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La Br. Up. appartiene al corpo dei Veda. Questi ultimi si dividono in quattro libri,
conosciuti come
Rigveda,Yajurveda,Samaveda,Atharvaveda.
A seconda del contenuto e della forma letteraria, ognuno di questi libri a sua volta
si distingue in:
Samhita
Brahmana
Aranyaka
Upanishad
I Samhita consistono in una raccolta di inni impiegati, per la maggior parte, nei riti
sacrificali e conosciuti più
comunemente come Mantra. E’ ad essi che normalmente ci si riferisce quando si
parla in generale dei Veda.
Quindi i Samhita possono appartenere alla sezione del Rigveda, se sono espressi
in versi; allo Yajurveda, se sono
resi in prosa e al Samaveda se sono strutturati in canti.
Il Rigveda Samhita si compone di 10.580 versi (mantra); il Samaveda Samhita
contiene 1.549 versi e si tratta
di canti intonati durante i sacrifici. Lo Yajurveda Samhita raggruppa due recensioni
conosciute come Krishna
Yajurveda (Y. nero) e Shukla Yajurveda (Y. bianco).
L’Atharvaveda Samhita non è generalmente studiato come libro di preghiere ed il
suo uso è limitato ad alcune
forme di sacrificio.
I Brahmana si occupano dell’uso pratico dei canti contemplati dai Samhita.
Gli Aranyaka a loro volta, sviluppano alcune considerazioni simboliche ed
esoteriche di ciò che costituisce la
pratica contemplata dai Brahmana.
Le Upanishad, infine, riprendono alcuni temi dei Brahmana, ma li sviluppano in
senso mistico e filosofico. Le
sezioni filosofiche dei Brahmana e degli Aranyaka vanno normalmente sotto il
nome di Upanishad.
La Brihadaranyaka Upanishad appartiene al gruppo dello Shukla Yajurveda (Y.
bianco); è probailmente la più
elaborata e una tra le più antiche.
Si suddivide in tre libri:
Madhu Kanda
Yajnavalkya Kanda
Khila Kanda
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MADHU KANDA
(libro del miele)
Sezione I -Asvameda Brahmana.
1.”Om. L’aurora è il capo del cavallo sacrificale, il sole è il suo occhio, il vento il
suo respiro, il fuoco
Vaishvanara le sue fauci spalancate, l’anno (0) il suo essere. Il cielo è il dorso del
cavallo sacrificale, l’atmosfera
la sua pancia, la terra il basso ventre, i punti cardinali i fianchi, i punti intermedi i
costati, le stagioni le membra,
i mesi e le quindicine le articolazioni, i giorni e le notti le zampe, le costellazioni le
ossa, le nuvole la carne, la
sabbia il nutrimento, i fiumi gli intestini, le montagne il fegato e la milza, le piante
e gli alberi il pelo; il sole che
si leva è la sua metà anteriore, il sole che tramonta quella posteriore; allorché
apre la bocca lampeggia, allorché
sbuffa tuona, allorché orina piove; il suo nitrito, invero. è la Voce stessa.”
La prima sezione si apre con la meditazione sull’Asvameda yaga, il sacrificio del
cavallo. Si tratta di uno
dei più importanti sacrifici dell’epoca vedica, attraverso il quale il sovrano
riconfermava il suo potere e la
grandezza del suo regno.
La Upanishad interiorizza simbolicamente tale sacrificio e ne fa oggetto di
meditazione sul Purusha, nella forma
di questo universo. La similitudine sulle varie parti del cavallo sacrificale sono
abbastanza intuitive. Da notare
la identificazione della testa del cavallo - parte più importante dell’animale - con
l’alba, momento magico,
con la quale inizia il giorno e, più specificatamente, con il brahma muhurta il
momento più favorevole alla
meditazione.
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2. Il giorno, la cui matrice è nell’oceano orientale è il mahiman anteriore: esso è
nato al seguito del cavallo;
la notte, la cui matrice è nell’oceano occidentale, è il mahiman posteriore: essa è
nata al seguito del cavallo.
Essendo destriero portò i Deva, come stallone portò i Gandharva, come corsiero
portò gli Asura, come cavallo
(asva) portò gli uomini. Parente gli è l’oceano, l’oceano è la sua matrice.
