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Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere1 riporta come Michele Amari, storico e politico

palermitano di metà ‘800, volesse preparare gli animi ad una nuova rivoluzione, una rivoluzione che
avesse in sé lo spirito siciliano, che fosse una rivoluzione siciliana. Gramsci scrive come il cercare i
nessi storici facesse risalire il discorso ai vespri del 1282, al grande momento di affermazione politica
e identitaria del popolo siculo per poi andare ancora indietro a tutte le tappe della storia della Sicilia.

Il pensatore di Ales aggiunge poi, citando Orlando, curatore delle opere di Amari:

Nella prefazione l’Orlando afferma che quei cinque secoli «sembrano costruire un monolitico periodo durante
il quale la storia ha bagliori di epopea» e che essi non sono da riguardare come storia particolare, o locale che
dir si voglia, ma come storia universale, perché «se universale è la storia che all’umanità si riferisce come un
tutto ideale […] non si può negare che in quei cinque secoli la Sicilia fu un nodo centrale in cui si incontrarono,
si urtarono, si elisero e ricomposero le forze dominatrici del tempo.»

Approcciandoci ad un percorso di liberazione nazionale sardo dobbiamo considerare la nostra storia,


la nostra cultura, la nostra lingua come storia universale, perché la Sardegna, quanto e più della
Sicilia, da sempre più legata per ragioni di prossimità alla penisola, ha prodotto una sua storia fatta
di rapporti sociali, di tradizioni, di folklore e di persone.

Quella per l’indipendenza è una battaglia culturale, se intendiamo un concetto di cultura vivente,
sostanza della nostra intuizione politica. Senza una battaglia della cultura e per la cultura la battaglia
politica non può avere la sua anima.

Come militanti dobbiamo essere portatori e portatrici di questa battaglia culturale, dobbiamo acquisire
la consapevolezza della storicità e della dialetticità della realtà per riportarla nell’azione politica
quotidiana. Questa consapevolezza deve essere tuttavia organica, non lasciata all’arbitrio del singolo
o al caso.

Il ruolo dell’intellettuale però, come ricorda Gramsci non è solo quello di sapere, ma deve essere
appassionato, senza passione infatti, senza essere sentimentalmente legato alla propria composizione
di riferimento, è destinato a fallire.

La nazione sarda infatti ha sofferto e continua a soffrire delle forme peggiori del colonialismo dello
stato italiano: non solo sfruttano le nostre risorse, non solo pongono sul nostro territorio basi militari
o industrie inquinanti, ma annichiliscono la nostra storia e la nostra cultura.

1
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valerio Gerratana, Einaudi, Torino, 2014
Il colonialismo culturale dello stato italiano ha portato ad un’autodistruzione della cultura sarda, ad
una vera e propria vergogna d’essere sardi e sarde. Placido Cherchi, filosofo e antropologo di Oschiri
scrive a proposito:

Non so se si percepisce fino in fondo la portata del torto che il sardo fa a sé stesso vergognandosi di essere
sardo. Da quando le ragioni della “vergogna” si sono trasformate in ragioni di orgoglio, mi riesce
insopportabile la sicumera di chi, dall’ alto di chi sa che cosa, dice di non sapersi ritrovare nelle angustie di
ciò che è sardo. Ma ancora più odioso è l’atteggiamento di coloro che escono dalla sindrome riaccettandosi
attraverso gli occhi degli altri. Questa forma di identità di accatto è la manifestazione più squallida della
mercificazione della propria differenza, come può facilmente dimostrare la propensione esibizionistica che
caratterizza le modalità di riaccettazione folkloristica della propria immagine.2

La vergogna si trasforma nell’esibizione forzata di un folklorismo forzato3 (alla stregua degli indiani
d’America, invece che rinchiusi in casinò nelle riserve, arroccati nei villaggi turistici), rispetto ad un
folklore, espressione delle classi popolari che va recuperato e assunto come forza motrice del processo
di liberazione nazionale.

