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Antonio Di Meo Storia della chimica. La chimica come istituzione e professione. 1.

L'etimo della parola chimica molto incerto, poich, sin dalla fine del Cinquecento, legato alle storie mitiche sulle origini della disciplina alla quale ha dato il nome. Questa parola, infatti, veniva fatta derivare da Cham, uno dei figli di No; o da Kema, un libro dei segreti dell'arte egizia; o da Chemie (o Chamie), uno dei nomi dell'antico Egitto, dal quale si pensava provenissero le conoscenze naturali pi remote e pi vere; o dal greco chimos che vuol dire succo, con qualche allusione alla tecnica della estrazione; oppure, ancora, dal termine greco cheo, che significa versare un liquido o colare un metallo. Tuttavia, malgrado la remota antichit del nome, e la conseguente incertezza sulle sue origini, questa scienza deve essere considerata uno dei risultati pi rilevanti dell'epoca moderna. Infatti il sapere che emerge alla fine del 17 secolo, designato come chimica, nuovo, distinto, anche se non separato, dall'insieme assai differenziato degli altri saperi costitutivi della scienza moderna. Ci vero anche se la chimica, per un lungo tratto del suo iniziale percorso storico, ha utilizzato parti di apparati linguistici, simbolici, strumentali e sperimentali appartenuti a pratiche e filosofie naturali di epoche anche molto antiche. Quindi il periodo che va dalla seconda met del Cinquecento alla fine del Settecento non pu essere considerato una sorta di medio evo della chimica, ma il tempo in cui questa disciplina, in maniera assai complessa e non unilineare, si costituita in scienza autonoma con oggetti, principi e tecniche sperimentali propri e originali. Non ha dunque senso storico parlare sia delle origini antichissime di questa scienza, sia di una tarda diffusione in essa dello spirito e dei contenuti della rivoluzione scientifica. In entrambi i casi si rischia di armullare il concreto percorso storico della chimica, a favore di ipotesi storiografiche, filosofiche o epistemologiche unilaterali e fuorvianti, che tendono a far diventare esemplare la storia di una particolare disciplina (in particolare della fisica classica) e ad elevarla a canone di interpretazione storiografica per tutte le altre discipline. In effetti non tutti coloro che sin dall'antichit hanno trattato delle trasfomazioni intime della materia, della sua composizione elementare, possono essere definiti chimici; ma questo termine era gi in uso, nel suo significato moderno, anche molto pnma della cosiddetta introduzione nella chimica del metodo quantitativo da parte di Antoine Laurent Lavoisier, nella seconda met del Settecento. Del resto, i primi storici settecenteschi di questa scienza, chimici essi stessi e prossimi allo stato nascente della disciplina, tendevano a distinguere fra le altre chimiche di tipo artigianale, presenti nella medicina, nella farmacia, nella metallurgia, nella tintoria, nella vetreria, nella profumeria, nella estrazione e produzione di sostanze fermentabili e cos via, e quelle della chimica scientifica vera e propria, nella quale era prevalente il ruolo della teoria. Nel primo caso, infatti, si avevano conoscenze esclusivamente tecniche, povere di contenuto teorico autonomo e definibili come chimiche solo dopo la nascita della chimica; nel secondo, la teoria precedeva l'arte, cio dirigeva ed indirizzava lo sviluppo ulteriore delle pratiche antigianali. Non che queste non fossero valorizzate. Al contrario, come vedremo, la chimica parteciper da protagonista al generale processo di esaltazione delle arti empiriche, manuali e utili. Agli inizi dell'epoca moderna, questa esaltazione si opponeva sia all'antica idea che il vero sapere risiedesse nella contemplazione degli oggetti naturali che non era in potere dell'uomo manipolare e riprodurre; sia al razionalismo scolastico che pretendeva di dedurre la struttura della intera realt naturale esclusivamente attraverso procedure di tipo logico e discorsivo. La chimica delle origini, tuttavia, non sar estranea anche a queste ultime concezioni; anzi, la sua costituzione in scienza moderna intersecher fortemente le fasi connesse al passaggio dall'idea del conoscere come contemplare o discorrere, a quella che collegava l'apprensione teorica del mondo

naturale al fare, allo sperimentare, a un rapporto attivo fra soggetto e oggetto della conoscenza, mediante concrete tecniche e strumenti di indagine attraverso i quali la natura veniva a rivelare i suoi segreti. Ai suoi inizi la chimica era una scienza fortemente sperimentale, in cui erano scarsamente presenti le tematiche spaziali e ponderali che erano invece proprie della scienza galileo-newtoniana. 2. Trattando delle origini della chimica, non credo si possa eludere il problema dei suoi rapporti con l'alchimia. Su questo argomento sia la storiografia pi antica (settecentesca) che quella contemporanea, tendono a mettere in risalto piuttosto gli elementi di discontinuit che quelli di continuit. Un contributo decisivo venuto da storici che hanno messo in rilievo i molti aspetti per cui differiscono la tradizione ermetica, alla quale appartiene l'alchimia (specialmente quella rinascimentale), e la tradizione sperimentale, che si afferma con la nascita della scienza moderna. In realt molte concezioni filosofiche generali sulla natura, sulla materia e sulle loro trasformazioni, presenti nei testi di alchimia, costituivano un patrimonio intellettuale comune a tutti coloro che trattavano esplicitamente delle teorie generali che si riteneva fondassero alcune pratiche artigianali, che poi verranno comprese fra le applicazioni della chimica. A volte, comuni erano i termini del linguaggio usato e dei simboli che servivano a denotare determinate sostanze o classi di sostanze. Solo che i contenuti, le finalit e le forme stesse della conoscenza legata alle pratiche artigianali (resi espliciti mediante trattati o scritti di varia natura) e quelli della chimica scientifica, erano diversi da quelli dell'alchimia. Diversi, del resto, erano la figura, il ruolo e il rapporto col proprio sapere e col pubblico dei non studiosi, dello scienziato e quello del mago naturale o dell'alchimista. Quest'ultimo, infatti, specialmente in epoca rinascimentale, si presenta come una personalit dotata di poteri superiori, capace di risalire alle origini del mondo e della vita col pensiero e con l'azione, allo scopo di promuovere quella ricostruzione dell'uomo e della natura che erano decaduti per una sorta di colpa originale, nel tentativo di realizzare una nuova redenzione, nella quale rientrassero egualmente il mondo dell'uomo e la natura. Gli obiettivi fondamentali, materiali, dell'opera alchemica, la trasmutazione dei metalli in oro e la scoperta di una medicina universale in grado di guarire tutte le malattie e riportare l'organismo alla sua integrit originaria, erano le manifestazioni pi appariscenti e sensibili di un processo pi vasto, nel quale si affermava l'unit del mondo con Dio e di entrambi col destino dell'uomo. Per l'alchimista macrocosmo e microcosmo, natura e uomo, erano la sede di complessi rapporti, corrispondenze, simpatie, affinit, in cui tutto si connetteva con tutto ed era riconducibile all'unit. In questa unit, l'inferiore e il superiore erano coessenziali e collegati tramite una scala di esseri di diversa dignit e rango ontologici. I sette metalli (oro, argento, rame, stagno, piombo, ferro e mercurio) erano in relazione coi sette astri (Sole, Luna, Venere, Giove, Terra, Marte, Mercurio); ed entrambi con le parti anatomiche e le sette viscere dell'uomo. Ma i metalli erano in relazione anche con le qualit morali degli esseri umani: il piombo corrispondeva al loro stato di imperfezione interiore, alla loro caduta; l'oro, invece, alla perfezione dovuta alla loro rinascita e alla loro liberazione, tramite una conoscenza concepita come illuminazione e unione intima col tutto. In questo contesto, la trasmutazione dei metalli vili (a partire dal piombo, il pi vile ed imperfetto di tutti) nell'oro, era appunto segno visibile e allusione metaforica di una rigenerazione spirituale. Per queste sue finalit, l'alchimia non pu essere considerata una chimica primitiva, o prescientifica, quanto piuttosto una mistica, un sapere sovrarazionale, una ascesi con forti significati psicodinamici e introspettivi. Tanto vero che, come ha messo bene in luce il filosofo Gaston Bachelard, mentre lo scacco pratico all'interno di una ricerca scientifica implica tutt'al pi un giudizio sulle capacit sperimentali del ricercatore, o pu rivelarsi addirittura come una inedita opportunit che a questo si offre per rettificare la propria pratica o le proprie aspettative teoriche (pu essere cio foriero di novit inedite nel contesto della scoperta); nel caso dell'alchimista lo scacco sperimentale era

segno di, e rimandava a, uno scacco morale, che metteva in discussione non la capacit ma la purezza morale del ricercatore. impossibile fare una descrizione, seppure abbreviata, dell'universo teorico all'interno del quale si muoveva l'alchimia. Qui far un esempio che mi consente di giustificare l'affermazione precedente, secondo la quale possibile una distinzione fra l'uso alchemico, che abbiamo appena visto, delle concezioni della natura e della materia correnti nel tardo Medioevo e nel Rinascimento, e quello che era presente soprattutto nei trattati di alcuni medici e chimici o di alcuni artigiani superiori pi colti. E partir proprio dal problema centrale della trasmutazione dei metalli, dimostrando che tale problema poteva essere affrontato in due modi distinti: allegorico (alchemico) e pratico o scientifico (chimico). Il dogma fondamentale sul quale inizialmente si basavano le concezioni che ritenevano possibile la trasmutazione dei metalli e la loro trasformazione nei metalli perfetti, argento e oro, era l'idea della perfettibilit della materia e della sua tendenza alla stabilizzazione. I diversi metalli avevano la stessa origine: o erano prodotti dalla mistione degli stessi principi eterogenei, o derivavano da una materia prima omogenea. I metalli, infatti, erano considerati composti e non corpi semplici e come tali chimicamente distinti e irriducibili (saranno ritenuti semplici e indecomponibili solo alla fine del Settecento con le ricerche di Lavoisier). In quanto composti o prodotti della evoluzione finalistica di una materia prima, i metalli si trovavano a diversi stadi del processo naturale di perfezionamento, che terminava appunto con la produzione dell'oro. La formazione e lo sviluppo naturale dei minerali e dei metalli nelle viscere della terra erano considerati analoghi a quelli dello sviluppo degli organismi viventi: cos come il feto conteneva in s le potenzialit dell'uomo adulto, il cui raggiungimento costituiva il suo fine intrinseco, allo stesso modo era possibile naturalmente il passaggio graduale dai metalli imperfetti all'oro, che rappresentava la forma finale alla quale essi tendevano. Le differenti propriet possedute dai metalli rappresentavano stati accidentali di imperfezione che potevano essere loro tolti artificialmente per condurli, cos, allo stadio finale di perfezione, cio all'oro. Questa, ad esempio, era la convinzione del metallurgista Vannoccio Biringuccio, per il quale l'oro era: un metallo prodotto di una amicabile e perfettissima mistione di sostanze elementali, con equal quantit e qualit, l'una e l'altra apportionate e sottilissimamente purifiate, grazie al calore esistente nelle viscere della Terra (Pirothecnia. 1540). Lo iatrochirnico J. Duchesne, a sua volta, affermava che: bisogna necessariamente riconoscere che l'intenzione della natura, nel produrre i metalli, non di fare il piombo, il rame, lo stagno, nemmeno l'argento, sebbene questo metallo si trovi nel primo grado di perfezione, ma l'oro (Oeuvres, 1624). E un altro artigiano metallurgista, Alvaro Alonso Barba, aggiungeva che: le propriet differenti che si vedono nei metalli non provano niente; questi sono accidenti che accompagnano lo stato della loro imperfezione, e che la si pu togliere loro (Mtallurgie, 1648). Agli inizi del 18 secolo, in un contesto ormai decisamente chimico, Wilhelm Homberg sosteneva che i metalli erano formati dai principi del mercurio e dello zolfo, o materia della luce. Il processo di metallizzazione avveniva attraverso una lenta e differenziata penetrazione della materia della luce nel mercurio, fino alla formazione dell'argento e poi dell'oro, attraverso successivi e continui gradi di perfezione. Infatti, secondo Homberg, per il raggiungimento della perfezione dell'argento, la materia della luce deve impiegare molto meno tempo che per la perfezione dell'oro; e che per la stessa ragione ogni oro potrebbe essere ben stato dell'argento prima di aver raggiunto la sua propria perfezione, cos come, di conseguenza, ogni argento pu diventare oro, una volta che si trovi in una situazione tale che la materia della luce possa continuarvi la sua azione (Essais de chimie, 1709). All'interno delle teorie chimiche della materia di tipo elementare, prima che ai metalli venisse riconosciuto lo status di sostanza semplice, non potevano esistere obiezioni teoriche di principio all'idea che, una volta ricavati analiticamente i principi semplici componenti di queste sostanze, non fosse possibile combinarli in maniera adeguata per formare l'oro, cos come si pensava

avvenisse in natura. Tanto vero che, ancora nel 1767, un chimico importante come Pierre Joseph Macquer, critico dell'alchimia da lui considerata una follia dello spirito, ritenenendo i metalli composti di una terra, o principio terroso, e di flogisto, scriveva a proposito della formazione artificiale dei metalli e della loro trasmutazione, che: se ogni sostanza metallica possiede una sua propria terra essenzialmente differente da quella di tutte le altre, di conseguenza, a causa di queste differenze delle loro terre i metalli differiscono tra di loro; siccome noi non possiamo cambiare le propriet essenziali di alcuna sostanza semplice, chiaro che in questi casi la trasmutazione dei metalli sarebbe impossibile. Ma se la terra e gli altri principi dei metalli sono essenzialmente gli stessi, che essi sono solamente combinati in maniera differente, e pi o meno strettamente uniti, e che questa la sola causa delle differenze specifiche dei metalli; allora non vedo alcuna impossibilit nella loro trasmutazione (Dictionnaire de chymie, 1766). E siccome per Macquer in realt esisteva un solo e unico principio terroso, e un unico e sempre identico flogisto, la trasmutazione era dunque per lui teoricamente possibile. Anche se la ribadita e continua impossibilit pratica faceva s che tale impresa era ritenuta (provvisoriamente) al di sopra delle possibilit dell'artificio sperimentale realizzato in laboratorio. Ma i chimici erediteranno dagli alchimisti un elemento della concezione delle possibilit della loro arte piena di implicazioni notevoli. L'ambizione dell'alchimista, in effetti, era quella di realizzare artificialmente, in tempi brevi, la purificazione dei metalli dagli accidenti che li rendevano imperfetti; per via naturale il compimento di questa stessa purificazione richiedeva tempi lunghissimi. Per realizzare tale processo, chiamato dagli alchimisti Grande Opera o Magistero o Grande Magistero, secondo loro era necessario preparare una sostanza detta pietra filosofale, o semplicemente pietra o elisir o tintura, che, essendo dotata di gradi di perfezione di gran lunga maggiori di quelli dell'oro, era in grado di trasmettere questa sovrabbondanza ai metalli diversamente imperfetti e condurli, mediante una proiezione della pietra sui metalli vili, al loro stadio finale. Abbiamo gi visto che il contesto metafisico dell'alchimia era altro. Altre erano le vere finalit della Grande Opera. La chimica nascer rifiutando le false analogie, l'idea di influenze reciproche fra cause lontane o prime, a favore delle cause seconde o prossime. E molti dei primi critici dell'alchimia metteranno anche in discussione appunto il suo lato faustiano, di violenza artificiale della natura, che diventer invece, ma in un altro contesto, che definirei sperimentale di tipo baconiano, un elemento non secondario della concezione chimica della acquisizione della conoscenza della natura: cio la possibilit di riprodurre in tempi brevi, in laboratorio, sostanze e processi con lo stesso statuto ontologico di quelli naturali. Tuttavia bisogna aggiungere che lo stesso concetto di trasmutazione subir un progressivo slittamento di significato dalle filosofie della natura rinascimentali, dalle quali si venuta progressivamente enucleando e distinguendo la chimica scientifica, alle posizioni di Macquer. Agli inizi si riteneva che la trasmutazione, cos come ogni pratica artificiale realizzata sui corpi naturali, avesse solo il compito di portare a compimento il decorso inevitabile della natura o di liberare questa dagli impedimenti che la costringevano a realizzare le proprie opere con fatica, in maniera casuale e in tempi molto lunghi. Oppure che essa dovesse realizzare un cambiamento di forma della materia, al quale corrispondeva sia un cambiamento delle qualit sensibili del corpo trasmutato, che uno pi sostanziale, essenziale. Nella seconda met del Settecento, invece, la trasmutazione era il risultato di una logica combinatoria, grazie alla quale per formare i metalli perfetti oro e argento si trattava di unire artificialmente in maniera adeguata i principi costituenti di tutti i metalli, ricavati analiticamente, allo stesso modo in cui la natura era in grado di fare secondo le proprie e specifiche modalit. In conclusione, per comprendere bene i rapporti fra chimica e alchimia, necessario accennare anche al fatto che, a partire dalla seconda met del Cinquecento, soprattutto grazie alle concezioni del medico-chimico Paracelso, col termine alchimia si cominci ad indicare ogni trasformazione artificiale delle sostanze. Cio si inizi a distinguere fra un'alchimia esoterica, legata

alle finalit gnostiche e metafisiche di cui abbiamo parlato prima, e una alchimia essoterica, pi legata alle manipolazioni artigianali dei corpi naturali. Un esempio di questo slittamento di significato lo troviamo in Biringuccio. Intransigente critico dell'alchimia: sophistica, violenta e non naturale, Biringuccio dichiarava che esisteva un secondo tipo di alchimia che partoriva: ogni giorno nuovi e bellissimi effetti, oltre all'esser molto utile all'uso e commodit humana, como sono le estrattioni di sostanze medicinali, e delli colori, e delli odori, d'infinite compositioni di cose. Questo secondo tipo di alchimia sar, in effetti, uno dei principali presupposti della moderna chimica sperimentale. 3. Ma i rapporti fra artificio e natura evolveranno in maniera significativa durante i due secoli (17 e 18) che hanno visto nascere la chimica modema. Questa, infatti, agli inizi verr considerata una semplice arte di divisione dei corpi naturali, una sorta di speciale anatomia dei corpi naturali. In questo contesto essa era subordinata alla natura, ne era cio una imitazione, poich si limitava a rivelare ci che gi la natura conteneva o che essa stessa era in grado di mostrare per altre vie. Per il paracelsiano Jean Beguin, per esempio, siccome la stessa natura era in grado di comporre e scomporre i corpi, erano nate parecchie arti che procedevano allo stesso modo. Fra queste andava annoverata la chimica, poich essa risolveva il proprio oggetto: aprendolo per vedere l'interno e il fondo della sua natura (Tyrocinium chymicum, 1610). La chimica, dunque, aveva lo scopo di aiutare la natura a rivelare i suoi segreti. Era un'ancella della natura, e solo sottomettendovisi poteva svolgere l'utile funzione di esibirne o rivelarne le propriet, o virt, interne. Per Nicolas Le Fevre l'autentica chimica filosofica, o scientifica, era quella che aveva come fine la contemplazione del mondo. Solo attraverso la contemplazione, infatti, poteva essere raggiunta una conoscenza teorica di questo stesso mondo. La chimica scientifica, quindi, era la scienza degli oggetti che non era in potere dell'uomo trasformare. Tuttavia esisteva un'altra chimica, la iatrochimica, o chimica medica, che pur avendo per scopo principale l'operazione, era ritenuta possibile solo grazie alla conoscenza contemplativa acquisita per mezzo della chimica filosofica. In questo caso la teoria e la pratica in qualche modo collaboravano, ma in maniera separata e rigidamente gerarchizzata. In molti casi, queste concezioni convivevano con l'idea che l'operazione artificiale potesse produrre conoscenza vera. Per Cristophle Glaser, ad esempio, la chimica era in grado di aprire ai fisici la porta dei segreti naturali (Trait de la chimie, 1663), poich poteva ridurre tutte le cose ai loro principi e fornire loro nuove forme. Facendo ci essa imitava ancora la natura, ma solo l'artificio era in grado di portare alla luce le sostanze dotate di virt e propriet utili per l'uomo. Sempre su questa linea, Nicolas Lemery scriveva sul suo Cours de chymie (1675) che era impossibile ragionare en bon physicien senza conoscere la maniera attraverso la quale la natura realizzava le sue operazioni. Questa maniera veniva ben spiegata dalla chimica che era in grado, tramite le pratiche di laboratorio, di rivelare addirittura l'ordine che Dio ha osservato nella creazione dell'Universo. La chimica, cio, consentiva di elaborare una vera e propria filosofia generale della natura. Due rappresentanti di questo particolare modo di intendere la chimica filosofica furono Johann Joachim Becher e Johann Baptista van Helmont. Becher, seguendo una sua interpretazione del libro biblico della Genesi, sosteneva che la natura era identificabile col movimento, il quale aveva lo scopo di conservare tutte le cose cos come Dio le aveva create e prodotte (Physica subterranea, 1669). Dio, quindi, era l'ente primo e increato, causa e principio primo del movimento, cio della natura considerata in uno stato di continua ed etema vicissitudine di tipo ciclico. Questo chimico, seguendo ancora il racconto mosaico, sosteneva che Dio aveva creato ex nihilo solo il cielo e la terra. Il primo era il principio universale ed iperfisico del mondo, il luogo delle cose naturali, che possedeva le propriet opposte della raritas e della densitas, cio le cause seconde del movimento e anelli di una catena ermafrodita che connetteva le cose supernaturali a quelle naturali. Da questo principio dipendevano la generazione e la crescita di tutti i corpi. La terra era il secondo principio della creazione e rappresentava invece il principio fisico del mondo. Esso si

