartiene alla
matematica, come nel Problema di
Waring: per ogni numero naturale
k, esiste un intero positivo s tale
che ogni numero naturale è la
somma di al massimo s k-esime
potenze di numeri naturali?
(Incidentalmente, alla soluzione di
questo problema Ramanujan diede
un interessante, anche se poco
noto, contributo.) Le situazioni
umane, invece, sono complesse e
multiformi. Per capirle bisogna
mettere in conto non solo i
fraintendimenti, le evenienze e le
circostanze, ma anche il mistero
della natura umana, che è piena di
contraddizioni quanto lo scenario
fondante della matematica. Il fatto
è che nessuno lo fa mai. Noi non lo
facemmo. Invece, quando
Littlewood e io ci sedemmo al
tavolo – nello stesso caffè
londinese in cui lui mi aveva detto
della gravidanza di Mrs. Chase –
esaminammo la situazione e
cercammo una ragione, una
ragione soltanto, per cui
Ramanujan poteva essere depresso.
E decidemmo che era depresso
perché il Trinity non gli aveva
accordato una fellowship. Ergo, per
farlo tirare avanti fino a ottobre,
quando avremmo potuto proporlo
di nuovo per una fellowship,
dovevamo rimpolpare la sua
autostima. Ergo, dovevamo fare in
modo che gli piovessero addosso
una serie di onorificenze. Per come
la vedevamo noi, se potenti
istituzioni fossero state indotte a
riconoscere il suo valore, l’umore
di Ramanujam si sarebbe
risollevato e lui si sarebbe rimesso
al lavoro. Allora il “problema”
sarebbe stato risolto.
Adesso, naturalmente, capisco
che il nostro approccio era
disperatamente ingenuo, e penso
che, in cuor nostro, lo sapessimo
entrambi. Entrambi disprezzavamo
le onorificenze e lo ammettevamo
apertamente, anche se dovevamo
riconoscere che il nostro era il
disprezzo di chi, avendo vinto un
premio, può permettersi di non
dargli importanza. Inoltre non
poteva esserci sfuggita la probabile
inefficacia di una “cura” che
prendeva in considerazione solo
una causa della malattia e ignorava
tutte le altre.
Ciò nondimeno ci dedicammo
alacremente al nostro compito.
Innanzi tutto facemmo nominare
Ramanujan membro della London
Mathematical Society. Poi
proponemmo il suo nome alla
Cambridge Philosophical Society.
La prima elezione passò
rapidamente, in dicembre. Gli
telefonai – a quel punto era in un
altro sanatorio – e la sua reazione,
per quanto entusiasta, fu un po’
fiacca. Infatti, sebbene sapessimo
che queste nomine avrebbero
contribuito a sostenere la nostra
causa quando avremmo proposto
la sua candidatura per la fellowship
alla prossima riunione di ottobre,
sapevamo anche che nessuna delle
due era sufficiente a strappare il
nostro amico al suo torpore. Se
volevamo risolvere il problema di
Ramanujan, sarebbe stato
necessario un cambiamento più
sostanziale, e questo consisteva nel
farlo nominare FRS.
Lasciate che provi a darvi
un’idea di cosa significhi, in
Inghilterra, essere nominati FRS.
Per ogni genere di scienziato, è il
più grande onore del paese. Ogni
anno vengono proposti più di
cento candidati, di tutte le
discipline, e ne vengono eletti al
massimo quindici. Raramente
viene eletto un uomo sotto i
trent’anni. Quando io fui eletto, ne
avevo trentatré, e lo stesso vale per
Littlewood.
Considerammo le chance di
Ramanujan. Dalla sua aveva,
ovviamente, il suo indiscutibile
genio. L’ostacolo invece era la sua
giovinezza – aveva solo ventinove
anni – e il fatto di essere indiano.
In tutta la sua storia, la Royal
Society aveva avuto solo un
membro indiano. Con ogni
probabilità, pensammo, non
sarebbe stato eletto. Tuttavia,
decidemmo di proporre il suo
nome. Dopotutto, se avessimo
fallito, lui non avrebbe mai saputo
che ci avevamo provato. E se la
spuntavamo forse poteva essere la
sua salvezza.
A quel tempo il presidente della
Royal Society era il fisico Thomson.
Era lo scienziato che aveva scoperto
l’elettrone (di qui il suo
soprannome di “Atomo”) e, in
capo a pochi mesi, avrebbe
sostituito Butler come rettore del
Trinity. Lo conoscevo abbastanza
bene da potergli scrivere per conto
di Ramanujan. Nella mia lettera,
cercai di fargli capire la fragilità
della situazione di Ramanujan.
Sebbene credessi che sarebbe stato
ancora vivo di lì a un anno, non
potevo garantirlo. E sebbene
esitassi ad affrettare un’elezione
per la quale, in circostanze
normali, Ramanujan sarebbe stato
troppo giovane, la debolezza della
sua salute e del suo spirito, a mio
parere, deponeva a favore di
un’eccezione. Sui suoi meriti non
c’erano dubbi; era di gran lunga il
candidato più qualificato per la
matematica.
Con mio grande sollievo, la
tattica funzionò. Nel febbraio 1918
Ramanujan fu nominato
contemporaneamente membro
della Cambridge Philosophical
Society e FRS. La coincidenza delle
due nomine creò una certa
confusione, perché quando gli
spedii un telegramma
informandolo della seconda, che
non si aspettava, lui la confuse con
la prima, di cui era invece al
corrente. In seguito mi raccontò
che aveva dovuto leggere il
telegramma tre volte prima di
capire cosa diceva realmente. E
anche allora, finché non gli
confermai la notizia, non ci
credette.
A questo punto, Ramanujan non
era più a Cambridge. Viveva invece
in un sanatorio per tisici chiamato
Matlock House, nel Derbyshire.
Perché alla fine avesse scelto
questo particolare istituto non lo so
esattamente. Potrebbe essere stato
perché il dottor Ram, che ci
lavorava, era indiano, o perché la
cuoca era disposta a preparare dei
piatti secondo i gusti dei vari
degenti. In ogni caso, la sua
decisione fu un sollievo per me,
dato che mi permetteva di
soddisfare le condizioni imposte da
Scotland Yard senza rivelare a
nessuno che Ramanujan aveva
tentato di uccidersi. Non dovevo
far altro che informare i medici,
sulla cui discrezione supponevo di
poter contare. Poi, nel novembre
1917, Ramanujan andò a Matlock
in treno e vi rimase per quasi tutto
l’anno seguente.
Matlock si distingueva, tra le
altre cose, per la sua lontananza e
per la difficoltà di arrivarci;
durante la guerra poteva essere
raggiunto solo con un treno che
arrivava alle otto del mattino. Non
fingerò che il posto mi piacesse. La
struttura era di per sé spaventosa, e
aveva l’aspetto di uno di quei
riformatori nei quali venivano
mandati a languire i bambini nei
romanzi vittoriani. Nel secolo
scorso aveva iniziato la sua
esistenza come stabilimento
idroterapico, il che spiegava la
pletora di attrezzature in disuso –
varie forme di tubature e piscine
vuote – che ingombravano il
terreno. Le vasche da bagno erano
enormi. Un grande muro di
mattoni divideva la casa dalla
strada che la costeggiava,
conferendole l’aspetto di una
prigione, il che era appropriato. Era
una prigione. Lasciatemelo dire,
una volta per tutte. Ramanujan
non era lì per essere curato di
tubercolosi. Era lì perché conveniva
ai suoi amici e per scontare una
condanna informale inflittagli da
un ispettore di Scotland Yard. E lo
sapeva. In qualche modo doveva
saperlo.
Fin dall’inizio fu infelice a
Matlock. Il dottor Ram si rivelò un
individuo prepotente, che godeva
nell’esercitare il potere che poco
saggiamente gli avevo messo nelle
mani. Valendosi di quell’autorità
che i medici si attribuiscono come
un fatto naturale, chiarì subito che
in nessun caso Ramanujan doveva
immaginare che gli sarebbe stato
permesso di lasciare Matlock.
Finché i suoi medici dichiaravano
che non stava bene, non avrebbe
avuto nessuna libertà, nessun
diritto. E in nessun caso, neppure
in presenza di un miglioramento
delle condizioni di salute, gli
sarebbe stato permesso di
andarsene prima di dodici mesi. Se
il dottor Ram gli spiegò la vera
fonte di questa condanna, o se
Ramanujan la indovinò da solo,
non saprei dirlo. So soltanto che
Ramanujan, sorprendendomi non
poco, parve prendere alla lettera la
parola del dottor Ram. AHill Grove
si era ribellato; a Matlock si
sottomise.
Come faccio a spiegarvi la
singolarità della sua situazione in
quei mesi? Lasciate che vi descriva
le due visite che gli feci a Matlock.
La prima ebbe luogo nel gennaio
del 1918, la seconda nel luglio
dello stesso anno. Nella prima
occasione andai insieme a
Littlewood, che riuscì a farsi
prestare la macchina dal fratello in
modo che potessimo evitare ogni
difficoltà con i treni. Era una
giornata freddissima – aveva
nevicato la notte precedente – e
mentre entravamo dal cancello
rimasi sbigottito nel vedere che i
pazienti erano seduti all’aperto,
intorno ai tavoli o sulle sdraio,
avvolti in coperte di lana.
Ramanujan invece lo trovammo
all’interno, in una stanza senza
finestre: una specie di veranda che
doveva fungere – nei giorni gloriosi
dell’idroterapia – da solarium.
Sebbene anche lui fosse avvolto
nelle coperte, tremava dal freddo e
batteva i denti. Non gli avevamo
telefonato per avvertirlo del nostro
arrivo e, quando ci vide andargli
incontro, sulle prime rimase
sorpreso. Poi sorrise, si liberò delle
coperte e si alzò per salutarci.
Era ancora più magro di prima e
aveva una faccia sbattuta. Ci
stringemmo la mano e lui ci
condusse immediatamente in una
visita guidata del posto, cosa che
fece con quella combinazione di
indifferenza, disgusto e orgoglio
tipica di uno scolaro quando svolge
lo stesso compito per i suoi
genitori. Prima ci mostrò la sua
camera – priva di ogni
decorazione, e, ancora una volta,
gelida – e poi la sala da pranzo con
i suoi lunghi tavoli da refettorio e
le brocche di latte freddo, infine
una specie di salotto con biblioteca,
i cui scaffali erano quasi
interamente occupati da libri
polizieschi. Alla fine ci presentò il
dottor Kincaid, il direttore
dell’istituto, un uomo dall’aspetto
mite, sui cinquant’anni, che ci
salutò con l’annoiata allegria di un
preside di scuola media. Dietro
consiglio del dottor Kincaid,
tornammo nella veranda aperta e
prendemmo il tè. Aquesto punto,
sia io che Littlewood avevamo un
freddo tremendo, nonostante
indossassimo cappotto e guanti, e
buttammo giù il tè bollente tutto
d’un fiato. Sulla veranda erano
sdraiati anche altri pazienti;
guardavano noi, e il nostro tè, con
invidia.
Dopo avergli fatto le
congratulazioni per essere stato
nominato FRS, gli chiedemmo come
si sentiva. Ammetterò che speravo
rispondesse dichiarando che la sua
salute era migliorata, o, meglio
ancora, si togliesse di tasca dei fogli
di carta coperti di appunti di
matematica. Invece cominciò a
lamentarsi. Prima di tutto si
lamentò del freddo. Quando era
arrivato a Matlock, ci disse, gli era
stato permesso di stare seduto per
qualche ora davanti a quello che il
personale chiamava un “fuoco di
benvenuto”. Dopo d’allora, però,
non gli era stato concesso nessun
fuoco. Anche quando aveva
chiesto al dottor Kincaid di
lasciarlo davanti a un fuoco per un
paio d’ore al giorno, in modo che
potesse lavorare alla sua
matematica, il dottor Kincaid aveva
rifiutato. Le dita gli diventavano
talmente fredde che non riusciva a
tenere in mano una matita.
Poi fu la volta del cibo. A
dispetto di quanto gli era stato
promesso, la cuoca non si era
dimostrata disposta a soddisfare le
sue richieste alimentari. Aveva
rovinato i pappadum che uno dei
suoi amici gli aveva spedito, e
sosteneva di non avere burro per
friggere le sue patate. Quindi era
costretto a vivere di pane e latte.
Ogni giorno le infermiere
cercavano di costringerlo a
mangiare minestra d’avena e
porridge, che lui detestava in egual
misura. Un tentativo di riso al
curry era stato disastroso, dal
momento che il riso era arrivato
talmente crudo da essere
immangiabile. Persino un semplice
riso in bianco era un piatto che la
cuoca non sapeva preparare.
Anche nel migliore dei casi, c’è
qualcosa di patetico nelle
lamentele di un invalido, in quanto
rivelano la pochezza del suo
mondo, fino a che punto la sua vita
sia stata sistematicamente ridotta a
un’incessante ricerca delle
comodità basilari. E, nel caso di
Ramanujan, la malattia era meno
che mai un fattore determinante.
