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Fuori commercio – Riproducibile solo per motivi di studio

Prof. Francesco Piro


Cattedra di Storia della Filosofia e Filosofia Morale - SFIA
Facoltà di Scienze della Formazione

DISPENSA DI STORIA DELLA FILOSOFIA MORALE

(La dispensa riassume le lezioni introduttive del corso di Filosofia Morale e Storia della Filosofia
per il primo anno della SFIA,completando i due testi di base del corso 2009-2010, vale a dire:
HANNAH ARENDT, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi; MARTHA C. NUSSBAUM,
Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna e la legge, Carocci, capp. 1, 2, 3, 4, 7).

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Premessa: di che cosa si occupa la filosofia

La parola “filosofia” (letteralmente: amore – ovvero desiderio, ricerca – della sophia,


cioé della sapienza o della saggezza) ha oggi diversi significati. Per esempio, si usa
questa parola per indicare un orientamento seguito con coerenza in un dato campo della
vita: un’azienda può avere la propria “filosofia” degli affari e così via. Ma il significato
più autentico del termine è che la “filosofia” è l’esercizio del pensiero e del
ragionamento al fine di acquisire un orientamento complessivo (cioè rilevante per un
ampio ambito di problemi, al limite per la vita tutt’intera) che appaia come valido in se
stesso (cioè degno di essere seguito indipendentemente dai nostri obiettivi del momento)
e dunque adatto ad un sapiente o di un saggio.
Storicamente, la filosofia nasce quando, all’interno di una data società iniziano a
formarsi punti di vista divergenti e gli individui cercano di difendere le loro opinioni
con argomenti o ragionamenti e non piuttosto facendo appello a determinate autorità
riconosciute (religiose o politiche o tribali). Il “filosofo” può essere allora sia colui che
propone un nuovo modo di vedere la realtà naturale o sociale, suscitando scandalo o
subendo persecuzioni (come Protagora, Anassagora o Socrate) o, più tardi, anche
qualcuno che confronta punti di vista divergenti e cerca di trovare una “sintesi”
ragionevole tra essi (per molti versi, Aristotele).
Già nell’età antica, la ricerca filosofica si organizzò in scuole, cioé in tradizioni di
ricerca che, partendo dalla lezione di un grande filosofo, ne proseguivano l’opera
affrontando problemi di interpretazione del suo pensiero e di applicazione del suo punto
di vista a nuovi problemi. Con il tempo, nacque anche la suddivisione della ricerca
filosofica in discipline più specifiche come la logica (che si occupa delle
argomentazione valide e del metodo della conoscenza), la filosofia della natura, l’etica
o filosofia morale. Dopo la nascita delle Università, queste ripartizioni disciplinari si
moltiplicarono. Tuttavia, la filosofia non è mai divenuta un sapere specialistico che si
apprende soltanto attraverso le istituzioni preposte ad insegnarlo.
Nuovi pensatori e nuove scuole sono spesso nate dal nulla, proponendo nuove
soluzioni ai problemi già noti o un’agenda di problemi totalmente nuovi. I problemi
filosofici non hanno infatti un numero finito né vi è tra essi una precisa gerarchia: quale
problema filosofico sia avvertito come “cruciale” dipende spesso dagli interessi di una
data epoca, di una data configurazione culturale. Quale soluzione ad un determinato
problema filosofico sia la “migliore” dipende spesso dalle convinzioni dominanti e dalle
conoscenze disponibili in un dato momento storico. Chi voglia affrontare un problema
filosofico deve tener conto della discussione passata, per evitare di incorrere in errori già
smascherati o per individuare le implicazioni non evidenti delle tesi che gli appaiono
convincenti a prima vista, ma è sempre autorizzato a pensare di poter dare una
soluzione migliore di tutte le precedenti .

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Da quanto si è detto risulta abbastanza chiaramente che cosa distingua la filosofia


dalle discipline scientifiche vere e proprie. Inizialmente, i due campi non erano distinti:
Talete, Pitagora, Democrito, sono tanto “filosofi” quanto “scienziati”. La distinzione
iniziò a stabilirsi man mano che le discipline scientifiche si configurarono come dotate
di un oggetto ben determinato e di un metodo comunemente seguito nella soluzione dei
problemi (per esempio, la dimostrazione in matematica, la verifica sperimentale nelle
scienze naturali). A differenza delle scienze, infatti, la filosofia ha uno sguardo che
potremmo definire “trasversale” rispetto ai singoli campi del sapere, poiché essa mira a
raggiungere la massima generalità possibile. Potremmo riassumere questa differenza
dicendo che le scienze rispondono a domande “chiuse”, cioé domande a cui sappiamo
come si può dare o si potrebbe dare una risposta: per esempio “qual è il risultato di 1045
diviso 5” è una domanda chiusa, ma lo è anche “Esistono dei batteri sui satelliti di
Giove?”, per la quale al momento non abbiamo una risposta (ma immaginiamo come la
si potrebbe dare). Per contro, la filosofia mira a dare risposta a domande aperte, cioé a
proposito delle quali dobbiamo innanzitutto scoprire se la domanda possa avere una
risposta e, secondariamente, quale sia la risposta migliore disponibile. Una delle forme
tipiche di posizione di una domanda filosofica è la richiesta di una definizione di parole
molto usate: “Che cosa è il bene? Che cosa è la virtù? Come si distingue il giusto
all’ingiusto?”. Ovviamente, questa domanda ha in filosofia un valore diverso da quella
che avrebbe se il fine fosse quello di scrivere un dizionario. Contrastanti definizioni di
una stessa parola segnalano spesso la presenza di un latente contrasto di orientamento tra
i parlanti e dunque la ricerca della migliore definizione possibile (ovvero di un concetto
condiviso) è, in realtà, un modo per proporre un orientamento condiviso, non soltanto il
modo per rendere più chiara l’espressione linguistica.