presentava sempre in tre distinte specificazioni. Sin dall'origine dei tempi, infatti, questo principio si era suddiviso in tre enti particolari: terra, acqua e aria. Questa seconda terra si distingueva a sua volta in terra vitrescibile, terra infiammabile e terra mercuriale. A partire da tutti questi elementi, fisici e immateriali, nella successione del tempo si erano prodotti un numero infinito di corpi di diversa complessit, attraverso una serie ininterrotta di combinazioni. Ma questi stessi corpi si decomponevano anche ininterrottamente, e in questo perenne succedersi di composizioni e decomposizioni la natura rimaneva ciclicamente identica a se stessa. L'Universo, cio, seguiva gli stessi ritmi perenni della successione di nascite e morti, di generazioni e corruzioni, dei viventi. Anche van Helmont si richiamer alla Genesi nella spiegazione della struttura e dei processi della natura, e ci nel quadro di un violento attacco alla filosofia di Aristotele e Galeno (van Helmont come Becher e come la maggior parte dei chimici citati era un medico). La sua interpretazione del testo biblico lo portava a considerare solo l'acqua il principio materiale dei corpi. Dalla trasformazione di questa per mezzo di fermenti, o semi, venivano prodotte tutte le sostanze naturali. I fermenti erano principi spirituali, formali, in grado di caratterizzare in maniera singolare tutti gli oggetti sensibili e creati dalla onnipotenza divina. Essi passavano da una sostanza all'altra causando tutte le reazioni tipiche dei fenomeni chimici, e si manifestavano sensibilmente sotto forma di luce (Ortus medicinae, 1648). Oltre all'acqua esisteva un altro elemento primordiale, l'aria, che, sebbene riempisse tutto lo spazio, per non partecipava alle reazioni chimiche in quanto non partecipava alla composizione dei misti. L'aria era solo un mezzo attraverso il quale si muovevano i differenti corpi materiali e in cui si diffondevano alcune sostanze volatili alle quali van Helmont attribuir il nome di gas. Per quanto riguardava il fuoco, poich non se ne faceva menzione nella narrazione biblica della creazione, non doveva essere compreso nel numero degli elementi. Il fuoco era una creatura neutra che non era n sostanza n accidente, ma uno strumento dato da Dio agli uomini perch se ne servissero per i loro usi e comodit. Il fuoco, in effetti, era lo strumento principale delle operazioni chimiche, tanto vero che i chimici verranno definiti per molto tempo filosofi del fuoco. L'ambizione della chimica di offrire tramite le sue teorie una rappresentazione globale dell'intera natura, continuer ad esistere per molti secoli, fino ai nostri giorni. Ci che cambier, per, sar l'immagine e lo statuto teorico di questa scienza. Gi nel 18 secolo, infatti, il rapporto fra arte e natura, e quello fra conoscenza teorica e pratica, evolver sempre pi verso il suo significato moderno, sperimentale e sistematico. Ma proprio in rapporto alla natura, il Settecento apporter una notevole innovazione, densa di sviluppi e di significati per la vita sociale dell'uomo. La chimica, cio, comincer a essere definita anche una scienza che era in grado di produrre artificialmente fenomeni, processi e sostanze che in natura non esistevano. Gi un seguace di Becher, lo iatrochimico tedesco Georg Ernst Stahl, scriveva nel 1732 che la chimica era un'arte di straordinaria importanza poich era capace di produrre effetti nei corpi... che non si verificano spontaneamente, perch il chimico pu imitare tutti gli effetti prodotti dalla natura e trovarne di nuovi (Fundamenta chymiae dogmatico-rationalis et experimentalis). Nel 1749 il francese Pierre Joseph Macquer aggiungeva che lo scopo principale del chimico era quello di separare le diverse sostanze che entrano nella composizione di un corpo, esaminare ciascheduna in particolare, riconoscerne le propriet e le analogie, decomporre nuovamente, se possibile, le sostanze gi separate, paragonarle e combinarle con altre sostanze, riunirle e coagularle di nuovo insieme facendone rivivere il primo misto con tutte le sue propriet, ovvero per miscele in diversi modi combinate, creare nuovi composti dei quali la natura non ci abbia giammai prestati modelli (Elments de chymie thorique). Questa possibilit era dovuta ai progressi della sperimentazione e al rilievo che in essa aveva assunto la sintesi. Infatti, finch la pratica chimica rimaneva confinata nell'ambito dell'anatomia, evidente che essa poteva avere solo lo scopo di aiutare la natura a rivelare le propriet celate nei corpi; esibire sostanze pi semplici e omogenee a partire da corpi composti ed

eterogenei; cio, in sostanza, attuare la pratica paracelsiana della separazione del puro dall'impuro. Nel momento in cui la sperimentazione e le finalit della chimica diverranno pi complesse; nel momento in cui essa raggiunger un pi definito statuto di scienza, la composizione, cio la formazione di corpi naturali o completarnente artificiali, assumer un significato completamente nuovo: da aggregazione di parti omogenee progressivamente distinte dall'insieme di un corpo eterogeneo, a quello di costruzione, o ricostruzione, delle stesse sostanze analizzate. In questo secondo caso il potere dello sperimentatore veniva decisamente amplificato, cosicch, gi alla fine del Settecento, la chimica verr definita da Antoine Francois Fourcroy la scienza della sintesi (Lecons lmentaires d'histoire naturelle et de chimie, 1782). Questa ultima operazione, infatti, non solo era importante di per s, ma era presente in maniera costitutiva in ogni procedimento chimico, anche di tipo analitico, in quanto ogni separazione presupponeva una messa in contatto perlomeno di tre sostanze; essa presupponeva cio un simultaneo processo sintetico. La sintesi, inoltre, assumer anche un valore epistemologico crescente, in quanto attraverso la riproduzione artificiale del corpo decomposto per via analitica, era possibile verificare il carattere di verit della stessa analisi. Come scriveva Gabriel Francois Venel nel 1753 nell'articolo Chymie dell'Encyclopdie, se il chimico riesce a riunire ordinatamente tutti i principi che ha ordinatamente separati, e a ricomporre i corpi che aveva analizzato, egli giunge al completamento della dimostrazione chimica: ora l'arte ha raggiunto questo grado di perfezione riguardo a numerosi oggetti essenziali. Ma nel Settecento l'artificio chimico risulter a tal punto valorizzato da diventare finalmente, in maniera essenziale, un elemento interno e ineliminabile del processo della conoscenza. Macquer affermava che la teoria era come l'organo della vista del ricercatore, mentre l'esperienza ne era il tatto, che doveva continuamente rettificare ci che la prima stabiliva, ma non astrattamente, mediante l'immaginazione, ma a partire da un insieme dato di fatti sperimentalmente accertati. La teoria nasceva da fatti generali in grado di spiegare fatti particolari, oppure per essere compresa, spiegata o smentita da fatti ancora pi generali. Infatti costituivano proprio quelle cause seconde immanenti ai fenomeni chimici naturali o artificiali che, come abbiamo visto, venivano invocate in contrasto con le ipotesi di filosofia naturale che postulavano l'esistenza di cause prime, analogie, azioni a distanza, inverificabili praticamente. Per Antoine Laurent Lavoisier, nel nuovo clima sistematico istaurato dalla filosofia di John Locke ed Etienne Bonnot de Condillac, i sistemi utili allo sviluppo della scienza dovevano essere considerati raccolte ordinate e regolari di fatti di esperienza, cio metodi di approssimazione che mettevano sulla via della soluzione dei problemi, ovvero ipotesi che successivamente modificate, corrette e cambiate via via che sono smentite dall'esperienza, un giorno dovranno immancabilmente condurci, a forza di esclusioni ed eliminazioni, alla conoscenza delle vere leggi della natura (Mmoire sur la combustion en gnral, 1777). Lo scopo finale della ricerca chimica, quindi, era quello di cogliere gli autentici comportamenti della natura; cio, in primo luogo, leggi piuttosto che sostanze, o, meglio, queste ultime emergevano come un risultato di comportamenti costanti della natura, piuttosto che come dati semplicemente depositati nei corpi composti ed estraibili a piacere, sebbene mediante tecniche particolari. La vera chimica filosofica era in effetti quella che applicava questo metodo sistematico alla propria ricerca coniugando in modo nuovo e pi elaborato teoria ed esperienza, cos come in maniera molto chiara scriver Fourcroy nel 1795: La divisione... in chimica teorica e chimica pratica, che stata ammessa da diversi autori, falsa e dannosa. Non vi autentica chimica senza la riunione delle due. impossibile trovare una teoria chimica senza fare delle esperienze, cos come impossibile fare della pratica chimica senza trarne dei risultati, l'insieme dei quali costituisce autenticamente la teoria. Voler separare e isolare queste due branche vorrebbe dire far ricorso alla immaginazione ed alla invenzione nella creazione della dottrina, e, di conseguenza, introdurre nella scienza i romanzi e le finzioni; ci vorrebbe dire ridurre coloro che si

occupano di esperienze alle condizioni di manovali, mentre essi sono i veri sostegni, i veri creatori della chimica, la quale senza i loro lavori non pu n sussistere n perfezionarsi (Chimie, 1795). All'epoca di Fourcroy, quindi, la chimica scientifica era diventata un sapere definitivamente consolidato. Essa aveva preso avvio come arte sussidiaria della medicina o come arte di trasformazione degli oggetti materiali e, contemporaneamente, come filosofia integrale della natura, ma di tipo contemplativo. Infine diventer un sapere sistematico e operativo. E a questo punto che la chimica filosofica si trasformer in filosofia chimica: nel 1792 lo stesso Fourcroy scriveva un trattato dal titolo: Philosophie chimique, nel quale esponeva in maniera assiomatica tutte le principali teorie della chimica. In questo trattato col termine filosofia chimica si intendeva pi limitatamente la chimica teorica, o generale, attraverso la quale era possibile spiegare tutti i fenomeni pi particolari. In questo modo, ormai questa disciplina entrava a far parte a pieno diritto, in maniera autonoma e distinta, dell'universo dei moderni saperi scientifici. La chimica come istituzione e professione. 1. L'emergenza della chimica come sapere di tipo nuovo pu essere registrata dall'interesse, anche istituzionale, che il suo insegnamento e la sua diffusione ebbero all'interno degli ambienti culturali dei secoli 17 e 18 che pi si fecero promotori del modo moderno di intendere e definire la scienza. Nel 1604 il medico Jean Beguin, assistente sanitario del re Luigi 13 di Francia, apr a Parigi una scuola di farmacia e di chimica e nel 1610 pubblic un libro in latino dal titolo: Tyrocinium chymicum e naturae fonte et manuali depromptum, che, tradotto in francese col titolo: Les lmens de chymie, divenne a tal punto popolare da avere fino al 1690 ben cinquanta edizioni e traduzioni nelle maggiori lingue europee. Nella considerazione del pubblico colto esso fu soppiantato solo dal successivo Cours de chimie di Nicolas Lemery, pubblicato, sempre a Parigi, nel 1675. Lemery era uno dei maggiori chimici di orientamento meccanicistico a cavallo dei secoli 17 e 18, nel cui laboratorio di Parigi si riunivano periodicarnente i migliori scienziati e filosofi del suo tempo. Anche il suo Cours ebbe numerose edizioni in molte lingue, compreso l'italiano, e tenne campo fino alla prima met del Settecento, grazie anche alla chiarezza concettuale, linguistica e allo stile espositivo effettivamente cartesiani. Nel 1641 il tedesco Werner Rolfink, laureatosi in medicina a Padova nel 1625, fu successivamente nominato direttore delle esercitazioni di chimica della Universit di Jena dove nel 1661 compose un trattato assai diffuso dal titolo Chimia in artis formam redacta. Sempre in area tedesca Jacob Barner, anche lui laureato a Padova, scrisse nel 1689 un manuale dal titolo Chymia philosophica, che divenne tanto popolare da risultare concorrente del Cours di Lemery, poich si rifaceva ad una tradizione di ricerca molto diversa da quella del chimico francese cio quella di derivazione paracelsiana. Nel 1669 era stata gi pubblicata la Physica subterranea di Becher. L'edizione del 1703 di questa opera, curata dal suo allievo Georg Emst Stahl, e alla quale quest'ultimo aveva aggiunto uno Specimen Beccherianum, ebbe un notevole successo conquistando molti chimici alle teorie ivi sostenute, in particolare a quella che va sotto il nome di teoria del flogisto. Questa teoria ha dominato, seppure in maniera molto differenziata, la scena scientifica europea fino alla rivoluzione di Lavoisier. La teoria del flogisto ha rappresentato una sorta di paradigma all'interno del quale si inizialmente sviluppato l'importante capitolo settecentesco della chimica dei gas. Nel 1647 l'inglese William Davidson divenne il primo professore dell'appena costituito corso di chimica al Jardin du roi di Parigi; mentre nel 1660 il medico francese Nicolas Le Fevre, dopo aver lavorato venti anni al Jardin parigino come dimostratore di chimica, si trasfer a Londra, dove venne nominato professore reale di questa stessa disciplina da Carlo II Stuart. Dal 1648 al 1660 ad Oxford e al Gresham College di Londra si riunivano i membri di una associazione informale di studiosi, interessati a discutere e a insegnare le scienze moderne, e dalla quale prese origine la Royal Society di Londra, costituita e approvata da Carlo II Stuart nel 1662.

In queste riunioni, e nelle discussioni che vi si svolgevano, un posto di rilievo lo ebbe la chimica, anche se n ad Oxford, n al Gresham College, fu mai istituito un insegnamento di questa scienza, ritenuta ancora troppo legata alle arti pratiche, alle attivit dei ceti sociali inferiori e quindi non degna di assurgere ai livelli accademici pi formali ed elevati. Bisogna dire, tuttavia, che l'attenzione alle teorie e alle pratiche sperimentali della chimica fu molto forte nell'ambiente culturale inglese, basti pensare all'interesse critico che per essa ebbe uno scienziato e filosofo del livello di Robert Boyle, che dedic molte sue opere a confutare i fondamenti delle teorie chimiche correnti soprattutto nel suo Skeptical chymist del 1661. Boyle, infatti, si proponeva di ricondurre le spiegazioni dei fenomeni chimici alla filosofia corpuscolare e meccanica da lui sostenuta, poich vedeva nella filosofia chimica della natura dell'epoca una pericolosa alternativa all'idea che ogni fenomeno naturale fosse spiegabile per mezzo della interazione cinematica di corpuscoli o atomi diversamente figurati e dotati di movimento. Nel Seicento, infatti, come vedremo, le teorie di tipo fisico e quelle chimiche avranno molti punti di convergenza, ma la tensione fra i due punti di vista rimarr sostanzialmente irrisolta. Comunque, in un modo o nell'altro, tutta la cultura filosofica e scientifica pi avanzata del grande secolo fu costretta a fare i conti con le teorie dei chimici o a prenderle comunque in seria considerazione. Basti pensare all'interesse per la filosofia chimica, e perfino per quella alchemica, dimostrato da Isaac Newton, autore tra l'altro di un trattato sulla natura degli acidi (De natura acidorum) e delle Queries finali della sua Opticks (edizione del 1718), nelle quali, specialmente nella Query, si cercava di dare una spiegazione dei fenomeni chimici in termini di forze attrattive e repulsive. Infine, quando nel 1666 fu fondata a Parigi la Acadmie Royale des Sciences, con l'approvazione di Luigi 14 e del suo celebre ministro delle finanze Jean Baptiste Colbert, in qualit di primo segretario fu eletto Jean Baptiste Duhamel, teologo, fisico e apprezzato chimico. A far parte del nucleo iniziale, fondatore, furono chiamati, fra gli altri, oltre i fisici Edme Mariotte, Christian Huygens e Robert Roberval, anche due chimici: Claude Bourdelin e Samuel Duclos. Nel 1699 vi fu una riforrna dell'Accademia, nella quale veniva stabilita una rigorosa gerarchia fra i suoi membri che venivano distinti in onorari (dieci), pensionari (venti) e allievi (venti). Fra i membri pensionari, che costituivano il nucleo veramente attivo dell'Accademia, vi erano anche tre chimici. Altre accademie delle scienze, quella prussiana (1700), quella svedese (1711), quella russa (1724), infine quella americana (1780), diventarono il luogo principale della pubblicizzazione e del dibattito sulle principali teorie e programmi di ricerca della nuova scienza chimica. 2. La traduzione in pi lingue (volgari) dei trattati e la loro conseguente diffusione in tutta l'Europa colta e attiva, il fatto che la chimica era diventata una componente non secondaria delle attivit delle nascenti istituzioni scientifiche dell'era moderna, soprattutto nei paesi dove pi forte era il movimento scientifico, l'Inghilterra, la Germania, la Svezia e, soprattutto, la Francia, trasformarono lentamente la forma stessa del sapere chimico: sempre meno iniziatico, sempre pi pubblico e, in linea di principio, accessibile a tutti, verificabile e depositato in autonomi scritti a stampa o nelle raccolte delle memorie delle accademie (le Philosophical Transactions inglesi; i Mmoires de l'Acadmie royale des sciences francesi; gli Acta eruditorum dell'Accademia reale prussiana delle scienze di Berlino, e cos via). Infine la conoscenza della chimica fu sempre pi considerata utile e fondamentale sia per lo sviluppo delle arti e delle manifatture che per quello di altre scienze, come la farmacia e la medicina. Il processo di diffusione e di accrescimento della considerazione sociale della chimica continu infatti anche nel Settecento. Voci generali e particolari di questa scienza apparvero nella inglese Cyclopaedia (1728) di Efraim Chambers; nella pi celebre Encyclopdie, edita a partire dal 1751 da Denis Diderot e Jean Le Rond d'Alembert; poi nella successiva Encyclopdie mthodique, pubblicata in 166 volumi dal 1782 al 1832, e nella quale contenuta la prima grande storia moderna della chimica (Chimie, tomo III, 1795), opera di Antoine Francois

Fourcroy, collaboratore di Lavoisier e uno dei pi importanti chimici francesi a cavallo dei secoli 18 e 19. Nel 1766 la chimica ebbe una propria e autonoma enciclopedia: infatti Pierre Joseph Macquer diede alle stampe a Parigi un Dictionnaire de chymie in due tomi, per complessive 1304 pagine. Esso conteneva la teoria e la pratica di questa scienza, la sua applicazione alla fisica, alla storia naturale, alla medicina, alla economia animale, con la spiegazione dettagliata della virt e della maniera di agire dei medicamenti chimici e i principi fondamentali delle arti, delle manifatture e dei mestieri dipendenti dalla chimica. Un vero monumento della chimica precedente alla grande trasformazione che era alle porte, poich inizier nel 1772 dalle prime ricerche sui gas e sulla combustione di Lavoisier. Dizionario ragionato e razionale, cio sistematico, il primo nella storia di questa disciplina, esso ebbe nel 1778 una seconda edizione in quattro tomi, anche questa tradotta in altre lingue, compreso l'italiano (alla edizione italiana collabor per alcuni articoli aggiuntivi anche Alessandro Volta). Sar proprio questo dizionario a mettere l'enfasi sul carattere di modernit del sapere chimico, la sua partecipazione al movimento di rinnovamento delle scienze, il suo ancoraggio alle forme istituzionali pi avanzate dell'epoca, al modo tutto nuovo di comunicare e trasmettere la conoscenza e di articolare teoria ed esperienza. Fortemente presente nelle riviste scientifiche del 18 secolo, Journal des savants, Observations sur la physique poi Journal de physique, poi ancora Journal de physique, de chimie et d'histoire naturelle, ecc. nel 1789, lo stesso anno dell'inizio della Rivoluzione francese, Lavoisier e i suoi collaboratori pubblicarono una rivista specialistica interamente dedicata alla chimica, anche questa una delle prime del suo genere: le Annales de chimie o raccolta di memorie concernenti la chimica e le arti da essa dipendenti. Questa rivista, in realt, oltre a favorire genericamente la comunicazione fra chimici, era anche uno degli strumenti pi efficaci escogitato dalla scuola lavoisieriana per diffondere e stabilizzare la nuova chimica che proprio nel fatidico 1789 aveva visto la pubblicazione del suo manifesto teorico e programmatico: il Trait lmentaire de chimie dello stesso Lavoisier. Nel 1816, edita dal chimico Joseph Louis Gay-Lussac, la rivista assumer il nome di Annales de chimie et de physique, e, soprattutto nel secolo scorso, diventer una delle pi importanti riviste scientifiche europee. Ma ancor prima della rivista di Lavoisier, il chimico tedesco Lorenz Florenz Friedrich von Crell, allievo dell'inglese Joseph Black e professore di chimica a Brunswick, Helmstadt e Gottingen, aveva dato vita ad una serie importante di periodici di argomento chimico in lingua tedesca: il Chemisches Journal (1778); il ChemischeAnnalen (1784); il ChemischesArchiv (1784) ed altri, nei quali erano contenute comunicazioni originali, riassunti di articoli di altri periodici scientifici, recensioni di libri, ecc. Ancora in Germania, ad Halle, Alexander Nicolaus von Scherer, sostenitore delle teorie di Lavoisier, dette vita nel 1798 all'Allgemeines Journal der Chemie. Infine, ai primi dell'Ottocento, ad Halle e Monaco, Adolph Ferdinand Gehelen fond il Journal fur die Chemie und Physik (1806) e, successivamente, a Norimberga, J.S.C. Schweigger fond il Journalfur Chemie und Physik (1811). Anche l'Italia parteciper al generale progresso degli studi chimici che si ebbe in Europa, soprattutto nel Settecento. Certo la chimica italiana non ebbe la risonanza ed il ruolo di quella inglese francese, tedesca e svedese. Tuttavia, a partire dalla seconda met del Settecento cominciarono ad essere costituiti i primi insegnamenti di questa scienza a Bologna, Padova, Pisa, Pavia, Roma, Napoli Torino, Milano. Nel 1781 i chimici ebbero un ruolo determinante nella nascita della Societ Italiana delle Scienze, poi detta dei 50. Esperto di chimica era il suo fondatore Anton-Mario Lorgna, che, a partire dall'anno successivo, inizi la raccolta di Memorie di matematica e fisica della Societ italiana, che fu uno dei luoghi di raccolta e diffusione dei risultati della ricerca chimica del nostro paese. Nel 1775 Felice Fontana fond a Firenze il Museo di fisica e di storia naturale. Fontana fu uno dei pi importanti scienziati italiani del Settecento. Fisiologo di fama, insieme a Marsilio Landriani stato uno dei maggiori protagonisti europei del dibattito sulla chimica dei gas e sui fenomeni chimici associati alla combustione, alla respirazione e alla calcinazione. Si deve poi al chimico Luigi Valentino

