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La PREGHIERA e il BUDDHISMO
del SUTRA del LOTO
1. Introduzione
1.1. Definizione W. James nel suo The Varieties of Religious Experience1
scrive che se intendiamo per preghiera «ogni tipo di comunione o
conversazione intime con la potenza riconosciuta come divina» possiamo
facilmente constatare che la preghiera è «la vera anima ed essenza della
religione». Se ci interroghiamo sul perché di questa impegnativa asserzione,
una risposta ci viene offerta da James stesso, che riporta alcuni passi di A.
Sabatier2, il quale affermava:
La preghiera è religione in atto; cioè la preghiera è vera religione. È la preghiera che
distingue il fenomeno religioso da quei fenomeni religiosi simili o limitrofi come il
sentimento puramente morale o estetico. La religione è nulla se non è l’atto vitale mediante il
quale lo spirito tutto intero cerca di salvarsi aggrappandosi al principio da cui deriva la sua
vita. Questo atto è preghiera, termine mediante il quale io intendo non un vano esercizio
verbale, non una mera ripetizione di parole, non la ripetizione di determinate formule sacre,
ma il vero movimento dell’anima che si pone in una relazione personale di contatto col
misterioso potere di cui avverte la presenza, — forse anche prima che abbia un nome col
quale chiamarla. Dovunque questa preghiera interiore manchi, non v’è religione; dovunque,
d’altro canto, questa preghiera si eleva e scuote l’anima, anche in assenza di forme o di
dottrine, noi abbiamo una religione vivente. Si vede da questo perché la cosiddetta “religione
naturale” non è propriamente una religione. Essa taglia fuori l’uomo dalla preghiera. Lascia
lui e Dio a reciproca distanza, senza nessun intimo contatto, nessun dialogo interiore,
nessuno scambio, nessuna azione di Dio sull’uomo, nessun ritorno dell’uomo a Dio.
E aggiunge James:
W. James, The Varieties of Religious Experience (1902), New York, Penguin Books,
1
1982, p. 464.
2
Auguste Sabatier (18391901) fu uno dei principali teorici del protestantesimo
liberale francese. Tra le sue opere: Esquisse d’une philosophie de la religion; Les religions
d’authorité et la religion de l’Esprit.
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Lo stesso contemplare la natura, con una sorta di fede nella forza
creatrice e regolatrice dell’universo (secondo quanto sostengono certe forme
di spiritualità “laica”, come la cosiddetta “religione della natura”o taluni
orientamenti vitalistici, neopagani, ecologistici…),
per quanto possa indubbiamente essere piacevole per le persone pie, lascerebbe ad
esse la parte che gli spettatori hanno in una rappresentazione, mentre nella religione
esperienziale e nella vita di preghiera, ci sembra di essere noi stessi gli attori e non in una
3
rappresentazione, ma in una realtà molto importante .
Già prima di James altri autori avevano considerato la preghiera come
parte essenziale dell’esperienza religiosa presa nella sua totalità (ad es., L.
Feuerbach: «la più intima essenza della religione è rivelata dall’atto religioso
più semplice: la preghiera» o F. D. E. Schleiermacher: «essere pii e pregare
sono di fatto la stessa cosa») e sostenuto che essa è caratterizzata dal senso
dellapresenza o dell’essereallapresenza del sacro e dal desiderio di entrare
in contatto con la divinità e l’invisibile. Ciò ne fa, nella sua più elevata
espressione, un movimento volontario e cosciente di uscire da sé per andare
(come in un pellegrinaggio spirituale) a un incontro conversativo, nutrito di
“intima amicizia” (S. Teresa d’Avila) col divino, consentendo di distinguere
una religione vivente da fenomeni che pur le sono simili, come un
indeterminato sentimento religioso (la cosiddetta “religiosità”) o le esperienze
estetiche. Della preghiera è stato ancora detto che «sta alla religione come il
ragionamento sta alla filosofia» (Enc. Britannica), per cui possiamo accogliere,
come sintetiche definizioni, quella del Webster’s International Dictionary di atto
consistente nell’«indirizzare parole o pensieri alla divinità in richiesta,
confessione, lode o ringraziamento» o quella, analoga, dello storico delle
religioni A. Di Nola:
Forma rituale a mezzo della quale l’individuo o la collettività si pongono in rapporto
con le forze divine, per ingiungere, chiedere, promettere, glorificare, confidenzialmente
abbandonarsi nella consapevolezza della propria limitazione4.
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“recitazione” di un’unica grande orazione.
Già queste definizioni evidenziano il fondamentale carattere della
preghiera di essere, da un lato, espressione dell’esigenza di comunicazione
col sacro, il trascendente, le potenze soprannaturali; dall’altro, testimonianza
della coscienza che l’uomo ha acquisito delle proprie fragilità (nei confronti
della natura), precarietà (come essere mortale), dipendenza (dalla realtà
esterna): tutti vissuti precedenti le forme stesse che le tradizioni religiose
hanno elaborato per dar loro espressione e che possono spiegarci la
ubiquitaria presenza di questo fenomeno.
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intende realizzare un controllo automatico sulla Realtà di potenza verso la
quale non si esprime più un rapporto di dipendenza creaturale, ma si
pretende un effetto fondato esclusivamente sulla efficacia della parola stessa e
degli atti che eventualmente la accompagnano (al pari di quanto avviene col
sacramento, ritenuto efficace ex opere operato). Infine, una volta realizzata la
certezza di comunicare con l’infinito e l’invisibile, il sentimento di distanza e
di inadeguatezza, di stupore e di meraviglia, di confronto e di tenerezza può
esprimersi talvolta, come accade in ogni vero dialogo, attraverso il silenzio; un
silenzio che può anzi considerarsi la forma di espressione la più adeguata al
mistero ultimo: non un silenzio afasico, ma un silenzio poetico ed evocativo,
fatto di innocenza e umiltà.
