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C’è una slide, fra quelle che uso in occasioni di convegni o di formazione degli insegnanti
cui sono particolarmente affezionato. Vi sono rappresentate quattro aule. Le due a sinistra
in bianco e nero: quella in alto mostra gli alunni, con grembiulini e fiocco, disciplinatamente
disposti nei banchi, tutti allineati e rivolti alla cattedra; quella in basso ritrae bambini seduti
per terra, da soli o a piccoli gruppi, impegnati in attività diversificate. Le due a destra sono
a colori: in quella sopra si vedono gli studenti seduti nei banchi, rivolti verso l’insegnante
che mostra qualcosa alla LIM; in quella sotto i banchi sono disposti a isole e i bambini
hanno un tablet.
Bianco e nero e colore distinguono “aule di ieri” e “aule di oggi”, in queste spiccano le
tecnologie digitali. Ma io propongo di spostare l’attenzione su quello che oggi si usa
chiamare il “setting” d’aula, la disposizione degli studenti, due “setting" differenti che
corrispondono a due modelli pedagogici. Nelle due immagini soprastanti emerge un
modello pedagogico trasmissivo, dove centrale è quanto fa il docente e agli studenti viene
richiesto di eseguire tutti la stessa prestazione: si tratti di ascoltare l’insegnante o di
svolgere esercizi. Nelle due immagini in basso il modello cambia, parliamo di attivismo
pedagogico: centrali sono gli studenti che “fanno”, che svolgono attività diversificate
seguendo i propri interessi, con il docente in un ruolo - più impegnativo - di chi propone
attività e fornisce assistenza, diversificata perché differenti sono le richieste che nascono
dagli studenti.
Erano due modelli che coesistevano nel novecento così come coesistono oggi.
Coesistevano, ma quello trasmissivo prevaleva e continua a prevalere anche oggi, non
nella scuola dell’infanzia e forse nella primaria, ma sicuramente nella secondaria di primo
e secondo grado.
C’erano, fino ad un certo punto del novecento, comprensibili motivi per quella prevalenza.
Quel modello pedagogico era coerente con l’organizzazione del lavoro nell’azienda
fordista-taylorista. Sappiamo del lavoro operaio in catena di montaggio, del fatto che
l’operaio doveva eseguire, senza alcuna fantasia e possibilità di scelta, operazioni e
movimenti studiati in modo scientifico dall’ufficio “tempi e metodi” per ridurre i tempi e per
garantire la continuità del flusso produttivo. Ma la stessa logica presiedeva anche al lavoro
impiegatizio, quantomeno ai livelli più bassi. La gestione di un sistema complesso
richiedeva una progettazione dall’alto, la definizione di procedure rigorose e il loro assoluto
rispetto.
Dalla disposizione dell’aula alla centralità del docente, il modello didattico prevalente era
centrato sulla disciplina, sia in quanto regole di comportamento in classe - l’aspetto di
“sottomissione” nei confronti del docente è “saltato” nel 68 e non è più stato ripristinato -
sia in quanto accettazione del principio che è dall’alto (dal ministero o dal docente) che
viene l’indicazione di cosa e come studiare, di come spendere il tempo scolastico. E
questo valeva (vale) anche per le attività laboratoriali, quelle del learning by doing. E’ il
docente a definire le esercitazioni e le attività di laboratorio - vuoi in un laboratorio
meccanico, in un uno di misure elettriche o di chimica o di pasticceria.
Dal punto di vista dello sviluppo della persona era già stato dimostrato, che un modello
non trasmissivo funzionava meglio. L’esperienza e l’elaborazione di Dewey risalgono alla
fine dell’ottocento. Quelle della Montessori sono del primo novecento.
Appartiene all’esperienza montessoriana questa fotografia, anno scolastico 1933/34, parte
di una mostra allestita nel 2015 a Sonbreno, Bergamo, in cui sono stati messi in mostra
alcuni “Materiali montessoriani” di proprietà parrocchiale conservati presso la “Casa dei
Bambini Parrocchiale” inaugurata nel 1931 e gestita con il Metodo Montessori.
Questa è, a mio parere, la filosofia che sta dietro l’idea delle aule 3.0: non una semplice
questioni di arredi o di strumenti tecnologici, ma un’idea di formazione adeguata alle sfide
che i giovani – e tutti noi – devono affrontare.
Le aule tre-zero derivano da una combinazione di
• pedagogia: l’attivismo pedagogico,
• architettura: una diversa progettazione degli spazi e degli arredi,
• tecnologia: la presenza diffusa di dispositivi digitali e l’uso degli ambienti web 2.0.
Mi piace dire che l’aula 3.0 è un’aula montessoriana con dispositivi digitali e con i colori del
Googleplex.
Ma attenzione! Il colore è importante perché contribuisce a rendere piacevole l’ambiente.
Gli arredi e la strutturazione dell’aula sono importanti perché rendono semplice e veloce
passare da un momento di classe riunita a un momento di lavoro per piccoli gruppi ad un
altro di lavoro individuale o di relax. Grandi schermi e dispositivi digitali mobili (e una
buona connessione internet) permettono attività individuali e collaborative di ricerca, di
elaborazione, di produzione.
Quello che conta davvero è il modello pedagogico.