Brugnatelli la pubblicazione di alcuni periodici scientifici allo scopo di impedire l'emarginazione e il misconoscimento della ricerca che si svolgeva in Italia: la Biblioteca fisica d'Europa (1788); gli Annali di chimica (1790); il Giornale difisica, chimica e storia naturale (1792). In tutte queste riviste come testimoniano i loro stessi nomi, la chimica rappresentava o l'oggetto specifico di cui trattavano o una parte decisiva del materiale oggetto di pubblicazione. 3. Gran parte dei chimici finora citati erano medici, salvo Lavoisier che aveva fatto studi ufficiali di diritto (ma anche, informali, di fisica botanica e chimica). La chimica, infatti, non aveva ancora uno status disciplinare accademico autonomo ma faceva parte del curriculum formativo delle facolt di medicina. Le universit, del resto, erano suddivise tradizionalmente in tre sole facolt: medicina, diritto, teologia. Il chimico professionista, o specialista, sar una figura sociale che comincer ad apparire, in maniera molto differenziata, nella seconda met dell'Ottocento. Del resto tutte le attivit di ricerca, quasi fino a questa stessa epoca, venivano svolte in maniera dilettantesca o comunque secondaria rispetto all'attivit, principale con la quale il ricercatore o lo scienziato si guadagnava da vivere. Agli inizi del Settecento era del tutto normale che chi si occupava di scienza svolgesse un tipo di lavoro completamente separato dai suoi interessi scientifici. I membri delle varie accademie nazionali (fatta parzialmente eccezione per l'Acadmie francese) erano spesso dei soci volontari, degli entusiasti della scienza, piuttosto che dei professionisti. Solo a partire dalla fine del Settecento, soprattutto in Francia dove si ebbe una riforma radicale delle istituzioni culturali nazionali con la formazione delle grandi Ecoles professionali, dell'Institut, del Museum d'histoire naturelle, del Conservatoire des arts et des mtiers, la ricerca inizi a configurarsi come un vero e proprio mestiere retribuito, da svolgere a tempo pieno, al quale si poteva accedere solo dopo un periodo di formazione. Nei primi decenni dell'Ottocento i centri di eccellenza della ricerca francese in campo chimico sono stati i laboratori di Jean Baptiste Dumas (all'Ecole de mdecine); di Joseph Louis Gay-Lussac; e, successivamente, di Charles Gerhardt, di Henri Sainte Claire Deville, di Eugne Chevreul (al Museum d'histoire naturelle) e di Marcelin Berthelot. Tutti questi chimici erano fortemente impegnati soprattutto nello sviluppo della chimica organica. In Gran Bretagna, a Londra, nel 1799 fu istituita la Royal Institution, uno dei luoghi decisivi per lo sviluppo della ricerca scientifica inglese, dove lavor il chimico Humphry Davy, uno dei fondatori della elettrochimica. Nel 1845, sempre a Londra, fu fondato il Royal College of Chemistry, diretto dal tedesco August von Hoffmann, ma che declin rapidamente dopo il 1865, cio dopo la partenza di Hoffmann. Un notevole salto di qualit nella professionalizzazione del mestiere e della formazione del chimico si ebbe in Germania, nel laboratorio organizzato da Justus von Liebig a Giessen dove nel 1824 era diventato titolare di una cattedra di chimica. Ben presto questo laboratorio divenne un modello non solo per la organizzazione della ricerca e dell'insegnamento della chimica, ma di tutta la scienza in generale. Il sistema Giessen, che riduceva al minimo la didattica, coinvolgendo direttamente gli studenti nelle attivit di laboratorio, consent di portare il lavoro di molti ricercatori ad un livello assai elevato per gli standard dell'epoca. In questo sistema si era sviluppato, in maniera inedita, un nuovo tipo di produttivit scientifica legata pi che alle capacit o alla genialit dei singoli ricercatori, a quelle complessive di un intero collettivo di ricerca, molto compatto e fortemente gerarchizzato. Questo modello, innanzitutto nel campo della chimica, ebbe in Germania una notevole diffusione: Friedrich Woelher, chimico organico celebre per la sua sintesi dell'urea, lo trapiant a Gottinga nel 1836; Robert Bunsen, uno dei fondatori della spettroscopia chimica, nel 1838 a Marburg e nel 1852 ad Heidelberg; il chimico organico August Kekul, che scopr la struttura esagonale del benzene, a Bonn, ed infine August von Hoffmann nel 1865 a Berlino. Questi laboratori divennero centri di attrazione per tutti i chimici europei e fecero della Germania della seconda met del secolo scorso, il paese pi importante per la formazione della nuova figura del ricercatore chimico di professione.

In Italia, nei primi anni dell'Ottocento, cio nel periodo della Restaurazione, si ebbe un relativo declino della ricerca chimica e, se si eccettua l'opera del piemontese Amedeo Avogadro sulla combinazione chimica dei gas, si deve attendere l'opera del calabrese Raffaele Piria, insegnante a Pisa, per il primo avvio di una ripresa della chimica italiana. Nel 1841 Piria fond insieme al naturalista Arcangelo Scacchi una Antologia di scienze naturali, che per ebbe vita breve. Successivamente, insieme al fisico Carlo Matteucci, diede vita al Nuovo Cimento, che ben presto divenne l'organo pi importante della scienza italiana dell'epoca, insieme agli Annali di fisica, chimica e matematiche editi a Milano dal 1841 dal fisico Gianalessandro Majocchi. Piria raccolse a Pisa, nel suo laboratorio, chimici di grande valore, Stanislao Cannizzaro, Cesare Bertagnini, Salvatore De Luca, che costituirono il primo nucleo per l'avvio di un programma nazionale di organizzazione della ricerca chimica nel nostro paese. Questo programma si realizz solo dopo la conquista di Roma, grazie soprattutto all'opera instancabile di Cannizzaro, chimico organico e teorico di grande valore, che a partire dal 1872, organizz un laboratorio nell'orto del vecchio convento romano di S. Lorenzo in Panisperna, dove prese vita una scuola di chimica di grande prestigio e di livello internazionale. Da questa scuola uscirono ricercatori che hanno segnato la storia della chimica del nostro paese: Emanuele Patern, Raffaello Nasini, Giacomo Ciamician, Gerolamo Vittorio Villavecchia, Arturo Miolati, Amerigo Andreocci, Guido Bargellini. 4. Questa professionalizzazione sempre pi accentuata fu sostenuta e promossa dalla costituzione di associazioni di chimici con fini prevalentemente culturali o dalla presenza di sezioni riguardanti specificamente la chimica nelle sedute di associazioni di promozione della scienza in generale come le societ di avanzamento delle scienze. Fra queste vanno segnalate la Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Aertze, promossa nel 1822 in Germania da Lorenz Oken, alla quale seguiranno nel 1831 la British Association for the Advancement of Science, nel 1833 la Association francaise pour l'avancement des sciencese, dal 1839 al 1847, le Riunioni degli scienziati italiani dalle quali prese vita la Societ italiana per il progresso delle scienze. Ma il fenomeno pi interessante e determinante per la professionalizzazione della chimica stata la nascita di associazioni particolari esclusivamente composte da chimici. In Gran Bretagna, gi alla fine del Settecento, si erano andate costituendo associazioni locali di chimici nelle principali universit del paese: a Londra nel 1782; a Edimburgo nel 1785; a Glasgow nel 1786; a Manchester nel 1787; a Filadelfia nel 1792; ancora a Glasgow nel 1798 e ancora a Edimburgo nel 1800. Infine nel 1841 sorse a Londra la Chemical Society, la prima associazione nazionale di questa categoria di ricercatori, presieduta da Thomas Graharn, studioso rinomato della struttura degli acidi e dei colloidi, e che nel 1848 ottenne la patente reale. Nel 1857 fu fondata la Socit chimique de Paris, che nel 1858 si trasforrn in Socit chimique de France e fu presieduta da Jean Baptiste Dumas, Louis Pasteur e A. Cahours. Nel 1867 a Berlino nacque la Deutsche Chemische Gesellschaft, presieduta da Adolf Baeyer e poi da August Hoffmann. Nel 1868 si costitu la Societ chimica russa. Nel 1869, a Vienna, la Chemisch-physikalische Gesellschaft. Nel 1811, negli Stati Uniti d'America, si costitu la Columbian Society of Philadelphia, che nel 1876 dette vita alla American Chemical Society; nel 1901 nacque la Societ svizzera di chimica; nel 1922 la Societ chimica giapponese; nel 1924 la Societ chimica dell'India e nel 1931 la Societ chimica cinese. Il processo di mondializzazione della chimica era dunque praticamente realizzato. Ogni societ aveva un suo organo ufficiale, dove oltre alle notizie delle attivit sociali veniva curata la pubblicazione della letteratura chimica corrente: nel 1848 usc a Londra il Journal of Chemical Society e il British Abstracts che, insieme alle Chemical News edite da William Crookes (1859), diventeranno le pi importanti riviste specialistiche di lingua inglese; nel 1858 a Parigi vide la luce il Bullettin de la Socit Chimique de France; mentre la societ tedesca pubblicava oltre ai suoi rendiconti ufficiali (Berichte del Deutschen chemischen Gesellschaft, 1868) anche il Chemisches Zenhalblatt, il Beilstein Handbuch der organischen Chemie e il Gmelinsandbuch der anorganischen Chemie. Nel 1876 la societ americana pubblic il Journal of American Chemical Society, poi i Chemical Abstracts (1907), le Chemical and

Engineering News (1923), infine l'Analitical Chemistry (1929) e altre riviste di chimica industriale ed applicata. La societ svizzera pubblic gli Helvetica Chimica Acta (1918). Nel frattempo in Germania e in Austria si formarono anche due associazioni di chimici che pi che fini culturali, come le societ, si proponevano di promuovere gli interessi professionali dei suoi membri: la Verein Deutscher Chemiker (Unione dei chimici tedeschi) nel 1886 e la Verein Oesterreichischer Chemiker (Unione dei chimici austriaci) nel 1897. Entrambe pubblicavano periodici di carattere tecnico: la Zeitschrift fio angeuzandte Chemie (1888) e la Die Chemische Technik l'Unione tedesca, e la Oesterreichischer Chemiker Zeitung (1887) quella austriaca. In Germania, inoltre, venivano pubblicate nella seconda met dell'Ottocento le due pi importanti riviste internazionali, specialistiche, di chimica: nel 1832, da parte di Justus von Liebig e Friedrich Woelher, gli Annalen der Chemie und Pharmacie (poi, nel 1874, Annalen der Chemie); e successivamente, da parte di Wilhelm Ostwald, la Zeitschrift fur phylische Chemie. Ci conferma il carattere dominante della chimica teorica e pratica tedesca a cavallo dei secoli 19 e 20. Ancora Liebig, Woelhcr e Johann Poggendorff diedero vita nel 1837 all'importante Handwoerterbuch der reinen und angewandten Chemie e dal 1848, insieme a H.F.M. Kopp, allo Jahresberichte, una rassegna annuale dei maggiori progressi delle ricerche chimiche e fisiche. Quest'ultima aveva iniziato le sue pubblicazioni nel 1821 su sollecitazione della Accademia svedese delle scienze, ed era stata diretta da Jons Jacob Berzelius. Nel 1922 viene pubblicato il Japanese Journal of Chemistry; nel 1924, a Calcutta, il Quarterly Journal of Indian Chemical Soriety, poi (1928) Journal of Indian Chemical Society; infine nel 1933 il Journal of the Chinese Chemical Society. Pi complessa sar la vicenda della Societ chimica italiana. Molte associazioni professionali ottocentesche alle quali partecipavano i chimici italiani, erano di orientamento prevalentemente farmaceutico. Esse erano sorte originariamente negli antichi Stati italiani, in maniera frammentata, e tale caratteristica rimarr anche all'indomani della unificazione nazionale. Nel 1870 Luigi Gabba riun a Firenze i maggiori chimici italiani (S. Cannizzaro, E. Patern. F. Selmi, P. Tassinari, U. Schiff, D. Amato) per verificare se anche nel nostro paese fosse possibile la costituzione di una societ chimica sul modello di quelle straniere. Prevalse per una posizione scettica, e l'unico risultato della riunione fu la decisione di pubblicare una rivista specialistica, la Gazzetta chimica italiana, che effettivamente vide la luce l'anno successivo a Palermo, sotto la direzione di Cannizzaro, con Patern come redattore capo. Ma l'esigenza di un collegarnento formale fra chimici era molto sentita. Nel 1892, infatti, per iniziativa di un gruppo di chimici igienisti, si form una associazione professionale sul modello tedesco: la Societ dei chimici italiani. Nel 1895 si costitu la Societ chimica di Milano, nei piani della quale si metteva fortemente l'enfasi sulla necessit di una interazione sempre pi massiccia e sistematica fra scienza e industria. Alla societ milanese aderirono infatti anche altri industriali. Nel 1896 essa diede inizio alla pubblicazione di un Annuario della Societ chimica di Milano, dove apparivano i resoconti delle attivit sociali, e i testi di conferenze e memorie di carattere scientifico. Nel 1899 venne fondata a Torino la Associazione chimica industriale, alla quale aderirono chimici e industriali, prevalentemente piemontesi. Anch'essa si dot di un organo ufficiale periodico: La chimica industriale, che successivamente si chiam L'industria chimica e L'industria chimica, mineraria e metallurgica. L'associazione torinese organizz nel 1902 il primo Congresso nazionale di chimica applicata, dove fu riproposta, invano, la necessit di una societ nazionale di chimica. Nello stesso 1902, intanto, si era costituita a Roma la Societ chimica di Roma, sotto l'egida di Cannizzaro, con ambizioni egemoniche nei confronti dei chimici dell'Italia centrale e meridionale, che nel 1903 pubblic i Rendiconti della Societ chimica di Roma. Nel 1908, infine, la societ romana si costitu in Societ chimica italiana, alla quale si associ ben presto la societ milanese. Entrambe divennero sezioni di una nuova Societ chimica italiana, che unific anche le pubblicazioni ufficiali delle due societ fondatrici nei Rendiconti

della Societ chimica italiana. Ma i conflitti, le scissioni e ricomposizioni non cessarono, anzi furono una delle pi tipiche caratteristiche dell'associazionismo chimico italiano, fino al secondo dopoguerra quando fu rifondata una Societ chimica italiana, che ancora esiste. 5. Dal 3 al 6 settembre del 1880, si tenne a Karlsruhe il primo incontro internazionale di chimica al quale parteciparono circa 130 studiosi provenienti da tutta l'Europa. Gli scopi del congresso erano: 1) la definizione esatta di importanti concetti chimici come quelli espressi dalle parole atomo, molecola, equivalente, atomico, basico, ecc.; 2) esame della questione degli equivalenti e delle formule chimiche; 3) fissazione di una notazione e di una nomenclatura uniforme. Come si vede si trattava di discutere e di chiarire alcune questioni fondamentali che presupponevano anche una ristrutturazione linguistica e simbolica della intera chimica di quel periodo, giunta ommai ad un preoccupante stato di sparpagliamento teorico. Si rendeva infatti necessario procedere alla unificazione di teorie e linguaggi, senza la quale la comunicazione fra chimici sarebbe stata sempre pi difficile, se non impossibile. L'idea di congressi internazionali nei quali discutere al massimo e pi ampio livello le questioni scientifiche rilevanti e porre le basi per continui e successivi accordi, perlomeno a livello linguistico, matur ben presto e nel 1894 si tenne a Bruxelles il primo di una serie ininterrotta di Congressi intemazionali di chimica pura ed applicata dalla quale prese vita nel 1919 una associazione internazionale permanente dei chimici di tutto il mondo: L'Intemational Union of Pure and Applied Chemistry. L'interesse per la chimica e lo sviluppo crescente di questa scienza nel secolo scorso testimoniato dalla pubblicazione di numerose opere a carattere enciclopedico, che tentavano di riassumere l'immensa mole di conoscenze che i diversi rami della chimica venivano via via producendo: il Dictionnaire de chimie di Charles A. Wurtz; l'Enciclopedia di chimica scientifica e industriale di Francesco Selmi; l'Encyclopdie chimique di Edmond Fremy e molte altre. Articoli e voci riguardanti i chimici e la chimica ormai erano e sono presenti in moltissime opere scientifich a carattere generale ed enciclopedico come l'americano The Century Dictionary of Cyclopedia (1889), il Dictionnaire Larousse du XXeme sicle (1929), la Enciclopedia Italiana, la Encyclopaedia Britannica, e cos via. Anche discipline collaterali riguardanti la chimica hanno avuto, progressivamente, un notevole sviluppo. La storia innanzitutto. Sin dal 18 secolo, infatti, sono apparse storie della chimica sotto forma di opere autonome o di introduzioni a trattati o di voci enciclopediche. Oggi ben due riviste specialistiche trattano specificamente della storia della chimica: Ambix e Chymia. La prima viene pubblicata dal 1937 come organo della Society for the Study of Alchemy and Early Chemistry. La storia della chimica, del resto, presente ormai, diffusamente, sulle riviste generali di storia e filosofia della scienza. Si deve inoltre a un infaticabile chimico italiano, Aldo Mieli, la pubblicazione in Italia della prima rivista di storia della scienza, Archivio di storia della scienza (1919), poi Archeion e poi ancora Archives Internationales d'Histoire des Sciences, che ancora in corso come organo della Acadmie Internationale d'Histoire des Sciences, fondata dallo stesso Mieli nel 1929. Per quanto riguarda la didattica della chimica, in genere ogni societ nazionale ha istituito una sezione ad essa dedicata. Questo campo di ricerca gode di una diffusione sempre maggiore anche grazie a periodici prestigiosi come il Journal of Chemical Education, organo dal 1924 della Divison of Chemical Education della societ americana (in Italia, ad esempio, abbiamo una rivista dedicata a questo vero e proprio autonomo campo di studi, La chimica nella scuola). La chimica, il vivente e la nascita della chimica organica. 1. Fondandosi sulla tradizionale divisione dei colpi naturali in tre regni distinti, minerale vegetale e animale, sin dal 17 secolo la chimica si era suddivisa in tre branche particolari a seconda del regno dal quale avevano origine le sostanze prese in esame.

Si aveva, cos, una chimica minerale, una chimica vegetale e una chimica animale. Questa classificazione rimarr in vigore fino al 19 secolo, anche se con contenuti e significati diversi relativamente ai differenti gradi di sviluppo della disciplina. E ci anche quando gli studi di storia naturale prima, di biologia poi oltre a quelli della stessa chimica, mettevano in rilievo la tipicit del vivente nel suo complesso rispetto al mondo inerte dei minerali. Tutti i corpi naturali, infatti, potevano essere raggruppati in due grandi classi: una, comprendente i minerali, caratterizzati da un grado di organizzazione scarso o nullo e composti di principi molteplici ma semplici; l'altra, comprendente i vegetali e gli animali, cio oggetti dotati di una organizzazione ben marcata, e di un gran numero di principi immediati complessi che per, in ultima istanza, si riducevano solo a pochi principi elementari. In realt fino alla seconda met del Settecento, si pensava che i principi nelle sostanze animali e vegetali fossero di pi rispetto a quelli presenti nei minerali. Solo grazie alle analisi elementari svolte da Lavoisier alla fine del Settecento, si arriv alla conclusione opposta, cio che mentre le sostanze vegetali contenevano ossigeno, idrogeno e carbonio e quelle animali ossigeno, idrogeno e carbonio e in pi azoto e fosforo, i minerali, al contrario, erano composti differenziatamente anche dagli altri corpi semplici (allora in numero di trentatr. I vegetali e gli animali erano defeniti genericamente organismi, dotati di parti strutturali fortemente correlate, dotate di tutte le funzioni tipiche della vita. Diverse forme di affinit, davano luogo a tutti i composti necessari alla vita dell'organismo. I minerali, quindi, non solo erano esclusivamente dei composti (anche se spesso dotati di strutture regolari o di precise simmetrie di tipo geometrico) ma la loro formazione e le loro metamorfosi erano dovute solamente alle forze dell'affinit chimica. L'organismo, quindi, era un vero e proprio laboratorio chimico e gli organi erano gli strumenti attraverso i quali venivano prodotte tutte le sostanze ricavabili analiticamente dal vivente, perci definite organiche. Quelle del mondo minerale, invece, venivano definite, per differenza, inorganiche. a questo punto che la chimica verr suddivisa formalmente in due settori principali, che rimangono in vigore ancora oggi: cio la chimica organica e la chimica inorganica. Tra i primi ad utilizzare questa nuova classificazione gi a partire dal 1807 fu il chimico svedese Jons Jacob Berzelius nel suo classico Larbok i Kemien (Trattato di chimica) che successivamente ebbe molte edizioni e traduzioni in diverse lingue europee. E fu proprio Berzelius a sostenere all'interno della chimica una decisa posizione di tipo vitalistico. La chimica organica, infatti, nasceva anche come una sorta di istituzionalizzazione di una seria difficolt nella quale si era venuta a trovare la chimica quando, alla fine del Settecento, aveva sviluppato a tal punto il metodo sintetico da farlo diventare un fondamento del suo metodo di indagine, addirittura, come abbiamo visto, un criterio di verit dell'analisi. Ma le sintesi organiche erano possibili, tutt'al pi, solo se le sostanze di partenza erano anch'esse di natura organica: la sintesi artificiale delle sostanze organiche a partire dai principi elementari inorganici si era rivelata fino ad allora impraticabile, e quindi era ritenuta impossibile. Tale impossibilit pratica, insieme all'altrettanto oggettiva difficolt nello studio della struttura e della reattivit delle sostanze organiche, sar trasformata da Berzelius in un vero e proprio ostacolo ontologico. Egli, infatti, sosteneva che l'essenza del corpo vivente non era fondata sui suoi elementi inorganici, ma su qualche altro principio che disponeva questi elementi a cooperare alla produzione di un particolare risultato determinato e differente per ogni specie. Questo principio definito forza vitale o forza assimilatrice, che comprendeva e generalizzava quelle forze che prima erano state definite di vegetazione e di animalizzazione, non era quindi inerente agli elementi inorganici, e non costituiva una delle loro propriet originarie, come il peso, l'impenetrabilit, la polarit elettrica, e cos via, anche se non era ancora possibile concepire in che cosa consistesse, come si originasse, come portasse a compimento la sua opera. La concezione vitalistica di Berzelius era fortemente legata all'idea che i fenomeni della fisiologia del vivente possedessero un proprio finalismo, che