Nell’asvamedha yaga due recipienti - con i quali veniva effettuata la libagione -
uno d’oro e l’altro d’argento
venivano collocati davanti e dietro l’animale sacrificale. Essendo la testa del
cavallo assimilata all’alba, la quale
come è noto sorge ad est, necessariamente il mahiman anteriore deve essere
collocato in tale direzione. Esso
è d’oro in quanto il nobile metallo è il più idoneo a rappresentare la luminosità del
giorno (ma anche, e non
secondariamente) il carattere prezioso e sacro dell’alba o del Brahma muhurta).
Il mahiman posteriore - che veniva forgiato con l’argento- (1) sarà
necessariamente collocato ad Ovest,
rappresentando il punto dove tramonta il sole. L’Universo o il Purusha o il cavallo
sacrificale, nel nostro stato
di veglia, è visibile nello spazio di tempo compreso tra l’alba ed il tramonto. Tutta
la conoscenza successiva
si fonda e parte dallo stato di veglia.
Deva (i Risplendenti), Gandharva (esseri dimoranti nell’atmosfera,
gerarchicamente inferiori ai Deva), Asura
(forze della natura, successivamente identificate con i Demoni) e Uomini, tutti
sono condotti (=sostenuti) dal
cavallo nelle sue differenti tipologie: haya, vaji, arva, asva. L’Oceano è la matrice
dell’esistenza. E’ il Sé
universale, non ancora espresso nella manifestazione.
Fine della prima sezione
Brihadaranyaka Upanishad
Libro primo (Madhu kanda) - Capitolo I
Sezione VI - Uktha Brahmana
1. Questo mondo è formato dalla triade: nome, forma e azione. La parola è uktha,
l’origine di questi nomi,
perché è da essa che derivano. Questo suono è il loro sama perché è comune a
tutti ed è il loro Brahman,
perché li sostiene tutti.
L’intero ambito della nostra esperienza soggiace ad un triplice condizionamento:
nome, forma e azione. Si
tratta di un vero e proprio condizionamento in quanto al di fuori di questa triade,
non esiste conoscenza
logica. Siamo condizionati dai nomi perché l’attribuire un nome è il primo atto che
la mente compie per
catalogare un certo tipo di realtà. Successivamente riusciamo a diversificare le
forme tra loro attraverso una
specifica caratterizzazione, che altro non è se non l’attribuzione sempre più
particolareggiata di un nome; -
nel termine generico di “nome”, naturalmente, rientra l’attribuzione della qualità,
del colore, dell’odore ecc,
che i nostri sensi di percezione riconducono ad una espressione verbale -.
Vi sono poi differenti “forme” di azione che possono essere considerate come una
reazione “discorsiva” ai
differenti stimoli, anche quando si è in presenza di un impulso.
La conferma di ciò si ha nel caso della meditazione. La sua esperienza non è né
descrivibile, né quantificabile
attraverso il comune linguaggio. Se proprio si volesse dare una descizione formale
del ricordo di uno stato
meditativo, si sarebbe costretti ad assumere un uso improprio di espressioni e
contenuti che non trovano
nessun riscontro nel senso comune delle cose.
In fin dei conti, il nome - che si esprime attraverso l’espressione vocale,
il suono - è il sostegno o la causa di tutti i nomi. L’Upanishad lo assimila
simbolicamente all’ uktha, che
rappresenta il nome di una porzione del Sama Veda creata dalla bocca di Brahma.
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2. Ora per quanto riguarda le forme. L’occhio è il loro uktha, la causa, perché da
esso sprigionano tutte
le forme. Esso è il loro sama, perché è comune atutte le forme. Esso è il loro
Brahman in quanto le
sostiene tutte.
L’esperienza visiva degli oggetti è il secondo legame che dallo stimoloconduce
all’azione. Interpretiamo la
realtà in quanto è possibile distinguere la diversità delle cose fra loro attraverso la
loro particolare forma.
Siccome l’esperienza visiva non è altro che il riflesso di tutto ciò che esiste fuori
dell’occhio, possiamo
metaforicamente affermare che è da esso che sprigionano o hanno origine tutte le
forme.
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3. Ora per quanto riguarda l’azione. Questo corpo è l’uktha o la causa delle azioni,
perché è da esso che
sprigionano. Esso - il corpo - è il loro sama, in quanto comune a tutte le azioni. E’ il
loro Brahman, in
quanto sostegno di tutte le azioni. Sebbene triplice, questa trinità è una. Sebbene
una, esso è questa trinità.
