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Rivista di estetica
49 | 2012 :
ontologia analitica
1. storia dell'ontologia
Résumé
An overview of current scholarship in ontology places one before two parallel lines that never
meet: on the one hand there are essays in so-called “analytic ontology”, on the other hand, there
are studies developed within so-called Aristotelian-Thomistic ontology. However, even though it
is frequently ignored, there is an interesting philosophical current of thought within so-called
“analytical Thomism”, which joins contemporary debates of “analytic ontology” from the
perspective of an Aristotelian-Thomistic ontology. The main contributors to this current are P.
Geach and B. Miller, who have proposed a new theory about existence, called “two sense theory”.
It is a view intermediate between the well known Fregean and Meinongian views, arguing for the
possibility of two senses of “exists”: as first- and as second-order predicate. The object of this
paper is to present this current of thought, and to evaluate it from the point of view of the history
of ontology and of “continental” Thomism.
Texte intégral
1. Introduzione
http://journals.openedition.org/estetica/1669 1/25
16/2/2018 1.2. «To be» o «esse»? La questione dell’essere nel tomismo analitico
5 A me sembra una reazione un tantino esagerata di fronte a una questione che non
riguarda il concreto ma l’astratto, cioè un concetto – ancorché “obiettivo”, come in
Frege – una parola, o addirittura un numero, tra l’altro nemmeno tanto grande.
6 Ma tant’è: «Es ist ja Bejahung der Existenz nichts Anderes als Verneinung der
Nullzahl»2. È questa una delle posizioni più accreditate all’interno di quella che si suole
ormai denominare ontologia o metafisica analitica.
Non c’è errore più grave che prendere questo essere in quanto è considerato sotto
l’aspetto di ente di ragione, in quanto appartiene all’oggetto proprio del logico […]
e credere che si tratti dell’essere del metafisico3.
Io dico che l’essere stesso è considerato dal logico sotto questo aspetto formale
dell’ente di ragione e, per conseguenza, l’essere è considerato dal logico secondo
un aspetto in cui esso non può esistere che nella ragione. Cioè secondo un aspetto
in cui non può esistere! L’essere del logico differisce dunque da quello del
metafisico per il fatto che il primo è considerato come esistente nello spirito e in
quanto può esistere solo nello spirito […]. Possiamo, dunque, chiamare l’essere del
logico un essere riflesso, o essere derealizzato4.
8 E più avanti:
Sarebbe una vera sciagura intellettuale il confondere questo “essere”, oggetto del
metafisico, con l’una o l’altra specie di essere che abbiamo precedentemente
indicato. Saremmo portati, in tal caso, a guardare l’essere come un residuo del
linguaggio, soprattutto se ci fermassimo all’essere che è oggetto del logico, o a
quello che abbiamo chiamato pseudo-essere6.
10 Ho citato alcuni passi dal capitolo intitolato La falsa moneta metafisica del volume
Sept leçons sur l’être et les premiers principes de la raison spéculative di Jacques
Maritain.
11 I pensieri di Maritain rispecchiano in modo chiaro le preoccupazioni del
neotomismo, nato anche, come è noto, per reazione al kantismo e all’idealismo. La
filosofia dell’essere di Tommaso d’Aquino, di cui si cominciò a parlare in modo esplicito
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intorno ai primi del Novecento7, si doveva precisare negli anni a venire come filosofia
dell’actus essendi. In ogni caso, tranne l’eccezione del cosiddetto “tomismo
trascendentale”, tale interpretazione dell’ontologia tommasiana conteneva, insieme a
tante affermazioni, una negazione: quella dell’essere astratto, ideale, degli enti di
ragione, dei concetti. Dire che l’essere è actus essendi significava, e significa ancora oggi
per la maggior parte dei tomisti, affermare che l’essere è una realtà concreta, qualcosa
di esistente in rerum natura, non già la proprietà di un concetto, ancorché obiettivo, e
meno che mai di una parola, o addirittura una semplice indicazione numerica8.
18 Questa ultima frase è estratta dal libro della Genesi (42,36). La frase intera recita:
And Jacob their father said unto them, Me have ye bereaved of my children:
Joseph is not, and Simeon is not, and ye will take Benjamin away: all these things
are against me16.
19 L’inglese arcaico qui sembra molto simile allo shakespeariano «to be or not to be?».
Giacobbe parla qui dei due figli che non ci sono più. Amleto parlava di se stesso come di
qualcuno che avrebbe potuto non esserci più. Si parla di vita e di morte.
20 Ma consideriamo anzitutto le prime due proposizioni.
21 Si tratta di una frase che potrebbe essere usata generalmente per confortare un
bambino spaventato dal sentir parlare di miti greci, nota Geach. Si potrebbe dire:
“Cerbero non esiste, non è reale, come lo è il cane Roger”. Qui, prosegue Geach, non si
fa riferimento a una proprietà che possiede Roger e non possiede Cerbero. Logicamente
la proposizione si riferisce alla differenza non fra due cani, Cerbero e Roger, ma fra
l’uso di due parole “Cerbero” e “Rover”. A proposito di “Cerbero”, nota Geach,
bisognerebbe dire che stiamo facendo finta che abbia un referente. Al bambino
bisognerebbe dire: «Quando ho detto “Cerbero” in quella storia, stavo solo facendo
finta di usare quella parola come un nome»17. Nel caso di “Cerbero non esiste”, dunque,
in effetti non si sta parlando di una realtà concreta, in rerum natura, ma dell’uso di un
nome. Frege, in questo caso, ha ragione.