per non era intrinseco alla materia, o al solo vivente, ma era dovuto a una intelligenza superiore, trascendente, cio a Dio. Di qui la conclusione generale sulla sintesi chimica, alla quale abbiamo fatto gi cenno: all'arte non era concesso di combinare gli elementi inorganici nella stessa maniera in cui li combinava la natura vivente. Talvolta era possibile produrre con materie inorganiche un piccolo numero di sostanze nelle quali gli elementi erano combinati nello stesso modo della natura organica, ma queste sostanze erano poste esattamente al limite fra la composizione organica e l'inorganica, come era il caso della celebre sintesi dell'urea realizzata da Friedrich Woelher nel 1828 a partire dal cloruro di ammonio e dal cianato di argento, per dare cianato d'ammonio e da questo, mediante il calore, l'urea. Infatti, secondo Berzelius, quand'anche si fosse pervenuti progressivamente a produrre con corpi inorganici varie sostanze di una composizione analoga a quella dei prodoni organici, queste composizioni dovevano essere considerate semplici imitazioni di quelle naturali. Per Berzelius, dunque, essendo la forza vitale qualcosa di eterogeneo rispetto alle altre propriet della materia comune, essa era assolutamente al di fuori di ogni possibile utilizzazione da parte dello sperimentatore. Di conseguenza ogni sintesi chimica di tipo organico a partire dagli elementi inorganici, quand'anche fosse riuscita, poteva produrre solo sostanze che nella loro essenza erano molto diverse da quelle prodotte negli organi del vivente. Tuttavia, secondo il chimico svedese esisteva, soprattutto negli animali superiori, una sorta di centro interno che dirigeva gli eventi pi propriamente chimici e fisici dei processi fisiologici. Esso era il sistema nervoso (o il cervello), nel quale si trovava nascosto il segreto della vita. Ma, contro ogni possibile interpretazione materialista del funzionamento del vivente, Berzelius teneva a ribadire che il cervello era la pi sublime delle opere del creatore dell'Universo. 2. L'idea che potesse esistere una qualche forza che distinguesse, anche dal punto di vista della fenomenologia chimica, il vivente dall'inerte era largamente condivisa dai chimici della prima met del 19 secolo. Per Charles Gerhardt il chimico faceva tutto l'opposto della natura vivente: egli bruciava, distruggeva, operava per mezzo dell'analisi; mentre solo la forza vitale operava per via sintetica; essa infatti ricostruiva l'edificio abbattuto dalle forze chimiche (1844). Joseph Louis Gay-Lussac aveva gi sostenuto che gli elementi ultimi delle sostanze vegetali e animali, oltre a essere sottoposti alle leggi della chimica minerale, lo erano anche ad una forza di cui si vedono, per cos dire, solo gli effetti e di cui si avverte l'importanza, cio la potenza dell'organizzazione (Cours de chimie, 1825). I concetti di forza vitale e di organizzazione non sono equivalenti. La prima implica qualcosa di pi della idea che la organizzazione sistematica degli organismi viventi fosse in grado di provocare in essi tutta una serie tipica di fenomeni (e di produrre dei composti chimici particolari) che li differenziavano dagli oggetti del mondo inorganico col quale, tuttavia, intrattenevano dei rapporti non occasionali di scambio. La stessa organizzazione poteva essere considerata sia un irriducibile elemento di discontinuit rispetto al non vivente, sia, al contrario, una propriet emergente dal mondo inorganico, mediante l'azione delle sole forze naturali conosciute. Cos come, del resto, non tutti i sostenitori della esistenza di una forza vitale ritenevano, come Berzelius, che essa fosse esterna alla materia ordinaria e completamente eterogenea rispetto alle altre forze presenti in natura. Secondo Jean Baptiste Dumas, ad esempio, gli esseri organizzati potevano essere considerati dal punto di vista chimico o come apparati di combustione (gli animali) che liberavano continuamente carbonio, idrogeno e azoto sotto forma di anidride carbonica, acqua e ossido d'azoto; oppure come apparati di riduzione (le piante) in grado di decomporre le sostanze liberate dagli animali nei loro principi costituenti elementari, che erano anche i costituenti principali dell'atmosfera terrestre. A partire da queste posizioni, riprese da Lavoisier, Dumas faceva l'ipotesi che gli animali e le piante derivassero originariamente dall'aria, che fossero cio dell'aria condensata (Essai de statique chimique des etres organiss, 1844).

Erano le piante, in realt, a creare tutti i composti organici, mentre gli animali li assimilavano e poi selettivamente li distruggevano. Cio era nel regno vegetale che risiedeva quello che Dumas definiva il gran laboratorio della vita organica, dove venivano elaborate tutte le sostanze che servivano a conservare il vivente nel suo stato. Il processo di organizzazione del vivente andava dunque dalla atmosfera alle piante, agli animali erbivori e da questi agli animali carnivori. Gi in vita gli animali distruggevano le sostanze organiche organizzabili assimilate, restituendole cos all'atmosfera dalla quale provenivano, e questo processo trovava il suo compimento finale nella loro morte, dopo la quale, per putrefazione, essi si riducevano completamente e spontaneamente nei loro costituenti, composti o elementari, che venivano restituiti all'atmosfera. L'organizzazione del vivente, dunque, possedeva il suo primo gradino nelle piante pi semplici. Queste, a loro volta, erano state prodotte mediante la luce, che, ancora seguendo Lavoisier, Dumas considerava un potente reagente chimico. Essa agiva dopo una fase iniziale nella quale le eruzioni vulcaniche e i temporali, nel corso del tempo, avevano realizzato le prime sintesi necessarie allo sviluppo della organizzazione del vivente, a partire dai componenti elementari dell'atmosfera. A cominciare dalle piante, il ciclo della trasmissione delle sostanze nel vivente procedeva in maniera incessante e continua, immutata nell'immensit dei secoli. Per Dumas, dunque, l'origine della vita, cio degli esseri organizzati, era spiegabile mediante la formazione o l'esistenza di determinate e particolari condizioni sperimentali ambientali, nelle quali agivano forze e processi naturali noti: dunque non era necessario far ricorso ad un qualche principio particolare per spiegare il funzionamento chimico del vivente. In linea teorica, quindi, le sostanze organiche potevano essere prodotte attraverso le normali procedure della sintesi chimica. Di diverso avviso, invece, sar il chimico tedesco Justus von Liebig. Egli partiva dalla constatazione di fatto della originalit della fenomenologia del vivente, della sua irriducibilit a quella del mondo minerale ed alle leggi di quest'ultimo. Postulare l'esistenza di una forza vitale era per Liebig una posizione provvisoria, da adottare in mancanza di maggiori indizi sul funzionamento del vivente; indizi che sarebbero dovuti venire dagli studi e dalle ricerche di fisiologia. Il compito dello scienziato, dunque, non era tanto quello di provare il perch dell'esistenza di tale forza, quanto di descrivere le sue relazioni distintive nel complesso della fisiologia chimica e in rapporto agli effetti concorrenti delle altre forze della natura. Liebig, contrariamente a Berzelius considerava la forza vitale dotata dello stesso statuto di scientificit delle altre forze naturali: la forza gravitazionale, la forza elettrica, la forza chimica, la forza magnetica, la forza termica, e cos via. E cos come si attribuivano comunemente i fenomeni gravitazionali a una forza gravitazionale, analogamente quelli della vitalit potevano essere attribuiti ad una forza vitale. Il significato da attribuire a questa forza era dunque ben delimitato, ogni estensione del suo valore esplicativo e l'uso che spesso se ne faceva, alla maniera di un passe-partout della fisiologia e della medicina, doveva essere considerato arbitrario. Liebig, infatti, assumer una posizione critica non solo nei confronti di coloro che volevano ridurre la spiegazione dei fenomeni vitali al solo concorso delle forze chimiche e fisiche gi note; ma anche dei vitalisti pi radicali che, a causa della loro ignoranza, pretendevano di spiegare i misteri della vita con l'aiuto di una o pi forze vitali. Lo stesso concetto di forza aveva per Liebig un significato ben preciso: una forza era responsabile o dei fenomeni del movimento o della resistenza al movimento, ed era l'insieme di questi fenomeni opposti a determinare i cambiamenti di forma e di struttura nei corpi naturali. Per esempio, le forze responsabili delle reazioni chimiche, sia inorganiche che organiche, erano di natura esclusivamente chimica, ed in esse valevano solo ed esclusivamente i principi della chimica. Ma solo sotto la direzione della forza vitale era possibile la formazione delle sostanze organiche necessarie per il mantenimento e lo sviluppo degli organismi viventi. Cio la particolare disposizione che gli atomi e le molecole assumevano per formare i composti organici era dovuta al movimento o alla resistenza al movimento causati dalla forza vitale. Tutte le

forze naturali, in diverso grado, avevano una qualche influenza sull'andamento delle reazioni chimiche, a seconda delle concrete circostanze sperimentali. Anche la forza vitale, quindi, che per influiva solo nel determinare il numero e la disposizione degli atomi che partecipavano alla economia del vivente (Chimie organique, 1842). Ma anche per Liebig la produzione artificiale delle sostanze organiche a partire dai componenti elementari era interdetta: il chimico, ad esempio, era in grado di comporre un cristallo di allume a partire dai suoi elementi, ma gli era invece impossibile riprodurre allo stesso modo una molecola di zucchero, poich questa originariamente si era formata negli organismi col concorso della forza vitale, e quindi solo mediante quest'ultima essa era sintetizzabile. Ma la forza vitale, contrariamente alle altre forze fisiche e chimiche, non era a disposizione dello sperimentatore. 3. L'impossibilit della sintesi diretta dei principi immediati ricavati dal vivente (e la conseguente irriducibilit di principio della chimica organica a quella inorganica) ha rappresentato, dunque, l'aspetto specifico assunto dal vitalismo all'interno della chimica. Tale impossibilit costituir quello che nella seconda met del secolo il chimico francese Marcelin Berthelot definir come il problema fondamentale della chimica organica. Questo problema, del resto, non era facilmente risolubile se lo stesso processo analitico non si sviluppava maggiormente nella definizione esatta dei principi immediati ed intermedi delle sostanze ricavate dal vivente; nella loro classificazione; nella conoscenza esatta della loro composizione, della loro struttura e delle loro metamorfosi. Nel caso delle sostanze organiche, infatti, ci si trovava dinnanzi a problemi molto difficili da affrontare e apparentemente inestricabili. Questa situazione ben descritta in una lettera del 1835 di Woelher a Berzelius: La chimica organica oggi tale da condurre un uomo fuori di senno. Essa produce in me l'impressione di una foresta tropicale primitiva, riempita di cose interessanti, e di una mostruosa e illimitata vegetazione dalla quale impossibile districarsi e in cui pauroso entrare. In effetti, della sterminata variet delle sostanze organiche isolate analiticamente o realizzate sinteticamente (ma a partire da altre sostanze organiche pi semplici) poco si conosceva, se non il fatto che esse erano composte solo di alcuni corpi semplici, in diversi rapporti ponderali fra di essi. Ma la uniformit qualitativa elementare nei componenti contrastava con la grande differenza di propriet chimiche e fisiche dei composti. Qual era, dunque, la vera natura delle sostanze organiche? Da che cosa dipendeva la variet delle loro propriet? Fondamentalmente furono tre le teorie elaborate nel 19 secolo per rispondere a questi interrogativi: la teoria dei radicali, la teoria dei tipi e la teoria della struttura. 4. Gi Lavoisier aveva sostenuto che le sostanze organiche erano composti ossigenati di radicali complessi. Ai primi dell'Ottocento Berzelius accettava questa ipotesi alla quale estese la teoria atomica elaborata da John Dalton nel 1803-1808, a sua volta ritradotta secondo la teoria dualistica di tipo elettrochimico che lo stesso Berzelius aveva elaborato per le sostanze inorganiche. Secondo questa teoria ogni sostanza organica era composta da una parte elettronegativa, l'ossigeno, e da una parte elettropositiva, il radicale, cio un gruppo di atomi dotato di una individualit chimica e fisica ben definita e in grado di rimanere inalterata attraverso tutte le trasformazioni subite dalla sostanza stessa. Per Berzelius, quindi, i radicali si trovavano uniti a coppie cos come gli elementi o i gruppi di elementi dei sali minerali. Una importante conferma di questa teoria venne dalle ricerche del 1832 di Liebig e Woelher sul radicale dell'acido benzoico, il benzoile, che rimaneva invariato attraverso tutte le reazioni della benzaldeide con idrogeno, ossigeno, alogenuri, zolfo, ammoniaca e acido cianidrico. Dopo il benzoile furono trovati altri aggruppamenti relativamente stabili di atomi che svolgevano la stessa funzione degli atomi (o dei corpi semplici) nelle sostanze inorganiche: il cianogeno, il gruppo ammidico, il formile, il cinnamile, il cacodile, e cos di seguito. Queste ricerche, svolte nei primi quarant'anni del secolo scorso, suggellarono il successo della teoria dualistica del chimico svedese.

5. Ma alcune ricerche sui fenomeni di sostituzione fra idrogeno e alogeni o ossigeno in alcune sostanze organiche, iniziate a partire degli anni Venti dell'Ottocento, misero in crisi la teoria dualistica dei radicali. Michael Faraday studiando l'azione del cloro sull'etilene (1821), Gay-Lussac quella sul cianogeno (1823), Liebig e Woelher sulla benzaldeide (1832) e, infine, Dumas sulla essenza di terebentina, sull'alcool e sull'acido acetico (1834), notarono che il cloro, che era considerato fortemente elettronegativo, poteva sostituire l'idrogeno, considerato fortemente elettropositivo, presente in quelle sostanze. Queste sostituzioni avvenivano senza che le propriet chimiche e fisiche delle sostanze sulle quali esse venivano operate subissero notevoli variazioni. Dumas fu il primo a sistematizzare questi fenomeni, inspiegabili secondo la teoria dualistica di Berzelius, elaborando una teoria o legge della sostituzione chiamata anche col nome greco di metalepsi, che vuol dire appunto sostituzione, scambio. Questa teoria convinse molti chimici, soprattutto quando nel 1839 Dumas ottenne l'acido tricloroacetico per sostituzione di tre degli idrogeni dell'acido col cloro. Dumas trov in Berzelius un accanito oppositore della sua teoria, peraltro ancora molto empirica, e un altrettanto accanito sostenitore nel suo allievo August Laurent. Questi, infatti, pubblic nel 1836 un articolo sulle Annales de chimie nel quale attaccava la teoria dualistica ed elettrochimica del pi celebre (e potente) chimico svedese, sostenendo che i fenomeni della sostituzione alogeno/idrogeno stavano a dimostrare che non era tanto lo stato elettrochimico degli atomi componenti le molecole delle sostanze organiche a determinare le propriet di queste, quanto la disposizione spaziale mediante la quale gli atomi si raggruppavano nel formare le molecole. Le propriet dei composti organici, quindi, non dipendevano solo dalla natura dei componenti elementari, ma soprattutto dalla loro reciproca disposizione. Ogni composto era il risultato di sostituzioni successive a partire da una forma tipica primitiva, un nucleo invariante, che Dumas successivamente defin tipo: era la nascita della teoria dei tipi. Questa supponeva che le sostanze organiche derivassero, appunto, da molecole di base che erano o dei corpi semplici come l'idrogeno, o composti come l'acqua, l'ammoniaca, l'acido cloridrico. Era sufficiente sostituire uno o pi atomi di questi tipi con i differenti radicali per ottenere una serie di composti collegati al tipo fondamentale. Ma i radicali della teoria dei tipi non avevano lo stesso statuto teorico di quelli della... teoria dei radicali, poich nella prima essi erano piuttosto dei residui che si formavano in una molecola per eliminazione di un qualche suo elemento e che combinandosi col residuo di un'altra molecola davano origine a un nuovo composto. Questa nuova concezione dei radicali all'interno della teoria dei tipi era dovuta alla sistematizzazione che quest'ultima aveva ricevuto negli anni 18481850 dal chimico francese Charles Gerhardt che, gi nel 1839, aveva formulato una teoria dei residui come risultato dello studio delle reazioni di condensazione. Queste reazioni erano caratterizzate dal fatto che atomi di idrogeno e di ossigeno si distaccavano dalle molecole organiche e reagivano per formare sia l'acqua, sia residui, cio radicali non isolabili che si combinavano tra loro per dare composti organici stabili. La sistematizzazione di Gerhardt prese il nome di sistema unitario, ed essa ebbe un notevole successo fra i chimici della seconda met del secolo scorso. Nel 1854, per analogia col tipo acqua, il chimico tedesco August Kekul introdusse il tipo idrogeno solforato (H2S), per spiegare la composizione dei composti organici solforati e nel 1855 il tipo metano (CH4). Lo stesso Kekul dimostr, nel 1858, che il carbonio era sempre tetravalente, cio possedeva la capacit di saturarsi con quattro elementi monovalenti come l'idrogeno o come gli alogeni; queste valenze, per di pi, erano equivalenti. In questo modo si apriva la strada alla spiegazione del perch, nonostante la costanza della valenza del carbonio, si formassero composti organici di differente complessit. Ci dipendeva in gran parte dal fatto che gli atomi del carbonio eraoo in grado di legarsi anche fra loro formando delle catene. Tale idea fu sviluppata dall'inglese A. S. Couper nel 1858 nel suo On a new chemical theory, dove dimostr che in effetti era possibile la formazione di catene del tipo, C-C-C. In questo modo era possibile spiegare anche il rilevante fenomeno

della isomeria, cio l'esistenza di composti organici di eguale formula bruta ma dotati di propriet chimiche e fisiche differenti. L'isomeria, infatti, era dovuta alla differente disposizione dei differenti atomi nella molecola dei composti isomeri. L'isomeria era gi stata scoperta da Woelher nel 1824 a proposito del cianato e del fulminato di argento e poi da Liebig e Gay-Lussac nel 1825 e nel 1830. Ancora nel 1830 Berzelius, che coni il nuovo termine di isomeri per queste sostanze, avanz l'ipotesi che gli atomi degli isomeri erano legati fra loro in modo differente. In questo modo l'attenzione dei chimici si concentro sulla topologia delle molecole, cio sulla loro struttura. Un notevole passo avanti nella teoria della struttura, fu compiuto grazie agli studi del chimico russo A. M. Butlerov il quale sostenoe che le propriet delle singole molecole dei composti chimici, in particolare di quelli organici, potevano essere spiegate solo attraverso la definizione dei legami fra i singoli atomi componenti tali molecole: se le sostanze dotate di una identica composizione differivano per le loro propriet, questo fenomeno doveva essere spiegato da una differente struttura chimica. Butlerov e P.C. Laar spiegarono anche, sempre mediante ipotesi strutturistiche, il rilevante fenomeno della tautomeria, o della isomerizzazione reversibile, cio l'esistenza di composti le cui strutture in equilibrio tra loro differiscono nella disposizione degli atomi. Un esempio tipico di questa propriet delle reazioni organiche di dare contemporaneamente strutture isomere in equilibrio fra loro la cosiddetta tautomeria cheto-enolica, cio fra un alcool e un chetone (o una aldeide). Si deve aocora a Kekul la individuazione della particolare struttura ad anello dei composti aromatici (1865). Ma negli anni Quaranta dell'Ottocento venne alla luce un'altra propriet notevole dei composti organici: l'omologia. Cio l'esistenza di serie di composti nelle quali ogni loro termine differiva da quello precedente o successivo per una quantit costante, e per alcune propriet fisiche come, per esempio, il punto di ebollizione, il punto di fusione, la densit, e cos via. Le serie omologhe erano fornite di una certa regolarit mediante la quale era possibile una classificazione naturale dei composti organici. Gli studi sulla omologia di J. Schiel (1842), Dumas (1843) e Gerhardt (1844-1845) condussero Kekul (1858) ad elaborare una legge matematica delle serie omologhe. 6. Contemporaneamente a questi progressi teorici si erano sviluppate anche sofisticate tecniche di laboratorio. Si erano ottenuti artificialmente principi naturali relativamente semplici, per mezzo della decomposizione di principi pi complicati o per mezzo di metamorfosi di principi di analoga complicazione. Notevole sviluppo aveva avuto la sintesi organica a partire da sostanze semplici, ma ancora organiche, per formame di pi complesse. Era possibile, infine, per via analitica, cio mediante decomposizioni successive, arrivare alla formazione di composti organici di complessit decrescente fino ai principi elementari. Per esempio, era possibile passare da un composto ternario come l'amido, allo zucchero e poi all'alcool (anch'essi ternari ma pi semplici); da questo all'etilene e poi all'acetilene (entrambi binari ma pi semplici), infine al carbonio e all'idrogeno elementari. A questo punto era sufficiente realizzare la sintesi dell'acetilene a partire dai suoi componenti, per poter poi risalire al contrario la scala delle decomposizioni, fino ai composti ternari pi complessi. Nel 1863 Berthelot metteva a punto questa sintesi, mediante l'azione di un arco elettrico. In questo modo diventava finalmente possibile elaborare un sistema generale e completo della sintesi organica; e si rendeva possibile la sintesi generale e diretta di tutti i principi immediati e intermedi pi importanti della natura organica, che lo stesso Berthelot classificava in otto tipi fondamentali, disposti nell'ordine graduale col quale si realizzava metodicamente la loro sintesi. Queste otto classi di composti costituivano per Berthelot i veri tipi dei composti organici, e fra questi, i primi due, gli idrocarburi e gli alcoli, avevano un rilievo particolare poich rappresentavano i gradini fondamentali per risalire la scala dell'intero processo sintetico. Solo ora la chimica tutta intera poteva essere definita realmente come la scienza dell'analisi e della sintesi. Tuttavia la portata del metodo sintetico non era esattamente la stessa di quello analitico. Quest'ultimo, infatti, comprendeva la separazione dei principi immediati che componevano gli organi dei

