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Il Mulino - Rivisteweb

Gian Piero Maragoni


D’Amico in classe
(doi: 10.1403/36792)

La Cultura (ISSN 0393-1560)


Fascicolo 1, aprile 2012

Ente di afferenza:
Università di Bologna (unibo)

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D’Amico in classe*
di Gian Piero Maragoni

Sono perfettamente consapevole che, nell’accingermi al mio


compito di testimone – o di veterano e superstite –, il rischio che
corro è quello di scadere infine nella memorialistica flebile e futile
o nell’aneddotica spicciola e pettegola (benché d’Amico medesimo
fosse un portentoso narratore di episodî1, persuaso com’era – e giu-
stamente – che, lungi dal consistere in gossip, essi possono talora in-
nalzarsi fino a un’eminente levatura esegetica, in quanto sortiscono
capaci di rievocare con efficacia, rendere con fedeltà e sviscerare
con acuzie il naturale di un uomo). Eppure, imprendere a parlare
di d’Amico docente, e cioè di come d’Amico conduceva la sua di-
dattica, equivale a porre il problema (dal formidabile peso noetico,
e prossimo al centro della riflessione di d’Amico stesso) dell’assimi-
labilità di una lezione a qualsiasi altra esecuzione, perché tanto l’una
quanto l’altra sono, per propria essenza, non riproducibili nella loro
verità (quand’anche si giunga a catturarle e fissarle su supporto), a
misura che non riproducibili si rendono le concrete condizioni (ca-
duche e periture per eccellenza) in cui ebbero luogo, furono ac-
colte, e ad esse si reagì (con misteriose e alchemiche simpatie) da
parte di chi era presente. È l’antico nodo della sfuggente indole di
un’improvvisazione, sia a parte subjecti sia a parte objecti. A parte
subjecti, poiché l’atto dell’improvvisare, e l’atto del far lezione, pre-
suppongono ambedue un apparecchio coscienzioso e meticoloso (e
altresì addestramento ed esercizio) ma non si esauriscono in essi,

* Rispetto alla comunicazione effettivamente letta al convegno I casi della musica. Fedele
d’Amico vent’anni dopo (Roma, 4-6 Febbraio 2011), quanto qui dispensato presenta una mag-
giore ampiezza e sviluppi più larghi, ma molto serba, nel tono e nell’andamento, del raccolto
clima di affettuosa memorazione che venne improntando i lavori di quelle giornate al Parco
della Musica.
1
E potetti accorgermene quella volta che, incontratolo al Teatro Olimpico – mi sem-
bra – per la prima di un’operina di Pennisi, e offertomi di riportarlo a casa, in Via Paisiello
(com’è noto, d’Amico non guidava), appresi dalla sua viva voce alcuni inestimabili retroscena
dell’attività e del temperamento del suo maestro Casella.

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anzi devono dissimularli e trascenderli; a parte objecti, nel senso che


di un’improvvisazione entusiasmante (come di una lezione svoltasi
bene) ci si rammarica sempre che non sia rimasta traccia, mentre,
se se ne riattraversassero le eventuali trascrizioni conformi, l’incanto
dell’invenzione estemporanea2 latiterebbe amarissimamente, ché altro
è un uccello imbalsamato e altro un pennuto che viva, canti e spazî
per l’aria.
Venendo al dunque, dirò che fui allievo di d’Amico (a metà del
mio corso di laurea, quondam quadriennale) negli anni accademici
1978-1979 e 1979-1980; ebbi l’opportunità, perciò, di assistere alla
sua presa di possesso a Lettere, e quindi di ascoltare la sua prolu-
sione di insediamento. Ricordo che arrivai un po’ in ritardo, per la
coincidenza con un altro appuntamento della mattinata (il semina-
rio avanzato di ecdotica tenuto da Riccardo Scrivano), e che l’aula
pensile di Storia della Musica (quasi un Sancta Sanctorum sperduto
all’ultimo piano della Facoltà, fra tetti e terrazze a vista) era gremita,
al punto che – se non erro – mi toccò di restare in piedi e il do-
cente medesimo lo intravedevo appena, di tra il folto di tutti i con-
venuti. Rammento bene, però, l’impressione prodotta in me dall’Er-
scheinung di d’Amico, con quanto seco recasse di accademicamente
atipico. Due lunghe fedine brizzolate; un accento romano piuttosto
marcato (ma còlto e d’antan, simile – azzarderei – a quello di Pio
XII al microfono); una voce forte e chiara (più acuta che grave, e
molto di testa); una pronuncia tagliente; delle inflessioni ognora va-
rie, animate, cattivanti. Anche ricordo che, fra la tanta semiotica e
le tante affettazioni scientistiche di quell’epoca, mi colpì non poco
sentire l’oratore (che, pure, crociano non fu mai) definire a un tratto
la musica, con umile ma autorevole solennità, «una delle espressioni
dello spirito umano». Per quell’anno d’Amico scelse un suo cavallo
di battaglia, e cioè professò Su alcune poetiche musicali del primo
Novecento e i loro Antecedenti. Non esito a confidarVi che proprio
quel corso (da me seguìto alla tenera età di diciannove, vent’anni) ha
marcato a fuoco tutta la mia successiva esistenza di studioso, e signi-
ficò allora, per me, un autentico ingresso nell’attitudine a cimentarsi
con un autore o un’opera, anche se – è ovvio – sin da quei giorni,
e di più in prosieguo di tempo, pur mi accadde e mi è accaduto
di non ritrovarmi, talvolta, in qualche singola veduta del mio inse-
gnante, si trattasse dell’implicita anteposizione di Berg a Schönberg
o di una certa riserva sulla musica di Hindemith e sulla valentia di
Hindemith stesso come chef d’orchestre3. Do termine alla mia risibile

