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(La dispensa riassume le lezioni introduttive del corso di Filosofia Morale e Storia della Filosofia
per il primo anno della SFIA,completando i due testi di base del corso 2009-2010, vale a dire:
HANNAH ARENDT, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi; MARTHA C. NUSSBAUM,
Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna e la legge, Carocci, capp. 1, 2, 3, 4, 7).
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Fuori commercio – Riproducibile solo per motivi di studio
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Fuori commercio – Riproducibile solo per motivi di studio
[Alcune domande sono a metà strada tra domande aperte e chiuse. Per esempio la domanda “Esiste vita
intelligente sugli altri pianeti?” non può trovare risposta senza risolvere la questione filosofica di quale
la definizione appropriata di “vita intelligente”. Ma se trovassimo una definizio ne condivisa di “vita
intelligente” (o se sostituissimo tale concetto con un concetto meno impegnativo e scientificamente più
preciso), la domanda diverrebbe una domanda chiusa].
Negli Istituti Superiori e nelle Università sono previsti corsi di filosofia perché:
(i) La filosofia esercita le capacità di ragionamento e di analisi critica, poiché abitua a
seguire (e possibilmente ad eseguire) argomentazioni coerenti e articolate per sostenere
o criticare un dato punto di vista.
(ii) Tutte le maggiori teorie scientifiche, giuridiche, estetico-letterarie, perfino
teologiche, si sono formate tra discussioni filosofiche e pongono tuttora questioni
filosofiche.
(iii) Spesso, anche questioni del tutto pratiche o tecniche hanno soluzioni diverse a
seconda del punto di vista adottato (cioè celano questioni “aperte”) e la filosofia ci aiuta
a prenderne coscienza e a non assumere un partito pregiudizialmente.
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La filosofia morale o l’etica (le due parole vengono dal greco ethos e dal latino mos
che significano entrambe “costume, regola di comportamento”) si occupa dell’ azione
umana nonché del modo in cui valutiamo le azioni umane, distinguendole in buone o
cattive, giuste o ingiuste, ragionevoli o irragionevoli. Essa dunque si occupa di come
giudicare il nostro comportamento e quello altrui,di che cosa è ragionevole pretendere
dagli altri e di che cosa siamo in dovere di fare nei loro confronti, se è bene seguire
sempre le regole di comportamento già esistenti nella nostra comunità o se invece è
opportuno talora modificarle e perché.
Nelle pagine che seguono, elencheremo succintamente le correnti fondamentali del
pensiero morale occidentale e i problemi-chiave a cui esse hanno dato un importante
contributo. Vi si incontrerà anche, qua e là, qualche proposta di esercizio di riflessione.
Sebbene le opere dei grandi poeti greci (Omero, Esiodo) siano già piene di riflessioni
importanti sull’uomo e sull’agire, e sebbene la filosofia sia nata in Grecia già nel VII.
secolo a. C.,una vera e propria riflessione sull’azione umana si delinea soprattutto
nell’età classica greca (il V. – IV. secolo a.C.), con la diffusione della Sofistica. I Sofisti
furono infatti i primi a proporsi come scopo l’insegnamento delle “virtù” necessarie per
essere un buon cittadino, che per loro erano soprattutto le abilità retoriche (utili a
persuadere) e la memoria dei fatti memorabili e delle imprese umane. I Sofisti furono i
primi a sottolineare che l’uomo, a differenza dagli altri animali, è un essere che inventa i
propri costumi e le proprie leggi e le modifica nel corso del tempo. Alcuni di essi (in
particolare Protagora) arrivarono così a conclusioni relativistiche, sostenendo che
l’uomo “è misura di tutte le cose”, che non è possibile stabilire delle certezze assolute in
campo religioso e morale, e che non è possibile insegnare che cosa sia il bene in
generale, ma soltanto ciò che è utile in un contesto o in una situazione determinata.
Contemporaneo dei sofisti fu la più grande figura del pensiero morale greco, cioè
l’ateniese Socrate (condannato a morte nel 399 a.C.), al quale si attribuisce una dottrina
contrapposta a quella relativistica: la virtù è “scienza del bene e del male” (dunque
Socrate sposa una concezione realistica del bene e del male), anche se per Socrate il
sapere morale non è completamente insegnabile perché deve essere acquisito dalla
persona stessa. Socrate usa il dialogo come strumento per avviare alla riflessione
morale, ma lasciando spesso “aperte” le conclusioni del dialogo stesso.
