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Il mister

-Papà, ti prego, andiamo via, torniamo a casa dalla mamma, ho da finire i compiti
per domani, ma lui neanche mi ascoltava.
-Piantala con queste sciocchezze, non guardare per aria, guarda la partita.
Fioretto fu un giocatore di carriera eccezzionale. Giunse nella serie A e perfino
nella Nazionale. Ma a lui non piacque mai questo sport: il padre ne era fanatico.
-Il calcio lo odio. Lo ho odiato da subito, in quello stadio, tutto insieme in un solo
momento, e poi poco alla volta, giorno dopo giorno.
Lui finse da piccolo di essere appassionato per lo sport o perché voleva avvicinarsi
a suo padre e farlo felice oppure perché gli faceva paura.
Quando era bambino, venne iscritto a una squadra del quartiere dove abitava. Di
solito si distraeva, ma quando il mister (nome che dava a suo padre) s’innervosiva, faceva
qualche goal e lo rendeva felice. Così poteva raccontare a casa le partite, e si riempiva
d’orgoglio con i goal di Fioretto. Grazie a questo, ebbe l’opportunità di giocare in una
squadra migliore. Ma questo necessitava più allenamento e volontà. Crebbe
professionalmente e diventò un giocatore di fama mondiale.
Secondo Fioretto, il calcio era come un appuntamento con una ragazza in un
centro commerciale. C’era molta gente che riempiva lo spazio ma sempre appariva un
buco, che lui approfittava. S’intrufolava tra i giocatori, prendeva il pallone e faceva un
goal.
La sua vita era controllata dal mister: lussi e buona immagine. Era tassativo. Non
poteva neanche essere fidanzato: erano stupidagini sentimentali. Gli portava dei quaderni
da firmare e gli diceva come farlo. L’unica cosa che Fioretto non faceva erano le interviste
coi giornalisti.
Il racconto finisce con Fioretto nella finale del mondiale, a punto di fare il rigore
che avrebbe dato la vittoria all’Italia. Ma lo sbaglia di proposito.
E io la prendo questa rincorsa per tirare l’ultimo rigore dei mondiale, sono tanti
anni che sto prendendo questa rincorsa, ho fatto tanti chilometri e ora sono arrivato. Ma
io questo rigore prefesirco tirarlo sopra la traversa, nel vento largo dell’idiozia.
Possiamo vedere quindi un padre che vuole vivere i suoi sogni tramite suo figlio.
Un calcio che compie il ruolo di antagonista nella storia. Ed un figlio che, per avvicinarsi
a suo padre o per paura, segue le sue regole di manuale. Si può dire che ha proprio bisogno
di lui. O che da bambino non aveva coraggio di dirgli di no, e questo continuò durante
tutta la sua vita. Il mister era orgoglioso del figlio (viveva la vita che lui volveva). Però
questo segna un egoismo da parte del padre. Ogni figlio farà sempre dei dettagli o dei
sacrifici per fare felici ai genitori: sono i genitori, quelle persone che ci educano e
c’insegnano ad affrontare il mondo. Ma questo livello è esagerato. La storia prende come
esempio al calcio, uno sport di cui il padre è fanatico ma che il figlio odia. In questo modo
si può affermare che c’è una sorta di doppio antagonista nel racconto. Fioretto, il figlio,
lotta contro la volontà del padre e contro uno sport che non lo fa felice ma che debe
proprio giocare. Qualsiasi sia la ragione di perché Fioretto segue alla lettera i comandi
del mister, non giustifica una trentina d’anni d’infelicità. Una vita costretta, ripetitiva.
Una vita che non può vivere. Dimostra in un’altra maniera che il denaro non è tutto nella
vita, se non può essere utilizzato come uno vuole e neanche è ottenuto facendo qualcosa
che a uno piace. Essere un giocatore di calcio col livello e la fama di Fioretto porta molti
soldi in tasca. Ma lui non può investirli nella sua felicità. Li investe in lussi, ville, auto,
ecc.
Ognuno potrebbe fare l’impossibile per i genitori. Ma questo racconto lo porta
all’estremo. Vivere la vita che uno vuole è un nostro diritto. Dobbiamo poter fare quello
che vogliamo sempre che sia possibile. E se lui avesse voluto far felice suo padre, non
sarebbe stato infelice.

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