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Per riprendere la crescita: quale politica indu-


striale?
di Leonello Tronti (Scuola Nazionale dellAmministrazione)

1. Dal declino alla crisi
Se dal 2008 si parla moltissimo della crisi finanziaria internazionale e
di come lItalia ne sia colpita, si parla ancora troppo poco del fatto che
leconomia reale del Paese in difficolt da molto pi tempo. dal
1995, infatti, che la crescita italiana sistematicamente inferiore a quella
europea, tanto che il divario cumulato di crescita rispetto alla media dei
paesi delleuro ha raggiunto i 19 punti percentuali. Se lItalia fosse cre-
sciuta come la media dei paesi euro, godrebbe oggi di un reddito reale
di un quinto superiore a quello attuale. Poi, dal 2008 la crescita insuffi-
ciente, per troppo tempo tenuta sotto un silenzio irresponsabile, di-
ventata prima recessione e infine crisi profonda, conquistando final-
mente lordine del giorno della politica e delle relazioni industriali e
mettendo a tacere le accuse di disfattismo rivolte per anni a chi si era
impegnato a comprenderne le cause e a proporne i rimedi. Quali sono,
dunque, le ragioni tutte italiane e reali della crisi, che si sommano a
quelle finanziarie e internazionali?
Tutti sanno che leconomia italiana gravata da profondi squilibri
strutturali. Il pi discusso quello territoriale, ma non il solo e nem-
meno il pi grave. In chiave europea (considerando il contesto comuni-
tario come la prima area di competitivit con la quale il Paese chiama-
to a confrontarsi), balza allevidenza il segnale di disfunzionalit lancia-
to dal persistente divario negli andamenti di due variabili economiche
fondamentali: i salari e i prezzi.

2. Salari e prezzi
Se osserviamo, ad esempio, le dinamiche salariali notiamo che sol-
tanto la Spagna, tra i grandi paesi europei, presenta una dinamica retri-
butiva di lungo periodo pi modesta dellItalia, mentre negli altri le re-
tribuzioni sono cresciute, in termini reali, in misura assai pi cospicua.
In particolare, prendendo a riferimento il 1990, le retribuzioni reali dei

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lavoratori italiani
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hanno segnato nel 2012 una diminuzione complessiva
del 2,9 per cento, mentre il dato medio dellEurozona era di un aumen-
to del 14,2 per cento e quello dei lavoratori tedeschi di poco inferiore,
del 13,7 per cento. In altri termini, le economie delleuro, e in misura
non significativamente diversa quella tedesca, hanno consentito negli
ultimi 22 anni ai salari di crescere in misura non indifferente in termini
reali, mentre in Italia il potere dacquisto delle retribuzioni rimasto
inchiodato ai valori di partenza.
Quanto ha influito questo diverso andamento delle retribuzioni sui
prezzi? Nonostante la moderazione salariale i prezzi italiani, tanto in-
terni quanto allesportazione, hanno continuato a crescere pi di quelli
degli altri paesi. Tra il 1990 e il 2012 lindice dei prezzi al consumo
cresciuto in Italia, secondo Eurostat, del 94 per cento, mentre in Ger-
mania cresceva del 52 per cento (ben 42 punti in meno) e nella media
dellEurozona del 69 per cento (25 punti in meno). Semplificando, un
bene che nel 1990 aveva pi o meno lo stesso prezzo in Italia, in Ger-
mania e negli altri paesi delleuro, oggi costa in Italia pi del 40 per cen-
to pi che in Germania e un quarto pi che nella media delleurozona.
Ancor pi vistose sono le differenze di crescita dei prezzi delle
esportazioni. Sempre secondo Eurostat, prendendo a base il 1995 (an-
no in cui si esaurisce leffetto benefico dellultima, grande svalutazione
della lira), nel 2012 i prezzi dellexport italiano hanno segnato un au-
mento complessivo del 46 per cento, quelli dei paesi euro una media
del 19 per cento, e quelli tedeschi soltanto del 4 per cento. Corrispon-
dentemente, il tasso di cambio reale dellItalia (che riflette le diverse di-
namiche di prezzo) si svalutato con riferimento ai prezzi interni del
21 per cento nei confronti della Germania e del 13 per cento nei con-
fronti della media dellEurozona, e con riferimento ai prezzi dellexport
ancor di pi: del 36 per cento nei confronti della Germania e del 21 per
cento nei confronti dellEurozona. Queste cifre indicano la misura in
cui dovremmo svalutare il cambio per recuperare la parit dei poteri
dacquisto nei mercati domestici che avevamo nel 1990 o la competiti-
vit di prezzo allesportazione che avevamo nel 1995.

