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Nato nella cittadina veronese di Legnago in una famiglia agiata, Antonio Salieri (1750-1825) ebbe

come primo docente il fratello Francesco, all’epoca noto violinista.


Bambino prodigio, rimase orfano di entrambi i genitori in giovane età, iniziando una peregrinazione
fra parenti e amici della famiglia.
Fra le poche notizie riguardanti tale periodo, si segnala il proseguimento degli studi a Venezia,
prima con Giovanni Battista Pascetti e poi con Ferdinando Pacini.
Proprio quest’ultimo fece da tramite con il tedesco Gassmann, che venne colpito dal talento del
ragazzo, portandolo con sé a Vienna nel 1766.
Fu la sua fortuna perché intorno alla corte asburgica gravitavano compositori come Gluck e letterati
quali Metastasio, che arricchirono il bagaglio musicale e culturale del giovane Salieri.
Inoltre nel 1774, alla morte di Gassmann, fu chiamato a sostituirlo in qualità di Maestro di Cappella
della Corte Imperiale, iniziando la sua sfolgorante carriera.
Salieri fu anche un docente molto apprezzato e con lui studiarono Mozart, Schubert, Beethoven e
Liszt.
La sua produzione comprende 37 opere, un numero imprecisato di pezzi vocali sacri e profani, oltre
a concerti e sinfonie, questi ultimi in numero decisamente esiguo se paragonato al totale.

Antonio Salieri è ricordato soprattutto come compositore di opere; in ambito strumentale lascia
pochi lavori tra cui due concerti per pianoforte, uno in do maggiore e l’altro in si bemolle maggiore,
entrambi composti nel 1773. Non si conoscono né l’occasione né il destinatario di queste due
composizioni, da Salieri probabilmente considerate marginali nella sua produzione, ma dove,
peraltro, si dimostra autore attento alle possibilità tecniche e alla ricchezza melodica dello
strumento, distinguendosi principalmente nei movimenti lenti. Il Concerto in do maggiore inizia con
un “Allegro maestoso” il cui brillante materiale tematico è in costante evoluzione ritmica. Il
secondo movimento, “Larghetto”, è un sobrio e delicato dialogo tra il solista e il pizzicato degli
archi. Il movimento finale, “Andantino”, è un vivace rondò caratterizzato dal contrasto del ritornello
con tre episodi galanti.
Durante il Settecento i concerti per strumento solista e orchestra divennero un veicolo privilegiato
per i compositori-esecutori; erano stati i figli di Bach (in particolare Cari Philipp Emanuel e Johann
Christian) a dare a questa forma una felice sintesi tra la parte solistica e l'orchestra. Fu proprio il
Bach "inglese" (Johann Christian) ad esercitare un'influenza diretta su Mozart negli anni decisivi
della sua formazione: il piccolo compositore era a Londra nell'aprile del 1764, e tutte le sue prime
composizioni, sinfonie e musica da camera, rivelano tracce di quel tipo di scrittura che si trova a
metà fra lo "stile galante" e quello "sentimentale" (empfindsamer). Le caratteristiche del primo
(frasi brevi e simmetriche, ritmi uniformi, armonia semplice, incisivi temi d'apertura con specifiche
caratteristiche ritmiche) si arricchiscono di più forti tensioni emotive che vanno dall'espressione
della malinconia all'eccesso eroico (e musicalmente si traducono in uno stile più rapsodico dei temi,
frequenti passaggi dal fortissimo al pianissimo, scatti ritmici e improvvise modulazioni). La
produzione dei Concerti per pianoforte di Mozart, 23 lavori completi, mostra, oltre all'evoluzione
personale del compositore, anche quella di questo genere musicale verso gli esiti beethoveniani.
I Concerti della maturità mozartiana sono esemplari per la straordinaria fusione della forma
sinfonica e del Concerto, mentre è bandito ogni virtuosismo solistico fine a se stesso (ad eccezione
delle cadenze scritte di proprio pugno, come nel caso del Concerto in programma, dove si nota
un'attenzione privilegiata al solista). Anche per ciò che riguarda l'orchestrazione, tanta è la
naturalezza delle soluzioni e degli impasti, che spesso non ci rendiamo conto che Mozart ha
emancipato l'orchestra dal semplice ruolo di accompagnamento, trasformandola in un fattore
melodico, coloristico e formale determinante, in cui gli strumenti a fiato (specie in combinazione
col pianoforte) giocano la parte principale. In questi lavori degli ultimi dieci anni di produzione
musicale, colpisce anche la libertà formale, una libertà non casuale o sperimentale ma frutto di un
lavorìo continuo in grado di conferire ad ogni Concerto un contenuto emozionale diverso (anche per
quelli nella stessa tonalità). Se il pianoforte non è "solista" nel senso tradizionale, è comunque lui a
segnare il momento di maggior evoluzione: si stabilisce infatti la tecnica del nuovo strumento e si
vanno esaurendo le tracce del clavicembalo. Sono proprio questi, infatti, gli anni dello sviluppo del
pianoforte e, se è vero che i ritratti giovanili del compositore ce lo presentano sempre al cembalo
(strumento dunque della formazione), il compositore venne senz'altro influenzato dal pianoforte
come si evince dalle sue composizioni più mature che presentano passi decisamente pianistici. Fino
al 1777, quando incontrò il costruttore di organi e pianoforti Johann Andreas Stein, la tastiera del
cembalo era l'unico punto di riferimento (anche se in una lettera del 20 agosto 1763, il padre
Leopold dice di aver acquistato un "piccolo, delizioso clavier da Stein"), medium perfetto per una
musica chiara ed elegante, grazie alla nettezza dei suoni. Il pianoforte si dimostrerà più adatto agli
accordi e a tutti gli effetti dinamici dei piano e forte dello stile "sentimentale", uno strumento
flessibile e in grado di riempire di suono una sala da concerto.
