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A ffiliazione e critica

d’opposizione

di Edward W. Said1

onsiderate le sue poten-


C zialità, la critica d’opposi-
zione di sinistra contribuisce molto poco al dibattito intellet-
tuale sulla cultura di oggi. Già solamente la nostra bancarot-
ta sulla questione un tempo attraente dei diritti umani è suf-
ficiente per strapparci di dosso il titolo di proprietà che van-
tavamo nei confronti dell’umanesimo, e, per quanto riguarda
la trattazione dell’elusiva distinzione tra autoritarismo e
totalitarismo, non abbiamo la minima intenzione di analizza-
re questi termini semanticamente, molto meno politicamen-
te. Tuttavia non mi propongo di denigrare il periodo di bril-
lantezza quasi rinascimentale che la critica tecnica ha attra-
versato negli ultimi decenni. Lo possiamo tranquillamente
riconoscere e allo stesso tempo aggiungere che è stato un
periodo caratterizzato dalla volontà di accettare l’isolamento
della letteratura e degli studi letterari dal mondo. È stato
anche un periodo in cui pochi di noi hanno esaminato le
ragioni di questo esilio, proprio mentre la maggior parte
accettava tacitamente, fino a celebrarlo, lo Stato e il suo silen-
zioso ruolo al di sopra della cultura – senza nemmeno un
educato borbottio durante il Vietnam e nel periodo successi-
vo. Il mio disappunto davanti a ciò sorge dalla convinzione
che la cultura ha voluto neutralizzare la nostra abilità tecnica
di critici e di intellettuali; se abbiamo cooperato in questo

1 Traduciamo, in ricordo di Edward Said, le pagine 172-177 di The World,


the Text and the Critic, Harvard University Press, Cambridge 1983.

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progetto, forse in maniera inconscia, è perché è il luogo in cui
c’erano i soldi. Nel nostro entusiasmo retorico per parole
ridondanti quali scandalo, rottura, trasgressione e disconti-
nuità, non ci è venuto in mente di occuparci delle relazioni di
potere operanti all’interno della storia e della cultura, pro-
prio mentre presupponevano che la testualità di un testo
fosse una faccenda da esplorare eternamente come un qual-
cosa che concerne altri testi, connessioni vagamente denota-
te, genealogie fraudolente composte interamente da libri pri-
vati della loro storia e della loro forza. Il presupposto sottin-
teso è che i testi siano radicalmente omogenei, all’inverso del
quale vi è la laputana idea che per una certa misura ogni cosa
può essere considerata un testo. Il risultato per quanto
riguarda la pratica critica è la promozione fine a se stessa di
un individualismo retorico nella critica e nei testi studiati,
con l’ulteriore risultato di veder tendere la scrittura delibera-
tamente verso l’alienazione – del critico da altri critici, dai let-
tori, dal lavoro studiato.
L’opprimente ironia di questo deprimente isolamento,
dato il modo in cui siamo visti dai nostri leaders politici
(ovvero come parte del clero secolare di quella che Bakunin
chiama “l’era dell’intelligenza scientifica”), è quasi vertigino-
sa. Una pubblicazione della Commissione Trilaterale del
1975, The Crisis of Democracy, esaminò l’era del post 1960 con
un certo interesse per l’opinione delle masse rispetto alle loro
richieste e aspettative politiche; questo ha prodotto il proble-
ma che gli autori chiamano “governabilità”, poiché risulta
chiaro che la popolazione non è più docile come era un
tempo. Quindi la classe degli intellettuali contribuisce a que-
sta situazione in due modi che derivano direttamente dai
due tipi di intellettuali che le società democratiche contem-
poranee oggi producono. Da una parte ci sono i tecnocrati,
gli intellettuali orientati politicamente, i così detti intellettua-
li responsabili; dall’altra, gli intellettuali “tradizionali”, poli-
ticamente pericolosi e mossi da fini economici. Di norma noi
dovremmo appartenere al primo gruppo, poiché sono i
membri di questo gruppo che si suppone “si dedichino al
discredito del potere, alla sfida dell’autorità e allo svelamen-
to e alla delegittimazione delle istituzioni dello Stato”.
L’ironia, comunque, sta nel fatto che i critici letterari, in virtù