22 Consideriamo adesso, con Geach, la proposizione:
23 Anche in questo caso non ci riferiamo a una proprietà di primo livello posseduta per
esempio dalla mucche e non posseduta dai draghi. Tuttavia, mentre nella prima
proposizione – Cerberus does not exist – abbiamo un uso apparente di un nome
proprio, nel secondo caso abbiamo una espressione descrittiva. Frege, nota Geach,
l’avrebbe chiamata “Begriffswort”. Ciò significa, prosegue Geach, che nella seconda
frase non è in gioco l’uso del nome “Dragons”, come accadeva per il nome “Cerberus”,
ma l’uso di un predicato logico “essere un drago”. La frase, insomma, come sanno tutti i
filosofi di orientamento analitico, potrebbe essere riformulata come segue: “Non c’è
nulla che sia un drago”, proposizione che non impegna ad ammettere previamente
l’esistenza dei draghi per poi, contraddittoriamente, negare loro l’esistenza.
24 Qui Geach compie il primo importante paragone con l’ontologia di Tommaso
d’Aquino. Egli ritiene infatti che Tommaso avesse ben presente la peculiarità logica di
questo genere di proposizioni, come è provato dalle sue riflessioni sulla cecità, sul male
e, finanche, sulla esistenza di Dio. A proposito della cecità e del male, che Tommaso
considerava privazioni, Geach si riferisce, senza tuttavia riportare il testo, alla Summa
Theologiae (I, q. 48, art. 2, ad 2) e commenta: «“c’è il male” non significa “il male ha
un’esistenza attuale” bensì “alcune cose hanno difetti”»18. Poi prosegue: «Inoltre lo
stesso statuto logico è attribuito a “Dio esiste” o “c’è un Dio”» (Sum. Theol., I, q. 3, art. 4
ad 2); e Tommaso nega espressamente che questa proposizione si colleghi a quello che
egli chiama esse di Dio o actus essendi (questa importante indicazione negativa su
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come dobbiamo comprendere il termine esse è stata spesso ignorata). In “Dio esiste”
non predichiamo qualcosa di Dio, ma predichiamo il termine stesso “Dio”. “Dio esiste”
significa “qualcosa o qualcuno è Dio”19.
25 Nei termini di Frege, insomma, in “Dio esiste” non predichiamo l’esistenza, nel senso
di esse o actus essendi, di Dio, dal momento che di Dio non conosciamo né l’essenza né
l’esse a essa identico. Semplicemente facciamo un’affermazione sulla “parola-concetto”
Dio, asserendo che non è una parola-concetto vuota. Ancora con le parole chiare di
Geach: «Il dire “Dio esiste” è vero, non perché alcuni attributi significati da “esiste”
appartengono a Dio, ma perché attributi divini appartengono a qualcosa o a
qualcos’altro; precisamente come la frase “la cecità esiste” è vera perché la cecità è
predicabile con verità di alcuni occhi, non perché la cecità possieda l’attributo di
esistere»20. Insomma qui si tratta di quello che Tommaso, sulla scorta del V libro della
Metafisica di Aristotele, chiama «esse ut verum», e che Geach rende come «there is
sense».
26 Andiamo ora alla terza proposizione – Joseph is not and Simeon is not:
Sarebbe abbastanza assurdo – scrive Geach – dire che Giacobbe, mentre dice
queste frasi, non stia parlando di Giuseppe e di Simone ma dell’uso dei loro nomi.
Ovviamente stava parlando dei suoi figli: stava esprimendo la paura che potesse
succedere loro qualcosa, che fossero morti. Qui troviamo un senso di “è” (is) che
mi sembra essere certamente un genuino predicato di individui: il senso di “esiste”
con cui uno dice che un individuo comincia ad esistere, continua ad esistere, non
esiste più ecc.21.
27 «Ora è questo senso di “è” (is) o “esiste” […] che è rilevante per il termine “esse” di
Tommaso»22. Geach chiama questo senso «present actuality sense», facendolo
corrispondere all’esse ut actus essendi, che non può che essere un predicato di primo
livello, qualcosa «in rerum natura», come dice Tommaso d’Aquino.
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mitici come per esempio “Cerbero”, che pure ha un significato del tutto indipendente,
appunto, dall’esistenza di individui concreti.
31 Si potrebbe obiettare che la differenza fra “Simeone” e “Cerbero”, consiste nel fatto
che il primo ha un significato nato da un uomo che è realmente esistito, mentre
“Cerbero”, al contrario, ha un significato del tutto indipendente da qualunque individuo
realmente esistito, e per questo mitico.
32 Che dire, allora, della proposizione “Dracula non esiste”? Si tratta evidentemente di
una di quelle frasi da dire a un bambino spaventato dopo la visione di qualche film su
Dracula, e si tratta evidentemente di un significato di “esiste” come predicato di
secondo livello, del tutto simile a quello utilizzato in “Cerbero non esiste”. Tuttavia,
mentre Cerbero non è mai esistito, Dracula invece sì. Dal punto di vista dei riferimenti
nella realtà “Dracula” è simile a “Simeone”, perché entrambi sono realmente esistiti e
sono morti. Ora Geach tiene molto, e giustamente, a distinguere il significato di “esiste”
in frasi come “Cerbero non esiste” o come “Dracula non esiste” rispetto al significato di
“esiste” in proposizioni come “Simeone non è”. Ma allora ne segue che non può
invocare la differenza fra significato e portatore per rispondere alla citata obiezione di
tipo “quineano”. Altrimenti l’argomento di Geach per salvare la differenza fra “Cerbero
non è” e “Simeone non è” – ovvero la distinzione fra significato e portatore in risposta
alla obiezione di cui sopra – coinciderebbe con l’argomento per eliminare la loro
presunta differenza – perché i nomi mitici, come “Cerbero” o “Dracula”, sono
precisamente quelli in cui il significato è indipendente dal portatore (sia questi
realmente esistito o meno).