Infatti, se i suoi sforzi per
soddisfare i suoi bisogni di caldo e
di cibo adesso esaurivano tutta la
sua attenzione, era solo perché la
Matlock House lo privava
deliberatamente di quelle necessità
senza una buona ragione. Il clima
freddo e il latte freddo potevano
giovare a un malato di tubercolosi,
ma non giovavano a Ramanujan: le
sue condizioni, in ogni caso,
rimanevano immutate, e
continuava a non mostrare i
sintomi della malattia.
La cosa che più mi irritò fu il suo
tono acido, recriminatorio.
Dopotutto, questo era lo stesso
uomo che aveva riso assistendo a
Was it the Lobster?, che, seduto sul
pial della casa di sua madre, aveva
dedotto, privo di qualsiasi
istruzione, il Teorema dei numeri
primi. Era un FRS! E adesso eccolo
qui, seduto su un altro tipo di pial,
incapace di parlare d’altro se non
del suo disgusto per i maccheroni
al forno. Se ci fosse stato del
formaggio, disse, avrebbe potuto
essere tollerabile. Ma la cuoca
sosteneva che era impossibile
trovare il formaggio, così come
sosteneva che era impossibile
trovare le banane. Invece
Chatterjee l’altro giorno gli aveva
scritto che a Cambridge si
potevano ancora comprare le
banane per quattro penny l’una.
Be’, se si potevano trovare le
banane a Cambridge, perché non si
trovavano a Matlock? Littlewood
gli promise che, appena rientrato a
Londra, gli avrebbe spedito delle
banane.
Dopo una pausa appropriata, gli
chiedemmo come procedeva il suo
lavoro, al che Ramanujan si
avvicinò come per farci una
confidenza. «Sapete» disse, «ho
scoperto che qui c’è solo una stanza
che viene sempre riscaldata, ed è il
bagno. Così tutti i pomeriggi vado
in bagno con carta e penna, mi
chiudo dentro, e almeno per un
po’ riesco a lavorare.»
«E che lavoro stai facendo?»
«Sempre le partizioni.» E si mise
a parlare. Mentre lo faceva – in
seguito Littlewood mi disse che se
n’era accorto anche lui – la sua
faccia cambiò completamente. Non
ricordo niente di quel che disse;
immagino si trattasse di un
concetto piuttosto banale, del tipo
che a Cambridge avrei accolto con
uno sbadiglio comico, o alzando un
sopracciglio, o avrei ignorato del
tutto. Solo che non eravamo a
Cambridge – Littlewood e io
sapevamo perfettamente qual era
la nostra funzione – così reagimmo
con l’entusiasmo esagerato che in
genere si riserva a un bambino
timido per incoraggiarlo a
“esprimersi”. Spalancammo gli
occhi, aprimmo la bocca, levammo
le mani al cielo, pregandolo di
continuare. E mentre lo faceva, con
nostra sorpresa e rincrescimento, il
suo umore, invece di risollevarsi,
crollò. Suppongo si fosse accorto
dello stratagemma. «Se solo potessi
passare più tempo nel bagno!» si
lamentò. «Ma c’è una signora, una
certa Mrs. Ripon, che sembra
decisa a tormentarmi. Ogni volta
che mi chiudo là dentro e mi
sistemo comincia a battere alla
porta, dicendo che vuole il suo
bagno. Oh, vorrei tanto che se ne
andasse, o che morisse. La
settimana scorsa ha avuto un
terribile attacco di tosse, così
speravo che…»
Ce ne andammo poco dopo.
Tornando a Londra non parlammo
molto. Ciascuno di noi aveva i suoi
problemi a cui pensare. C’era ben
altro che non andava nella nostra
vita oltre al povero indiano
intrappolato in uno spaventoso
stabilimento idroterapico nel
Derbyshire. C’erano altre presenze
con noi in quella macchina: una
donna che viveva a Treen e un
soldato che poteva anche essere
morto.
Quella primavera l’affare Russell
esplose di nuovo. In febbraio,
Russell pubblicò un famoso articolo
sul “Tribunal”, in cui scriveva che
la guarnigione americana, allora in
viaggio verso l’Europa, per quanto
potesse sia fallire sia dimostrarsi
“efficace contro i tedeschi”, sarebbe
senz’altro “riuscita a intimidire gli
scioperanti, attività in cui l’Esercito
americano eccelleva in patria”.
Risultato di questa temeraria
affermazione fu una visita di due
detective al suo appartamento, il
suo arresto in seguito all’accusa di
aver fatto affermazioni che
“potevano pregiudicare il rapporto
di Sua Maestà con gli Stati Uniti
d’America” e il successivo verdetto
di colpevolezza, con la condanna a
sei mesi nella prigione di Brixton,
ai cui cancelli si presentò in taxi
all’inizio di maggio. La vita
carceraria sembrava andargli a
genio. I giorni sempre uguali, disse,
lo inducevano a chiedersi se la sua
vera vocazione non fosse quella di
essere un monaco di un ordine
contemplativo, e alla fine riuscì a
portare a termine un sacco di scritti
filosofici. Nel frattempo, al Trinity,
Thomson fu insediato quale nuovo
rettore, e sebbene sperassimo che il
suo arrivo (e la partenza di Butler)
aiutasse la nostra causa, non ci
facevamo troppo affidamento.
Quanto alle sorti della guerra,
sembrava che il destino fosse
avverso alla Germania. Per ogni
inglese che visse in quegli anni –
persino per un pacifista come me –
è ancora umiliante ammettere che
questo fu dovuto interamente
all’arrivo di voi americani. Ebbene
sì, le vostre truppe fecero una
differenza enorme, e non
dimenticherò mai il giorno in cui a
Cambridge ci giunse la notizia
della vostra vittoria a Cantigny. Era
la fine di maggio – quella che
avrebbe dovuto essere la stagione
dei balli – e mentre ricordo di
essermi sforzato di non
abbandonarmi a emozioni sventate
come l’ottimismo, ricordo anche di
aver pensato: “Sì, la guerra finirà.
Ci sarà di nuovo una vita senza la
guerra”. Attenzione, però, i nostri
guai non finirono. I giovani
continuarono a morire, mentre a
Cambridge un bibliotecario
assolutamente innocuo venne
fucilato per le sue convinzioni
pacifiste. Eppure l’eccitazione
nell’aria era altrettanto distinta
dell’odore d’estate che soffiava in
Inghilterra e spazzava via gli ultimi
cumuli di neve sporca che erano
sopravvissuti alla primavera. Ecco,
mi dissi, come ci si sente a essere
dalla parte dei vincitori e, sebbene
non abbandonassi la mia posizione
pacifista, in segreto mi crogiolavo
in quella sensazione.
In giugno tornai a Cranleigh, da
Gertrude, la cui passiva ostinazione
si era rivelata efficace: avevo
abbandonato ogni speranza di
convincerla a vendere la casa.
Eravamo di nuovo amici, e
riprendemmo le nostre abitudini
estive, persino le partite a Vint con
Mrs. Chern, la cui nipote, Emily,
faceva da temibile quarto. Miss
Chern, la cui madre era americana,
studiava matematica al Newnham
– teneva sulla scrivania una foto di
giornale di Philippa Fawcett, la
donna che aveva battuto il senior
wrangler – e chiedeva spesso di
Ramanujan, a cui guardava come a
una sorta di misterioso profeta. In
verità, erano in molti a
considerarlo in questo modo.
Ritagli di articoli su di lui mi
arrivavano periodicamente, per
gentile concessione di amici in
America, in Germania e in India,
articoli che travisavano le sue
conquiste e offrivano una versione
romanzata della sua storia.
Leggendoli si sarebbe detto che
Ramanujan passava le sue giornate
pavoneggiandosi in giro per
Cambridge con le sue imprese di
aritmetica mentale, mentre un
codazzo di ammiratori spargeva
fiori sul suo cammino, mentre in
realtà lui continuava a essere
tenuto sottochiave a Matlock.
Mi chiedevo se avesse idea di
essere diventato un uomo famoso,
o se spedirgli alcuni degli articoli
avrebbe contribuito al suo
miglioramento. Perché in effetti
stava migliorando, anche se di
poco. Come Littlewood e io
avevamo sperato, la notizia di
essere stato nominato FRS gli aveva
sollevato il morale.
Sfortunatamente, i miei sforzi per
convincere il dottor Ram a
rimuovere il divieto di viaggiare e
permettergli di andare a Londra
per la cerimonia di investitura si
dimostrarono vani, e Ramanujan
dovette scrivere alla Society per
chiedere se la cerimonia poteva
essere rimandata. Non so quanto ci
tenesse, in realtà. I rigori
dell’inverno erano passati,
risolvendo, almeno
temporaneamente, il problema del
freddo e, sebbene il problema del
cibo continuasse, se non altro
Ramanujan stava lavorando. Anzi,
era entrato in un nuovo periodo di
produttività, inviando dai bagni di
Matlock ogni genere di nuovi
contributi alla teoria delle
partizioni, incluso il famoso
insieme di identità che oggi vanno
sotto il nome di Identità di Rogers-
Ramanujan.
E questo era il meno. Durante il
maggio e il giugno del 1918,
sembrava che ogni settimana
ricevessi come minimo due o tre
lettere da lui, per lo più riguardo a
un saggio che stavamo scrivendo
insieme sulle espansioni di
funzioni modulari ellittiche, alcune
riguardo le partizioni, e altre
ancora che, quasi come un
ripensamento, mi presentavano
quelle strane osservazioni
aritmetiche, apparentemente
casuali, che erano la sua specialità.
Può sembrare strano a un non
matematico che quando ripenso a
Ramanujan io ricordi – oltre alla
sua fragorosa risata, ai suoi occhi
neri e al suo odore – il fatto che in
una lettera da Matlock buttò giù,
quasi come una divagazione, la
seguente, straordinaria equazione:

Eppure, era proprio in queste


identità che s’imbatteva la sua
immaginazione, nel suo girovagare;
e lui le raccoglieva come curiosi
pezzi di fauna da studiare e
conservare; e in seguito, con
un’ingenuità che non cessa di
sorprendermi, le estraeva dalla
manica rivelandole come i pezzi
mancanti di dimostrazioni
complesse con le quali, per lo
meno superficialmente, non
avevano alcuna connessione. Da
quando si era ammalato, mi
mancava la sua abitudine di
arrivare nei miei appartamenti la
mattina, portando i frutti delle sue
fatiche notturne, i messaggi che
sosteneva gli avesse scritto sulla
lingua la dea Namagiri. Adesso
questi messaggi arrivavano sotto
forma di lettere e, sebbene
lamentassi la sua lontananza, ero
contento di vedere che era di
nuovo in forma.
In luglio andai di nuovo a
trovarlo a Matlock. Per fargli
piacere, mi portai anche Gertrude
e la giovane Emily Chern, che
intraprese la spedizione con la
nobile serietà di un discepolo.
L’estate aveva resuscitato Matlock,
che non sembrava più un luogo di
villeggiatura fuori stagione. Gli
alberi erano in fiore, e la veranda
su cui avevamo trovato Ramanujan
mezzo assiderato il gennaio
precedente adesso era un’oasi
amena e relativamente calda.
Ramanujan non era solo. Con
lui c’era un giovane indiano che si
alzò a salutarci non appena
varcammo la porta. «Mr. Hardy,
quale onore» disse l’indiano,
stringendomi la mano. «Sono Ram,
A.S. Ram, da non confondere con
il medico di Ramanujan, che è L.
Ram. Può chiamarmi S. Ram, se
crede che sia d’aiuto per evitare lo
scambio di persona.»
«Piacere» dissi, e lo presentai a
Gertrude e a Miss Chern, alle quali
fece il baciamano.
Ci sedemmo. Era un giovane
attraente, non alto, con capelli a un
tempo più ricciuti e più sottili della
maggior parte dei suoi conterranei.
Come spiegò rapidamente, aveva
conosciuto Ramanujan nel 1914,
quando questi era appena arrivato
in Inghilterra ed entrambi stavano
all’Indian Student’s Hostel di
Cromwell Road a Londra.
«Facemmo amicizia» ci disse,
«anche se ben presto le circostanze
e la guerra ci divisero. Mr.
Ramanujan andò a Cambridge e io
fui assunto come assistente
ingegnere presso le ferrovie del
North Staffordshire. Ho trascurato
di precisare che vengo da
Cuddalore, vicino a Madras, e che
mi sono laureato in Ingegneria
Civile al King’s College, non il
famoso King’s College di
Cambridge, ma quello
dell’Università di Londra. In ogni
caso, quando scoppiò la guerra, mi
arruolai nell’esercito di Sua
Maestà, e dopo sedici mesi nelle
forze armate, una piccola parte dei
quali passati nel contingente
indiano, fui congedato e mandato
a lavorare sulle munizioni presso la
Messieurs Palmers Shipbuilding e
Iron Company a Jarrow. Sono
ancora impiegato lì – ma
probabilmente vi starete chiedendo
come ho fatto a rimettermi in
contatto con Mr. Ramanujan e che
ci faccio qui oggi!» A questo punto
si mise a ridere: una risata stridula
e acuta che contrastava con il tono
della sua voce che, per quanto
frenetico, era profondo.