Cherchi aggiunge, poco dopo, che di fronte alle forme di potere che si sono succedute a dominare la
Sardegna, senza alcuna mediazione

noi siamo rimasti senza parola e senza passato, vittime di quella stessa “paralisi da inaccessibilità” che giocò
le civiltà precolombiane, quando la rozzezza dei conquistadores le fece precipitare in un abisso di non-senso
prima che in un lago di sangue. Annullati dallo sgomento, a poco a poco ci siamo spogliati delle nostre
ricchezze, perché ritenute inutili, e abbiamo incominciato a recitarci imitando le inflessioni delle truppe d’
occupazione aqquartierate nei nostri paesi. A partire da questo punto, la disgregazione dell’identità non
avrebbe potuto non essere fatale, come lascia capire la miscela esplosiva di mimetismo e dissimulazione di sé
che la falsa coscienza è venuta innescando. La condizione primaria per una buona riuscita
della mimesis diventava, naturalmente, il distacco dalle radici e l’insofferenza per tutto quello che rischiava di
tradire le nostre origini.

Certamente il popolo sardo non ha ricevuto lo stesso grado di violenza fisica (sebbene anche
colonialismo e sfruttamento siano forme di violenza) delle popolazioni pre-colombiane, ma il
procedimento di disgregazione dell’identità è lo stesso. Il distacco dalle radici porta, non solo a un
risultato “culturale” di perdita della identità, ma fai sì da eliminare la visione storica e dialettica del
passato, rendendo più facile il dominio.

2
Placido Cherchi, Due o tre cose, per decidere di essere sardi, in L’ora dei Sardi, a cura di Salvatore Cubeddu, Edizioni
Fondazione Sardinia, Cagliari, 1998
3
Pensiamo ai Mamuthones tutto l’anno per compiacere i turisti, o le performances dei gruppi folk per le autorità o per i
suddetti turisti.
La storia, infatti, non è solo un succedersi manualistico di avvenimenti, ma deve essere la concezione
politica del passato determinata da esigenze di trasformazione della realtà. Non si tratta di guardare
al passato, ma di guardare al futuro politicamente.

Cancellare il passato, cancellare cultura e tradizione significa perdere il potenziale politico che sta
dietro un’identità. Perdere l’occasione di far sentire le masse che vogliamo muovere come realmente
parte di un popolo e di un percorso: quella di essere pocos, locos y mal unidos non è una categoria
ontologica, ma un espediente che il potere usa per poter sfruttare meglio il popolo sardo.

Proprio il potere è la dimensione che dobbiamo recuperare, nel suo significato più originario, quello
appunto di “avere la possibilità di fare qualcosa”. Il potere è il paradigma della politica, ciò che
permette l’autodeterminazione dei popoli e dei corpi. Riprendere il potere significa riconquistare
autonomia per quanto riguarda la nostra vita.

Questo passaggio può essere facilmente compreso se pensiamo come ad esempio il greco antico
concepisce il concetto di vita. Il greco infatti ha due termini per designare la vita: biòs e zòe. Mentre
zoè è il semplice essere vivi, una vita biologica che si addice a piante o animali, quella umana viene
definita biòs: una vita essenzialmente politica, fatta dell’entrare in contraddizione, in scontro con le
altre persone. Combattere per l’autodeterminazione dei corpi e dei territori significa riprendere
possesso della propria vita, uscire da quella riduzione dell’uomo a specie, ad animale ammaestrato
propria del capitalismo.

In questo momento storico, infatti, il capitalismo tende sempre più a spoliticizzare i corpi, a
smilitarizzare i concetti, a eliminare del tutto la dimensione del politico. La chiave di volta quindi,
sarebbe quella di far emergere la dimensione di rottura del politico, la tensione dialettica irriducibile
tra teoria e prassi.. Senza la prassi la teoria è vuota, ma senza la teoria, la prassi è completamente
cieca.

Quindi il compito del militante, sarà di recuperare la dimensione del politico, di riarmare i concetti
della loro valenza critica e dialettica, e di incarnare quello che Antonio Gramsci avrebbe chiamato
spirito di scissione4 acquistando la consapevolezza della dialetticità di fondo della realtà. Dobbiamo
recuperare una riflessione che non sia politicamente innocua, che non si limiti a discutere vuotamente
di democrazia o di sovranità: una politica della filosofia in grado di essere un grimaldello per la
trasformazione radicale della società.

Dobbiamo scrivere un nuovo lessico, il lessico della lotta del popolo sardo per la propria
autodeterminazione, un lessico che sia femminista, socialista e indipendentista. Un lessico che in sé

4
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 2014, Quaderno 25 (XXI), §5.
ha l’autogoverno, l’autodeterminazione dei corpi, l’autonarrazione della cultura, della lingua e del
folklore, l’autovalorizzazione del territorio e la riappropriazione dei mezzi di produzione.

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