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Ernst Bernhard: il visibile, la parola, l’invisibile


a cura di Roberta Ascarelli

© 2019 Copyright Istituto Italiano di Studi Germanici


Via Calandrelli, 25 – 00153 Roma

Elaborazione grafica della copertina: Studio Aqaba

ISBN: 978-88-95868-46-2
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Ernst Bernhard: il visibile, la parola,


l’invisibile
a cura di Roberta Ascarelli
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Indice

VII Introduzione
1 Giulio Schiavoni, Radici e sconfinamenti: Ernst Bernhard
fra Bildung tedesca e mondo italiano
35 Antonio Vitolo, Ernst Bernhard: tra archetipi e mitobiografia
51 Vittorio Tamaro, Attraversando Eranos con pesci, uccelli e fiori
67 Massimiliano De Villa, Ernst Bernhard e Martin Buber:
pensieri in dialogo
93 Giovanni V.R. Sorge, Sette frammenti inediti di Ernst Bernhard
105 Carlo Laurenti, Ernst Bernhard o come metabolizzare
meteoriti culturali inemulabili
115 Carlo Spartaco Capogreco, Ernst Bernhard internato
(1940-1941)
137 Alberto Saibene, Ernst Bernhard e Adriano Olivetti: una traccia
151 Andrea Cortellessa, Il mentitore e il suo mentore.
Giorgio Manganelli ed Ernst Bernhard
167 Intervista di Alessandro Orlandi a Luciana Marinangeli
177 Vincenzo Loriga, Ritratto di Ernst Bernhard
191 Carla Vasio, Memorie

193 Note biografiche


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Il mentitore e il suo mentore


Giorgio Manganelli ed Ernst Bernhard
Andrea Cortellessa

Mia madre mi vuol bene.


Mi sento bene.
Mi sento bene perché lei mi vuol bene.
Sono bravo perché mi sento bene
mi sento bene perché sono bravo
mia madre mi vuol bene perché sono bravo.
Mia madre non mi vuol bene.
Mi sento male.
Mi sento male perché lei non mi vuol bene
sono cattivo perché mi sento male
mi sento male perché sono cattivo
sono cattivo perché lei non mi vuol bene
lei non mi vuol bene perché sono cattivo.
Ronald David Laing

Viola Papetti, che lo ha conosciuto bene, una volta ha definito quella


di Manganelli un’«anima occhialuta»1. E a parte quelli ben visibili sul
naso del Manga in tutti i suoi riflessi fotografici, non c’è dubbio che gli
occhiali invisibili, quelli psichici, glieli avesse forniti Ernst Bernhard:
«l’uomo», come amava sintetizzare l’autore della Letteratura come men-
zogna, che gli aveva «insegnato a mentire»2.
Di recente Silvano Nigro ha dato notizia di una «pagina di quaderno»
nella quale in poche righe, di questo incontro per lui decisivo, Manganelli
fornisce nel dettaglio gli estremi cronologici nonché l’identità della fi-
gura-tramite (attante ricorrente, questo, nell’aneddotica del Kreis bernhar-
diano)3 e, persino, un primo bilancio dell’esperienza:

1
Viola Papetti, Il sarcofago di Manganelli (1991), in Ead., Gli straccali di Manga-
nelli, Sedizioni, Viddalba 2012, p. 56.
2
Giorgio Manganelli, Ernst Bernhard: ‘comunicazione personale’ (1977), in Id., Il
vescovo e il ciarlatano. Inconscio, casi clinici, psicologia del profondo. Scritti 1969-
1987, a cura di Emanuele Trevi, Quiritta, Roma 2001, pp. 39-46, qui p. 42.
3
Del quale manca una ricostruzione sistematica che darebbe conto di una delle
couches più segrete, e decisive, della cultura italiana di secondo Novecento (tra le figure
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152 Andrea Cortellessa

Penso che vedere la Vittoria Guerrini sarebbe un gesto di libertà. E io ne


ho bisogno. Lo farò. Fu lei a mandarmi da Bernhard; ho chiamato, prima
seduta 2 aprile 1959; è il 23 maggio 1961. Non sono ancora padrone di
me. Lo sarò mai? Venticinque mesi sono molti, vero? Sì sono molti. Ma
ancora voglio stringere i denti: è il mio compito, ora. Voglio essere libero;
essere me stesso; non crollare davanti ai miserabili miti della mia infanzia.
Vàttene, sventurato Edipo. Il cuore batte (di più). Lascialo battere. Poi si
calma. Le sue furie non contano. Conta guarire. Conta la libertà. Conta la
solitudine, che non nego, anzi è il presupposto dell’amore. Conta il rap-
porto con una Magna Mater impersonale, forse un Tao (non una donna sia
Ebe). Non una divinità sia Ebe, volevo scrivere. Ma una donna. Dolce,
aspra, viva, non giovane, ansiosa e degna d’amore; una donna capace di
stanchezza, di malattia, di paura, di disordine; bisognosa di carezze, di
amore, di pareti (lei non lo sa)4.

Vittoria Guerrini è l’ortonimo della scrittrice e saggista pseudonomina-


tasi Cristina Campo5; la «Ebe» che Manganelli afferma di voler sottrarre
(seppure con sintomatico lapsus) all’iperuranio della mitologia greca è Ebe
Flamini, sua compagna di allora e, da allora, la più costante presenza fem-
minile nel suo firmamento; mentre le «furie» sono le altre più intermittenti
presenze, gli spettri muliebri in forma di «comete» che il Manga spera di
aver messo in fuga col suo primo testo letterario compiuto, Hilarotragoedia6
(ancorché destinato alla pubblicazione solo tre anni dopo): compimento so-