Si interruppe e tirò un profondo
respiro. Gertrude lo stava
guardando sbalordita. Suppongo
che in quei giorni cupi non fossimo
abituati a parlatori di quella risma.
Proseguì. E mentre parlava
guardai Ramanujan, che a sua
volta si fissava le ginocchia. Avevo
sperato di trovarlo più in forma,
invece era più o meno lo stesso che
in gennaio, se non più magro. Per
certi versi, però, la magrezza gli
donava, faceva risaltare la sua
bellezza. Indossava un maglione
giallo in vivace contrasto con la sua
pelle, e Miss Chern lo guardava
con gli occhi adoranti che di solito
una ragazza riserva alle stelle del
cinema. Era evidente che non stava
ascoltando una parola di quello
che S. Ram stava dicendo.
Quanto a questo S. Ram, ormai
sia io che Gertrude avevamo capito
chi era: un ammiratore, un “fan” se
preferite, che si era assunto il
compito di sovrintendere alla
riabilitazione di Ramanujan. E
come la maggior parte dei fan, in
realtà era molto più interessato a
far mostra della propria virtù e
altruismo che non a contribuire al
benessere dell’amico, per amore
del quale, ci stava raccontando, si
era appena sobbarcato «un viaggio
spaventoso, per tutta la notte, con
il treno che si fermava in
continuazione». Infatti, a quanto
pare, S. Ram era arrivato a Matlock
due giorni prima ed era stato
sistemato in una stanza vuota.
«Sapete» disse, «da quando è
entrato in vigore il razionamento
qui in Inghilterra, i miei buoni
parenti a Cuddalore si sono
preoccupati, eccessivamente, a mio
avviso, della mia situazione, e
pensando che stavo morendo di
fame hanno preso l’abitudine di
spedirmi valanghe di pacchi postali
pieni di viveri, al punto che è
diventato un problema
liberarmene e ho dovuto spedire
un telegramma a casa che diceva:
“Smettete stop Spedire stop Cibo
stop Ram”. A questo punto dovrei
precisare che, sebbene sia
vegetariano, non appartengo alla
stessa casta di Mr. Ramanujan,
pertanto dal mio arrivo in
Inghilterra non sono stato un
vegetariano strettamente
osservante. Per esempio, ogni tanto
mangio le uova, e anche il brodo di
manzo e a volte il Bovril. Sono
deciso a mantenermi in salute,
capite, perché ultimamente ho
avuto un po’ di fortuna e, a patto
che superi una prova di
equitazione a Woolwich alla fine
del mese, mi è stato promesso che
sarò congedato dall’esercito in
modo che potrò tornare a casa
verso la fine di settembre e
ottenere un posto
nell’amministrazione civile presso il
dipartimento dei Lavori pubblici
indiani. Quindi ultimamente ho
mangiato uova per stare in forze e
poter seguire il mio lavoro alla
Palmers e anche fare un po’ di
equitazione a Newcastle-Upon-
Tyne.» Si interruppe di nuovo.
Apparentemente, non aveva tirato
il fiato per tutto il monologo.
Sarebbe andato avanti così per
tutto il pomeriggio? Guardai
Gertrude in cerca d’aiuto, che, con
mio grande sollievo, mi prestò.
(Come mi spiegò in seguito, nel
suo lavoro alla St. Catherine’s si era
abituata a trattare con uomini e
donne di questa risma,
chiacchieroni inveterati il cui
amore per la propria voce era
sintomatico di un disordine
mentale chiamato logorrea. «Molti
insegnanti sono logorroici» disse
Gertrude.)
E dunque, ora rivolse a S. Ram il
suo sguardo freddo e compassato e
disse: «Molto affascinante. E mi
dica, come ha rinnovato la sua
conoscenza con Mr. Ramanujan?».
Dall’altra parte del tavolo, S.
Ram la guardò con una specie di
gratitudine; sembrava apprezzare
che lo si riportasse al nocciolo della
questione. «È stato il cibo,
capisce?» disse, e procedette a
spiegarci come, ritrovandosi con un
eccesso di “commestibili” spediti
dai suoi genitori, si ricordò di
Ramanujan e della sua passione
per i piatti di Madras. «Fu a questo
punto» disse, «che le scrissi, anche
se forse non lo ricorda, Mr.
Hardy.»
«Lei mi ha scritto?»
«Sì» disse S. Ram. «Le ho scritto
per informarmi sulla salute di
Ramanujan e sapere se avrebbe
diviso con me un po’ di questa
roba. E lei mi ha risposto dandomi
il suo indirizzo presso la Matlock
House, Matlock, Derbyshire.»
«Davvero? Oh, sì, ma certo!»
«Così ho iniziato una
corrispondenza con Ramanujan, e
in risposta alla sua richiesta di un
po’ di ghee – burro chiarificato, sa,
Miss Hardy – gli ho inoltrato,
intatti, due pacchi contenenti tre
bottiglie, due di ghee e una di olio
di sesamo per i fritti, oltre a una
piccola quantità di sottaceti di
Madras. Indubbiamente saprete
quanto sia difficile e noioso spedire
delle bottiglie per posta, quindi
potrete ben immaginare quanto sia
stato più conveniente inoltrargli i
pacchi preparati dai miei, ancora
sigillati.»
«Molto più conveniente» dissi.
«E naturalmente, come al solito,
mi avevano spedito molti più viveri
di quanti potessi consumarne. Così
proposi una visita. In seguito a dei
cambiamenti nel mio programma
non sono riuscito a rimandare le
mie vacanze al 31 di luglio, per
sottopormi alla prova di
equitazione, e non avevo altra
scelta che prendermi le due
settimane precedenti. Così, non
avendo niente di particolare da
fare durante questa vacanza, ho
scritto a Ramanujan… e adesso,
eccomi qui.» Sorrise. Ramanujan
continuò a tenere gli occhi bassi.
«E sono sicura» disse Gertrude,
«che Mr. Ramanujan è stato felice
della sua compagnia, vero, Mr.
Ramanujan?»
«Oh sì» disse Ramanujan.
«Sì, abbiamo parlato
ininterrottamente» disse S. Ram.
«Abbiamo discusso ogni genere di
argomento, personale, politico,
abbiamo parlato della guerra, delle
usanze sociali indiane, delle
missioni cristiane, del matrimonio,
dell’università, della questione
induista, e posso affermare senza
ombra di dubbio che Ramanujan
non mi ha mai dato l’impressione
di essere “uscito dai binari”.»
«Bene.»
«Ho anche osservato
attentamente la sua temperatura,
ogni volta che l’infermiera gliela
misurava, e ho tracciato dei grafici,
ho preso nota delle sue abitudini
alimentari, e dei suoi moti
intestinali. Ecco, lasciate che ve li
mostri.» E si tolse dalla tasca della
giacca tre fogli di carta, che
procedette ad aprire sul tavolo.
«Come potete vedere, ieri a
colazione Mr. Ramanujan ha preso
uova strapazzate, pane tostato e
tè.»
«Ha mangiato le uova?»
«Sì. Sono rimasto sorpreso
anch’io. Nella nostra religione, Mr.
Hardy, le uova sono una zona
grigia, diciamo così. Per esempio i
miei genitori non mangiano le
uova, ma mio fratello sì. Mia
sorella non le mangia e non
permette ai suoi figli di toccarle.
Normalmente, nemmeno io
mangerei uova, se non fossi in
Inghilterra e non avessi bisogno di
tenermi in forze per l’equitazione,
d’altra parte però io non sono della
stessa casta di Mr. Ramanujan,
quindi sono meno scrupoloso nella
pratica del regime vegetariano.»
«Ma ci stava raccontando cos’ha
mangiato.»
«Sì, certo. A pranzo solo riso
bianco con peperoncini piccanti e
semi di senape fritti nel burro;
dovrei aggiungere che c’è una
nuova cuoca a Matlock, molto
meglio, mi dice Mr. Ramanujan, di
quella che l’ha preceduta. Poi per il
tè più o meno una ripetizione della
prima colazione, e a cena più o
meno una ripetizione del pranzo,
con l’aggiunta di un bicchiere di
latte. Ovviamente non è un menu
molto appetitoso, quindi, al fine di
migliorare le condizioni di Mr.
Ramanujan, mi sono consultato col
dottor L. Ram per sapere se, per
motivi di salute, doveva evitare i
cibi piccanti come il curry. Il dottor
L. Ram mi ha detto che poteva
mangiare tutto quello che voleva.
Ma questo contraddice quanto mi
è stato detto a Jarrow, ovvero che
peperoncini piccanti e sottaceti e
altri alimenti piccanti dovrebbero
essere proibiti ai pazienti
tubercolotici e, in ogni caso, la
cuoca qui non è un’esperta di
cucina indiana. Così ho chiesto alla
caposala se potevo cucinare io
stesso qualcosa per Ramanujan, ma
lei è stata alquanto sgarbata, si è
rifiutata di lasciarmi entrare in
cucina; però devo dire che mi ha
permesso di scrivere una ricetta da
dare alla cuoca. Sfortunatamente,
quando ha provato la ricetta – era
per una semplicissima minestra di
Madras, chiamata rasam – ha fatto
un pasticcio tremendo.»
«Che peccato.»
«Già. Avevo sperato di riuscire a
influenzarla molto di più, nei tre
giorni che ho passato qui. Tuttavia
sento che la mia presenza ha
giovato a Mr. Ramanujan, tanto
che sto pensando di prolungare il
mio soggiorno di parecchi giorni.»
«No, Ram, non ce n’è bisogno»
disse Ramanujan.
«Certo che no. Lei deve fare le
sue vacanze» soggiunse Gertrude.
«No, ho deciso» disse S. Ram. «Il
mio dovere è qui. Finché sarò
libero, prima di tornare in India,
mi dedicherò ad assistere Mr.
Ramanujan e a migliorare le sue
condizioni materiali in modo che
possa continuare a regalare al
mondo le sue doti meravigliose.»
Ramanujan si portò le mani alla
fronte. «Ti senti bene?» gli chiesi, e
lui ciondolò il capo e disse che
sperava non ci dispiacesse se faceva
un sonnellino; ci avrebbe rivisto a
pranzo. Avevamo tutto il tempo, gli
assicurai; avevamo preso delle
stanze in una locanda di Matlock.
Così sgusciò via, lasciando noi tre
da soli, questa volta, con
l’infaticabile S. Ram.
Mi rendo conto che,
ridicolizzando Ram in questo
modo, sono ingiusto con lui.
Gertrude sicuramente direbbe che
lo sono. Infatti, per quanto sia vero
che la sua “logorrea” era
esasperante, Ram aveva buone
intenzioni, e forse ha fatto di più
per aiutare Ramanujan di
chiunque altro fosse entrato nella
sua orbita durante gli anni che
passò in Inghilterra, ivi incluso me
stesso. Per esempio, com’era
sempre più evidente, Ram aveva
un modo molto diverso – e più
indiano – di considerare il caso di
Ramanujan, rispetto a me e
Littlewood; vale a dire che,
laddove noi vedevamo la soluzione
del “problema di Ramanujan” in
termini di riconoscimenti, lui la
vedeva in termini di cibo. «Sono
stato un po’ duro con lui» ci disse,
«e ho cercato di fargli entrare in
testa che deve smetterla di essere
lunatico e testardo. E, soprattutto,
deve scegliere tra controllare il
palato o uccidersi. Quindi cos’è
questa storia che non gli piace il
porridge o la minestra d’avena?
Neanche a me piacciono il porridge
o la minestra d’avena, però ho
imparato a mandarli giù perché
voglio essere forte per superare la
mia prova di equitazione. E deve
imparare anche lui. Non può
vivere di riso e sottaceti e
peperoncini piccanti. Deve bere più
latte. L’altro giorno abbiamo
sentito il dottor L. Ram dire a un
paziente: “Deve prendere il latte, o
andrà all’inferno”.»
«Veramente!»
«Proprio così. E sebbene io possa
aiutarlo fino a un certo punto,
cercherò del mais in scatola per lui,
che è difficile da trovare ma è
molto sano, e, se posso, della noce
di cocco essiccata, invece della
polpa molle con cui qui preparano
torte e biscotti… è molto diversa
da quella cui siamo abituati nel
Sud dell’India, dove un piatto che
ho mangiato fin dall’infanzia – e
anche Ramanujan, sospetto – era
una deliziosa salsa di noce di
cocco. La mangiavamo con il
sambar. Conoscete il sambar? È
uno stufato di verdure insaporito
con le spezie…»
«Ci stava dicendo come
potrebbe aiutarlo, giusto?»
«Ah, sì. Posso procurargli anche
degli anacardi, e naturalmente
dividerò con lui le provviste che mi
spediscono i miei, ma alla fine
dipende solo da lui come se la
caverà. Deve mangiare un sacco di
porridge, pomodori, banane se
riesce a procurarsele, maccheroni e
panna. Ma temo che, se non sarò
qui a forzarlo, continuerà a
mangiare solo riso bollito con
peperoncini piccanti. Così ho
pensato che sarebbe meglio se
lasciasse Matlock per un altro
istituto.»