Con la permanenza stabile di Mozart a Vienna inizia la serie di diciassette Concerti nei quali il
compositore raggiunge la piena maturità: ne scrisse tre fra il 1782-3, sei nel 1784 (tra cui il K. 459),
tre nel 1785, tre nel 1786, e gli ultimi due nel 1788 e nel 1791). Non deve tanto sorprendere l'alto
numero di lavori in un periodo così breve (era cosa abituale per l'epoca) quanto, come si è detto,
l'estrema varietà di forme e stili in uno stesso genere. Il Concerto in fa maggiore K. 459
(diciannovesimo della serie), venne composto nel 1784 (prima edizione, 1794) ed eseguito, secondo
quanto ci dice il primo editore, insieme al K. 537 il 15 ottobre 1790 nel concerto per la celebrazione
dell'incoronazione dell'Imperatore Leopoldo II a Francoforte.
Il primo movimento si apre con un tema semplice nel disegno melodico e ritmico; nonostante la
somiglianzà con molti altri temi di sinfonie e concerti dell'epoca, questo si imprime nella memoria
dell'ascoltatore per l'originale fusione tra le caratteristiche marziali (tempo 4/4, note ribattute e
ritmo puntato) e quelle più intime (attacco in piano, accattivante combinazione di archi e flauto
solo). Anche all'ingresso del solista, Mozart sottolinea l'unione dei due elementi facendo leva sulla
strumentazione che prevede oboe e fagotto (sempre in piano) come accompagnamento del
pianoforte. Il ritmo puntato segna lo sviluppo passando dagli archi ai fiati, mentre il pianoforte
percorre la tastiera dall'acuto al grave con veloci terzine. Un'incursione nella tonalità di la minore
spezza la simmetricità del meccanismo formale e la ripetitività dell'incipit tematico, colorando la
partitura di una piccola nota drammatica prima della ripresa solenne del tema.
Il secondo tempo, come in molte altre composizioni, è caratterizzato da una grande fantasia formale
e armonica, ed è soprattutto qui che si coglie il carattere sinfonico del Concerto mozartiano. Il tema,
brevi incisi esposti dall'orchestra al completo, ha un qualcosa di frammentario anche per certi
cromatismi che movimentano il disegno melodico. Il solista non primeggia ma partecipa alla forma
generale, e con le sue possibilità tecniche (ad esempio quella di suonare accordi che non svaniscono
in un attimo come nel cembalo) contribuisce ad arricchire le sfumature armonico-tonali che sono
l'elemento portante di questo movimento.
Il terzo tempo era di solito un Rondò, qui però Mozart ha scritto un finale che è qualcosa di più: una
sintesi di fuga, rondò-sonata e, addirittura, stilemi operistici. Il primo, semplice piccolo tema
presentato dal pianoforte è bilanciato da un secondo che è di carattere fugato, e troveremo poi i due
combinati in una sorta di doppia fuga; tutto è suggellato, dopo la cadenza, da una conclusione che,
per il ritmo estremamente vivace (le linee melodiche e gli strumenti si inseguono freneticamente),
ricorda l'ouverture dell'opera buffa. È interessante come Mozart presenti materiali in modo
nettamente distinto e poi li fonda nel modo più naturale. Il tema della fuga, ad esempio, è
completamente nuovo, con uno sviluppo lungo e autonomo che però finisce per diventare il logico
contrappeso (nel Tutti in re minore) del tema iniziale del Rondò. Il pianoforte è assente in questo
grande episodio contrappuntistico ma a lui spetta il delicato ruolo di ripristinare una forma meno
severa e riportare il movimento verso atmosfere più consuete. «La forma di questo movimento, ad
un tempo concisa ed estesa, rappresenta la sintesi dell'esperienza e dell'ideale formale mozartiani.
Tutto ha qui il proprio ruolo: lo stile operistico, il virtuosismo pianistico, la conoscenza mozartiana
del contrappunto barocco, e di quello di Bach in particolare, e l'equilibrio simmetrico e le tensioni
drammatiche dello stile sonatistico. Il primo movimento, militare sì, ma tranquillamente dominato
da calme progressioni, e l'inesauribile e lirico Allegretto mostrano una uguale sensibilità. L'intero
concerto è, in conclusione, uno dei più originali che Mozart abbia scritto» (Rosen).
https://it.wikipedia.org/wiki/Concerto_per_pianoforte_e_orchestra_n._19_(Mozart)
https://en.wikipedia.org/wiki/Piano_Concerto_No._19_(Mozart)

Like the majority of the piano concertos Mozart composed in Vienna, the F Major concerto, No. 19,
was written for his own use, possibly at an Advent concert in December 1784. The extant autograph
score gives no date of composition, but Mozart entered the concerto in his thematic catalog on 11
December of that year. He would also likely have included it along with another new concerto, K.
466 in D Minor, in a series of six Lenten subscription concerts he gave in the Mehlgrabe in Vienna
the following February. 1784 was in fact something of a "year of the piano" for Mozart, for it
witnessed the composition of no fewer than six piano concertos, in addition to the great Quintet in E
flat for piano, oboe, clarinet, horn and bassoon, K. 452. At this point Mozart's repute as a pianist
was at its height, with writers falling over themselves to outdo each other's panegyrics. An example
comes in this account from April 1784: "His concerto on the pianoforte, how excellent that was!