che si trovarono più o meno a lungo a passare per lo studio di Via Gregoriana 12 si
ricordano Bobi Bazlen, Giacomo Debenedetti, Adriano Olivetti, Federico Fellini, Amelia
Rosselli, Natalia Ginzburg, Luciano Emmer e Vittorio De Seta). Per la biografia si rinvia
all’Introduzione di Hélène Erba-Tissot all’edizione a sua cura dei pochissimi scritti di
Bernhard, Mitobiografia, Adelphi, Milano 1969, 19853, pp. XIX-XLIV. Decisamente
più idiosincratico Vincenzo Loriga, Ritratto di Ernst Bernhard, in Il corpo e la forma.
Un’estetica per la psicanalisi, numero monografico da lui curato di «La ginestra.
Quaderni di cultura psicanalitica», 1996, pp. 26-42.
4
Cit. in Salvatore Silvano Nigro, Viaggiare è un’esperienza passionale, postfazione
all’edizione a sua cura di Giorgio Manganelli, Cina e altri Orienti [1974], Milano,
Adelphi, 2013, pp. 325-346, qui 327-328.
5
«Cristina Campo va da lui per curare l’agorafobia e le crisi di vomito. Lo vede per
un periodo piuttosto lungo (almeno due anni), anche se non intraprende un’analisi
regolare. Manca per mesi poi, quando l’angoscia le toglie il respiro, si rifugia nello studio
di via Gregoriana [...]. A Bernhard manda gli amici più cari, come Gianfranco Draghi,
che diventerà uno dei dirigenti della Società junghiana». Cristina De Stefano, Belinda e
il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi, Milano 2002, p. 65.
6
Rinvio a due miei contributi: Giorgio Manganelli, il giroscopio dell’anima [2006],
nel mio Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Le Lettere, Firenze 2008,
pp. 189-208; e L’amore col telescopio, in La scommemorazione. Giorgio Manganelli
1990-2010, atti del convegno di Pavia, 11 novembre 2010, numero monografico a cura
di Maria Antonietta Grignani di «Autografo», I (2011), 1, pp. 79-100.
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spirato che risaliva al gennaio precedente e del quale, come vedremo, pro-
prio Ebe aveva chiamato a testimone. In precedenza Manganelli, ha ricor-
dato la figlia Lietta, «aveva provato con un freudiano, ma stava peggio di
prima»7; dopo la morte di Bernhard, nel 1965, affronterà ulteriori analisi
sempre di matrice junghiana, fra gli altri con Nino Lo Cascio e Marcello
Pignatelli, discepoli diretti del suo mentore8; ma alla sua figura resterà sem-
pre legato, ricordandola fra l’altro in una recensione a Mitobiografia, la rac-
colta postuma dei suoi scritti uscita nel 1969, che si legge come un breve,
lampeggiante ritratto, nonché nella già citata testimonianza consegnata nel
1977 a un altro discepolo di Bernhard, Aldo Carotenuto.
Se nella concezione junghiana i simboli dell’arte e della letteratura
sono «come ponti gettati verso una riva invisibile»9, non c’è dubbio che
per Manganelli e la sua generazione sia stato Bernhard – ancorché il suo
magistero di molto si discostasse dall’ortodossia junghiana: se quest’ul-
tima espressione non è un ossimoro – il pontifex chiave. L’uso terapeutico
della scrittura (o della pittura, come inizialmente nel caso di Amelia Ros-
selli)10 derivava a Bernhard dalla produzione di immagini che, aveva
scritto Jung in Scopi della psicoterapia (a sua volta sviluppando il metodo
freudiano della «libera associazione»), può condurre allo scioglimento di
quello da lui chiamato «blocco», cioè il momento in cui «la mia coscienza
non vede più davanti a sé nessuna via e di conseguenza si blocca»11. Sti-

7
Lietta Manganelli, Album fotografico di Giorgio Manganelli (2001), a cura di
Ermanno Cavazzoni, Quodlibet, Macerata 2010, p. 72 (sul rapporto con Bernhard cfr.
pure, ivi, le pp. 59 e 71).
8
Cfr. Viola Papetti, Archeologia del critico, introduzione all’edizione a sua cura di
Giorgio Manganelli, Incorporei felini, vol. 2: Recensioni e conversazioni radiofoniche su
poeti in lingua inglese (1949-1987), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, pp. X-XI.
9
Carl Gustav Jung, Psychologie und Dichtung (1922), trad. it. di Elena Schanzer,
Psicologia e arte poetica, in C.G. J., Opere, a cura di Luigi Aurigemma, Bollati
Boringhieri, Torino 1966-2007, vol. 10.1: Civiltà in transizione: il periodo tra le due
guerre (1985), pp. 355-378, qui p. 346 (si veda il commento a questo passo in Carmelo
Colangelo, Dal motivo all’archetipo. L’approccio junghiano alla letteratura, in
Giancarlo Alfano – Carmelo Colangelo, Il testo del desiderio. Letteratura e psicoanalisi,
Carocci, Roma 2018, pp. 87-104, qui p. 92; per un quadro d’insieme si può vedere, oltre
alla sintesi citata di Colangelo, Rossana Dedola, Freud e Jung: la letteratura come
sintomo o come simbolo?, in Ead., La Via dei Simboli. Psicologia analitica e letteratura
italiana, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 15-36).
10
Cfr. Amelia Rosselli, 15 disegni e acquerelli di Amelia Rosselli, a cura di Stefano
Giovannuzzi, e Tre scritti e un acquerello per Ernst Bernhard, a cura di Chiara Carpita,
nel volume a mia cura La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia Rosselli con testi
inediti e dispersi dell’autrice, Le Lettere, Firenze 2007, pp. 111-128 e 129-135.
11
Carl Gustav Jung, Ziele der Psychotherapie (1929), trad. it. di Elena Schanzer,
Scopi della psicoterapia, in Opere, cit., vol. 16: Pratica della psicoterapia (1981), pp.
43-60, qui p. 50.
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154 Andrea Cortellessa