[Alcune domande sono a metà strada tra domande aperte e chiuse. Per esempio la domanda “Esiste vita
intelligente sugli altri pianeti?” non può trovare risposta senza risolvere la questione filosofica di quale
la definizione appropriata di “vita intelligente”. Ma se trovassimo una definizio ne condivisa di “vita
intelligente” (o se sostituissimo tale concetto con un concetto meno impegnativo e scientificamente più
preciso), la domanda diverrebbe una domanda chiusa].

Negli Istituti Superiori e nelle Università sono previsti corsi di filosofia perché:
(i) La filosofia esercita le capacità di ragionamento e di analisi critica, poiché abitua a
seguire (e possibilmente ad eseguire) argomentazioni coerenti e articolate per sostenere
o criticare un dato punto di vista.
(ii) Tutte le maggiori teorie scientifiche, giuridiche, estetico-letterarie, perfino
teologiche, si sono formate tra discussioni filosofiche e pongono tuttora questioni
filosofiche.
(iii) Spesso, anche questioni del tutto pratiche o tecniche hanno soluzioni diverse a
seconda del punto di vista adottato (cioè celano questioni “aperte”) e la filosofia ci aiuta
a prenderne coscienza e a non assumere un partito pregiudizialmente.
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La filosofia morale e le grandi correnti del pensiero morale in Occidente

La filosofia morale o l’etica (le due parole vengono dal greco ethos e dal latino mos
che significano entrambe “costume, regola di comportamento”) si occupa dell’ azione
umana nonché del modo in cui valutiamo le azioni umane, distinguendole in buone o
cattive, giuste o ingiuste, ragionevoli o irragionevoli. Essa dunque si occupa di come
giudicare il nostro comportamento e quello altrui,di che cosa è ragionevole pretendere
dagli altri e di che cosa siamo in dovere di fare nei loro confronti, se è bene seguire
sempre le regole di comportamento già esistenti nella nostra comunità o se invece è
opportuno talora modificarle e perché.
Nelle pagine che seguono, elencheremo succintamente le correnti fondamentali del
pensiero morale occidentale e i problemi-chiave a cui esse hanno dato un importante
contributo. Vi si incontrerà anche, qua e là, qualche proposta di esercizio di riflessione.

I. La filosofia morale antica: il Bene e il Sommo Bene

I. 1 Gli autori fondamentali

Sebbene le opere dei grandi poeti greci (Omero, Esiodo) siano già piene di riflessioni
importanti sull’uomo e sull’agire, e sebbene la filosofia sia nata in Grecia già nel VII.
secolo a. C.,una vera e propria riflessione sull’azione umana si delinea soprattutto
nell’età classica greca (il V. – IV. secolo a.C.), con la diffusione della Sofistica. I Sofisti
furono infatti i primi a proporsi come scopo l’insegnamento delle “virtù” necessarie per
essere un buon cittadino, che per loro erano soprattutto le abilità retoriche (utili a
persuadere) e la memoria dei fatti memorabili e delle imprese umane. I Sofisti furono i
primi a sottolineare che l’uomo, a differenza dagli altri animali, è un essere che inventa i
propri costumi e le proprie leggi e le modifica nel corso del tempo. Alcuni di essi (in
particolare Protagora) arrivarono così a conclusioni relativistiche, sostenendo che
l’uomo “è misura di tutte le cose”, che non è possibile stabilire delle certezze assolute in
campo religioso e morale, e che non è possibile insegnare che cosa sia il bene in
generale, ma soltanto ciò che è utile in un contesto o in una situazione determinata.
Contemporaneo dei sofisti fu la più grande figura del pensiero morale greco, cioè
l’ateniese Socrate (condannato a morte nel 399 a.C.), al quale si attribuisce una dottrina
contrapposta a quella relativistica: la virtù è “scienza del bene e del male” (dunque
Socrate sposa una concezione realistica del bene e del male), anche se per Socrate il
sapere morale non è completamente insegnabile perché deve essere acquisito dalla
persona stessa. Socrate usa il dialogo come strumento per avviare alla riflessione
morale, ma lasciando spesso “aperte” le conclusioni del dialogo stesso.