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della loro studiata indifferenza per il mondo in cui vivono e
per i valori attraverso i quali il loro lavoro impegna la storia,
non si vedono per niente come minaccia, se non, al massimo,
come minaccia l’un per l’altro. Certamente essi sono gover-
nabili tanto quanto lo sono sempre stati da quando la vene-
razione dello Stato è diventata una moda, e certamente la
loro devozione passiva per capolavori, cultura, testi e strut-
ture, che vengono presentati nei “loro” testi semplicemente
come imprese funzionali ma raffinate, non pone alcuna
minaccia per l’autorità o per i valori tenuti in circolazione e
gestiti da managers tecnocrati.
Ma in termini più specifici, qual è effettivamente il ruolo
della coscienza critica moderna, della critica d’opposizione?
Lo scenario, in termini decisamente schematici, è quello che
segue. Come ha dimostrato Raymond Williams, parole come
cultura e società acquisiscono un significato concreto ed espli-
cito soltanto nel periodo successivo alla Rivoluzione france-
se. Prima di tale evento, la cultura europea come un tutto si
è definita positivamente in base al suo essere differente dalle
regioni e dalle culture non europee, alla maggior parte delle
quali attribuiva un valore negativo. Tuttavia durante il XIX
secolo l’idea di cultura acquistò una tinta fortemente nazio-
nalistica, con l’effetto che personaggi come Matthew Arnold
hanno portato a termine una vera identificazione tra cultura
e Stato. È il caso in cui le possibilità e le circostanze della pro-
duzione dell’attività culturale o estetica ricevono autorità in
virtù di ciò che chiamo affiliazione, quell’implicita rete di
specifiche associazioni culturali tra forme, affermazioni e
altre elaborazioni estetiche da un lato, e, dall’altro, istituzio-
ni, organizzazioni, classi e forze sociali amorfe. Affiliazione è
una parola abbastanza libera sia per dare l’idea del tipo di
agglomerati culturali di cui parla Gramsci […], sia per per-
metterci di fissare il concetto essenziale di egemonia che guida
l’attività, o l’elaborazione, culturale e intellettuale nella sua
totalità.
Lasciatemi tentare di spiegare l’importanza generale di
questa nozione nell’attività critica contemporanea. In primo
luogo, come generale principio interpretativo, l’affiliazione
mitiga le facili teorie di omologazione e di filiazione, le quali
hanno creato il dominio, utopico nella sua omogeneità, di

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testi connessi ad altri testi solo in modo seriale, immediato e
senza soluzioni di continuità. Per contrasto l’affiliazione è ciò
che permette ad un testo di mantenersi come testo, e questo
è sostenuto da una serie di circostanze: lo status dell’autore,
il momento storico, le condizioni di pubblicazione, la diffu-
sione e la ricezione, i valori che rafforza, i valori e le idee sot-
tintesi, un’intelaiatura di finzioni consensualmente mantenu-
te implicite, il suo presunto background, e così via. In secondo
luogo, studiare l’affiliazione significa studiare e ricreare i
legami tra i testi e il mondo, legami che la specializzazione e
le istituzioni della letteratura hanno del tutto cancellato. Per
certi versi, ogni testo è un atto di volontà, ma ciò che non è
stato molto studiato è la condizione che rende i testi ammis-
sibili. Ricreare la rete affiliale è perciò rendere visibili (ridare
materialità) i fili che legano il testo alla società, all’autore e
alla cultura. In terzo luogo, l’affiliazione libera un testo dal
suo isolamento e impone all’intellettuale e al critico il pro-
blema rappresentativo di ricreare o ricostruire storicamente
le possibilità da cui il testo è sorto. È questo il posto per l’a-
nalisi intenzionale e per lo sforzo di collocare un testo in rela-
zioni omologiche, dialogiche o antitetiche con altri testi, clas-
si e istituzioni.
Niente di tutto questo interesse per l’affiliazione – sia
come principio di ricerca critica sia come aspetto del proces-
so culturale stesso – risulta granché utile a meno che, primo,
non venga generato attivamente da una genuina ricerca sto-
rica (e voglio dire che i critici devono sentirsi come se stesse-
ro facendo scoperte, come se portassero alla luce cose scono-
sciute) e che, secondo, sia finalizzato alla comprensione, all’a-
nalisi e alla lotta dell’amministrazione del potere e dell’auto-
rità all’interno della cultura. Mettiamola in questi termini:
noi siamo umanisti perché esiste qualcosa chiamato umane-
simo, che è legittimato dalla cultura, la quale a sua volta gli
dona un valore positivo. Ciò di cui dobbiamo direttamente
interessarci è il processo storico attraverso il quale il nucleo
dell’ideologia umanista ha prodotto letterati specialisti, che
hanno costruito il proprio ristretto dominio su un qualcosa
chiamato “letteratura” alle cui componenti (inclusa la “lette-
rarietà”) è stata data priorità epistemologica, morale e onto-
logica. Agendo interamente all’interno di questo dominio,