molando «l’attività creatrice dell’immaginazione», si può secondo Jung


condurre il paziente a uno «stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui
nulla è eternamente fissato e pietrificato senza speranza»12. Ma mentre
per Jung – com’è noto deciso avversatore della letteratura che definiva
«psicologica», cioè riferita alla soggettività individuale – i prodotti della
terapia, scritti o dipinti, nulla hanno a che vedere con l’arte (il fatto che
«siano privi di valore è addirittura essenziale, altrimenti i loro autori cre-
derebbero di essere artisti, e fallirebbero del tutto lo scopo del loro eser-
cizio»13), evidentemente lo stesso non si poteva dire per Bernhard. Quello
che Emanuele Trevi ha chiamato «metodo ‘mitobiografico’» – che pro-
cede ogni volta, «con singolare coerenza», attraverso le tre fasi «Imma-
gine, Commento, Individuazione» – era anzi, stando almeno alle biografie
dei discepoli illustri passati per Via Gregoriana, «una paradossale e fe-
condissima ‘scuola di scrittura’»14.
È piuttosto nota e abbastanza mitica, almeno fra i cultori di Manga-
nelli, la conferenza-psicodramma (acting out vero e recitato insieme) su
Jung e la letteratura, pronunciata da questi nel 1973 a un convegno del-
l’Enciclopedia Italiana su Jung e la cultura europea. In questo che, come
avverte il diretto interessato in abbrivo, «non è come ovvio, un contributo,
ma piuttosto un documento da allegare ad una cartella clinica», collocan-
dosi come fa «tra il comizio, il sogno, l’attacco isterico, la visione, una
moderata invasione psicotica, uno psicodramma improvvisato su un co-
pione abborracciato, una confessione pubblica e in parte collettiva, alla
maniera di certi culti tribali o veterocristiani»15, si leggono tante afferma-
zioni entrate a pieno titolo nell’ideario-standard di Manganelli. La più in-
teressante, per il prosieguo del mio discorso, è quella secondo la quale
l’«esperienza analitica» avrebbe avuto anzitutto il merito di «restituire la
centralità al momento infernale della cultura». È in particolare nella let-
teratura che «il momento infernale è assolutamente centrale»: «l’aver re-
cuperato questo come dignità psicologica è un fatto estremamente
importante e Jung l’ha fatto, ma la letteratura lo ha sempre fatto, la lette-
ratura dall’inizio del romanticismo in poi abita esclusivamente all’inferno

Ivi, p. 54.
12

Ivi, p. 56.
13
14
Emanuele Trevi, Come si diventa uno scrittore: lo spazio psichico di Giorgio
Manganelli, postfazione all’edizione a sua cura di Giorgio Manganelli, Il vescovo e il
ciarlatano, cit., pp. 87-106, qui p. 99.
15
Giorgio Manganelli, Jung e la letteratura, in Jung e la cultura europea, Atti del
convegno di Roma, 21-22 maggio 1973, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1974,
pp. 235-244; poi in Id., Antologia privata, Rizzoli, Milano 1989 (e Quodlibet, Macerata
20152); infine in Id., Il vescovo e il ciarlatano, cit., pp. 15-30, qui p. 15.
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e ci sono degli scrittori che noi sentiamo benissimo che cominciano a fun-
zionare nel momento in cui entrano nell’inferno»16.
Che quella all’inferno fosse stata da molto presto, nel vissuto psichico
di Manganelli, la collocazione più congeniale, lo dicono passim tanto le
sue opere pubbliche, da Hilarotragoedia alla Palude definitiva passando
appunto per Dall’inferno17, che i documenti privati resisi a oggi disponi-
bili. Sul suo incontro con Bernhard, per esempio, esiste anche un’altra te-
stimonianza, in tutti i sensi più a caldo di quella che citavo all’inizio: una
lettera di Manganelli al fratello Renzo, del 3 aprile 1959, pubblicata dalla
figlia Lietta nel volume di «lettere familiari» Circolazione a più cuori.
All’indomani di «una durissima crisi: di quelle verticali», annuncia Man-
ganelli: «ieri pomeriggio sono andato dallo psicanalista: così non mi è
più possibile andare avanti». Dopo un’ora, ecco la prognosi: «il medico
mi ha detto che è una situazione caotica, ma che è risolvibile: e forse in
non gran tempo». Segue, del medico, questo brevissimo ritratto: «mi dà
molta fiducia: so che ha guarito casi assai inquietanti. È un anziano tede-
sco, vive a Roma da molti anni. Speriamo sia la strada buona»18. Allo
stesso Renzo qualche anno prima aveva consegnato di sé, Manganelli, il
seguente ‘quadro clinico’:

Ormai mi è chiaro che io sono sempre stato uno squilibrato, sempre da


quando avevo sei o sette anni, e le liti di famiglia mi gettavano in preda
all’angoscia più disperata, angoscia che deve aver rotto qualcosa che
non ho più potuto aggiustare; e la mia intelligenza è stata sempre oscu-
rata da fantasmi, sofferenze, paure, che continuamente mi hanno propo-
sto soluzioni disperate, o invitato a lasciami naufragare nella totale
anarchia mentale, forse la pazzia. […] Sono due anni che lotto in totale
solitudine contro le angosce, i terrori, una ricorrente struggente voglia
di farla finita, e il terrore che un giorno la malattia mi tolga modo di la-
vorare, o mi getti in una «clinica di malattie nervose», a farmi frullare
dagli elettrochok, o vivere una vita continuamente insidiata dal crollo
totale dell’intelligenza19.