2
Magari mentita e solo apparente. Ma che importa? Il gioco di prestigio ci affascina anche
se ben sappiamo che sotto c’è il trucco.
3
Aggiungo incidentalmente che l’anno appresso concordai un programma individuale su
Metastasio e il melodramma del ’700, e che, quale italianista in trasferta, io rimasi sempre al

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autobiografia di studentello imberbe e sprovveduto specificando che


i due esami da me sostenuti con d’Amico ebbero entrambi esito fau-
sto (30/30; 30/30 con lode), e che, ricevendo, in coda ad uno d’essi,
i suoi inattesi rallegramenti, mi udii rivolgere il più lusinghiero, forse
(anche se certamente immeritato), complimento che abbia mai at-
tinto i miei timpani: «Di lei si può ripetere ciò che Bruno Barilli so-
steneva di Bartók, e cioè che aveva il cervello in comunicazione con
le orecchie».
Ecco, rivangare tutto questo non è stata – Ve lo assicuro – una
fatua e ostentosa divagazione, perché quella frase (con la sua polarità
e reciprocità di «cervello» e «orecchie») è realmente emblematica e
capitale, nella misura in cui disvela e riassume il nucleo del credo
di d’Amico musicologo, e cioè la vocazione a ragionare sempre e
sempre sentire, da una parte non abdicando mai alla dignità che ri-
siede nel tutto sottoporre al lucido vaglio del perché e del percome
(magari avvertendo quello del cogitare come un dovere morale fin
faticoso e penoso, come un privilegio e una condanna), e dall’altra
non prescindendo, a nessun patto e in nessun caso, dalla sorgività e
dall’insurrogabilità della diretta e immediata empiria4. Stimo che giu-
sto in questo stia il cuore del sentimento estetico (ed altresì umano
e civile) del Nostro, cioè nell’idea della musica come esperienza sulla
pelle, come evento interpersonale, come vicenda vissuta e goduta da
una palpitante comunità radunata nello stesso luogo e nello stesso
tempo. Ho usato queste espressioni («stesso luogo-stesso tempo»)
pour cause, mutuandole – salvo errore – dalla norma confessionale
che dirime sulla validità o meno della partecipazione alla Messa di
precetto. E il personalismo del cristiano d’Amico si affaccia in que-
sta fede – quasi eucaristica – nella «reale presenza» di un alito del
Paraclito quando più esseri si riuniscono insieme per condividere un
valore. Così come molto di religioso io ravviso nell’atteggiamento di
d’Amico innanzi alla missione del dotto, che egli intendeva e assol-
veva anzitutto come un’ansia indefessa di verità5, un disporsi a ca-

di fuori, o un poco ai margini, dell’esiguo novero dei laureandi di d’Amico (titolari di una
maggiore e tutta particolare intimità), benché siano indelebili nella mia memoria la cordiale
prontezza e l’attuosa sollecitudine con cui egli, senza traccheggiare un solo istante in inchieste
e inquisizioni, impegnò il proprio credito e (con la sua calligrafia minuta, accurata, spigolosa)
mi firmò la malleveria per l’ammissione al prestito nella Biblioteca Governativa di Santa Ce-
cilia (donde, grazie a lui, quindi trassi e potetti consultare gli spartiti di molto Strauss tanto
mirabile quanto esoterico, dalla Ägyptische Helena alla Schweigsame Frau, e da Friedenstag alla
Liebe der Danae).
4
«A decidere sul conto di un pezzo sono le orecchie e solo le orecchie» ebbe, in un do-
polezione, a sentenziare sanguignamente, censurando le astrazioni e finzioni del serialismo di
scuola e del suo permutare e commutare sulla carta.
5
Splendidamente fu già visto da Monsignor Pablo Colino nell’omelia tenuta in occasione
delle esequie di d’Amico, il cui testo autografo circolò in copie pro manuscripto e cito adesso
come documento – a quanto mi consta – tuttavia inedito: «Io vorrei sottolineare la sua sete di
conoscenza, sete di verità [...] era una sete profonda, vissuta, quasi sofferta, della ricerca della