33 Si potrebbe obiettare, ricordando la distinzione di Frege fra Sinn e Bedeutung, che
mentre nomi come “Cerbero” hanno un senso (Sinn) ma non un significato
(Bedeutung), perché non denotano nulla, nomi come “Simeone”, invece, hanno sia un
senso sia un significato, soltanto che, come notano Wittgenstein e Geach, bisogna
aggiungere un ulteriore elemento, il portatore. Una volta morto il portatore, il
significato di quel nome continua a esistere. Di conseguenza la distinzione fra
significato e portatore non porta alla equivalenza fra nomi propri come “Simeone” e
nomi mitici come “Cerbero”.
34 A tale obiezione si può rispondere come segue. Anzitutto la distinzione fra nomi
mitici che avrebbero solo un senso e non un significato e nomi propri che invece
avrebbero anche un significato è assente nel testo di Wittgenstein citato da Geach (e va
ricordato che entrambi conoscevano il pensiero di Frege). Wittgenstein infatti, nei
paragrafi 39-45 delle Ricerche filosofiche, per introdurre il nuovo elemento, cioè il
bearer, il portatore, cita l’esempio del nome “Nothung”, che è la mitica spada di
Sigfrido, e nota che la parola “Nothung” continua ad avere significato (Bedeutung) e, di
conseguenza, la frase “Nothung ha una lama affilata” continua ad avere senso, anche
quando tale spada fosse andata in pezzi, cioè, spiega, anche «in assenza del suo
portatore»25. Quindi per Wittgenstein la distinzione fra portatore e significato non
riguarda soltanto i nomi propri come “Simeone” ma anche i nomi mitici come
“Nothung” (o “Cerbero”) dei quali si dice che hanno un significato (Bedeutung).
35 Andiamo però, al di là della filologia, alla filosofia. Ammettiamo che i nomi mitici
abbiano soltanto un senso e i nomi propri anche un significato. Che conseguenze
avrebbe tale distinzione per l’argomento di Geach e la critica che qui ne stiamo
facendo? Nessuna. Infatti la presenza di un riferimento a un oggetto extramentale era la
discriminante fra Sinn e Bedeutung. Il primo (“stella del mattino” o “stella della sera”)
non si costituisce a partire dall’oggetto, mentre il secondo fa esplicito riferimento
all’oggetto (cioè al pianeta Venere). Conseguenza: senza oggetto nessuna Bedeutung. Se
ora, invece, viene introdotta la distinzione fra l’esistenza dell’oggetto (cioè il portatore)
e la Bedeutung, cade la ragione stessa della distinzione fra Sinn e Bedeutung, e quindi,
la Bedutung va alla deriva in direzione del Sinn. Quindi: o si accetta la distinzione fra
portatore e significato, e allora non ha senso invocare quella fra significato e senso;
oppure non si accetta. Se si accetta quella distinzione, allora, di nuovo, non si capisce
perché mai “Cerbero” dovrebbe essere diverso da “Simeone”, dal momento che
entrambi hanno senso (e per Wittgenstein anche significato) a prescindere dal
portatore. E quindi la risposta di Geach alla obiezione di tipo quineano finisce con
l’annullare la tesi della distinzione fra “esistenza” come predicato di secondo livello e
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come predicato di primo livello, che è precisamente quella che lo stesso Geach
intendeva difendere con la sua risposta. In alternativa, si potrebbe non accettare la
distinzione fra portatore e significato, ma allora bisogna andare a cercare altri
argomenti per difendersi dalla obiezione in questione.
36 In ogni caso, la risposta di Geach, con la sua distinzione fra significato e portatore,
solleva dubbi anche a proposito delle proposizioni esistenziali affermative. Infatti, una
volta chiarito che vi è una indipendenza del significato rispetto al portatore, che cosa
succede a proposito della proposizione “Simeone è”? Il predicato esistenziale “è” si
riferisce al portatore, cioè all’individuo, oppure al solo significato? Nel primo caso
sarebbe un predicato di primo livello, come vorrebbe Geach, nel secondo invece no. Che
fare dunque? Invocare la distinzione fra portatore e significato soltanto nel caso delle
proposizioni esistenziali negative? E perché mai? Se, d’altra parte, la distinzione valesse
in ogni caso, allora non si capirebbe come mai il predicato esistenziale dovrebbe
riferirsi a un individuo e non al significato della parola, indipendente, appunto, rispetto
al portatore. Di nuovo, l’argomento invocato da Geach, rischia di rivoltarsi contro la sua
stessi tesi.
37 Si potrebbe infine obiettare quanto segue. La differenza fra reference e bearer
corrisponde precisamente alla differenza fra “there is sense” e “present actuality sense”.
Il reference si riferirebbe all’esistenza intesa nel senso del “there is sense”, mentre il
bearer si riferirebbe all’esistenza intesa nel senso del “present actuality sense”. Di
conseguenza, nell’affermare che “x non è” è vera, ci si impegnerebbe, qualunque sia la x
(se cioè Cerbero, i draghi o Simeone), soltanto ad ammettere l’esistenza del reference,
nel senso del there is sense. Ora, i quineani, precisamente perché non distinguono i due
sensi di esistenza, non sono in grado di distinguere reference e bearer e, quindi,
ritengono impossibile uscire dai paradossi della non esistenza, nel caso in cui si
intendesse l’esistenza come un predicato di primo livello.