«Idea interessante» dissi.
«Peccato che i suoi amici di
Cambridge abbiano cercato invano,
per tutto l’anno scorso, un
sanatorio che servisse cibo
indiano.»
«Hanno ragione, non ce ne
sono. Ma qui la cuoca è
decisamente inetta. Per esempio,
un amico gli ha mandato degli
aplam, come li chiamiamo noi,
anche se sono più noti come
pappadum. Vanno bene per lui,
perché non sono troppo piccanti, o
acidi o aspri. Basta friggerli
nell’olio, come le patatine, ma
quando sono arrivato ho scoperto
che Ramanujan li stava
mangiando, insieme a delle
verdure secche, completamente
crudi, e le bottiglie di ghee e olio di
sesamo che gli avevo spedito erano
ancora chiuse. Lui dice che
preferisce mangiare queste cose
crude, ma è solo per proteggere la
cuoca. No, bisogna che vada
altrove. Ho tre proposte da fare.»
«E cioè?»
«La prima è mandarlo nel Sud
della Francia o in Italia. Se questo
è consentito, potrebbe essere
trasportato con un’ambulanza della
Croce Rossa, e poi da una nave
ospedaliera. Il clima dell’Italia
indubbiamente gli gioverebbe.»
«Non credo sia una scelta
praticabile, prima della fine della
guerra.»
«La seconda è che riusciamo a
procurargli un soldato indiano che
gli faccia da attendente e cucini per
lui. Penso che potremmo proporlo
alle forze armate e, anche se
potrebbero obiettare che requisire
un soldato perché funga da cuoco
equivarrebbe a fare un cattivo uso
dei soldati, vale la pena di notare
quanti soldati siano impiegati al
momento nelle fabbriche di
munizioni, come me del resto, di
fatto per svolgere mansioni civili.
Sono quasi certo che potrei trovare
un paio di lascar – gli operai di
colore della marina mercantile –,
ce ne sono parecchi in giro per
Newcastle, ma sebbene a volte
siano ottimi cuochi sono
estremamente inaffidabili, e temo
che abbandonerebbero Ramanujan
con la stessa rapidità con cui
abbandonano le loro navi.»
«Qual è la terza alternativa?»
«Trasferirlo in un istituto di
Londra. Ho l’impressione che gli
piacerebbe molto stare a Londra,
perché lì potrebbe procurarsi
facilmente alimenti e condimenti
indiani. Però non sono del tutto
sicuro che sia una buona idea:
potrebbe danneggiarsi lo stomaco
in modo irreparabile, ingozzandosi
di cibi piccanti e dolciumi. Eppure,
se fosse più felice a Londra… Non
so se sia pertinente, ma nel corso
del mio addestramento militare ho
superato l’esame di pronto soccorso
e ambulanza del secondo anno, e
per il bene di Ramanujan non mi
dispiacerebbe fare l’esame per
qualificarmi come infermiere, nel
qual caso potrei rimandare la
partenza…»
«No, non credo che sarà
necessario» dissi. «Non vogliamo
che lei metta a rischio la sua
carriera. Però, potremmo prendere
in considerazione il suo consiglio di
trovargli un posto a Londra.»
Dopotutto, sebbene Scotland Yard
avesse preteso che Ramanujan
trascorresse un anno in un istituto,
non aveva specificato in quale
istituto.
«Ma Londra sarebbe il posto
migliore per il suo stomaco?»
«Ci sono circostanze» lo
interruppe Gertrude, «in cui le
condizioni del cuore di un uomo
devono essere anteposte a quelle
del suo stomaco.»
Su questo punto S. Ram non
trovò niente da ridire, così
acconsentì ad aiutarci. Come venni
a sapere in seguito, la mattina dopo
partì da Matlock per Londra (con
grande sollievo di Ramanujan),
dove procedette a visitare tutte le
cliniche e gli ospedali privati della
città e, in base alle sue scoperte,
stese una lista di quelli che
considerava i dieci posti più adatti
a soddisfare i bisogni di
Ramanujan. Di questi quello che
preferiva, per il cibo e la qualità dei
letti quanto per le attenzioni
mediche che prometteva, era un
ospedale chiamato Fitzroy House.
Così fu al Fitzroy che, ai primi di
agosto, trasferimmo Ramanujan,
portandolo con la macchina del
cugino di Miss Chern per
assicurargli un viaggio
confortevole.
L’ospedale era in Fitzroy Square,
alla fine di Euston Road, e poco
distante da Regent’s Park e
dall’adorato zoo di Ramanujan.
Diversamente da Matlock, la cui
austera facciata faceva pensare a
una scuola o a un orfanotrofio,
aveva un’aria signorile, anche se un
po’ cadente. Le stanze, con i loro
tappeti persiani e le tende di
chintz, mi ricordavano quelle della
casa di Mrs. Chern. Quella di
Ramanujan era ingombra di
mobili, incluso un elaborato
lampadario tutto fronzoli che
pendeva dal soffitto, un cassettone
con specchiera e una specie di
poltrona meccanica, rivestita di
broccato, che si allungava in una
chaise-longue quando spingevi un
bottone. Un marchingegno,
questo, che divertiva molto
Ramanujan. In più di
un’occasione, andando a fargli
visita, lo trovai spaparanzato sulla
poltrona, o intento ad aprirla e
chiuderla nel tentativo di capire il
meccanismo che la faceva
funzionare.
Tuttavia le differenze tra Fitzroy
e Matlock non erano solo
decorative; erano sostanziali.
Infatti, mentre Matlock era un
sanatorio specializzato nella cura
della tubercolosi, il Fitzroy era
semplicemente un ospedale per
ricchi. Non aveva medici tra il suo
personale; i pazienti si valevano dei
propri dottori privati. Le infermiere
indossavano grembiuli che le
facevano sembrare cameriere. Nel
complesso era un posto tranquillo e
indifferente. Un posto dove nessun
dottore si sarebbe sognato di dire a
un paziente che se non beveva il
suo latte sarebbe andato
all’inferno. I pazienti invece
mangiavano e bevevano quel che
volevano. Ramanujan ordinava la
maggior parte dei suoi pasti a un
vicino ristorante indiano che gli
mandava i piatti in una strana pila
di contenitori di latta rotondi,
munita di un manico, che
Ramanujan chiamava “campana
degli spuntini”. Prima di tutto
smontava i contenitori, poi li
disponeva intorno al suo vassoio.
Uno conteneva il riso, uno i
sottaceti, uno una varietà di
verdure al curry e il quarto uno
strano pane integrale
completamente piatto, nel quale
Ramanujan avvolgeva un misto
delle altre pietanze. Se consumava
il suo pasto durante il giorno, lo
chiamava “spuntino”. Se invece lo
consumava la sera (cosa più rara)
lo chiamava “cena”. Se capitava che
passassi a trovarlo all’ora dei pasti,
lo guardavo mangiare, e a volte
dividevo persino il pranzo con lui,
chiedendomi cosa avrebbe pensato
S. Ram nel sapere che Ramanujan
si stava cibando di “alimenti così
piccanti”. Comunque, al di là dei
danni che poteva procurargli allo
stomaco, il cibo sembrava
sollevargli il morale, ed era questa
la cosa più importante.
Si rimise al lavoro. Quando
iniziò a far freddo – come a volte
capitava anche in settembre – gli
accendevano un fuoco in camera.
L’esposizione agli elementi non
faceva più parte della sua terapia.
A questo punto, infatti, credo che
fosse ormai evidente per tutti noi
che lo conoscevamo che
Ramanujan non soffriva affatto di
tubercolosi, e che il regime
impostogli a Matlock, lungi dal
fargli bene, poteva averlo
danneggiato. Adesso il suo umore
era migliorato, ma le sue
condizioni fisiche si erano
deteriorate. Gli attacchi di febbre,
dopo un lungo periodo di
remissione, cominciarono ad
aumentare sia in frequenza che in
intensità. Si lamentava di dolori
reumatici, e continuava a perdere
peso, nonostante stesse mangiando
di più e meglio.
Ancora una volta, fu consultato
un contingente di medici. I vecchi
cavalli di battaglia, ulcera gastrica e
cancro al fegato, furono riproposti
e liquidati, ancora una volta fu
invocato il misterioso “germe
orientale”; e un medico di nome
Bolton dichiarò che tanto la febbre
che i dolori reumatici di
Ramanujan erano dovuti ai denti e
potevano essere guariti con
l’estrazione. Per fortuna il dentista
che avrebbe dovuto eseguire le
estrazioni non poté venire,
salvando i denti di Ramanujan, e
aprendo la strada a un altro
medico per formulare una nuova
teoria, ovvero che Ramanujan
soffriva di un avvelenamento da
piombo, diagnosi che avrebbe
potuto essere confermata se ci fosse
stata qualche prova che aveva
assunto del piombo. Teoria dopo
teoria… e Ramanujan le accoglieva
tutte con una sorta di placida
indifferenza. La verità è che credo
si fosse abituato alla sua malattia.
Non cercava né cause né rimedi.
Era preparato a morire.
Un pomeriggio di settembre lo
portai allo zoo. L’offensiva aerea
americana era appena iniziata, e a
Londra c’era nell’aria un senso di
ottimismo che nessuno aveva idea
di come utilizzare. I bigliettai degli
autobus (per lo più donne), le
infermiere e i professori di
matematica lo prendevano con
molta cautela, come un vecchio
scapolo alle prese con un neonato.
Ramanujan mi aspettava nella sala
d’attesa di Fitzroy House quando
arrivai, vestito con uno dei suoi
vecchi completi. La giacca gli
pendeva addosso e di colpo mi resi
conto di come, negli ultimi tempi,
non l’avessi quasi mai visto
indossare qualcosa di diverso dal
pigiama. Per fargli una sorpresa,
avevo portato con me Littlewood,
che era in divisa e fece una grande
impressione su Ramanujan.
Uscimmo insieme per fare una
passeggiata, a piedi, dietro
insistenza di Ramanujan, anche se
gli feci promettere di avvertirmi se
si fosse sentito debole, in modo che
avrei fermato un taxi. Ma lui tenne
duro, e venti minuti dopo stavamo
passeggiando allo zoo.
Era un pomeriggio caldo. Le
mamme erano a spasso con i
bambini, e c’era un uomo che
vendeva palloncini. Mi venne in
mente che era passato molto tempo
dall’ultima volta che avevo visto un
palloncino, e questa riflessione mi
fece capire fino a che punto, per
anni, avessimo volontariamente
privato la nostra vita quotidiana di
colore e di luce. Oggi invece
c’erano palloncini dappertutto,
rossi e verdi e di un arancio
brillante. I bambini correvano
lungo i vialetti tra le gabbie, i
palloni colorati si scontravano in
cielo come i bombardieri sopra la
Francia. Guardai Ramanujan,
chiedendomi se tutto quel colore
gli ricordasse la sua terra, quel
paesaggio più vivido di cui a volte
parlava, tutto rosa intenso e fili
d’oro e d’argento. Con mia
sorpresa, però, non fece nemmeno
caso ai palloncini. La sua
attenzione era tutta presa dagli
animali, che in alcuni casi salutò
chiamandoli per nome. Sebbene
non li vedesse da anni, li ricordava
tutti, in particolare la vecchia
giraffa e una leonessa chiamata
Geraldine. Però c’era un animale
che era particolarmente ansioso di
rivedere, e Littlewood lo condusse
verso la gabbia di questa creatura
con la padronanza di una guida
della giungla. Come bambini, si
fermarono con le mani sulle sbarre,
e Ramanujan, il viso illuminato da
puro stupore, sorrise e disse:
«Winnie, come sei diventata
grande!».
Era vero. Il cucciolo che
conosceva un tempo ormai era un
grosso orso bruno, e stava seduto
in un angolo della gabbia a
spulciarsi. Se si ricordava di
Ramanujan, non lo diede a vedere.
Anzi, non ne registrò nemmeno la
presenza. Continuò a concentrarsi
sui suoi parassiti, emettendo dei
grugniti che sembravano rutti. E
Ramanujan continuava a sorridere.
«Ricordo la prima volta che l’ho
vista» disse. «Era alta così» e portò
le mani a livello dell’addome, la
sede dei suoi dolori.
Poi andammo a prendere un tè.
Cercai di ricordare quando era
stata l’ultima volta che eravamo
stati soli insieme, noi tre, e mi resi
conto che doveva risalire a prima
dell’inizio della guerra, durante la
breve estate di felicità di
Ramanujan, la sua “estate
indiana”; le parole mi vennero alle
labbra quasi prima che alla mente.
«Ricordi la tua estate indiana,
Ramanujan?» chiesi. E, con mio
sollievo, lui rise e disse che sì, la
ricordava: i balli, e i risultati del
tripos esposti, e Was it the Lobster?