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Oltre a una concezione realistica dei valori morali, gli si attribuisce anche una
concezione razionalistica della scelta morale: non è la volontà degli dei a rendere buono
o cattivo un determinato atto, ma noi consideriamo quell’atto come comandato dagli dei
in quanto è buono o cattivo in se stesso (cfr. in particolare il dialogo Eutifrone). Questa
tesi, che implicava la possibilità di disobbedire ai comandi religiosi (o di reinterpretarli
alla luce della nostra ragione), fu probabilmente una delle ragioni della sua condanna a
morte. Inoltre, Socrate fu tra i primi a distinguere il male morale dal male fisico,
sostenendo che per un uomo è più dannoso “commettere il male” che “subirlo”.
Il maggior allievo di Socrate, Platone (430 a.C. – 349 a. C.), sviluppò dalle idee di
Socrate una filosofia sistematica basata sulla distinzione tra l’anima e il corpo: l’anima,
spinta dal desiderio del Bene (per Platone, il Bene è un principio divino che trascende la
realtà materiale) impara a cogliere i modelli assoluti e paradigmatici che organizzano la
realtà (le “idee”) alla luce dei quali deve agire. Le virtù (temperanza, coraggio, sapienza)
sono tappe di questo percorso. Per Platone, l’intera vita politica della città dovrebbe
essere ispirata da questo modello perfezionistico e egli suggerisce di attribuire il potere
politico a seconda del grado di eccellenza della virtù (maggior potere va dunque ai
sapienti).
Una variante più moderata di perfezionismo morale si incontra in Aristotele (384 –
322 a. C.). Aristotele è il primo a concepire l’etica come una disciplina specifica che ha
come oggetto l’azione umana e i fini che essa può conseguire. Il fine supremo (il
“sommo bene”) è per lui la eudaimonia (felicità). Per Aristotele, la felicità consiste in
una vita che ci consente di esprimere le potenzialità positive che sono presenti in noi.
Poiché l’uomo è un animale politico e razionale, la realizzazione di noi stessi non può
mai prescindere dall’acquisizione delle virtù che ci abilitano ad essere buoni cittadini ed
esseri umani compiuti. Le virtù (a differenza di quel che pensava Socrate) sono molte e
differenti tra loro. Le virtù etiche sono quelle che, generando un “giusto mezzo” tra gli
impulsi contrastanti, permettono all’uomo di gestire il proprio comportamento pubblico
(cioè di essere coraggioso, piuttosto che vigliacco o avventato; magnanimo piuttosto che
pusillanime o superbo; generoso piuttosto che avaro o prodigo; giusto, piuttosto che
egoista o troppo cedevole agli altri). Vi sono poi le virtù dianoetiche (= dell’intelligenza)
sono quelle che invece perfezionano le nostre doti intellettuali e sono tre: abilità tecnica,
saggezza nel decidere, sapienza ovvero conoscenza teorica. La prima è utile per la vita
economica, la seconda per la vita pubblica e la terza porta al supremo sviluppo
dell’intelletto. Per Aristotele, è ovvio che l’uomo completo deve partecipare in qualche
misura di tutte le virtù, ma deve eccellere soprattutto in quelle tipiche del modello di vita
che gli è congeniale (“vita contemplativa” o “vita attiva”).
Se la filosofia morale dell’età classica è centrata sul problema della formazione del
buon cittadino, nell’età tardo-antica incontriamo invece una nuova impostazione, più
funzionale a chiarire l’”arte di vivere” in generale e che si rivolge a individui non
considerati prioritariamente come cittadini (per esempio, anche a donne, schiavi etc.).
Per la scuola stoica (Zenone, Crisippo e, nell’età romana, Seneca, Marc’Aurelio,
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Epitteto), la virtù consiste nell’eseguire sempre ciò che suggerisce la ragione, valutando
ogni caso morale secondo una norma impersonale e rifiutando le suggestioni delle
“passioni”. Lo stoicismo si propone dunque di darci una terapia nei confronti delle
illusioni e delle aspettative eccessive verso la vita, prescrivendoci di fare il nostro
“dovere” senza richiedere nulla in cambio. Allo stoicismo si oppone l’ edonismo (da
edoné: piacere) di Epicuro (341 – 270 a.C.). Per gli edonisti, il piacere è l’unico bene, il
sommo bene è una vita in cui i piaceri sono più costanti e intensi dei dolori. Vanno
dunque evitati quei piaceri che si rovesciano poi in dolori e l’epicureo sconsiglia perciò
il perseguimento del denaro o degli onori politici, che danno luogo a piaceri del tutto
instabili. Piaceri stabili e calmi nascono invece dalla coltivazione dell’amicizia,
dall’esercizio della filosofia, dall’arte, dalla vicinanza alla natura.
