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Martin Bauman
Mentre l’Inghiterra dorme
La nuova generazione perduta
La trapunta di marmo
Il voltapagine
David Leavitt
Il matematico indiano
Traduzione di Delfina
Vezzoli
MONDADORI
Copyright © 2007, David Leavitt
All rights reserved
Titolo originale dell’opera: The Indian Clerk
© 2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.,
Milano
COPERTINA
ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO
PROGETTO GRAFICO: ANDREA GEREMIA
GRAPHIC DESIGNER: SUSANNA TOSATTI
FOTO © ALEN MACWEENEY/CORBIS
Questo ebook contiene materiale
protetto da copyright e non può
essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato,
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dovranno essere imposte anche al
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Ebook ISBN 9788852017155
www.librimondadori.it
IL MATEMATICO INDIANO
PRIMA PARTE
scrivere come o 2.
Sulla stessa falsariga, scrive la
sequenza
che naturalmente è 1 + 2 + 3 + 4 +
...
Quindi quello che sta dicendo in
realtà è che
«Che è il calcolo di Riemann della
funzione zeta in cui viene inserito
-1.»
Hardy annuisce. «Solo che credo
non sappia nemmeno cos’è la
funzione zeta. Credo che ci sia
arrivato da solo.»
«Ma è strabiliante. Chissà che
effetto gli farà sapere che Riemann
lo ha preceduto.»
«Ho l’impressione che non abbia
mai sentito parlare di Riemann.
Come avrebbe potuto, laggiù in
India? Sono indietro in Inghilterra,
e guarda quanto è indietro
l’Inghilterra rispetto alla Germania.
E naturalmente, poiché è un
autodidatta, è abbastanza
comprensibile che la sua notazione
sia un po’… be’… bislacca.»
«È vero, solo che sembra che lui
se ne renda perfettamente conto.
Altrimenti perché avrebbe scritto
quella battuta sul manicomio?»
«Sta giocando con noi. Si reputa
un grande.»
«È tipico dei grandi uomini.»
Cala il silenzio. Trangugiando il
suo whisky, Littlewood osserva
Hermione. Il suo sguardo – rapace,
accusatore e annoiato – lo
sconcerta. Il fatto è che qui, sul
territorio di Hardy, non è più a suo
agio di quanto lo sia Hardy sul suo.
Il gatto lo innervosisce, come pure i
fronzoli decorativi, l’ottomana con
la sua frangia pelosa e il busto sulla
mensola del caminetto. Gaye, a
quanto pare.
Posando il bicchiere, prende la
lettera da dove l’ha lasciata cadere
Hardy; si alza. «Ti dispiace se
seguo la tradizione e la prendo in
prestito?» chiede.
«Fai pure. Probabilmente avrai
più fortuna di me.»
«Non vedo perché.»
«Sei tu quello che è stato
nominato senior wrangler.»
Littlewood alza le sopracciglia.
“Questa da dove arriva?”
«Mostrala a Mercer allora» gli
dice restituendo la lettera, un po’
sorpreso dalla propria veemenza.
Hardy sembra un cane
bastonato. Ma Littlewood gli ha già
girato le spalle per rivolgersi a
Hermione. «Addio, gatto» dice.
Lei lo ignora.
«A volte penso che sia sorda.»
«È sorda.»
«Cosa?»
«Un gene recessivo. Quasi tutti i
gatti bianchi sono sordi.»
«Eh già» dice Littlewood.
«Naturale che tu abbia un gatto
sordo. Avrei dovuto immaginarlo.»
Va verso la porta, e Hardy alza
una mano per fermarlo. «Scusami»
dice, «non intendevo offenderti…
Via, prendi la lettera.»
«Non sono offeso. Solo
perplesso. Che tu abbia
menzionato una cosa del genere. È
davvero un punto così dolente?
Ancora?»
«Certo che no. È solo che…»
«E non puoi pensare che sia
importante per me. Odio quella
maledetta storia, almeno quanto
te.»
«Lo so. Mi sono espresso male.
Una battuta infelice. Ti prego,
prendi la lettera.»
Gliela porge come un’offerta.
Con riluttanza, Littlewood la
accetta. Hardy sembra mortificato,
e il risentimento di Littlewood
svanisce. Poverino! «Benissimo,
signore» dice, per dimostrare che
non c’è nessun rancore, e mima un
saluto militare. «Buonanotte.»
«Buonanotte» risponde Hardy,
con voce mesta e incolore, e chiude
la porta.
Littlewood è ancora giovane e,
appena resta solo, scende le scale
saltellando e facendo i gradini a
due a due. Sta pensando a Mercer,
non a Mercer com’è adesso, ma a
com’era quando entrambi si
allenavano per il tripos. Allora
Mercer parlava solo quando veniva
interpellato. Quando scriveva, la
sua testa dondolava sopra il foglio
con la regolarità di un metronomo.
Littlewood non esiterebbe ad
ammettere che la strana capacità di
concentrazione di Mercer, il suo
essere palesemente dimentico di
tutto ciò che lo circondava, lo
innervosiva più di qualsiasi bravata
messa a segno dai suoi compagni
più competitivi, gesti intesi a
distrarre. E Hardy cosa mai ci
aveva trovato di tanto affascinante
in Mercer? Non che voglia sentire i
dettagli cruenti del caso, che in
questa circostanza probabilmente
non sono neppure relativi al sesso,
ma semmai all’infatuazione, il che
è forse ancor peggio. Littlewood ne
sa qualcosa, perché gli è capitato di
essere oggetto d’infatuazione: le
ore che quei poveri diavoli passano
a cercare di “leggere” un sorriso, o
a interpretare una pacca sulla
spalla, o a capire il significato
segreto del prestito di una matita.
Stupidaggini da scolarette. E i
bigliettini: “Sebbene non ci siamo
mai parlati, e indubbiamente per te
io sia invisibile, concedimi, senza
offesa, di commentare il piacere
che mi ha dato, per tante mattine,
guardarti nuotare…”. Eppure,
sarebbe curioso di sapere come era
iniziata la storia con Mercer, e
perché si era guastata.
La pioggia persiste nella sua
danza pluviale. Corre fino alla
Nevile’s Court senza aprire
l’ombrello. Gli piace la sensazione
delle gocce d’acqua che gli
scivolano sulla fronte e vorrebbe
solo non essere così affamato.
Una cosa di cui essere grati è la
solitudine. Se lo desidera, può
andare dritto a letto. Nessuna
amante fantasma lo visiterà nei
suoi sogni. (E Hardy, chi sognerà?
Rabbrividisce al solo pensiero.) Ma
forse non andrà affatto a dormire.
Forse starà alzato tutta la notte, a
studiare la lettera dell’indiano. E se
lo farà, non ci sarà nessuno a
rimproverarlo. Nessuna figura
confusa in camicia da notte, con
una candela in mano, lo pregherà
di venire a letto. Nessun bimbo lo
chiamerà perché lo conforti dopo
un brutto sogno.
Entra in casa. Il silenzio delle
sue stanze è familiare, consolante.
