[postfazione a Lorenzo Carlucci, Ciclo di Giuda e altre poesie, L'Arcolaio, Forlì
2008]
di Matteo Veronesi
Il Vangelo di Giuda, di cui le sabbie di Nag Hammadi hanno da poco restituito
una versione copta, era già indirettamente noto attraverso gli eresiologi della prima età cristiana. Ne parlava, in particolare, Ireneo di Lione nell'Adversus haereses, accennando ai Cainiti, che, in chiave gnostica, consideravano Giuda un illuminato, profondamente compartecipe dei misteri del divino, detentore di una sapienza assoluta ed arcana, e coinvolto, in modo essenziale e necessario quanto paradossale, nel disegno della salvezza e della redenzione, e celebravano il mysterium proditionis, l'arcano e tragico mistero (forse nel duplice senso di segreto e di rito, di enigma e di festa mistica, di viluppo inesplicabile e di via d'accesso al regno del sacro) del tradimento decisivo e fatale, senza il quale, del resto, il disegno della salvezza sarebbe rimasto incompiuto. Tacito, assorto e tormentato inno al "mistero del tradimento" è anche questo Ciclo di Giuda di Lorenzo Carlucci, nella cui poesia la ricerca letteraria si fonda su una assidua riflessione intorno al linguaggio, e si sposa ad una insistita ricerca culturale, e ad una inesausta interrogazione logica ed ontologica. La modernità stessa, del resto, dal Freud del Motto di spirito a Svevo, da Pirandello al Joyce di The Finnegan's wake, ci ha insegnato che il linguaggio stesso (assuma esso la forma, verticale e anagogica, della rivelazione che allude e nel contempo cela - del simbolo che, diceva Thomas Carlyle, insieme svela e nasconde, addita ed occulta - o, piuttosto, quella proteiforme ed ingannevole della parola ambigua, che significa se stessa, altro e forse l'opposto, o magari le configurazioni apparentemente limpide, marmoree, indubitabili, e proprio per questo potenzialmente mistificanti, del linguaggio formalizzato e del metadiscorso logico-scientifico) è sempre, o può sempre essere, menzogna, sortilegio, incantesimo, abile gioco (ludus, paignion) che simula e dissimula, che trasfigura o nasconde, che sublima o deforma, lasciando intravedere (specie nel caso del discorso poetico-filosofico) le insidiose e multiformi cavità di quella che Nietzsche chiamava "la profondità della superficie", e che, forse, nessuna lettura potrà mai scandagliare appieno. La parola che si accosta al mistero, al destino, alla trascendenza immersa nella storia non può che, inevitabilmente, accentuare a maggior ragione questo tradimento, questa insanabile, per quanto feconda, vocazione proditoria: se espressi con mezzi umani, temporali, terreni, finiti, il divino e l'eterno non possono che essere deformati, non possono che essere a un tempo tràditi e tradìti, cioè trasmessi, veicolati, partecipati e, in eguale misura, alterati e scomposti. Diceva Mallarmé che, in un'ottica letteraria, la parola e il linguaggio comunemente intesi, usati come strumento di mimesi, di denotazione, di comunicazione, possono valere, tutt'al più, come mezzi ed oggetti di scambio, al pari di una moneta. Anche per questo, la parola è simbolo, tramite che divide e insieme unisce, frammento che reca in sé la memoria di una frattura e di una alterazione e, nel contempo, anela alla ricomposizione, all'adesione, all'unione profonda, come in un bacio. Parola-moneta (come le monete che comprarono le parole subdole di Giuda), parola-frammento, parola-bacio: tutte strumenti di comunicazione, di contatto, di unione, ma nello stesso tempo di possibile inganno ("Ognuno uccide la cosa che ama, / (...) il codardo lo fa con un bacio", dicono alcuni crudeli ed enigmatici versi dell'ultimo Wilde). Ma la parola poetica ha proprio nella sua illusione, nel suo incantesimo, nella sua finzione, nel suo virtuoso inganno (inganno, diceva Gorgia, in cui chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare più saggio di chi non viene ingannato) la propria verità. Così, proprio attraverso l'inganno di Giuda la verità del messaggio cristiano poté giungere al proprio compimento, e le profezie veterotestamentarie