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I dati qui citati, di Eurostat, fanno riferimento al reddito da lavoro dipendente pro capite, de-
flazionato con lindice dei prezzi al consumo.

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Le economie delleuro, e in particolar modo quella tedesca, sono
dunque riuscite a tenere assai meglio sotto controllo la dinamica dei
prezzi nonostante siano riuscite a concedere ai lavoratori crescite non
indifferenti del salario reale. Una cosa dunque certa: i differenziali di
inflazione italiani non derivano da una diversa pressione salariale, ma
dalle peculiarit e dalle inefficienze del sistema economico.

3. In cerca di un modello di sviluppo
I divari strutturali dellItalia rispetto ai paesi delleuro e alla Germa-
nia inquadrano perfettamente la crisi delleconomia italiana. Ad essere
da lungo tempo in crisi , in modo evidente, il modello di sviluppo. In
estrema sintesi, rispetto ai suoi concorrenti un sistema economico pu
essere orientato ad un modello di crescita wage-led, trainato in misura
maggiore dal mercato interno, e presentare perci salari (e prezzi) pi
elevati. Oppure pu dimostrarsi orientato ad un modello di crescita ex-
port-led, trainato dai mercati esteri, e presentare pertanto prezzi (e salari)
pi contenuti. La scelta delluna o dellaltra strategia di sviluppo pu
essere determinata tanto dalle condizioni strutturali (tra le quali fon-
damentale la dipendenza dalle importazioni), quanto dalle opzioni di
politica economica prescelte dal Paese. Ma entrambi i modelli, se ade-
guati rispetto alle condizioni strutturali delleconomia, possono essere
funzionali allo sviluppo.
Ben diverso il caso di uneconomia che, come lItalia, presenti
strutturalmente, come abbiamo visto, salari che crescono meno e prez-
zi che aumentano pi dei concorrenti. Il differenziale medio annuo tra
crescita dei prezzi al consumo e crescita dei salari reali, che pu essere
assunto ad indicatore dellefficienza del sistema economico, stato in-
fatti in Italia, tra il 1990 e il 2012, di 1,4 punti nei confronti
dellEurozona e di 1,8 punti nei confronti della Germania; mentre quel-
lo tra i prezzi allesportazione e i salari reali, che misura la competitivit
di prezzo delle imprese esportatrici, stato, tra il 1995 e il 2012, di 2,4
punti nei confronti dellEurozona e addirittura di 3,2 punti nei con-
fronti della Germania. Leconomia italiana non pu dunque crescere
perch manifestamente inadeguata a perseguire sia un sentiero di cre-
scita wage-led (a causa delle retribuzioni troppo deboli per sostenere i
consumi), sia un sentiero export-led (a causa dei prezzi troppo elevati per