Non ci sono due silenzi uguali,
pensa; ciascuno ha i propri
contorni e sfumature, perché
dentro a ogni silenzio c’è l’assenza
di un suono, e in questo caso è il
suono di Mozart strimpellato su un
piano, o di Beethoven, suonato con
maestria, che esce dalla tromba di
un grammofono. Si toglie la giacca
e, mentre lo fa, sente il profumo di
Anne, molto debole adesso. Poi
scalcia via le scarpe, si accende la
pipa e si siede a leggere la lettera.
9
19 gennaio 1914
Hotel Connemara
Madras
Mia cara Miss Hardy,
grazie infinite per la sua gentile
risposta alla mia lettera precedente,
che è arrivata solo ieri. Sono felice di
sapere che si sta riprendendo dal suo
raffreddore di testa, e spero che,
mentre le scrivo, non ci siano più
sintomi a disturbarla. Ringrazi anche
suo fratello per le gentili parole di
saluto. La prego di dirgli che mio
marito e io non vediamo l’ora di
rivederlo al nostro ritorno in
Inghilterra.
Sono particolarmente felice di
sapere che ho suscitato il suo interesse
per gli scritti di Israfel, il cui libro
Ivory, Apes and Peacocks ha significato
tanto per me in questo viaggio. Spero
che quest’opera sia per lei fonte di
piacere come lo è stata per me.
Purtroppo posso dirle poco della vera
identità dell’autore, salvo che, a
dispetto del nom de plume maschile, in
realtà è una signora, che mia zia Daisy
ha conosciuto di sfuggita. Per
rispettare il desiderio di questa signora
di restare anonima, zia Daisy si è
rifiutata di confidare il suo vero nome
persino a me. So però che è
appassionata di musica e che, tra le
altre opere, c’è una sua raccolta di
“Fantasie musicali” che include i
ritratti di Paderewski, De Pachmann e
Isaye. Lei va spesso ai concerti? Forse,
durante un weekend in cui saremo
entrambe a Londra, potremmo andarci
insieme. È un peccato che suo fratello
mostri così poco interesse per la
musica. Si può solo sperare che Mr.
Littlewood si dimostri un’influenza
positiva su di lui a questo proposito!
Ma passiamo ad altri argomenti: so
che Mr. Neville ha scritto a Mr. Hardy
per parlargli del suo incontro con il
genio indiano Ramanujan. Dei quattro
incontri che hanno avuto luogo finora,
io ho avuto il privilegio di partecipare a
due. Mr. Ramanujan è basso di statura
e robusto, con la pelle più chiara della
maggior parte dei suoi connazionali,
anche se è piuttosto scura per i nostri
standard. Ha un viso rotondo, con
sopracciglia basse sugli occhi, un naso
largo e schiacciato e la bocca sottile.
Gli occhi sono stupefacenti e scuri, ci
vorrebbe un Israfel per descriverli. La
fronte è rasata, ma tiene il resto dei
capelli raccolti sulla nuca in un ciuffo
chiamato kudimi. Veste in modo
ortodosso, in tunica e dhoti. Non porta
le scarpe, ma sandali leggerissimi.
Per fortuna, non appena mio marito
e io ci siamo seduti a prendere un tè
indiano con Mr. Ramanujan, ogni
allarme che il suo aspetto esteriore
avrebbe potuto suscitare in noi si è
dissipato. Raramente ho conosciuto un
uomo di tale garbo, fascino,
riservatezza, e delicatezza di modi.
L’inglese di Mr. Ramanujan non è
caratterizzato dall’accento della sua
lingua nativa ed è fluente, il suo
vocabolario molto più ricco di quello
di un comune lavoratore britannico. E
sebbene all’inizio possa risultare
timido, quando arriva a sentirsi a suo
agio con le persone in sua compagnia
si aprono le cataratte e lui si rivela un
parlatore straordinario.
Il nostro primo incontro ha avuto
luogo nella mensa della Senate House
dell’università, un edificio, se mi è
consentito dirlo, Miss Hardy, di
incomparabile bruttezza. Mio marito
ha iniziato la conversazione chiedendo
a Mr. Ramanujan di parlarci della sua
educazione, al che dalle sue labbra è
uscito un racconto fluviale di
frustrazione, delusione, e ingiustizia.
Proviene da una famiglia di casta alta
ma di pochi mezzi, ed è cresciuto nella
cittadina di Kumbakonam, a sud di
Madras, in una piccola misera casa su
una strada dal nome straordinario di
Sarangapani Sannidhi Street. È il
maggiore di tre figli. Il padre è un
impiegato contabile; dal poco che ha
raccontato di lui Mr. Ramanujan, è un
uomo di una modestia tale da
rasentare l’irrilevanza.
Per sua madre, invece, ha avuto solo
i più grandi elogi, spiegando che,
sebbene avesse ricevuto solo i
rudimenti dell’istruzione (una piaga
diffusa, debbo dire, tra le donne
indiane), questa signora aveva
mostrato fin dall’inizio una
comprensione intuitiva delle sue doti e
fatto tutto ciò che poteva per
incoraggiarle; vale a dire che, pur non
essendo in grado di aiutarlo nei suoi
studi, faceva in modo che, mentre lui
lavorava, la casa fosse silenziosa, i suoi
piatti preferiti fossero pronti e così via.
Era anche, ci ha detto, un’astrologa
provetta, e, fin dall’inizio, gli disse di
aver letto le sue stelle e che le sue stelle
dicevano che era destinato alla
grandezza.
Purtroppo i suoi insegnanti non
sono stati altrettanto solleciti con lui!
Forse le persone autenticamente
originali sono sempre condannate a
essere incomprese. Nel caso di Mr.
Ramanujan, il suo straordinario
talento è stato ampiamente ignorato. In
parte questo avvenne perché, fin dai
primi tempi della sua educazione
scolastica, l’intensità del suo interesse
per la matematica lo indusse a prestare
scarsa attenzione alle altre materie in
cui era tenuto a dar prova di una certa
capacità. Il risultato fu che non andò
bene come avrebbe potuto agli esami
necessari alla sua promozione.
C’è un aneddoto che ho trovato
particolarmente toccante. Come
premio per la matematica, un anno gli
fu regalato un volume di poesie di
Wordsworth. Un’antologia del genere,
che ciascuna di noi avrebbe avuto cara,
per lui non significava niente. Tuttavia
sua madre conservò gelosamente il
volume, e oggi ha il posto d’onore nella
piccola abitazione che Ramanujan
divide con lei, i suoi fratelli, sua
nonna, e sua moglie in un vicolo di
terra battuta chiamato
Hanumantharayan Koil Street.
Disgraziatamente, questa vittoria fu
un’eccezione in una carriera
contrassegnata più da
disincentivazione e fallimenti che da
sostegno e successo. Dopo aver
terminato quella che qui è nota come
la “scuola superiore”, Mr. Ramanujan
vinse una borsa di studio, prima per il
Government College di Kumbakonam,
e poi per il Pachayappa’s College di
Madras. In entrambe le occasioni, il
suo interesse per le proprie ricerche
matematiche era così divorante che
trascurò i suoi studi più ordinari, e finì
per essere bocciato agli esami e
perdere le borse di studio. Aquesto
punto, infatti, le sue esplorazioni
dell’universo matematico erano
l’unica cosa che avesse importanza per
lui.