avverarsi in modo definitivo. Questa inesauribilità del senso si palesa (e nello stesso tempo si occulta) soprattutto nel caso di un enigma irresolubile come quello del destino e della missione di Giuda (un Giuda che forse, suggeriva Origene, si uccise proprio nella disperata speranza di raggiungere Cristo nell'oltretomba e ottenere all'estremo - anzi oltre ogni umano estremo, oltre ogni logica, al di là del bene e del male - il perdono, la salvezza e la grazia). Mai come in questo caso la Parola, il testo, il discorso del sacro mostrano la loro essenziale natura (anche espressiva e semantica) di semeion antilegomenon, di "signum cui contradicetur" - di traccia, di gramma che possono essere in qualche caso alterati, sollecitati, o anche sovvertiti, capovolti, sventrati (in una logica che contempla la complexio oppositorum, il ripensamento, se non la reciproca inversione, della giustizia e dell'errore, della certezza e del dubbio): non per svellerli o per azzerarli, ma per farne risaltare le penombre, le pieghe occulte, i lati nascosti. In questo senso, nel Carlucci poeta opera lo stesso vacillatory learning indagato dal logico e dal matematico, lo stesso pensiero capace, programmaticamente, di annoverare l'errore, o la possibilità dell'errore, come elemento fondante, e necessario termine di confronto, dell'esattezza, della norma, della conoscenza corretta. In fondo, come diceva Mallarmé, "ogni pensiero trae un colpo di dadi". E si può dire riviva, nei testi di Carlucci, quella tensione relazionale, dialogica e dialettica, fra mysterion e mathesis, fra il chiuso velame del segreto iniziatico e il lavorio intellettuale di un'indagine e di una conoscenza toccate dalla luce di una grazia oscura ed inquietante, che doveva percorrere l'Evangelium Judae, e che ancora si lascia intuire, a tratti, attraverso la superficie opaca e frammentaria del travestimento copto. Nella visione di Carlucci (un po' come in quella dell'ultimo Schelling, e poi degli esistenzialisti), il fondamento si traduce in assenza di fondamento, in Abgrund, in abisso, in vuoto. Come l'essere può, al limite, convertirsi in nulla, coincidere con il nulla, nullificarsi (poiché l'essere e il nulla assoluti sono entrambi, in eguale misura, per definizione privi di determinazioni, di contorni, di attributi precisi e definibili), così la luce e la forma sorgono dalle tenebre, il canto dal silenzio, il colore dal bianco desolato e muto. L'immagine di Giuda (uomo del tradimento, e insieme strumento occulto ed assurdo della salvezza) che pende ed oscilla nel vuoto, nello spazio arido, sospeso ed enigmatico del Campo del Sangue ("piede innocente piede / capacità dei venti / d'essere pietra / un piedistallo vero / per un impiccato") rappresenta (quasi come l'heideggeriana "campana sospesa all'aria libera", che sparge nel gelido cristallo delle nevi il suo tintinnio limpido e fragile) la scommessa assoluta e pura, disperata e insieme lucida e consapevole, di una parola che sfida, nella sovrarazionale assolutezza della sua necessità, l'abisso dell'assurdo, la vertigine estrema e vitale dell'indicibile e dell'afasia, l'azzardo decisivo e fondante di una possibile (e anzi sempre incombente) insensatezza. Il dire di Carlucci sorge da un paesaggio (forse baudelairiano o eliotiano) lacerato e devastato, fatto di rovine, macerie, schegge, ferite, architetture incompiute, tramato di piaghe e di lacerazioni che la scrittura (come lo Schem, il Nome Divino cucito sul braccio del mazrèm, il reietto sapiente, e perciò insidioso) cerca, in certo modo, di ricomporre, o almeno di rischiarare, nella sua polifonica e conflittuale unità, nella sua paradossale ma sorvegliata coerenza, senza per questo anestetizzarle o rimuoverle, ma anzi traendone alimento, vita, moto. "Non noi ma qualcuno ci ha messi qui dentro / una mano segreta, quando lui si è nascosto / come una talpa dentro la tana quando qualcuno - mazrèm - / si è cucito nel braccio il suo nome / lasciandoci senza parole". Vi è, qui, l'idea dell'esclusione, della "gettatezza", dell'"orfanità", dell'estraneità irrimediabile dell'uomo rispetto al cuore e alla radice dell'essere: una gettatezza, un'indigenza che sono proprie, dunque, di ogni parola, di ogni dire umani (e per ciò stesso frammentati, "disseminati", opachi, dispersi) nei confronti della Parola divina, originaria e fondante, della Voce inaugurale e creatrice. Il corpo abbandonato al suo destino - tragicamente voluto - di dissoluzione è (come Carlucci scrive con un gioco fonico di sapore lacaniano o zanzottiano) "boccone d'ente, 'determinato' // un boccone e senza fiato". Ma ogni determinazione, insegnava lo Spinoza delle Epistulae, è negazione; il linguaggio, nel suo determinare l'essere, ne è in certo modo il sepolcro - il poeta patisce, come è stato detto, "servitù di parole", è forzato a chiudere la sua idea, che di per sé aspirerebbe all'eterno, entro i vincoli e i limiti di una lingua caduca, parziale, arbitraria, soggetta (e anzi volutamente esposta, in virtù della sua stessa ricchezza e della sua stessa polisemia) all'alea dei fraintendimenti e delle distorsioni. Non per nulla, una delle tante, e spesso inestricabili ed insondabili, "fonti" di Carlucci è il Traité du Verbe di René Ghil, libro che si fregiava di un Avant-propos di Mallarmé, e che esponeva la grande, genialmente folle, utopia di poter realizzare, per via poetico-scientifica, un "Verbo poetico accessibile a tutti i sensi" come quello già inseguito da Rimbaud, e tale da attivare una orchestration verbale, una audition colorée che superassero le barriere, i vincoli e le distinzioni della percezione e dell'espressione umane. L'idea, “l'Immortelle” - scriveva Ghil, fortemente suggestionato dal Maestro -, “se dissémine, le logique et méditant poète les lignes saintes ravisse, desquel il composera la vision seule digne: le réel et suggestif SYMBOLE”. Pur dispersi, franti, “disseminati”, i molteplici e contraddittori aspetti del reale possono ricongiungersi nell'unità polifonica, sfaccettata e conflittuale del dire, del Verbo, del Simbolo, di cui la poesia si serve. Un aspetto significativo del wagnerismo e del simbolismo fin de siècle può così trovare una sua sorprendente attualità nel contesto culturale movimentato, onnicentrico e multiforme della nostra postmodernità. Ma del sogno di Ghil sembra non essere rimasta che la semenza dispersa, il lógos spermatikòs ridotto a tracce sterili ed irrelate ("L'Idée, qui seule importe, en la vie est éparse") che la coscienza letteraria e critica del poeta può e deve, però, raccogliere e riunire in un discorso innervato da una sua intrinseca, celata coerenza, da una sua occulta parvenza di senso. "Traditore / non meno sei composito / del tuo nostro Signore / della Sua umanità". In un passo della Summa Logicae, contestando la validità ontologica e conoscitiva degli universali, delle idee generali, Guglielmo di Ockham negava ogni valore ad un'idea di humanitas che accomunasse, per l'appunto, Cristo e Giuda - l'uomo perfetto, l'Urmensch da un lato e, dall'altro, lo spregevole traditore, l'incarnazione vivente del Bene sommo da una parte e, all'opposto, lo strumento per eccellenza del male, dell'inganno e dell'iniquità. La parola poetica accosta e ricompone ciò che il rasoio della razionalistica diáiresis aveva accuratamente separato e distinto; e restituisce, così, l'integralità di un umano assoluto, che abbraccia ed oltrepassa bene e male, verità ed inganno, disperata, paradossale fedeltà al destino e necessario, fatale tradimento. "È vero pure c'hai radici in cielo / che dicono la doppia crescita dei mondi". Con riferimento alla simbologia della cabala, del Talmud, della mistica ebraica, dello gnosticismo rabbinico, l'albero a cui Giuda si è impiccato diviene tragica ma rivelatrice parodia dell'Albero della Vita, che ha le sue radici nel centro della terra e il suo vertice in cielo, e che sintetizza in sé, nella sua linfa e nel suo tronco, il ciclo universale di vita e morte, di nascita e disfacimento. Vita e morte, luce e tenebre, ascesa e catàbasi, genesi e dissoluzione, si fondono fra le braccia