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Oltre a una concezione realistica dei valori morali, gli si attribuisce anche una
concezione razionalistica della scelta morale: non è la volontà degli dei a rendere buono
o cattivo un determinato atto, ma noi consideriamo quell’atto come comandato dagli dei
in quanto è buono o cattivo in se stesso (cfr. in particolare il dialogo Eutifrone). Questa
tesi, che implicava la possibilità di disobbedire ai comandi religiosi (o di reinterpretarli
alla luce della nostra ragione), fu probabilmente una delle ragioni della sua condanna a
morte. Inoltre, Socrate fu tra i primi a distinguere il male morale dal male fisico,
sostenendo che per un uomo è più dannoso “commettere il male” che “subirlo”.
Il maggior allievo di Socrate, Platone (430 a.C. – 349 a. C.), sviluppò dalle idee di
Socrate una filosofia sistematica basata sulla distinzione tra l’anima e il corpo: l’anima,
spinta dal desiderio del Bene (per Platone, il Bene è un principio divino che trascende la
realtà materiale) impara a cogliere i modelli assoluti e paradigmatici che organizzano la
realtà (le “idee”) alla luce dei quali deve agire. Le virtù (temperanza, coraggio, sapienza)
sono tappe di questo percorso. Per Platone, l’intera vita politica della città dovrebbe
essere ispirata da questo modello perfezionistico e egli suggerisce di attribuire il potere
politico a seconda del grado di eccellenza della virtù (maggior potere va dunque ai
sapienti).
Una variante più moderata di perfezionismo morale si incontra in Aristotele (384 –
322 a. C.). Aristotele è il primo a concepire l’etica come una disciplina specifica che ha
come oggetto l’azione umana e i fini che essa può conseguire. Il fine supremo (il
“sommo bene”) è per lui la eudaimonia (felicità). Per Aristotele, la felicità consiste in
una vita che ci consente di esprimere le potenzialità positive che sono presenti in noi.
Poiché l’uomo è un animale politico e razionale, la realizzazione di noi stessi non può
mai prescindere dall’acquisizione delle virtù che ci abilitano ad essere buoni cittadini ed
esseri umani compiuti. Le virtù (a differenza di quel che pensava Socrate) sono molte e
differenti tra loro. Le virtù etiche sono quelle che, generando un “giusto mezzo” tra gli
impulsi contrastanti, permettono all’uomo di gestire il proprio comportamento pubblico
(cioè di essere coraggioso, piuttosto che vigliacco o avventato; magnanimo piuttosto che
pusillanime o superbo; generoso piuttosto che avaro o prodigo; giusto, piuttosto che
egoista o troppo cedevole agli altri). Vi sono poi le virtù dianoetiche (= dell’intelligenza)
sono quelle che invece perfezionano le nostre doti intellettuali e sono tre: abilità tecnica,
saggezza nel decidere, sapienza ovvero conoscenza teorica. La prima è utile per la vita
economica, la seconda per la vita pubblica e la terza porta al supremo sviluppo
dell’intelletto. Per Aristotele, è ovvio che l’uomo completo deve partecipare in qualche
misura di tutte le virtù, ma deve eccellere soprattutto in quelle tipiche del modello di vita
che gli è congeniale (“vita contemplativa” o “vita attiva”).
Se la filosofia morale dell’età classica è centrata sul problema della formazione del
buon cittadino, nell’età tardo-antica incontriamo invece una nuova impostazione, più
funzionale a chiarire l’”arte di vivere” in generale e che si rivolge a individui non
considerati prioritariamente come cittadini (per esempio, anche a donne, schiavi etc.).
Per la scuola stoica (Zenone, Crisippo e, nell’età romana, Seneca, Marc’Aurelio,
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Epitteto), la virtù consiste nell’eseguire sempre ciò che suggerisce la ragione, valutando
ogni caso morale secondo una norma impersonale e rifiutando le suggestioni delle
“passioni”. Lo stoicismo si propone dunque di darci una terapia nei confronti delle
illusioni e delle aspettative eccessive verso la vita, prescrivendoci di fare il nostro
“dovere” senza richiedere nulla in cambio. Allo stoicismo si oppone l’ edonismo (da
edoné: piacere) di Epicuro (341 – 270 a.C.). Per gli edonisti, il piacere è l’unico bene, il
sommo bene è una vita in cui i piaceri sono più costanti e intensi dei dolori. Vanno
dunque evitati quei piaceri che si rovesciano poi in dolori e l’epicureo sconsiglia perciò
il perseguimento del denaro o degli onori politici, che danno luogo a piaceri del tutto
instabili. Piaceri stabili e calmi nascono invece dalla coltivazione dell’amicizia,
dall’esercizio della filosofia, dall’arte, dalla vicinanza alla natura.

I.2 I problemi-chiave

I.2.1 Problematica assiologica (da axios: bene, valore). Che cosa è il “bene”? Questa è
una delle più antiche domanda della filosofia morale ed è anche una tra le più difficili,
perché noi usiamo la parola “bene” in modi molto variegati e incongruenti tra loro. Un
atteggiamento moralmente realista è quello di chi ritiene che si diano almeno alcune
cose che sono “buone in sé” o che sono portatrici di valore e che sarebbe assurdo negare
che siano buone. Un relativista è invece chi ritiene che non esista alcun giudizio di
valore che non sia dipendente o dalla scelta del singolo soggetto (cioè dal suo carattere,
dalla sua educazione etc.) o, al più, dalle tradizioni tramandate nella comunità in cui tale
giudizio viene formulato.
Tra i “realisti”; vi sono quelli che hanno un approccio naturalistico alla vita morale e
identificano il “bene” con la proprietà che alcuni oggetti o situazioni hanno di generare
piacere negli esseri umani. Questa posizione si chiama edonismo ed è stata condivisa da
alcuni sofisti, da Epicuro e, tra i moderni, da Bentham (vedi oltre). La posizione
nettamente contrapposta è quella sostenuta da Socrate e da Platone, secondo la quale
esiste (oltre al bene fisico) anche un bene specificamente morale che è di natura più alta
rispetto al bene fisico. Questa posizione implica che le nostre azioni sono buone in
quanto incarnano, manifestano o in qualche modo rispecchiano delle realtà non-materiali
(Platone li chiama “idee”, oggi sono anche chiamati valori). Coloro che sostengono il
realismo dei valori ritengono in genere che esista anche un principio supremo che è la
fonte dei valori stessi (Dio o gli dei o quella sorta di divinità impersonale che Platone
chiama il “Bene”).
Il relativismo morale (o relativismo dei valori o “scetticismo morale”) sottolinea per
contro che la parola “bene” non ha un significato preciso ed indica soltanto ciò che i
nostri sentimenti o le nostre intuizioni ci presentano come positivo e desiderabile.
Cercare di definire il “bene”, scrive un moderno intuizionista (G. E. Moore), è una
“fallacia naturalistica”, cioè è l’errore di credere che il bene sia una specie di qualità
degli oggetti che possiamo stabilire con una certa sicurezza, come l’essere colorato o
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l’essere fatto in metallo. Come chiarì già il sofista Protagora, il relativista non ritiene che
un accordo morale tra più individui sia impossibile, ma sostiene che questo accordo si
verifica in genere nella forma di compromesso o mediazione tra interessi o valori diversi
(e dunque solo nei casi in cui i soggetti siano effettivamente motivati a trovare un
compromesso tra loro piuttosto che separarsi o combattersi). Ciò in cui il relativista si
contrappone senza dubbio al realista è che, per il primo, il mondo dei valori è troppo
pieno di contrasti (troppo “politeista”) perché si possa prendere sempre una decisione
razionale. Né per il relativista può esistere un “sommo bene” che sia sicuramente
preferibile a tutti gli altri. Per contro, la definizione di quale sia questo “sommo bene” è
il cardine del realismo morale antico, come ora vedremo.