Così si trovò alla deriva. Il sistema
educativo lo aveva rifiutato senza
appello, e lui si ritrovò ancorato, senza
mezzi di sussistenza, senza un reddito,
e senza prospettive, alla casa di sua
madre in Sarangapani Sannidhi Street.
C’è da chiedersi come fece, in tutto
questo, a conservare intatto il senso del
proprio valore. Cosa gli diede la forza
di perseverare, la fiducia in se stesso,
quando ogni autorità lo aveva rifiutato?
Questa è la seconda domanda che gli
ha fatto mio marito.
Prima di rispondere, Mr.
Ramanujan si è messo le mani sulla
testa e ci ha pensato un po’. Poi ha
guardato Mr. Neville negli occhi, e gli
ha spiegato che non poteva dargli una
risposta semplice. C’erano stati
momenti, disse, in cui la sua
disperazione era così grande che aveva
pensato seriamente di abbandonare
del tutto la matematica. In una o due
occasioni aveva contemplato il
suicidio. Ma poi era stato assalito da
una rabbia furibonda verso le
istituzioni che lo avevano giudicato
indegno, e colto da un’improvvisa
determinazione a dimostrare che
avevano torto.
Purtroppo, l’energia che queste
sfuriate suscitavano in lui dopo
qualche giorno invariabilmente si
esauriva. Più cruciale per la sua
capacità di tenere duro fu l’incrollabile
sostegno di sua madre, che lo
incoraggiò nel suo perseguimento di
materie che erano molto al di là della
sua portata, con le sue rassicurazioni e
le sue cure.
Tuttavia c’era anche un altro
elemento in questa sua resistenza in
quegli anni magri e infelici. Ed era
questo: molto semplicemente,
continuava a essere stregato dai
numeri. Nei suoi giorni di studente,
anche i suoi studi matematici erano
insoddisfacenti per lui, poiché era
costretto a battere sentieri noti e
impegnare la sua fertile
immaginazione in tediosi esercizi e
nell’esplorazione di un territorio di
scarso interesse per lui. Adesso che era
libero dall’accademia, finalmente
poteva fare ciò che voleva. Non era più
legato a istituzioni in cui non credeva
più di quanto esse credessero in lui.
Era invece libero di trascorrere le sue
giornate, come preferiva fare, seduto
sulla veranda della casa in cui aveva
passato l’infanzia, lavorando
alacremente a formule ed equazioni
sulla sua lavagna (non poteva
permettersi la carta), sognando e
inventando. Mi ha raccontato che i
suoi amici lo prendevano in giro
perché aveva un gomito nero; ci voleva
troppo tempo, ha detto, per cancellare
la lavagna con uno straccio, quindi
usava il gomito!
A questo punto penso che dovrei
chiarire, Miss Hardy, che la nostra
conversazione, quel pomeriggio, non
ha seguito esattamente le linee che ho
descritto. Sembrava invece che
Ramanujan fosse perennemente
distratto dal proprio avvincente
racconto da idee di interesse
matematico che questo o
quell’aneddoto gli avevano suscitato.
Allora condivideva queste idee con
mio marito, buttando giù cifre su pezzi
di giornale o di carta da pacchi (un
altro segno della sua povertà), e
insieme si lanciavano in discorsi che
per me non avevano né capo né coda,
finché Mr. Neville, notando la mia
confusione, riportava gentilmente la
conversazione sugli argomenti alla mia
portata. E sebbene apprezzassi il gesto
cortese di mio marito, mi dispiaceva
anche che il povero Mr. Ramanujan, in
virtù della mia presenza ignorante,
perdesse una rara opportunità di
diffondersi su materie che mio marito,
senza alcun dubbio, conosceva più a
fondo di chiunque il nostro indiano
avesse mai conosciuto. Invero, l’alto
grado di animazione di Mr.
Ramanujan durante questi scambi
matematici mi ha convinto che, se non
dovesse venire in Inghilterra, si
priverebbe di una fonte di nutrimento
essenziale.
Poi gli ho chiesto di sua moglie. Qui
lui si è accigliato. Come forse lei sa,
Miss Hardy, in India il matrimonio è
una faccenda molto più rituale che nel
nostro paese. Per esempio, quando Mr.
Ramanujan ha sposato Janaki (è questo
il nome della ragazza) lei aveva solo
nove anni. Il matrimonio è stato
organizzato tra le famiglie con la
consulenza degli astrologi. Prima delle
nozze, lo sposo e la sposa si sono
incontrati solo una volta; dopo –
sempre in osservanza della tradizione
– lei è tornata dalla sua famiglia, ed è
andata ad abitare a casa del marito
solo dopo aver compiuto i quattordici
anni.
Date le circostanze, ci si potrebbe
aspettare che Mr. Ramanujan
consideri sua moglie solo come un
accessorio o un impedimento. Invece,
con nostra sorpresa, ha parlato della
ragazza con affetto. È vero, il
matrimonio aveva comportato degli
oneri – non poteva più permettersi di
trascorrere le giornate sulla veranda a
occuparsi di matematica; avrebbe
dovuto trovare un lavoro e guadagnare
del denaro – eppure, pur riconoscendo
la gravosità di questi oneri, non ha mai
espresso la benché minima irritazione
nei confronti della ragazza che ne era
la causa. Fortunatamente, nel corso
degli anni, alcuni signori sia inglesi
che indiani, alcuni dei quali
matematici dilettanti, arrivarono a
riconoscere il genio di Ramanujan,
senza necessariamente afferrarne la
natura. Asua volta, Ramanujan finì per
dipendere da questi signori per un
sostegno non solo morale, ma a volte
anche finanziario. Uno di loro poi
ottenne per lui un impiego presso il
Porto di Madras, che gli consentì di
trasferire sua madre e sua moglie in
una casa a Triplicane, praticamente
all’ombra del tempio di Parthasarathy.
A questo punto, mio marito e io
siamo stati costretti a interrompere la
conversazione con Mr. Ramanujan,
che durava ormai da quasi due ore.
Prima di salutarci, però, Mr.
Ramanujan ha preso due quaderni
rilegati in cartone e li ha offerti a Mr.
Neville. Questi quaderni, ha spiegato,
contenevano il frutto delle sue fatiche
matematiche. Non gli dispiaceva
prenderli in prestito, ha chiesto, ed
esaminarli?
Mr. Neville ha spalancato gli occhi
per la sorpresa. No, ha detto,
restituendo i quaderni, in tutta
coscienza, non poteva prendere in
custodia qualcosa di così prezioso;
tuttavia Mr. Ramanujan ha insistito, e
siamo tornati in albergo, portando un
prezioso volume ciascuno. Cosa
sarebbe accaduto, mi chiedo adesso, se
il nostro gharry fosse stato investito da
un risciò, o se si fosse alzato un vento
improvviso e ci avesse strappato i
quaderni dalle mani? Più tardi mio
marito mi ha detto che considerava il
prestito il complimento più
sbalorditivo che gli avessero mai fatto.