dell'es hayym, dell'albero della vita, perdendo i propri significati, le proprie distinzioni, nel respiro ciclico e cosmico di un'unica vita universale, che congloba l'uno e l'altro polo di queste antinomie. Espressione di questa suprema unità degli opposti è la Parola Divina, che si manifesta nel respiro, nel suono, nelle sapienti combinazioni e nelle arcane armonie delle lettere e delle sillabe, armonie attraverso cui si fa udibile ed intellegibile agli iniziati la silenziosa musica dell'universo. "La Scrittura, come un edificio che costruisce se stesso, allude misticamente alla modalità della divina manifestazione da parte del Logos nel mondo" (Zohar, LXVI). Il silenzio di Giuda, le sue labbra serrate nello spasimo della morte autoinflitta e segnata dal rimorso e dalla disperazione, sono, apparentemente, la negazione della Parola, di ogni parola, di ogni suono, di ogni espressione, di ogni dicibile: sembrano dire il vuoto e il silenzio di una condanna senza riscatto. "Le tue labbra strette che non schiudi / per fare spazio alla parola derelitta" (mentre dice lo Zohar che la Parola divina si manifesta nella Scrittura allo stesso modo che il pensiero dell'uomo prende forma sonora sulle labbra). Se nei sonetti Sulla morte di Giuda di Vincenzo Monti (termine di riferimento e di confronto remotissimo, incoerente, ma forse, proprio per questo, ancor più sorprendente e significativo) il traditore precipitava nell'Averno accompagnato da "ruggiti", "tremuoti", suoni "rabbiosi e tristi", strepiti "profondi e rotti", il Giuda di Carlucci è invece prigioniero delle sue labbra serrate, della sua gola stritolata, del suo muto grido - quasi montaliano "rombo silenzioso". Semmai, in Carlucci la voce della natura (rovesciando il mito alcmanio, aristofaneo, virgiliano - e poi vittorughiano, pascoliano, dannunziano... - del poeta- sciamano che conosce i "linguaggi degli alati", che sa cogliere, restituendolo poi nel discorso distinto ed articolato proprio dell'uomo, il canto profondo ed apparentemente informe che sorge dal grembo della natura e della materia) è voce del silenzio, dell'immobilità, della superficie immobile ed impassibile. Il canto del cuculo non è più arcana avvisaglia, fosco presagio o sinistra anticipazione della morte, del destino ultimo, del ritorno all'impersonalità, al buio abisso, alla indistinta hyle della natura originaria. La natura, il destino che sempre si ripete, che eternamente ritorna, sono leopardianamente muti (e non è casuale che anche il Leopardi delle Operette facesse propri, nell'ottica di una cosmologia nichilista, alcuni elementi dello gnosticismo e della mistica ebraica). "l'intreccio delle piante è niente // niente del cuculo / l'alta ripetizione // (...) la mente umana, umana // e l'umanesimo dell'erba / della polvere poesia dimenticata". Qui sembra aver lasciato qualche traccia significativa l'appassionata frequentazione della poesia rumena del Novecento, da Nichita Stanescu per arrivare, forse, fino ad Ana Blandiana: da un lato (con riferimento a quest'ultima) la "colpa tragica" della parola poetica che viola l'imposizione del silenzio, che pretende, nel momento stesso in cui si dispiega e risuona, di irrompere nel recinto sacro, nel temenos, nel lucus, nel nemus, nel bosco inviolabile, avvolto da sacro terrore, in cui abitano un divino e un numinoso innominabili e muti, e in cui si annida e si snoda il solco invisibile del destino e della necessità; dall'altro, lo Stanescu delle Undici elegie, che canta l'essere (anch'esso senza nome e senza volto) il quale "inizia con se stesso / e con se stesso finisce", non ha corpo né forma, è "privo di margini" eppure "profondamente limitato". Nondimeno, è proprio nelle cavità cieche della natura melodiosa e tacita, ridente ed impassibile, perpetuamente cangiante eppure sempre uguale a se stessa, sempre ravvolta su se stessa, intorno alla propria materica essenza, presa nei suoi cicli scritti e incisi fin dall'origine, che si nasconde questo Essere scontroso, questo sibillino Uno- Tutto (l'Unomnia dei neoplatonici). Come