I.2.2 Problematica aretologica (da areté: virtù) e eudaimonologica (da eudaimonia:


felicità). La filosofia morale dei Greci è profondamente influenzata dal fatto che essa
mira ad educare dei cittadini, cioè degli esseri umani chiamati a gestire e a tutelare una
comunità. Ciò spiega l’importanza che, nel pensiero greco, ha il tema della “virtù”
(areté). La virtù (o le virtù) era per loro ciò che trasforma l’uomo in un buon cittadino e
che dunque bisogna assolutamente fare “fiorire” nei giovani. Questa finalità
pedagogico-politica spiega la divergenza tra i sofisti e Socrate: laddove i primi miravano
soprattutto a potenziare la capacità dei giovani di curare i propri interessi e la propria
carriera politica, Socrate sottolinea (seguendo un sofista più antico, Prodico) la
differenza sussistente tra “virtù” e “piacere”, cioè tra cura dell’interesse comune e cura
dei propri interessi privati. Nasce così la distinzione tra bene morale e bene fisico, che
abbiamo già sottolineato.
Ma perché una vita virtuosa è migliore di una vita dedita al piacere? Già in Socrate
sembra preannunciarsi una risposta a questa domanda in termini perfezionistici.
Nell’uomo, vi è un principio immateriale (l’anima, la personalità morale) che deve
essere risvegliato e che proverà, quanto più diviene potente, delle gioie che gli sono
esclusive. In Platone, questa concezione perfezionistica è sviluppata fino a concepire la
nostra anima come costantemente in cammino (in un lungo ciclo di vite terrene) verso il
Bene supremo. E’ però solo con Aristotele che si sviluppa pienamente la problematica
dell’eudaimonia (felicità, vita riuscita). Per Aristotele, “sommo bene” per l’uomo è
una vita nella quale si riescono a sviluppare e fare fiorire le proprie capacità più
significative (ciò in cui si verifica ciò che oggi chiameremmo: autorealizzazione). Come
abbiamo visto, poiché l’uomo è, secondo Aristotele, un animale naturalmente politico e
naturalmente razionale, questa fioritura di se stessi non può prescindere
dall’acquisizione delle virtù etiche e dianoetiche, così che l’essere virtuoso e l’essere
felice sono strettamente legati.
La problematica del “sommo bene” e della vita buona o eudaimonia sono abbastanza
esclusive del pensiero antico. Nel Medioevo, questa problematica viene risucchiata in
quella tipicamente religiosa della salvezza dell’anima e dei modi della sua ascesa alla

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contemplazione di Dio. Proprio per questo motivo, i filosofi moderni (dal secolo XV. al
secolo XIX), i quali si assumeranno il compito di separare la morale razionale dalla
religione, arriveranno a rigettare progressivamente la prospettiva eudaimonistica, in cui
spesso vedranno nient’altro che un fastidioso tentativo di illuderci che le azioni buone
siano sempre ricompensate. Come già gli stoici, gli autori moderni spesso sottolineano
che la virtù non ha bisogno di ricompense e che è “fine a se stessa”. Kant, infine, pur
ammettendo che il “sommo bene” (cioè la sintesi di “virtù” e “felicità”) è un ideale
morale tipicamente umano, afferma chiaramente che tale sintesi non si realizza in questa
vita e presuppone la speranza in un Dio remuneratore (e dunque non fa parte della
filosofia morale propriamente detta).
Rigettando la domanda su come si faccia a vivere una “vita buona”, la filosofia
morale moderna sembra anche rigettare il problema originario a partire dal quale tutta la
filosofia morale antica aveva preso le mosse, cioè quello della formazione della
personalità morale. A guardare più attentamente le cose, ci si accorge però che tale
problematica non è scomparsa, ma se ne discute meno perché è entrata a far parte di un
nuovo ambito di problemi. A partire quantomeno dall’Emilio di Jean- Jacques Rousseau
(1712-1778), la questione della formazione del buon cittadino non è più considerata
come un tema della filosofia morale, ma piuttosto come un tema della pedagogia, che
nell’età moderna si trasforma progressivamente in una scienza autonoma. Questa è una
delle ragioni per cui oggi una teoria delle “virtù” (a parte qualche sporadico tentativo di
rinascita) appare poco convincente. Vi sono però delle problematiche che restano
comuni ai due campi, per esempio quella dei sentimenti morali o delle emozioni morali
(vedi oltre).

Esercizio: immaginate di dover fare un catalogo di virtù che servano a qualsiasi essere umano di oggi
(potete scegliere voi stessi come caratterizzarlo: che viva in una società avanzata o in qualsiasi società
del pianeta, che sia un essere umano e basta o un essere umano di sesso maschile o femminile) allo
scopo di vivere quel che voi definireste una “vita buona”. Quali scegliereste?