Questo immortale è velato da satya. In verità questo prana è immortale. Nomi e
forme sono satya. Questo
prana è velato dai due.
Il terzo aspetto della realtà concerne la reazione allo stimolo che i sensi
percepiscono. E’ attraverso l’azione
che si può modificare la realtà e ciò è possibile solo con la partecipazione del
corpo. Esso, dunque, è l’origine
di tutte le azioni. In fin dei conti tale azione è l’unica risposta agli stimoli visivo e
uditivo; come dire che i
nomi e le forme sono modificabili attraverso l’azione.
La realtà, sebbene molteplice, può essere esperita solamente da questo corpo
così come l’Universo, con le
mille sfaccettature che tendono a distrarre e disorientare il ricercatore, non è altro
che l’mmagine dell’Uno.
L’ “immortale” è Prana; “satya” è ciò che definisce realtà. La realtà comune,
l’esperienza quotidiana tendono,
così, a velare l’immagine dell’Uno.
Fine del capitolo I
Brihadaranyaka Upanishad
Libro primo (Madhu kanda) - Capitolo II
Sezione II - Shishu Brahmana
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1. Colui che conosce il neonato, la sua dimora, il sostegno, il palo e la corda
distrugge i sette parenti rivali.
Il Prana nel corpo è questo neonato. Il corpo è la sua dimora, la testa è il
sostegno, l’energia il palo ed
il cibo è la corda.
Due metafore assunte nell’ambito della vita quotidiana aprono questa sezione
dedicata alla meditazione
su Prana.
Il neonato si riferisce al vitello, che nella sua condizione risiede costantemente
all’interno del recinto o
assicurato ad un palo mediante la corda: non conosce il mondo al di fuori della
sua dimora.
Nel microcosmo la dimora di prana è, appunto, l’organismo umano. Non può
esperire la realtà esterna, se
non attraverso i sensi ed i loro organi di percezione.
Sono proprio essi, in numero di sette [cioè le sette aperture: occhi, orecchie, narici
e bocca] che con il
fascino delle forme esteriori irretiscono l’animo umano, distraendolo
subdolamente dalla ricerca interiore
e spirituale.
Così come farebbero degli insospettati parenti che volessero appropriarsi dei beni
di un individuo.
Il sostegno di prana, si dice sia la testa. Sostiene la Chandogya upanishad:
“Quando un uomo sta per morire,
la parola (1) si riassorbe nel manas, questo nel prana, il prana nel fuoco, il fuoco
nella suprema divinità”.
La corda ed il palo a cui è legato, mantengono il vitello al suo posto, così come
prana risiede nell’organismo
fintantochè l’energia ed il cibo che la fornisce assicurano la vita.
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Sette esseri imperituri sono vicino a lui. Quelle righe rosse che sono nell’occhio:
attraverso esse Rudra è a
lui [il prana] unito. Mediante il liquido che è nell’occhio, parjanya è a lui unito. Allo
stesso modo mediante
la pupilla, il sole; mediante il nero dell’iride , Agni; mediante il bianco della cornea,
Indra. La terra è unita
ad esso mediante la palpebra inferiore ed il cielo mediante quella superiore. Colui
che così conosce non
mancherà di nutrimento.
La sede speciale di Prana, durante lo stato di veglia [Vaishvanara - consulta
l’audio “Gli stati di coscienza”] è
l’occhio, perché tramite la vista l’essere si confronta con la realtà esteriore.
Nell’occhio risiedono i sette nomi segreti di prana: rudra, parjanya, aditya, agni,
indra, prithivi, dyau.
Quelle sette parti dell’occhio che ne rappresentano la sua costituzione e
riuniscono in sé il fattore della vista
sono quindi assimilati alle sette potenze che prevengono il decadimento della
condizione ordinaria dello
stato di veglia [Vaishvanara].
L’importanza di Rudra risiede nel fatto che la tarda mitologia ha finito per
assimilarla a quella di Shiva,
figura di rilievo nel pantheon indù, incarnandone spesso il suo carattere
distruttivo. Più anticamente Rudra
rappresentava, infatti, l’azione selvaggia e distruttiva della natura.
In questa Upanishad i Rudra (plur.) sono i dieci soffi vitali (prana), alcune volte
considerati in numero di
tre, sette o undici.