Quanto a origine e finalità, la preghiera — come abbiamo già visto
dalle definizioni — è stata connessa al bisogno che spinge a far ricorsoa,
rivolgersia, indirizzarsia, bisogno che progressivamente struttura i desideri in
forme sempre più degne di poter essere presentate agli dèi. Prevista per le
situazioni di incertezza dei tempi forti delle soglie dell’esistenza (nascita,
pubertà, matrimonio, morte…) o di situazioni comunque “critiche” (malattie,
calamità, guerre…), dalle funzioni di rassicurazione per l’intervento delle
potenze divine o di incantesimo con dirette pretese operative, la preghiera
evolve dall’espressione dei bisogni di sussistenza (caratterizzati da mancanza,
impotenza, necessità elementari) a quella dei bisogni di senso (comprendere il
mondo, definire il proprio spazio in esso, mettere ordine nel caos degli esseri
e degli eventi). Ciò esita in una lettura del mondo come ierofania, dando a esso
significati che vengono da più lontano di quanto possa offrire la coscienza
razionale, significati che vengono trovati chiamando in campo l’infinito e
ponendosi in comunicazione con una realtà dotata di caratteri “altri” rispetto
a quelli della realtà fenomenica e finita.
Nella storia interna della preghiera, possiamo pertanto osservare il
presentarsi di una doppia tendenza: da un lato, la “magificazione”, cioè la
tendenza a trasferire sul piano magico i significati religiosi della preghiera (ad
es., con il configurarsi del sacerdote, quando si perda la comprensione del
significato delle parole, come operatore di tipo magico); dall’altro, un
processo di progressiva “mentalizzazione” e interiorizzazione, nella misura in
cui viene sempre più affermandosi l’autonomia del soggetto. Come osserva G.
van der Leeuw, la preghiera passa progressivamente da attività sociale a
dimensione del privato,
perde il carattere di dialogo e diventa un monologo saturo di forza religiosa […],
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ormai non si prega più per ottenere qualche cosa; la preghierarichiesta è finita, o per lo
meno viene considerata un’imperfezione. Di grado in grado la preghiera diventa pia
meditazione, monologo. Non è più necessario un interlocutore cui rivolgersi, si prega il
proprio io superiore o addirittura si prega sé stesso, oppure si considera senza importanza la
questione, a chi la preghiera sia rivolta. […] La preghiera rimane, certo, una celebrazione
della potenza, ma di una potenza priva di figura e di volontà. Come essa, chi prega deve
perdere ogni volontà; il soggetto deve stare «come una tela che aspetta di fronte al pittore,
come un cero che arde, struggendosi d’amore»7.
1.2.2. Preghiere orali e preghiere scritte. Abbiamo fin qui parlato di
espressioni verbali, non accennando ancora alla distinzione tra testi orali e
testi scritti, ma la rivoluzione culturale operata dall’introduzione della
scrittura non poteva non avere effetti anche nella preghiera. La tradizionale
recitazione orale era già in sé perfetta e quindi non bisognosa di
“perfezionarsi” attraverso la scrittura; tuttavia, questa consente di praticare
una sorta di magia, attraverso un mezzo che permette di dominare la parola
viva e di conferirle una “maneggevolezza” paragonabile agli effetti di
“trasduzione” di una forma di energia in un’altra più facilmente
manipolabile. Un testo scritto può, infatti, essere diffuso in maniera fedele e
uniforme, diviene accessibile a tutti, o almeno a tutti gli alfabetizzati, riduce il
7
G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, tr. it., Torino, Boringhieri, 1975, p.
334.
8
Forse perché lo stesso Allah è un “penultimo”, che rimanda a un ultimo senza
nome (o dal nome segreto); ovvero perché non c’è altra realtà che non sia il nome, inteso
come logos che si autoprega. D’altra parte, si dice che Allah possieda 3000 nomi, di cui:
1000 sono noti solo agli angeli,
1000 solo ai profeti,
300 si trovano nella Torah,
300 nei Salmi,
300 nel Nuovo Testamento,
99 nel Corano,
1 è noto soltanto ad Allah.
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peso degli intermediari depositari del messaggio, costituisce la pre
condizione di un libero esame personale. Anche dove si hanno testi scritti, la
lettura ad alta voce o la recitazione rimangono tuttavia presenti nei diversi
“servizi religiosi”, poiché, oltre a rappresentare la base di momenti collettivi
di culto, esse esprimono la sempre viva convinzione che la parola, solo se
pronunciata, sia dotata di forza operante.
A fronte di questi aspetti che possiamo chiamare “democratici” della
parola scritta, va rilevato che mentre il linguaggio parlato “naturale” è mobile,
caldo, indipendente da strumenti extracorporei, il linguaggio scritto è
decontestualizzato, autonomo, immobile, non consente una risposta
immediata, tende ad assumere un valore oracolare, diviene la base generativa
di possibili fondamentalismi. L’ortodossia scritturale è giunta addiritura, sulla
base dell’assioma: «quel che si trova tra le due copertine del volume è parola
di Dio», a considerare sacri non solo il testo ma anche la carta e l’inchiostro9.
Un esempio che illustra bene la nuova “maneggevolezza” conferita
dalla scrittura (consentendo addirittura forme di incorporazione!), lo
troviamo nel libro dei Numeri, 5, 1131, ove leggiamo che un marito geloso
potrà condurre dal sacerdote la propria moglie, per chiedere di verificarne
l’innocenza o la colpevolezza. Il sacerdote scioglierà una “maledizione”
nell’acqua e la farà bere alla donna:
9
A questo proposito, van der Leeuw riporta quanto segue: «Ecco che cosa ho udito
dall’inviato di Dio: la prima cosa che Dio creò fu la penna. Le disse: – Scrivi. Domandò: –
Signore, cosa scriverò? Rispose: – Scrivi il destino di tutte le cose, sino alla venuta dell’Ora
(A. J. Wensinck, The Muslim Creed, cit. in G. van der Leeuw, op. cit., p. 613).
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equivalente della lettura o quello di raccogliere dei testi in cofani cilindrici
girevoli, di diverse misure, detti “mulini di preghiera”, facendo girare i quali
si ritiene di fare un’opera equivalente allo studio o alla recitazione.