16
Ivi, p. 23.
17
Rinvio a Giorgio Manganelli, l’inferno del nostro affanno, nel mio Libri segreti,
cit., pp. 257-296. In particolare su Dall’inferno, testo davvero estremo del 1985, si
veda Gilda Policastro, La tanatologia parodica di Giorgio Manganelli, in Ead., In
luoghi ulteriori. Catabasi e parodia da Leopardi al Novecento, Giardini, Pisa 2005,
pp. 101-128.
18
Lettera di Giorgio Manganelli a Renzo Manganelli del 3 aprile 1959, in Giorgio
Manganelli, Circolazione a più cuori. Lettere familiari, a cura di Lietta Manganelli,
Aragno, Torino 2008, p. 159.
19
Lettera di Giorgio Manganelli a Renzo Manganelli del 2 novembre 1955, ivi, pp.
146-147.
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In clausola, tanto alla lettera in cui annuncia l’epifania di Bernhard


che a questa, la raccomandazione a Renzo di non far cenno di queste
confessioni alla ‘mamma’: «mia madre mi ebbe tra le mani indifeso
quando ero all’inizio della mia storia: ma non si accorse di niente, e mi
camminò sopra storpiandomi per sempre»20. Una frase che ricorda quelle
celebri (ma a quell’altezza sconosciute da Manganelli), scritte da Carlo
Emilio Gadda al suo ritorno davvero infernale dalla Grande guerra, nelle
ultime pagine del Giornale di guerra e di prigionia: «Con la Mamma
fui cattivo e prevedo che sarò sempre», «mi logoro stupidamente l’anima
perché la Mamma non fa quello che vorrei. (E perché, dico io, vuol più
bene ai muri di Longone, alle seggiole di Milano, che a me, che a Clara
malata»)21. È il nodo nevrotico che troverà scioglimento solo vent’anni
dopo, nei lancinanti ‘tratti’ della Cognizione del dolore; ma il notissimo
aneddoto dell’incontro-scontro fra i due scrittori alla pubblicazione di
Hilarotragoedia, che Gadda prese come una parodia appunto della sua
Cognizione (finalmente uscita in volume l’anno prima), era davvero
frutto di una poligenesi (ha commentato Lietta Manganelli: «ma che
colpa aveva lui se in quell’epoca c’era in giro abbondanza di madri
matte? Caro ingegnere, ne abbiamo una a testa, per questo i libri alla fine
un po’ si somigliano»)22: infatti espressioni di simile angoscia, come di-
cevo, appaiono frequenti tanto negli Appunti critici del 1948-195623 che
nelle lettere a Giovanna Sandri risalenti al 1955-195824. Quando nel ’67
muore Amelia Censi, sua madre, Manganelli scrive un appunto in cui
parafrasa blasfemo l’attacco dell’ultimo canto del Paradiso dantesco
(«Vergine Madre, figlia del tuo figlio»):

20
Ivi, pp. 147-148.
21
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia (1955-1991), in data
«Milano, 10 settembre 1919», in Id., Opere, edizione diretta da Dante Isella, vol. 4:
Saggi giornali favole II, Garzanti, Milano 1992, pp. 863-864.
22
Lietta Manganelli, Album fotografico di Giorgio Manganelli, cit., pp. 54-55. Al
fait divers in questione Tiziano Scarpa ha dedicato un divertente testo teatrale, Il
Professor Manganelli e l’Ingegnere Gadda, pubblicato nel numero su Giorgio
Manganelli di «Riga» cit. alla nota seguente, alle pp. 26-68, e poi raccolto in Id., Comuni
mortali, Effigie, Milano 2007.
23
Rinvio al momento (in attesa che trovi la strada della pubblicazione l’edizione
integrale di questo documento-chiave, da tempo allestita da Federico Francucci) alla
selezione dagli Appunti critici pubblicata a mia cura nel numero monografico di «Riga»
su Giorgio Manganelli, a cura di Marco Belpoliti e mia, Marcos y Marcos, Milano 2006,
pp. 71-99.
24
Cfr. Giorgio Manganelli – Giovanna Sandri, Costruire ricordi. Ventisei lettere di
Giorgio Manganelli e una memoria di Giovanna Sandri, a cura di Graziella Pulce,
Archinto, Milano 2003.
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è il 17 luglio, mia madre, mia madre è morta, mia madre è morta da dieci
giorni, è una morta giovane, una neomorta, lo sfintere impotente dell’ago-
nia preannuncia lo sfintere ineducato dell’infanzia. Se esiste un’infanzia
dei morti. Se i morti imparano a camminare (apparire?). Se i morti abbiano
genitori. Sì: io sono la madre di mia madre25.

Pur denunciando quella che chiama «una condizione di assoluta di-


sperazione», è difficile non percepire altresì, in queste parole violente di
Manganelli, un senso di liberatoria euforia: probabilmente non così di-
verso da quello che dovette provare Gadda alla morte della madre, Adele
Lehr, nel 1936. Quando cioè finalmente, all’indomani di quella cesura,
riuscì appunto a mettere mano alla Cognizione del dolore.
Come ricordato dallo stesso Manganelli nell’appunto del 1961 dal
quale ho preso le mosse, il complesso materno è uno dei cavalli di battaglia
di Bernhard: il quale gli dedicò l’unico suo testo pubblicato, Il complesso
della Grande Madre, uscito proprio in quel 1961 su «Tempo presente».
Quel principio positivo di accoglienza, «sopportazione» e «tolleranza»26,
col quale Bernhard – con una certa generosità – connota la psicologia col-
lettiva degli italiani, «civiltà di stampo matriarcale»27, è però proprio lui a
spiegare come possa capovolgersi nel suo contrario: «la buona madre nu-
trice e protettrice si trasforma nel proprio aspetto negativo, nella cattiva
madre, che trattiene, che divora, e che con le sue pretese egoistiche impe-
disce ai figli il raggiungimento dell’indipendenza e li rende infermi e in-
felici»28. Si potrebbe dire che si trasforma, specie in caso di padre assente
o debole (come capitò tanto a Manganelli che a Gadda, ma anche – per il
più tragico dei motivi – a un’altra illustre ‘paziente’ di Bernhard, Amelia
Rosselli)29, in un deutero-padre – che del principio paterno mantiene solo
l’istanza regolativa e tirannica. È una Madre-Crono quella che ti cammina
sopra e ti storpia per sempre: e a questa ferita d’origine non c’è cura, per-