Parjanya è il signore della pioggia. Elargisce agli uomini la buona salute.
Nell’Atharva Veda viene implorato
perché invii agli uomini le piogge abbondanti: “Possano le brumose regioni
sorvolare insieme e le nuvole
foriere di pioggia, spinte dal vento, raggrupparsi. Possano veloci ruscelli fluire
dalle tuonanti nubi nel cielo,
allietando la terra”. [AV, libro IV, inno XV, mantra1]
Aditya sono i figli di Aditi che è chiamata anche Devamatri - la madre degli dei.
Nelle scritture vediche gli
Aditya sono sei, o più frequentemente sette. In realtà otto figli nacquero da Aditi,
ma ella si presentò agli dei
con sette, avendone cacciato via l’ottavo, Martanda - il sole.
Successivamente il numero crebbe a dodici, rappresentando gli aspetti del sole
nei dodici mesi dell’anno.
Aditya ha finito, così, per essere uno dei nomi del sole.
Il sole è chiamato anche Surya o Vivasvat, il capo degli dei.
Le dodici dinastie solari o personificazioni del sole sotto i diversi nomi e segni
dello zodiaco sono chiamate
Aditya. Esse appartengono ad un periodo anteriore ai Veda.
Nel contesto di questa Upanishad si capisce facilmente l’assimilazione del sole
alla pupilla dell’occhio: tutti
e due sono la porta che dischiude le forme visibili.
Agni. Non ripeteremo qui le considerazione già fatte abbondantemente negli altri
mantra di questa Upanishad.
Solamente una, di notevole rilievo per il presente commento: i nomi e gli epiteti di
Agni sono
molteplici - Vahni, Anala, Pavaka, Vaishvanara !
Indra è la personificazione dell’atmosfera e come tale governa sul tempo
metereologico e dispensa la
pioggia, causa di fertilità. Nel RigVeda la principale caratteristica di Indra è la
potenza e il vigore. Quando
Vaishvanara - il sé nello stato di veglia - identifica sé stesso nella fruizione degli
oggetti esteriori, è
conosciuto con il nome di indra.
Prithivi è la terra personificata come divinità. In questo caso rappresenta uno dei
due elementi che rappresentano
il mondo fisico, l’altro essendo dyau, il cielo.
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3. Vi sono dei versi che si riferiscono a questo soggetto: “C’è un vaso con la bocca
rivolta in basso ed il
fondo in alto. In esso è contenuta la conoscenza universale. Sul bordo sono seduti
i sette rishi. La parola
è l’ottavo che è associato ai Veda.”
Il vaso con la bocca rivolta in basso ed il fondo in alto è la testa. In essa è riposta
tutta la conoscenza, perché
gli organi dei sensi - che sono i saggi - sono lì.
Così il mantra si riferisce agli organi dei sensi.
Sette saggi seduti sul bordo si riferiscono alle sette divinità [potenze] degli organi
nella testa.
La facoltà della parola è l’ottavo ed è associato ai veda, perché essa viene dopo
gli altri per pronunciare
i veda.
Il mantra riproduce un verso dell’Atharva Veda dove i sette orifizi che sono nel
capo - già descritti nel
precedente mantra - sono assimilati ai saptarishi, i sette saggi: Gotama,
Bharadvaja, Vishvamitra, Jamadagni,
Vasishtha, Kashyapa e Atri. Questi organi esperiscono tutta la conoscenza che può
essere sintetizzata
attraverso la parola - l’ottavo - e, ancor meglio, dalla parola sacra: i Veda.
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4. Le due orecchie sono Gotama e Bharadvaja. Il destro è, in verità, Gotama ed il
sinistro Bharadvaja.
Gli occhi sono Vishvamitra e Jamadagni. Il destro è Vishvamitra ed il sinistro
Jamadagni.
Le due narici sono Vasishtha e Kashyapa. La destra è Vashistha e la sinistra
Kashyapa.
La bocca è Atri perché è attraverso la bocca che esso viene consumato. Così Atti è
ciò che viene conosciuto
come Atri. Colui che così realizza diviene l’assimilatore di tutto ed ogni cosa
rappresenta cibo.
Il mantra va ancora oltre l’analogia, realizzando una sorta di identità (simbolica,
naturalmente) tra ciascuno
dei sette saggi e gli organi di senso.