I.2 I problemi-chiave
I.2.1 Problematica assiologica (da axios: bene, valore). Che cosa è il “bene”? Questa è
una delle più antiche domanda della filosofia morale ed è anche una tra le più difficili,
perché noi usiamo la parola “bene” in modi molto variegati e incongruenti tra loro. Un
atteggiamento moralmente realista è quello di chi ritiene che si diano almeno alcune
cose che sono “buone in sé” o che sono portatrici di valore e che sarebbe assurdo negare
che siano buone. Un relativista è invece chi ritiene che non esista alcun giudizio di
valore che non sia dipendente o dalla scelta del singolo soggetto (cioè dal suo carattere,
dalla sua educazione etc.) o, al più, dalle tradizioni tramandate nella comunità in cui tale
giudizio viene formulato.
Tra i “realisti”; vi sono quelli che hanno un approccio naturalistico alla vita morale e
identificano il “bene” con la proprietà che alcuni oggetti o situazioni hanno di generare
piacere negli esseri umani. Questa posizione si chiama edonismo ed è stata condivisa da
alcuni sofisti, da Epicuro e, tra i moderni, da Bentham (vedi oltre). La posizione
nettamente contrapposta è quella sostenuta da Socrate e da Platone, secondo la quale
esiste (oltre al bene fisico) anche un bene specificamente morale che è di natura più alta
rispetto al bene fisico. Questa posizione implica che le nostre azioni sono buone in
quanto incarnano, manifestano o in qualche modo rispecchiano delle realtà non-materiali
(Platone li chiama “idee”, oggi sono anche chiamati valori). Coloro che sostengono il
realismo dei valori ritengono in genere che esista anche un principio supremo che è la
fonte dei valori stessi (Dio o gli dei o quella sorta di divinità impersonale che Platone
chiama il “Bene”).
Il relativismo morale (o relativismo dei valori o “scetticismo morale”) sottolinea per
contro che la parola “bene” non ha un significato preciso ed indica soltanto ciò che i
nostri sentimenti o le nostre intuizioni ci presentano come positivo e desiderabile.
Cercare di definire il “bene”, scrive un moderno intuizionista (G. E. Moore), è una
“fallacia naturalistica”, cioè è l’errore di credere che il bene sia una specie di qualità
degli oggetti che possiamo stabilire con una certa sicurezza, come l’essere colorato o
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l’essere fatto in metallo. Come chiarì già il sofista Protagora, il relativista non ritiene che
un accordo morale tra più individui sia impossibile, ma sostiene che questo accordo si
verifica in genere nella forma di compromesso o mediazione tra interessi o valori diversi
(e dunque solo nei casi in cui i soggetti siano effettivamente motivati a trovare un
compromesso tra loro piuttosto che separarsi o combattersi). Ciò in cui il relativista si
contrappone senza dubbio al realista è che, per il primo, il mondo dei valori è troppo
pieno di contrasti (troppo “politeista”) perché si possa prendere sempre una decisione
razionale. Né per il relativista può esistere un “sommo bene” che sia sicuramente
preferibile a tutti gli altri. Per contro, la definizione di quale sia questo “sommo bene” è
il cardine del realismo morale antico, come ora vedremo.
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contemplazione di Dio. Proprio per questo motivo, i filosofi moderni (dal secolo XV. al
secolo XIX), i quali si assumeranno il compito di separare la morale razionale dalla
religione, arriveranno a rigettare progressivamente la prospettiva eudaimonistica, in cui
spesso vedranno nient’altro che un fastidioso tentativo di illuderci che le azioni buone
siano sempre ricompensate. Come già gli stoici, gli autori moderni spesso sottolineano
che la virtù non ha bisogno di ricompense e che è “fine a se stessa”. Kant, infine, pur
ammettendo che il “sommo bene” (cioè la sintesi di “virtù” e “felicità”) è un ideale
morale tipicamente umano, afferma chiaramente che tale sintesi non si realizza in questa
vita e presuppone la speranza in un Dio remuneratore (e dunque non fa parte della
filosofia morale propriamente detta).