25
Cit. in Salvatore Silvano Nigro, La ruggine dell’anima, postfazione all’edizione
a sua cura di Giorgio Manganelli, Vita di Samuel Johnson, Adelphi, Milano 2008, pp.
97-113, qui p. 101.
26
Ernst Bernhard, Il complesso della Grande Madre. Problemi e possibilità della
psicologia analitica in Italia (1961), in Id., Mitobiografia, cit., pp. 168-179, qui p. 170.
27
Ivi, p. 173. Da questo scritto di Bernhard ha preso spunto Marco Belpoliti per una
lettura antropologica del Manganelli corsivista in Mamma, mammifero, postfazione
all’edizione a sua cura di Giorgio Manganelli, Mammifero italiano, Adelphi, Milano
2007, pp. 131-147.
28
Ernst Bernhard, Il complesso della Grande Madre, cit., p. 171.
29
Rinvio ad Amelia Rosselli, una vicinanza al Tremendo (1997), nel mio La fisica
del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Fazi, Roma 2006, pp. 317-
330 e 720-726.
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158 Andrea Cortellessa

ché – conclude Manganelli nel Discorso dell’ombra e dello stemma – «la


dannazione dell’infanzia è irreparabile»30.
Conversando col figlio Emanuele ha ricordato il più originale fra i suoi
allievi, Mario Trevi, che per Bernhard «la cosa più importante era il processo
di differenziazione dall’eredità collettiva, dal mondo dei ‘genitori’, in senso
proprio e in senso ampio». Questo, in nuce, il senso più decisivo del pro-
cesso d’individuazione: «c’è qualcosa di cui bisogna liberarsi, lo possiamo
chiamare un inconscio familiare, il sedimento dell’ereditarietà, ciò che im-
pedisce lo sviluppo pieno dell’individuo dotato della sua libertà»31.
Uno psichiatra decisamente poco junghiano, Ronald D. Laing, ha de-
finito nodi questo tipo di legami famigliari doppi, e strettamente vinco-
lanti, che è tanto doloroso sciogliere quanto recidere32. Ma a così definire
in particolare l’inibizione al linguaggio, e nello specifico quella alla scrit-
tura, è stato addirittura padre Dante: nel celebre episodio dell’incontro
con Bonagiunta Orbicciani nel XXIV canto del Purgatorio. Quando, po-
lemizzando colla scuola rivale dei seguaci di Guittone d’Arezzo, e un’ul-
tima volta professando di contro la propria estrazione dalla più dolce e
segreta scuola dei Fedeli d’Amore stilnovisti, il pellegrino asserisce:

I’ mi son un che, quando


Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando. (Purg., XXIV, 52-54)

Al che il povero Bonagiunta deve ammettere:


«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che l’ Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!». (Purg., XXIV, 55-57)

Al compianto Guglielmo Gorni si deve un saggio molto bello, Il nodo


della lingua e il verbo d’amore, nel quale faceva notare tra l’altro come di

30
Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma: o del lettore e dello
scrittore considerati come dementi (1982), a cura di Salvatore Silvano Nigro, Adelphi,
Milano 2017, p. 48. Su questo nesso cfr. Gilda Policastro, Madri / Inferi, in Giorgio
Manganelli, numero monografico cit. di «Riga», pp. 378-394.
31
Emanuele Trevi – Mario Trevi, Invasioni controllate, Castelvecchi, Roma 2007, p.
59. Mario Trevi ha trattato più estesamente e ‘tecnicamente’ questo nodo in un saggio
davvero illuminante: Per uno junghismo critico (1987), in Id., Per uno junghismo critico.
Interpretatio duplex, Fioriti, Roma 2000, pp. 1-118 (si vedano in particolare le pp. 61-90).
32
Cfr. Ronald D. Laing, Knots (1970), trad. it. di Camillo Pennati, Nodi. Paradigmi
di rapporti intrapsichici e interpersonali, Einaudi, Torino 1976; con un’introduzione di
Stefano Mistura, ivi, 20076.
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quel blocco espressivo nello stesso Purgatorio, sei canti più avanti, venga
raccontato – proustianamente, direbbe Gianfranco Contini33 – lo sciogli-
mento34. Il pellegrino è giunto alla sommità della montagna bruna e quella
che gli appare è Beatrice, destinata a sostituirsi a Virgilio quale guida nel
prosieguo del percorso ultraterreno. È una Beatrice dura, severa, vindice,
che si manifesta virile e militare come ammiraglio. E che lo aggredisce:
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?». (Purg., XXX, 73-75)

Allora il pellegrino abbassa gli occhi, e si rispecchia su una superficie


d’acqua:
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte. (Purg., XXX, 76-78)

Segue, a commentare questa situazione di vergogna, un paragone –


per noi – deflagrante:
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba. (Purg., XXIV, 79-81)

A questo punto si leggono quindici versi che sono, a mio modesto pa-
rere, i più belli mai scritti nella nostra lingua (Sì come neve tra le vive
travi, con quel che segue). È il momento in cui Dante, letteralmente, si
scioglie in pianto:
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto. (Purg., XXIV, 97-99)

33
Cfr. Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia (1957),
in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970,
pp. 335-361.
34
«Nella poesia di Dante, e ciò non è vero solo per il Purgatorio, non si dà stato di
grazia senza far misurare nel contempo la distanza dal punto negativo di partenza; non
si dà libertà senza impaccio superato o nodo sciolto; non c’è scatto senza sofferto
accumulo di energie interne». Guglielmo Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d’amore.
Studi su Dante e altri duecentisti, Olschki, Firenze 1981, pp. 13-14. Nell’episodio di
Bonagiunta si compone così «una storia della poesia volgare in cui il novo sviluppa dal
nodo». Ivi, p. 15 (la metafora del «nodo della lingua» viene poi rintracciata,
dall’erudizione di Gorni, in Aulo Gellio, nello storico Giustino e nel Vangelo di Marco,
«nel racconto del miracolo del sordomuto sanato da Gesù»: 7,35).
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160 Andrea Cortellessa