Poi, per circa un’ora, finché
Littlewood dovette tornare in
servizio, parlammo della funzione
zeta. Parlammo di Mrs. Bixby, di
Ethel e di Ananda Rao. Raccontai a
Littlewood di S. Ram –
«Raramente mi è capitato di
conoscere qualcuno che parla
tanto!» dissi, e Ramanujan
aggiunse, con grande entusiasmo:
«Ma ho appena ricevuto una
lettera da lui!».
«È tornato in India?»
«Sì, è arrivato due settimane fa.»
«Grazie a Dio. Quanto è lunga la
lettera?»
«Ventisette pagine. E consiste
quasi interamente in consigli sul
cibo. Cosa dovrei mangiare e cosa
no. Sembra che abbia consultato
dei medici a Madras riguardo al
mio caso.»
«Che uomo buffo.»
«Già. Alla fine della lettera ha
scritto: “E adesso muoviti, comincia
a ingozzarti e a ingrassare. Su, da
bravo”.» Ramanujan sorseggiò il tè.
«Sapete che voleva portarmi in
India con lui? Mi ha promesso che
si sarebbe occupato di me durante
il viaggio. È stata un’impresa
impedirgli di comprarmi il
biglietto.»
«Hai mai pensato di andare con
lui?» chiese Littlewood.
«Sarei stato costretto a buttarmi
dalla nave.»
Ridemmo. Calò il silenzio. Poi
Littlewood disse: «Bene, dai retta a
me: ristabilisciti, metti su peso, e
torna al Trinity. Abbiamo molto
lavoro da fare. Non abbiamo
ancora dimostrato l’ipotesi di
Riemann».
«Non ancora, ma penso che
dovrò tornare in India quando
finisce la guerra» disse Ramanujan.
«Se non altro per vedere mia
moglie…»
«Naturalmente» dissi. «Una
lunga visita.»
«Una lunga visita» ripeté
Littlewood.
E Ramanujan fissò i fondi del tè
nella sua tazza.
In ottobre lo proponemmo una
seconda volta per una fellowship al
Trinity. Fu una faccenda
complicata. Visto quello che era
successo l’anno prima, Littlewood
pensò che c’erano più probabilità
che Ramanujan venisse eletto se
fosse stato lui, e non io, a proporne
la candidatura. Si dà il caso che in
quel periodo Littlewood si trovasse
a Cambridge, a riprendersi da una
commozione cerebrale provocata, a
suo dire, da una cassa di proiettili
che gli era caduta in testa. Secondo
me era più probabile che si fosse
ubriacato e fosse caduto,
inventandosi poi la storia della
cassa di proiettili per giustificare la
ferita.
Dovemmo darci parecchio da
fare. A quell’epoca c’era una
congrega di fellow del Trinity che
consideravano proprio dovere
opporsi alla candidatura di
Ramanujan per motivi razziali.
Littlewood, però, aveva una spia in
campo nemico, il suo vecchio tutor
Herman, che pur essendo a sua
volta contrario a Ramanujan era
del tutto incapace di fingere. Da lui
venimmo a sapere che l’infame
R.V. Laurence, per esempio, aveva
detto che si sarebbe dimesso
piuttosto che vedere un negro
nominato fellow del Trinity. I suoi
alleati, approfittando delle voci sul
tentato suicidio, intendevano
appellarsi a uno statuto che
impediva ai “malati di mente” di
essere candidati alla fellowship.
Anche lo status di Ramanujan
come FRS secondo quei porci era
solo uno “sporco trucco” escogitato
da me e Littlewood per fare
pressione sul Trinity. Come se
avessimo il potere di manipolare la
Royal Society ai nostri fini…
Comunque, nel corso degli anni ho
imparato che i pregiudizi sono
molto radicati nell’animo umano.
Né la logica né le suppliche
possono sconfiggerli. Un nemico
del genere può essere combattuto
solo con le sue stesse armi.
Grazie a Herman, avevamo un
vantaggio: sapevamo quali tattiche
avrebbero adottato i nostri
oppositori, il che, se non altro, ci
dava la possibilità di scegliere le
nostre armi. Così Littlewood si
procurò due certificati medici in
cui si dichiarava che Ramanujan
era sano di mente, certificati che,
alla fine, non fu neppure
necessario mostrare. Il voto, infatti,
con mia sorpresa e sollievo, fu a
nostro favore, nonostante l’assenza
di Littlewood alla riunione per il
fatto che era “indisposto”. Ma forse
la sua assenza fu un bene. Herman
lesse in sua vece il rapporto che
Littlewood aveva preparato,
descrivendo dettagliatamente le
conquiste di Ramanujan che erano
culminate nella sua nomina a FRS.
Credo che l’elemento decisivo sia
stato proprio il suo essere un FRS,
non perché il titolo in sé e per sé
facesse particolarmente colpo sui
fellow, ma perché presagivano la
cattiva pubblicità che sarebbe
seguita se un FRS fosse stato
respinto. Così Ramanujan divenne
il primo indiano a essere nominato
fellow del Trinity.
Littlewood mi diede la notizia.
Dopo, mentre mi precipitavo a
spedire un telegramma a
Ramanujan, mi imbattei in
McTaggart, che strisciava come al
solito rasente un muro. «È la punta
dell’iceberg» disse; poi, prima che
avessi il tempo di rispondergli,
sgusciò via verso il posto dove
aveva parcheggiato il suo triciclo.
Spedii il telegramma. Il giorno
dopo ricevetti una lettera da
Fitzroy House, in cui Ramanujan
mi chiedeva di ringraziare
Littlewood e il maggiore
MacMahon da parte sua. La sua
reazione era più fiacca di quanto
mi aspettassi, e sicuramente meno
gioiosa di quanto sarebbe stata se
fosse stato eletto un anno prima.
«Ho sentito che in alcune
università ci sono due tipi di
fellowship» scriveva, «una che dura
due o tre anni e l’altra cinque o sei
anni. Se è così anche al Trinity, la
mia è del primo o del secondo
tipo?» Si dà il caso che la sua
fellowship fosse per sei anni, come
mi affrettai a comunicargli. A quel
tempo pensai che volesse la
rassicurazione perché sperava di
restare al Trinity il più a lungo
possibile, ma ora mi chiedo se non
stesse già pensando alla sua
famiglia e a cosa ne sarebbe stato
di loro dopo la sua morte.
La parte più interessante della
lettera era di ordine matematico.
Ramanujan, come sospettavamo, si
era rimesso al lavoro, e
precisamente sulle partizioni.
Aveva concepito nuove idee,
diceva, su quelle che chiamava
“congruenze” nel numero di
partizioni per i numeri interi che
finivano con 4 e con 9. Come
spiegava, se si inizia col numero 4,
il numero di partizione per ogni 5°
numero intero sarà divisibile per 5.
Per esempio, il p(n) di 4 è 5, il p(n)
di 9 è 30, e il p(n) di 14 è 135.
Parimenti, se si inizia con 5, il p(n)
di ogni 7° numero intero sarà
divisibile per 7. E sebbene
Ramanujan non avesse preso in
considerazione il numero 11
«perché era troppo tedioso», la sua
ipotesi era che, se si inizia da 6, il
p(n) di ogni 11° numero intero
successivo sarà divisibile per 11. E
in effetti è proprio così. Il prossimo
numero da controllare,
naturalmente, sarebbe stato il 7,
dopodiché, secondo la teoria di
Ramanujan, ogni 13° numero
intero sarebbe stato divisibile per
13. Sfortunatamente la teoria andò
in frantumi al 7, poiché il numero
di partizione di 20 (7 + 13) è 627 e
i fattori primi di 627 sono 19, 11 e
3. Ancora una volta la matematica
ci aveva allettato con uno schema,
solo per strapparcelo di mano.
Caspita, era proprio come avere a
che fare con Dio.
Come corre in fretta la storia
man mano che si avvicina alla fine!
Avete notato che i primi giorni di
una vacanza passano molto più
lentamente degli ultimi? Era questa
la sensazione nell’autunno del
1918. È vero, alcuni irriducibili
continuavano a rimuginare,
mormorando di un piano tedesco
per lanciare un’arma segreta, una
mostruosità così potente che
nessuno poteva immaginarne il
potenziale distruttivo. Invece la
Germania ripiegò. L’Austria inviò
un messaggio di pace a Woodrow
Wilson, Ludendorff si dimise, e
tutto finì.
All’epoca io ero a Cambridge.
Ricordo di aver udito, dalle mie
stanze, un lontano boato di
esultanza a cui sentivo di non aver
diritto di partecipare, non solo
perché mi ero opposto alla guerra
fin dall’inizio, ma anche perché
non avevo molta voglia di esultare.
Un fuoco orripilante finalmente
domato, un versamento di sangue
finalmente tamponato; sono
davvero cose di cui rallegrarsi? No,
non credo. Così rimasi nelle mie
stanze, e a mezzanotte, quando
andai a letto, crollai in un sonno
così profondo che parve durare
pochi minuti. Quando mi svegliai,
il sole entrava attraverso le tende,
erano le dieci del mattino, e per la
prima volta dopo anni non mi
sentivo stanco.
Quel pomeriggio Miss Chern
venne a trovarmi. Aveva saputo la
notizia della fellowship di
Ramanujan e si chiedeva come
congratularsi con lui. Le offrii un tè
e lei mi mostrò il suo album di
ritagli di giornale, quasi tutti
raccolti in America, dove aveva
trascorso gran parte della sua
fanciullezza. C’era un articolo del
“New York Times” – un numero
vecchio, che le aveva dato suo
padre – in cui un’amica di Philippa
Fawcett forniva un resoconto
intimo della sua vittoria al tripos.
Un secondo, sempre del “New
York Times” – fornito dal
radiotelegrafo transatlantico di
Marconi –, annunciava l’arrivo di
Ramanujan a Cambridge nell’aprile
1914 e includeva un’intervista con
me che non ricordavo di aver
rilasciato. Altri due – del
“Washington Post” e del “Christian
Science Monitor” – annunciavano
a loro volta l’arrivo di Ramanujan
in Inghilterra, ma la cosa curiosa di
questi articoli era che davano
meno rilievo al suo lavoro sulla
teoria dei numeri che alla sua
abilità di fare calcoli a mente con
una velocità fulminea. Il primo lo
paragonava a un ragazzo tamil di
nome Arumogan, di cui non avevo
mai sentito parlare, e che era stato
l’argomento di una riunione
convocata in via eccezionale dalla
Royal Asiatic Society. “Moltiplicate
45.989 per 864.726” cominciava il
secondo.
Ebbene, questo è un problema che non
turberebbe minimamente S.
Ramanujan, un giovane indù, che lo
scorso anno lasciò l’India per entrare
all’Università di Cambridge. Gli ci
vorrebbero solo pochi secondi per
moltiplicare 45.989 per 864.726. In
ancor meno tempo riuscirebbe a
sommare 8.396.497.713.826 e
96.268.393. Nel tempo che uno scolaro
medio impiegherebbe per dividere
31.021 per 12, Ramanujan potrebbe
trovare la radice quinta di 69.343.957,
o dare la risposta esatta al problema:
Qual è il peso dell’acqua in una stanza
allagata di due piedi, se la stanza
misura 18 piedi e 9 pollici per 13 piedi
e 4 pollici, e un piede cubo d’acqua
pesa 62 libbre e mezzo?
L’articolo terminava paragonando
Ramanujan a un “ragazzo
calcolatore” americano noto come
“Il fantastico Griffith”.
«Ramanujan è davvero in grado
di eseguire a mente questi calcoli?»
chiese Miss Chern, e io risi. Mi
sembrava improbabile; e
soprattutto mi sembrava
insignificante. E mi chiesi, non per
la prima volta, se era così che
Ramanujan avrebbe finito per
essere ricordato: non come un
genio di prima grandezza, ma
come un’attrazione da circo, un
fenomeno da baraccone a cui gli
spettatori avrebbero lanciato
numeri come pesci perché lui li
ingoiasse, solo per guardarlo
mentre, senza l’ausilio di carta e
penna, sputava fuori le somme.
In quel periodo non andavo a
Londra molto spesso. Tuttavia ci
scrivevamo almeno due volte la
settimana. A quanto pareva,
Ramanujan era entrato in un altro
di quei periodi di produttività che
punteggiavano la sua abulia, e
stava lavorando a una dozzina di
cose alla volta: le partizioni, il
Problema di Waring per la potenza
alla quarta, le funzioni theta.
Ancora una volta, accennò alla
possibilità di un suo ritorno in
India – dato che la guerra era finita
non c’era più alcun rischio (almeno
sul fronte non-spirituale)
nell’attraversare l’oceano – e col
suo permesso scrissi a Madras per
conto suo. La sua fellowship non
gli imponeva di risiedere al Trinity,
né lo vincolava a obblighi
particolari. E sebbene continuasse a
riferirsi al viaggio imminente come
a una “visita”, credo sapesse, fin da
allora, che stava per morire.