viventi, e la decomposizione graduale di questi fino ai loro costituenti elementari; il metodo sintetico, invece, veniva applicato per rovesciare esclusivamente l'ultimo risultato e per risalire gradualmente la scala ascendente per complessit dei composti organici. Esso, per, non si proponeva di riprodurre gli organi o i tessuti dai quali questi composti erano stati ricavati. La formazione e il funzionamento degli organi, il loro rapporto con l'intero organismo e con l'ambiente non appartenevano al dominio della chimica ma a quello della fisiologia. A questo livello di sviluppo, la chimica organica si distinguer anche, e sempre pi nettamente, dallo studio dei processi di tipo chimico che avvenivano negli organismi viventi e col quale era stata in parte confusa. Tali processi costituiranno l'oggetto di un nuovo ramo della chimica: la chimica fisiologica, o chimica biologica, che grazie alle ricerche di chimica organica della seconda met del 19 secolo trover un fondamento autonomo rispetto alla stessa fisiologia o alla medicina. Su questo argomento Berthelot sar molto chiaro: per lui gli effetti chimici della vita erano dovuti al gioco esclusivo delle forze chimiche ordinarie (La synthse chimique, 1876). Con le sintesi di Berthelot cadeva definitivamente ogni barriera fra la chimica organica e quella minerale, poich il punto di partenza della formazione delle sostanze di entrambi questi rami della chimica era ormai lo stesso. Inoltre questi sviluppi della sintesi organica, rivelando in maniera decisiva la fondamentale omogeneit di forze, principi e leggi fra i due rami della chimica, facevano cadere anche le differenze di tipo ontologico che erano state stabilite fra i prodotti dell'arte e quelli della natura vivente. Ora non solo era possibile sintetizzare artificialmente tutte le sostanze prodotte dagli organismi, ma, con l'uso delle stesse forze, delle stesse leggi e degli stessi strumenti, era possibile produrre composti che o non erano stati ancora trovati in natura o non vi esistevano affatto. Cio era possibile creare oggetti materiali completamente artificiali. Come scriveva Berthelot in maniera assai suggestiva: La chimica possiede questa facolt creatrice ad un grado ancora pi eminente delle altre scienze, poich essa penetra pi profondamente e giunge fino agli elementi naturali degli esseri. Non solamente essa crea dei fenomeni, ma ha la potenza di rifare ci che ha distrutto; essa ha anche la potenza di formare una moltitudine di esseri artificiali, simili agli esseri naturali, e partecipanti di tutte le loro propriet. Questi esseri artificiali sono le immagini realizzate delle leggi astratte, delle quali persegue la conoscenza. Lo sviluppo dei metodi sintetici, la possibilit di comporre delle sostanze completamente artificiali, lo studio sempre pi approfondito della struttura e delle reazioni delle sostanze organiche allontanavano sempre pi la chimica organica dal suo originario contesto naturalistico, perlomeno in linea tendenziale. Questo processo ebbe un suo compimento nel 1867, quando Kekul, prendendo atto del ruolo centrale del carbonio nella struttura delle sostanze organiche, al quale abbiamo gi fatto riferimento, arriv a definire la chimica organica come la chimica dei composti del carbonio e quindi, come tale, un capitolo particolare della chimica pura: Noi definiamo dunque la chimica organica come la chimica dei composti del carbonio. Per questo non vediamo un'antitesi fra composti organici e inorganici. Quello che indichiamo con il nome tradizionale di chimica organica e quel che chiameremmo chimica finalizzata allo studio dei composti del carbonio, piuttosto una parte speciale della chimica pura, di cui diamo una trattazione specifica, perch il gran numero e la particolare importanza dei composti del carbonio, fanno apparire necessario un loro studio speciale (Lehrbuch der organischen Chemie oder der Chemie der Kohlenstoffverbindungen, 1867). L'aspetto specifico che il vitalismo aveva assunto nella chimica, verr dunque eliminato dall'orizzonte teorico e pratico di questa scienza. Esso si sposter ad altri livelli, ma in maniera assai impropria: cio nella continuamente ribadita impossibilit della sintesi dei tessuti, degli organi, ecc., dei viventi. Tale spostamento derivava sia dalla definizione dei limiti del metodo sintetico dato da Berthelot, e condivisa da altri chimici; sia dalla stessa enfasi eccessiva messa sulla sintesi chimica; sia, infine, dalla necessit di distinguere la chimica organica dalle altre discipline che si occupavano del vivente, compresa la chimica fisiologica. Ma forse anche da un timore,

retroattivo, sulle possibili conseguenze teoriche che questa prima negazione sperimentale del vitalismo poteva produrre sullo stesso modo di concepire il vivente. 7. Un notevole contributo allo studio della struttura e delle reazioni fra sostanze organiche venne dalle ricerche sulla attivit ottica di alcune di esse, cio sulla loro capacit di ruotare il piano di una luce polarizzata, cio di una luce (supposta ondulatoria) le cui vibrazioni avvengono soltanto in uno dei possibili piani perpendicolari alla sua direzione di propagazione. Gi nel 1815 e nel 1817 Jean Baptiste Biot, studiando la deviazione della luce polarizzata da parte di alcuni composti organici, e notando che essa non dipendeva dal loro stato di aggregazione o di cristallizzazione, era giunto alla conclusione che fosse dovuta a una qualche propriet strutturale delle loro molecole. Nel 1848 Louis Pasteur not che il sale di sodio e di ammonio dell'acido racemieo (o acido tartarico), otticamente inattivo, poteva risolversi, dopo cristallizzazione in soluzione acquosa, in una miscela di due differenti tipi di cristalli emiedrici, immagini speculari l'uno dell'altro. Con una pinzetta Pasteur separ i cristalli con una struttura destra da quelli con una struttura sinistra. Egli trov che mentre la miscela originale dei due cristalli era effettivamente otticamente inattiva, la soluzione di ciascuno dei due tipi di cristalli era invece in grado di ruotare il piano della luce polarizzata rispettivamente verso destra e verso sinistra. Ciascun tipo di cristalli, cio, rivelava la sua attivit ottica con una rotazione specifica uguale ma di segno opposto rispetto all'altro. I due tipi di cristalli erano dunque degli antipodi ottici. Tutte le altre propriet chimiche e fisiche restavano invariate e identiche per entrambi gli antipodi ottici. Siccome questa attivit si manifestava anche in soluzione, Pasteur, come prima Biot, concluse che essa era una caratteristica propria delle molecole del tartrato. Cio che anche le molecole dovevano essere immagini speculari le une delle altre. Nel 1869 J. Wislicenus, studiando l'attivit ottica dell'acido lattico, trov gli stessi fenomeni provocati dai sali dell'acido tartarico. Da ci egli concluse che anche in questo caso l'attivit ottica era dovuta alla diversa disposizione spaziale degli atomi che costituivano la struttura molecolare di quel composto. Cio si era in presenza di una particolare forma di isomeria di tipo spaziale: era la prima volta che la disposizione nello spazio degli atomi giocava un ruolo decisivo nella spiegazione della fenomenologia specifica dei composti chimici. Si deve all'olandese Jaeobus Henrieus Vant'Hoff l'aver tratto da queste ricerche le conclusioni pi importanti per quanto riguarda la struttura dei composti organici, ovvero la enunciazione, a partire dal 1874, della ipotesi che la isomeria spaziale degli isomeri ottici era dovuta al fatto che le valenze dell'atomo di carbonio erano dirette verso i vertici di un tetraedro regolare il cui centro era rappresentato dallo stesso atomo di carbonio. In particolare, quando le quattro valenze del carbonio erano saturate da quattro gruppi differenti, il suo atomo doveva essere considerato asimmetrico. Era questa condizione a determinare l'esistenza di due configurazioni spaziali della molecola del composto organico l'una immagine speculare dell'altra, quindi non sovrapponibili. Ed era la presenza di un atomo di carbonio asimmetrico a produrre la rotazione destra o sinistra del piano di polarizzazione della luce. Una conseguenza di tale ipotesi era che i composti organici che contenevano atomi di carbonio asimmetrici, ma erano otticamente inattivi, potevano essere risolti in composti otticamente attivi. Sempre nel 1874 il francese Joseph Achille Le Bel, riprendendo i lavori di Pasteur, giunse alla stessa conclusione di Vant'Hoff che intanto esponeva le sue teorie in un'opera rimasta celebre, La chimie dans l'espace (1875), aprendo cos, non senza contrasti e incomprensioni, un nuovo campo di ricerca, la stereochimica. Questa disciplina ha rappresentato, e rappresenta tuttora, uno dei pi alti contributi della chimica allo studio della struttura e delle propriet della materia, aprendo la strada non solo a sviluppi giganteschi nel campo della chimica organica, ma anche nella successiva chimica delle macromolecole naturali e sintetiche iniziata dal chimico tedesco Hermann Staudinger nel 1920, e poi nella successiva biologia molecolare.

Tutte queste discipline sono debitrici dei risultati dei lavori pionieristici dei chimici organici che abbiamo citato (compreso, fra gli altri, l'italiano Emanuele Patern, che per primo, nel 1869, aveva sostenuto che per spiegare la isomeria del dibromoetano bisognasse supporre la tetraedricit spaziale dell'atomo del carbonio). Tali risultati possono essere riassunti in otto punti: 1) l'atomo di carbonio nei composti organici sempre tetravalente; 2) queste valenze sono equivalenti; 3) esse sono regolarmente distribuite nello spazio, secondo i vertici di un tetraedro regolare; 4) gli atomi o i gruppi di atomi legati per mezzo di queste quattro valenze non possono scambiarsi reciprocamente di posto; 5) gli atomi di carbonio possono unirsi tra di loro con uno, due o tre legami, dando luogo a famiglie di composti con differenti propriet chimiche (per esempio, alcani, alcheni, alchini); 6) da queste differenti unioni possono aversi composti a catena aperta o chiusa ad anello (come il benzene); 7) le quattro valenze del carbonio formano tra loro angoli costanti di 109,28; 8) le molecole nelle quali gli atomi di carbonio sono uniti mediante un legame semplice possono ruotare liberamente intorno a tali legami dando vita a differenti isomerie geometriche e a configurazioni stabili determinate dai gruppi legati agli atomi di carbonio. Gli elementi. 1. Abbiamo gi visto che la parte pratica, artificiale, della chimica ha assunto via via un ruolo sempre pi rilevante nella definizione dello statuto scientifico di questa disciplina. Questa valorizzazione dell'esperienza ha avuto una ricaduta determinante nella definizione di quello che potremmo definire il concetto fondamentale della chimica scientifica, cio l'elemento. Il luogo teorico centrale del modo chimico di concepire la natura che ogni corpo materiale ed eterogeneo pu essere considerato composto di sostanze differenti pi semplici o principi, alcuni dei quali non ulteriormente scomponibili in quanto elementari. La teoria degli elementi, quindi, storicamente la teoria fondamentale della chimica, sin dalla sua costituzione in scienza. Per Paracelso, ad esempio, i principi prossimi dei corpi erano il sale, lo zolfo e il mercurio: Tre cose costituiscono la sostanza, scriveva nell'Opus paramirum del 1531, e forniscono a una cosa specifica il suo corpo, cio ogni corpo particolare in tre cose. I nomi di queste tre cose sono: Zolfo, Mercurio e Sale... cos quando hai in mano un corpo, hai tre sostanze invisibili sotto una forma. Data la loro non immediata visibilit, era quindi necessario ricorrere all'artificio per rendere sensibili questi tre principi, che altrimenti sarebbero rimasti nascosti all'interno del corpo e quindi inutilizzabili per la produzione dei farmaci. L'operazione chimica, quindi, separando il puro dall'impuro, risolvendo il corpo composto nei suoi principi costituenti, rendendo visibile l'immediatamente invisibile, era in grado di costituire una seconda forma di conoscenza, non legata alla sensazione diretta, ma ad una sensazione di seconda istanza, risultato della pratica sperimentale esercitata sul corpo in esame. I principi elementari erano appunto gli oggetti di questa seconda forma di conoscenza. Ma questa idea, che successivamente risulter molto feconda per gli sviluppi della chimica, era in realt inserita dall'eccentrico iatrochimico tedesco in un contesto metafisico, nel quale convergevano problematiche mediche, astrologiche, alchimistiche, mistico-religiose, neoplatoniche, ermetiche e gnostiche di difficile semplificazione. Per Paracelso, in effetti, gli elementi concreti che portavano gli stessi nomi di sale, zolfo e mercurio erano solo approssimazioni materiali (involucri) dei veri elementi, concepiti come sostanze spirituali che denotavano alcune propriet fondamentali e generali della materia. Erano cio dei principi ipostatici, delle astrazioni di qualit come la incombustibilit o la inalterabilit (sale); la fusibilit e la volatilit (mercurio); l'infiammabilit e la combustibilit (zolfo). Anche le successive teorie dei principi e degli elementi manterranno alcune di queste caratteristiche. Abbiamo gi esaminato le ipotesi di Becher e van Helmont sulla costituzione dei corpi. Becher, come sappiamo, sosteneva che essi erano composti di acqua elementare e di tre terre: la vetrificabile o fusibile o petrosa, la infiammabile o pingue e

la mercuriale o fluida, in parte corrispondenti ai tre elementi paracelsiani ed alle loro propriet. Tutte e tre queste terre erano presenti in differenti combinazioni con l'acqua o fra di esse in tutti i corpi naturali (vegetali, animali, minerali). Ogni corpo era analogo all'altro e ad esso affine, e questa universale analogia, o affinit, era dovuta appunto a una similitudine negli elementi ultimi della loro composizione. Van Helmont riteneva che i corpi fossero composti di acqua e di un fermento specificatore di tipo spirituale. E questa idea di una presenza di un elemento pi fondamentale e generale di tipo spirituale, di uno spirito vitale o anima del mondo, sar assai diffusa agli inizi della chimica. Nicolas Le Fevre scriveva nel 1661, che gli oggetti di cui trattava la chimica non erano solo materiali, ma che essa trattava anche di uno spirito universale, una sostanza priva di corporeit, fonte, radice e seme di tutte le cose (Trait de la chymie). La chimica aveva per oggetto tutte le cose create corporee e spirituali, visibili e invisibili. Lo spirito universale di Le Fevre, cos come gli elementi paracelsiani, o i fermenti di van Helmont, erano anche i rappresentanti dell'attivit della materia, erano, cio dei principi, o poteri, che consentivano l'incessante serie delle combinazioni e decomposizioni naturali, la nascita e lo sviluppo naturale dei minerali, dei vegetali e degli animali. Erano, cio, oggetti spirituali in quanto capaci di produrre il movimento necessario alla realizzazione dei cambiamenti chimici. In alcuni casi venivano considerati dei veri e propri principi vitali. 2. Sempre nel 17 secolo, i principi elementari divennero cinque: i paracelsiani mercurio o spirito, zolfo e sale, e poi l'acqua e la terra. I primi tre erano considerati attivi, cio responsabili della ininterrotta fenomenologia chimica dei corpi; i secondi due erano considerati passivi, cio servivano solo a temperare l'attivit differenziata dei primi. Sostenitori dei cinque principi elementari saranno, fra gli altri, Etienne De Clave (Cours de chymie,1646), Cristophle Glaser (Trait de la chymie, 1663), lo stesso Nicolas Le Fevre, infine Nicolas Lemery, il quale, per, collocher la teoria dei cinque principi in un contesto in gran parte diverso da quello dei suoi contemporanei e predecessori, cio in un contesto meccanicistico dal quale erano bandite tutte le ipotesi spiritualiste precedenti. Cos iniziava, infatti, il suo celebre Cours de chymie del 1675: Il primo principio che si pu ammettere nella composizione dei misti, uno Spirito universale che essendo sparso dappertutto produce diverse cose secondo le diverse matrici ovvero pori della Terra nei quali si trova rinchiuso: ma essendo questo principio alquanto metafisico, e non soggiacendo ai sensi, bene stabilirne dei sensibili, e per questa ragione addurr quelli che comunemente sono in uso. Lemery sostituiva una metafisica influente con un'altra; un mondo insensibile, quello spirituale della filosofia rinascimentale e paracelsiana, con quello corpuscolare di Cartesio. Tuttavia si deve a questo chimico, e al successo del suo trattato, se inizia a delinearsi una nuova concezione dell'elemento chimico come ultimo grado sensibile della sperimentazione chimica. Al di sotto del livello sensibile esisteva il mondo dei corpuscoli diversamente figurati a seconda delle diverse sostanze e in perpetuo movimento. Era grazie alla azione reciproca di questi corpuscoli che si aveva la fenomenologia chimica sensibile. Alla fine del 17 secolo e agli inizi del 18, in effetti, si passa dall'idea che l'analisi chimica doveva ritrovare inevitabilmente determinati principi elementari che erano considerati come i componenti ultimi ed assolutamente indivisibili, all'idea pi moderna che essi fossero dei gradini provvisori di una divisione chimica dei corpi. Relativi cio alla capacit della chimica di decomporre i corpi naturali nella loro loro struttura elementare ed eterogenea? Agli inizi l'analisi poteva essere di tipo diverso a seconda di quali propriet delle sostanze venivano prese in considerazione: per via secca, se si faceva leva sulla fissit, combustibilit, calcinabilit, ecc.; per via umida, se si utilizzava fondamentalmente la dissolubilit. Ma l'analisi non era solo un metodo di indagine. Essa rappresentava anche un particolare punto di vista a partire dal quale diventava possibile classificare i differenti corpi naturali. Nel corso del 18 secolo, in questa direzione si realizzer un notevole progresso, perch mentre nei lavori dei primi chimici seicenteschi si passava direttamente dal corpo analizzato ai suoi principi elementari, ritenuti i componenti immediati di quel corpo, successivamente verr elaborata una

complessa scala discendente che, partendo dal composto, arrivava ai principi elementari attraverso una serie ordinata di principi intermedi ottenuti mediante scomposizioni successive. Questi ultimi possedevano una doppia natura, cio erano principi rispetto ai corpi composti dai quali venivano ricavati, ma potevano essere considerati composti rispetto ai loro eventuali principi componenti. Essi, tuttavia, permanevano nel loro stato con una ben precisa individualit chimica. Ma, come abbiamo accennato, anche i principi elementari (definiti anche primitivi) potevano essere considerati, sebbene potenzialmente, dei composti. Macquer, ad esempio, a proposito dei principi elementari scriveva nel suo Dictionnaire che possibile che queste sostanze, bench ritenute semplici, non lo siano; che esse siano anche molto composte e risultino dall'unione di molte altre sostanze pi semplici. Ma siccome su ci l'esperienza non insegna assolutamente nulla, in Chimica possiamo considerare senza alcun inconveniente il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra, come dei corpi semplici, poich in effetti essi agiscono come tali in tutte le operazioni di quest'arte. Successivamente, dopo aver definito i principi chimici l'ultimo termine dell'analisi, Macquer aggiungeva che siccome noi manchiamo di mezzi per decomporli ulteriormente, li consideriamo delle sostanze semplici, malgrado che, forse, essi non lo siano affatto. L'espressione: agire come tali, riferita agli elementi sottolineava, appunto, sia il carattere operativo della definizione di principio chimico, che il loro statuto ontologicamente debole. All'epoca di Macquer, in effetti, comincia a prevalere la concezione analiticosperimentale dell'elemento chimico che si affermer autenticamente solo con la rivoluzione scientifica di Antoine Laurent Lavoisier, a partire cio dalla seconda met del Settecento. Infatti fino a quando i principi elementari dei corpi erano ritenuti portatori di qualit assolute della materia, di propriet e modalit di questa, non era possibile l'affermazione piena, e decisiva per lo sviluppo della chimica, della concezione dell'elemento come ultimo gradino relativo della decomposizione chimica dei corpi. Macquer e i chimici prelavoisieriani rimarranno infatti prigionieri di una concezione essenzialistica e qualitativa degli elementi, che risulter essere in forte tensione con quella analitica. Questa tensione arriver fino alla incompatibilit rivelata, appunto, solo dopo il successo delle ricerche di Lavoisier. Ma in che cosa questo chimico aveva prodotto un rovesciamento (seppure non totale) delle teorie chimiche precedenti, tale da far diventare realmente operativa la concezione... operativa dell'elemento? Per rispondere a questo interrogativo bisogna fare una esposizione dei caratteri principali della rivoluzione lavoisieriana. 3. Abbiamo appena visto che Macquer riteneva come principi elementari dei corpi l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco. Questi, per, non erano i quattro elementi aristotelici, dei quali portavano solo il nome. Essi costituivano, al contrario, la risultante finale di alcuni sviluppi notevoli della chimica settecentesca, in particolare di quella di orientamento stahliano, cio influenzata dalle teorie dello iatrochimico tedesco allievo di Becher, Georg Ernst Stahl. Questi aveva razionalizzato la chimica becheriana eliminandone i pi espliciti richiami metafisici e i riferimenti alla filosofia mosaica sulla origine e sullo sviluppo della natura. Egli, per, aveva accettato, tra l'altro, la teoria degli elementi di cui abbiamo gi trattato. In particolare Stahl accentuer il ruolo della terra infiammabile da lui definita flogisto. Questo principio diventer il centro di una serie di teorie chimiche, le pi importanti delle quali riguardavano la combustione e la calcinazione. Infatti il flogisto era considerato il principio responsabile della combustibilit dei corpi... combustibili, e della calcinabilit dei metalli e causa materiale dei colori, degli odori e dei sapori dei corpi. Inoltre era considerato la materia del fuoco, cio la sostanza dalla quale si ottenevano tutti gli effetti termici associati alle reazioni chimiche. Anche in questa veste esso si poteva trovare sia allo stato libero, producendo la sensazione del calore; sia allo stato combinato, cio presente come elemento nei corpi composti. Il flogisto circolava incessantemente fra i corpi dei tre regni della natura passando di combinazione in combinazione. Cosicch la