Solo dopo questo scioglimento Beatrice riacquista il suo sorriso, e il


suo principio materno da negativo torna positivo. Finalmente si può pren-
dere il volo per il Paradiso.
Fra le tormentatissime carte preparatorie di Hilarotragoedia Mariarosa
Bricchi ha trovato un’incredibile lettera indirizzata da Manganelli a Ebe
Flamini. È il 19 gennaio 1961, e dopo quasi due anni di combattimento
(iniziato proprio all’indomani della presa di contatto con Bernhard, nel
’59) la stesura dell’opera prima si è finalmente conclusa (anche se poi
uscirà in pubblico solo tre anni dopo, da Feltrinelli):

FINE sto piangendo, non so se di gioia; son le ore sei e sei minuti del 19
gennaio 1961; sto scrivendo in casa Magnoni, nella mia stanza, e sono solo
in casa; è un freddo giovedì, sereno di cielo; alle otto e venti devo vedere
Ebe a Porta Pia, davanti al cinema Europa; non so ancora se le dirò che
HO SCRITTO UN LIBRO ore 6 e 8 minuti35.

Il nodo della lingua, anche in questo caso, si scioglie solo nel freddo
– e nel pianto.
Ma il nodo di Manganelli è ancora più intricato. Perché se la letteratura
abita esclusivamente all’inferno, ma se alla scrittura si può accedere solo
sciogliendo i suoi ghiacci, quello in cui ci troviamo è un doppio legame. Si
chiederà Manganelli nel Discorso dell’ombra e dello stemma: «dunque scri-
vere ‘cura’? Oh no; scrivere è un sintomo, ma a questo sintomo v’è, sola
alternativa, il sintomo di sopprimere i sintomi»36. Se «l’incantesimo verbale,
il discorrere, è una cerimonia con l’ombra»37, l’analista dovrà consentirci
di accedere a questa cerimonia, senza però privarci mai del tutto dell’ombra
che ne è sostanza ultima. E infatti nel primo dei suoi ritratti a memoria di
Bernhard dice Manganelli: il «‘guaritore’ è dalla parte dell’ombra, l’alleato
operoso della malattia; la sofferenza può essere nevrosi e iniziazione ma
forse tra i due termini la continuità è assoluta» (tanto è vero che, nota Man-
ganelli un clic verbale del mentore, «Bernhard scrive che il paziente deve
venire ‘contagiato’ dalla sanità del terapeuta; squisita ambivalenza, che
chiude tutto il senso tragico di quella lenta operazione maieutica: altrove
leggiamo che da un labirinto di esce solo per trapassare ad altro labirinto»)38.

35
Cit. in Mariarosa Bricchi, Manganelli e la menzogna. Notizie su Hilarotragoedia
con testi inediti, Interlinea, Novara 1999, p. 18.
36
Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma, cit., p. 47.
37
Ivi, p. 60.
38
Giorgio Manganelli, La metamorfosi del gran guaritore (1969), in Id., Il vescovo
e il ciarlatano, cit., p. 12. Sempre a Mario Trevi (nel volume suo e di Augusto Romano,
Studi sull’ombra [1975], Cortina, Milano 2009) si deve una fondamentale revisione del
concetto junghiano di ombra, certo debitrice nei confronti di Bernhard.
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Il mentitore e il suo mentore. Giorgio Manganelli ed Ernst Bernhard 161

Per lo scrittore si tratta dunque di usare quest’ombra – questa soffe-


renza, questo labirinto, questo inferno – per farne qualcos’altro. Secondo
la sentenza memorabile della Letteratura come menzogna:

Beckett aveva «qualcosa da dire»: per uno scrittore, inizio rovinoso. Il pro-
blema è, sempre, di trasformare quel «qualcosa da dire» in struttura, in lin-
guaggio; prendere la propria «verità» per i capelli e trascinarla in una regione
in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso; trattarla come la convenzione
propria di un genere, o uno schema metrico, o un’arguzia allitterativa39.

Ancora più diretta, questa indicazione, in un testo privatissimo come


una delle Due lettere scritte alla cognata Angiola, nel 1973, per topica-
mente consolarla della morte del marito Renzo (proprio il fratello al quale
Giorgio aveva per primo annunciato il suo contatto con Bernhard), e che
rappresentano la punta visibile di quell’iceberg ancora in gran parte da
indagare che è la profonda, mai del tutto ‘rientrata’ religiosità di Manga-
nelli40: «il dolore deve insieme restare intero e trasmutarsi», le scrive; e
aggiunge: «bisogna che tu adoperi il tuo dolore, […] che tu lo viva come
lo scrigno misterioso e sacro che chiude il segno del tuo nuovo destino,
della tua nuova luce, della nuova forma del tuo amore»41.
Questo vuol dire avere imparato a mentire da Bernhard: grazie ai suoi
esorcismi aver preso per i capelli l’inferno della propria «verità» – bio-
grafica, sentimentale, affettiva – e avervi proiettato quell’«ombra» che «è
insieme tenebra e illuminazione – non ‘luce’»42. Sino a che il vero non
abbia alcun privilegio sul falso. In un’intervista tarda dirà Manganelli
che di Bernhard gli è «rimasta […] la sua capacità di sostituire sistema-
ticamente la fede con la superstizione». Per poi precisare:

Quando sono andato da Bernhard, di Jung non conoscevo niente. Cono-


scevo abbastanza bene Freud mentre di Jung avevo letto solo poche cose

39
Giorgio Manganelli, Qualcosa da dire (1965), in La letteratura come menzogna
(1967), Adelphi, Milano 1985, pp. 95-98, qui p. 97.
40
Rinvio al mio Al Leopardi ulteriore. Giorgio Manganelli e le Operette morali, in
«Quel libro senza uguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, a cura di Novella
Bellucci – Andrea Cortellessa, Bulzoni, Roma 2000, pp. 335-406. Si dovrà riflettere,
per approfondire questa tematica, su una notazione che Bernhard fa en passant nel suo
discorso sul Complesso della Grande Madre (cit., p. 174): «Una autorità che rispecchia
in modo singolare il processo evolutivo e l’opera della Grande Madre in Italia, è la
Chiesa Romana».
41
Lettera di Giorgio Manganelli ad Angiola Manganelli del 29 maggio 1973, in
Giorgio Manganelli, Due lettere, Adelphi, Milano 1990; ora in Id., Circolazione a più
cuori, cit., pp. 178 e 180.
42
Id., Discorso dell’ombra e dello stemma, cit., p. 60.
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162 Andrea Cortellessa

e, tutto sommato, allora avrei scelto Freud come maestro. Dopo ho capito
che la differenza profonda tra Jung e Freud è che Jung è un po’ pasticcione,
ed è straordinariamente importante che lo sia, mentre Freud non lo è per
nulla. La differenza è che Jung spesso ha il tocco magico del ciarlatano
che Freud non ha mai […] allora, in fondo, avevo un’idea coerente di me.
Avevo l’idea che avrei dovuto essere un’unica immagine coerente. Avere
un’unica autobiografia.

La prima cosa che ha provocato in lui «l’impatto con Bernhard» – pro-


segue Manganelli (ricordando subito dopo le Autobiographies al plurale
di uno dei suoi phares decisivi, William Butler Yeats),

è stato proprio rompere quella idea lì. L’idea della unicità dell’io e quindi
una decomposizione dell’immagine della mia personalità, di quello che io
ero. […] L’autobiografia è un genere plurale […]. Noi siamo continua-
mente altre persone e continuamente percorriamo nuove strade. Ecco,
anche questo mi viene da Bernhard: aver capito che la strada giusta è fatta
da un’infinità di strade sbagliate43.

In aggiunta (e parziale correctio) alla menzogna, un ulteriore connotato


che Manganelli associava all’insegnamento di Bernhard era infatti il se-
guente: «era un uomo che voleva essere frainteso»44. Da lui viene dunque,
altresì, l’inquieta serendipity (se anche questo non è un ossimoro) del
Manganelli maturo, il suo abbandonarsi all’erranza, all’errore (Tutti gli
errori è il titolo eloquente di un suo libro di racconti, pubblicato nell’86),
del quale il Discorso sull’ombra e sullo stemma è una specie di grande
protrettico (sino a pregiare, alla maniera di Savinio, la virtù rivelatoria e
salvifica del refuso di stampa)45.
Tale indifferenza alla certezza, l’«estraneità alla verità»46 appresa da
Bernhard (in realtà «una bella proiezione» secondo Mario Trevi)47, è per
Manganelli «una questione di spostamento di ottica. Bernhard ti spo-
stava la visuale, cioè ti cambiava la tua autobiografia»48. In un’intervista

43
Caterina Cardona, Io, Manganelli, un dizionario impazzito (1990), in Giorgio
Manganelli, La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990, a cura di
Roberto Deidier, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 223-227, qui pp. 225-226.
44
Giorgio Manganelli, Ernst Bernhard: ‘comunicazione personale’, cit., p. 42.
45
Cfr. Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma, cit., p. 130.
46
Caterina Cardona, Io, Manganelli, un dizionario impazzito, cit., p. 227.
47
«In che senso qualcuno può desiderare di ‘essere frainteso’?», gli chiede il figlio
Emanuele; e Trevi risponde: «Secondo me, questo si adatta più a Manganelli stesso che
a Bernhard. È una bella proiezione. […] È lui, non Bernhard, che nei suoi libri esige di
essere frainteso, o meglio, forse, inteso in varie maniere». Mario Trevi – Emanuele Trevi,
Invasioni controllate, cit., p. 59.
48
Caterina Cardona, Io, Manganelli, un dizionario impazzito, cit., p. 226.
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Il mentitore e il suo mentore. Giorgio Manganelli ed Ernst Bernhard 163

precedente, quella a Laura Lilli sulla depressione che è tra le sue più ri-
velatorie, si legge:

La psicoanalisi può anche funzionare non come cura, ma per la sua ma-
ieutica. Voglio dire, ti sposta. Il mondo, così com’è, è ‘illeggibile’ per il
nevrotico. Qualcosa (e ammetto che potrebbe anche essere la psicoanalisi)
deve fargli capire che, per ‘leggerlo’, deve precisamente, spostarsi […]. È
l’anamorfosi […] una tecnica pittorica per cui un oggetto viene dipinto in
modo che, guardando il quadro frontalmente, risulti invisibile. Se ti sposti,
vedi l’oggetto49.

Gli ‘occhiali’ psichici dei quali Bernhard aveva equipaggiato Manga-


nelli erano davvero uno strumento ottico. Anche se corredato da lenti de-
formanti. Quello stesso anno, a Ludovica Ripa di Meana, Manganelli
espone un concetto simile impiegando un poco vulgato termine inglese:
«se vogliamo trovare un nodo centrale, è per me la centralità del negativo,
come punto di vista, come punto di fuga e come punto di vista e come van-
tage point da cui tutto il resto procede […]. Vantage point è il punto su cui
si mette la sentinella, e quindi vede più di quel che gli altri possono ve-
dere»50. È quello del negativo, per la precisione, il punto di vista privilegiato
che produce l’anamorfosi maieutica: un’ombra come può essere la depres-
sione. Per dare un’immagine della quale, non a caso, Manganelli torna alla
prediletta imagery dantesca, infernale: «La Divina Commedia. L’inizio è
una descrizione perfetta della depressione come luogo linguistico»51.
Resta a questo punto un ultimo interrogativo. Come mai proprio Bern-
hard fu per Manganelli – e non solo per lui – il Grande Guaritore? Quel
Guaritore che si guardava bene dal guarire, in effetti, preferendo spostare
in misura decisiva il punto di vista di chi lo ascoltava, quell’incarnazione
perfetta «del fool e del prete», «del vescovo e del ciarlatano» che era per
Manganelli l’analista52, era secondo lui una figura accostabile, quasi uno
specchio rovesciato, a quella dello scrittore mentitore.
C’era un particolare decisivo, nella personalità di Bernhard, che glielo
poteva rendere con ogni probabilità più attraente di ogni freudiano, non-
ché dei suoi stessi discepoli. Nel profilo del 1969, dopo averlo descritto