And his improvisations, what a wealth of ideas! what variety!.... One is washed away unresistingly
on the stream of his emotions."
Mozart's catalog entry for the F Major Concerto includes timpani and trumpets in the scoring,
although such parts have never been found, and they are not normally included in the composer's
music written in that key. They would, however, not be out of place in the festive, martial opening
Allegro of this work sometimes referred to as Mozart's second "Coronation" concerto (the other
being the Concerto No. 26 in D, K. 537, the work usually known by the "Coronation" nickname),
since he chose to perform it in 1790 at a concert marking the coronation festivities of the Emperor
Leopold II in Frankfurt. In modern times the concerto has unjustifiably been something of a
Cinderella work among Mozart's mature piano concertos, yet it as every bit as fine as the better-
known works that surround it, with wind writing that is particularly felicitous even by Mozartean
standards.
Although the mood of this concerto is sunny and its weight light, there is an aspect to the first
movement which is worthy of close attention: Mozart builds a convicing sonata form out of two
themes of similar mood, both of them exceptionally lyrical, and he sustains their basic moods in a
masterful development. The middle movement is not especially slow, being marked "Allegretto." It
is based on two themes, one of them an expressive opening melody. The finale is a very lively
movement, with wonderful contrapuntal writing hidden by the overall jocularity. This is already an
exceptionally fine concerto, showing great advances in the use of winds, and pointing the way
towards even greater achievements to come.

Beethoven – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in si bem. magg., op. 19


Pubblicato come Concerto n. 2 da Hoffmeister & Kühnel nel 1801, questo concerto è in realtà il
primo ad essere composto e, più degli altri, aderisce al modello mozartiano; scritto in buona parte
tra il 1787 e il 1789, viene completato nel 1795. La sua prima esecuzione pubblica è del 29 marzo
1795 al Teatro di Corte di Vienna, con Beethoven al pianoforte; successivamente rielaborato, viene
riproposto a Praga nel 1798. Le ultime e definitive modifiche sono del 1801.
Il concerto, articolato nei consueti tre movimenti, presenta evidenti legami con la musica di Mozart,
come ad esempio l’entrata del pianoforte con un tema del tutto nuovo dopo l’esposizione
dell’orchestra, o il ritmo di 6/8 del finale; tuttavia non mancano episodi originali e imprevedibili,
tipici di quella personalità che poi caratterizzerà la produzione beethoveniana.
I movimento – Allegro con brio
Brillante e piacevole, offre grande spazio al virtuosismo del solista. Sono due i gruppi tematici
principali, distribuiti tra l’esposizione orchestrale e la riesposizione del pianoforte; lo sviluppo,
molto complesso, riprende spunti precedenti riproponendoli profondamente variati.
II movimento – Adagio
Atmosfera delicata, quasi un incanto notturno; il fraseggio si svolge con gradualità, pacatamente,
alternando brevi interventi. La sezione centrale presenta una seconda idea tematica, distribuita tra
pianoforte e orchestra e conclusa con una leziosa frase del solista. Ritorna il tema principale, e sulle
fluenti terzine del pianoforte interviene l’oboe sostenuto dai fiati; sulla frase declinante del solista
chiude tutta l’orchestra con il flauto in sovrapposizione.
III movimento – Rondò: Allegro molto
Brano che conquista l’ascoltatore per le sue marcate accentuazioni sincopate, ancora più impetuose
nell’episodio centrale. Il tema principale, spavaldo e imprevedibile, viene esposto immediatamente
dal pianoforte e ripreso dall’orchestra in un serrato dialogo; il solista sfrutta le doti tecniche dello
strumento, l’orchestra propone scalette dinamiche e chiaroscuri timbrici. Il secondo tema presenta
richiami a motivi e melodie di sapore tzigano. La parte finale è un susseguirsi frenetico del
materiale tematico presentato, esposto e ripreso; si chiude tra arpeggi, doppie scale cromatiche e
l’accordo prepotente di fiati e archi.

Nel primo movimento (Allegro con brio) del Concerto op. 19 si assiste a una curiosa situazione
estetica, peraltro comune a molte "opere prime" in ogni campo artistico: Beethoven traccia un
itinerario, segna confini e linee di forza, ma tale progetto o struttura tiene qualcosa di astratto perché
i protagonisti, e cioè i temi o motivi, non sono ancora all'altezza di quel progetto per vivacità e
personalità di concezione; così l'ascoltatore consapevole del futuro svolgimento creativo del
compositore introduce lui di suo, qua e là idealmente, personaggi e figure di opere posteriori più
mature e complete: operazione che non deve convertirsi in una critica o delusione, ma piuttosto
accompagnarsi all'ammirazione o alla constatazione di una inventiva precocemente polarizzata sul
progetto, sul percorso, prima che sull'attrattiva più esteriore del tema: in perfetta consonanza con il
pensiero illuministico in cui Beethoven ha le radici. Considerato in se stesso, il primo tema della
giudiziosa esposizione orchestrale è senza dubbio un poco intimidito e un poco di corto respiro nel
suo trotterellare; ma la prospettiva si allarga in inopinate modulazioni, in sospensioni e attese, fin
dall'entrata del pianoforte alla ribalta: con un tema che pare tutto nuovo (in realtà desunto da un
motivo secondario dei violini alla battuta 34), indeciso fra galanteria e affabilità, e consanguineo al
clima di incantevole improvvisazione nelle prime battute della Sonata op. 10 n. 2.