combustibilit di cui era portatore poteva trasmettersi. Infatti, se nella revivificazione delle calci metalliche, quest'ultime venivano mescolate con una sostanza ricca di flogisto (carbone, grassi, olii, ecc.), questa sostanza, sotto l'azione di un fuoco energico, cedeva il flogisto alle calci, ripristinando il metallo di partenza. All'interno di questo universo teorico si avuta la prima grande svolta della chimica del 18 secolo: le ricerche sulla combinabilit dell'aria, ritenuta fino ad allora una sostanza chimicamente inerte. Sempre all'interno del paradigma flogistico si scopr una serie di differenti arie, cio di sostanze aeriformi, poi chiamate gas (riprendendo in altro contesto il vecchio termine di van Helmont), distinte dall'aria comune, che all'epoca era ritenuta una sostanza unica ed elementare. Nel 1727 l'inglese Stephen Hales pubblic un trattato, la Vegetable Staticks, nella quale si dimostrava che l'aria esisteva in forma combinata nei vegetali; essa cio, pur essendo gassosa, poteva essere fissata chimicamente per formare dei composti. Ma fu lo scozzese Joseph Black a gettare per primo una luce sull'ancora misterioso mondo dei fluidi aeriformi. Per cottura dei carbonati di magnesio e di calcio Black riusc a ottenere un gas, da lui definito aria fissa (anidride carbonica) molto diversa dall'aria comune. L'aria fissa, infatti, come lo stesso Black dimostr nel 1756, era pi pesante dell'aria atmosferica e non manteneva la combustione, la calcinazione e la respirazione animale; inoltre essa era presente in piccole quantit nell'aria atmosferica. Nel 1766 Henry Cavendish scopr un altro gas, l'aria infiammabile, cio l'idrogeno, facendo reagire l'acido solforico e l'acido cloridrico con alcuni metalli. Il fatto che metalli differenti, trattati con gli stessi acidi, dessero tutti lo stesso tipo di aria, condusse il chimico inglese a ritenere che gli acidi fossero in grado di scacciare il flogisto contenuto nei metalli, e che questo elemento si liberasse appunto sotto forma di aria infiammabile. Nel 1774 Pierre Bayen decomponendo col calore l'ossido di mercurio ottenne un gas di cui non riusc a determinare la natura e le propriet. Cosa che riusc a Joseph Priestley, il quale riteneva che l'aria elementare possedesse la capacit di assorbire il flogisto liberato in alcune reazioni chimiche o di cederlo essa stessa una volta assorbito. Questo chimico, infatti, revivificando con una lente ustoria l'ossido rosso del mercurio ottenne un'aria che manteneva molto vivacemente la combustione di una candela. Egli pens che si trattasse di aria deflogisticata, cio priva del flogisto, e quindi in grado di favorire le reazioni di combustione. Infatti, secondo la teoria flogistica la combustione veniva considerata come una liberazione nell'aria comune del flogisto contenuto nel corpo combustibile. Analogamente la calcinazione era considerata una liberazione di flogisto contenuto nel metallo. In entrambi i casi, alla fine della reazione, si doveva ottenere un'aria pi o meno satura di flogisto, cio un'aria flogisticata, che ovviamente non poteva mantenere n le reazioni di combustione e di calcinazione n, tantomeno, la respirazione animale. Anche questo processo fisiologico, infatti, veniva spiegato mediante l'ipotesi che in esso avvenisse una liberazione di flogisto da parte dei polmoni. La revivificazione del mercurio a partire dalla sua calce consisteva quindi in una sottrazione del flogisto contenuto nell'aria, dando cos luogo a un'aria deflogisticata, e quindi pi adatta a favorire le tre reazioni di cui stiamo trattando. Contemporaneamente a Priestley, il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele separava i due costituenti principali dell'aria atmosferica, constatando che solo uno di essi manteneva la combustione e la respirazione. Esso venne chiamato aria di fuoco. L'altro, chimicamente inerte, invece venne chiamato aria mefitica, proprio per il suo rapporto negativo con la respirazione. Questa teoria unificata della combustione, della calcinazione e della respirazione, per, non riusciva a spiegare alcuni fenomeni notevoli, come ad esempio la sparizione di una parte di aria dall'ambiente nel quale avvenivano queste reazioni; o l'aumento in peso che si constatava pesando le calci metalliche che, a rigore, secondo la teoria, dovevano pesare di meno del metallo di partenza, in quanto questo era considerato composto di una terra e dello stesso flogisto, ritenuto un elemento ponderabile.

4. Proprio affrontando questi problemi presero avvio le ricerche pi significative di Lavoisier, che condurranno a un cambiamento radicale della chimica del suo tempo. Di questo possibile esito era consapevole, sin dagli inizi, lo stesso Lavoisier. Infatti nel suo primo registro di laboratorio, alla data del 20 febbraio 1772 troviamo scritto: Prima di cominciare la lunga serie di esperienze che mi propongo di fare sul fluido elastico che si sviluppa dai corpi, sia per le fermentazioni, sia per distillazione, sia infine per ogni specie di combinazione, cos come sull'aria assorbita nella combustione di un gran numero di sostanze, credo di dover fare qui alcune riflessioni per iscritto, per formare a me stesso un piano che devo seguire... accertato che l'aria fissa mostra propriet assai diverse da quelle dell'aria ordinaria. Infatti quest'aria uccide gli animali che la respirano, mentre l'aria ordinaria indispensabile per la loro conservazione. Essa si combina in modo estremamente facile con tutti i corpi, mentre l'aria atmosferica nelle stesse condizioni si unisce a loro con difficolt o non si combina affatto. Questa differenza appare in tutta la sua portata se faccio la storia di quanto stato fatto riguardo all'aria che si estrae dai corpi e che con essi si combina. L'importanza dell'argomento mi ha indotto a riprendere dall'inizio questo lavoro che destinato a rivoluzionare la fisica e la chimica. Alla fine di ottobre dello stesso anno, lavorando alla combustione del fosforo e dello zolfo in recipienti ermeticamente chiusi, Lavoisier trov che gli acidi (oggi diremmo le anidridi) che si formavano, pesavano pi delle due sostanze di partenza. Da questo fatto egli traeva l'importante conclusione che anche nelle combustioni si aveva un aumento di peso dei prodotti a spese dell'aria dell'ambiente, cos come avveniva nelle calcinazioni dei metalli: l'aumento di peso, dunque, era un fenomeno costante di questi processi, e non una loro strana anomalia. Nel 1774 apparve una raccolta di memorie, gli Opuscules physiques et chymiques, nella quale Lavoisier sosteneva che l'aumento di peso, che veniva rilevato nella combustione dello zolfo e del fosforo e nella calcinazione del piombo e dello stagno in recipienti ermeticamente chiusi, proveniva da un assorbimento di una parte dell'aria atmosferica contenuta nel recipiente di reazione. Finora, per, Lavoisier non aveva ancora scoperto che tipo di aria si combinasse con queste sostanze per dare in un caso gli acidi, nell'altro le calci. Nel 1775, in una seduta dell'Acadmie Royale des Sciences di Parigi, di cui era membro, Lavoisier lesse una memoria Sur la nature du principe qui se combine avec les mtaux pendant leur calcination et qui en augmente le poids, nella quale, riprendendo l'esperimento con l'ossido rosso di mercurio gi realizzato da Priestley, eseguiva una rigorosa analisi quantitativa nel corso della quale faceva assorbire una parte dell'aria dal mercurio, mediante il riscaldamento prolungato di questo metallo. Successivamente revivificava l'ossido che si era formato, ripristinando cos il metallo e l'aria atmosferica di partenza. Da queste prove Lavoisier concludeva che l'aria assorbita era pi respirabile, pi combustibile e di conseguenza pi pura anche dell'aria nella quale noi viviamo... questo principio che si combina con i metalli... non altra cosa della porzione pi pura dell'aria stessa che ci circonda... e che passa in questa operazione dallo stato di espansibilit a quello di solidit. Quindi quella che per Priestley era l'aria priva di flogisto, per Lavoisier era invece una parte dell'aria ordinaria. I fenomeni che venivano spiegati solo con la teoria del flogisto potevano essere spiegati senza di essa, all'interno di una nuova interpretazione che desse meglio conto dei fenomeni. Nel febbraio del 1776 Lavoisier confermava che quella che il chimico inglese definiva come aria deflogisticata era in realt una porzione pi pura dell'aria, che in altre memorie definir anche aria eminentemente respirabile. Nel 1777, nel celebre Mmoire sur la combustion en gnral, il chimico francese esponeva le prime conclusioni generali tratte dalle sue ricerche di cinque anni, e cio: 1) che in ogni combustione era rilevabile uno sviluppo di materia del fuoco e della luce; 2) che i corpi bruciavano solo in presenza di aria pura; 3) che in ogni combustione si realizzava la distruzione o la decomposizione di questa aria pura e che il corpo combusto aumentava di peso in maniera esattamente proporzionale alla quantit di aria pura distrutta o decomposta; 4) che in ogni combustione la sostanza bruciata si trasformava in acido per

l'aggiunta della sostanza che aumentava il suo peso o in calce se si trattava della calcinazione di un metallo. Siamo dunque al netto superamento della spiegazione flogistica che supponeva che la materia del fuoco esistesse nei corpi come loro principio costituente e si rendeva allo stato libero nelle combustioni e calcinazioni. Per Lavoisier, invece, la materia del fuoco era tutt'altra cosa: un fluido imponderabile presente diffusamente in natura e componente dell'aria pura, che veniva portata allo stato aeriforme proprio da questo fluido. Quindi, gli effetti termici associati a queste reazioni erano dovuti alla liberazione di una sostanza contenuta nei gas e non nei corpi combustibili o calcinabili come era il caso del flogisto. Lavoisier, in effetti, riformuler anche questo aspetto delle reazioni chimiche. In alcune memorie del 1772 (Essay sur la nature de l'air) e del 1775 (De l'lasticit et de la formation desfluides lastiques) egli aveva sostenuto che i vapori o le arie erano generati dalla combinazione delle sostanze con un fluido speciale, la materia del fuoco o del calore. Ogni sostanza, inoltre, poteva sussistere in tre stati differenti, di solidit, di fluidit e di vaporizzazione, a seconda del diverso rapporto di combinazione con la materia del fuoco. In questo modo il chimico francese rovesciava la precedente teoria delle qualit della materia comune, mettendo in crisi l'idea che esse fossero dovute a distinti principi portatori delle stesse. Fu ancora nel 1777, nella memoria De la combinaison de la matire du feu avec les fluides vaporables et de la formation des fluides lastiques aeriformes, che Lavoisier espose dettagliatamente le sue idee sugli stati della materia e sugli effetti termici associati alle reazioni chimiche. Alla fine di un lungo ragionamento sulla natura dei gas egli arriv alla conclusione che ogni vapore, ogni aria, e in generale ogni fluido elastico aeriforme, era un composto della materia del fuoco con un corpo solido volatile qualunque; poich, aggiungeva, la volatilt non altra cosa della propriet che hanno i corpi di dissolversi in qualche modo, di combinarsi con il fluido igneo e di formare con esso dei fluidi aeriformi. Nel 1783, quando ormai la sua teoria era ben stabilita e corroborata da una gran mole di ricerche, Lavoisier port a fondo l'attacco ai seguaci delle teorie che ancora facevano ricorso all'ipotesi del flogisto, con una messa in discussione anche della idea che questo elemento fosse responsabile dei colori delle sostanze. Nelle Rflexions sur Ie phlogistique, egli affermava ormai decisamente e con sicurezza di aver dedotto tutte le spiegazioni da un semplice principio, cio che l'aria pura, l'aria vitale, composta da un principio particolare che le proprio e che ne forma la base, e che io ho denominato principio ossigino, combinato con la materia del fuoco e del calore. Una volta ammesso questo principio, le principali difficolt della chimica sono sembrate svanire e dissiparsi, e si sono spiegati i fenomeni con sorprendente semplicit. Eliminato il flogisto dalla teoria chimica come responsabile dei fenomeni termici, era quindi necessario ipotizzare, sulla base di numerose ricerche sperimentali sui fenomeni del calore, svolte anche da altri chimici e fisici del suo tempo, l'esistenza di un fluido materiale, ma imponderabile, responsabile dei fenomeni termici associati ai pi diversi fenomeni chimici e fisici. Lavoisier sar cosciente che l'introduzione nella sua teoria di un fluido imponderabile poteva essere soggetta a forti critiche, poich questo fluido poteva essere considerato un ente puramente ipotetico, quasi altrettanto del flogisto. Ma il grande potere interpretativo e predittivo e la coerenza interna della sua teoria, infine, la congruenza di quella ipotesi con la tradizione chimica e fisica del tempo, che non rifuggiva affatto dal postulare l'esistenza di fluidi imponderabili, conduceva il chimico francese a ritenere la sua idea vera o comunque pi probabile della teoria flogistica che egli combatteva. Io non nego, scriveva nelle Rflexions, che l'esistenza di questo fluido non sia fino ad un certo punto ipotetica; ma supponendo che essa sia una ipotesi, che essa non sia rigorosamente provata, la sola che io sarei obbligato a formare. L'aria atmosferica era dunque un composto di tre sostanze semplici: il principio ossigino, poi denominato ossigeno, cio generatore di acidi; una parte inerte, l'aria mefitica, poi denominata azoto; infine la materia del fuoco, poi denominata calorico.

Un altro colpo decisivo alla vecchia teoria degli elementi fu assestato da Lavoisier nel 1781, quando conferm alcune esperienze di altri chimici sul fatto che bruciando l'aria infiammabile, o idrogeno, in presenza dell'aria pura, o ossigeno, si formava l'acqua pura. Quest'ultima, dunque, non era un principio semplice come fino ad allora si riteneva, e portatore della qualit della liquidit, ma un composto di due sostanze ancora pi semplici, gi ricavate per altre vie di tipo analitico. La cosa pi impressionante di questa scoperta consisteva nel fatto che la formazione dell'acqua era il risultato della reazione di due corpi semplici che possedevano distintamente propriet assai diverse dal prodotto finale: l'acqua, liquida, era un composto di due sostanze altamente infiammabili! A questo punto la definizione di elemento cambier notevolmente. Esso diventer sinonimo di corpo semplice, cio di sostanza che non era ancora scomponibile con nessun mezzo chimico a disposizione in quel momento. Era cio relativamente semplice, cos come riehiedeva la definizione analitico-sperimentale pi volte menzionata. L'analisi stessa cambier di significato: non era pi solo separazione, anatomia, ma un complesso processo di composizioni e scomposizioni di sostanze che reagivano tra loro. Solo attraverso la reciproca interazione con altre sostanze, e mediante artifici sperimentali e strumenti, era possibile isolare il singolo corpo semplice perch pratieamente indecomponibile e dotato di una propria e irriducibile individualit chimica. Se noi attribuiamo al nome di elementi o di principi dei corpi l'idea dell'ultimo termine al quale giunge l' analisi, scriver Lavoisier nel suo Trait lmentaire de chimie (1789), tutte le sostanze che non abbiamo potuto decomporre con alcun mezzo sono per noi elementi; non che noi possiamo essere sicuri che questi corpi semplici non siano essi stessi composti di due o anche di un pi gran numero di principi, ma poich questi principi non si separano mai o, piuttosto, poich noi non abbiamo alcun mezzo per separarli, essi agiscono nei nostri confronti come dei corpi semplici, e noi non dobbiamo supporli composti fino al momento in cui l'esperienza e l'osservazione non ce ne abbiano fornito la prova. Nello stesso Trait verr enunciata una delle prime leggi fondamentali della chimica e di tutta la scienza moderna, quella di conservazione della massa e degli elementi in tutte le reazioni chimiche. Grazie alla rivoluzione lavoisieriana gran parte dei corpi allora conosciuti assumeranno lo statuto di corpo semplice: alcune delle arie scoperte fino ad allora, i metalli, i metalloidi, alcuni sali o alcune terre non ancora decomposti. La molteplicit e l'eterogeneit del mondo materiale dei chimici si dilater enormemente: cio si passer dai cinque o quattro principi elementari della chimica prelavoisieriana a... trentatr: luce, calorico, ossigeno, azoto, idrogeno, zolfo, fosforo, carbonio, radicale muriatico, radicale fluorico, radicale boracico, antimonio, argento, arsenico, bismuto, cobalto, rame, stagno, ferro, manganese, mercurio, molibdeno, nichel, oro, platino, piombo, tungsteno, zinco, calce, magnesia, barite, allumina, silice. Che, in questo nuovo contesto, queste sostanze dovessero essere considerate semplici, poteva essere compreso immediatamente sin dal loro nome, che era anch'esso sempliee. Lavoisier, infatti, riformer anche la nomenclatura chimiea dando ad essa una struttura di tipo classificatorio simile a quella adottata dal botanico Karl von Linn (Linneo) per i vegetali, cio per genere e specie. Ogni composto doveva avere un nome generico, che faceva riferimento ad una classe di sostanze (ad esempio acido, sale, ecc.) ed un nome specifico che lo distinguesse dagli altri membri del proprio genere, ad esempio, acido solforico. In questo caso il suffisso ico stava ad indicare quale di tutti gli acidi dello zolfo esistenti (cio due insieme all'acido solforoso) si trattava, cio quale fosse il grado di combinazione esistente fra i componenti degli acidi dello zolfo. Ma, come vedremo, molti di questi elementi, proprio grazie alle indicazioni di Lavoisier, si riveleranno composti, poich a questa conclusione avrebbe condotto lo sviluppo delle tecniche analitiche per la indagine chimica. 5. Nel 1800 Alessandro Volta pubblic una memoria sulla sua celebre pila elettrica, un dispositivo che consentiva di utilizzare con continuit e in quantit variabili una corrente elettrica. Nello stesso anno due chimici inglesi, William Nicholson e Anthony Carlisle, decomposero l'acqua per mezzo

dell'elettricit, utilizzando appunto due elettrodi collegati ai due poli di una pila di Volta. Ma il primo a comprendere il ruolo che questo nuovo strumento poteva assumere nel carnpo dell'analisi chimica fu l'inglese Humphry Davy. Egli utilizz questa nuova tecnica, detta elettrolisi, per l'analisi di numerose sostanze ritenute ancora indecomponibili con i normali mezzi, che utilizzavano fondamentalmente il calore o i reagenti chimici. Nacque cos una nuova branca della chimica, l'elettrochimica, che ebbe una notevole influenza non solo per la determinazione delle sostanze semplici, ma anche per la teoria della struttura chimica della materia e delle forze che in questa agivano. L'elettricit, infatti, verr considerata la forza responsabile delle azioni chimiche fra le sostanze. Di conseguenza mediante l'elettricit artificiale prodotta dalla pila di Volta, era possibile scindere quello che la natura aveva elettricamente unito. Nel 1807 Davy dimostr che durante l'elettrolisi l'idrogeno e i metalli si liberavano al polo negativo, mentre l'ossigeno e gli acidi al polo positivo. Con questa stessa tecnica ottenne, fra il 1807 e il 1812, il potassio dalla potassa fusa; il sodio dalla soda fusa; il bario dalla barite; lo stronzio dalla stronziana; il calcio dal carbonato di calcio; il magnesio dalla magnesia; il cloro dall'acido cloridrico e lo iodio dai suoi sali (contemporaneamente al francese Bernard Courtois). Negli stessi anni Andr Marie Ampre scopr il fluoro dal fluoruro di calcio (1809); J.A. Arfvedson il litio dall'analisi della petalite (1817); Jons Jacob Berzelius il selenio dai suoi solfuri (1817); Friedrich Woelher il berillio dal suo cloruro (1828); Antoine Jerome Balard il bromo dai sali marini (1829). Molti altri elementi vennero via via scoperti e nella prima met del 19 secolo essi raggiunsero il numero di 57. Senonch un'altra grande innovazione teorica e sperimentale era alle porte, con enormi conseguenze nello sviluppo della chimica: l'analisi spettrale o spettroscopia. Ma prima di esaminare questo argomento interessante soffermarsi su alcuni aspetti teorici della teoria degli elementi agli inizi dell'Ottocento. 6. Lavoisier aveva cercato di eliminare dall'orizzonte teorico della chimica le ipotesi sulla struttura invisibile della materia, e in ci egli si collocava sulla linea teorica del suo rivale Stahl, anche se tutti i chimici erano convinti, a partire da Lemery, che il livello invisibile, corpuscolare, molecolare, fosse il vero teatro delle reazioni chimiche. Ma per Lavoisier erano gli elementi, cos come egli li aveva concepiti, i protagonisti di ci che della fenomenologia chimica doveva essere ritenuto scientificamente rilevante e sperimentabile. Ma gi qualche decennio pi tardi, Davy sosterr che gli elementi ricavati mediante l'analisi, essendo appunto relativi al metodo usato per scoprirli, lasciavano insoluto il problema se esistessero dei veri elementi ultimi della natura. Da una serie di ricerche egli era arrivato alla conclusione che l'idrogeno fosse uno di questi elementi ultimi. Per Davy, infatti, ogni sostanza infiammabile poteva essere considerata composta da una base ignota e dall'idrogeno; la stessa cosa valeva per i metalli. La quantit di idrogeno contenuta in queste sostanze era determinabile dalla quantit di ossigeno o di cloro con la quale essi reagivano. Era quindi l'idrogeno in esse contenuto che agiva chimicamente con questi altri reagenti. Insieme all'idrogeno potevano esistere altri elementi primitivi, componenti fondamentali di tutti i corpi. I corpi semplici conosciuti, quindi, potevano essere considerati elementi secondari risultanti dalla addizione in diverse proporzioni di alcune sostanze ancora pi semplici (Elements of chemical philosophy, 1812). Davy, peraltro, contrariamente a Lavoisier che tutt'al pi riteneva la materia suddivisibile in molecole insensibili, ma sulle quali nulla poteva essere affermato in maniera scientificamente significativa, era sostenitore di una teoria della materia analoga a quella del fisico gesuita dalmata Ruggero Boscovich, per il quale il livello insensibile dei corpi era costituito da punti geometrici concepiti come centri di forze attrattive e repulsive di tipo newtoniano. Davy far parzialmente sua questa ipotesi ritenendo la materia formata da particelle sferiche microscopiche identiche, anch'esse centri di forza, soprattutto di tipo elettrico. Dalla aggregazione di queste particelle si ottenevano per gradi successivi di complessit tutte le sostanze semplici sensibili e poi tutti i corpi composti. Gli elementi erano cio aggregazioni dotate di particolari forme di una materia identicamente uniforme.