38 Ora però, se fosse vera l’equivalenza reference / there is sense – bearer / present
actuality sense (interpretazione possibile, anche se non espressamente indicata da
Geach), allora egli presupporrebbe la distinzione fra i due sensi di esistente, proprio
mentre intende rispondere alla obiezione quineana. Un quineano, tuttavia,
difficilmente concederebbe a Geach quella distinzione, e difatti la sua obiezione ha
come scopo la distruzione di quella distinzione. In altre parole, se fosse vera quella
equivalenza, Geach cadrebbe in una petitio principii, perché presupporrebbe la tesi
della distinzione fra i due sensi di esistenza, nel momento in cui si propone di
difenderla dalle obiezioni di chi nega quella tesi.
39 Vedremo come Barry Miller, pur partendo dalle stesse tesi di Geach, tuttavia
argomenterà in proposito in modo più convincente.
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3. Da Geach a Miller
51 Rispetto alle interpretazioni consolidate del tomismo “continentale” – come quelle,
considerate esemplari, di Gilson o di Fabro – Geach mostra punti di contatto e punti di
distanza41.
52 Il punto di contatto è, naturalmente, la concezione dell’essere come realtà concreta,
di cui abbiamo fatto cenno, contraria a ogni interpretazione che sembra, almeno a
prima vista, voler volatilizzare l’essere riducendolo alla proprietà di un concetto astratto
o all’uso di una parola.
53 Il punto di distanza riguarda il contenuto filosofico dell’esse ut actus essendi. Il titolo
del saggio già citato di Geach è, al riguardo, significativo: Forma ed esistenza. Geach
nega decisamente, come Aristotele, la coincidenza fra forma universale ed esistenza
individuale ma afferma, sempre come Aristotele, la coincidenza fra forma individuale
ed esistenza individuale:
l’esistenza nel senso di C (“Joseph is not and Simeone is not”) è sempre, secondo
Tommaso, esistenza in relazione a qualche forma: quolibet esse est secundum
formam aliquam (I, q. 5, a. 5, ad 3). Perché è in questo senso di “esiste” che noi
diciamo che una cosa viene all’esistenza; e per una cosa continuare a esistere è
essere la stessa X per un periodo di tempo, dove X rappresenta una qualche
“parola-concetto” [Begriffswort]42.
4. Barry Miller
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prescindere da essa, come fosse un sostrato. Appare evidente, nota Miller, che, nel
considerare l’essenza come il contenitore che “riceve” l’esistenza, siamo condotti a tutti
i paradossi e le contraddizioni implicate da una esistenza logicamente posteriore a ciò
che potrebbe esistere solo grazie a essa.
94 È opportuno, da un punto di vista storico-filosofico, notare qui due circostanze
interessanti. Criticando la metafora del contenitore, Miller mostra di condividere una
critica rivolta già da Kenny all’ontologia tommasiana58. Si tratta di una concessione a
un autore che di solito rappresenta invece uno degli obiettivi polemici più espliciti del
suo libro.
95 In secondo luogo Miller ripropone, probabilmente senza esserne cosciente, le stesse
critiche mosse a partire dalla seconda metà del Duecento da autori come Sigieri di
Brabante, Enrico di Gand, Teodorico di Freiberg contro la dottrina della distinzione
reale fra essenza ed esistenza sostenuta da Egidio Romano59, nonché le critiche dei
tomisti gesuiti contro i tomisti domenicani della prima metà del Novecento60. È
interessante notare come la critica più recente e accreditata abbia mostrato, a differenza
di quanto si sia ritenuto per secoli, la lontananza della dottrina egidiana in molti punti
dalla dottrina di Tommaso d’Aquino in proposito. Tommaso, per esempio, non ha mai
interpretato la distinzione fra essenza ed esistenza come una distinzione fra due res,
come invece ha fatto Egidio e, inoltre, ha criticato la tesi secondo cui l’essenza
preesisterebbe all’esse e ne costituirebbe il contenitore e la causa della diversità61.
96 Ma torniamo alle metafore di Miller.
97 Al posto di quella del liquido e del contenitore, egli propone un’altra metafora e, con
essa, un altro paradigma per pensare al rapporto fra essenza, che egli chiama “elemento
Socrate”, ed esistenza (che egli chiama “istanza di esistenza”): la metafora del pezzo di
burro (the butter analogy). Il panetto di burro ha dei confini che ne disegnano la
forma: ebbene, essi corrispondono all’elemento “individuante”, all’essenza, che
distingue un pezzo di burro da un altro, di un’altra forma. Il burro, invece, corrisponde
all’elemento attualizzante, all’istanza di esistenza (o esistenza tout court).
98 A differenza della metafora del liquido e del contenitore è evidente qui che l’essenza
non può costituirsi a prescindere dall’esistenza, precisamente come i confini del burro
non possono in alcun modo preesistere al burro.
99 Quindi, è vero, nota Miller, che l’esistenza è una proprietà di primo livello, tuttavia è
una proprietà diversa da tutte le altre. Perché, mentre tutte le altre presuppongono il
soggetto di cui sono proprietà, la proprietà dell’esistenza ha come sua caratteristica
specifica quella di costituire il soggetto di cui si predica. La “proprietà” della proprietà
dell’esistenza è proprio questa: attualizzare il soggetto. Di conseguenza è inutile
continuare a rilevare le contraddizioni di una proprietà che pretende di costituire
ontologicamente il soggetto cui dovrebbe inerire, perché se c’è una caratteristica di tale
proprietà speciale che è quella della esistenza, questa è proprio quella di essere ciò in
virtù di cui un soggetto è.
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che la forma o essenza era un sinonimo di essere e dal momento che, come abbiamo già
visto, per il filosofo greco, dire “uomo” e dire “uomo esistente” è la stessa cosa.
103 A guardar bene le cose, tuttavia, in Miller la subordinazione dell’essenza rispetto
all’esistenza è maggiore di quella dell’esistenza rispetto all’essenza.