Mise su un po’ di peso. Le
febbri, disse, avevano cessato di
essere irregolari. Non soffriva più
di dolori reumatici. Forse per
questo motivo, in novembre lasciò
Fitzroy House e si trasferì in una
clinica chiamata Colinette House a
Putney. Era un istituto molto più
modesto (e meno costoso) del
Fitzroy, una solida casa di mattoni
con otto stanze da letto,
indistinguibile dalla maggior parte
delle altre case unifamiliari che
costeggiavano Colinette Road
finché non si entrava e si vedeva lo
spiegamento di attrezzature
mediche ammassate nel salotto.
Una scala imponente portava al
primo piano e alla stanza di
Ramanujan, che aveva un bovindo
affacciato sul giardino anteriore. I
soffitti erano alti e le modanature
elaborate. All’epoca del suo
soggiorno, c’erano solo altri due
residenti oltre Ramanujan: uno era
un colonnello in pensione, la cui
demenza senile gli faceva credere
di trovarsi ancora a Mangalore, e
l’altra un’anziana vedova di nome
Mrs. Featherstonehaugh, che lo
prese in simpatia e lo divertì
spiegandogli che il suo nome si
pronunciava “Fanshawe”.
Poiché da Pimlico ci arrivavo
rapidamente, andavo a trovare
Ramanujan a Colinette House più
spesso di quanto andassi a Fitzroy
House. Di solito prendevo un taxi.
La sua salute a quel punto si era
stabilizzata, anche se pur sempre in
un’invariabile routine di malattia;
come durante i mesi che aveva
trascorso in Thompson’s Lane,
notti febbrili sfociavano in giornate
pacifiche e stanche. Eppure era
meno irritabile che a Matlock.
Tutte le mattine mangiava uova a
colazione, e una volta che lo
interruppi nel bel mezzo del suo
pasto – ero andato per sbrogliare
alcuni dettagli finanziari – lui alzò
gli occhi dal suo piatto, mi guardò
e ciondolò il capo alla vecchia
maniera, come a dire: sì, mi sono
arreso. Ormai non è più così
importante. Le uova non hanno
più importanza.
Poi, con l’arrivo della stagione
fredda, la sua salute cominciò a
peggiorare. Per fortuna gli
concedevano un bel fuoco.
Quando arrivai una mattina di
gennaio, fui sorpreso di trovarlo
ancora a letto. Mi salutò con un
cenno della mano, e mi disse che
aveva ricevuto una lettera
dall’Università di Madras, la stessa
che un tempo gli aveva sbattuto la
porta in faccia, che gli offriva un
reddito di 250 sterline l’anno al
suo ritorno in India, e questo oltre
la stessa somma che avrebbe
percepito dal Trinity. «Ma è
meraviglioso!» dissi, togliendomi il
cappotto e sedendomi accanto a
lui. «Cinquecento sterline all’anno
saranno una fortuna in India. Sarai
un uomo ricco.»
«Sì, è questo il guaio» rispose.
«E perché?»
«Non so cosa fare di tutto quel
denaro. È troppo.»
«Ma non devi spenderlo tutto
per te. Forse avrai dei figli. E quello
che avanza puoi sempre darlo in
beneficenza.»
«Sì, è esattamente quello che
stavo pensando» disse. «Dimmi,
Hardy, ti spiacerebbe scrivere una
lettera per me? Mi sento troppo
debole per tenere in mano la
penna.»
«Ma certo.» Presi della carta da
lettera dal tavolo. «A chi deve
essere indirizzata?»
«A Dewsbury, il conservatore
del registro all’Università di
Madras.»
«Ramanujan, non vorrai…»
«Per favore, vuoi scrivere la
lettera?»
«Ma non sarai così sciocco da
dire loro di abbassare l’offerta…»
«Per favore, fa’ come ti dico.»
Sospirai, abbastanza
rumorosamente, mi augurai, da
esprimere la mia disapprovazione.
Poi dissi: «D’accordo» e tirai fuori
una penna. «Sono pronto. Vai.»
«Caro Mr. Dewsbury, mi pregio
di confermare la ricezione della sua
lettera del 9 dicembre 1918, e
accetto con gratitudine il generoso
aiuto che l’università mi offre.»
«Benissimo» dissi.
«Penso tuttavia che dopo il mio
ritorno in India, che spero avverrà
non appena saranno completati i
preparativi necessari, l’ammontare
del denaro che mi verrà assegnato
sarà molto superiore alle mie
necessità. Spero dunque che, dopo
che saranno state pagate le mie
spese in Inghilterra, cinquanta
sterline l’anno siano assegnate ai
miei genitori e che l’eccedenza,
una volta sistemate le mie spese
necessarie, venga impiegata a fini
educativi, quali in particolare la
riduzione delle rette scolastiche per
i ragazzi poveri e gli orfani e la
fornitura di libri nelle scuole.»
«Molto generoso, ma non ti
piacerebbe controllare come viene
distribuito il denaro?»
«Indubbiamente sarà possibile
raggiungere un accordo in
proposito dopo il mio ritorno. Sono
molto spiacente di non essere
riuscito, negli ultimi due anni, a
dedicarmi alla matematica con la
stessa intensità di prima, a causa
della mia malattia. Spero che
presto riuscirò a impegnarmi di più
e farò del mio meglio per meritare
l’aiuto che mi è stato concesso. Il
suo umile servitore, eccetera
eccetera.»
«Eccetera eccetera» ripetei,
porgendogli la lettera da firmare.
«Ne sei sicuro?» gli chiesi, mentre
la infilavo nella busta.
«Sì, sono sicuro» disse.
Evidentemente era deciso a
tenere il denaro lontano dalle
grinfie dei suoi genitori.
Immagino che adesso potrei anche
raccontarvi il famoso aneddoto.
Ultimamente non mi piace molto
raccontarlo. È stato raccontato
troppe volte e ormai è come se non
mi appartenesse più.
Qualsiasi speculazione, di ordine
matematico e non, su cosa ci fosse
dietro la risposta di Ramanujan, la
lascio a voi.
Ero andato a trovarlo a Putney.
Doveva essere in febbraio, un mese
circa prima che s’imbarcasse su una
nave per tornare a casa. E doveva
sentirsi male, perché le tende
erano tirate, e le teneva chiuse solo
nelle brutte giornate.
Era a letto e mi sedetti al suo
capezzale. Non disse niente, e io
non avevo niente di particolare da
dirgli. Non c’era un motivo speciale
per la mia visita. Tuttavia, provai il
bisogno di rompere il silenzio. Così
dissi: «Il taxi che ho preso da
Pimlico aveva il numero 1729. Mi
è parso un numero piuttosto
insignificante».
Allora Ramanujan sorrise. «No,
Hardy» disse. «È un numero molto
interessante. È il numero più
piccolo esprimibile come la somma
di due potenze al cubo in due
modi diversi.»
Ora, se volete, potete fare
l’operazione matematica, e vedrete
che aveva ragione. 1729 può essere
scritto come 123 + 13. Ma può
essere scritto anche come 103 + 93.
Se il “Christian Science Monitor”
fosse stato presente!
Qui la storia di Ramanujan cessa di
essere mia. Di quello che rimane
della sua vita – poco più di un
anno – non posso dirvi quasi
niente, perché lui visse questi mesi
in India, mentre io rimasi in
Inghilterra.
Quello che so è solo conoscenza
di seconda mano. Sembra che, al
suo ritorno in India, invece di
migliorare, come ci si sarebbe
aspettati, peggiorò. L’università lo
ospitò nel lusso più sontuoso, in
una serie di splendide ville che gli
venivano prestate a tempo
indeterminato, con un’interruzione
per l’estate, che trascorreva lontano
dalla città, sulle rive del fiume
Cauvery, su cui aveva giocato da
bambino. Da qui, veniva riportato
a Madras. Cosa abbia pensato
Komalatammal, abituata a vivere
in una catapecchia dai muri di
fango, della splendida villa del Raj
in cui suo figlio trascorse i suoi
ultimi mesi, non riesco a
immaginarlo. Ho visto una
fotografia del posto. La scalinata,
con la balaustra di teck intagliato,
scende in un ampio salone con
fregi e pavimenti di granito.
“Gometra” si chiamava la casa, nel
sobborgo di Chetput, che
Ramanujan chiamava “Chetpat”: in
tamil, “Accadrà presto”.
Janaki non tardò ad arrivare con
il fratello. Non vi sorprenderà
sapere che Komalatammal non fu
affatto contenta di vederla. Cercò
persino di bandire Janaki dalla
casa, ma Ramanujan insistette
perché sua moglie restasse con lui,
e per rispetto delle sue condizioni,
suppongo, sua madre alla fine
desistette, o quanto meno finse di
aver raggiunto un accordo con la
nuora. (Le osservazioni velenose
che deve aver riservato alla povera
ragazza in privato posso solo
immaginarle.) Nell’insieme, la
situazione era carica di tensione, e
Ramanujan dovette percepire
l’attrito che rimbalzava tra le due
donne mentre si contendevano
l’ambito posto al suo capezzale.
Senza dubbio il pensiero di chi
avrebbe tratto più vantaggi dalla
sua eredità intensificò questa gara
frenetica per vedere a quale delle
due Ramanujan avrebbe concesso
di accudirlo, di cambiargli il
pigiama fradicio di sudore, di
imboccarlo e dargli il latte col
cucchiaio.
Ormai non c’erano più quei
brevi periodi di miglioramento
della salute che in Inghilterra
avevano inframmezzato il lungo
torpore della sua malattia. L’atlante
della sua vita era ridotto a un
materasso sul fresco pavimento di
granito, dal quale si alzava solo
quando dovevano cambiargli le
lenzuola. Eppure, a dispetto della
sua salute in declino, aveva ancora
degli sprazzi di produttività.
Durante uno di questi, gli venne
un’idea che sospetto si dimostrerà
tra le sue più fruttuose, quella della
“funzione mock theta”. Questo era
l’argomento dell’ultima lettera che
mi scrisse, una lettera che scrisse a
letto, e che trattava interamente di
matematica.
Mi si dice che al suo ritorno
l’India lo accolse come un eroe,
che l’India pianse alla notizia della
sua morte. Un finale grandioso per
una storia che era iniziata così
modestamente e che, con ogni
probabilità, continuerebbe ancor
oggi, altrettanto modestamente, se
non fossi intervenuto io.
Se Ramanujan fosse rimasto in
India – se fosse sopravvissuto –
oggi avrebbe quasi cinquant’anni.
Invece morì a trentatré.
La causa della morte, ancora
una volta, fu attribuita alla
tubercolosi.
E che ne è stato degli altri?
Con la fine della guerra,
Littlewood si è riconciliato con
Mrs. Chase. È nato un altro
bambino, che suppongo sia suo.
Mia sorella, la cara e devota
Gertrude, è tuttora nel corpo
insegnante della St. Catherine’s
School.
Daisy e Epée hanno dato origine
a parecchie generazioni di fox
terrier.
I Neville sono a Reading.
Miss Chern è un tutor di
Newnham.
Russell è stato reintegrato al
Trinity.
Fedele alla mia parola, nel 1920
ho lasciato Cambridge per Oxford,
vi ho insegnato felicemente fino al
1931, e poi, attratto come la
proverbiale falena dalla fiamma
che le brucerà le ali, sono tornato
al college dove avevo iniziato la
mia carriera, il college che mi ha
perennemente tradito e angariato,
il college tra le cui mura sono
destinato a finire i miei giorni.
Collaboro ancora con
Littlewood.
L’ospedale sul campo di cricket è
stato smantellato.
Thayer non l’ho mai più rivisto
né sentito.
Mi rimane solo una storia da
condividere.
Quest’anno – all’inizio di aprile,
credo – stavo facendo una
passeggiata in Piccadilly Circus. Era
pomeriggio inoltrato, cadeva una
pioggerellina leggera, e mentre
scendevo dal marciapiede su
Coventry Street fui investito da
una motocicletta.
Ammetto immediatamente che
l’incidente fu tutta colpa mia, e
non del guidatore. Non stavo
guardando dove andavo. Senza
dubbio, come accade spesso di
questi tempi, la mia mente era
concentrata sull’ipotesi di
Riemann.
La prima cosa che ricordo,
subito dopo, è che ero lungo
disteso sull’asfalto a più di tre metri
da dove ero stato investito. La
motocicletta mi aveva trascinato
per un lungo tratto. E adesso il
motociclista, un ragazzo dai capelli
chiari, mi stava guardando
ansiosamente negli occhi. «Sta
bene, signore?» chiese. Poi la sua
faccia scomparve e venne
rimpiazzata da quella di un bobby,
come chiamiamo a Londra i
piedipiatti. «Sta bene, signore?»
chiese il bobby.
«Sto bene» dissi.
«Via, via» disse il bobby.
«Lasciate spazio a questo signore.
Circolare, circolare.»
Poi mi tirò in piedi con un solo
strattone.
«Credo di star bene» dissi. «Ho
preso solo un brutto spavento.»
Non avevo ancora finito di dirlo,
che mi cedettero le ginocchia e il
bobby dovette sorreggermi per
impedirmi di cadere.