Nel 1815 un altro chimico inglese, William Prout, sostenne un'idea simile a quella di Davy, ma in maniera pi radicale: cio che tutti gli elementi chimici erano costituiti da una materia primordiale, l'idrogeno, o protilo, e che la molteplicit degli elementi derivava dalla diversa quantit di idrogeno in essi presente. Le ipotesi di Davy e Prout si opponevano alla teoria atomica precedentemente proposta da John Dalton e da questi esposta estesamente nel suo New system of chemical philosphy del 1808. Secondo Dalton, infatti, la materia era costituita di particelle ultime dette atomi, che erano indivisibili e non potevano essere n creati n distrutti. Gli atomi di un determinato elemento erano identici e avevano lo stesso e invariabile peso, mentre gli atomi dei diversi elementi possedevano pesi differenti. Inoltre la parte pi piccola di un composto era formata da un numero fisso di atomi dei suoi componenti; il peso di una particella composta era dovuto alla somma dei pesi degli atomi componenti e se esistevano pi composti formati dagli stessi tipi di atomi, una volta stabilito il numero col quale uno dei due entrava nel composto, l'altro vi entrava in rapporti semplici col primo. Infine, il peso di un atomo di un elemento era lo stesso in tutti i composti al quale partecipava; se era noto solo un composto di due tipi di atomi, per esempio A e B, esso era A+B, se invece esistevano pi di un composto uno era A+B, l'altro 2A+B o A+2B, e cos via. La teoria di Dalton poneva dunque un ostacolo ontologico forte alla divisibilit della materia. Questa, infatti, non poteva essere suddivisa oltre il livello degli atomi. Gli stessi elementi, del resto, erano definibili proprio dalla invariabilit dei loro diversi atomi. Ogni elemento era caratterizzato da un atomo distinto: questo era il fondamento della teoria daltoniana sui rapporti fra sostanze elementari e loro substruttura microscopica. I differenti composti, come abbiamo visto, erano il risultato della combinazione dei loro differenti atomi. Naturalmente se l'analisi chimica era in grado di scomporre sostanze fino ad allora ritenute semplici, ci voleva dire che gli atomi dei loro componenti erano gli autentici indivisibili che possedevano tutte le propriet della sostanza elementare. La forza della teoria daltoniana risiedeva nel fatto che essa era in accordo con tutte le leggi allora conosciute della composizione dei corpi, sulle quali ritorneremo successivamente. Tuttavia essa non fu accettata da tutti i chimici e, come vedremo, sia l'ipotesi di Prout che altre analoghe di tipo evolutivo si contenderanno il campo fino alla fine del secolo scorso. Molti chimici, per, la condivideranno e tenteranno, con parziale successo, di dimostrarne la validit attraverso una serie di ricerche sulla determinazione dei pesi atomici delle sostanze semplici, utilizzando anche altre teorie via via emergenti come quelle di P.T. Dulong e A.T. Petit sui calori specifici (1819), secondo le quali il prodotto del peso atomico di una sostanza per il suo calore specifico una costante (circa 6) o quella di E. Mitscherlich sull'isomorfismo (1819), secondo la quale sostanze simili per forma cristallina e propriet chimiche hanno anche formule simili, cio una composizione simile. In realt anche i chimici sostenitori della teoria daltoniana, salvo eccezioni, come vedremo, estenderanno al livello atomico la stessa prudenza metodologica e ontologica che avevano rispetto alla divisibilit degli elementi; cio considereranno l'atomo chimico come la pi piccola quantit di una sostanza semplice che entrava nelle differenti combinazioni chimiche. Questa quantit era considerata indivisibile solo nell'ambito delle forze e dei mezzi chimici a disposizione in quel momento. Un esempio paradigmatico di questa estensione sono le posizioni di Stanislao Cannizzaro, che, nella seconda met del secolo scorso, dette un notevole contributo alla chiarificazione e alla elaborazione della concezione atomico-molecolare della materia, che si afferm definitivamente solo nei primi anni del Novecento. Nel 1858, a proposito del fatto che in tutti i composti idrogenati si trovava costantemente una quantit minima di idrogeno pari a met della sua molecola, Cannizzaro scriveva che: diamo a questa quantit minima il nome di atomo... Nel dir ci noi non asseveriamo che ciascuno di questi atomi non contenga parti distinte, ma non vogliamo altro esprimere che il seguente fatto: ciascuno di questi atomi non si subdivide mai in quella sfera di azioni chimiche che siamo giunti a produrre; potrebbe darsi che, estendendo i nostri mezzi analitici, giungeremo a scoprire una ulteriore divisione della mezza molecola di idrogeno (Lezione sulla teoria atomica).

7. Ma torniamo ora alla spettroscopia. Nei primi decenni del secolo scorso era gi noto che diverse sostanze esposte a una fiamma la coloravano diversamente. Successivamente furono fatti ripetuti tentativi per utilizzare questa propriet per l'analisi chimica. Si deve per a Robert Bunsen e a Gustav Kirchhoff, due chimici tedeschi operanti ad Heidelberg, la innovazione principale per lo sviluppo della spettroscopia. Nel 1854, infatti, Bunsen invent una lampada a gas di citt, che porta ancora il nome di lampada Bunsen, o becco Bunsen, mediante la quale era in grado di ottenere una fiamma incolore, regolabile mediante un semplice dispositivo che consentiva una combustione variabile del gas. Bunsen pose alcuni frammenti di sostanze diverse su un filo di platino pulito, li tenne sulla fiamma e verific che quest'ultima dava luogo a una notevole variet di luci colorate. Il sodio dava una fiamma color giallo vivo; un sale di stronzio una fiamma color cremisi; il calcio una fiamma rossomattone; il bario una fiamma verde; il litio una fiamma color rosso-vivo; il potassio una fiamma lilla, e cos via. Ma finch era possibile fare la prova della fiamma per i singoli elementi a un elevato grado di purezza, i colori apparivano in maniera distinguibile; ma quando si aveva a che fare con composti, o con miscele di composti, contenenti pi elementi in grado di colorare la fiamma, i colori dei diversi elementi, interferendo fra loro, apparivano indistinguibili. In alcuni casi, per mezzo di vetri colorati, era possibile eliminare alcuni colori e lasciarne visibili altri. Per esempio con un vetro azzurro era possibile eliminare dal campo di visibilit l'invadente giallo del sodio e lasciare invece intravvedere il lilla del potassio e il rosso del litio; ma non sempre questo metodo era efficace. Kirchhoff sugger allora di passare dalla semplice analisi del colore della fiamma a quella del suo spettro, allo stesso modo di Isaac Newton che, alla fine del 17 secolo, aveva analizzato la luce bianca del Sole facendola passare attraverso un prisma di spato di Islanda. Cos facendo egli constat che la luce solare si risolveva in maniera continua nei raggi componenti: dal rosso al violetto attraverso l'arancione, il giallo, il verde, l'azzurro, l'indaco e il violetto. Questa serie di colori derivata dalla luce bianca, ognuno con una propria individualit fisica, era definita appunto spettro. Naturalmente ogni luce era scomponibile nei diversi colori nei quali era risolubile la luce solare. Questa ipotesi fu verificata nel 1814 da Joseph Fraunhofer, il quale, facendo l'analisi spettrale di diverse fiamme artificiali not per che, esaminando queste ultime con un cannocchiale dopo la loro rifrazione in un prisma, si trovavano sempre delle luci gialle ben distinte; la stessa cosa non avveniva nell'analisi della luce solare, nello spettro della quale apparivano invece regolarmente alcune righe nere, dette appunto righe di Fraunhofer. Egli not, inoltre, che alcune di queste righe nere occupavano nello spettro solare lo stesso posto delle righe gialle delle luci artificiali. Per applicare in maniera utile questo tipo di indagini erano necessarie due cose: un apparecchio adeguato e sostanze con elevato grado di purezza. L'apparecchio fu costruito, lo spettroscopio, e i campioni di sostanze relativamente pure vennero accuratamente preparati. Ognuna di queste sostanze dava con lo spettroscopio spettri costituiti da pi righe di uno o pi colori; in questo secondo caso uno di questi colori era quello visibile a occhio nudo nella fiamma; ogni sostanza possedeva un suo spettro caratteristico. Cosicch mescolando, alcuni elementi e ponendo la miscela su una lampada Bunsen, mediante la sua vaporizzazione davanti a uno spettroscopio, era possibile esaminare i differenti spettri degli elementi componenti la miscela, in modo tale da consentirne la individuazione. L'analisi spettrale diventava cos uno dei pi potenti e raffinati metodi di riconoscimento delle sostanze semplici esistenti in natura. La potenza di questo metodo risiedeva nel fatto che anche piccolissime quantit di un elemento potevano dare uno spettro significativo e caratteristico e rivelare cos la presenza dell'elemento, anche sotto forma di impurezze. Non era quindi irragionevole supporre che con lo spettroscopio fosse possibile trovare nuovi elementi che per la loro esistenza in tracce debolissime erano sfuggiti alla determinazione coi precedenti metodi di analisi. In effetti nel 1890 Bunsen scopr il cesio, che dava uno spettro con due righe azzurre, e il rubidio, che dava uno spettro con due righe di colore rosso scuro. Nel 1861

l'inglese William Crookes facendo l'analisi spettrale di un'argilla scopr il tallio, mentre due anni pi tardi i tedeschi Reich e Richter scoprirono l'indio dall'analisi di alcuni solfuri di piombo. Nel frattempo Kirchhofr riusc a spiegare le righe nere di Fhunhofer, aprendo all'analisi spettrale nuovi campi di ricerca che ebbero delle ripercussioni enormi in tutte le scienze fisiche, compresa la chimica. Kirchhoff, infatti, trov sperimentalmente che le righe nere erano il risultato di assorbimenti da parte della luce solare degli spettri di alcuni elementi presenti allo stato di vaporizzazione nella atmosfera del Sole. In particolare alcune di queste righe nere corrispondevano alle righe del sodio, del ferro e di circa altri trenta elementi. La conclusione che se ne trasse fu che, attraverso l'analisi spettrale della luce del Sole e delle stelle, era possibile dimostrare che in questi astri erano presenti gli stessi elementi esistenti sulla Terra: la chimica terrestre poteva essere considerata dunque una chimica universale. Come scrisse l'astronomo William Huggins nel 1864, con la spettroscopia era stato finalmente dimostrato senza alcun dubbio come una chimica comune esista in tutto l'Universo. La spettroscopia diventava un metodo sperimentale, artificiale, per studiare la struttura del Cosmo: essa era in grado di aprire la strada a una chimica cosmica. Nel 1869, infatti, Pierre Jansen a Parigi e Joseph Norman Lockyer a Londra, facendo l'analisi spettrale della cromosfera solare, scoprirono un nuovo elemento, l'elio, che solo successivamente fu trovato sulla Terra sotto forma di gas o in alcuni minerali. Senonch proprio lo sviluppo della spettroscopia, con i suoi sorprendenti risultati, risollev il problema della natura degli elementi, ormai cos numerosi (nel 1869 se ne conoscevano 63) e sulle relazioni che intercorrevano fra le loro propriet. Gli elementi erano costituiti da atomi distinti, indivisibili, o erano il risultato dell'evoluzione di una materia prima? Erano oggetti esistenti casualmente sulla Terra, e ora anche nel resto dell'Universo conoscibile, oppure esisteva un modo per collegarli in una qualche forma sistematica? Era possibile instaurare fra di essi una qualche relazione di tipo genetico? A queste domande furono date risposte diverse, addirittura opposte. 8. Molti chimici avevano cercato di trovare delle relazioni fra gli elementi in base alle loro propriet chimiche. Nel 1862, A. Beguyer de Charcurtois aveva elaborato una classificazione periodica degli elementi rappresentata in forma di vite, la cosiddetta vis tellurica, cio la vite della Terra. Nel 1865 J.A.R. Newlands aveva enunciato una prima legge periodica delle propriet degli elementi, la legge delle ottave, secondo la quale le propriet chimiche degli elementi si ripetevano ogni sette di essi, come i toni della scala musicale. Ma sar Dimitrij Ivanovic Mendeleev a elaborare il primo grande sistema in grado di unificare il vasto e molteplice universo delle sostanze chimiche elementari. Negli anni fra il 1869 e il 1871 egli enunci una legge della periodicit, secondo la quale le propriet dei differenti elementi chimici dipendevano in maniera periodica dal loro peso atomico. Attraverso questa legge era finalmente possibile disporre ordinatamente, e in maniera metodica e sistematica, tutti gli elementi allora conosciuti, mediante una suddivisione in gruppi (verticali) e in periodi (orizzontali), assumendo come criterio ordinatore il loro peso atomico crescente e l'analogia nelle loro propriet chimiche. Per Mendeleev il fatto che gli elementi che, daltonianamente, riteneva costituiti da atomi indivisibili distinguibili dal loro peso atomico, obbedissero a una legge cos generale, costituiva una conferma della sua radicata convinzione che la natura possedesse una struttura armonica. Inoltre questa legge rivelava l'esistenza immanente di un ordine sottostante ad un mondo di oggetti, come gli elementi, che apparentemente ne era privo; che sembrava essere un insieme casuale, accidentale, di enti senza alcuna relazione sistematica tra di essi. Fino a quel momento, in effetti, la scoperta degli elementi non era derivata da una necessit immanente alla struttura relazionale della materia plurale della chimica, quanto da una serie casuale, seppure rilevante, di eventi teorici e sperimentali senza nessuna interna relazione di tipo organico. La legge della periodicit, invece, consentiva di concepire gli elementi in una maniera assai diversa. La dipendenza delle loro propriet dai pesi dei loro atomi, e il periodico ripresentarsi di queste stesse propriet, sottometteva il singolo termine del sistema al tutto, poich questo tutto era la

rappresentazione globale di un ordine al quale nessun membro, noto ed ignoto, poteva sfuggire. La legge della periodicit, e il sistema di classificazione che ne derivava, consentiva infatti di prevedere la scoperta di elementi ancora sconosciuti, necessari alla completezza del sistema stesso, e dotati di propriet chimiche ben definite. Nel 1875 il francese P.E. Lecoq de Boisbaudran scopr il gallio; nel 1879 L.F. Nilsen scopr lo scandio; nel 1885 C. Winkler scopri il germanio. Questi tre elementi effettivamente andavano a riempire tre caselle vuote del sistema periodico, che Mendeleev aveva riempito provvisoriamente con alcuni elementi ideali: l'eka-alluminio (cio alluminio +1), l'eka-boro (boro +1), e l'eka-silicio (silicio +1), cio elementi che venivano dopo il boro, l'alluminio ed il silicio (eka, in sanscrito, sta per 1) nel gruppo di appartenenza di questi elementi. Di questi elementi ancora ignoti Mendeleev aveva previsto le propriet, compreso il peso atomico, e queste corrispondevano esattamente a quelle dei tre elementi scoperti separatamente in Francia, Svezia e Germania. Dopo la scoperta del gallio Mendeleev scriver al chimico G.A. Quesneville che era ora evidente che la legge della periodicit porta a conseguenze che i precedenti sistemi non avrebbero osato prevedere. Prima si aveva solo uno schema, un aggruppamento sottoposto a determinati fatti, mentre la legge periodica subordina a se stessa i fatti, e tende ad approfondire il principio filosofico che governa la natura misteriosa degli elementi. Al chimico russo, quindi, non sfuggiva la novit del suo sistema sia rispetto ai precedenti tentativi di classificazione degli elementi, sia pi in generale ad alcuni principi della scienza del suo tempo, in particolare la meccanica classica. Il sistema periodico, infatti, metteva in evidenza una propriet inedita della massa, cio che il suo incremento discontinuo generava una ricorrenza periodica nelle propriet degli atomi coinvolti. Esso, inoltre, rivelava che la spiegazione dello stesso concetto di massa doveva essere trovata nel mondo degli atomi, poich la massa di ogni corpo poteva essere considerata la combinazione o l'aggregazione di atomi chimici, o di individui chimici distinti. Il sistema periodico, contrariamente a quello meccanico, era in grado di raggruppare legalmente corpi nei quali era molto stretto il rapporto fra la massa e le propriet singolari delle sostanze elementari, anzi era la prima teoria scientifica a porre in relazione diretta la massa e le qualit delle sostanze. In una conferenza tenuta a Londra nel 1889 Mendeleev, riferendosi alla celebre affermazione kantiana che dovevano essere oggetto di ammirazione il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi, aggiungeva che quando rivolgiamo i nostri pensieri alla natura degli elementi e alla legge periodica, dobbiamo aggiungere un terzo soggetto, cio la natura degli individui elementari che scopriamo ovunque untorno a noi. Senza di essi lo stesso cielo stellato sarebbe inconcepibile; e negli atomi vediamo, simultaneamente le loro peculiarit individuali; la loro molteplicit infinita, e la sottomissione della loro apparente libert all'armonia generale della natura (The periodic law of the chemical elements). Senonch proprio in Inghilterra, dove Mendeleev era stato invitato ad esporre le linee generali del suo sistema, Crookes e Lockyer, i quali, come abbiamo visto, mediante l'analisi spettrale avevano enormemente contribuito alla scoperta di nuove sostanze elementari nella Terra e nelle stelle, avevano elaborato ipotesi molto diverse da quelle del chimico russo sulla natura degli elementi, sulla loro genesi, e sulle loro reciproche relazioni. E ci proprio a partire da una serie di problemi sollevati dagli studi di spettroscopia. Nel 1865 J. Plucker e J. H. Hittorf, studiando gli spettri ottici dei gas non solo scoprirono un tipo inedito di radiazione, i raggi catodici, che rivelava la possibilit di una struttura della materia pi complessa di quanto allora si riteneva, ma anche che un certo numero di sostanze elementari fornivano differenti tipi di spettri a seconda della temperatura alla quale venivano portate. Ci sembrava mettere in crisi l'idea originaria che a ogni specie atomica dovesse corrispondere un solo spettro. Gran parte dei chimici spiegarono questa anomalia affermando che le differenti serie di righe spettrali fossero dovute ai differenti moti vibrazionali degli atomi causati dalle differenti temperature. Lockyer la interpret invece come indice della esistenza di componenti ancora pi elementari degli atomi delle

sostanze considerate semplici e che solo alle alte temperature era possibile rivelare questi componenti, invisibili alle condizioni ordinarie della sperimentazione chimico-fisica. Studiando gli spettri solari, stellari e terrestri Lockyer era arrivato alla conclusione che vi era una correlazione fra la temperatura delle differenti stelle e la presenza in esse di determinati elementi. Ovvero che gli elementi pi pesanti erano presenti progressivamente nelle stelle pi fredde. Di qui la conclusione generale che nella natura inorganica esistesse un principio di evoluzione degli elementi a partire da una materia prima alla quale tutti potevano essere ricondotti in certe condizioni sperimentali, come le altissime temperature delle stelle o quelle raggiunte nella scarica elettrica quando si faceva l'analisi spettroscopica. Gli elementi noti fino ad allora erano stati rivelati mediante metodi analitici che facevano ricorso a forme di energia molto blande, la qual cosa impediva che venisse messa in evidenza la loro ulteriore composizione. Alle altissime temperature delle stelle avvenivano fenomeni di dissociazione della materia ancora pi radicali e profondi, in grado di mettere in evidenza che gli atomi degli elementi non solo non erano indivisibili e indistruttibili, ma si erano formati attraverso un percorso evolutivo a partire da un componente primordiale. Le posizioni di Lockyer riportarono alla ribalta scientifica la vecchia ipotesi del protilo di Prout, mai definitivamente abbandonata. Esse furono condivise da molti scienziati europei, compreso Crookes che nel 1879, a partire dalle sue ricerche sugli spettri dei gas rarefatti sottoposti a scariche elettriche di tipo oscillatorio, sosteneva che il plasma generato da quei gas costituiva un quarto stato della materia analogo alla materia stellare, nella quale gli atomi apparivano dissociati in unit pi piccole come il protilo o sottomultipli di questo. Anche Crookes riteneva che gli elementi erano il risultato di una evoluzione di tipo darwiniano della materia inorganica, determinata da una forza variabile in maniera monotona, cio il tempo di raffreddamento della materia, e da una variabile oscillante, cio l'elettricit. Nel 1888 egli illustr la sua teoria con un modello a doppia elica, detto a spirale lemniscata, con l'idrogeno alla sommit e l'uranio al fondo, che stavano a rappresentare l'inizio e la fine della scala evolutiva degli elementi, ovvero l'incremento del peso atomico e il decremento della temperatura del plasma. I modelli di Lockyer e di Crookes supponevano un rapporto fra gli elementi di tipo geometrico, cio continuo, ed erano alternativi a quello di Mendeleev che era invece discontinuo e di tipo aritmetico, poich variava secondo i pesi atomici. Per i due chimici inglesi, infatti, la formazione degli elementi poteva essere concepita attraverso una successione continua di pesi atomici differenti, a partire dal protilo originario: quelli raccolti nella tavola di Mendeleev erano solo alcuni della serie, trovati sperimentalmente. Nulla per impediva di ritenere che altri potessero essere ritrovati, poich il protilo originario conteneva in potenza tutti i possibili pesi atomici. Dunque mentre per Mendeleev il peso atomico era una caratteristica individuale ed irriducibile di ogni elemento, una misura delle loro specifiche propriet e causa di queste; per Lockyer e Crookes, al contrario, esso rappresentava solo una misura delle condizioni di raffreddamento della materia che avevano prevalso al momento della nascita dei singoli elementi. Naturalmente Mendeleev non era affatto d'accordo con queste ipotesi e le contrast duramente fino alla fine della sua vita, accusandole di introdurre nella chimica una sorta di metafisica dell'universale (la materia prima) dove ogni particolarit, individualit e molteplicit degli oggetti elementari costitutivi del mondo materiale della chimica venivano annullate. Per lo scienziato russo lo scopo della teoria chimica era, al contrario, quello di realizzare delle forme di coerenza fra universalit (il sistema periodico o le leggi generali della natura) e individualit (gli atomi distinti degli elementi distinti). La coerenza fra unit e molteplicit, nella quale egli vedeva la caratteristica principale della scienza alla quale aveva apportato cos significativi contributi, era testimoniata per lui dal suo sistema periodico. 9. Alla fine dell'Ottocento la tavola di Mendeleev si arricch di nuovi ospiti: i gas nobili, cio elementi che esistevano allo stato gassoso e chimicamente inerti, cio che non reagivano con altre sostanze per dare composti (di qui