104 L’esistenza infatti – e l’analogia del pezzo di burro lo illustra bene – è concepita non
soltanto come ciò in virtù di cui Socrate è ma, di più, come ciò in virtù di cui Socrate è
quello che è.
105 L’esistenza, dunque, non è un di più che si “aggiungerebbe” a Socrate, che
sopraggiungerebbe, per così dire, a cose fatte.
106 Essa non è un quel “di più” che rende attuale ciò che si costituisce prima e a
prescindere da essa: non è il “di più” ma è il “tutto”. Infatti, è ciò in virtù di cui Socrate è
ed è tutto quello che è.
107 Qui si nota come l’interpretazione di Miller si distacchi, probabilmente a sua stessa
insaputa, da quella di Gilson e si avvicini a quella di Fabro. Secondo quest’ultimo,
infatti, l’essere di Tommaso non era la semplice esistenza senza l’essenza, ma era
l’essere intensivamente considerato, cioè l’attualità di tutti gli atti, ovvero ciò al di fuori
di cui non esiste nulla di tutto ciò che una cosa è. Al riguardo ha scritto un saggio molto
illuminante Keller63.
108 L’unico dato da rilevare, a questo punto, all’interno del contesto delle interpretazioni
dell’ontologia tommasiana, è che Miller evita espressamente la coppia potenza-atto a
proposito del rapporto fra essenza ed esistenza. Come è noto agli studiosi di Tommaso,
questo è invece un punto chiave della sua ontologia64. Miller preferisce utilizzare invece
il termine “virtualità” al posto di “potenzialità” e attualità. Il motivo per cui lo fa,
tuttavia, è molto “tomistico”. La logica che presiede il suo rifiuto di utilizzare la coppia
potenza e atto, in altri termini, risponde all’esigenza, tutta tommasiana, di evitare l’idea
che vi sia qualche cosa, una potenza, che viene resa attuale dall’esistenza. L’essenza,
infatti, anche per Tommaso, non è qualche cosa che “pre-esiste” all’esistenza, mentre,
d’altra parte, già per Aristotele, la potenza è sempre una certa attualità che, rispetto a
qualcos’altro, si presenta come in potenza65. Non esiste, cioè, una pura potenza, ma
sempre un ente che è in potenza: il seme non è il puro nulla; è un seme che, rispetto
all’albero che sarà, è in potenza. Per questo genere di considerazioni Miller, nella linea
dello spirito sebbene non della lettera di Tommaso d’Aquino (come si diceva una volta),
evita la coppia potenza-atto a proposito della coppia essenza ed esistenza.
109 Ciò detto, tuttavia, resta l’idea molto chiara della subordinazione dell’essenza
all’esistenza dal punto di vista della attualità; un’attualità che non riguarda soltanto
l’essere del soggetto ma tutto il suo esser così.
5. Questioni aperte
110 Esposta in modo inevitabilmente conciso la posizione di Miller, che nei suoi testi si
presenta in modo molto più ricco e argomentato, non posso qui evitare di proporre
alcune brevi considerazioni critiche.
111 Sulla pars destruens della teoria di Miller non mi pronuncio, perché non ho le
competenze per valutare esattamente la sua portata. Mi limito semplicemente a riferire
che, allo stato attuale dei miei studi, le sue critiche alla linea Frege-Russell-Quine,
nonché le sue risposte ai paradossi della non esistenza, mi sembrano convincenti. Il
lavoro, tuttavia, è in progress, su questo punto, con il mio team di ricerca.
112 Sulla pars costruens, invece, rilevo alcune incongruenze.
113 Miller stesso afferma che «l’elemento Socrate non ha assolutamente contenuto
ontologico, dal momento che la sua attualità esiste esclusivamente in virtù della istanza
di esistenza»66.
114 Ora, questa considerazione, che consegue dalla tesi secondo cui l’istanza di esistenza
è ciò in virtù di cui Socrate non soltanto è ma è Socrate, mi sembra in contraddizione
con la insistenza di Miller sui “due” elementi che costituiscono Socrate67.
115 La cosa si può facilmente notare proprio ritornando alla butter analogy. Nel burro, in
realtà, non vi sono due elementi, cioè il burro e i suoi confini, ma uno solo: il burro. I
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confini del burro non sono altro dal burro e meno che mai differenti realmente dal
burro, come invece vorrebbe, fuor di metafora, la dottrina, molto discussa, della
distinzione reale fra essenza ed essere.
116 Questo significa che, al di là delle affermazioni contrarie, di fatto la posizione di
Miller risulta molto più simile a quella di Geach di quanto non appaia a prima vista. In
entrambi i casi, al di là delle affermazioni, non sembra esistere in realtà una vera e reale
differenza fra essenza ed esistenza. In Geach, tuttavia, il peso ontologico, per così dire, è
sbilanciato dalla parte della forma individualizzata, tanto che si dice, con Aristotele, che
fino a quando una cosa è quella che è, allora esiste; quando non è più quella che è,
allora cessa di essere. In Miller, al contrario, la bilancia ontologica pende dalla parte
dell’esistenza, la quale fagocita, per così dire, anche il ruolo dell’essenza, dal momento
che essa è anche ciò in virtù di cui ogni cosa è quella che è.
117 Ora tali considerazioni hanno due conseguenze.
118 La prima è di tipo puramente filosofico. Se l’esistenza di fatto coincide con l’essenza,
come fare a evitare la contraddizione che Miller stesso intende espressamente evitare?
Egli sostiene, infatti, che l’essenza è nello stesso tempo anteriore all’esistenza dal punto
di vista della individuazione e posteriore a essa dal punto di vista dell’attualità, mentre
l’esistenza è anteriore all’essenza dal punto di vista dell’attualità e posteriore dal punto
di vista dell’individuazione.