Rigettando la domanda su come si faccia a vivere una “vita buona”, la filosofia
morale moderna sembra anche rigettare il problema originario a partire dal quale tutta la
filosofia morale antica aveva preso le mosse, cioè quello della formazione della
personalità morale. A guardare più attentamente le cose, ci si accorge però che tale
problematica non è scomparsa, ma se ne discute meno perché è entrata a far parte di un
nuovo ambito di problemi. A partire quantomeno dall’Emilio di Jean- Jacques Rousseau
(1712-1778), la questione della formazione del buon cittadino non è più considerata
come un tema della filosofia morale, ma piuttosto come un tema della pedagogia, che
nell’età moderna si trasforma progressivamente in una scienza autonoma. Questa è una
delle ragioni per cui oggi una teoria delle “virtù” (a parte qualche sporadico tentativo di
rinascita) appare poco convincente. Vi sono però delle problematiche che restano
comuni ai due campi, per esempio quella dei sentimenti morali o delle emozioni morali
(vedi oltre).
Esercizio: immaginate di dover fare un catalogo di virtù che servano a qualsiasi essere umano di oggi
(potete scegliere voi stessi come caratterizzarlo: che viva in una società avanzata o in qualsiasi società
del pianeta, che sia un essere umano e basta o un essere umano di sesso maschile o femminile) allo
scopo di vivere quel che voi definireste una “vita buona”. Quali scegliereste?
II. La filosofia morale medievale e moderna: alla ricerca della “legge della ragione”
Con la vittoria del cristianesimo (nel IV. – V. secolo d. C.), alla riflessione morale
degli Antichi viene a contrapporsi una nuova concezione morale, basata sul precetto
dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Va detto però che i teologi cristiani
recepiscono anche una parte delle dottrine morali pagane (Platone, Aristotele, gli stoici)
e se ne servono per differenziare la “morale universale” indipendente dalla rivelazione e
quella che invece ha la fede per presupposto. Per esempio, nella filosofia di S.
Tommaso d’Aquino (1225-1274), ricompare la filosofia aristotelica delle virtù, pur
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integrata con le virtù teologali cristiane (fede, speranza e carità). Tommaso e gli altri
autori medievali riprendono inoltre l’idea stoica di una legge di natura (lex naturae)
che definisce alcuni doveri basilari verso gli altri uomini.
Nel corso dell’età moderna, questa distinzione tra leggi morali “universali” o
“universalmente umane” e le norme di natura puramente religiosa viene ripresa da un
nuovo punto di vista. I viaggi e il differenziarsi dei costumi all’interno dell’Europa
stessa rendono evidente la relatività di molte norme di comportamento (sulla quale
insistono molti nuovi scrittori “scettici” come Michel de Montaigne). Inoltre, la morale
religiosa, dopo le scissioni ecclesiastiche dell’età della Riforma, perde buona parte della
sua credibilità. I filosofi cercheranno a questo punto di costruire una morale universale e
puramente razionale, da contrapporre a quelle fondate sul costume o sulle tradizioni o
sulla religione. Dapprima, questo programma razionalistico verrà eseguito
prevalentemente sul terreno della politica, generando le dottrine del contratto sociale
che stabiliscono in modo razionale (cioé indipendente dalla religione) i princìpi
dell’organizzazione dello Stato e i diritti e i doveri dei sudditi. Ma, nel corso dell’età
dell’Illuminismo, vediamo sorgere anche sistemi di filosofia morale che cercano una
“legge della ragione” universale o “cosmopolitica”.
Questa tendenza troverà il suo punto di arrivo nella filosofia morale di Immanuel
Kant (1724-1804). Per Kant, la nostra ragione prescrive due diversi tipi di “imperativi”
(= norme) concernenti le azioni, Egli chiama “imperativi ipotetici” le norme tecniche
che servono a conseguire efficacemente i fini che ci proponiamo, mentre chiama
“imperativo categorico” la norma morale a cui bisogna obbedire se si vuole che l’azione
sia moralmente buona. Per Kant, l’imperativo categorico è esprimibile con la formula:
“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere in ogni tempo come
principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica, 1787). In parole
povere, scegli solamente quelle regole di azione (“massime”) che consiglieresti ad ogni
altro uomo, compi soltanto azioni che considereresti esemplari o quantomeno rispettabili
se venissero fatte da altri e non da te. Un’altra formulazione dell’imperativo categorico è
“Agisci in modo da considerare l’umanità, in te come negli altri, come fine e mai come
mezzo” (cioé: tratta con rispetto ogni persona umana).