Nell'Adagio, anche se si può percepire una dipendenza dal movimento centrale (Andante) del
Concerto K. 450 di Mozart nella medesima tonalità, Beethoven afferma con più precisa coscienza
alcuni caratteri peculiari: Mozart procede con l'elisia fluenza di un corale, quasi al passo con i
sacerdoti del Flauto magico, con orchestra e pianoforte che si rispecchiano nella medesima frase;
mentre in Beethoven la cantilena, anche se tessuta in modo simile fra le pause di un Corale, è meno
continua, più lavorata di piccole intenzioni espressive, anche se allo stesso modo rivolta a una
amplificazione del respiro ritmico e di un fraseggio melodico esteso alle soglie della vocalità; il
solista poi si riserva il proprio spazio d'intervento, una volta che l'orchestra ha esaurito la sua
esposizione, presentandosi alla ribalta con un teatrale gesto di entrata; di particolare evidenza è la
conclusione, con il solista che si dedica a una cadenza in stile di recitativo, lasciando all'orchestra il
sommesso commento con frammenti del tema: una liricità che invade anche la clausola finale,
quando il flauto solo si sovrappone con un ultimo intervento, marginando gli accordi conclusivi con
un'ultima delicata insorgenza di canto.
Come il Concerto op. 15, il Rondò finale (che ha sostituito il Rondò WoO 6 che concludeva il
Concerto nella seconda versione) è il brano che conquista l'ascoltatore con maggiore immediatezza,
specie per le marcate accentuazioni sincopate: rese ancora più fervide in un episodio centrale, dove
il solista si produce in audaci salti in contrattempo, come un giocoliere che salta fuori dalla schiera
dei compagni e si mette a fare i suoi esercizi in prima fila; ultima trovata, di stampo haydniano, è
quella dì accompagnare all'uscita il pianoforte in punta di piedi, con una nuova, amabile figura
melodica impreziosita di acciaccature che si lasciano dietro una lieve scìa di trilli nel registro acuto
e una esitante cadenza in pianissimo, che innesca la repentina replica dell'orchestra, adeguatamente
robusta e conclusiva.
Giorgio Pestelli
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Benché pubblicato da Hoffmeister di Lipsia alla fine del 1801 e quindi dopo il Concerto in do
maggiore, il Concerto in si bemolle maggiore op. 19 fu scritto qualche anno prima, tra il 1795 e il
1798, come rivela anche la maggiore sudditanza ai supremi modelli mozartiani del genere. Derivati
direttamente da Mozart sono l'entrata del pianoforte con un tema del tutto nuovo dopo l'esposizione
dell'orchestra (Allegro con brio), l'impasto timbrico di legni che fanno il tema, e gli archi che
accompagnano con pizzicati mentre il pianoforte riassume il quadro armonico con arpeggi
(Adagio); anche il ritmo di 6/8 per il Rondò finale è un suggerimento mozartiano (Concerti K. 450 e
595), benché proprio qui Beethoven si faccia sentire in prima persona per l'estrosità delle
accentuazioni sincopate. Il concerto fu eseguito la prima volta da Beethoven stesso nel 1798 a
Praga, sotto la direzione dì Antonio Salieri. (In realtà si tratta di una seconda versione, la versione
originale è stata eseguita a Vienna il 29 Marzo 1795 n.d.r.)
Guida all'ascolto 3 (nota 3)
Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 19 si apre con un vivace e
scoppiettante Allegro con brio. Beethoven dimostra tutta la freschezza dei suoi anni giovanili in
questo lavoro non troppo dominato dalla personalità delle linee tematiche, ma assolutamente
originale e spesso imprevedibile nelle soluzioni che egli imprime alla partitura. Si notano nella
scrittura soprattutto una notevole ricchezza inventiva e una duttile articolazione dei profili motivici,
con un fitto lavoro di intaglio e di recupero del materiale che trapassa da una parte all'altra, da una
sezione all'altra del Concerto, un po' secondo lo stile di Haydn o di Mozart. Alcuni elementi sono
ancora di retaggio palesemente «galante», così come colpisce il taglio del Concerto, pensato
prettamente per il pubblico, con soluzioni brillanti e di sicuro effetto affidate all'orchestra e largo
spazio per il virtuosismo dell'esecutore, mai comunque fine a se stesso. D'altronde il compositore,
nel momento in cui scriveva queste pagine, era ancora e soprattutto un grande pianista desideroso di
mostrarsi davanti alla sua platea e di mettere alla prova proprio lì la sua «fatica». Dal punto di vista
delle architetture compositive è già evidente la sicurezza di Beethoven nel dominio della forma. A
partire dal citato primo movimento, l'Allegro con brio, appare interessante la cornice di riferimento
scelta: i due gruppi tematici principali sono ben distribuiti tra Esposizione orchestrale (primo
gruppo) e Riesposizione solistica (secondo gruppo), tanto che nella Ripresa proprio questi ultimi
sono scelti per essere riesposti, «saltando» le altre parti ritenute da Beethoven meno pregnanti.
All'interno della struttura compare anche uno Sviluppo molto complesso, che recupera idee e spunti
un po' da tutte le sezioni precedenti sottoponendole a profonde mutazioni e varianti.