Nell’ebraismo, alcuni versetti della Torah vengono scritti su rotolini di
pergamena inseriti nei Tefillin (due scatoline di pelle, munite di cinghie, una
delle quali viene legata al capo, sulla fronte, l’altra al braccio sinistro), mentre
la Mezuzah è un rotolo con altri versetti, chiuso in un astuccio, appeso allo
stipite destro (per chi entra) delle porte della casa, che viene sfiorato
passando10.
1.2.3. Tipologia. Le forme assunte dalla preghiera sono innumerevoli
e ogni classificazione che pretenda di essere troppo rigida rischia di rimanere
incompleta e con ampi margini di arbitrarietà, anche perché le varie forme
sono spesso tra loro connesse e possono sfumare da un tipo all’altro. Tuttavia,
per rendere possibile una considerazione comparativa, dall’esame delle
tipologie presentate nella letteratura storica e teologica, possiamo ricavare gli
schemi riportati nella Tab. 2, per i contenuti espressi e le finalità che l’orante si
propone, e nella Tab. 3, per gli elementi che accompagnano, intensificano o
modificano l’atto del pregare.
2. La preghiera nel buddhismo
2.1. Generalità Nel buddhismo si compie una sorta di salto mortale,
operandosi prima uno spostamento dal piano della realtà ordinaria (samsara)
a quello della Realtà assoluta (come infinito, sacro, mistero), come tale “altra”
rispetto al mondo fenomenico, perché nonduale, noneffimera, priva di
determinazioni e quindi identificabile come Vacuità, Nirvana, Realtà ultima,
“matrice”, e logicamente un “prius”, rispetto al mondo finito, per tornare poi
a questo, in una visione unificante riassunta dalla formula mahayana: «Il
Nirvana è il samsara». Ne segue che i fenomeni sono visti, a questo punto,
come ierofanie in senso forte, in quanto costitutivi, e non accessori, di quella
Realtà assoluta nontrascendente e nonseparata, che nei fenomeni è, vive e si
realizza come Assoluta assolutezza non più dualisticamente contrapposta al
finito («La Vacuità è forma; la forma è Vacuità»). Potremmo tentare una
analogia, con mero valore euristico, con quanto osserviamo nel cristianesimo,
10
Numerosi gli esempi, presenti nelle diverse tradizioni, che testimoniano il rispetto
per le scritture. Nell’ebraismo, i rotoli della Torah e gli oggetti di culto inutilizzabili vengono
conservati in particolari “depositi” (genizah), talvolta siti nei sepolcri di grandi maestri. Nel
buddhismo, le custodie dei rotoli dei sutra sono spesso rappresentate da oggetti di preziosa
fattura e decorazione, realizzati in forma di scatole, cilindri, stupa, etc.
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in cui l’accento viene posto (a cominciare dalla stessa denominazione)
preferibilmente su Gesù, Assoluto che si è fatto forma, piuttosto che su Dio
Padre, Assoluto che non può essere rappresentato.
Due aneddoti possono aiutare a comprendere la particolare modalità
del buddhismo di essere religione. Il primo si riferisce alla conversazione di
Bodhidharma, patriarca dello zen, con l’imperatore cinese Wu:
L’imperatore Wu di Liang chiese a Bodhidharma: «Dall’inizio del mio regno ho fatto
costruire molti templi, ho fatto trascrivere tanti libri sacri, ho aiutato numerosi monaci; quale
pensi che sia il mio merito?»
«Proprio nessun merito, Maestà!» rispose seccamente Bodhidharma.
«Perché?» chiese, stupito, l’imperatore.
«Tutte queste opere sono d’un ordine inferiore», rispose in modo significativo
Bodhidharma, «le quali possono far sì che il loro autore rinasca nei cieli o sulla terra. Esse
però recano ancora le tracce del mondo, sono come le ombre che accompagnano gli oggetti.
Malgrado le apparenze esse non sono altro che delle irrealtà. Il vero atto che procura merito
è pieno di sapienza pura, è perfetto e misterioso, la sua vera natura è fuori dalla portata
dell’umano intelletto. Essendo tale, nessuna opera di questo mondo può condurre ad esso».
Allora l’imperatore Wu chiese a Bodhidharma: «Qual è il primo principio della santa
dottrina?»
«È il vasto vuoto, Maestà, e nulla vi è in esso che sia da chiamarsi santo!» rispose
Bodhidharma.
«E allora chi è colui che ora mi sta dinanzi?».
«Non lo so, Maestà!»11.
Il secondo aneddoto narra di un missionario cristiano che, vedendo un
monaco cinese in preghiera, gli chiese:
– Chi stai pregando?
– Nessuno, rispose il monaco.
– Per che cosa stai pregando?, precisò allora il missionario.
– Per nulla, rispose ancora il monaco.
E, mentre il missionario se ne stava andando con visibile disappunto, il monaco
aggiunse: – Comunque, guarda che non c’è nessuno che sta pregando.
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impersonale nel buddhismo. In realtà, possiamo dire che la concezione
buddhista sia quella di un Assoluto né personale né nonpersonale,
collocandosi non al di qua ma al di là dell’idea di Dio, in quella zona di
insondabile mistero in cui gli attributi di Dio trovano fondamento in una
Legge (Dharma) cui Dio stesso, per un verso, “deve” in qualche modo
conformarsi e che, per un altro, coincide con Lui, nella insuperabile
oscillazione tra un Assoluto definito, e quindi penultimo, e un Assoluto
indefinibile, ultimo e ineffabile (Vacuità come assenza di determinazioni).
Ciò posto, dobbiamo domandarci: ha senso parlare di preghiera in
questa tradizione spirituale? Nella pratica buddhista si è soliti dire che la
meditazione rappresenta l’analogo di ciò che la preghiera è nelle altre
tradizioni. Tuttavia, questa analogia può considerarsi solo in parte corretta,
per cui non potendo trattare qui tale argomento12, ci limitiamo a esaminare
quelle situazioni (servizi religiosi e pratiche individuali) che, secondo quanto
abbiamo sopra definito, implicano operazioni simboliche verbali. Per quanto
riguarda i servizi, va ricordato che col termine sanscrito puja (funzione,
cerimonia) si intendono, sia nel buddhismo Theravada che in quello
Vajrayana, le cerimonie — di diversa struttura e complessità — in cui la
componente verbale (recitazione di testi, della formula del rifugio, di mantra)
si accompagna ad altre modalità (mudra, invocazioni, offerte) a formare dei
veri riti devozionali. Riferendoci poi alla tipologia delle Tabb. 2 e 3, potremo
verificare quali forme di preghiera possano essere considerate coerenti e
compatibili con il BuddhaDharma.