Alcuni cenni sui personaggi:
Gotama, un rishi vedico a cui viene attribuita la composizione di alcuni brani del
RigVeda.
Bharadvaja, anche ad esso sono attribuiti alcuni inni vedici. Il Taittiriya Brahmana
sostiene che visse tre
vite - intendendo probabilmente una durata molto lunga - che divenne immortale
ed ascese al mondo celeste
unendosi al sole. Il Mahabharata sostiene che questo rishi visse ad Haridwar,
mentre il Ramayana sostiene
che ricevette Rama e Sita nella città di Prayaga che fu così celebrata nei secoli.
Vishvamitra. Secondo il Ramayana fu, in base alla casta di provenienza,
originariamente uno kshatrya.
Successivamente praticò molte austerità sulle montagne himalayane divenendo
così un brahmano. La sua
storia si collega a quella di:
Jamadagni. Sua madre, Satyavati, era figlia del re Gadhi, uno kshatrya. Durante il
periodo di gestazione
di Satyavati suo marito, Ricika, allestì un banchetto allo scopo di garantire che il
nascituro possedesse le
qualità di un brahmano. Un altro banchetto allestì per la madre di Satyavati, al
fine di garantire le qualità
del guerriero (kshatrya) al futuro figlio del re. La donna scambiò i banchetti e così
Jamadagni nacque con le
predisposizioni di uno kshatrya e Vishvamitra con quelle di un prete.
Vasishtha. Sembra ci fosse una speciale rivalità tra esso ed il saggio Vishvamitra
che trasformò il suo rango
da quello guerriero a quello brahmano.
Vasishta possedeva la “vacca dell’abbondanza” chiamata Nandini che aveva il
potere di garantirgli tutte le
cose (vastu) che desiderava.
L’inimicizia tra Vasishtha e Vishvamitra è messa in risalto nel Ramayana.
Vishvamitra governò come re per
molte migliaia di anni ma desiderava ardentemente la vacca dell’abbondanza che
aveva visto nella dimora
del suo rivale e che eveva tentato di impossessarsi con la forza.
Una grande battaglia seguì tra gli ospiti del re Vishvamitra ed i guerrieri generati
dalla vacca dell’abbondanza
per difendere il loro signore.
Centinaia di figli di Vishvamitra furono ridotti in cenere da un soffio della bocca di
Vasishtha. Il rivale,
sconfitto, abdicò e si ritirò sull’Himalaya.
I due si incontrarono nuovamente, scontrandosi in un combattimento singolo.
Vishvamitra nuovamente
sconfitto dal potere brahmanico, decise di praticare austerità per acquisire le doti
di brahmano in modo da
eguagliare il suo rivale.
Condusse a termine il suo scopo diventando un brahmano, ma al tempo stesso
procurando rancore nel suo
rivale, Vasistha, per questo novello potere.
I cento figli di Vasishtha denunciarono Vishvamitra accusandolo di comportarsi
come un brahmano sebbene
fosse uno kshatrya.
Questo fece infuriare Vishvamitra che maledì i figli del suo rivale riducendoli in
cenere e condannandoli a
rinascere come fuori casta per settecento rinascite.
Finalmente Vasishtha, convinto dagli dei, si riconciliò al suo rivale. Gli riconobbe il
diritto a tutte le
prerogative di un rishi brahmano e, a sua volta, Vishvamitra, onorò il suo ex rivale.
Queste dispute leggendarie si rifletterono, successivamente, sulle guerre fra i
sovrani discendenti per il
possesso della “Vacca dell’abbondanza”, per la conquista, cioè, del Madhyadesha,
il cuore dell’India
settentrionale. Guerre che continuarono fino ad una relativa stabilità assicurata da
vincoli matrimoniali tra
le due famiglie e da alleanze politiche.
Kashyapa. Secondo il Mahabharata egli ebbe come mogli le tredici figlie di Daksha
(simboleggianti i tredici
mesi lunari) e fra queste Adity con la quale generò i dodici Aditya, simboleggianti i
dodici mesi dell’anno
solare.
Atri, letteralmente colui che mangia. Nel periodo epico è considerato uno dei dieci
Prajapati o signori
della crazione.
L’accostamento con il verbo “atti”, mangiare spiega l’assimilazione descritta nel
presente mantra.