Ma per giungere a queste soluzioni risulta interessante il percorso seguito dal compositore. Il primo
gruppo dell'Esposizione orchestrale del movimento iniziale, ad esempio, spicca per la sua
segmentata composizione, costruito com'è su più parti indipendenti eppure perfettamente collegate:
lo definiscono, in alternanza, uno scalpitante motto su ritmo puntato pronunciato dall'orchestra e un
tranquillo inciso di risposta in levare dei violini; il tema prosegue poi in un motivo acefalo non
privo di gestualità galanti, basato su note ribattute. Dalla combinazione di questi elementi, dalla loro
variazione e permutazione dipenderanno molti dei passi successivi dell'Allegro, come appare
evidente ad esempio per il motivo acefalo, che ritorna nell'Epilogo dell'Esposizione, o nel delizioso
interludio orchestrale, in cui letteralmente ispira una nuova frase opportunamente rivista in
diminuzione e imitazione, o alla fine della Riesposizione, dove torna più vicino al profilo ritmico-
melodico originario. Ma è soprattutto il motto introduttivo a dominare la scena fungendo da
elemento base, da matrice sonora di molti passaggi: dopo l'esposizione orchestrale ricompare infatti
subito nella frase di transizione alla dominante resa più instabile e nervosa proprio dal ritorno del
motto puntato e dal raddoppio ritmico dell'accompagnamento, vivacizzato dal sostegno di gruppi di
crome reiterate; anche nell'Epilogo dell'esposizione orchestrale ricompare, contribuendo ad aprire
un episodio carico di contrasti e di strappi impetuosi, mentre nella riesposizione solistica il
pianoforte mostra il suo volto più combattivo proprio quando prende in mano con personalità la
situazione esponendo l'inciso iniziale nel ponte modulante. Come si vede, è specie nelle situazioni
di contrasto, di movimento e di carattere che Beethoven fa riemergere il tratto incisivo del suo
motto, utilizzato dunque per spingere in avanti il discorso e nelle parti strutturalmente più
complesse ed elaborative; ancora lo ritroviamo infatti nei bassi per ispessire e innervare
ritmicamente il registro grave, o nella grande frase di commiato che segue, o anche alla fine della
Riesposizione, in un'anticipazione gravida di significati nella voce dei violini primi e secondi,
presto confermata a piena voce con l'inizio della Ripresa.
Invece il terzo componente del primo gruppo tematico, il tranquillo inciso di risposta al motto
introduttivo, compare in altri momenti musicali, di carattere e profilo diverso. Beethoven vi ricorre
in particolare per le situazioni inattese, o per creare diversivi sviluppando nuovi episodi, oppure in
funzione di chiusura di discorso, in questo caso associato al motivo acefalo per formare una nuova
unità tematica. L'orchestra si ferma di colpo su tre note orchestrali all'unisono, poi ripetute un
semitono sopra a re bemolle: è un vero e proprio coup de thèàtre, poiché l'ascoltatore, dopo un
incedere del movimento così filante, tutto si aspetterebbe tranne che questo. Da tale interruzione
compare, inaspettato, proprio il profilo dell'inciso di risposta, con quel suo caratteristico incedere
morbido e avvolgente proposto dai violini e subito rilevato dai fiati in un meraviglioso dialogo
sonoro; una simile situazione si ripropone durante lo Sviluppo, quando però questa volta è anche il
pianoforte che, sollecitato dall'orchestra, ne disegna e ne sviluppa leggiadre elaborazioni. In altri
casi ancora, l'inciso di risposta si collega al motivo acefalo; dalla combinazione nasce un'idea di
congedo di particolare delicatezza; così è sfruttata alla fine dell'esposizione orchestrale poco prima
dell'entrata del pianista, nella frase di commiato che conclude la riesposizione solistica e precede lo
Sviluppo, alla fine dell'intero Allegro con brio, esposta dai violini primi in una brevissima coda di
grazia e delicatezza mozartiane. Dal punto di vista del ruolo del solista la figura del pianoforte non è
mai preponderante rispetto all'orchestra: non esiste un vero e proprio primo tema pianistico, poiché
l'entrata del solista è affidata a una plastica presentazione su una frase preludiante che ce lo dipinge
quasi in punta di piedi, come un protagonista atteso, brillante ma non ingombrante; e anche il
secondo gruppo tematico è affidato prima all'orchestra e solo in seconda battuta alla voce del
solista, che quindi guadagna terreno poco per volta e senza anticipare troppo i tempi, rispettoso di
precisi equilibri prestabiliti. Inoltre, secondo una strategia ben congegnata, prende possesso della
scena quasi replicando a specchio le esperienze dell'orchestra; dopo l'esposizione del secondo
gruppo, riproponendo ad esempio un nuovo episodio imprevisto sullo stesso re bemolle, piano
tonale che aveva già prediletto in precedenza l'orchestra; solo dopo questi passaggi gerarchici
eccolo impegnato in una grande sezione virtuosistica interamente dedicatagli, estesa e «complessa»
e con proprio nuovo materiale il pianoforte aveva affrontato un passo tecnico, ma piuttosto breve e
con elementi «recuperati» da precedenti passi orchestrali. La cura di Beethoven nel disciplinare la
forma è dunque impressionante, in questo senso degno erede della tradizione viennese. Ritroviamo
dunque già in questo vivido e brillante primo tempo, una straordinaria opera di assemblaggio della
forma che si riversa con risultati sorprendenti nell'ascolto.