Cominciamo con le preghiere di invocazione e di lode, ricordando che
il buddhismo giapponese ha esplicitamente distinto due modalità attraverso
le quali si può realizzare il progresso spirituale: la prima, detta jiriki (=
ottenere la salvezza attraverso la forza propria), sottolinea l’impegno
personale e la necessità di sottoporsi a una disciplina specifica; l’altra, tariki (=
ottenere la salvezza grazie a un aiuto dall’esterno), fa del praticante un fedele
e del Buddha Amida13, con una tendenza che può spingersi verso una
connotazione della sua figura in termini monoteistici, il Salvatore che
consente di rinascere nel paradiso della Terra pura e non più nei mondi di
sofferenza. A tal fine, si pratica l’invocazione del suo nome, secondo il
Cittadella Editrice, 1998 (specie cap. 5, Una nuova cultura della mente, e bibliografia).
Amithaba, giapp. Amida, è il Buddha della Luce infinita, signore del “paradiso
13
occidentale”. È al centro della venerazione nella tradizione amidista o della Terra pura
(giapp. Jodoshu e Jodoshinshu).
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Nembutsu, ossia una invocazione rivolta al Buddha Amida secondo la formula
Namu Amida Butsu (Onore/lode al Buddha Amida), ripetuta una sola volta o
indeterminate volte (per permanere nella condizione di salvezza o di
premessa della salvezza), contando eventualmente le ripetizioni con l’aiuto di
un rosario (juzu). La ripetizione del nome — com’è noto — è pratica diffusa,
non solo nell’ambito religioso, ma anche in quello profano (v. la ripetizione
del nome della persona amata), basata sull’idea che il nome sia carico del
valore di essenza, della divinità o della persona, e che la ripetizione sia il
mezzo per unirsi e assimilarsi a essa.
L’uso del rosario14 avvicina le modalità della preghiera buddhista di
lode a quelle di altre tradizioni. Sull’origine dell’impiego del rosario
buddhista ricordiamo quanto viene narrato nel sutra intitolato Sutra dell’albero
di saponaria (Muhuantzuching o Mokugenji):
Il re di Vahisali, Haruri, mandò un giorno un messaggero a Shakyamuni con questo
messaggio:
– Il mio territorio è afflitto da epidemie, bestie feroci sono presenti notte e giorno e la
popolazione è molto turbata. Ti prego, attraverso i tuoi divini poteri, di farmi sapere come
può essere salvata.
Il Buddha, pieno di compassione, rispose:
– Messaggero, c’è una appropriata via di salvezza per la popolazione. Dovreste
portare sempre con voi 108 grani dell’albero di saponaria, legati insieme, e cantare con tutta
la vostra intensità mentale, i nomi di Buddha, del Dharma e del Samgha. Facendo ciò voi
estinguerete i tormenti originati dai desideri mondani e otterrete i piacevoli frutti celesti. E se
continuerete col vostro canto vi libererete delle 108 contaminazioni e otterrete la prova del
supremo compenso.
Juzu o Nenju (giapp.), mala (tib.), japamala (skr.), parola composta da japa =
14
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Così fu fatto e il popolo riconquistò la sua pace.
Diffusosi in Giappone a partire dal’VIII sec. d.C., il rosario può essere
utile, in quanto “mezzo didattico” o “mezzo abile” (skr. upaya o giapp. hoben),
come segno di identità e come ausilio per purificare, col ricordo
consapevolezza, la mente e l’azione indirizzate verso la via del Buddha. Alle
108 contaminazioni corrispondono 108 caratteri e insegnamenti
dell’Illuminato, di cui riportiamo, in Tab. 4, alcuni esempi (rispettivamente in
col. dx e col. sn).
Nichiren (Junyozeji) affermava che esiste un rapporto diretto tra il
numero di recitazioni e la possibiltà di accesso alla verità: ripetere il Daimoku
(o titolo del Sutra del Loto, v. oltre) 10 volte significa avere una comprensione
10 volte di più che recitandolo una volta sola, ripeterlo 100 volte significa una
comprensione 100 volte maggiore e via moltiplicando.
Ad altra classe, quella delle preghiere “dichiarative” (secondo la
tipologia sopra presentata), ci riportano espressioni verbali largamente
presenti nella pratica religiosa buddhista. Innanzitutto, la cosiddetta “presa di
rifugio” ovvero la dichiarazione di ricercare protezione dalle intemperie
dell’esistenza nel Dharma, nel Buddha e nel Samgha (ossia nel “Triplice
gioiello”), dichiarazione che rappresenta l’ingresso nella religione buddhista.
Essa consiste nella ripetizione, per tre volte, di:
Prendo rifugio nel Buddha,
prendo rifugio nel Dharma,
prendo rifugio nel Samgha.
Sempre a questa classe appartengono i “quattro voti del bodhisattva”
mahayana:
Per quanto innumerevoli siano gli esseri, faccio voto di salvarli;
per quanto inesauribili siano gli attaccamenti, faccio voto di estinguerli;
per quanto incommensurabili siano gli insegnamenti, faccio voto di padroneggiarli;
per quanto illimitata sia la via del Buddha, faccio voto di percorrerla.
Esiste poi una serie di formule che sono, a un tempo, strumenti di
concentrazione dell’attenzioneconsapevolezza sulle varie operazioni della
condotta ed espressioni religiose di ringraziamento, potendo venire applicate
a tutti i tipi di attività e in ogni momento del giorno, con modalità e finalità in
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qualche modo analoghe a quelle delle “benedizioni” ebraiche, ma con
formulazioni variabili da scuola a scuola. Come esempio, ricordiamo le
formule impiegate al momento dei pasti nella tradizione zen:
Esprimo la mia riconoscenza per la benevolenza dell’universo e per il lavoro di tutte
le persone che hanno contribuito a darmi questo cibo.
