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Il bastone e la carota“La versione di Fenoglio” di

Carofiglio è narrativa stracotta. Per un poliziesco


sotto l’ombrellone, recuperate Scerbanenco
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29 giugno 2019

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Il bastone. Probabilmente certo di essere uno scrittore coi fiocchi,


alla consueta regola del frugale bestseller (cornice semplice,
‘caratteri’ riconoscibili e appena sbozzati, ‘casi’ un poco fasulli e
fossili, che non chiedono un esperto di parole incrociate per essere
risolti), Gianrico Carofiglio aggiunge una indigesta dote di
dati letterari. Fin dal titolo, La versione di Fenoglio – il
terzo libro dedicato al fatal maresciallo –, che mescola il
Barney di Mordecai Richler al Beppe del Partigiano
Johnny, libro di assiomatica bellezza. Ad ogni pagina, in
effetti, pare che Carofiglio voglia convincerci che ha letto
tanto, ostentando la metratura della sua libreria: così si
parla di Emilio Lussu, del Conte di Montecristo, di Truman Capote
e di Conan Doyle, di Borges e di Shakespeare.

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Peccato che l’unico che sia doveroso citare – meglio ancora:
imitare – in questo funebre corteo di cari estinti non ci sia. Alludo
a Giorgio Scerbanenco, leggere sotto. La storia, di per sé, è
insignificante. Il maresciallo Fenoglio deve fare un tot di sedute di
fisioterapia, scortato dall’aitante cinquantenne Bruna – che è
bionda e “piena di sensualità vigorosa”: fornirà all’eroe, alla fine
del libro, il numero di cellulare, cioè il pretesto per la prossima
puntata della soap. Mentre fa ginnastica, il maresciallo incontra un
ragazzo, Giulio, che si è sfasciato l’anca in un incidente: comincia
perciò, per scacciare la noia – ergo: esasperandone i confini – a
raccontargli alcuni episodi ‘scottanti’ della sua vita lavorativa.

Le vicende sono scontate e stracotte, proprie di una


narrativa poliziesca da fiction, a favor di cretini, in cui si
sa che alla fine vincono i buoni. Dal ‘metodo’ grazie a cui il
giovane Fenoglio riesce a scoprire l’assassino di un medico
(spiando il ricettario, da cui balugina, in controluce, il nome
dell’ultimo paziente ospitato in studio), alla trafila delle ‘voci’ e
delle delazioni che portano in carcere un innocente, fino alla
storiella del povero allampanato che va in estro per una
prostituta e viene accoltellato dal pappone, Bletmir,
leggiamo casi astrusi, intrisi di fiele, già visti decine di
volte in tivù, narcotizzati dalla buoncostume della
banalità. Così, la frase cardine del libro, “Il mondo reale ha poco
a che fare con le trame dei romanzi polizieschi o delle serie tv”,
diventa una micidiale ammissione di colpevolezza letteraria:
questo libro non ha a che fare con il mondo reale. Proprio così. Lo
capiamo quando il maresciallo Fenoglio, vecchio di indagini,
istruisce il giovane Giulio sul ‘dietro le quinte’ del suo mestiere.
Esercizi di subacquea nella solita minestra, nei gangli di
un immaginario del tutto televisivo. Ecco alcuni esempi.
La frase più bella del romanzo è a pagina 5. “Come diceva Al Pacino in quel film? Devo
tenermi la mia angoscia, devo proteggerla. Mi mantiene scattante”

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Sulle indagini: “Salvo rare eccezioni, le indagini non sono
procedure lineari. Il risultato investigativo… dipende da un
procedere per tentativi”;

Su ciò che soggiace all’indagine: “Credo che la chiave sia:


porsi domande su quello che si sta guardando e, più in generale, su
quello che si sta percependo”;

Sui ‘collaboratori di giustizia’: “Chi collabora ha di solito un


interesse ad accusare altre persone. È inaffidabile per definizione”;

Sull’arte di redigere ipotesi: “Se devi ricostruire un fatto del


passato cui non hai assistito… non puoi andare a colpo sicuro. Devi
elaborare ipotesi, verificarle, correggerle e verificarle di nuovo”;

Sull’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine: “Ci


sono casi in cui le botte, e in generale la violenza, hanno lo scopo di
ottenere delle informazioni o delle confessioni. È sbagliato… ma
risponde a una logica; a una razionalità, ancorché distorta. Il
problema più serio è quando la violenza viene esercitata per
chiarire i rapporti di forza… oppure per dare al soggetto un
anticipo di punizione”;

Sull’arte maliziosa di riconoscere le bugie: “le bugie si


possono scoprire, sì, però non esiste un trucco magico che ti
consenta di farlo sempre, comunque, con chiunque”.