in Stanescu, lo sguardo dilatato e proteso fino ai limiti dell'azzurro è "vuoto in se stesso, come una voragine"; Altceva e Altcineva, un "Qualcun altro", un "Qualcos'altro", sfiorati dall'uomo, "riconoscendolo, l'hanno respinto". La natura (foglie e mele, passeri e ombre), come inspiegabilmente adirata, condanna l'uomo ad un'eterna attesa. Ma le criptiche sentenze del tribunale della natura sono scritte nella lingua dei simboli - come quelle della Sibilla sulle "foglie lievi". "Malato di simboli e pietre", il poeta "nato in una parola porta il suo significato / in una divina desolazione". Giuda sembra emblematicamente rappresentare la vittima di questo primordiale silenzio, di questo smarrimento, di questo perpetuo esilio dall'essere e dalla rivelazione. Al limite, il sacrificio cristiano, umano troppo umano, di cui Giuda è complice e strumento, sembrerebbe quasi, nietzscheamente, divenire espressione di nichilismo, di oblio dell'essere, di una contaminazione, una degenerazione o una repressione che soffocano e compromettono una vitalità originaria e naturale, un'impregiudicata "innocenza del divenire", una universale teofania, multiforme e gloriosa (e si ricordi l'analogia tacitiana tra Jahwè e Dioniso). Eppure, proprio il silenzio, il vuoto, l'addio al mondo, l'odio di sé e della vita che Giuda incarna sono, forse, oggetto e nutrimento della poesia, e si convertono,dunque, in disperata e ostinata, ma insieme lucida, forza vitale ed intellettuale. "Faccia d'aria vuota / corpo di morto vuoto", Giuda si staglia, con la sua figura reclina e abbandonata, "su gli avanzi del pasto di parole". Al linguaggio logorato e profanato della storia, dell'inganno, del destino già scritto, risponde la purezza assoluta di un silenzio, forse, rivelatore e sapiente. Su ciò di cui non si può parlare - sull'inspiegabile mysterium proditionis - si deve tacere. E proprio quel nulla, quel vuoto sono, forse, dimora, sorgente o risonanza della musica della poesia - sono, forse, simili al "cavo nulla risonante" di Mallarmé, al pascoliano terreno "cavo al piè sonante", insomma all'assenza di fondamento che fonda la fredda, ma sinistramente vitale, "estate dei morti", l'incorporea ed inafferrabile, ma proprio per questo onnipresente, a suo modo opacamente, lacrimosamente festosa, epifania del poetico e del patetico. In quest'ottica si spiega, nel libro, la volutamente quasi indecifrabile diàtriba rabbinica incentrata proprio sull'eclissi, sull'evanescenza del Nome divino, remoto da ogni comprensione e da ogni linguaggio umani. "Come sopporti tu la rimozione del suo dire dal nostro conventicolo", chiede il Secondo Rabbino. "La porto per sostituzione", risponde il primo. L'"analogia di sostituzione" dei logici e dei teologi (il segno che "sta al posto di qualcos'altro") non può che pervadere anche la pagina poetica, accrescendone l'arduo spessore. Dio non può che essere evocato indirettamente, per immagini e simboli infinitamente inadeguati alla sua infinita maestà e perfezione. Nessuno può vederlo e restare vivo. Il dire è velo e schermo al suo fuoco inestinguibile, insostenibile. "Omnia quae de Deo dicuntur, dicuntur metaphorice". Ma vi è, qui, anche il grande tema, letterario, filosofico e cinematografico (da Jonas a Bergman a Jabès), dell'assenza e del silenzio di Dio, di un Dio che si è chiuso per sempre nel suo cielo etereo e metafisico, nella sua dimora incommensurabile ed irraggiungibile. Eppure, l'estrema complessità concettuale ed espressiva non esclude l'insorgere, a tratti, di un lirismo assoluto, cosmico, quasi dantesco, e nel contempo sorretto da cadenze leopardiane: "Fisso e pur sempre in moto, siano così le stelle, nella caduta libera perenne, immote. mia mente, maestro mio: potenza cielo e limes". "Caeli enarrant gloriam Dei", come dice il salmo. L'universo immobilmente mobile, finito ed illimitato, silenziosamente armonioso, rappresenta il limes, il confine estremo del conoscibile e del dicibile; e proprio il riconoscimento di quel limite, e insieme l'azzardo dello sfiorarlo, del