Prendo questo cibo riflettendo sulle mie imperfezioni.
Cercherò di vigilare per non lasciarmi andare ai tre veleni della inconsapevolezza,
della avidità e della collera al fine di utilizzare giustamente questo cibo [Assumendo questo
cibo la mia mente sia libera da preferenze e attaccamenti].
Prendo questo cibo ricordando che mi fornisce l’essenziale per la salute del mio
corpo.
Prendo questo cibo utile per [la salute e il vigore del mio corpo necessari per] seguire
il cammino degli insegnamenti del Buddha.
2.2. La preghiera nel Sutra del Loto e la preghiera del Sutra del Loto.
– Il Sutra del Loto (Saddharmapundarika Sutra) è, insieme al Sutra del cuore della
perfezione di saggezza, uno dei più diffusi e universalmente venerati sutra del
buddhismo mahayana. Rimandando ad altre pubblicazioni il compito di
illustrarne le peculiari caratteristiche e giustificarne l’importanza15,
volgiamoci a esaminare come il tema della preghiera sia in esso presente, nel
doppio aspetto della preghiera nel sutra e del sutra stesso come preghiera.
Se qualcuno, anche con mente distratta, entra in uno stupa o in un tempio ed
esclama, anche una sola volta «Namah [prendo rifugio nel/lode al] Buddha» ha ottenuto la via
del Buddha.
E ancora, cap. XXI:
15
Vedi M. I. Macioti (a cura di), Sutra del Loto: un invito alla lettura, Milano, Guerini,
2001; G. Reeves (a cura di), A Buddhist Kaleidoscope Essays on the Lotus Sutra, Tokyo, Kosei,
Publishing Co., 2002. Numerose le traduzioni del Sutra del Loto in lingue occidentali: per
quelle in lingua inglese, v. elenco in G. Reeves, op. cit.; in francese: a cura di J. N. Robert, Le
Sûtra du Lotus, Fayard, Parigi,1977; in italiano: a cura della Soka Gakkai, Il Sutra del Loto (tr. it.
della tr. in. di B. Watson), Milano, Esperia, 1997; a cura di L. Meazza, Sutra del Loto (tr. dal
sanscrito), Milano, BUR, 2001; è in corso una trad. dal cinese a cura di S. Vita.
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Allorché quegli esseri viventi, dopo aver ascoltato la voce nel cielo, giunsero le mani
in direzione del mondo saha ed esclamarono: «Namah Sakyamuni Buddha! Namah Sakyamuni
Buddha!». Poi, prese varie qualità di fiori, incensi, collane, baldacchini, come pure ornamenti
personali, gemme e altri oggetti preziosi, li gettarono in direzione del mondo saha.
L’invocazione, come possiamo osservare, è accompagnata da omaggi e
offerte, in un complesso rituale che integra l’orazione in una pratica
devozionale molto ricca.
L’intero cap. XXV è dedicato a uno dei più grandi bodhisattva:
Avalokiteshvara (cin. Kuanyin, giapp. Kannon), ipostasi della misericordia
buddhista e figura molto presente nella devozione popolare estremorientale.
Tale capitolo costituisce una sorta di sutra a sé stante e viene recitato e
utilizzato indipendentemente dal resto del Sutra del Loto. In esso,
l’invocazione del nome di Avalokiteshvara non è più soltanto occasione di
lode e manifestazione di rispetto, ma diviene — alla luce delle sue virtù e dei
suoi poteri — una preghiera impetratoria di liberazione da ogni sorta di
negatività.
Sempre secondo questo sutra, se una donna desidera un figlio maschio
o una figlia femmina, se qualcuno è perseguitato, se rischia di essere
avvelenato, se è attaccato da animali, minacciato dalle intemperie, torturato
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da insopportabili dolori, trascinato in tribunale…, invocando Kannon riceverà
l’aiuto adeguato.
Possiamo osservare che sarà poi il livello di fede e di maturità del
singolo credente a condurre a una interpretazione letterale di queste
promesse di aiuto ovvero a una lettura che guidi verso il superamento della
separatezza, implicita nelle situazioni di sofferenza e di paura, attraverso la
concentrazione sul principio della benevolenza universale che riconduce
all’Assoluto al di là di tutte le determinazioni.
Infine, nel Sutra del Loto è presente un intero capitolo, il XXVI, dedicato
ai Dharani. La parola (dalla radice sanscrita dri = sostenere, supportare,
corrispondente al pali Paritta = protezione, difesa) significa letteralmente
sostegno o recipiente di potere magico e indica la recitazione di
Jvale mahajvale
ukke tukku mukku
ade adavati
nrtye nrtyavati
ittini vittini cittini
16
L. A. Waddell, The “Dharani” Cult in Buddhism, Its Origin, Deified Literature and
Images, s. i. ed.
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nrtyeni nrtyavati
(svaha).
Atte tatte natte vanatte
anade nadi kunadi
(svaha).
17
La Scuola Tendai era denominata Hokkeshu (Scuola del Loto, Hokke significando
Fiore della Legge, abbreviazione di Fiore di Loto della mistica Legge) ed è considerata la
“casa madre” del buddhismo giapponese.
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illumina tutta la terra.
Come nel vangelo cristiano l’annuncio del Regno non è più affidato ai
profeti, ma alla parola stessa di Dio attraverso Gesù Cristo, così nel
buddhismo, dopo l’impiego di tanti “mezzi abili” o espedienti salvifici
(sanscr. upaya, giapp. hoben) offerti negli insegnamenti precedenti, col Sutra
del Loto si ha una rivelazione diretta, compiuta e suprema della Verità eterna
insegnata dai Buddha di tutti i tempi. Con un annullamento del tempo
ordinario e l’irrompere di un tempo altro18, la contemporanea presenza di
Prabhutaratna (Buddha del passato), Sakyamuni (del presente), Maitreya (del
futuro) viene testimoniata e legittimata la perennità e la supremazia
dell’insegnamento del Loto. Per questo, si dice che il Buddha apre i tre e rivela
l’uno; apre il transitorio e rivela il profondo; apre il recente e rivela il lontano.