Quella sera Mr. Neville non è
venuto a letto. È rimasto alzato fino
all’alba, a leggere i quaderni a lume di
candela. Quando mi sono svegliata la
mattina dopo, mi ha detto che li
considerava i documenti non
pubblicati più significativi che avesse
mai avuto il privilegio di consultare.
Anziché un compito oneroso, adesso
considerava suo preciso dovere
persuadere Mr. Ramanujan a venire a
Cambridge.
Lo abbiamo incontrato di nuovo il
pomeriggio seguente. Questa volta è
venuto lui al nostro albergo.
Nonostante l’atmosfera molto inglese
della sala da pranzo sulle prime
sembrasse metterlo a disagio, ancora
una volta, non appena si è seduto con
noi a bere il tè, si è visibilmente
rilassato.
Mr. Neville a questo punto ha
affrontato la spinosa questione: Mr.
Ramanujan avrebbe riconsiderato la
sua precedente decisione di non
venire in Inghilterra? Pur
comprendendo il suo timore di
infrangere una regola della sua
religione, eravamo convinti che, se
fosse rimasto in India, avrebbe fatto un
pessimo servizio tanto a se stesso che
al mondo in generale.
Al che, Mr. Ramanujan ha guardato
solennemente la sua tazza. Ho temuto
che Mr. Neville avesse passato il limite;
detto troppo. Infatti ero sul punto di
scusarmi, quando Mr. Ramanujan ha
alzato gli occhi dalla tazza e ha chiesto:
«Mr. Hardy non ha ricevuto la mia
ultima lettera?».
Mio marito ha risposto che non lo
sapeva. Non aveva notizie di Hardy da
quando eravamo arrivati.
Allora Mr. Ramanujan ha detto che
era preoccupato che Mr. Hardy
perdesse interesse in lui nel leggere
quella lettera, perché era scritta nel
suo inglese un po’ incerto; le sue
lettere precedenti, per come si è
espresso lui, “non contenevano il suo
linguaggio” ma erano “scritte da un
suo superiore”. Le aveva copiate nella
sua calligrafia. Mr. Neville allora gli ha
chiesto se questo “superiore” era lo
stesso con cui si era presentato al
colloquio con Mr. Davies del Comitato
Consultivo per gli Student Affairs. Mr.
Ramanujan ha ammesso che era la
stessa persona. E poi è venuta fuori
tutta la storia.
La situazione è e non è come
ipotizzava suo fratello. Mr. Littlewood
aveva ragione nel supporre che,
quando Mr. Davies, di punto in
bianco, aveva chiesto a Mr. Ramanujan
se desiderava andare a Cambridge, la
domanda lo aveva lasciato
disorientato. In ogni caso, non aveva
mai avuto la possibilità di rispondere
sì o no, perché prima che potesse
parlare, il suo superiore, Mr. Iyer,
aveva risposto per lui. La risposta era
stata un secco no.
Quanto a lui, è piuttosto confuso
sulla faccenda. Da un punto di vista
intellettuale, ammette, è decisamente
entusiasta di venire a Cambridge. Allo
stesso tempo, ha seri dubbi
sull’impresa. Per esempio, si chiede se
sarebbe obbligato a sottoporsi a un
esame come il tripos. (A quanto pare,
ha una paura tremenda degli esami.)
Mio marito gli ha detto che pensava di
no, ma avrebbe chiesto conferma a
Hardy.
Una preoccupazione più pressante è
la sua famiglia. Sua madre, a quanto
pare, è fortemente contraria a che suo
figlio vada in Inghilterra. Da un lato, le
sue obiezioni sono di ordine religioso;
come bramina ortodossa, condivide
con Mr. Iyer la convinzione che se Mr.
Ramanujan attraverserà l’oceano, si
condannerà a una specie di
dannazione spirituale. In termini più
pratici, comunque – e in questo, Miss
Hardy, non posso fare a meno di
condividere le ansie di una madre che
ha tanto sofferto – teme per il suo
benessere in Inghilterra, si preoccupa
di come farà fronte all’inverno inglese,
ha visioni di lui che viene costretto a
mangiare carne, e così via. Forse teme
anche che venga corteggiato da donne
inglesi. (Questa è solo una congettura,
basata sulla riluttanza di Mr.
Ramanujan a guardarmi negli occhi
quando parla di sua madre.)
Poi c’è il problema di Janaki, la sua
giovane sposa. Gli ha espresso il
desiderio di accompagnarlo in
Inghilterra, ci ha confessato; e sebbene
capisca perfettamente l’insensatezza,
se non l’impossibilità, di portarla con
sé, non vuole deludere la ragazza.
Andare in Inghilterra senza di lei,
oltretutto, significherebbe lasciarla
sola con sua madre, e dal momento
che, nelle famiglie indiane
tradizionali, la suocera comanda la
nuora col pugno di ferro, Mr.
Ramanujan è naturalmente
preoccupato delle possibili frizioni che
potrebbero esplodere tra le due donne,
soprattutto perché sembra che la
piccola Janaki sia una testa calda!
L’ultima perplessità – e che venga da
ultima mi pare, cara Miss Hardy,
significativo – è di ordine religioso. Sì,
anche lui, al pari di sua madre, teme le
conseguenze, sia sociali che spirituali,
della sua infrazione delle regole della
sua casta e la traversata dell’oceano.
Inoltre la sua ansia su questo punto va
ben al di là dei semplici scrupoli
religiosi.
Quello che segue indubbiamente
sembrerà strano a lei e a suo fratello.
Lo ammetto, all’inizio sembrava strano
anche a Mr. Neville e a me, e non solo
perché rivela l’abisso che separa
l’India dall’Inghilterra, ma anche
perché indica la profondità della fede
religiosa di Mr. Ramanujan. Ciò
nonostante le chiedo di leggere i
prossimi paragrafi con mente aperta.
Per dirla in parole semplici: Mr.
Ramanujan attribuisce le sue scoperte
matematiche non alla sua
immaginazione, ma a una divinità. Fin
dalla nascita, crede che lui, e gli altri
membri della sua famiglia, abbiano
vissuto sotto la protezione di una dea,
Namagiri, il cui spirito abita il tempio
di Namakkal, vicino al suo luogo di
nascita. Secondo Mr. Ramanujan, è
grazie all’intervento di Namagiri che fa
le sue scoperte matematiche. Lui non
ci “arriva” nel senso che lei e io
attribuiamo al termine, sono loro che
“arrivano” a lui. Gli vengono
trasmesse, di solito, mentre dorme.
Mentre Mr. Ramanujan descriveva
questo processo, mio marito ha riso,
dicendo che anche lui a volte ha “fatto
sogni” matematici. Ma Mr. Ramanujan
ha insistito nel distinguere i sogni
ordinari da quelle che ha chiamato
“visioni” inviategli da Namagiri. La
dea, come dice lui, “gli scrive i numeri
sulla lingua”. Il suo timore è che
Namagiri gli neghi il suo sostegno
divino, se lui viene in Inghilterra; e
sebbene capisca quanto ha da offrirgli
Cambridge, in termini di
riconoscimenti, incoraggiamento, e
istruzione, si chiede inevitabilmente a
cosa gli servirebbero questi vantaggi se,
in cambio, perdesse il suo accesso alla
fonte stessa delle sue scoperte.