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pire e chiarire a sé stesso per poi chiarire agli altri, giudicandosi ne-
cessitato a disingannare menti, illuminare coscienze, confutare errori
(quali, più che mai, le storture e le idées reçues dei chierici settarî
o modaioli). Davvero, adunque, che Fedele d’Amico aveva interio-
rizzato e fatto suo nell’imo quel comandamento cattolico che pre-
scrive come opera di misericordia spirituale (accanto all’«Ammonire
i peccatori», al «Consigliare i dubbiosi» e al «Consolare gli afflitti»)
l’«Istruire gli ignoranti».
Quelle di d’Amico erano, primamente, lezioni lunghe6, du-
rando – dalle undici alla mezza – circa il doppio dei canonici tre
quarti d’ora previsti dalla consuetudine universitaria. Erano lunghe
anche, ma non solamente, giacché spesso includevano degli ascolti,
sia come esemplificazioni al pianoforte, sia col ricorso alla disco-
teca d’Istituto. Le prime7 si fregiavano, anzi, si sostanziavano di
tutta la presa e la scenicità di cui il Nostro poteva esser padrone8,
pur solo calcolando l’effetto ottenibile nello spostarsi (un po’ curvo,
e con morosa nonchalance) dalla cattedra al gran coda, lo spartito
in mano; o azzardando un aliquid di sbarazzino autodeprezzamento,
come quando, alle prese con un’alquanto pepata, se non virtuo-
sistica, pagina funebre di Liszt, e arrancando un tantino nel distri-
carsene (d’Amico aveva mani piccole e dita nodose), se ne uscì, in
conclusione, con un: «Certo, ci vorrebbe un altro pianoforte; e an-
che un altro pianista». Allorché era costretto a servirsi di dischi9, bal-
zava all’occhio quanto essi fossero per lui un mezzo e non un fine, e

Verità [...] Quella Verità con maiuscola era la Verità che si nascondeva nella ricerca senza so-
sta di Fedele D’Amico».
6
Ad onta della contraria immagine (vulgata soprattutto da certa deteriore cinematografia e
televisione) di una romanità sbracata, gaglioffa e pressapochista, sovente si dànno dei romani
de Roma (da Eugenio Pacelli [cfr. M. Marchione, Il silenzio di Pio XII, ed. it. Sperling & Kup-
fer, Milano 2002, pp. 113-115; M.L. Napolitano-A. Tornielli, Il Papa che salvò gli ebrei. Dagli
archivi del Vaticano tutta la verità su Pio XII, Piemme, Casale Monferrato 2004, p. 53; D.G.
Dalin, La leggenda nera del papa di Hitler, ed. it. Piemme, Casale Monferrato 2007, p. 41] a
Sergio Leone [cfr. E. Morricone, Lontano dai sogni. Conversazioni con Antonio Monda, Mon-
dadori, Milano 2010, p. 41], e da Fernando Germani [cfr. F. De Angelis, Organi e organisti di
S. Maria in Aracoeli, Convento di S. Lorenzo in Panisperna, Roma 1969, p. 8] ad Antonello
Falqui [cfr. B. Scaramucci – C. Ferretti, RicordeRai. 1924/1954/2004, Rai Eri, Roma 2003, p.
283, col. 1]) degni d’essere ammirati sin da un elvetico per la loro puntigliosa esattezza e la
loro serîssima operosità. Fedele d’Amico era senz’altro di questi.
7
Ne ricordo una dall’op. 19 di Schönberg, e cioè una fenomenale (dottissima e finis-
sima) radiografia del cammino armonico e dell’ambiguità tonale del quarto dei Sechs kleine
Klavierstücke. «Questa nota potremmo ancora prenderla per una dominante [diceva d’Amico
sonando e commentando quel che sonava]; quest’altra funziona forse, in qualche modo, come
una sensibile. Però qui, all’ultimo, perdiamo la bussola e orientarci diventa impensabile».
8
Noi tutti, del resto, sappiamo quanto golosamente, e con quanto sollucchero perfino fan-
ciullesco, d’Amico si calasse nel ruolo dell’interprete (sbucando sul palco assieme a cantanti
e direttore) quando agiva da speaker in un Singspiel dato in forma di oratorio, come avvenne
almeno con Heimkehr aus der Fremde di Mendelssohn e con Der Vampyr di Marschner.
9
Rammento excerpta dal Wozzeck, da Mathis der Maler e dalla Sonata per oboe e pianoforte
di Hindemith, dal Divertimento di Bartók, dal Concerto in sol di Ravel (le cui impareggiabili
invenzioni strumentali qualificava, con deliziosa civetteria sinestetica, «croccanti»), da molto
Stravinsky: Pulcinella, Le Baiser de la fée, A Sermon, a Narrative and a Prayer etc.

