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D’Amico in classe*
di Gian Piero Maragoni
* Rispetto alla comunicazione effettivamente letta al convegno I casi della musica. Fedele
d’Amico vent’anni dopo (Roma, 4-6 Febbraio 2011), quanto qui dispensato presenta una mag-
giore ampiezza e sviluppi più larghi, ma molto serba, nel tono e nell’andamento, del raccolto
clima di affettuosa memorazione che venne improntando i lavori di quelle giornate al Parco
della Musica.
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E potetti accorgermene quella volta che, incontratolo al Teatro Olimpico – mi sem-
bra – per la prima di un’operina di Pennisi, e offertomi di riportarlo a casa, in Via Paisiello
(com’è noto, d’Amico non guidava), appresi dalla sua viva voce alcuni inestimabili retroscena
dell’attività e del temperamento del suo maestro Casella.
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Magari mentita e solo apparente. Ma che importa? Il gioco di prestigio ci affascina anche
se ben sappiamo che sotto c’è il trucco.
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Aggiungo incidentalmente che l’anno appresso concordai un programma individuale su
Metastasio e il melodramma del ’700, e che, quale italianista in trasferta, io rimasi sempre al
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di fuori, o un poco ai margini, dell’esiguo novero dei laureandi di d’Amico (titolari di una
maggiore e tutta particolare intimità), benché siano indelebili nella mia memoria la cordiale
prontezza e l’attuosa sollecitudine con cui egli, senza traccheggiare un solo istante in inchieste
e inquisizioni, impegnò il proprio credito e (con la sua calligrafia minuta, accurata, spigolosa)
mi firmò la malleveria per l’ammissione al prestito nella Biblioteca Governativa di Santa Ce-
cilia (donde, grazie a lui, quindi trassi e potetti consultare gli spartiti di molto Strauss tanto
mirabile quanto esoterico, dalla Ägyptische Helena alla Schweigsame Frau, e da Friedenstag alla
Liebe der Danae).
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«A decidere sul conto di un pezzo sono le orecchie e solo le orecchie» ebbe, in un do-
polezione, a sentenziare sanguignamente, censurando le astrazioni e finzioni del serialismo di
scuola e del suo permutare e commutare sulla carta.
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Splendidamente fu già visto da Monsignor Pablo Colino nell’omelia tenuta in occasione
delle esequie di d’Amico, il cui testo autografo circolò in copie pro manuscripto e cito adesso
come documento – a quanto mi consta – tuttavia inedito: «Io vorrei sottolineare la sua sete di
conoscenza, sete di verità [...] era una sete profonda, vissuta, quasi sofferta, della ricerca della
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pire e chiarire a sé stesso per poi chiarire agli altri, giudicandosi ne-
cessitato a disingannare menti, illuminare coscienze, confutare errori
(quali, più che mai, le storture e le idées reçues dei chierici settarî
o modaioli). Davvero, adunque, che Fedele d’Amico aveva interio-
rizzato e fatto suo nell’imo quel comandamento cattolico che pre-
scrive come opera di misericordia spirituale (accanto all’«Ammonire
i peccatori», al «Consigliare i dubbiosi» e al «Consolare gli afflitti»)
l’«Istruire gli ignoranti».
Quelle di d’Amico erano, primamente, lezioni lunghe6, du-
rando – dalle undici alla mezza – circa il doppio dei canonici tre
quarti d’ora previsti dalla consuetudine universitaria. Erano lunghe
anche, ma non solamente, giacché spesso includevano degli ascolti,
sia come esemplificazioni al pianoforte, sia col ricorso alla disco-
teca d’Istituto. Le prime7 si fregiavano, anzi, si sostanziavano di
tutta la presa e la scenicità di cui il Nostro poteva esser padrone8,
pur solo calcolando l’effetto ottenibile nello spostarsi (un po’ curvo,
e con morosa nonchalance) dalla cattedra al gran coda, lo spartito
in mano; o azzardando un aliquid di sbarazzino autodeprezzamento,
come quando, alle prese con un’alquanto pepata, se non virtuo-
sistica, pagina funebre di Liszt, e arrancando un tantino nel distri-
carsene (d’Amico aveva mani piccole e dita nodose), se ne uscì, in
conclusione, con un: «Certo, ci vorrebbe un altro pianoforte; e an-
che un altro pianista». Allorché era costretto a servirsi di dischi9, bal-
zava all’occhio quanto essi fossero per lui un mezzo e non un fine, e
Verità [...] Quella Verità con maiuscola era la Verità che si nascondeva nella ricerca senza so-
sta di Fedele D’Amico».
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Ad onta della contraria immagine (vulgata soprattutto da certa deteriore cinematografia e
televisione) di una romanità sbracata, gaglioffa e pressapochista, sovente si dànno dei romani
de Roma (da Eugenio Pacelli [cfr. M. Marchione, Il silenzio di Pio XII, ed. it. Sperling & Kup-
fer, Milano 2002, pp. 113-115; M.L. Napolitano-A. Tornielli, Il Papa che salvò gli ebrei. Dagli
archivi del Vaticano tutta la verità su Pio XII, Piemme, Casale Monferrato 2004, p. 53; D.G.
Dalin, La leggenda nera del papa di Hitler, ed. it. Piemme, Casale Monferrato 2007, p. 41] a
Sergio Leone [cfr. E. Morricone, Lontano dai sogni. Conversazioni con Antonio Monda, Mon-
dadori, Milano 2010, p. 41], e da Fernando Germani [cfr. F. De Angelis, Organi e organisti di
S. Maria in Aracoeli, Convento di S. Lorenzo in Panisperna, Roma 1969, p. 8] ad Antonello
Falqui [cfr. B. Scaramucci – C. Ferretti, RicordeRai. 1924/1954/2004, Rai Eri, Roma 2003, p.
283, col. 1]) degni d’essere ammirati sin da un elvetico per la loro puntigliosa esattezza e la
loro serîssima operosità. Fedele d’Amico era senz’altro di questi.
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Ne ricordo una dall’op. 19 di Schönberg, e cioè una fenomenale (dottissima e finis-
sima) radiografia del cammino armonico e dell’ambiguità tonale del quarto dei Sechs kleine
Klavierstücke. «Questa nota potremmo ancora prenderla per una dominante [diceva d’Amico
sonando e commentando quel che sonava]; quest’altra funziona forse, in qualche modo, come
una sensibile. Però qui, all’ultimo, perdiamo la bussola e orientarci diventa impensabile».
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Noi tutti, del resto, sappiamo quanto golosamente, e con quanto sollucchero perfino fan-
ciullesco, d’Amico si calasse nel ruolo dell’interprete (sbucando sul palco assieme a cantanti
e direttore) quando agiva da speaker in un Singspiel dato in forma di oratorio, come avvenne
almeno con Heimkehr aus der Fremde di Mendelssohn e con Der Vampyr di Marschner.
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Rammento excerpta dal Wozzeck, da Mathis der Maler e dalla Sonata per oboe e pianoforte
di Hindemith, dal Divertimento di Bartók, dal Concerto in sol di Ravel (le cui impareggiabili
invenzioni strumentali qualificava, con deliziosa civetteria sinestetica, «croccanti»), da molto
Stravinsky: Pulcinella, Le Baiser de la fée, A Sermon, a Narrative and a Prayer etc.
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Per la precisione, in coincidenza con il lasso tra i capisaldi 125 e 126 della suite sinfo-
nica (Universal, Wien 1925, pp. 79-81).
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