Come abbiamo reagito a una simile
rivelazione? Mio marito, lo ammetto,
si è accigliato, non so se per lo
scetticismo o per lo stupore. Quanto a
me, ho provato una fitta di delusione,
dovuta, indubbiamente, alla mia
disposizione antireligiosa. Mi
sembrava folle che un uomo di così
palese intelligenza rifiutasse di
attribuirsi il merito delle proprie
scoperte. Infatti, quando l’incontro si è
concluso (con la questione della
venuta a Cambridge di Mr.
Ramanujan ancora in sospeso, dovrei
aggiungere) non ho potuto fare a meno
di confidare a mio marito che, almeno
per me, era difficile conciliare questa
attribuzione del genio a una fonte
esterna con l’innegabile orgoglio di
Mr. Ramanujan per le sue scoperte,
per non parlare del suo urgente
desiderio di essere riconosciuto,
vendicato persino, agli occhi delle
autorità indiane. Infatti, se quel che
affermava era vero, allora era a
Namagiri che andava riconosciuto il
merito di qualsiasi pubblicazione fosse
derivata dal lavoro di Mr. Ramanujan.
Erano le doti di Namagiri che
meritavano un riconoscimento, era
Namagiri che doveva essere portata a
Cambridge, anche se solo al Girton o
al Newnham!
Mio marito mi ha avvertito di non
aspettarmi troppo. Come mi ha
ricordato (e in questo ha perfettamente
ragione) noi siamo ancora stranieri
qui, sappiamo ancora troppo poco
della religione di Ramanujan. Può
darsi che Mr. Ramanujan sia
semplicemente ansioso di assicurarsi
che comprendiamo la profondità della
sua fede. Tuttavia, non posso fare a
meno di sospettare che il suo timore di
dare un dispiacere a sua madre sia
intimamente legato al suo timore di
dare un dispiacere alla dea. Vorrei
tanto poterle dire quale dei due timori
sia più importante o, oserei dire, più
reale.
Così stanno le cose mentre le scrivo.
Domani Mr. Neville si incontrerà,
ancora una volta da solo, con Mr.
Ramanujan. Speravamo di vederlo
prima, ma due giorni fa abbiamo
ricevuto un messaggio in cui ci
informava di essere stato costretto a
fare un viaggio imprevisto a casa sua,
in compagnia della madre. Credo
abbia in programma di tornare a
Madras all’inizio della prossima
settimana.
Mi spiace di non essere in grado di
darle notizie più decisive. Però la
prego di credere – e dica a suo fratello
di starne certo – che non appena
avremo avuto una risposta definitiva
da Mr. Ramanujan, la comunicheremo
con un telegramma.
Mr. Neville le invia i più cari saluti,
e mi chiede di ringraziare
infinitamente Mr. Hardy da parte sua
per il ruolo di “emissario” che gli è
stato assegnato. Entrambi facciamo i
nostri migliori auguri a sua madre e
speriamo che si ristabilisca. Quanto a
me, rimango, cara Miss Hardy,
la sua sincera amica
Alice Neville
20 gennaio 1914
Hotel Connemara
Madras
Caro Hardy,
ti scrivo di fretta, poiché tra poco
dovrò recarmi alla Senate House. So
che mia moglie è stata in contatto con
tua sorella. È una scrittrice assidua,
quindi lascio a lei il compito di fornire
i dettagli. La cosa importante è che
adesso ho letto tutti i quaderni, e il
loro contenuto è decisamente
straordinario. Quelle delle sue teorie
che non sono originali riflettono
alcune delle idee più fruttuose e,
oserei dire, più sovversive, già
sviluppate sul continente. D’altro canto
però, Ramanujan fa un sacco di errori.
Se acconsente a venire, cercherò di
spiegare a Dewsbury, il capo
dell’amministrazione universitaria di
qui, che, a causa della sua mancanza
di istruzione adeguata e via dicendo,
Ramanujan non ha ancora sviluppato
la facoltà di individuare il pericolo o di
evitare gli errori, ma che a Cambridge,
a contatto con i metodi appropriati,
diventerà sicuramente uno dei nomi
più eccellenti della storia della
matematica, fonte d’orgoglio per
l’università, per Madras e così via.
Allora forse riuscirò a convincerli a
stanziare dei fondi per la borsa di
studio.
Ed ecco una cosa che ti potrebbe
interessare: quando gli ho chiesto
quali libri fossero stati importanti per
lui nella formazione delle sue idee, ha
nominato, da non crederci, la Synopsis
of Pure Mathematics di Carr. Conosci
quel vecchio tomo spaventoso? Se è
l’unica cosa che ha letto, non c’è da
stupirsi che non sappia come si fa una
dimostrazione!
Infine, una domanda: una delle sue
(molte) preoccupazioni rispetto alla
sua venuta a Cambridge è che possano
obbligarlo a fare degli esami. Gli ho
detto che ti avrei interpellato per
rassicurarlo che non sarà necessario,
anche se sono certo che, con un po’ di
ripetizioni, straccerebbe tutti a un
tripos. Pensa se, ai vecchi tempi, fosse
stato un senior wrangler!
I miei rispetti a tua sorella, per la
quale mia moglie ha concepito un
affetto smodato.
Il tuo
E.H. Neville
8
Un pomeriggio piovoso in
Chesterton Road. Il fuoco
scoppietta. Alice e Ramanujan
sono seduti a un tavolo, uno di
fronte all’altra, chini su un puzzle
completato a metà, un vecchio
gioco di pazienza dell’infanzia di
Alice. Cinquecento pezzi. Da
quando ci stanno lavorando,
un’immagine ha incominciato a
emergere sul ripiano di legno
scuro: due gentiluomini in abiti
vittoriani, seduti a un tavolo non
dissimile da quello cui siedono
Alice e Ramanujan. Un tappeto
orientale di diverse tonalità rosse e
gialle copre il pavimento. Un terzo
uomo, vestito come un oste, in
piedi a sinistra del tavolo. Sono in
una taverna? Forse uno degli
uomini ha un bicchiere in mano.
Molto tempo prima, quando Alice
non aveva ancora quattordici anni,
un socio d’affari aveva regalato il
puzzle a suo padre, cui non
interessava affatto, col risultato che
il gioco finì per emigrare nella
nursery, dove Alice e sua sorella
Jane facevano ancora i loro
compiti. Ogni anno compivano un
valoroso tentativo per ricomporlo,
solo per lasciarsi distrarre dalle
forme deliziose in cui erano tagliati
molti dei pezzi: una testa di profilo,
un cane, un cuore, una mezzaluna.