Tuttavia, l’età moderna non vede semplicemente l’affermarsi della concezione
deontologistica di Immanuel Kant, ma anche quella di una corrente contrapposta e che
prende le mosse dall’edonismo antico, vale a dire dell’utilitarismo. Gli utilitaristi
considerano la realizzazione delle preferenze soggettive come l’unico bene e
considerano la razionalità morale come un “calcolo dell’utilità” teso a garantire il
perseguimento del maggior numero possibile di beni con il minimo di mali. Questa
concezione, già presente nell’Illuminismo del XVIII. secolo, trova una formulazione
particolarmente accurata in Jeremy Bentham (1748-1832) e in John Stuart Mill
(1806-1872).
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II.2 Problemi-chiave
II.2.1 La problematica deontologica (da deon: ciò che è necessario fare). La questione
deontologica si riassume in due domande: abbiamo dei doveri, cioè qualcosa che siamo
obbligati a fare (o non fare)? E perché abbiamo dei doveri? Il deontologista sostiene (i)
che abbiamo dei doveri (per Kant uno solo che però condiziona ogni nostra azione:
l’imperativo categorico) e soprattutto (ii) che non abbiamo alcun modo per spiegare il
fatto che ci siano doveri. Si tratta di un fatto primario, non ulteriormente giustificabile.
La posizione opposta, quella consequenzialista o utilitarista, sostiene che il fatto
primario della vita morale non è il dovere, ma il desiderio naturale di perseguire ciò che
è utile o piacevole. La razionalità non interviene nel dirci che dobbiamo fare qualcosa,
ma piuttosto nell’indicarci quale è il modo migliore di ottenere i fini che già ci
proponiamo di conseguire.
Il punto debole dell’approccio deontologistico sta nel fatto che esso valuta soltanto
l’intenzione e non il risultato (infatti esso viene anche chiamato etica dell’intenzione).
Dal punto di vista deontologistico, infatti, ciò che rende buona un’azio ne è il fatto che il
soggetto morale la pratichi come applicazione della legge morale. Per un utilitarista,
questo criterio renderebbe “buone” moralmente molte azioni terribilmente dannose,
purché fatte in buona fede. In breve, il deontologismo autorizzerebbe comportamenti di
fanatismo morale che l’utilitarismo trova ripugnanti (per esempio, per fare un esempio
dello stesso Kant, dire la verità a chi può farne un uso criminale, semplicemente perché
è immorale mentire). I deontologisti si difendono affermando che molte azioni eroiche
hanno appunto la natura di essere sacrifici senza contropartite, fatti magari quando
nessun buon risultato era prevedibile: dal punto di vista dell’utilitarismo, dovremmo
considerarle immorali.
L’utilitarismo si caratterizza per il fatto che sono le conseguenze a determinare quale
azione sia stata buona e quale cattiva. Questo presupposto è coerente con una
concezione evoluzionistica della società umana: noi stabiliamo che cosa è buono, in base
a tentativi, errori e correzioni degli errori. L’utilitarismo ha però gravi difficoltà a
giustificare sia l’universalità dell’azione morale (perché dovremmo tener conto del bene
di tutti gli uomini e non soltanto di quelli che ci possono essere utili o ci sono
simpatici?), sia il rigore degli obblighi morali. Per capire meglio quest’ultimo punto,
domandiamoci come giudicare chi facesse un danno piccolissimo a molti altri per
ottenerne un beneficio rilevante per sé. Un utilitarista dovrebbe giustificare o almeno
perdonare quest’atto, ma una simile posizione giustificherebbe per esempio il sottrarre
una parte del nostro reddito alle tasse e ovviamente se lo concedessimo a ogni soggetto,
vi sarebbe poi un grave danno per tutti (questo problema si chiama problema del free
rider: chi non paga il biglietto in autobus, per capirci). Per risolvere il secondo
problema, è nato il cosiddetto utilitarismo della regola: per l’utilitarista della regola, le
regole istituzionalizzate vanno sempre rispettate (perché altrimenti non funzionerebbero
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più), ma occorre poi valutare se le regole stesse siano utili: il che però pone il problema
di chi sia autorizzato a cambiare le regole e se è proprio vero che esse vadano sempre
rispettate.