119 Ora però, se l’essenza altro non è che l’esistenza, allora ne dovrebbe seguire una
proposizione di questo tipo: l’esistenza è nello stesso tempo anteriore e posteriore a se
stessa. Tra l’altro, a questo punto, non avrebbe senso, ai fini del toglimento della
contraddizione, nemmeno distinguere i due punti di vista diversi (attualità e
individuazione). Il loro inserimento, infatti diventerebbe inutile, dal momento che nulla
può essere anteriore e posteriore rispetto a sé, qualunque sia il punto di vista da cui
considero questa cosa. Si tratta di proprietà incompatibili con l’essenza del soggetto68.
120 La distinzione – non reale – potrebbe rimanere ex parte subiecti, non allo scopo di
togliere la contraddizione, ma come risposta a due domande differenti: “che cos’è
Socrate?” e “Socrate esiste?”. Dovrebbe tuttavia essere chiaro che la risposta a queste
due domande verrebbe non da due ma da uno stesso e unico elemento, l’esistenza di
primo livello, chiamata semplicemente a svolgere una doppia funzione: l’attualizzazione
e l’individuazione.
121 A questo punto, non rimarrebbero a Miller che le seguenti vie d’uscita: rinunciare alla
coppia anteriore-posteriore e in particolare alla tesi della posteriorità dell’essenza nei
confronti dell’esistenza; rinunciare alla tesi dei due elementi distinti essenza ed
esistenza; rinunciare alla distinzione reale fra essenza ed esistenza, così cara a un certo
tomismo. Probabilmente Miller sarebbe disposto a questa ultima rinuncia ma non alle
prime due.
122 Se così fosse, tuttavia, la pars costruens di Miller rimarrebbe poco coerente. Non
credo, tuttavia, che questo invalidi tutta la sua proposta. Semplicemente dice che
bisogna lavorare in questa direzione per perfezionare i suoi argomenti.
123 La seconda conseguenza è di tipo storico-filosofico.
124 Sia Geach sia Miller finiscono col negare, in forme e modi diversi, la tesi della
distinzione reale fra essenza ed esistenza. Entrambi lo fanno, tuttavia, per rendere più
coerente la ontologia di Tommaso, mantenendo gli elementi aristotelici ed eliminando
gli elementi platonici, come per esempio la tesi dell’essere comune ricevuto, contratto e
delimitato in essenze diverse.
125 Può essere interessante notare che la critica ha dimostrato, ormai da anni e in modo
inequivocabile, come la tesi forte della distinzione reale fra essenza ed esistenza
sostenuta da Egidio Romano è fortemente debitrice all’ontologia neoplatonica69. Ed è
ancor più interessante notare come, ancora ai nostri giorni, la questione esegetica della
cosiddetta originalità dell’ontologia di Tommaso sia giunta a una impasse precisa, che
si potrebbe così formulare: l’ontologia di Tommaso fu originale perché inserì elementi
neoplatonici in un impianto, comune ad altri teologi del tempo, di tipo aristotelico;
oppure, viceversa, perché inserì elementi aristotelici, in un impianto, comune ad altri
teologi del tempo, di tipo neoplatonico? Diversi studi recenti propendono per questa
seconda ipotesi, e i miei sono fra questi70.
http://journals.openedition.org/estetica/1669 15/25
16/2/2018 1.2. «To be» o «esse»? La questione dell’essere nel tomismo analitico
126 Se così è, però, significa che le ontologie di Geach e di Miller, allontanandosi dagli
elementi neoplatonici presenti nella dottrina di Tommaso, in realtà non fanno altro che
avvicinarsi al nucleo più originale del suo pensiero, rendendolo, tra l’altro, più coerente.
127 Ma naturalmente questa ultima è solo una ipotesi da verificare in una successiva
ricerca, di certo non breve né semplice.
136 In ogni caso mi sembra si sia mostrato nei fatti che, a differenza di quanto pensino
ancora purtroppo molti filosofi di orientamento cattolico, all’interno dell’“arcipelago
analitico” non vi sia spazio per dogmi filosofici, né di tipo quineano, né di tipo
meinonghiano. Al contrario mi sembra sia possibile sperimentare il gusto
dell’argomentazione e della filosofia. Che poi è quello che colpì, per esempio, Jacques
Maritain quando si imbatté in Tommaso d’Aquino.
137 Comunque sia, al di là delle questioni meta-filosofiche sulle etichette – “filosofia
tomistica”, “filosofia analitica”, “tomismo analitico” – mi sembra siano emerse alcune
questioni filosofiche di tutto rispetto, tra l’altro antiche quanto la stessa metafisica,
come per esempio: l’esistenza è distinta o no rispetto all’essenza? E se sì, la distinzione
è reale o no? E l’esistenza è logicamente posteriore o anteriore rispetto all’essenza? O
nessuna delle due cose? Può una proprietà reale di un individuo non essere posteriore
rispetto a esso? L’esistenza è ciò in virtù di cui una cosa è, oppure è anche ciò in virtù di
cui una cosa è quella che è? E infine – questione che a me sembra una delle più decisive
– la differenza fra le cose è affidata ultimamente alla sola essenza o allo stesso esse /
istanza di esistenza?
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1 «Se sia più nobile nella mente soffrire / i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna / o
prendere le armi contro un mare di affanni / e, contrastandoli, porre loro fine. Morire,
dormire…».
2 Frege 1884: 65. Di quella frase è divenuta famosa la corrispondente traduzione inglese:
«Affirmation of existence is in fact nothing but the denial of the number nought».