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quanto egli fosse immune da tutti quei feticismi e quelle superstizioni


di noi collezionisti di incisioni diverse. Toccante mi appare tuttora il
candore con cui, dopo un’angustiosa ricerca (sull’uniforme epperò
enigmatica superficie del vinile dell’Histoire du soldat) del passo de-
siderato, d’Amico propose timidamente, per guadagnar tempo nella
lezione successiva: «Ci potremmo fare un segno col gesso...». E addi-
rittura meritevole di plauso si dimostrò quella fiata che, ultimato un
ascolto dal Pelléas, siccome il solito melomane saputo e smanceroso
gli aveva chiesto: «Non trova che il baritono abbia una voce un po’
troppo impostata?», egli, di rimando, tagliò corto con un asciuttis-
simo e speditivo: «Dipende solo dalla registrazione».
Le lezioni di d’Amico tornavano (non senza, del caso, umorosi
sarcasmi) sulle cruces della sua pluridecennale meditazione intorno
alla musica, al suo modo di agire su di noi e d’interpellarci, alle sue
permanenze o svolte attraverso la storia della cultura, del gusto e
della società. In classe, anzi, la grandezza di d’Amico come anima
speculativa risplendeva maggiormente – se possibile – che nello
scritto, poiché la sollecitazione del contesto pedagogico lo obbligava
a uno straordinario sforzo maieutico, ergo a un massimo di rigore e
limpidezza nel filare l’esposizione senza omettere alcun nesso e gra-
fitando bene ogni snodo. Onde il riuscire noi tutti a concepire ciò
che percepito già avevamo. Convinzione di Fedele d’Amico è sempre
stata, infatti, che il musicologo è un ascoltatore come chiunque al-
tro, ma annette ai soprassalti del fruitore disinteressato un surplus di
consapevolezza nascente dall’indugiare a ripensare ciò che tutti si è
provato, dal venirne disarticolando e scomponendo i considerandi,
dal tentare di sincerarsi della maniera in cui essi si sono rapportati
alla cognitività dell’utente: perché – e come avviene che – sentendo
Rossini o Brahms, Bach o Mascagni, Mozart o Schreker, Ghedini o
Petrassi, corriamo avventure (intellettuali e psichiche) del tutto di-
sparate o tenuemente distinte? Voila tout.
È proprio per la centralità dell’idea di ricezione nella teoresi di
d’Amico che un discorso su di lui risulterebbe manchevole se tra-
lasciasse di accennare al suo contegno di ascoltatore, fosse pure a
lezione. Quando l’impianto stereofonico dell’aula veniva azionato,
d’Amico si sprofondava nella sua poltrona a braccioli puntando il gi-
nocchio sul bordo del tavolo, e, dietro le spesse lenti da presbite se-
veramente montate in nero, s’immergeva completamente nello scru-
tinio della partitura non palesando veruna emozione. Però chi ebbe
occasione di spiarlo a qualche concerto al Foro Italico e ne sorprese,
durante Alcesti di Salviucci o La giara di Casella10, il gestire discreto

10
Per la precisione, in coincidenza con il lasso tra i capisaldi 125 e 126 della suite sinfo-
nica (Universal, Wien 1925, pp. 79-81).

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eppure irrefrenabile, elegante ed esso stesso evocativo, può testi-


moniare della suscettività del suo sensorio. E infatti, dai miei occhî
non sarà mai per svanire il volto di d’Amico all’attacco del primo
(Vorgefühle) dei Fünf Orchesterstücke di Schönberg il giorno che lo
propose alla nostra attenzione. Quell’incipit, proverbialmente ango-
sciante e traumatico, tutti lo abbiamo presente, ma quasi impossibile
è ridire quanto io fui impressionato scorgendo, al primo diffondersi
dei suoni, l’istantaneo e violento alterarsi della fisionomia del nostro
mentore, sino a tradire tetro spavento e inerme raccapriccio. Del ri-
manente, il suo viatico all’ascolto del brano non era forse stato (en
badinant, eppure con qualche poco di apprensione) la battuta: «Vor-
gefühle significa “Presentimenti”; e noi, qui, non presentiamo nulla
di buono»?

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