Il secondo movimento è un Adagio di delicata fattura. I toni sfumati evocano un'atmosfera incantata
da notturno mentre la parte tematica è di consistenza prettamente vocale. Si respira una certa misura
e gradualità nello svolgersi delle idee, tutto procede pacatamente e con calma, quasi non si volesse
smuovere troppo la superficie sonora, in un clima di quiete bucolica. Il tema principale dell'Adagio,
in mi bemolle maggiore, ne è un caso esemplare: la sua fisionomia è svelata solo poco per volta ed
esso prende forma progressivamente. All'inizio, intonato sottovoce da archi e fagotti, non viene
infatti esposto nella sua interezza, perché i corni intervengono con un inciso ripetuto su ritmo
puntato che ne smorza l'eloquio, sino a comprimerlo, spegnendolo in un accordo irrisolto e
procrastinato. Il denso flusso sonoro si spezza in un fortissimo da cui si sprigiona una nuova frase
che poco dopo tornerà ad assumere caratteristiche sospensive, sul ritorno del ritmo puntato.
Beethoven aspetta invece il pianoforte per riavviare il tema e questa volta esporlo in tutta la sua
interezza, ma sempre con il caratteristico respiro lento, modellandolo poi finemente in una
successiva e più ampia riesposizione elaborativa che ne completa il carattere lirico. La sezione
centrale dell'Adagio (B) presenta una seconda idea nella dominante si bemolle maggiore. Scambiata
in eco tra pianoforte e orchestra, è conclusa in una frase sospirosa di grande trasporto del solista. A
questo punto l'orchestra commenta questo intervento con una sorta di piccolo sviluppo in nuce;
l'ambiente armonico si increspa e sono introdotti chiari elementi tensivi: è una scossa che muove il
solista a reintrodursi nel discorso con una frase di cerniera melodica verso la tonica che riporta
progressivamente allo stato di quiete. La Ripresa è doppia, poiché contempla il ritorno sia di A che
di B. Prima torna il tema principale dell'Adagio rivisitato in veste fiorita dal pianoforte. Poi è lo
stesso pianoforte che procede con un fluente movimento di terzine simile a un dolce mormorio sul
quale l'oboe, sostenuto dai fiati, intona con respiro struggente la melodia principale, melodia che
infine si conclude con la frase declinante del piano. È un momento magico di questo movimento,
che restituisce all'ascoltatore sensazioni di grazia impagabile.
Anche la ripresa di B dipinge, attraverso squisite sfumature, il secondo tema, scambiato tra
pianoforte e orchestra, ma ora nel tono d'impianto di mi bemolle maggiore; questa volta però il
pianoforte prosegue in un nuovo, luminoso episodio in cui con il suo tocco vellutato diventa il
protagonista assoluto della vicenda sonora. Dopo il corrucciato commento dell'orchestra c'è spazio
anche per una piccola cadenza in stile recitativo del pianoforte, con gli archi che rispondono in
pianissimo con brevi respiri ricavati ancora una volta dal tema principale. Infine una frase di coda
pronunciata da tutta l'orchestra conclude l'Adagio con echi bucolici e pastorali.
L'ultimo movimento è un Rondò in tempo Allegro molto. Lo domina un tema-refrain sbarazzino
nella tonica si bemolle maggiore. Il pianoforte si trova a suo agio nell'esporlo sfruttando le proprie
doti tecniche di strumento virtuoso e brillante, ma anche l'orchestra esibisce un'agilità inconsueta
fatta di scalette, rimbalzi, volate, scatti vibranti, e anche giochi dinamici, nouances e chiaroscuri
timbrici. Come nel primo movimento, passaggi e sorprese inattese sono dietro l'angolo (come le
scalette interrotte che frammentano sorprendentemente il flusso sonoro), così come c'è una ricerca
per il senso del bello, dell'ornamento, del movimento corale, quasi a replicare in musica le
sensazioni di un elegante evento di festa, la categoria mentale di un sentimento di gaiezza viva e
spigliata. Per questo non mancano espliciti richiami a temi di ballo e di danza, motivi e melodie di
sapore tzigano, folclorico, come il compositore ama talvolta fare nelle sue composizioni.
Già all'inizio il tema principale, esposto immediatamente dal pianoforte e curiosamente accentato
sul tempo debole, rivela la sua natura imprevedibile e un po' umoristica: funziona da avvolgente
invito alla danza, al coinvolgimento di gruppo; l'orchestra risponde subito con lo stesso spirito.
Anche durante la transizione alla dominante tutto scorre veloce, senza respiro, comprese le brucianti
figurazioni in ottave spezzate del pianoforte che aprono la strada a una sua prima «uscita»
virtuosistica. Il primo dei due episodi solistici consiste in un breve motivo rimbalzante e ritmico che
trascina anche l'orchestra in uno scambio dialogico serrato. Poco dopo quest'ultimo diventa
irresistibile richiamo anche per il ritorno del refrain di base, ma questa volta Beethoven lo propone
fortemente variato: ne mantiene infatti solo l'intervallo-quadro (una terza discendente),
correggendone il percorso e l'andamento melodico e soprattutto ne «normalizza» l'accentuazione
trasferendola in battere sull'accento forte, secondo il ritmo indotto proprio dal primo episodio: un
esempio della cura assoluta anche del particolare all'interno di questo sgargiante quadro sonoro.