E Dogen, per parte sua, afferma:
Il Sutra del Loto è il re dei sutra: riconoscetelo come il vostro grande maestro.
Comparato a questo sutra tutti gli altri si pongono soltanto come suoi contenuti, perché esso
soltanto esprime la verità ultima. Gli altri presentano soltanto insegnamenti provvisori, non
le vere intenzioni di Buddha19,
Se la dichiarata “superiorità” del Sutra del Loto potrebbe far sospettare
una deriva del tipo “religione del libro”, in qualche modo in contrasto con lo
spirito più autenticamente “dialettico” del BuddhaDharma, sarà opportuno
non dimenticare la sottile distinzione tra il sutra come scrittura (sutra con una
ideale iniziale minuscola, forse da considerare anch’esso solo uno dei mezzi
didattici per la diffusione del BuddhaDharma) e il Sutra (con iniziale
maiuscola) ossia l’insegnamento del Sutra del Loto come inesprimibile Verità
ultima di tutti i Buddha20. In altre parole, tale “pericolo” potrà essere
(apparente) incongruenza temporale tra la durata di vita del Buddha storico e quella del
Buddha eterno, da un lato, e, dall’altro, tra l’età di Gesù e l’eternità del Cristo («Così, da
quando ho conseguito la buddhità a oggi, è trascorso un tempo estremamente lungo. La mia
vita dura da un incalcolabile numero di asamkhya di kalpa e durante tutto questo periodo io
sono sempre vissuto qui e la mia vita non si è mai estinta», Sutra del Loto, cap. XVI; «–
Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò.
Gli dissero allora i Giudei: – Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo? Rispose loro
Gesù: – In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono», Gio 8, 5658).
19
Dogen Zenji, Shobogenzo, tr. in., IV, Tokyo, Nakayama Shobo, 1983, p. 40. E F. Taiten
Guareschi: «Lo Shobogenzo sembra un commento al Sutra del Loto (in Zen Notiziario, 1998, V,
n°2, p.4).
20
La tradizione buddhista rende legittima questa domanda dacché ci ricorda che
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scongiurato nella misura in cui questa scrittura, da un lato, non venga isolata
dal contesto dato dalla totalità degli insegnamenti buddhisti (isolamento che
la renderebbe, tra l’altro, incomprensibile) e, dall’altro, venga ricordato che il
veicolo unico (Ekayana)21 proposto dal sutra è un veicolo “vuoto”, perché al di
là di tutti i veicoli, e quindi non può significare proporre il Sutra del Loto come
scrittura quale unico veicolo!
Affermato nel cap. X che il Sutra del Loto racchiude «il segreto
essenziale tesoro di tutti i buddha», nel cap. XXI il Buddha dice:
I divini poteri dei Buddha sono così illimitati che si pongono al di là dell’intelletto e
delle parole. Anche se Io, mediante questi divini poteri, per un tempo illimitato, descrivessi i
meriti di questo sutra allo scopo di assicurarne la trasmissione, non potrei mai arrivare alla
fine. Poiché, in breve, tutte le dottrine possedute dal Tathagata, tutti i sovrani divini poteri
del Tathagata, tutti i segreti fondamentali tesori del Tathagata, tutte le più profonde
condizioni del Tathagata, tutto ciò è proclamato, mostrato, rivelato ed esposto in questo
sutra.
E nel cap. XXIII
Tra tutti i sutra predicati dai Tathagata questo è il più profondo e il più grande […].
Tra milioni di insegnamenti dei sutra esso è il più illuminante. Come il sole è capace di
fugare ogni oscurità così questo sutra è in grado di disperdere ogni insana oscurità.
Da queste affermazioni sembra evidente che ci si debba riferire al Sutra
e non al sutra o che, quantomeno, i due aspetti debbano essere costantemente
tenuti presenti.
Stabilita, infine, l’ equivalenza tra il sutra e «l’intero corpo del Buddha»
(cap. X) è facile comprendere che vengano ad esso attribuiti divini, salvifici
poteri (cap. XXII):
Come il Buddha è il re delle leggi così questo sutra è il re dei sutra. […] Questo sutra
è ciò che può salvare tutti gli esseri viventi; questo sutra può liberare tutti gli esseri viventi
dai dolori e dalle sofferenze; questo sutra può arrecare grandi benefici a tutti gli esseri
viventi ed esaudirne i desideri. Come una limpida e fresca fonte è in grado di soddisfare tutti
gli assetati, come un fuoco per chi ha freddo, una veste per chi è nudo, una guida per una
carovana di mercanti, la madre per un bambino, una barca per chi deve attraversare le acque,
unificazione dei veicoli Theravada e del mahayana preLoto.
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un medico per un ammalato, una lampada nell’oscurità, un gioiello per un povero, un
sovrano per un popolo, la via per il mare per un mercante in viaggio, una torcia che fa
svanire l’oscurità così è il Sutra del Loto, capace di liberare tutti gli esseri viventi da ogni
sofferenza e da ogni malattia, e di sciogliere tutti i vincoli della vita mortale.
di ottenere una rinascita in una delle Terre pure recitando sul letto di morte
qualcuno dei versi importanti del Loto, come per esempio, «di coloro che ascoltano il Dharma
nemmeno uno mancherà di conseguire la buddhità» [cap. II]. In effetti, la devozione al Loto
tendeva a essere focalizzata su segmenti sempre più piccoli del testo: dall’intero Sutra a un
singolo capitolo (per esempio, il capitolo sulla Durata della vita del Tathagata), a versi di
particolare importanza. Nell’ultimo Heian troviamo devoti copiatori del Sutra che cantano il
sacro nome di Amida o il sacro titolo del Sutra del Loto (in giapponese nella forma di Namu
Myohorengekyo) e di preti Tendai che predicano l’efficacia della recitazione del Daimoku
nell’ora della morte. Pertanto, il pietismo del Loto tese progressivamente a prendere la forma
della recitazione del titolo del sutra, con uno sviluppo che raggiunse il suo culmine
nell’insegnamento di Nichiren nel periodo di Kamakura23.