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la competitivit delle esportazioni)
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. Peraltro il blocco della crescita
particolarmente in un contesto caratterizzato, come quello italiano, da
un sostenuto aumento delloccupazione
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ha reso pi sfavorevole il
tradeoff tra occupazione e produttivit del lavoro, comportando inevi-
tabilmente un vistoso rallentamento della produttivit. Il rallentamento
e poi la contrazione della produttivit si sono ripercossi a loro volta sui
prezzi, avvitando la morsa della stagnazione.
A proposito di questo misalignment strutturale va ricordato che per
controbilanciare (senza per risolverla) leccessiva crescita dei prezzi
allesportazione, dalla seconda met degli anni Sessanta fino ai primi
anni Novanta lItalia ha utilizzato come variabile macroeconomica di
aggiustamento il valore esterno della moneta. Con labbandono della
lira e ladozione delleuro, per, questa variabile non pi stata dispo-
nibile alla politica nazionale. Di conseguenza, sin dai primi anni No-
vanta il Paese si sarebbe dovuto adeguare ai nuovi vincoli e obiettivi, in
parte derivanti dallevoluzione dello scenario economico generale
(nuove tecnologie, finanziarizzazione, globalizzazione dei mercati e
nuovi concorrenti internazionali), in parte imposti dalladesione al pro-
getto europeo (mercato unico, moneta unica, finanza pubblica e, pi
tardi, tasso di occupazione, fiscal compact ecc.). Leconomia era tenuta
a realizzare un rilevante aggiustamento strutturale, adeguando prezzi e
salari al nuovo contesto monetario in cui aveva deciso di collocarsi,
pena lincapacit di crescere al passo con i partner. Ma cos non stato.
O meglio, date le debolezze di analisi, la mancanza di consenso politico
e un eccesso di responsabilizzazione delle principali forze sindacali, co-
s stato solo per il lato del lavoro (retribuzioni, contratti, pensioni);
mentre le riforme strutturali nei meccanismi di formazione di prezzi
(dal lato del capitale) si trova a doverle fare ancora oggi.




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A riscontro di questa conclusione ricordo che, mentre tra il 1990 e il 2012 lItalia ha segnato
una crescita complessiva del Pil del 20 per cento, lEurozona e la Germania sono cresciute di
una misura circa doppia: la prima del 41 per cento (21 punti in pi), la seconda del 39 per cento
(19 punti in pi).
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Unoccupazione spesso precaria e comunque poco sostenibile a causa della mancata crescita.

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4. Politica industriale: la grande assente
questo il tema, ormai diventato un mantra, della perdurante man-
canza di un disegno di politica industriale. Fin dalla firma del Trattato
di Maastricht lItalia avrebbe dovuto decidere verso quale modello di
sviluppo orientarsi (wage-led o export-led) e realizzare di conseguenza le
riforme strutturali dal lato del capitale necessarie a tenere il rapporto
dinamico tra prezzi e salari almeno in linea con i paesi delleuro. Evi-
dentemente i decisori politici (e il sistema delle relazioni industriali)
hanno optato per un notevole contenimento delle spinte salariali sen-
za rendersi conto che riformare il solo lato del lavoro senza contempo-
raneamente procedere ad una parimenti vigorosa riforma dal lato del
capitale non solo non avrebbe mantenuto la crescita, ma avrebbe finito
con lostacolarla. Cos, il lato del lavoro stato riformato pi e pi vol-
te, non solo senza sortire effetti positivi sulla crescita ma anzi realiz-
zando risultati sempre pi perversi: con un nuovo modello contrattuale
(il Protocollo del 1993), con la privatizzazione del pubblico impiego
(il decreto 29, sempre del 1993), con lintroduzione dei rapporti di la-
voro flessibili grazie al pacchetto Treu (1997) e alla successiva legge
Biagi (2003), con la revisione separata del modello contrattuale
(gennaio 2009) e con le continue riforme delle pensioni (1992 Amato,
1995 Dini, 1997 Prodi, 2004 Maroni, 2007 Prodi, 2010 Sacconi, 2011
Fornero). Tutte misure non errate in s, ma negative se non accompa-
gnate da parallele, cogenti misure di contenimento dei prezzi e poten-
ziamento della sostenibilit dello sviluppo attraverso la riorganizzazio-
ne e lammodernamento del sistema produttivo.
Il risultato stato la notevole moderazione salariale prima ricordata,
frutto di un modello contrattuale asimmetrico e di una crescita impe-
tuosa del lavoro flessibile. Ma a queste profonde e sostanziali riforme
dal lato del lavoro ha fatto riscontro un assai modesto aggiustamento
strutturale dal lato del capitale, realizzato esclusivamente con un cor-
poso programma di privatizzazioni senza liberalizzazioni o con libera-
lizzazioni troppo blande, con la conseguenza di consentire la crescita di
oligopoli o addirittura monopoli privati (nelle banche e nella finanza,
nellenergia, nella telefonia, nelle reti televisive ecc.) e, allopposto, la
sopravvivenza di una pletora di microimprese operanti in mercati pro-
tetti le cui rendite hanno gravato e continuano a gravare sui conti delle
famiglie e delle altre imprese.