A volte arrivavano quasi a
completare la cornice e un angolo
del tappeto prima che Jane
perdesse la pazienza e soffiasse sul
tavolo, facendo volare i pezzi sul
pavimento. Perché Jane faceva le
bizze. Era sempre la più impetuosa
delle due, mentre Alice era quella
che si metteva in ginocchio a
raccattare i resti della furia di sua
sorella. Fu forse per questo che,
quando il padre morì e la madre
chiuse la casa, Alice volle il puzzle
per sé e lo portò in Chesterton
Road. Quando arrivò Ramanujan,
lo riesumò. Lui non aveva mai
visto un puzzle in vita sua. Ma
Alice non ebbe nemmeno il tempo
di spiegargli come funzionava
prima che lui si mettesse al lavoro.
E adesso eccolo lì, intento a
guardare i tre gentiluomini
vittoriani, stringendo nella mano
destra un pezzo a forma di zucca,
con gli stessi colori del tappeto. Per
un momento studia il tappeto –
ancora a brandelli, come se i topi ci
avessero fatto dei buchi – e poi,
con un gesto in picchiata che le
ricorda un aeroplano, incastra il
pezzo al suo posto. La zucca
scompare mentre un altro pezzo di
tappeto prende forma. Questo
lasciava delusa Alice da ragazza.
Dopotutto, mettere insieme il
puzzle significava perdere quelle
forme deliziose.
«Ha elaborato un metodo?»
chiede a Ramanujan, mentre quel
che vorrebbe chiedergli è:
“Namagiri la aiuta anche con i
puzzle?”.
«Non lo definirei un metodo»
dice lui. «Però ho… un approccio,
chiamiamolo così. Vale a dire che,
avendo completato la cornice,
metto insieme i colori simili e parto
da lì.»
Alice soffoca un sorriso. Che
buffo, pensa, essere seduta di
fronte a uno dei più grandi geni
della storia dell’umanità, e
guardarlo perdersi in un puzzle! E
suo marito, l’accademico del
Trinity, non è da meno! Infatti sa
perfettamente che appena rientrerà
oggi pomeriggio, subito dopo
essersi asciugato e aver bevuto il tè,
Eric si siederà al tavolo a lavorare
al puzzle insieme a Ramanujan
fino all’ora di cena. Lavoreranno
come due bambini. Senza pensare.
E a lei non dispiacerà. Tuttavia, si
sentirà obbligata ad alzarsi dal
tavolo. Per lasciarli soli. E perché
poi? Non lo sa bene. Però sa che è
tutto più gradevole quando sono
solo lei e Ramanujan. Allora può
parlare con lui come non può mai
fare quando c’è Eric.
Adesso lui tiene in mano
qualcosa di simile a un’aragosta.
Come sempre, è in giacca e
cravatta, ma non porta le scarpe.
Accortasi presto della sofferenza
che gli causavano, Alice gli ha
comprato un paio di pantofole
morbide, che, gli ha detto, in
Inghilterra la gente indossa
abitualmente invece delle scarpe
quando sta in casa. Per metterlo
più a suo agio, ha comprato le
pantofole anche per sé e per Eric, e
adesso le indossano tutti e tre.
Invero, l’unica persona di casa che
non porta le pantofole è Ethel.
Tuttavia, quando Ramanujan
esce di casa deve mettersi le
temute scarpe. Alice sa che tortura
sia per lui camminare fino al
Trinity con le dita dei piedi strette
in una morsa, e vorrebbe che
facesse abbastanza caldo da
consentirgli di indossare dei
sandali. Ma chissà se lui lo farebbe,
anche se potesse? Girando per
Cambridge, Alice ha notato altri
indiani vestiti in una foggia più
consona alle loro origini. Ne ha
parlato con Ramanujan una volta,
e lui le ha raccontato che, quando
aveva preso la decisione di venire
in Inghilterra, uno dei suoi
protettori di Madras lo aveva
portato sul sidecar della sua
motocicletta da Spencer’s, il
vecchio e imponente grande
magazzino della città, in cui
Ramanujan non aveva mai messo
piede. Lì gli confezionarono
camicie, abiti e pantaloni su
misura. Poi era stato portato da un
barbiere inglese che gli tagliò il
kudimi, cosa che non avrebbe mai
permesso prima che sua moglie e
sua madre fossero partite per
Kumbakonam. «Che effetto le ha
fatto?» ha chiesto Alice, ricordando
il libro che aveva visto nel baule:
The Indian Gentleman’s Guide to
English Etiquette. E, dopo un
momento, lui ha risposto: «Mi
sentivo semplicemente ridicolo con
quei vestiti. Ma quando il barbiere
mi ha tagliato il kudimi, ho pianto.
Era come se stessi perdendo la mia
anima».
L’aragosta che Ramanujan
teneva in mano atterra sul tavolo, e
Alice, scossa da un sentimento di
empatia, scatta in piedi,
letteralmente. «Oh, santo cielo»
esclama, perché il semplice gesto di
alzarsi ha scompigliato i pezzi del
puzzle.
«Non importa» dice Ramanujan,
rimettendoli a posto.
Alice va al pianoforte. È un
vecchio Broadwood verticale con
lanterne su ciascun lato, ereditato
da suo nonno. Ultimamente ha
preso a suonare in presenza di
Ramanujan: pezzi semplici, perché
non è una pianista provetta.
Greensleeves, un minuetto di
Händel, qualche impromptu di
Schubert. Poi ieri, frugando tra gli
spartiti musicali che ha ereditato
insieme al piano, le è capitato tra le
mani lo spartito di I pirati di
Penzance. Era uno spartito
semplificato, per facilitare
l’esecuzione domestica. Ha suonato
Poor Wandering One ma non l’ha
cantata.
Adesso apre lo spartito della
canzone del Generale. Prova la
melodia. Poi, fattasi
improvvisamente audace, e senza
alcuna preparazione, si mette a
cantare:
Moderna incarnazione io son di un
Generale,
dotato di cultura in fatto vegetale,
animale e minerale.
Dell’Inghilterra i re conosco a menadito,
cito battaglie storiche
da Maratona a Waterloo, in schiere
categoriche.
Ramanujan la guarda dal tavolo.
«Mr. Ramanujan, venga qui con
me al piano» dice Alice. «Credo
proprio che le piacerà questa
canzone.»
Lui si alza esitante. Alice gli fa
posto sul panchetto e Ramanujan si
siede, abbastanza vicino perché lei
riesca a sentire il calore del suo
corpo, ma non tanto che i loro abiti
si tocchino. «Questa è una canzone
di una famosa operetta semiseria
intitolata I pirati di Penzance. Il
cantante è un ufficiale gentiluomo
che cerca di impressionare alcuni
pirati. Ma la verità è che è molto
pieno di sé. Stia a sentire.»
Son anche molto esperto di cose
matematiche,
capisco le equazioni, da semplici a
quadratiche,
al Teorema di Newton la mia mente è
ormai adusa
e a molti fatti allegri sul quadrato
dell’ipotenusa.
«Naturalmente» soggiunge Alice,
«quando è interpretata come si
deve, la canzone è molto più veloce
di come l’ho fatta io. Ed è cantata
da un uomo.»
Ramanujan sta guardando lo
spartito. «Teorema di Newton»
dice con un tono che potrebbe
essere divertito come sprezzante.
«Per questo pensavo che le
sarebbe piaciuta» dice Alice. «E
adesso canti con me, coraggio,
cantiamo insieme.»