3 Maritain 1934: 64.
4 Ivi: 63.
5 Ivi: 66.
6 Ivi: 72.
7 Cfr. Ventimiglia 1997: 3 ss., dove mostro che il primo libro della nuova stagione dell’ontologia
tomista è quello di Garrigou-Lagrange 1909.
http://journals.openedition.org/estetica/1669 22/25
16/2/2018 1.2. «To be» o «esse»? La questione dell’essere nel tomismo analitico
8 Ancora di recente Dario Sacchi, in una prospettiva tomistica, ha scritto: «La cecità e altre
privazioni simili non sono enti […]. L’esistenza è l’atto per cui l’essenza è realizzata nello spazio e
nel tempo o in qualunque altra forma di durata» (Sacchi 2006: 3660-3661). E ancora: «La cecità
esiste (si trova) nell’occhio. Ma chi mai potrebbe seriamente sostenere che qui esistenza significhi
atto di essere e che perciò la cecità sia un composto di essenza e di esistenza?» (Sacchi 2007:
251). In proposito si veda anche un autore che citeremo di seguito Brock 2007.
9 È la celebre espressione di Tommaso d’Aquino: «Hoc quod dico esse est actualitas omnium
actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum» (De pot., q. 7, a. 2, ad 9).
10 Ecco un campione di testi di orientamento analitico: Aune 1985; Burkhardt e Smith 1991;
Jubien 1997; Loux 1997; Runggaldier e Kanzian 1998; Varzi 2001; Van Inwagen 2002; Conee e
Sider 2005; MacDonald 2005; Valore 2008. Su questi manuali (tranne che sull’ultimo) aveva
scritto D’Agostini 2009.
Ecco la lista dei testi di orientamento tomistico: Clavell e Pérez de Laborda 1987, 20062; Elders
1993; Molinaro 1994, 20032; Gilbert 1996; Alessi 1998; Wippel 2000; Mondin 2002; Blanchette
2003; Grondin 2004; Léonard 2006.
11 Ecco un campione di classici che trattano dell’essere ignorati nella tradizione analitica:
Tommaso d’Aquino, De ente et essentia (1252-56); Scriptum super libros Sententiarum (1252-
54); Questiones disputate de veritate (1256-59); Expositio libri Boetii De ebdomadibus (?, dopo il
1258), Summa contra Gentiles (?1259 -?1265); Quaestiones disputatae de potentia (1265-66);
Compendium Theologiae (?1265-incompiuta); Quaestio disputata de spiritualibus creaturis
(1267-68); Summa Theologiae (1268-1273); Sententiam super Physicam (1268-69); Quaestiones
disputatae de malo (?1269-1271); Sententia super Metaphysicam (?1270-?1272). Ecco un
esempio di classici contemporanei tomistici, ignorati, di nuovo, nella tradizione analitica: Gilson
19424 e 1948; Fabro 1961.
12 Un’ottima antologia di classici della tradizione analitica è quella di Varzi 2008.
13 Cfr. Bottani e Davies 2006.
14 Van Inwagen 2006.
15 Geach 1954-1955: 251: «In questa relazione vorrei discutere di ciò che Tommaso intende con il
suo tipico termine esse o actus essendi, “atto d’essere”» (la traduzione dall’inglese di questo testo,
come di quelli che seguiranno, è mia).
16 «E il padre loro Giacobbe disse: “Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c’è più, Simeone
non c’è più e Beniamino me lo volete prendere. su di me tutto questo ricade!”».
17 Geach 1954-1955: 264.
18 Ivi: 265. Cfr. Sum. Theol., q. 48 a. 2 ad 2.
19 Ivi: 266. Cfr. Sum. Theol., I, q. 3 a. 4 ad 2.
20 Anscombe e Geach 1961: 89.
21 Geach 1954-1955: 266.
22 Ivi: 267.
23 Anscombe e Geach 1961: 91.
24 Wittgenstein 1953: 31. Geach nota, citando le Ricerche filosofiche di Wittgenstein, che i
pronomi dimostrativi richiedono necessariamente l’esistenza attuale, mentre i nomi propri non
conoscono tale restrizione (Anscombe e Geach 1961: 91). In una recensione critica scritta da
Geach contro il notissimo On what there is, Geach accusa Quine di confondere i pronomi
dimostrativi con i nomi: «Un pronome dimostrativo è correlato a ciò che è presente ai sensi; è
invece dell’essenza di un nome che noi possiamo usarlo parlando di un oggetto che non ci è più
presente» (Geach 1951: 129).
25 Wittgenstein 1953: 33.
26 Anscombe e Geach 1961: 90.
27 Ecco gli altri testi in cui Tommaso tratta della distinzione fra esse (o ens) “ut verum” ed esse
(o ens) “ut actus essendi” (o “ut actus essentiae”): De ente, c. 1; In I Sent., d. 19, q. 5, a. 1, ad 1; In I
Sent., d. 33, q. 1, a. 1, ad 1; In II Sent., d. 34, q. 1, a. 1; In II Sent., d. 37, q. 1, a. 2, ad 3; In III Sent.,
d. 6, q. 2, a. 2. De pot., q. 7, a. 2, ad 1; De malo, q. 1, a. 1, ad 19; Quodl. IX, q. 2, a. 2; In X Met., l.
3.
28 In I Sent., d. 33, q. 1, a. 1, ad 1.
29 Weidemann 1979 e 1986.
30 Kenny 1969, 1980 e 2002.
31 Llano 1984 e 1995.
32 Martin 1988 e 1997.
33 Davies 1992, 1997 e 2006.
34 Brock 2004, 2005 e 2007.
35 Braine 1988 e 2006.
http://journals.openedition.org/estetica/1669 23/25
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36 Kenny 1980: 60.