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Laccanimento sul lato del lavoro non ha prodotto alcun effetto be-
nefico: nonostante i salari assai pi moderati, data linefficienza del si-
stema economico i prezzi italiani hanno continuato a correre, come
abbiamo visto, pi di quelli dei partner nelleuro e hanno causato, gra-
zie anche alle modifiche nella distribuzione del carico fiscale a favore
delle fasce di reddito pi elevate, un cospicuo impoverimento e assotti-
gliamento dei ceti medi
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. La compressione dei redditi da lavoro si di-
mostrata priva di effetti positivi sulla snellezza del sistema economi-
co, e anzi ne ha ridotto il livello di competitivit in ragione di una spin-
ta inflazionistica interna, ingiustificabile in termini salariali e assente da-
gli altri paesi delleuro. La debolezza dei salari e il differenziale di infla-
zione, cui si aggiunta la stolta severit dellaggiustamento finanziario,
hanno cos continuato (e continuano ancora) a costringere leconomia
ad una performance penosamente deludente in termini di consumi,
esportazioni e investimenti in altre parole, di crescita e progresso
economico e sociale.

5. Il nuovo modello di sviluppo
Come rimediare, dunque, a questo assetto del sistema produttivo
strutturalmente sfavorevole alla crescita? Nelle attuali condizioni del
mercato globale e con le strozzature parassitarie che bloccano
leconomia, lidea di ottenere la crescita tenendo bassi i salari diventa-
ta semplicemente improponibile: i salari non sono affatto una buona
variabile di aggiustamento. I risultati macroeconomici lo dimostrano
senza appello. Finch lItalia continuer ad avere uninflazione pi alta
e salari pi moderati dei partner nelleuro non potr crescere: non avr
prezzi competitivi e sar frenata da consumi troppo deboli.
Anche lopzione di uscita dalleuro, per quanto possa costituire
unutile minaccia per sostenere la rivendicazione di politiche europee
pi favorevoli allo sviluppo, se non accompagnata da misure di pro-
fonda riorganizzazione del sistema produttivo non potr che avere ef-
fetti pi negativi che positivi. Per questo ormai indispensabile una

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Di questo processo di taglieggiamento depressivo delleconomia, lascesa economica e politica
di Berlusconi, il suo essere un super-ricco quasi-monopolista privato del mercato della pubbli-
cit televisiva, con tanto di patente di Stato, sono stati (e sono purtroppo tuttora) il simbolo
pi vivido e inquietante.