22
G. Jenner, Daimoku, in Hobogirin, vol. 7, MaisonneuveMaison FrancoJaponaise,
ParigiTokyo, 1994, s.v.
23
K. Kasahara (Ed.), A History of Japanese Religion, Tokyo, Kosei Publishing Co., 2001,
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Chihi non considerava il titolo come una “sintesi magica” del
contenuto del testo, ma ne analizzava le parole che lo compongono per
dedurne una rappresentazione mistica dell’universo. Nichiren riprende,
interpreta, modifica l’analisi di Chihi attribuendo al titolo un valore salvifico,
anche sotto l’influenza dell’amidismo, il popolare movimento “rivale” del
periodo di Kamakura, che basava la sua pratica salvifica nella ripetizione del
nome di Amida. La pratica della recitazione di entrambe le due formule,
favorita dal fascino della semplicità a fronte dei complessi itinerari meditativi
di altre scuole, continuò ad avere larga diffusione, sia pure conservando i
rispettivi differenti caratteri, essendo quella amidista sostenutada e
indirizzataverso una visione di latente monoteismo, quella di Nichiren da
una marcata enfasi eticosociale.
L’evoluzione della pratica di preghiera ci mostra come, nella storia del
buddhismo giapponese, si sia passati dal misticismo razionalistico e scolastico
del Tendai del periodo di Heian al misticismo estatico dello Zen e al
misticismo magico del Nembutsu e del Daimoku (devozione al Loto) del
periodo di Kamakura.
La recitazione del Daimoku è stata, nel Novecento, riaffermata dai tre
principali movimenti neobuddhisti del Giappone contemporaneo (Reiyukai,
Rissho Koseikai, Soka Gakkai). Al pari del latte, nutriente per il bambino anche
se questo non ne conosce il motivo, così la recitazione delle formule viene
ritenuta capace di produrre effetti anche su chi non ne conosca tutti i
significati (efficacia ex opere operato). La pratica della recitazione del Daimoku,
che i movimenti neobuddhisti hanno, con evidente successo, proposto anche
all’Occidente come forma di preghierameditazione24, non può non farci
interrogare anche sul significato e sul valore di questo metodo come risposta
alla più generale esigenza di inculturazione del buddhismo in Europa e in
America.
3. Conclusione
Ci siamo soffermati, all’inizio di queste riflessioni, sulla storia interna
della preghiera e sul processo della sua progressiva interiorizzazione.
p. 97 s.
24
È noto che la protratta ripetizione, vocale o mentale, di parole o mantra ha il potere
di produrre una alterazione dello stato di coscienza, per cui viene a labilizzarsi il già sfumato
confine tra preghiera e meditazione.
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Schleiermacher (pensatore della tradizione che, in Occidente, considera
l’uomo e le cose impronta ed espressione dell’Infinito), nel suo già citato
Predigten25, osserva come nella preghiera, quando sia presente una
dimensione di richiesta, si determini inevitabilmente un dualismo tra la
volontà nostra e la Volontà divina, una sorta di dimenticanza del fatto che
«nel progetto divino è previsto tutto e tutto vi possiede un’unità». Pertanto,
colui che prega deve subito ricordare che tutto ciò che accade ha in noi stessi il suo
fine, indirizzato al nostro miglioramento e all’accrescimento del bene in noi. Egli diviene
nuovamente consapevole che questo fine dell’Altissimo, che il suo impetuoso sentimento gli
26
aveva allontanato dagli occhi per un breve tempo, è tuttavia anche il suo proprio fine .
La preghiera di Gesù diviene, per l’A., un modello per il praticante.
Dopo il «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!», nel «Padre, sia
fatta la Tua volontà» egli vede, infatti, esprimersi il bisogno del suo cuore «di
abbandonarsi a un indisturbato godimento della comunione con suo Padre
senza un desiderio determinato, senza una vera e propria richiesta a lui».
L’essenza della preghiera si precisa dunque come il
rapportare tutti i pensieri di una qualche importanza che sorgono in noi al pensiero
di Dio, nelle nostre considerazioni circa il mondo ritenerlo sempre opera della sua sapienza,
ponderare tutte le nostre risoluzioni al cospetto di Dio, perché possiamo compierle nel suo
nome, ed essere, anche nel gioioso godimento della vita, memori del suo occhio che tutto
27
vede: tutto ciò è l’incessante pregare, cui siamo esortati , e proprio qui risiede l’essenza della
vera devozione.
F. D. E. Schleiermacher, La forza della preghiera, tr. it. in G. Bevilacqua (a cura di), I
25
romantici tedeschi, IV, Milano, Rizzoli, 1996, pp. 83753.
26
Anche nella preghiera “altruistica”, finalizzata a ottenere il bene dell’altro,
permane il desiderio di correggere quanto la Provvidenza ha già disposto.
27
Ricordiamo il paolino “sine intermissione orate” e la “pratica incessante” di Dogen.
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e le religioni offrono il significato ultimo a ciascuna cultura»28. Se qualcuno,
come Victor Hugo, poteva affermare (nel suo testamento): «Io credo, ecco
tutto. La massa ha gli occhi deboli. È affar suo. I dogmi e le pratiche sono
occhiali che fanno vedere le stelle a chi ha la vista corta. Io vedo Dio a occhio
nudo», resta il fatto che tra la sponda delle illusioni e della sofferenza, e quella
del nirvana e della pace, le religioni si offrono come indispensabili traghetti, e
ciò può spiegarci perché tale processo di dialogo (fatto di differenza e dualità,
da un lato, ma anche di esigenza di identificazione e unità, dall’altro) si
ritrova presente nel cuore dei più diversi orientamenti spirituali29.