Insomma, condito di altre assortite stupidate (“non ci sarà


autentica libertà finché un uomo che ha molte donne sarà
considerato uno che si gode la vita e una donna che ha molti
uomini una prostituta”), viene a galla la sagoma di un investigatore
da Cluedo, che indossa la sottana in favore di teleutente. La frase
più bella del romanzo è a pagina 5. “Come diceva Al
Pacino in quel film? Devo tenermi la mia angoscia, devo
proteggerla. Mi mantiene scattante. Qualcosa di simile. Era
una battuta che l’aveva sempre colpito, gli sembrava scritta
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apposta per lui”. La frase di Al Pacino è tratta da Heat. La sfida.
Regia di Michael Mann, anno di grazia, 1995, c’è anche Robert De
Niro. Un capolavoro. Il mondo reale, probabilmente, non ha a che
vedere con un film – ma quel film va visto, vi sono certi incendi in
fondo all’abisso… Il libro di Carofiglio, invece, sembra il riassunto
di una puntata del Maresciallo Rocca, è troppo fiacco per essere
vero.

Gianrico Carofiglio, La versione di Fenoglio, Einaudi 2019, pp.168,


euro 16,50
Scerbanenco non ha bisogno di frantumare la narrazione con i dettagli perché ci piglia per
i capelli gettandoci dentro una storia, che spesso ha sonorità inquiete

La carota. Per una volta, la ‘quarta’ – ad essere precisi ‘l’ala’


sinistra – aveva ragione, ma niente ti convince più di quella
magrezza, il naso come un machete e gli occhi, notturni,
di chi dell’uomo sa il sangue, il miele, perché l’opera è
anche incardinata nel viso. “Sembrano soggetti di un film
di Scorsese o Abel Ferrara o Tarantino: fulminanti gangster
stories di un mondo spietato dove l’unico barlume risulta essere
una certa lealtà primordiale”, diceva ‘l’ala’. Poco dopo avrei detto:
questo pare il padre di James Ellroy ed è pure più bravo. Oreste
Del Buono, piuttosto, che ne sa più di me, sentiva odore di
Simenon nelle sue pagine. No, non dico i libri più celebri, Venere
privata, per dire, con quei bagliori bianchi nella notte dell’umanità
– “raccontare la vita di un uomo non è forse una preghiera?” –, ma
gli esordi di Giorgio Scerbanenco, il putiferio di racconti pubblicati
tra i Trenta e i Quaranta, dal Secolo Illustrato al Corriere della
Sera, quelli hanno l’indimenticabile di un chiodo piantato in
fronte.

Dello scrittore, qui, si coglie l’istinto animalesco, la


capacità di stare dentro il metro quadro della formula
giornalistica – poche pagine, pochi ghiribizzi esistenziali,
obbligo d’imitare l’hard boiled americano – e di evadere
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con sonora bravura. Scerbanenco non ha bisogno di
frantumare la narrazione con i dettagli perché ci piglia per i capelli
gettandoci dentro una storia, che spesso ha sonorità inquiete. In
La mamma di Burton, ad esempio, c’è la suddetta madre che
ritrova il figlio, canaglia, dopo tre anni, finge di non sapere dove
sta, è preda di un trabocchetto da parte dei poliziotti, fa la fine che
fa: letterariamente superba. Mentre il figlio “fu preso vivo e quindi
adatto per la sedia elettrica” – cinismo superbo – lei,
“fortunatamente, questo non lo seppe mai. Quando sentì come
una mazzata terribile alla testa (era un proiettile che le
trapassava la tempia destra) una nebbia rossa allagò
improvvisamente il suo sguardo e in quella le sembrò di
vedere Bob sorridere allontanandosi, facendosi sempre
più lontano, sempre più lontano”. Che finale geniale,
capitalizzando l’economia di mezzi a disposizione, come uno che
con un tot di paglia ti faccia la Pietà. Più che a Chandler – che
spopola in quel cerchio d’anni – Scerbanenco pare mirare a Poe e
prefigura talenti assoluti come Richard Matheson.

Ma i ‘pezzi’ straordinari sono tanti: il racconto Sono


innocente?, ad esempio, un noir dostoevskijano. L’incipit
laconico – “Circa tre anni fa io investii un uomo con la
mia macchina e lo uccisi” – dà sfogo a una rivelazione
allucinata: l’uomo investito era il marito della donna che ora, tre
anni dopo, è l’amante dell’io che narra. La scoperta provoca atroci
turbe. L’agnizione finale è folle: “Voglio che si riapra il processo
dell’investimento per decidere se io investii quell’uomo
premeditatamente o no”. In ogni luogo, le vertigini della psiche
non diventano mai, in Scerbanenco, vieto psicologismo, la crudeltà
è ovunque ma non sbrodola, i buoni non esistono, ma ogni fatto,
ogni volto, è ammantato da poderosa pietà. A 50 anni dalla morte
di questo geniale poligrafo, La Nave di Teseo, dopo aver pubblicato
la biografia ad opera della figlia Cecilia, Il fabbricante di storie, ne
sta rieditando l’opera: l’ultimo libro in ordine di apparizione è
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Appuntamento a Trieste (in origine: 1953). Leggere ora
Scerbanenco fa un effetto strano: sembra molto più
pimpante lui di Carofiglio. Come mai? Forse, facendo il
verso a Leopardi, potremmo dire che la letteratura
invecchia peggiorando. O sono i lettori, inesorabilmente, a
peggiorare?

Giorgio Scerbanenco, Nebbia sul Naviglio e altri racconti gialli e


neri, Sellerio 2011, pp.208, euro 13,00

Giorgio Scerbanenco, Appuntamento a Trieste, La Nave di Teseo


2019, pp.298, euro 17,00

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