Dopo il ciclico ritorno del tema principale del rondò, il secondo episodio solistico ancora una volta
porta una ventata di estro e freschezza: ambientato in modo minore, appare come un misterioso
canto tzigano che attrae e conquista; l'orchestra si contrappone all'inquietudine del solista con
lunghe e più stabili stringhe melodiche di commento. Questa volta l'accento è spostato in avanti,
esattamente come nel refrain di base. A questo punto Beethoven affronta la sezione di Ripresa del
materiale tematico con il ritorno del refrain, della transizione - qui non più modulante per
mantenersi nel tono d'impianto -, del primo episodio e infine delle scalette interrotte che
precedevano il ritorno del refrain; ma ora di esso se ne sente solo l'incipit, e sorprendentemente in
sol maggiore, visibilmente rallentato e con l'accento spostato «regolarmente» sul tempo forte. È un
effetto inatteso, che cambia fisionomia al rondò e prepara la grande sezione conclusiva. Una frase di
collegamento consistente in una vivace e precipitosa elaborazione di un segmento del refrain e poi
in una Ripresa testuale ma scorciata - in si bemolle maggiore - ancora del refrain di base conduce
rapidamente alla fase finale del Concerto. Come in un veloce tourbillon, temi ed episodi si sono
accavallati sempre più velocemente man mano che il rondò procedeva. Dopo tanto succedersi di
motivi conduttori, dopo che il materiale è stato più volte presentato, esposto e ripreso, nell'Epilogo
nulla rimane se non la necessità di concludere il discorso con i toni che l'hanno definito, ovvero
quelli della festa galante. Si apre un quadro dalle tinte cariche di colori costituto da nuovi elementi.
Un'autentica pioggia, una vera cascata sonora invade la scena, con vaporose volate in arpeggio e
doppie scale cromatiche per terze discendenti del solista; l'orchestra commenta scambiandosi col
piano spezzoni del refrain in forma di tranquilla e un po' vanitosa gestualità attraverso una annuente
codetta. Infine intervengono le ferme asserzioni di fiati e archi nel risoluto accordo finale sulla
tonica si bemolle maggiore.
Il 29 marzo 1795, infatti, Beethoven esordisce in pubblico al Burgtheater, riportando un lusinghiero
successo; tutti apprezzano il suo talento di pianista sia come esecutore di musiche altrui sia come
improvvisatore, ma è ancora incerto il giudizio sul Beethoven compositore. Al suo esordio il
musicista di Bonn esegue prima il Concerto in re minore di Mozart, e poi, a ruota, il suo Concerto
in si bemolle maggiore (1794/5), quello che poi sarà il Secondo Concerto, l'op. 19 nella revisione
del 1798, pubblicato solo nel dicembre 1801.

For almost two centuries, the original version of the Piano Concerto No. 2 was assigned to the year
1794, when Beethoven was 23 and needed a showpiece for his public debut in Vienna. He did
introduce it in the Court Theater on March 29, 1795, during the Lenten season when Hapsburg
Catholicism banned all theatrical activity. But latter-day scholarship has determined that most of the
B flat Concerto -- certainly the first two movements -- were written at Bonn in 1789 and 1790, three
years after his curtailed first visit to Vienna, but three before his return in November 1792, with a
letter of introduction from Count Ferdinand Waldstein and an invitation to study with Haydn. In
other words, he was as young as Chopin when the latter composed his first concerto (which, further
in common with Beethoven's B flat, was published out of sequence as No. 2). Whether or not
Haydn saw it during the 14 contentious months that Beethoven was his pupil, we don't know.
Beethoven revised the concerto to include a new finale during his study year with Haydn. This was
this version he introduced in 1795 and then further revised in 1798 for Prague, giving it still another
finale. (The "official" First Concerto in C, published as Op. 15, wasn't composed until 1797.) To
keep the B flat for his own use, he left the solo part un-notated until the Leipzig publisher
Hoffmeister agreed to buy the work in 1801, for half the price of a new sonata. The composer didn't
haggle: "I really don't give [it] out as one of my best....Still, it will not disgrace you in any way to
publish it."
Although the B flat has come down to us as one of the two runts in Beethoven's concerto litter
(along with the "Triple"), it is nonetheless a work of substantial charm and considerable elegance,
with several Haydn-like surprises including an abundance of themes. In the opening Allegro con
brio movement, however, he followed Classical rules, concentrating on the two principal subjects of
a double exposition (by the orchestra first, next by the soloist), then a development section, and
finally a recapitulation. The main themes in their cheerful confidence are distinctly Beethoven's,
though their working-out is clearly influenced not only by Haydn but also by the recently departed
Mozart. The middle movement -- Adagio, in E flat major -- hints at the slow movement of the
Fourth Concerto to come a decade later. It is, in effect, an accompanied fantasia that resembles a
carefree theme and variations, with an attention-getting solo recitative-like passage at the end. The
twice-rewritten finale, Molto allegro, combines sonata and rondo forms, with perhaps the nicest
surprise of all saved for last: a brief solo rumination which the orchestra brusquely interrupts with a
terminal tantara.
https://en.wikipedia.org/wiki/Piano_concerto
http://amadeus.altervista.org/saggi/concpia1.html
http://www.classicaonline.com/Salieri%20e%20Mozart_Programma%20sinfonico.pdf

«I concerti - egli scrive a suo padre - sono una via di mezzo fra il troppo difficile e il troppo
facile, sono molto brillanti e piacevoli all'udito, naturalmente senza cadere nello stravagante
e nella vuotaggine. Qua e là anche gli intenditori possono ricevere una soddisfazione, ma in
modo che i non intenditori devono rimanere soddisfatti, senza sapere perché». Negli anni
successivi egli approfondì e arricchì la struttura tecnica del concerto, conferendo all'orchestra
una personalità timbrica più spiccata, pur lasciando intatte allo strumento solista le fioriture,
le variazioni e le cadenze tipiche della parte pianistica.