Ovviamente, si possono trovare delle vie di mezzo tra le due dottrine, ma s i può
anche suggerire che nessuna delle due dottrine sembra riuscire a catturare
completamente la natura dell’agire. Infatti, il deontologismo interpreta l’agire seguendo
uno schema giuridico (l’azione viene legittimata dal suo essere conforme a una ipotetica
disposizione legale, la “legge morale”), mentre il consequenzialismo interpreta l’agire
secondo uno schema tecnico o economico (l’azione è un mezzo per ottenere dei
risultati). Forse nessuno di questi due schemi coglie adeguatamente l’agire morale.
Esercizio: Immaginate una situazione nella quale l’agire che sembrerebbe doveroso è sicuramente
condannato al fallimento. Per esempio: un poliziotto sta sorvegliando una camera d’ospedale nella
quale è curato l’esponente di una gang criminale. Egli viene avvicinato da un emissario di un’altra gang
che gli fa sapere che di lì a poco un commando verrà a trucidare il sorvegliato. Se il poliziotto “andrà a
fare una passeggiata”, sarà risparmiato. Se sarà presente, verrà ucciso. Tutti i mezzi di comunicazione
dell’ospedale con l’esterno sono stati messi sotto controllo: non vi è modo per ottenere aiuti
dall’esterno né dall’interno (infermieri e malati sono stati spostati ad altri piani e sono comunque
disarmati). Che cosa dovrebbe fare il poliziotto da un punto di vista deontologista e che cosa dovrebbe
fare da un punto di vista utilitarista? E, infine, che cosa fareste voi se foste il poliziotto (e come lo
giustifichereste davanti alla vostra coscienza)?
II.2.2 Problematica della responsabilità e della colpa: Se compiamo il male invece che
il bene, ne siamo responsabili, ovvero abbiamo commesso una colpa? L’idea che l’uomo
(e non gli dei) sia moralmente responsabile di ciò che fa è sviluppata dal pensiero
filosofico greco in opposizione alle concezioni tipiche del mito e della religione antica.
Per Aristotele, l’uomo è sempre responsabile di ciò che fa a seguito di una scelta
deliberata ed è responsabile anche di ciò che fa in base alle passioni, perché avrebbe
potuto abituarsi in precedenza a tenerle sotto controllo. Tuttavia, Aristotele ammette
anche che, per acquisire le virtù necessarie per l’autocontrollo e la buona deliberazione,
dobbiamo avere ricevuto un carattere e un’educazione adeguati. Dunque, la concezione
aristotelica della responsabilità non è totale.
Nell’età successiva, molti autori cercheranno di responsabilizzare più integralmente
l’uomo per le sue azioni, sostenendo che l’uomo è, indipendentemente dai tratti del suo
carattere o della sua educazione o dell’esperienza vissuta, dotato di un libero arbitrio
che gli permette di scegliere tra bene e male. Questa concezione sembra implicita in
tutte le concezioni deontologistiche dell’azione umana: perché sia vero che noi possiamo
fare il nostro dovere anche quando non ci è utile farlo, occorre che noi uomini siamo
tipicamente capaci di auto-sacrificio. Kant ammette questa connessione, ma è molto
cauto sull’esistenza reale del libero arbitrio. Per lui, la libertà del volere costituisce un
postulato necessario e indimostrabile della morale: necessario, perché altrimenti
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sarebbe impossibile l’azione fatta per dovere, indimostrabile perché non possiamo avere
alcuna prova che un’azione è stata fatta solo per dovere (e non per qualche motivo
psicologico occulto allo stesso soggetto).
Gli autori di orientamento consequenzialistico sposano spesso il determinismo: Per
loro, le scelte che facciamo sono determinate dalle nostre disposizioni caratteriali, dal
costume, dalle abitudini, dall’educazione. E’ dunque su questi elementi che dobbiamo
giocare se vogliamo soggetti che agiscano più razionalmente e più moralmente.