II. La filosofia morale medievale e moderna: alla ricerca della “legge della ragione”

II.1 Gli autori fondamentali

Con la vittoria del cristianesimo (nel IV. – V. secolo d. C.), alla riflessione morale
degli Antichi viene a contrapporsi una nuova concezione morale, basata sul precetto
dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Va detto però che i teologi cristiani
recepiscono anche una parte delle dottrine morali pagane (Platone, Aristotele, gli stoici)
e se ne servono per differenziare la “morale universale” indipendente dalla rivelazione e
quella che invece ha la fede per presupposto. Per esempio, nella filosofia di S.
Tommaso d’Aquino (1225-1274), ricompare la filosofia aristotelica delle virtù, pur

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integrata con le virtù teologali cristiane (fede, speranza e carità). Tommaso e gli altri
autori medievali riprendono inoltre l’idea stoica di una legge di natura (lex naturae)
che definisce alcuni doveri basilari verso gli altri uomini.
Nel corso dell’età moderna, questa distinzione tra leggi morali “universali” o
“universalmente umane” e le norme di natura puramente religiosa viene ripresa da un
nuovo punto di vista. I viaggi e il differenziarsi dei costumi all’interno dell’Europa
stessa rendono evidente la relatività di molte norme di comportamento (sulla quale
insistono molti nuovi scrittori “scettici” come Michel de Montaigne). Inoltre, la morale
religiosa, dopo le scissioni ecclesiastiche dell’età della Riforma, perde buona parte della
sua credibilità. I filosofi cercheranno a questo punto di costruire una morale universale e
puramente razionale, da contrapporre a quelle fondate sul costume o sulle tradizioni o
sulla religione. Dapprima, questo programma razionalistico verrà eseguito
prevalentemente sul terreno della politica, generando le dottrine del contratto sociale
che stabiliscono in modo razionale (cioé indipendente dalla religione) i princìpi
dell’organizzazione dello Stato e i diritti e i doveri dei sudditi. Ma, nel corso dell’età
dell’Illuminismo, vediamo sorgere anche sistemi di filosofia morale che cercano una
“legge della ragione” universale o “cosmopolitica”.
Questa tendenza troverà il suo punto di arrivo nella filosofia morale di Immanuel
Kant (1724-1804). Per Kant, la nostra ragione prescrive due diversi tipi di “imperativi”
(= norme) concernenti le azioni, Egli chiama “imperativi ipotetici” le norme tecniche
che servono a conseguire efficacemente i fini che ci proponiamo, mentre chiama
“imperativo categorico” la norma morale a cui bisogna obbedire se si vuole che l’azione
sia moralmente buona. Per Kant, l’imperativo categorico è esprimibile con la formula:
“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere in ogni tempo come
principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica, 1787). In parole
povere, scegli solamente quelle regole di azione (“massime”) che consiglieresti ad ogni
altro uomo, compi soltanto azioni che considereresti esemplari o quantomeno rispettabili
se venissero fatte da altri e non da te. Un’altra formulazione dell’imperativo categorico è
“Agisci in modo da considerare l’umanità, in te come negli altri, come fine e mai come
mezzo” (cioé: tratta con rispetto ogni persona umana).
Tuttavia, l’età moderna non vede semplicemente l’affermarsi della concezione
deontologistica di Immanuel Kant, ma anche quella di una corrente contrapposta e che
prende le mosse dall’edonismo antico, vale a dire dell’utilitarismo. Gli utilitaristi
considerano la realizzazione delle preferenze soggettive come l’unico bene e
considerano la razionalità morale come un “calcolo dell’utilità” teso a garantire il
perseguimento del maggior numero possibile di beni con il minimo di mali. Questa
concezione, già presente nell’Illuminismo del XVIII. secolo, trova una formulazione
particolarmente accurata in Jeremy Bentham (1748-1832) e in John Stuart Mill
(1806-1872).