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inoltre, il critico letterario conferma in realtà la cultura e la
società rinforzandone le restrizioni; una conferma che agisce
come sostegno alle società civili e politiche il cui prodotto è
la cultura stessa. Il risultato che si ottiene è ciò che può esse-
re a ragione chiamato un consenso liberale: la ristretta anali-
si formale dei lavori estetico-letterari convalida la cultura, la
cultura convalida l’umanista, l’umanista il critico e l’intera
impresa lo Stato. Questa autorità è mantenuta grazie al pro-
cesso culturale, e al critico raffinato è concesso soltanto raffi-
nare il potere. Allo stesso modo, è vero che la “letteratura”
come agente culturale è divenuta sempre più cieca verso le
proprie reali complicità con il potere. Questa è la situazione
che dobbiamo comprendere.
Si consideri come questa situazione è andata formandosi
nel XIX secolo a partire dal discorso culturale: si pensi imme-
diatamente a personaggi come Arnold, Mills, Newman,
Carlyle, Ruskin. La stessa possibilità di cultura si basa sulla
nozione di raffinatezza. La tesi di Arnold secondo cui la cul-
tura è il meglio di ciò che è pensato o detto conferisce a que-
sta nozione la sua formulazione più compatta. La cultura è
uno strumento per l’identificazione, la selezione e l’afferma-
zione di certe “buone” cose, forme, pratiche o idee al di sopra
delle altre; così facendo la cultura trasmette, diffonde, divide,
insegna, presenta, propaga, persuade e soprattutto crea e
ricrea se stessa come apparato specializzato a fare tutto ciò.
In maniera più interessante, penso, la cultura diviene l’op-
portunità per una rifranta impresa verbale il cui rapporto con
lo Stato è sempre sottostimato e, se mi si permette il soleci-
smo, sottointeso. Il romanzo realistico gioca il ruolo principa-
le in questa impresa, poiché è il romanzo – nel modo in cui è
diventato sempre più “romanzo” nell’opera di James, Hardy
e Joyce – che organizza la realtà e il sapere in modo tale da
renderli predisposti ad una sistematica reincarnazione ver-
bale. Il dar corpo anticipatamente a un mondo, proprio del
romanzo realistico, deve far capo a norme rappresentative e
di rappresentazione scelte tra le molte possibili. Così il
romanzo fa includere, stabilire, affermare, normalizzare e
neutralizzare certi argomenti, valori e idee, ma non altri.
Tuttavia niente di ciò è visibile, direttamente percepibile, nel
romanzo stesso, e singolare missione di molti critici formali-