37 È interessante notare che, seppure in un contesto diverso, Enrico Berti ha rivolto, per quasi
quarant’anni, critiche molto simili alla dottrina tomistica di Dio come Esse ipsum subsistens,
senza ricevere risposta da quasi nessuno studioso di Tommaso d’Aquino, e che, di recente,
proprio in seguito alle interpretazioni di autori come Brock, ha ridimensionato e in parte rivisto
le sue critiche. Cfr. Berti 1979 e 2009.
38 Martin 1997; Brock 2007.
39 Davies 1997.
40 È opportuno ricordare, di fronte alla nuova tendenza “teologizzante” dell’opera di Tommaso
d’Aquino, che la maggior parte di questi passi (cfr. n. 27), di natura filosofica, sono contenuti
all’interno di questioni squisitamente teologiche, come quelle che riguardano la Trinità divina o
l’unicità dell’essere di Gesù Cristo, cosa che, d’altra parte, non era sfuggita allo stesso Geach.
41 Si vedano per esempio: Gilson 19424, 1948 e Fabro 1961.
42 Geach 1954-1955: 268.
43 Anscombe e Geach 1961: 91.
44 Metaph., IV, 2, 1003b, 27.
45 De an., II, 4, 415b, 14.
46 Geach 1954-1955: 268-272.
47 A proposito dell’unico dei tre argomenti ripreso dai testi di Tommaso, Geach commenta:
«Tuttavia, nella concezione tomista degli universali è difficile vedere la forza della sua
affermazione secondo cui due uomini o due animali condividono la stessa quiddità o essenza»
(Anscombe e Geach 1961: 94).
48 Sulle “generazioni” di studi sull’ontologia tommasiana rimando a Ventimiglia 1997 e 2012.
49 Miller 2009; cfr. anche 1975, 1986, 1992, 1996 e 2002.
50 Van Inwagen 2006. La posizione di McGinn è la più vicina a quella di Miller.
51 Wippel 2000.
52 Stump 2003.
53 http://www.corpusthomisticum.org/bt/index.html.
54 Citato in Miller 1975: 339.
55 Miller 2009.
56 Miller 2002: 37.
57 Bisogna notare che lo stesso Miller, tuttavia, poco oltre richiama il lettore a prestare
attenzione esclusivamente al rigore dell’argomentazione, e a prescindere dalle immagini e dalle
metafore: «Questions of this kind are not to be settled by appeal so such imaginative analogies
[…] Exercises of imagination are inevitably misleading» (ivi: 107). Devo a Laura Bottani la
segnalazione di questo passaggio.
58 Kenny 2002: 72.
59 Enrico di Gand parlava di phantastica imaginatio a proposito della concezione di Egidio
Romano di una essenza concepita come un sostrato che riceverebbe l’essere (Henricus a
Gandavo, Quodlibet I, q. 9, éd. R. Macken, Leyden, Brill, 1979, p. 48). Lo stesso Enrico non aveva
mancato di rilevare poi la contraddizione di una essenza che, ricevendo l’essere, risultava
simultaneamente non esistente ed esistente (Id., Quodlibet X, q. 7, éd. Macken, cit., p. 166). La
metafora del mare dell’essere e del recipiente, di chiaro stampo neoplatonico, era stata utilizzata
molto da Egidio Romano. Su questi temi non mancano oggi ottimi studi: Imbach 1979 e 1981; De
Libera e Michon 1996; König-Pralong 2005 e 2006.
60 Chossat 1910a, 1910b e 1932; Pesch e Frick 1919; Descoqs 1926, 19352, 1938, 1939 e 1940;
Hocedez 1927, 1930; Cunningham 1988.
61 Cfr. In de causis, lect. 24; De pot., q. 3, a. 1, ad 2.
62 Miller 2002: 98 ss.
63 Keller 1968.
64 Fabro 1959.
65 De pot., q. 3, a. 1, ad 2.
66 Miller 2002: 120.
67 Ivi: 82.
68 Metafisica, IX, 10, 1051b, 17: «Invece circa le cose che non possono mai essere in modo
diverso da come sono, la stessa opinione e lo stesso discorso non possono diventare talora veri e
talora falsi, ma sono sempre veri o sempre falsi».
69 Hocedez 1930; Nash 1957.
http://journals.openedition.org/estetica/1669 24/25
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70 Gauthier 1985; McInerny 1986, 2004, 2006; Elders 1988; De Libera 1990 e 1995: 336;
Aertsen 1992; Te Velde 1995; Ventimiglia 1997; Bastit 1997 e 2001.
71 Theron 1997; Shanley 1999; Knasas 2003: 202-207 e 2006; Pérez de Laborda 2007; Kerr
2008.
72 Torrell 1996, 1998, 1999 e 2003; Bonino 1997, 1999, 2003a, 2003b, 2004a e 2004b; O’Meara
1997. Bisogna notare che le posizioni dei tre autori citati sull’argomento presentano delle
differenze e, inoltre, che la posizione di Bonino sembra aver subito un cambiamento (cfr. Bonino
2011).
73 Vanni Rovighi 1973: 40-41.
74 Oliva 2009.
75 McInerny 2006.
76 Rorty: 131.
77 Simons 1991: 31.
78 Ho utilizzato l’Aristoteles latinus perché è quello che Tomaso d’Aquino conosceva a cui si
riferiva nei commenti e nelle interpretazioni che egli ne ha dato. Di tutti i riferimenti è indicata
anche l’abbreviazione delle opere.
Référence électronique
Giovanni Ventimiglia, « 1.2. «To be» o «esse»? La questione dell’essere nel tomismo analitico »,
Rivista di estetica [En ligne], 49 | 2012, mis en ligne le 30 novembre 2015, consulté le 16 février
2018. URL : http://journals.openedition.org/estetica/1669 ; DOI : 10.4000/estetica.1669
Auteur
Giovanni Ventimiglia
Droits d’auteur
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