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II.2 Problemi-chiave

II.2.1 La problematica deontologica (da deon: ciò che è necessario fare). La questione
deontologica si riassume in due domande: abbiamo dei doveri, cioè qualcosa che siamo
obbligati a fare (o non fare)? E perché abbiamo dei doveri? Il deontologista sostiene (i)
che abbiamo dei doveri (per Kant uno solo che però condiziona ogni nostra azione:
l’imperativo categorico) e soprattutto (ii) che non abbiamo alcun modo per spiegare il
fatto che ci siano doveri. Si tratta di un fatto primario, non ulteriormente giustificabile.
La posizione opposta, quella consequenzialista o utilitarista, sostiene che il fatto
primario della vita morale non è il dovere, ma il desiderio naturale di perseguire ciò che
è utile o piacevole. La razionalità non interviene nel dirci che dobbiamo fare qualcosa,
ma piuttosto nell’indicarci quale è il modo migliore di ottenere i fini che già ci
proponiamo di conseguire.
Il punto debole dell’approccio deontologistico sta nel fatto che esso valuta soltanto
l’intenzione e non il risultato (infatti esso viene anche chiamato etica dell’intenzione).
Dal punto di vista deontologistico, infatti, ciò che rende buona un’azio ne è il fatto che il
soggetto morale la pratichi come applicazione della legge morale. Per un utilitarista,
questo criterio renderebbe “buone” moralmente molte azioni terribilmente dannose,
purché fatte in buona fede. In breve, il deontologismo autorizzerebbe comportamenti di
fanatismo morale che l’utilitarismo trova ripugnanti (per esempio, per fare un esempio
dello stesso Kant, dire la verità a chi può farne un uso criminale, semplicemente perché
è immorale mentire). I deontologisti si difendono affermando che molte azioni eroiche
hanno appunto la natura di essere sacrifici senza contropartite, fatti magari quando
nessun buon risultato era prevedibile: dal punto di vista dell’utilitarismo, dovremmo
considerarle immorali.
L’utilitarismo si caratterizza per il fatto che sono le conseguenze a determinare quale
azione sia stata buona e quale cattiva. Questo presupposto è coerente con una
concezione evoluzionistica della società umana: noi stabiliamo che cosa è buono, in base
a tentativi, errori e correzioni degli errori. L’utilitarismo ha però gravi difficoltà a
giustificare sia l’universalità dell’azione morale (perché dovremmo tener conto del bene
di tutti gli uomini e non soltanto di quelli che ci possono essere utili o ci sono
simpatici?), sia il rigore degli obblighi morali. Per capire meglio quest’ultimo punto,
domandiamoci come giudicare chi facesse un danno piccolissimo a molti altri per
ottenerne un beneficio rilevante per sé. Un utilitarista dovrebbe giustificare o almeno
perdonare quest’atto, ma una simile posizione giustificherebbe per esempio il sottrarre
una parte del nostro reddito alle tasse e ovviamente se lo concedessimo a ogni soggetto,
vi sarebbe poi un grave danno per tutti (questo problema si chiama problema del free
rider: chi non paga il biglietto in autobus, per capirci). Per risolvere il secondo
problema, è nato il cosiddetto utilitarismo della regola: per l’utilitarista della regola, le
regole istituzionalizzate vanno sempre rispettate (perché altrimenti non funzionerebbero
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più), ma occorre poi valutare se le regole stesse siano utili: il che però pone il problema
di chi sia autorizzato a cambiare le regole e se è proprio vero che esse vadano sempre
rispettate.
Ovviamente, si possono trovare delle vie di mezzo tra le due dottrine, ma s i può
anche suggerire che nessuna delle due dottrine sembra riuscire a catturare
completamente la natura dell’agire. Infatti, il deontologismo interpreta l’agire seguendo
uno schema giuridico (l’azione viene legittimata dal suo essere conforme a una ipotetica
disposizione legale, la “legge morale”), mentre il consequenzialismo interpreta l’agire
secondo uno schema tecnico o economico (l’azione è un mezzo per ottenere dei
risultati). Forse nessuno di questi due schemi coglie adeguatamente l’agire morale.
Esercizio: Immaginate una situazione nella quale l’agire che sembrerebbe doveroso è sicuramente
condannato al fallimento. Per esempio: un poliziotto sta sorvegliando una camera d’ospedale nella
quale è curato l’esponente di una gang criminale. Egli viene avvicinato da un emissario di un’altra gang
che gli fa sapere che di lì a poco un commando verrà a trucidare il sorvegliato. Se il poliziotto “andrà a
fare una passeggiata”, sarà risparmiato. Se sarà presente, verrà ucciso. Tutti i mezzi di comunicazione
dell’ospedale con l’esterno sono stati messi sotto controllo: non vi è modo per ottenere aiuti
dall’esterno né dall’interno (infermieri e malati sono stati spostati ad altri piani e sono comunque
disarmati). Che cosa dovrebbe fare il poliziotto da un punto di vista deontologista e che cosa dovrebbe
fare da un punto di vista utilitarista? E, infine, che cosa fareste voi se foste il poliziotto (e come lo
giustifichereste davanti alla vostra coscienza)?

II.2.2 Problematica della responsabilità e della colpa: Se compiamo il male invece che
il bene, ne siamo responsabili, ovvero abbiamo commesso una colpa? L’idea che l’uomo
(e non gli dei) sia moralmente responsabile di ciò che fa è sviluppata dal pensiero
filosofico greco in opposizione alle concezioni tipiche del mito e della religione antica.
Per Aristotele, l’uomo è sempre responsabile di ciò che fa a seguito di una scelta
deliberata ed è responsabile anche di ciò che fa in base alle passioni, perché avrebbe
potuto abituarsi in precedenza a tenerle sotto controllo. Tuttavia, Aristotele ammette
anche che, per acquisire le virtù necessarie per l’autocontrollo e la buona deliberazione,
dobbiamo avere ricevuto un carattere e un’educazione adeguati. Dunque, la concezione
aristotelica della responsabilità non è totale.
Nell’età successiva, molti autori cercheranno di responsabilizzare più integralmente
l’uomo per le sue azioni, sostenendo che l’uomo è, indipendentemente dai tratti del suo
carattere o della sua educazione o dell’esperienza vissuta, dotato di un libero arbitrio
che gli permette di scegliere tra bene e male. Questa concezione sembra implicita in
tutte le concezioni deontologistiche dell’azione umana: perché sia vero che noi possiamo
fare il nostro dovere anche quando non ci è utile farlo, occorre che noi uomini siamo
tipicamente capaci di auto-sacrificio. Kant ammette questa connessione, ma è molto
cauto sull’esistenza reale del libero arbitrio. Per lui, la libertà del volere costituisce un
postulato necessario e indimostrabile della morale: necessario, perché altrimenti

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sarebbe impossibile l’azione fatta per dovere, indimostrabile perché non possiamo avere
alcuna prova che un’azione è stata fatta solo per dovere (e non per qualche motivo
psicologico occulto allo stesso soggetto).
Gli autori di orientamento consequenzialistico sposano spesso il determinismo: Per
loro, le scelte che facciamo sono determinate dalle nostre disposizioni caratteriali, dal
costume, dalle abitudini, dall’educazione. E’ dunque su questi elementi che dobbiamo
giocare se vogliamo soggetti che agiscano più razionalmente e più moralmente.
Se la posizione libero-arbitraristica appare implausibile (come spiegare che proprio
in determinate condizioni sociali divengano più probabili dei comportamenti devianti?),
la posizione deterministica sembra inadeguata a spiegare l’autonomia che consideriamo
tipica della personalità morale completa, né a spiegare perché l’educazione di un essere
umano non coincida con l’addestramento di un animale domestico.
Esercizio: come definireste in altre parole (facendo magari riferimento a concreti esempi pedagogici) il
concetto di autonomia?