Abbiamo visto come nel Sutra del loto il Buddha riveli che i suoi
insegnamenti precedenti (cioè i vari “veicoli” delle scuole buddhiste e, per
estensione, i racconti e i miti in cui si esprimono le varie rivelazione religiose,
nonché le differenti elaborazioni delle metafisiche filosofiche) siano da
considerare porte provvisorie per giungere alla liberazione ossia “mezzi abili”
o didattici (upaya), adeguati alle differenti capacità di comprensione dei
destinatari, abilmente approntati per la guida dei nonilluminati. Secondo la
dottrina buddhista, la Realtà ultima è rappresentata dalla inesprimibile
Vacuità, ma come ci ricorda Nagarjuna, il grande filosofo del IIIII secolo,
L’insegnamento del Dharma da parte dei vari Buddha è basato sulle due verità: cioè
la verità relativa del mondo e la Verità Ultima.
Coloro che non discernono la differenza tra queste due verità non discernono la
natura profonda dell’insegnamento del Buddha.
La Verità Assoluta non può essere espressa senza appoggiarsi sull’ordine pratico
delle cose.
Senza intendere la Verità Assoluta, il Nirvana non può essere raggiunto.
La realtà convenzionale (condizionata e contingente), benché priva di
esistenza inerente e di una natura sua propria, è dunque indispensabile (se il
Nirvana coincide col samsara) per vivere alla luce della vera Realtà e del
Mistero ultimo. Sul versante conoscitivo, ciò comporterà che i diversi
insegnamenti particolari, benché upaya, debbano non solo continuare a essere
usati, ma che i due livelli — di realtà e di verità — non siano separati da
28
UNESCO, Declaration on the Role of Religion in the Promotion of a Culture of Peace,
Barcellona, 1994.
29
S. Agostino, che tanto si è soffermato sulla inesauribile ricerca dell’Assoluto, ne
afferma anche, con appassionate parole, il senso della immediata presenza: «Tu autem eras
interior intimo meo et superior summo meo» [Tu infatti eri l’intimità della mia intimità e il
vertice di ogni mia altitudine], Confessioni, III, VI, 11.
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nessuna forma di dualismo. Sul versante della pratica, di conseguenza, si
delinea un ventaglio di modalità, alcune delle quali potrebbero essere
inappropriate se vissute come un ritorno a forme di rapporto dualistico con
l’Assoluto, mentre potranno essere accolte come “mezzi abili”, utili per il
superamento della “illusione” dell’io separato e per il contributo che avranno
portato alla progressiva e dinamica realizzazione della moksha, l’autentica
liberazione indicata dagli Illuminati di tutti i tempi.
Possiamo forse vedere sciolto, a questo punto, l’interrogativo sul
significato della presenza nel buddhismo di pratiche religiose assimilabili,
nell’aspetto, a forme “tradizionali” di preghiera (uso della parola in forma di
lode, invocazione, domanda di salvezza), ma profondamente diverse quanto a
natura e finalità.
Nel buddhismo, infatti, il sacro, inteso come il nonordinario o il non
profano, è visto come la grande forza della Vita inerente nel cosmo: essa non è
separata dal mondo (il sacro si esprime nel profano) ed è presente, come
naturadiBuddha (o essenza) nella totaltà degli esseri e nella vita stessa del
praticante. La “preghiera” diviene allora il processo di trasformazione dei
bisogni terreni in bisogno di illuminazione: sintonizzando la nostra vita
individuale col ritmo del cosmo e il piccolo sé col grande Sé, si stabilisce una
forma di “dialogo”, interno alla Realtà ultima30 (né personale né non
personale), dalla quale non diviene insensato attendere una “risposta”, sulla
base dell’unità della mente umana e della Vita cosmica: «Tremila mondi in un
momento della mente, un momento della mente permea la Realtà
universale»31. Il Buddha e i Bodhisattva o il Gohonzonmandala32 di Nichiren, ai
quali vengono indirizzate le preghiere, non sono idoli o immagini di divinità,
ma una sorta di mezzi di riflessione speculare: rappresentando lo stato di
perfetta realizzazione essi agiscono come catalizzatori del cambiamento
interiore e dell’impegno a sviluppare e rivelare le parte migliori di noi stessi33.
Nichiren, illustrando il significato del Daimoku, osservava che myo
è semplicemente la misteriosa natura della nostra vita di momento in momento, che
la mente non può comprendere e le parole non possono esprimere. […] La vita è veramente
30
Per tentare un’altra analogia, potremmo ricordare che anche il Dio trinitario è un
Dio dialogico al suo stesso interno.
31
Secondo la formula che sintetizza l’insegnamento fondamentale della Scuola T’ien
t’ai/Tendai.
32
“Oggetto di devozione”, rappresentato da uno scritto autografo di Nichiren.
Cfr. Prayer in Buddhism, “SGI Quarterly”, January 2000 e The GohonzonObserving
33
the Mind, “SGI Quarterly”, April 2003.
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una realtà inafferrabile che trascende sia le parole che i concetti dell’esistenza e della non
esistenza. Non è né esistenza né non esistenza, e comunque ha le caratteristiche di ambedue.
È la mistica entità della Via di Mezzo che è la realtà di tutte le cose. Myo è il nome dato alla
misteriosa natura della vita. […] Una volta compreso che la tua vita stessa è la Legge mistica,
comprenderai che lo è anche la vita di tutti gli altri. […] L’entità della nostra mente, dalla
quale sorgono sia il bene che il male, è in realtà l’entità della Legge mistica34.
Dal punto di vista della psicologia comparata della religione, possiamo
affermare che il processo di interiorizzazione della preghiera ha qui il suo
compimento: superata la distanza tra l’io individuale e la Realtà ultima, la
coscienza — resa transpersonale — diviene luogo di autoriflessione della
mistica forza della Vita cosmica, punto in cui l’Essere si svela, nel suo intimo,
come «beatitudine fremente» (Zolla). L’Occidente ha dovuto attendere molti
secoli, dopo il Buddha, per poter dire, con Hegel, che: «L’idea, eterna in sé e
per sé, si attua, si produce e gode sé stessa eternamente come Spirito
assoluto»35.
Gli scritti di Nichiren Daishonen, tr. it., IV, Milano, Associazione ital. Nichiren
34
Shoshu, 1991, p. 5 s.
35
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it., Bari, Laterza, 1967, p. 528.
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