49
Laura Lilli, In quella selva oscura (1981), in Giorgio Manganelli, La penombra
mentale, cit., pp. 88-91, qui p. 90.
50
Ludovica Ripa di Meana, Nel paese di Manganelli (1981), ivi, pp. 63-87, qui p. 72.
51
Laura Lilli, In quella selva oscura, cit., p. 91. Su Manganelli e Dante cfr. Graziella
Pulce, Giorgio Manganelli. Figure e sistema, Le Monnier, Firenze 2004, pp. 36-37;
Raffaele Manica, Manganelli, tre improvvisi: Ombre dantesche (2006), in Id., Exit
Novecento, Gaffi, Roma 2007, pp. 201-211.
52
Giorgio Manganelli, Jung e la letteratura, cit., p. 29.
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come quasi un archetipo dell’esule («Nel 1936 giungeva a Roma Ernst


Bernhard, lasciandosi alle spalle, da esule, la Germania, e in tal modo ve-
rificando in sé la vocazione dello sradicato, dell’errante»53), fa cenno alla
nota renitenza alla scrittura per cui, a parte il citato scritto sulla Grande
Madre, tutti i frammenti di Mitobiografia sono frutto di trascrizioni da
parte degli allievi, in primis Hélène Erba-Tissot, dalle sue conversazioni54:

Che Bernhard non abbia pensato e scritto un suo libro, è fatto che va in-
terpretato. Non lo scrisse non solo perché come diceva, era impossibile
«chiudere in un in-quarto» la sua esperienza, ma perché […] Bernhard era
l’uomo di una dimensione in cui la letteratura, lo scrivere ignoravano la
cristallizzata oggettualità del libro55.

Di recente Luciana Marinangeli ha pubblicato alcuni frammenti di una


postrema registrazione di Bernhard fatta nel giugno del ’64 da Silvia Ros-
selli, cugina di Amelia e sua discepola a sua volta56:

Il problema dello scrivere è collegato alla mia prima infanzia […] quando
non riuscivo a scrivere a scuola perché non potevo difendere il mio stile e
la mia impostazione di fronte a quella di mio padre. Mio padre era il mio
contro-tipo. Con il suo metodo di costringermi a seguire il suo stile e i suoi
pensieri, malgrado la mia resistenza e che però non potevo sostituire con
un altro scrivere mio, ho perso tutta la spontaneità e tutta l’immediatezza
nello scrivere57.

Dunque anche nel passato di Bernhard si nascondeva un genitore – in


questo caso un padre dalle fattezze kafkiane – che gli aveva camminato
sopra storpiandolo per sempre. Davvero, e oscuramente, uno come Man-

Giorgio Mangenelli, La metamorfosi del gran guaritore, cit., p. 10.


53

Si deve a Luciana Marinangeli la pubblicazione di uno straordinario repertorio


54

epistolare bernhardiano (scritto in un italiano d’invenzione, dovuto all’esigenza di non


insospettire la censura fascista), quello delle Lettere a Dora dal campo di internamento
di Ferramonti (1940-41). Con le lettere di Dora da Roma, Aragno, Torino 2011. Dora
Friedländer, ebrea a sua volta per un quarto, era restata a Roma mentre il marito Ernst,
imprigionato a Regina Coeli nel giugno del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia fascista,
e poi trasferito nel campo di Ferramonti in Calabria, ne verrà liberato nell’aprile
dell’anno seguente solo grazie all’intervento del grande orientalista Giuseppe Tucci,
firmatario nel ’38 delle Leggi razziali ma in seguito spesosi a più riprese per salvare gli
ebrei.
55
Giorgio Manganelli, La metamorfosi del gran guaritore, cit., p. 11.
56
Di Silvia Rosselli è lettura suggestiva il memoir pubblicato col titolo Gli otto venti,
a cura di Cristina Zaremba, postfazione di Zefiro Ciuffoletti, Sellerio, Palermo 2008.
57
Lettera di Ernst Bernhard a Silvia Rosselli del giugno 1964, cit. in I Ching di Ernst
Bernhard. Una lettura psicologica dell’antico libro divinatorio cinese, a cura di Luciana
Marinangeli, La Lepre Edizioni, Roma 2015, p. 10.
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Il mentitore e il suo mentore. Giorgio Manganelli ed Ernst Bernhard 165

ganelli e lui avevano «qualche cosa da dirsi»58. Era forse proprio per que-
sto che tanti spiriti annodati trovarono in lui la spinta decisiva a sciogliersi
(oppure, come nel caso di Bobi Bazlen, a spostare comunque, in modo
efficace, il proprio talento)59. Più che un pontifex, in effetti, Bernhard era
stato per tutti loro un ponte: come quello di cui aveva parlato il suo mae-
stro, gettato verso una riva invisibile. Quella riva, però, potevano rag-
giungerla loro, non lui. Come in quell’apologo tormentoso di Kafka: il
destino del ponte e di chi lo percorre non potranno mai congiungersi, poi-
ché il primo non può mai voltarsi a vedere il secondo. Pena il precipitare,
straziarsi e infilzarsi sui sassi aguzzi ai suoi piedi60.

58
«Spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo
qualcosa da dirci». Giorgio Manganelli, Jung e la letteratura, cit., p. 22.
59
Eloquente il sottotitolo della bella biografia di Cristina Battocletti, Bobi Bazlen.
L’ombra di Trieste, La nave di Teseo, Milano 2017.
60
Cfr. Franz Kafka, Die Brücke (1917), trad. it. di Ervino Pocar, Il ponte, in Durante
la costruzione della muraglia cinese, in Racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori,
Milano 1970, pp. 381-382.

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