«Cantare? Ma io non so
cantare.»
«E chi lo dice? Non ha mai
cantato nei templi?»
«Sì, ma… non ho mai cantato
una canzone inglese.»
«Be’, nemmeno io so cantare,
ma chi ci sentirà? Solo Ethel.
Quindi la faremo insieme. Al tre.
Un, due, tre…»
Inizia a cantare, e con sua
grande gioia Ramanujan si unisce a
lei:
Integrali e differenziali, io me li giostro i
calcoli
e i termini scientifici di molti
animalucoli;
in fatto vegetale, animale e minerale,
moderna incarnazione io son di un
Generale.
«Visto? È stato bravissimo.»
«Davvero?»
«Ha una bellissima voce tenorile.
E ancor meglio, ha un ottimo
orecchio. Dovrebbe essere
perfettamente intonato.»
Ramanujan abbassa gli occhi. Ha
il respiro affannoso. La fronte
imperlata di sudore, come sempre
quando è felice.
«Avanti» ordina Alice,
«continuiamo. Adesso finiamo la
canzone, e poi la cantiamo tutta
daccapo.»
Ramanujan tira un profondo
respiro.
«Uno, due, tre…»
Conosco i nostri miti, di re Artù e
Caradosso,*
risolvo duri acrostici, e adoro il
paradosso,
in distici elegiaci cito i mal di Eliogabalo
in coniche vi atterro stranezze da
parabolo.
«Stranezze da parabolo!» ripete
Alice, e scoppiano a ridere
entrambi. Ridono come bambini.
Fuori piove a catinelle. Sul tavolo,
il puzzle giace placido,
apparentemente soddisfatto del
suo stato semifinito. Comodi nelle
pantofole, gli alluci di Alice si
agitano, al pari, lei suppone, di
quelli di Ramanujan.
Poi, inaspettatamente, la porta si
apre. Si alzano entrambi, come se
fossero stati sorpresi a fare qualcosa
di sconveniente. «Ciao, cara» dice
Neville, entrando, mentre i suoi
passi ne precedono altri. Quelli di
Hardy e di Littlewood.
«Ciao» dice Alice, andandogli
incontro per ricevere il bacio di
rito.
«Ho portato Hardy e Littlewood
per il tè. Spero non ti dispiaccia.»
«Certo che no.»
«Cosa stavate facendo voi due?
Ah, il puzzle, vedo. Lavorano sodo
a quel puzzle. E questo cos’è? Il
piano aperto! Hai insegnato a
Ramanujan a suonare?»
«No, a cantare.» Alice suona il
campanello per Ethel, mentre
Neville va al piano a controllare lo
spartito.
«La canzone del Generale»
osserva. «Ma dico, Ramanujan,
avete cantato Gilbert e Sullivan?»
Ramanujan non dice niente.
Siede rigido sul divano.
«Mrs. Neville, lei non smette
mai di stupirmi» dice Littlewood.
«Ci sta facendo un servizio
enorme, iniziando Ramanujan a
tutto ciò che è inglese! Noi invece
parliamo solo di matematica con
lui.»
Alice si siede di fronte a
Ramanujan, in una delle poltrone
zitelle. «Come mai a casa così
presto?» chiede mentre Ethel porta
l’occorrente per il tè.
«Una notizia meravigliosa.
Littlewood ha trovato le stanze per
Ramanujan al college. In
Whewell’s Court. Può trasferirsi la
settimana prossima.»
Cosa dice il suo viso? Niente,
spera Alice. Non che suo marito se
ne accorgerebbe se il suo viso
mostrasse qualcosa. La sua
gentilezza, lo sa bene, nasconde
solo indifferenza ed egocentrismo.
Hardy però se ne accorgerebbe.
È questo che la spaventa. Che lui
veda qualcosa sul suo viso e lo
racconti a Gertrude.
E Ramanujan? Nota qualcosa
lui? Ethel gli porge il suo tè e lui
fissa la tazza. Aggiunge il latte e lo
mescola.
Alice sorride. In seguito, lo sa,
ne andrà fiera. Ma per adesso è
come se una ragazza furiosa si fosse
appena riempita le guance d’aria e
avesse soffiato sul pavimento tutti i
piccoli pezzi di cui è fatto il mondo.
Alice prende il suo tè. «Che
notizia meravigliosa» dice. «Non
dover fare tutte quelle camminate.
Sarà molto meglio, Mr.
Ramanujan, per i suoi piedi.»
8 giugno 1914
Cambridge
Mia cara Miss Hardy,
spero che non giudichi impertinente
da parte mia se le scrivo in confidenza
a proposito di una questione che,
almeno in superficie, non ci riguarda
direttamente. Dietro suggerimento di
Mr. Hardy, Mr. Ramanujan lascerà tra
breve la mia casa, dove ha vissuto
felicemente per sei settimane, per
trasferirsi nelle stanze del Trinity. Non
so dirle fino a che punto io sia
convinta che sarebbe una decisione
disastrosa. Qui Mr. Ramanujan è
accudito amorevolmente. Mi assicuro
che abbia tutto il latte e la frutta che
desidera, e sono sempre
scrupolosamente attenta ai suoi
bisogni, sia dietetici sia di altra natura.
Come se la caverà al college? Non
sopporta il loro cibo e dice che si
cucinerà i pasti da solo su un fornello
a gas.
Sebbene io capisca il desiderio di
Mr. Hardy di avere Ramanujan più
vicino in modo da dedicare più ore del
giorno alla matematica insieme a lui,
temo che suo fratello non riesca a
prendere in considerazione la
necessità di assicurarsi che
Ramanujan abbia una vita al di fuori
della matematica. Ha fatto un grande
viaggio e sta ancora adattandosi a un
mondo radicalmente diverso dal suo.
Gli mancano sua moglie e la sua
famiglia. Sicuramente vale la pena che
faccia una camminata di mezz’ora
ogni mattina, se il risultato sarà di
essere più sano e felice.
So che lei ha una notevole influenza
su suo fratello e le chiederei di
intercedere presso di lui per il bene di
Ramanujan. La prego anche di non
fare il mio nome a questo proposito e
di non dirgli che le ho scritto.
Rimango, come sempre, la sua cara
amica
Alice Neville
«Bene, cosa te ne pare?» dice
Gertrude, posando la lettera.
«Suppongo» dice Hardy «che
confermi quello che abbiamo
sempre sospettato.»
«E cioè?»
«Che è innamorata di lui.»
Hardy tira una lunga boccata
dalla sua pipa. È un sabato mattina
di giugno, e sono nella cucina
dell’appartamento in St. George
Square. Littlewood è con loro, in
città per un appuntamento con
Anne, anche se non lo ha detto.
Sebbene sieda a tavola fingendo di
leggere il “Times”, ha ascoltato
attentamente la lettura di
Gertrude, chiedendosi come possa
ignorare con tanta nonchalance le
raccomandazioni di Mrs. Neville di
tenersi la lettera per sé.
«Se volete la mia opinione» dice
Hardy, «questo chiude
l’argomento. Ramanujan deve
trasferirsi al college il più presto
possibile.»
«Perché tanta urgenza?» chiede
Littlewood.