III. L’età contemporanea: la crisi del razionalismo morale e i tentativi di superarla


(panoramica complessiva)

Per molti autori, sia lo schema deontologistico che quello utilitaristico appaiono
troppo astratti per essere credibili, ed essi proporranno perciò di situare la discussione
morale nel contesto della realtà politica e della storia delle nazioni. Per il massimo
filosofo idealista tedesco, Georg F. W. Hegel (1770-1832), la morale kantiana è
un’astrazione puramente “negativa” e “vuota” che va superata considerando l’”eticità”
(che in Hegel è la sintesi di diritto e morale) come un insieme di istituzioni concrete che
vengono continuamente modificate dalla storia: la “famiglia”, la “società civile”, lo
“Stato”. Questo incitamento a tener conto delle istituzioni concrete della società e a
considerare ogni morale come finalizzata alla loro salvaguardia ritorna nello storicismo
tedesco del XIX. secolo e viene ripreso anche dai comunitari odierni.
Un’altra obiezione al razionalismo morale viene invece dalla rilevanza della passioni
e delle emozioni nella vita morale. Questa rilevanza era stata già notata da David Hume
(1711-1776), il quale aveva sottolineato che “la ragione è sempre schiava delle passioni”
e che, in assenza di determinati sentimenti morali, essa non sarebbe neanche in grado di
stabilire perché non preferire la morte di milioni di altri esseri umani alla puntura di uno
spillo su noi stessi. Per Hume, la simpatia e gli altri sentimenti morali nascono attraverso
il raffinamento della cultura e hanno dunque un rapporto di reciproca funzionalità
rispetto alla società: la società promuove quei sentimenti che la rafforzano (in questo
senso l’emotivismo di Hume resta coerente con una prospettiva fondamentalmente
utilitaristica). Anche in Jean-Jacques Rousseau (1712- 1778), i sentimenti hanno
un’importanza cruciale per la vita morale, ma la società e la cultura, più che rafforzarli,

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li corrompono: l’educazione deve mirare più a conservare e sviluppare i sentimenti


naturali e spontanei che a correggerli e indirizzarli. Per Rousseau, dunque, esiste un
contrasto profondo tra i sentimenti migliori dell’uomo e la condizione sociale in cui
vive. Il dilemma posto da queste due posizioni – la civiltà migliora le nostre pulsioni o le
reprime e le deforma? – ritornerà ciclicamente nella discussione, stimolando
l’elaborazione di teorie antropologico-psicologiche sempre più raffinate, che metteranno
in ogni caso in discussione l’idea che la morale possa essere compresa senza tener conto
delle tensioni sussistenti tra “natura umana” e “civiltà” [tema sul quale un contributo
fondamentale resta quello della psicanalisi di Sigmund Freud (1856-1939)]
La crisi dell’idea di una razionalità morale impersonale e oggettiva verrà espressa
infine soprattutto da Friedrich Nietzsche (1844-1900). Per Nietzsche, l’intero
programma (nato con Socrate) di dare regole morali universalmente valide costituisce un
errore, un programma di livellamento e appiattimento delle possibilità umane,
l’instaurazione di una “morale del gregge”. I “valori” morali sono sempre coperture
della volontà di potenza degli individui e gli unici “valori” vitali sono quelli che la
volontà di potenza dà a se stessa per raggiungere la propria più alta espressione. Da
questo punto di vista, Nietzsche fonde un radicale relativismo morale (ognuno si crea i
propri valori) con una ripresa di ideali aristocratici che erano stati tipici del
“perfezionismo” greco, con una estremizzazione dell’ideale dell’autorealizzazione. Se
per i greci, l’individuo può realizzare se stesso solo realizzando al contempo anche le
virtù proprie della specie umana, per Nietzsche egli deve tendere semmai a prefigurare
un “superuomo” libero dai condizionamenti del passato.
Il pensiero morale del XX. secolo si è diviso tra quanti hanno proseguito la critica del
razionalismo morale e quanti hanno tentato di tener conto della concretezza, fluidità,
complessità delle situazioni umane senza però abbandonare il programma di una
riflessione razionale sulla vita morale. In genere, nel XX. secolo, la critica del
razionalismo morale ha avuto toni decisamente meno entusiasti di quelli proposti da
Nietzsche. Molti di quanti hanno insistito sul fatto che non si dà un fondamento per le
scelte morali, che l’uomo è spesso costretto a optare tra valori altrettanto importanti ma
non compatibili tra loro (come hanno fatto le correnti esistenzialistiche del XX. secolo:
Jean-Paul Sartre, Albert Camus), lo hanno fatto sottolineando gli aspetti tragici e
paradossali della “condizione umana” e l’impossibilità di cercare vie di fuga da tale
“condizione” di fragilità e rischiosità (ivi comprese quelle del superomismo
nietzscheano). Altri autori hanno invece cercato di stabilire dei parametri di razionalità
meno rigidi di quelli di Kant o degli utilitaristi, magari risalendo ad Aristotele e al
pensiero greco sull’agire umano, per cercarne aspetti che sfuggissero all’antitesi tra
concezione deontologica e concezione utilitaristica dell’agire. All’interno di questo
pensiero che potremmo chiamare neo-greco si situa la riflessione di Hannah Arendt
(1906-1975) sull’agire e la vita pubblica nel mondo greco, nonché quella di una serie di
altri autori contemporanei tra i quali, tra i più recenti, Martha Nussbaum.