Si era formato un capannello di
gente. «Fate largo» ordinò il mio
soccorritore, poi mi portò dall’altra
parte della strada, al riparo dalla
pioggia, sotto gli archi del
Palladium.
«La ringrazio» dissi.
«Dovrebbe guardare dove mette
i piedi» mi disse, sorreggendomi e
rassettandomi il vestito, come se
fossi un bambino.
«Sì, ha ragione.»
«Ecco fatto.» Fece un passo
indietro e si tolse l’elmetto. «È Mr.
Hardy, vero?»
«Sì» dissi. «Mi conosce?»
«Non si ricorda di me, signore?»
«Dovrei?» E lo guardai in faccia:
gli occhi marroni, i baffi folti.
Allora ricordai.
«Richards.»
Le sue labbra si aprirono in un
sorriso. «Esatto, signore. C’ero io
quando venne a prendere Mr.
Ramanujan… quanto tempo è
passato?»
«Non saprei… vent’anni?»
«Un po’ meno. Era l’autunno del
1917, prima della fine della
guerra.»
«Già. Che felice coincidenza!
Sono contento di vederla.
Ho desiderato spesso di venire a
trovarla, allora.»
«Ma davvero? Vorrei l’avesse
fatto. È un peccato. Comunque,
meglio tardi che mai, come dice
mia moglie.»
«Allora è sposato?»
«Altroché, signore, con tre figlie.
È strano però, ho sempre saputo
che l’avrei incontrata un giorno o
l’altro. E guardi dove siamo.»
«Sì. Sotto gli archi del
Palladium.»
Sorridemmo entrambi. Poi il suo
viso si fece grave. «Che cosa triste,
il povero Mr. Ramanujan.
Naturalmente si vedeva fin da
allora che non stava bene. E poi ho
letto i necrologi, e ho pensato,
bene, adesso tutto torna.»
«Sì, suppongo di sì.»
«E dire che non è stato
nominato FRS fino al 1918.»
«Il 1918, sì.»
«Ma quando lei venne a
Scotland Yard, signore, ci disse che
era già un FRS, ma era il 1917.»
«Oh, lo dissi davvero?» E sorrisi
di nuovo, non tanto perché ero
stato sorpreso a mentire quanto
perché si trattava di una bugia che,
fino a quel momento, avevo
dimenticato.
«Be’, diciamo che era quasi un
FRS.»
«Quindi ammette di avere
mentito.»
«Non vedo che importanza
possa avere.»
«Vuol dire che la legge non ha
importanza, signore?» Richards
aggrottò la fronte. «È una faccenda
seria, mentire a Scotland Yard,
signore. È spergiuro. Potrei
arrestarla per questo.»
«Sciocchezze. È successo tanti
anni fa! Inoltre…» feci un gesto
vago verso Coventry Street, «sono
appena stato investito da una
motocicletta.»
Allora Richards si mise a ridere.
Non la smetteva più. «Ci è cascato,
eh?» disse.
«Già, ci sono cascato.»
Poi accadde una cosa
straordinaria. Forse fu
un’allucinazione provocata dallo
shock dell’incidente – ancora oggi
non ne sono sicuro – ma fu come
se mi spingesse giù, facendo
pressione sulle mie spalle. E, vuoi
perché lo desideravo, vuoi perché
ero debole, caddi in ginocchio.
All’improvviso tutti i rumori
della strada scomparvero. Vidi gli
ultimi raggi di sole allargarsi su una
pozzanghera. Vidi, in lontananza,
ombrelli che si chiudevano e la
pioggia che cessava.
Con molta calma, lui mi mise le
mani sulla testa, mi affondò le
unghie nello scalpo, e mi tirò la
faccia contro la lanuginosa,
animale oscurità dei calzoni della
sua uniforme.
Solo per un momento. Poi mi
lasciò andare.
«Coraggio, si alzi.» Mi alzai in
piedi, ancora incerto sulle gambe.
«Vorrà tornare a casa adesso,
signore» disse e, facendomi ruotare
su me stesso, mi orientò verso la
strada, tra uno strombazzare di
clacson e una confusione di facce
bagnate nel crepuscolo.
«Grazie» dissi. Per tutta risposta
mi diede una spintarella,
facendomi scendere dal
marciapiede su Coventry Street,
verso le scale che portavano alla
metropolitana.
5

Hardy scese dal podio. L’applauso


che riempì la stanza risuonò come
uno scroscio di pioggia sul tettuccio
delle macchine.
Di colpo fu circondato, in un
turbinio di mani che stringevano la
sua, di bocche intollerabilmente
vicine alla sua faccia, che
mormoravano congratulazioni,
facevano domande. Alle domande
rispose con la voce che aveva usato
per la conferenza, mentre dentro
di lui l’altra voce, la voce segreta,
ricordava la notte a Pimlico in cui
lo spirito di Gaye, evocato
dall’etere o apparso dal nulla, a
seconda dei punti di vista, si era
seduto sul bordo del suo letto e lo
aveva avvertito di guardarsi da un
uomo in nero e dall’ora del
crepuscolo.
Ed era proprio l’ora del
crepuscolo. Voci cui non riusciva a
dare un nome chiesero se voleva
riposare prima di cena, e lui disse
che l’avrebbe fatto, altre si
offrirono di accompagnarlo al suo
albergo e lui le allontanò con un
cenno. No, sarebbe andato da solo.
La passeggiata gli avrebbe fatto
bene. Così, finalmente libero e
solo, si affrettò a uscire dalla New
Lecture Hall nell’aria vespertina;
camminò rapido attraverso piccoli
parchi e tra le ombre di edifici di
mattoni, senza badare a dove stava
andando, perché l’obiettivo non
era arrivare da qualche parte; era
frapporre quanta più distanza
poteva tra se stesso e i fantasmi che
aveva evocato.
Presto si trovò in Harvard Yard.
La vista di due studenti universitari
che si lanciavano una palla attirò la
sua attenzione. Fin dal suo primo
viaggio negli “States” il baseball
americano lo aveva affascinato.
Ora si fermò sul sentiero di
cemento che tagliava in diagonale
il prato e guardò i due giovani
giocare, lo sguardo ipnotizzato
dalla posizione ricurva che
ciascuno assumeva quando
allungava il braccio all’indietro per
lanciare la palla; l’arco che la palla
descriveva sull’erba verde; il tonfo
soddisfacente quando la pelle dura
e bianca della palla colpiva la pelle
soffice e marrone del guanto. Non
importava se il sole sarebbe presto
tramontato; sapeva che questi due
giovani avrebbero giocato finché
l’ultima luce fosse scomparsa dal
cielo, finché il crepuscolo fosse
stato prosciugato fino all’ultima
goccia.
Perché lo sorprendeva ancora
sapere così poco di Ramanujan?
Era troppo vecchio per continuare
a credere di aver toccato più di un
frammento di quella vasta mente
infernale. Nessuno di loro ci era
riuscito, né Littlewood, né Eric, né
Alice. Ramanujan era entrato nel
loro mondo, e per qualche tempo
le loro vite avevano ruotato intorno
a lui, proprio come pianeti lontani
ruotano intorno a una stella di cui
riescono a discernere solo la più
vaga penombra. Eppure quella
stella, nonostante la sua
lontananza, governa le loro orbite e
regola la loro gravità. Ancora
adesso, sogni su Ramanujan
strappavano Hardy dal sonno ogni
mattina. E quando andava a
dormire una guizzante radiosità
pervadeva i suoi sogni, come la
luce riflessa da una mazza da
cricket verniciata, o dalla spada
brandita da un gurkha.
Fonti e ringraziamenti

Mentre scrivevo e facevo le


ricerche per Il matematico indiano,
ho consultato centinaia di fonti.
Ho pertanto un debito di
gratitudine con i molti storici,
archivisti, matematici e bibliotecari
il cui paziente lavoro ha portato
alla luce queste fonti.
Detto questo, debbo precisare
che il mio romanzo – come la
maggior parte dei romanzi basati
su fatti veri – si prende delle libertà
rispetto alla verità storica, mescola
fatti autentici e invenzione, e
trasforma figure storiche in
personaggi romanzeschi. Quello
che segue è un breve resoconto di
alcune delle letture che ho fatto e
dello sbocco che hanno avuto.
Spero vivamente che, dopo aver
finito di leggere Il matematico
indiano, alcuni lettori vorranno
saperne di più dei tre uomini
straordinari intorno ai quali ruota
questo romanzo. Il miglior punto
di partenza è la magistrale biografia
di Robert Kanigel, The Man Who
Knew Infinity: ALife of the Genius
Ramanujan (Crown, 1991; trad. it.
L’uomo che vide l’infinito, Milano,
Rizzoli, 2003), che fornisce non
solo un resoconto particolareggiato
della vita di Ramanujan, ma anche
di quella di Hardy.
Per mia fortuna, quando iniziai
a scrivere Il matematico indiano la
maggior parte delle fonti primarie
che avevo bisogno di consultare –
lettere, memorie, fotografie,
documenti – erano già state
raccolte in una serie di volumi
antologici. I primi di questi,
pubblicati nel 1967 (sei anni dopo
che l’India emise un francobollo in
memoria di Ramanujan), erano
Ramanujan: The Man and the
Mathematician, di S.K.
Ranganathan (Asia Publishing
House), e il testo di P.K.
Srinivasan, Ramanujan Memorial
Number (Multhialpet High
School), composto dai due volumi:
Ramanujan. Letters and
Reminiscences e Ramanujan. An
Inspiration. Nel 1995 uscì
l’autorevole Ramanujan. Letters
and Commentary, seguito nel 2001
da Ramanujan. Essays and
Surveys. Entrambi sono curati (in
modo superbo) da Bruce C. Berndt
e Robert A. Rankin e pubblicati
dalla London Mathematical Society
e dalla American Mathematical
Society.
Il mio racconto della malattia di
Ramanujan si basa sulla ricerca
esaustiva condotta sull’argomento
da Robert A. Rankin e dal dottor
A.B. Young. I loro articoli –
“Ramanujan as a Patient” e
“Ramanujan’s Illness” – si trovano
entrambi in Ramanujan. Essays
and Surveys. Concordo col dottor
Young nel sospettare che
Ramanujan in realtà non soffrisse
di tubercolosi, e ho basato il mio
racconto del tentato suicidio e
delle sue conseguenze, in parte,
sull’interessante lavoro da detective
svolto dal dottor Young.
Uno scrittore del calibro di
Graham Greene ebbe a lodare lo
straordinario libro di memorie di
Hardy, scritto nel 1940,
AMathematician’s Apology (trad.
it. Apologia di un matematico,
Milano, Garzanti, 1989), che
continua a essere stampato dalla
Cambridge University Press.
Questo volume contiene anche un
commovente ricordo di Hardy da
parte del suo amico romanziere
C.P. Snow.
Ramanujan. Twelve Lectures on
Subjects Suggested by His Life and
Work – il testo delle conferenze
che Hardy tenne a Harvard nel
1936 – è disponibile nella ristampa
della AMS Chelsea Publishing, come
pure Collected Papers of Srinivasa
Ramanujan, curato da G.H.
Hardy, P.V. Seshu Aiyar e B.M.
Wilson. Le opere complete di
Hardy (Oxford University Press) si
possono trovare nella maggior
parte delle biblioteche
universitarie. Dei suoi testi
matematici, probabilmente il più
famoso è Course of Pure
Mathematics, che la Cambridge
University Press ha tenuto in
stampa per tutti questi anni.
Il resoconto migliore dell’affare
Bertrand Russell al Trinity College
rimane quello dello stesso Hardy:
Bertrand Russell & Trinity,
pubblicato privatamente ma
disponibile in una ristampa della
Cambridge University Press. Tre
articoli pubblicati in Russell. The
Journal of the Bertrand Russell
Archives hanno contribuito ad
approfondire la mia conoscenza del
rapporto tra Russell e Hardy, e
precisamente: quello di Jack Pitt,
“Russell and the Cambridge Moral
Sciences Club” (New Series, vol. 1,
n. 2, inverno 1981-82); quello di
Paul Delaney, “Russell’s Dismissal
from Trinity. A Study in High
Table Politics” (New Series, vol. 6,
n. 1, estate 1986); e infine quello
di I. Grattan-Guinness, “Russell
and G.H. Hardy. A Study of Their
Relationship” (New Series, vol. 11,
n. 2, inverno 1991). Inoltre, ho
letto lettere selezionate dalla
voluminosa corrispondenza di
Russell, alcune delle quali
pubblicate da Routledge in The
Selected Letters of Bertrand Russell
(in due volumi, a cura di Nicholas
Griffin), altre, incluse parecchie di
Hardy, messemi a disposizione
grazie alla generosità del personale
dei Bertrand Russell Archives alla
McMaster University.
Data la propensione di Russell a
controllare il suo testamento
intellettuale, non stupisce che la
sua autobiografia, (Atlantic
Monthly Press, 1967) ci dica meno
della sua cacciata dal Trinity che
non i libri di Ray Monk, Bertrand
Russell. The Spirit of Solitude,
1872-1921 (Free Press, 1996) e di
Ronald W. Clark, The Life of
Bertrand Russell (Alfred A. Knopf,
1976).