Se la posizione libero-arbitraristica appare implausibile (come spiegare che proprio
in determinate condizioni sociali divengano più probabili dei comportamenti devianti?),
la posizione deterministica sembra inadeguata a spiegare l’autonomia che consideriamo
tipica della personalità morale completa, né a spiegare perché l’educazione di un essere
umano non coincida con l’addestramento di un animale domestico.
Esercizio: come definireste in altre parole (facendo magari riferimento a concreti esempi pedagogici) il
concetto di autonomia?
Per molti autori, sia lo schema deontologistico che quello utilitaristico appaiono
troppo astratti per essere credibili, ed essi proporranno perciò di situare la discussione
morale nel contesto della realtà politica e della storia delle nazioni. Per il massimo
filosofo idealista tedesco, Georg F. W. Hegel (1770-1832), la morale kantiana è
un’astrazione puramente “negativa” e “vuota” che va superata considerando l’”eticità”
(che in Hegel è la sintesi di diritto e morale) come un insieme di istituzioni concrete che
vengono continuamente modificate dalla storia: la “famiglia”, la “società civile”, lo
“Stato”. Questo incitamento a tener conto delle istituzioni concrete della società e a
considerare ogni morale come finalizzata alla loro salvaguardia ritorna nello storicismo
tedesco del XIX. secolo e viene ripreso anche dai comunitari odierni.
Un’altra obiezione al razionalismo morale viene invece dalla rilevanza della passioni
e delle emozioni nella vita morale. Questa rilevanza era stata già notata da David Hume
(1711-1776), il quale aveva sottolineato che “la ragione è sempre schiava delle passioni”
e che, in assenza di determinati sentimenti morali, essa non sarebbe neanche in grado di
stabilire perché non preferire la morte di milioni di altri esseri umani alla puntura di uno
spillo su noi stessi. Per Hume, la simpatia e gli altri sentimenti morali nascono attraverso
il raffinamento della cultura e hanno dunque un rapporto di reciproca funzionalità
rispetto alla società: la società promuove quei sentimenti che la rafforzano (in questo
senso l’emotivismo di Hume resta coerente con una prospettiva fondamentalmente
utilitaristica). Anche in Jean-Jacques Rousseau (1712- 1778), i sentimenti hanno
un’importanza cruciale per la vita morale, ma la società e la cultura, più che rafforzarli,
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lasciare ampio margine alle decisioni individuali, mentre i “comunitari” insistono che le
scelte generate dalle possibilità offerte dalla tecnologia medica (e che spesso offrono
nuove inquietanti possibilità sui modi in cui si può fare nascere un essere umano o
prolungarne indefinitamente l’esistenza) debbano essere regolate in vista della continuità
con i costumi pre-esistenti e con l’idea di dignità umana (su quest’ultimo punto, anche
Habermas appare vicino alle istanze dei comunitari). Il comunitarismo appare dunque
parzializzare l’idea illuministica che tutti gli stili di vita (purché non dannosi per gli
altri) meritino eguale rispetto. Esso appare anche accusabile di relativismo culturale e
di anti-razionalismo, dal momento che si accetta la tradizione perché è la tradizione e
non perché sia buona in se. Tuttavia, il comunitarismo può fare appello proprio a mo lte
delle scoperte dell’antirazionalismo morale contemporaneo: l’influenza delle emozioni
morali sui comportamenti e sui giudizi sociali (Hume e tutta la tradizione emotivistica
anglosassone), dunque la necessità di preservarne la coerenza per evitare l’educazione di
individui dissociati moralmente o cinici; l’esigenza di una morale legata alla storia e alle
istituzioni, che eviti con ciò l’astrattezza delle morali illuministiche (Hegel). Da questo
punto di vista, si comprende perché il dibattito su questi punti sia tuttora aspro nel
mondo anglosassone e tenda a trasferirsi anche negli altri Paesi (soprattutto attraverso le
questioni di bioetica e di morale sessuale).
Esercizio: Per Hume e per la tradizione “emotivistica” anglosassone, la natura produce sentimenti
morali e la civiltà ha il compito di perfezionarne l’uso e di canalizzarli. Anche per Rousseau, la natura
produce i sentimenti morali, ma Rousseau segnala anche il rischio che la società induca precocemente
sentimenti che “corrompono” la natura (legati a pregiudizi, distinzioni sociali, tabù).In quali casi vi
sembra più valido il primo approccio e in quale il secondo? Come applichereste queste due posizioni ai
casi del disgusto e della vergogna discussi da Martha Nussbaum?
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