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sti contemporanei è stata il far sì che l’articolazione estrema-
mente precisa del romanzo riguardo alla propria selettività
apparisse semplicemente o come un fatto di natura o come
un prestabilito formalismo ontologico, e non come il risulta-
to di processi socioculturali. Considerare il romanzo in coo-
perazione con la società nella sua opera di esclusione, di ciò
che Garret Steadman Jones chiama la popolazione bandita,
significa infatti anche vedere come i grandi risultati estetici
del romanzo – in Dickens, Eliot, Hardy – siano il risultato di
una tecnica che rappresenta e si appropria di oggetti, perso-
ne, luoghi e valori in affiliazione con specifiche norme stori-
che e sociali di sapere, comportamento e bellezza fisica.
In una prospettiva più ampia, il romanzo, e con esso le cor-
renti dominanti della cultura occidentale moderna, non è sol-
tanto selettivo e affermativo ma anche centralizzante ed effi-
cace. Gli apologeti del romanzo continuano a rivendicare
l’accuratezza narrativa, la libertà di rappresentazione e simi-
li; l’implicazione che ne deriva è che le opportunità per la
cultura di esprimersi sono illimitate. Tali idee in verità
mascherano e mistificano la rete di scrittori legati allo Stato e
all’imperialismo “metropolitano” mondiale, i quali a loro
volta li riforniscono, nel momento della loro scrittura, di tec-
niche romanzesche di narrazione e di descrizione dotate di
impliciti modelli di accumulazione, disciplina e normalizza-
zione. Ciò che dobbiamo domandarci è perché così pochi
“grandi” romanzieri trattino in maniera diretta i più impor-
tanti fatti sociali ed economici esterni alla loro esistenza –
colonialismo e imperialismo – e perché, pure, i critici lettera-
ri abbiano continuato a onorare questo eclatante silenzio. A
che cosa sono affiliati il romanzo e, per quel che più importa,
il moderno discorso culturale, se non all’interno del linguag-
gio dell’affermazione o della struttura dell’accumulazione,
della negazione, della repressione, e della mediazione che
caratterizzano la maggiore forma estetica? In che modo è
costruito l’edificio culturale per far sì che limiti l’immagina-
zione in alcune maniere e in altre la amplifichi? In che modo
l’immaginazione è connessa ai sogni, alle costruzioni e alle
ambizioni del sapere ufficiale, con il sapere esecutivo, con il
sapere amministrativo? A che livello la cultura ha collabora-
to ai peggiori eccessi dello Stato, dalle guerre imperialistiche

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e dai possedimenti coloniali alle autogiustificanti istituzioni
repressive inumane, agli odi razziali, alle manipolazioni eco-
nomiche e ambientali?
Niente di ciò che sto tentando di spiegare qui rapidamen-
te implica che si voglia mediare o ricondurre la densità spe-
cifica dei singoli prodotti culturali alle forze impersonali che
si suppongono responsabili della loro produzione. Lo studio
dell’affiliazione culturale richiede un’acuta comprensione
della specificità degli oggetti e, ancor più importante, dei
loro ruoli intenzionali, nessuna delle quali si ottiene attraver-
so il riduzionismo o la raffinatezza positivista. Credo che l’e-
spressione di Raymond Williams “materialismo culturale” si
adatti all’atteggiamento metodologico che sto cercando di
descrivere. Essenzialmente la critica letteraria americana può
tentare di uscire dal proprio isolamento, in parte autoimpo-
sto e in parte socialmente determinato, se non altro in riferi-
mento alla storia e alla società. C’è un intero mondo manipo-
lato non solo dalle cosiddette ragioni di Stato ma da ogni
varietà di consumismo astorico, il cui etnocentrismo e la cui
menzogna rendono possibile l’impoverimento e l’oppressio-
ne della maggior parte del globo. Ciò che manca nella critica
d’opposizione contemporanea non è solo il tipo di prospetti-
va che si ritrova nel civilizational approach di Joseph Needham
alla cultura e alla società, ma la sensazione di essere implica-
ti nei processi di affiliazione che perdurano, riconoscibili o
meno, ovunque intorno a noi. Ma, come ho ripetuto più
volte, queste cose hanno a che fare con il sapere, non con la
ricercatezza. Credo che ora l’interrogativo più urgente da
porci sia se abbiamo ancora il lusso di scegliere tra i due.

[Traduzione di Enrico Campanelli].

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