Per le mie ricerche sugli Apostoli
di Cambridge, mi sono basato sul
testo autorevole di Paul Levy,
Moore. G.E. Moore and the
Cambridge Apostles (Oxford
University Press, 1981) e, in grado
minore, sul libro esauriente ma
controverso e talvolta omofobico di
Richard Deacon, The Cambridge
Apostles. A History of Cambridge
University’s Elite Intellectual Secret
Society (Farrar, Straus & Giroux,
1985). Anche il libro di W.C.
Lubenow, The Cambridge Apostles,
1820-1914 (Cambridge University
Press, 1998) si è dimostrato una
fonte inestimabile. (Sono grato in
particolare al professor Lubenow
per avermi aiutato a dissipare la
nebulosità che circondava la
domanda se Hardy avesse o no
“attestato” durante la Prima guerra
mondiale.)
Attraverso le lettere dei
confratelli – in particolare Russell,
Lytton Strachey, James Strachey e
Rupert Brooke – sono riuscito a
farmi un’idea abbastanza precisa di
come dovevano svolgersi le
riunioni della Società, al punto di
riuscire a immaginarne il suono e
l’odore. Molte delle lettere di
Lytton Strachey sugli Apostoli sono
incluse in The Letters of Lytton
Strachey, scelte e curate da Paul
Levy (Viking, 2005), mentre la
corrispondenza di Brooke con il
più giovane degli Strachey si può
trovare in Friends and Apostles.
The Correspondence of Rupert
Brooke and James Strachey, 1905-
1914, a cura di Keith Hale (Yale
University Press, 1998). Il libro di
Paul Delaney, The Neo-Pagans:
Rupert Brooke and the Ordeal of
Youth (Free Press, 1987), fa luce
non solo su Brooke, ma anche sul
suo rivale ungherese Ferenc
Békássy, mentre il lavoro
magistrale di Michael Holroyd,
Lytton Strachey. The New
Biography (W.W. Norton, 2005),
merita di essere letto non solo
perché è un esempio illustre
dell’arte della biografia, ma
soprattutto perché offre un ritratto
penetrante del personaggio. Infine,
le memorie di John Maynard
Keynes, “My Early Beliefs” incluse
in Two Memoirs (Rupert Hart-
Davis, 1949), descrivono con
pathos e arguzia la profonda
influenza filosofica e morale che
G.E. Moore ebbe sugli Apostoli.
Per le ricerche su J.E.
Littlewood, mi sono valso del suo
libro di memorie e saggi, A
Mathematician’s Miscellany
(Methuen, 1953), e di Littlewood’s
Miscellany di Béla Bollobás
(Cambridge University Press,
1986), che unisce il contenuto del
primo libro con altri scritti di
Littlewood e un avvincente ricordo
del matematico da parte dello
stesso Bollobás.
Il racconto del suicidio di Russell
Kerr Gaye (e dei suoi effetti su
Hardy) deriva dalle lettere di
Lytton e James Strachey
sull’argomento, e, in misura
minore, dal necrologio di Gaye sul
“Times”, mentre la storia della
malattia della loro gatta e della
donna del circo che catturava i topi
coi denti si rifà a una biografia di
Leonard Woolf, Sowing (Harcourt,
Brace & Co., 1960).
La poesia di Gertrude Hardy,
Lines Written Under Provocation,
fu pubblicata nell’ottobre 1933
(trent’anni dopo la data in cui
gliela attribuisco nel romanzo) sul
“St. Catherine’s School Magazine”.
Robert Kanigel ha incluso questo
notevole pezzo satirico in The Man
Who Knew Infinity. Kanigel è
anche la fonte di parecchi
particolari della vita di Hardy che
drammatizzo nel mio romanzo: tra
gli altri, il “bazar indiano”, la
rappresentazione della Dodicesima
notte, la conversazione col vicario
sull’aquilone e la tragica storia
dell’occhio di vetro di Gertrude.
Kanigel riuscì anche a rintracciare i
rompicapo dello “Strand” che
Ramanujan risolveva così
velocemente.
Per chi volesse capire più a
fondo il mondo in cui nacque
Hardy (e la guerra che lo
sconvolse), non raccomanderò mai
abbastanza il libro di Samuel
Hynes, The Edwardian Turn of
Mind (Princeton University Press,
1968); il suo seguito meno noto, A
War Imagined. The First World
War and English Culture
(Atheneum, 1990); e il testo di
Paul Fussell, The Great War and
Modern Memory (Oxford
University Press, edizione per il 25°
anniversario, 2000).
Gli atteggiamenti verso
l’omosessualità che imperavano
nell’Inghilterra di quegli anni sono
esaminati con acume da Graham
Robb in Strangers. Homosexual
Love in the Nineteenth Century
(W.W. Norton, 2004) e da Matt
Houlbrook in Queer London. Perils
and Pleasures in the Sexual
Metropolis, 1918-1957 (University
of Chicago Press, 2005). Tuttavia è
da una serie di romanzi – la trilogia
di Pat Barker, Regeneration
(Regeneration, The Eye in the Door
e The Ghost Road, tutti pubblicati
da Plume) – che ho ricavato
l’impressione più vivace dei modi
in cui l’amore omosessuale veniva
espresso, strumentalizzato e
manipolato in Inghilterra durante
la Grande Guerra.
Fortunatamente per i lettori,
negli ultimi quattro anni sono
usciti quattro ottimi libri sull’ipotesi
di Riemann. Di questi, i due che
raccomando più caldamente sono
The Music of the Primes di Marcus
du Sautoy (HarperCollins, 2003) e
Stalking the Riemann Hypothesis di
Dan Rockmore (Pantheon, 2005).
Hardy e Ramanujan compaiono
anche nella bella biografia del
matematico Paur Erdös scritta da
Paul Hoffman, The Man Who
Loved Only Numbers (Hyperion,
1998).
La mia ricerca sulla storia del
tripos matematico e della battaglia
di Hardy per abolirlo è basata su
fonti primarie che includono
lettere al “Times” e, sempre dello
stesso giornale, articoli nella
rubrica “University Intelligence” e
necrologi. Ho anche letto –
imparando moltissimo – il saggio
“Mathematics in Cambridge and
Beyond” di Jeremy Gray, in
Cambridge Minds, curato da
Richard Mason (Cambridge
University Press, 1994) e parecchi
saggi personali raccolti nei tre
volumi dell’antologia Mathematics.
People, Problems, Results, curata da
Douglas M. Campbell e John C.
Higgins (Wadsworth, 1984): “Old
Tripos Days at Cambridge” di A.R.
Forsyth; “Old Cambridge Days” di
Leonard Roth; “John Edensor
Littlewood” di J.C. Burkill;
“Hardy’s A Mathematician’s
Apology” di L.J. Mordell e, infine,
“Some Mathematicians I Have
Known” di George Pólya.
A proposito di Pólya,
l’affascinante Pólya Picture Album.
Encounters of a Mathematician
(Birkhäuser, 1987) contiene la più
vasta scelta di fotografie che io
abbia mai trovato finora di Hardy,
notoriamente restio a farsi
fotografare.
La storia della vittoria di
Philippa Fawcett nel tripos
matematico veniva citata solo
fugacemente dal “Times” di
Londra, ma fece notizia sul “New
York Times”. Ringrazio Jill
Lamberton per aver condiviso con
me una lettera del 1890 in cui
Helen Gladstone descriveva
l’evento a Mary Gladstone Drew.
Gran parte di ciò che D.H.
Lawrence dice a Hardy nel
romanzo è tratta dalle lettere che
egli scrisse a David Garnett e a
Bertrand Russell, prima e dopo la
sua disastrosa visita a Cambridge.
Le lettere si possono trovare in The
Letters of D.H. Lawrence, vol. II,
giugno 1913-1916, a cura di
George J. Zytaruk e James T.
Boulton (Cambridge University
Press, 1981). Che Lawrence abbia
avuto “una lunga e amichevole
discussione” con Hardy e che
sembri aver provato simpatia
unicamente per Hardy tra i molti
don che incontrò in quell’occasione
è confermato da parecchie fonti,
tra le altre il libro di Edward Nehls
D.H. Lawrence. A Composite
Biography (University of Wisconsin
Press, 1957-59).
La maggior parte dei piatti
vegetariani dei quali scrivo nel
romanzo possono essere trovati nei
ricettari di cucina vegetariana del
periodo. A chi fosse curioso di
esplorare questo affascinante
argomento, raccomando
caldamente il libro di Colin
Spencer, Vegetarianism. A History
(Four Walls Eight Windows,
2002).
E adesso veniamo alle invenzioni
e alle mezze verità.
Sebbene il mio racconto
dell’iniziazione di Ludwig
Wittgenstein tra gli Apostoli sia
complessivamente piuttosto
accurato, ho ritardato l’evento di
tre mesi per assecondare la
cronologia del romanzo.
Eric Neville aveva davvero una
moglie di nome Alice, la cui
gentilezza verso Ramanujan e la
preoccupazione per il suo
benessere Ranganathan ricorda
con affetto nel suo libro. Detto
questo, non c’è motivo di
sospettare che Alice Neville
parlasse lo svedese, fosse
innamorata di Ramanujan,
lavorasse per Dorothy Buxton,
cantasse Gilbert e Sullivan o
leggesse Israfel.
Israfel però esisteva davvero: i
passaggi citati sono presi dal suo
libro Ivory Apes & Peacocks (At the
Sign of the Unicorn, 1899). Anche
Dorothy Buxton è esistita e, dopo
aver dedicato tutto il periodo della
Grande Guerra a pubblicare le sue
“Note dalla Stampa estera” sul
“Cambridge Magazine”, procedette
a fondare il Save the Children
Fund con sua sorella, Eglantyne
Jebb.
Benché tra gli amici indiani di
Ramanujan a Cambridge ci fossero
uomini di nome Chatterjee,
Mahalanobis e Ananda Rao, non
c’è motivo di sospettare che
assomigliassero in alcun modo ai
personaggi del romanzo cui ho
dato gli stessi nomi. E sebbene
Ramanujan abbia davvero disertato
la cena che diede in onore di
Chatterjee e della sua fidanzata, Ila
Rudra, nessuna fonte suggerisce
che Hardy fosse presente. (Lo era
invece Miss Chattopadhyaya.)
È incredibile, ma anche “S.
Ram” era una persona reale. I suoi
monologhi sono tratti dalle lunghe
lettere che scrisse a Ramanujan e a
Hardy.
Sebbene sia un personaggio del
tutto fittizio, Mrs. Chase è
liberamente ispirata a “Mrs.
Streatfeild”, una signora di Treen
con la quale Littlewood ebbe una
lunga relazione e almeno un figlio.
In ogni caso, il vero Littlewood
non la conobbe fin dopo la morte
di Ramanujan.
Thayer è inventato. E anche
Richards.
Di ogni altro errore, svolazzo o
esagerazione fantasiosa che verrà
alla luce sono l’unico responsabile.
La musa della storia forse non li
perdonerà; spero che il lettore sarà
più indulgente.
Per il sostegno e gli aiuti più
svariati, voglio ringraziare
Krishnaswami Alladi del
dipartimento di Matematica
dell’Università della Florida; Bruce
Andrews; Amy Andrews Alznauer;
Liz Calder; Dick Chapman;
Vikram Doctor; Maggie Evans;
Michael Fishwick; Sunil Mukhi; K.
Srinivasa Rao; John Van Hook
della biblioteca dell’Università
della Florida; Greg Villepique; e il
generoso corpo docente della
Sastra University, Kumbakonam,
Tamil Nadu.
Per l’editing accurato di questo
romanzo, sono immensamente
grato a Colin Dickerman e a Beena
Kamlani. Sono altrettanto grato a
Prabhakar Ragde per aver letto con
tanta attenzione il romanzo e avere
corretto alcuni dei miei più vistosi
errori matematici.
Ho uno speciale debito di
gratitudine con l’infaticabile R.
Balusubramanian (“Balu”)
dell’Istituto di Scienze
matematiche di Chennai, che mi
ha fatto fare un giro di Triplicane
su un risciò elettrico, mi ha lasciato
tenere in mano gli appunti originali
di Ramanujan e mi ha presentato
al figlio adottivo di Janaki.
Come sempre, ringrazio i miei
agenti Jin Auh, Tracy Bohan e
Andrew Wylie, per il loro
incessante sostegno e
incoraggiamento.
Indice

PRIMA PARTE
L’aquilone nella nebbia
SECONDA PARTE
Il corvo nella sala da pranzo
TERZA PARTE
Fatti allegri sul quadrato
dell’ipotenusa
QUARTA PARTE
Le bellezze dell’isola
QUINTA PARTE
Sogni terribili
SESTA PARTE
Partizioni
SETTIMA PARTE
Il treno infinito
OTTAVA PARTE
Il fulmine abbatte un albero
NONA PARTE
Crepuscolo
Fonti e ringraziamenti

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