sollecitarlo attraverso una parola mallarmeanamente protesa oltre le umane possibilità dell'espressione, sono il vertiginoso, sprofondante fondamento della parola poetica. Nel dialogo dei Rabbini si giunge, quasi, all'assurdo del Beckett di En attendant Godot, al rischio della vanità di ogni discorso sul divino e sulla possibilità stessa del divino (rischio rafforzato dalla repentina, burlesca epifania del ”furfante” che “non esiste”, abile però ad ingannare i fedeli che vanamente continuano ad invocarlo); o, forse, a qualcosa di non dissimile dalle “pseudoproposizioni metafisiche” su cui si indirizzava - ponendo in luce la paradossale e tautologica inconsistenza logica ed ontologica del “nulla” che “nulleggia” e dell'”angoscia” che “rivela il nulla” - la pungente ironia metodologica di Carnap e dei neopositivisti. Un po' come nel Jaspers lettore di Cusano, di traccia in traccia, di segno in segno, di immagine in immagine, per diversi livelli di significato che rinviano assiduamente l'uno all'altro, la parola sembra giungere, infine, a sfociare e dissolversi nella “ferita”, nel “naufragio”, nell'oscura svolta dell'”ultima cifra”, nell'abisso dell'estrema insignificanza, dell'annullamento, della nullificazione. Eppure, dalla visione del poeta non sembra del tutto esclusa una prospettiva metafisica – magari salvaguardata e ancora possibile solo via negationis, solo nella forma negativa ed apofàntica di un Eckhart, di un Cusano o di un Böhme. L'Essere-Nulla, il Tutto-Nulla possono costituire ancora, come voleva Heidegger, l'oggetto privilegiato di un dire poetico inteso come “casa dell'Essere”, come rivelazione – pur alienata, gettata inesorabilmente nel “tempo della povertà”, nell'abisso della deiezione e della lontananza – delle verità essenziali. “Frate abolito, frate che resti muto! / mangiucchi la mia pompa / mio vano balbettio di vanità / tu spingi / contro la terra viva". "Che si spalanchi la vanità del cielo, / si apra la quinta del firmamento!", scrive altrove il poeta. "Su questa terra nera in cui procedi, / specchio del cielo nero, / fornace d'alte stelle!". La circolarità talmdudica di cielo e terra suggerisce l'accostamento fra il grande tema biblico dell'armonia dell'universo e quello della vanitas vanitatum. Per questa via, vengono a fondersi essere e nulla, totalità e vuoto. Come nel "notturno" di Alcmane (con la sua visione della "nera terra", e delle cime dei monti fasciate dalla quiete universale), cielo e terra sono avvolti ed inghiottiti da uno stesso tenebrore. Ma il nulla è trapunto di stelle, il vuoto ha gli scintillii e i palpiti del firmamento. E lo iato, la sconfinata fenditura tra la finitezza e l'infinito, fra la mortalità e l'eterno sono invasi, e quasi colmati, dal respiro del pensiero e del canto, dal muto grido della lontananza, della solitudine e della nostalgia. Abolito: questa parola, di chiara risonanza mallarmeana, sembra alludere ad una cancellazione, ad un vuoto, ad una perdita irrimediabile, ad una lacaniana béance. Ma proprio da quel vuoto, da quel nulla può sorgere la parola poetica. E allora, proprio come lungo il tronco e i rami dell'Albero della Vita, il vuoto può diventare pienezza, il nulla essere, la morte nuova nascita. Proprio questa paradossalmente nichilistica fede nell'essere, questa luce che si ostina a splendere, come nel Limbo dantesco, dal cuore di un "emisperio di tenebre", racchiudono forse il messaggio essenziale di questa poesia. Diceva Kierkegaard che ogni esistenza di poeta è un peccato mortale, perché il poeta preferisce scrivere che vivere. Il poeta tradisce la vita, e non ottiene, in cambio, altra moneta che le sue stesse parole, sparse nel deserto del sangue, e alle quali fa eco il silenzio del vuoto. Ma forse questo stesso supremo peccato può, al pari dell'apparentemente irredimibile tradimento di Giuda, essere - al di là della vita, del tempo, dello spazio stesso, così ambiguo e fragile, del dire - espiato dall'artificiosa autenticità, dalla menzogna rivelatrice, dell'esperienza intellettuale e della ricerca esistenziale.