Mozart nella storia del concerto per pianoforte e orchestra giganteggia maestosamente. Si può
infatti affermare che la sua produzione in questo campo, massime gli ultimi quattordici
Concerti composti a Vienna fra il 1784 e il 1791, fa compiere al genere un salto qualitativo
straordinario tale da creare un nuovo modello da lasciare in eredità alla generazione seguente.
Inoltre essa costituisce in assoluto uno dei più alti raggiungimenti della sua opera compositiva
e quindi dell'intera storia della musica.
Il vertice della produzione pianistica mozartiana degli anni di Vienna (1781-1791) è
concentrato nei 17 concerti per pianoforte che restano uno dei momenti più significativi della
personalità creatrice di questo straordinario compositore. Nei primi concerti per pianoforte
Mozart tende ad evidenziare maggiormente il ruolo dello strumento solista, pur non
trascurando la funzione dell'orchestra sotto il profilo timbrico e ritmico. Lo stesso musicista,
in una lettera al padre del 28 dicembre 1782, scrisse in questi termini a proposito dei primi
concerti viennesi: «I concerti sono una via di mezzo tra il troppo difficile e il troppo facile;
sono molto brillanti e piacevoli all'udito, naturalmente senza cadere nella vuotaggine. Qua e là
anche i conoscitori possono ricevere una soddisfazione, ma in modo che i non conoscitori
devono essere soddisfatti, senza sapere perché». Negli anni successivi il linguaggio dei concerti
per pianoforte si fa più intimo e riflessivo e il rapporto tra strumento solista e orchestra
assume toni più elaborati e raffinati. Tale evoluzione si può cogliere nelle diverse fasi della
produzione concertistica: nel 1782-'83 Mozart scrisse tre concerti per pianoforte (K. 413, K.
414, K. 415), nel 1784 ne compose sei (K. 449, K. 450, K. 453, K. 456, K. 459) nel 1785-'86
apparvero tre concerti per ciascun anno (K. 466, K. 467, K. 482, K. 488, K. 491 e K. 503). Negli
ultimi cinque anni della sua vita Mozart scrisse soltanto due concerti per pianoforte, il K. 537,
e K. 595, con cui il 4 marzo 1791 si congedò come pianista dal pubblico di Vienna.
All'epoca i modelli su cui contare, nel genere del concerto solistico, venivano soprattutto dalla
Francia. I primi concerti pianistici di Mozart sono condizionati dal vecchio stile aristocratico
della musica di società, incline alla comunicazione immediata, alla variazione di gusto rococò,
al gioco socievole e poco impegnativo. Ma nella Vienna degli anni Ottanta il vecchio stile
galante, tanto apprezzato dall'aristocrazia di Salisburgo, sapeva ormai di muffa. Per questo
Mozart coniuga le esigenze di una facile trasmissibilità con un atteggiamento molto più
soggettivo, nel quale si avvertono più profonde esperienze artistiche individuali. È così che in
alcuni concerti la contrapposizione drammatica, con gli sbalzi umorali e certe ombrosità
accigliate alla Sturm und Drang, prevalgono sulla socievolezza scorrevole; è così che la
scrittura orchestrale e quella solistica si ispessiscono, grazie all'apporto del contrappunto,
delle tecniche di elaborazione motivica e delle incursioni in aree armoniche lontane.
All'epoca i modelli su cui contare, nel genere del concerto solistico, venivano soprattutto dalla
Francia. I primi concerti pianistici di Mozart sono condizionati dal vecchio stile aristocratico della
musica di società, incline alla comunicazione immediata, alla variazione di gusto rococò, al gioco
socievole e poco impegnativo. Ma nella Vienna degli anni Ottanta il vecchio stile galante, tanto
apprezzato dall'aristocrazia di Salisburgo, sapeva ormai di muffa. Per questo Mozart coniuga le
esigenze di una facile trasmissibilità con un atteggiamento molto più soggettivo, nel quale si
avvertono più profonde esperienze artistiche individuali. È così che in alcuni concerti la
contrapposizione drammatica, con gli sbalzi umorali e certe ombrosità accigliate alla Sturm und
Drang, prevalgono sulla socievolezza scorrevole; è così che la scrittura orchestrale e quella solistica
si ispessiscono, grazie all'apporto del contrappunto, delle tecniche di elaborazione motivica e delle
incursioni in aree armoniche lontane.

Questo stile, per il pubblico viennese dell'epoca, era nuovo. Già l'impiego del pianoforte come
strumento concertante, da contrapporre all'orchestra, era inconsueto; ma ancor più lo erano le
sonorità preziose che Mozart sa cavare da questa contrapposizione. Certi impasti raffinati tra il
pianoforte e i legni, ad esempio, e la fine scrittura concertante - di natura cameristica - tra fiati e
archi o tra fiati e strumento solista, sono invenzione tutta sua. Altrettanto originale è l'impostazione
generale dei concerti per pianoforte: che si presentano come un dialogo tra interlocutori paritari;
orchestra e solista mantengono ciascuno la propria individualità, in un rapporto dialettico che può
anche sfociare in un conflitto vero e proprio. Mozart si allontana definitivamente, qui, dai modi del
concerto barocco (che fanno ancora sentire la loro presenza nei concerti per violino) e concepisce il
nuovo genere del concerto per pianoforte e orchestra come una «moderna» forma sinfonica.

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