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Infine, tra le questioni fondamentali della filosofia morale contemporanea, vi sono


anche quelle che riguardano il nesso tra filosofia morale e filosofia politica, un nesso
che si era allentato sempre di più nel corso dell’età moderna. La dottr ina politica che più
tipicamente si richiama al razionalismo morale dell’età illuministica è quella che nel
mondo anglosassone si chiama liberal (in italiano si potrebbe rendere con
“progressista”) la quale considera assoluto il valore dell’eguale rispetto per ogni
individuo umano e deriva da questo valore sia i princìpi di libertà politica che quelli di
solidarietà sociale. Questa tradizione ha tra i suoi capostipiti sia alcuni degli utilitaristi
come John Stuart Mill, sia autori contrari all’utilitarismo come John Rawls
(1921-2005). Quest’ultimo ,nel suo Una teoria della giustizia (1971), fonda la teoria del
liberalismo progressista su una finzione teorica, immaginando individui che stipulano le
regole fondamentali di una società giusta posti sotto “un velo di ignoranza” sul loro
destino economico e sociale: in questa nuova versione della “teoria del contratto
sociale”, gli individui, incerti sulle loro sorti future, cercheranno di attribuire ogni
individuo eguale libertà e di assicurare una cornice di solidarietà sociale per gli
sventurati nella misura in cui ciò è compatibile con la libertà. Sebbene il metodo con cui
Rawls fonda la sua teoria politica sembrerebbe avvicinarlo all’utilitarismo, a distanziarlo
da esso vi è la sua convinzione sul carattere non rivedibile degli obblighi di di rispetto
per le minoranze e di solidarietà sociale. Tratto comune dei vari esponenti del
“liberalismo” progressista sembra dunque essere soprattutto la richiesta di eguale
rispetto per tutti gli individui e gli stili di vita e dunque la richiesta che sia la società a
evolversi per “fare posto” alle richieste di soggetti emarginati o repressi: minoranze
etniche o sessuali, soggetti diversamente abili, e così via: Una formulazione
filosoficamente più ambiziosa di questa concezione politica si ritrova negli scritti del
filosofo tedesco Jürgen Habermas (1929-), di chiara ispirazione kantiana. Per
Habermas, l’agire sociale si divide in agire comunicativo – agire finalizzato al
confronto, alla discussione, alla compartecipazione – e agire strumentale – cioè agire
proiettato verso fini economici o tecnici. Per Habermas, gli obblighi morali tutelano il
primato dell’agire comunicativo su quello strumentale evitando che il secondo distrugga
o deformi il primo.
Una concezione opposta a quella del “progressismo” liberale viene avanzata da
quegli autori che negli Stati Uniti sono chiamati comunitari e che in Italia
chiameremmo piuttosto “tradizionalisti”, “conservatori” o anche “integralisti”.
Richiamandosi a Hegel e agli storicisti, i comunitari affermano che una società non è
soltanto un insieme di individui, ma presuppone una tradizione condivisa e determinati
valori di riferimento i quali discriminano anche la possibile ricezione delle domande
sociali. Per i comunitari infatti non tutte le domande sociali meritano eguale rispetto:
quelle che sono estranee alla tradizione fondante della società in cui si vive (quelle di
devianti sessuali, di soggetti che vivono in modi pericolosi o ritenuti incivili dagli altri
soggetti, membri di minoranze religiose…) debbono avere minor peso di quelle già
dominanti. Nel caso delle questioni bioetiche, per esempio, i “progressisti” tendono a
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lasciare ampio margine alle decisioni individuali, mentre i “comunitari” insistono che le
scelte generate dalle possibilità offerte dalla tecnologia medica (e che spesso offrono
nuove inquietanti possibilità sui modi in cui si può fare nascere un essere umano o
prolungarne indefinitamente l’esistenza) debbano essere regolate in vista della continuità
con i costumi pre-esistenti e con l’idea di dignità umana (su quest’ultimo punto, anche
Habermas appare vicino alle istanze dei comunitari). Il comunitarismo appare dunque
parzializzare l’idea illuministica che tutti gli stili di vita (purché non dannosi per gli
altri) meritino eguale rispetto. Esso appare anche accusabile di relativismo culturale e
di anti-razionalismo, dal momento che si accetta la tradizione perché è la tradizione e
non perché sia buona in se. Tuttavia, il comunitarismo può fare appello proprio a mo lte
delle scoperte dell’antirazionalismo morale contemporaneo: l’influenza delle emozioni
morali sui comportamenti e sui giudizi sociali (Hume e tutta la tradizione emotivistica
anglosassone), dunque la necessità di preservarne la coerenza per evitare l’educazione di
individui dissociati moralmente o cinici; l’esigenza di una morale legata alla storia e alle
istituzioni, che eviti con ciò l’astrattezza delle morali illuministiche (Hegel). Da questo
punto di vista, si comprende perché il dibattito su questi punti sia tuttora aspro nel
mondo anglosassone e tenda a trasferirsi anche negli altri Paesi (soprattutto attraverso le
questioni di bioetica e di morale sessuale).

Esercizio: Per Hume e per la tradizione “emotivistica” anglosassone, la natura produce sentimenti
morali e la civiltà ha il compito di perfezionarne l’uso e di canalizzarli. Anche per Rousseau, la natura
produce i sentimenti morali, ma Rousseau segnala anche il rischio che la società induca precocemente
sentimenti che “corrompono” la natura (legati a pregiudizi, distinzioni sociali, tabù).In quali casi vi
sembra più valido il primo approccio e in quale il secondo? Come applichereste queste due posizioni ai
casi del disgusto e della vergogna discussi da Martha Nussbaum?

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