«È evidente. Finché è sotto il
tetto dei Neville, è anche sotto il
controllo di Mrs. Neville. Ha
bisogno della sua libertà.»
«Ma forse è felice lì. Hai visto la
scenetta domestica, Hardy. Il
fuoco, il puzzle e il piano. Mi
sembrava molto intimo e
accogliente.»
«Soffocante, direi.»
«Ma tu sei diverso. E quanto al
cibo Alice ha ragione.»
«Non vedo come. Ramanujan
non sembra minimamente
preoccupato all’idea di cucinarsi i
pasti da solo. Anzi, ho
l’impressione che non veda l’ora.
Una tregua dagli intrugli
spaventosi che Mrs. Neville tira
fuori dal ricettario di George
Bernard Shaw o come diavolo si
chiama.»
«Su questo punto non posso
darti torto.»
«Lo spero bene. Sei tu che gli hai
trovato le stanze.»
«Certo, ma non posso fare a
meno di chiedermi se, in fin dei
conti, non starebbe meglio sotto il
tetto di Neville, dove viene
accudito…»
«… da una donna con una
morbosa ossessione erotica.»
Al che Gertrude scoppia a
ridere. La sua risata sorprende
Littlewood: è più acuta e flautata
di come se l’aspettava.
«Cosa c’è di tanto divertente?»
«Voi due» dice lei, ridendo
ancora di più.
«Perché?» chiede Hardy.
«Perché saremmo così divertenti?»
«È mai venuto in mente a uno di
voi due di chiedere a lui dove
vuole vivere?»
6
Le bellezze dell’isola
1
Sogni terribili
1
Partizioni
1
dove
essendo la somma estesa a tutti i p
interi positivi minori e primi
relativi di q,v è dell’ordine di , e
wp,q è una certa radice 24-esima
dell’unità
ultimamente
da molto tempo
Firma
Data___________________
Prima, Thayer aveva sempre
spuntato solo la riga che diceva
“Seguono lettere alla prima
occasione”. Questa volta, invece,
aveva spuntato anche la voce
“ferito” ma non “spero di essere
dimesso presto”.
La lettera vera e propria arrivò il
giorno dopo. Comunicava solo il
nome di un ospedale militare, fuori
Oxford.
Presi il primo treno per Oxford e
arrivai nel primo pomeriggio. Dato
che l’ospedale era più piccolo di
quello di Cambridge, ed era
allestito in un vero edificio, una
scuola femminile requisita allo
scopo, trovarlo fu questione di
pochi minuti.
Thayer era sdraiato
tranquillamente nel suo letto,
proprio come la prima volta che
avevo parlato con lui. La sua faccia
era illesa. Con mio grande sollievo,
sorrise quando mi vide.
«Allora hai ricevuto il
messaggio» disse.
«Sì» risposi, «questa mattina.
Sono venuto il più presto
possibile.»
Mi sedetti, chiusi la mano a
pugno e la abbassai, piano, sui
muscoli della sua spalla. Lui non
rise.
«Allora, cosa ti è successo
stavolta?»
«Mi hanno beccato l’altra
gamba. Vedi?» Tirò indietro il
lenzuolo, mettendo a nudo la
gamba nella sua fasciatura, appena
sopra il ginocchio. «Quindi due
gambe fuori uso, un braccio fuori
uso, uno in funzione.»
«Cosa ti è successo al braccio?»
«Oh, quello è stato settimane fa.
Un proiettile. Non ha fatto grossi
danni: solo quel tanto che basta
perché non possa più alzarlo
completamente.»
«E adesso invece?»
«Una grossa scheggia. Ma non
perderò la gamba. Me l’hanno
assicurato. E mi fa male. Dio,
quanto mi fa male! Però è un buon
segno.»
«Sarai congedato?»
«Ne dubito. A quanto pare non
sono abbastanza fortunato da
beccare i proiettili necessari per il
congedo. Forse dovrei perdere una
gamba per essere congedato, e
francamente…» Abbassò la voce.
«La verità è che non voglio tornare.
In Inghilterra, intendo. Non finché
non è tutto finito. È difficile da
spiegare. Là fuori, in trincea, sei
disperato ma vivo. Poi torni qui e
tutto va avanti come se fosse un
mondo normale. E ti senti – come
dire – ti senti morto. E anche tutti
gli altri sembrano morti. Così non
vedi l’ora di tornare al fronte
perché non ti piace stare con tutta
quella gente morta.» Aggrottò la
fronte. «Capisci cosa voglio dire?»
«Sì, lo capisco.»
«Non lo so. Non so più niente
ormai.»
Passò qualche secondo di
silenzio, poi dissi: «Sono contento
che tu mi abbia scritto».
«Sì, volevo farlo prima, solo che
le ultime licenze… sai, mia sorella
sta per avere un bambino, così
sono stato parecchio su a
Birmingham. Ero a Birmingham
per il braccio. Non ce l’ho mai fatta
a venire a Londra.»
Avrebbe accennato a quello che
era successo a Pimlico? O si
aspettava che fossi io a parlarne?
Oppure aveva deciso di far finta
che non fosse mai successo?
«Quanto rimarrai in ospedale?»
«Ancora una settimana o poco
più. Poi sarò libero per un po’.»
Alzò gli occhi timidamente.
«Quella signora, l’amica di tua
sorella, è ancora a casa tua?»
«Solo durante la settimana. Non
nel weekend.» Trattenni il respiro.
«Adesso però andiamo più
d’accordo. Mi lascia dei sandwich.
Immagino che non saresti libero
qualche sabato, oppure sì?»
Thayer sorrise. «Per venire a
prendere un tè?»
«Esatto.»
«Sì, penso che potrei farcela»
disse.
E ce la fece. Due sabati dopo. Ce
la fece anche alla licenza
successiva. Questa volta lo avevano
colpito all’altro braccio. «Due
braccia, due gambe» disse. «A cosa
toccherà dopo?»
«Spero non a questo» dissi,
brancicandolo nelle parti intime,
che era quel che voleva.
E la cosa sorprendente fu che
non lo lasciarono andare. Lo
rompevano, lo spedivano a casa per
le riparazioni, poi lo rompevano di
nuovo. Allo stesso modo, mi resi
conto in seguito, noi rompemmo
Ramanujan, lo rappezzammo alla
bell’e meglio, e lo rompemmo di
nuovo, finché non riuscimmo a
spremerlo fino all’osso. Finché non
ce la fece più.
Solo allora lo lasciammo andare
a casa.
SETTIMA PARTE
Il treno infinito
1
Il fulmine abbatte un
albero
1
Crepuscolo
1
PRIMA PARTE
L’aquilone nella nebbia
SECONDA PARTE
Il corvo nella sala da pranzo
TERZA PARTE
Fatti allegri sul quadrato
dell’ipotenusa
QUARTA PARTE
Le bellezze dell’isola
QUINTA PARTE
Sogni terribili
SESTA PARTE
Partizioni
SETTIMA PARTE
Il treno infinito
OTTAVA PARTE
Il fulmine abbatte un albero
NONA PARTE
Crepuscolo
Fonti e ringraziamenti