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politica industriale ad ampio raggio, che contenga la crescita dei
prezzi non tanto attraverso il controllo diretto dei listini quanto piut-
tosto attraverso la riorganizzazione competitiva di mercati, settori e
imprese e riorienti il modello di sviluppo, spostando in parte il moto-
re della crescita dalle esportazioni al mercato interno.
Al fine di rafforzare il lato della domanda in modo da potenziare la
capacit di autopropulsione delleconomia, vanno infatti stabilite per
via contrattuale e fiscale nuove proporzioni tra mercato interno e mer-
cato estero, attribuendo al primo un ruolo maggiore dellattuale. Questa
traslazione della visione dello sviluppo economico, dotata peraltro di
rilevanti implicazioni sociali, costituisce lelemento centrale e obbligato
dellapertura della politica economica ad un futuro desiderabile, di pro-
gresso sostenibile, in cui sia possibile assicurare nel medio e lungo pe-
riodo i livelli di reddito e di benessere degli italiani. Ci richiede, a livel-
lo macroeconomico, anzitutto un modello contrattuale e un fisco pi
generosi con il lavoro (in particolare con il ceto medio), allo scopo di
rafforzare i consumi interni e gli incentivi di sistema alla cooperazio-
ne tra i partner sociali per linnovazione e la crescita
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. in questo qua-
dro che indispensabile collocare al centro della politica industriale la
riassunzione di target di inflazione, tanto dei prezzi interni quanto di
quelli allesportazione, che guidino lazione di riorganizzazione di mer-
cati, settori e imprese, e rafforzare fortemente a questo fine la concor-
renza interna, con il pieno accordo e sotto la reciproca vigilanza dei
partner sociali.
Certo, lItalia non deve perdere ulteriore terreno sui mercati esteri e,
al tempo stesso, deve evitare che una ripresa dei consumi si risolva sol-
tanto in un aumento delle importazioni. Per questo le imprese (da sole
o organizzate in gruppi, distretti e filiere) devono essere spinte a rior-
ganizzarsi in maniera che i prodotti italiani siano pi competitivi, offra-
no migliore qualit a prezzi convenienti e volumi di produzione ade-
guati, e non solo produzioni di nicchia o beni di lusso destinati alla lei-
sure class internazionale.

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Ricordo qui sinteticamente che la mancata diffusione della contrattazione decentrata
costata ai lavoratori dipendenti dal 1993 al 2012 la bellezza di 1.069 miliardi di euro a
prezzi del 2005, ovvero pi di 56 miliardi lanno (si veda L. Tronti, Lo scambio masochisti-
co di un sindacato debole, la Repubblica. Affari & Finanza, 2 dicembre 2013:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/02/lo-scambio-
masochistico-di-un-sindacato-debole.html?ref=search .

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A questo fine, la riduzione del cuneo fiscale e contributivo che il
Parlamento si appresta a varare non dovrebbe essere erogata automati-
camente, a pioggia, ma dovrebbe invece essere sottoposta a condizio-
nalit relative alleffettuazione di investimenti in riqualificazione di
prodotti, processi e organizzazione secondo le linee-guida di reingegne-
rizzazione delle medie e grandi imprese e di raggruppamento e specia-
lizzazione delle piccole e delle microimprese suggerite dalla letteratura
sullimpresa moderna e consentite dalla tecnologia. A questa finalit
opportuno anche rendere obbligatorio il concorso dei fondi interpro-
fessionali.
A fronte di investimenti di riqualificazione e reingegnerizzazione, gli
sgravi del cuneo dovrebbero essere concessi da unagenzia nazionale
secondo procedure ben congegnate (comera nei decenni scorsi nel ca-
so dellente che gestiva i fondi della l. 44 del 1986 sullimprenditoria
giovanile), che eroghino a lavoratori e imprese non solo risorse eco-
nomiche, ma anche consulenza, formazione obbligatoria e assistenza
tecnica. Tale agenzia potrebbe benissimo non essere creata ex novo ma
derivare invece dallaffidamento ad agenzie esistenti (ad esempio Isfol e
Italia Lavoro) della nuova e vitale missione di riorganizzazione
dellapparato produttivo, sotto la vigilanza dei partner sociali.
Non utile sostenere imprese comunque non competitive, cos co-
me sbagliato dare risorse a chi in grado di riorganizzarsi con fondi
propri. invece indispensabile fornire un sostegno pubblico discrezio-
nale alle imprese che possono riorganizzarsi ma non sostenerne inte-
ramente il costo. questo il messaggio basilare di politica del lavoro e
di politica industriale che va dato oggi al Paese: un messaggio che indi-
ca la direzione per assicurare sostenibilit alloccupazione e competiti-
vit ad un apparato produttivo falcidiato dalla crisi.

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