l'aggettivo nobili). Ancora una volta sar la spettroscopia ad avere un ruolo decisivo nella loro identificazione. Infatti fu mediante questa tecnica che essi furono individuati, poich esistevano in tracce insensibili a ogni altro metodo fisico e chimico (ed erano tanto pi insensibili poich non possedevano nessuna attivit chimica). Un membro di questa strana famiglia di sostanze, l'elio, era stato scoperto da Janssen e Lockyer nella cromosfera solare. Il fisico John William Strutt (Lord Rayleigh) studiando la densit dei differenti gas trov che il peso dell'azoto ricavato dai suoi composti era diverso da quello dell'azoto atmosferico. Per spiegare questa anomalia, egli, insieme al chimico William Ramsay, cerc di determinare esattamente la composizione dell'aria atmosferica, arrivando alla conclusione che in essa vi fosse un elemento gassoso ancora sconosciuto. Questo, in effetti, venne isolato nel 1894 e chiamato argo. Nel 1895, Strutt e Ramsay trovarono che il gas che si liberava dalla cleveite (un minerale dell'uranio), era lo stesso elio che era stato trovato nel Sole da Janssen e Lockyer. Con questa scoperta essi riconfermavano l'idea di una identit generale nella struttura chimica elementare di qualunque oggetto appartenente al nostro Universo. Ramsay e i suoi collaboratori cercarono altri gas di questo tipo per mezzo della distillazione frazionata dell'aria liquida e nel 1898 scoprirono altri tre gas nobili: il kripto, il neon e lo xeno. Nel 1900, infine, fu trovato il radon, che fu identificato come gas nobile solo nel 1904. I gas nobili vennero inseriti in un gruppo particolare della tavola di Mendeleev: il gruppo O. 10. Nel frattempo un'altra strana famiglia di sostanze semplici veniva lentamente portata alla luce, anch'essa di difficile inserimento nello schema mendeleviano: gli elementi delle cosiddette terre rare, cio di minerali scarsamente diffusi in natura, costituiti prevalentemente da ossidi. Alcuni di questi elementi erano gi stati scoperti, fra il 1839 e il 1843, dallo svedese Carl Gustav Mosander: il cerio, lo scandio, il lantanio, l'yttrio, il gadolinio, l'erbio, il terbio. Gli altri furono scoperti a cavallo del secolo, mediante il frazionamento chimico degli ossidi delle terre-rare e la successiva analisi spettrale dei loro componenti. Vennero individuati cos l'ytterbio (1876) , l'olmio (1878), il tulio (1879), il samario (1879), lo praseodimio (1885), il neodimio (1885), il disprosio (1886), l'europio (1901), il lutezio (1907) (il promezio stato invece scoperto nel 1945 per mezzo di una reazione di fissione nucleare). Il mondo materiale dei chimici era diventato sempre pi complicato, molteplice e pluralista. Infatti si era passati dai trentatr corpi semplici di Lavoisier ai pi di ottanta che apparivano in maniera ordinata nella tavola di Mendeleev agli inizi del Novecento. Naturalmente gli sviluppi ne]la scoperta di sempre nuovi elementi non sono stati di tipo banalmente cumulativo. Questi sviluppi, infatti, sono avvenuti contemporaneamente a grandi mutamenti nella struttura teorica della chimica e de suoi apparati sperimentali. Mutamenti che, come abbiamo visto, non lasciavano illesi n le ipotesi sul numero e le propriet degli elementi, n il concetto stesso di elemento. Infatti gi Lavoisier aveva eliminato, nel modo che abbiamo esaminato, molti dei precedenti corpi elementari; inoltre alcuni di quelli da lui ritenuti semplici si erano rivelati dei composti; e alcuni di quelli lavoisieriani e postlavoisieriani scompariranno dal novero degli elementi perch non vennero considerati pi delle sostanze chimiche: la luce, il calorico, e, pi tardi, il fluido elettrico. Ma il carattere non cumulativo della storia degli elementi chimici risiede anche nel fatto che sul loro statuto teorico, sulle loro relazioni, sui fondamenti strutturali della loro natura e delle loro propriet vi sono stati, come abbiamo visto, notevoli dibattiti vertenti su ipotesi anche molto diverse fra loro. 11. Negli anni a cavallo del secolo questi dibattiti riprenderanno con nuovo vigore anche grazie alle scoperte decisive che decretarono definitivamente la divisibilit dell'atomo, cio che questo fosse una struttura complessa nella costituzione della quale entravano enti pi semplici e identici fra loro. Se ogni elemento poteva essere caratterizzato da un atomo distinguibile da quelli degli altri elementi, tuttavia esso era il risultato di particolari

organizzazioni dei componenti primordiali degli atomi stessi. Nel 1897 in una celebre memoria sui raggi catodici, J. J. Thomson prov che la costituzione intima degli atomi era di natura elettrica, poich essi erano costituiti da subunit strutturali caricate elettricamente: quella negativa, l'elettrone, era dotata di una carica costante la cui deflessione dovuta a un campo magnetico era proporzionale al rapporto fra la sua massa e la sua carica; quella positiva, il protone, era uguale a quella di uno ione idrogeno, cos come era conosciuto dalla teoria della dissociazione elettrolitica di Svante Arrhenius (1887). L'esistenza nell'atomo di masse caricate positivamente, ma pi pesanti dell'elettrone, era stata provata dagli studi sui raggi canale di E. Goldstein (1886) e confermata da W. Wien (1897). Nel 1904 Thomson elabor uno dei primi modelli di atomo. Secondo questo modello gli elettroni erano disposti all'interno di una sfera caricata positivamente. Quando il numero degli elettroni superava un determinato valore, essi si disponevano ad anello o formavano una corteccia. Successivamente (1911-1912) E. Rutherford elabor un altro modello, di tipo nucleare, nel quale il fatto che gli atomi fossero neutri era dovuto alla completa eguaglianza fra il numero delle cariche positive Z contenute nel nucleo dell'atomo e quelle degli elettroni esterni. Rutherford fu anche il primo a sostenere che era la carica del nucleo, considerata una costante fondamentale, a determinare le propriet chimiche degli elementi, e che la massa totale dell'atomo era determinata prevalentemente dal nucleo. Il nucleo era costituito anche da particelle neutre (i neutroni) che insieme ai protoni determinavano la massa totale dell'atomo. Nel frattempo, infatti, grazie ad una serie di lavori di spettroscopia ottica e ai raggi X, scoperti da W. C. Roentgen nel 1895, si giunse progressivamente alla conclusione, sostenuta formalmente da H.G.J. Moseley negli anni 1913-1914, che non solo le propriet chimiche di un elemento erano determinate dal numero atomico Z, ma che questo fosse il vero numero d'ordine secondo il quale dovevano essere disposti gli elementi del sistema di Mendeleev. La ricorrente periodicit nelle propriet degli elementi quindi, non dipendeva pi dal peso atomico, come riteneva il chimico russo, ma dal numero dei protoni contenuti nel nucleo, o, che lo stesso, dal numero di elettroni, che ruotavano in maniera planetaria (ma circolare) intorno al nucleo atomico e disposti in differenti livelli energetici discreti. Questo ulteriore e pi raffinato modello atomico fu elaborato dal fisico danese Niels Bohr (1913). L'ipotesi di Moseley si rivel subito molto feconda. Essa, infatti, pur confermando il carattere realistico della classificazione degli elementi di Mendeleev, ne accentuava il carattere discontinuo e aritmetico gi sottolineato dal chimico russo, facendo coincidere la successione degli elementi addirittura con la successione della serie dei numeri interi. Inoltre, questa ipotesi era in grado di spiegare e risolvere alcune anomalie della classificazione mendeleviana, in particolare le inversioni argo-potassio, cobalto-nichel e tellurio-iodio, nelle quali non vi era corrispondenza fra la successione delle propriet chimiche e quella del peso atomico: prendendo come parametro ordinatore il numero atomico tali inversioni venivano eliminate. Esse erano dovute alla composizione isotopica degli elementi, cio al fatto che di uno stesso elemento potevano esistere atomi di massa diversa, cio con peso atomico diverso (la diversit era data dal numero di neutroni) ma con lo stesso numero atomico. Il fenomeno dell'isotopia, chiarito e definito da F. Soddy negli anni 1910-1911, faceva s che non vi fosse pi una corrispondenza diretta fra atomo definito dal suo peso atomico ed elemento: nel caso di moltissimi elementi potevano esistere atomi con peso atomico diverso, cio con un nucleo diversamente strutturato, ma essi erano chimicamente identici perch possedevano lo stesso numero atomico, dal quale, come sappiamo, dipendono le loro propriet chimiche. Infine il criterio di classificazione di Moseley conduceva a conclusioni di grande rilievo, che eliminavano alla radice tutta una serie di ipotesi sul numero e sulla molteplicit degli elementi chimici, e cio: 1) fra l'idrogeno e l'uranio esisteva solo un numero limitato e definito di elementi; 2) esisteva un limite inferiore alla serie naturale degli elementi, dato dall'idrogeno, che possedeva la carica pi piccola del nucleo (uguale all'unit); 3) era oramai chiaro che gli elementi ancora da scoprire erano quelli mancanti nella serie dei numeri interi da 1 a 92, cio quelli con Z= 43, 61, 72, 75, 85, 87. Questi

elementi furono effettivamente scoperti e furono chiamati, rispettivamente, tecnezio, promezio, afnio, renio, astato e francio. Molti di questi sono radioattivi, e furono isolati, come vedremo,proprio per questa loro propriet. 12. Dopo la scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Conrad Roentgen nel 1896, Henri Becquerel scopr, nello stesso anno, che alcuni minerali contenenti uranio emettevano questi stessi raggi la cui natura era ancora avvolta nel mistero. Maria Sklodowska Curie e Pierre Curie iniziarono subito a lavorare su queste nuove e impressionanti emergenze, scoprendo, mediante un dispositivo elettrico ideato dallo stesso Curie per misurare l'intensit delle emanazioni radioattive, che non solo anche il torio emetteva radiazioni, ma che nel minerale chiamato pecblenda, oltre l'uranio doveva esserci un'altra sostanza radioattiva, ancora sconosciuta: era un elemento ignoto che i due scienziati chiamarono polonio (1898) in onore della patria di Maria Sklodowska. Cinque mesi dopo i coniugi Curie comunicarono la scoperta, sempre nella pecblenda, di un nuovo elemento che emetteva dei raggi cinquecento volte maggiori di quelli dell'uranio: il radio. Questo elemento era in grado di emettere tre tipi di radiazioni: i raggi alfa, i raggi beta e i raggi gamma. I raggi gamma vennero trovati identici ai raggi X, cio erano una radiazione elettromagnetica; i raggi alfa e beta consistevano invece in particelle di materia. Il radio quindi non solo emetteva spontaneamente energia, ma anche materia, quindi era in grado di distruggere lentamente se stesso. In effetti esso si trasformava in elio e piombo, cio in elementi pi leggeri. Siccome la stessa cosa avveniva per tutte le altre sostanze radioattive, se ne poteva dedurre che in natura si realizzasse spontaneamente la trasmutazione degli elementi radioattivi che emettendo raggi alfa, beta e gamma, decadevano formando altri elementi. Quindi i loro nuclei erano strutturalmente instabili, e ci forniva una spiegazione del perch in natura non venissero trovati elementi con numero atomico superiore a quello dell'uranio, uguale a 92. Il sistema periodico degli elementi, dunque, possedeva un naturale e invalicabile limite superiore. Soddy, che insieme a Rutherford aveva enunciato nel 1902-1903 una delle prime teorie del decadimento radioattivo, poteva quindi scrivere che: la nuova scena sulla quale si alzato il sipario del 20 secolo e che si inizia con la trasformazione degli attributi pi immutabili degli elementi riconosciuti in passato dalla scienza fisica, si estende oltre i confini di questa scienza e illumina di nuova luce alcune delle concezioni pi basilari e solide che in questa o quella forma si erano profondamente radicate nelle nostre rappresentazioni dell'Universo. 13. Il fenomeno della radioattivit, cio la fissione di nuclei pesanti in nuclei pi leggeri, con liberazione di enormi quantit di energia, di elettroni e di nuclei di elio, fu realizzato anche artificialmente. Nel 1934 Irene Curie e Frederic Joliot riuscirono a produrre per la prima volta elementi radioattivi artificiali bombardando il boro, il magnesio e l'alluminio con particelle alfa. La produzione di fenomeni radioattivi artificiali continu, soprattutto con le ricerche di Enrico Fermi e dei suoi collaboratori (1934) che li ottennero bombardando i nuclei di uranio (o di altri elementi) con neutroni liberi lenti. In questo modo venne aperta la strada per le trasmutazioni artificiali di elementi, nel senso del decadimento: nel 1936 Emilio Segr e Charles Perier isolarono un isotopo radioattivo dell'elemento 43, che chiamarono tecnezio, ottenuto per bombardamento di un campione di molibdeno con deutoni. Usando il bombardamento di altri atomi per ottenere elementi radioattivi, si scoprirono ben presto i restanti elementi che mancavano nel sistema periodico: il francio (1939); il promezio (1945); l'astato (1947). Ma questo metodo fu adoperato anche per la formazione di elementi con numero atomico superiore a 92. Ma contrariamente alle altre tecniche di ricerca degli elementi, che potremmo definire di separazione (anche il decadimento radioattivo naturale o artificiale in fin dei conti una separazione, una fissione), in questo caso, invece, ci troviamo di fronte complessivamente a nucleosintesi, a una sorta di cattura di particelle, con riarrangiamenti nucleari, il risultato finale dei quali l'ottenimento di elementi (generalmente molto instabili) con numero atomico superiore a 92.

Nel 1940, in California, Edwin Mattison McMillan e Philip Hauge Abelson ottennero infatti il primo elemento transuranico, il nettunio, con numero atomico 93 e massa atomica (neutroni + protoni) 239, mediante il bombardamento con neutroni di un nucleo di uranio 238, che prima ha dato luogo all'uranio-239, e poi, per emissione di una particella beta, appunt al nettunio. Dopo il nettunio si sono ottenuti il plutonio (1940), l'americio (1944), il curio (1944), il berkelio (1949), il californio (1950), l'einstenio (1952), il fermio (1952), il mendelevio (1955), il nobelio (1958), il laurenzio (1961), il rutherfordio o kurchatovio (1964,1969), il nielsborio o hahnio (1967, 1970), con numero atomico, rispettivamente, da 94 a 105. Dal 1974 al 1987 sono stati trovati, sempre mediante bombardamento di nuclei con altri nuclei o particelle pesanti, elementi ancora non nominati con numeri atomici da 106 a 110. Ma ormai siamo molto al di l della storia della chimica... I composti. 1. Come abbiamo ripetutamente visto, la chimica si costituita come scienza definendo un proprio oggetto generale di studio, i corpi composti, la struttura intima dei quali era determinata dalle sostanze componenti, sempre pi semplici, fino ai principi di ultima decomposizione o elementi. I composti erano quindi il punto di partenza di qualsiasi discorso teorico o sperimentale della chimica. Mentre, al contrario, essi erano considerati il punto di arrivo del processo naturale di formazione dei corpi naturali. Naturalmente definire un corpo come composto significa gi denotarlo in una mamera assai precisa, anche se non univoca, poich storicamente esistito un modo tipicamente e distintamente chimico di intendere questa composizione. In effetti, quasi sempre i chimici tenderanno a distinguere le parti componenti di loro pertinenza (i principi o elementi) da quelle di altre scienze. Il problema dei componenti del composto lo abbiamo trattato nel capitolo precedente. In questo capitolo tratteremo del numero (finito o infinito) e del tipo di composti chimici esistenti in natura o producibili artificialmente e, infine, delle forze e delle leggi mediante le quali si ritenuto che i composti si formassero. Alcuni aspetti di queste rilevanti questioni sono stati gi trattati nel capitolo sulla chimica organica. Pi in generale necessario tener conto del fatto che lo studio storico sulle teorie chimiche (e metachimiche) sui composti e quello sugli elementi non possono essere separati, poich la chimica ha continuamente ridefinito la natura, il numero e la struttura ultima degli elementi, in stretta relazione sulle ipotesi generali e particolari sui composti e viceversa. 2. Agli occhi dei chimici, il mondo naturale apparso sempre, innanzitutto, come una immensa raccolta di corpi composti. Talmente immensa che nei secoli 17 e 18 i composti erano ritenuti in numero infinito, poich si pensava che la natura si manifestasse nelle sue produzioni con grande magnificenza e generosit. Questa immagine della natura costituiva un luogo comune molto diffuso nella cultura scientifica seicentesca e settecentesca. Spesso essa era sostenuta per finalit apologetiche, poich la grandezza del1e operazioni e dei prodotti della natura era considerata una testimonianza della grandezza del suo creatore. Ma anche in altri contesti culturali questa idea sussister in maniera molto pervasiva. Fontenelle, ad esempio, nei suoi Entretiens sur la pluralit des rnondes (1686), sosteneva che la natura, odiando le ripetizioni, produceva infiniti oggetti secondo infinite e diverse modalit. Denis Diderot nel De l'interprtation de la nature (1753) affermava che i fenomeni sono infiniti e che la natura sembrava essersi compiaciuta a variare uno stesso meccanismo in un'infinit di modi diversi, poich non abbandonava un genere di produzioni, se non dopo averne moltiplicato gli individui sotto tutti gli aspetti possibili dando luogo a infiniti corpi minerali o viventi. Diderot, inoltre, riteneva che per produrre i differenti corpi, la natura agisse nel suo complesso in maniera istantanea, mentre alla limitata conoscenza umana essa sembrava impiegare molto tempo. La tematica della istantaneit dell'agire naturale era anche tipicamente chimica. Per Stahl, infatti, la mistione chimica avveniva in un istante.

Questa idea era anche condivisa dal suo seguace Gabriel Francois Venel ed esposta all'articolo Chymie dell'Encyclopdie (1753) dove egli era stato chiamato a collaborare per la maggior parte degli articoli di chimica proprio da Diderot. Del resto anche il grande filosofo illuminista era un seguace delle teorie di Stahl come testimoniato da una sua Introduction la chymie rimasta manoscritta. La natura, dunque, considerata nella sua totalit, non era affatto semplice, anche nei suoi principi elementari costitutivi. Di questo avviso era ancora Venel che all'articolo Principes dell'Encyclopdie scriveva che, sebbene l'idea della semplicit della natura fosse stata autorevolmente sostenuta e fosse carica di storia, tuttavia essa non ne consentiva la comprensione pi profonda, poich la natura si rivelava talmente sovrabbondante nelle sue produzioni che l'ammissione di una pluralit di principi significava adeguare la scienza a questa nuova concezione: La magnificenza della natura che questa opinione suppone vale bene la vile semplicit che pu far inclinare verso il sentimento opposto. E, forse riecheggiandO le opinioni di Fontenelle, Venel aggiungeva: Io trovo anche molto probabile che i corpi composd degli altri mondi, ed anche degli altri pianeti di questo qui, abbiano non solamente delle forme diverse, ma anche che siano composti di elementi diversi; che, per esempio, nella Luna non si abbia n terra argillosa, n terra vetrificabile, n forse alcuna materia dotata delle propriet molto comuni delle nostre terre; che invece di queste si abbia un elemento che si pu chiamare, se lo si vuole, luna, ecc. Solo il fuoco mi sembrerebbe essere verosimilmente un elemento universale. Come sappiamo si dovette arrivare agli studi di spettroscopia della seconda met del 19 secolo per dare una risposta a questa ipotesi metafisica di Venel. La risposta, per, contraddiceva la posizione del chimico enciclopedista, poich si trov che gli elementi chimici terrestri erano universali. Ma le citazioni su questi argomenti potrebbero essere talmente numerose da far pensare verosimilmente che nei secoli 17 e 18 si fosse instaurato un vero e proprio stile letterario che potremmo definire della magnificenza della natura, infinitista, oppure addirittura una sorta di retorica dell'infinito, anche se spesso il termine infinito era adoperato al posto di grande o di grandissimo. In effetti tale secondo uso rimarr molto in voga all'intemo dello stile o della retorica appena menzionati, anche se insieme a questo vi era anche una intenzione teorica pi legata allo sfondo metafisico al quale ho fatto prima riferimento. Ad esempio, nel Trait de la chimie (1663) di Cristophle Glaser, ripetutamente presente l'idea di una infinit quantitativa e qualitativa (diversit) dei corpi naturali. Cos come presente una tendenza, che si ritrover anche in gran parte dei chimici successivi, a dilatare in forma metaforica i limiti del proprio metodo, dando un contributo non irrilevante a quella retorica dell'infinito alla quale prima ho fatto cenno; anche se sia Glaser, che i chimici successivi avranno ben presenti i limiti della sperimentazione e pi in generale della conoscenza umana, nonch il carattere faticoso, lento, parziale e complesso della interrogazione artificiale della natura. Anche Becher sosteneva nella Physica subterranea (1669) che i gradi della combinazione dei corpi erano in numero infinito e che per questo nessun mortale poteva riprodurli o poteva osservarli in natura. Per orientarsi in questo vero e proprio inestricabile labirinto di processi era dunque necessario tentare di dar loro un ordine, mediante un approccio di tipo razionale, metodico, classificatorio, coniugando sapientemente la teoria con l'esperimento. Per Homberg, ogni corpo composto doveva essere considerato il risultato di una unione di pi principi elementari. Il modo e la quantit in cui questi si disponevano in quella unione non dava luogo a una serie discreta e discontinua di sostanze, ma, al contrario, a un continuum materiale costituito dalle infinite loro possibili combinazioni. Infatti, a proposito dello zolfo principio, egli scriver in uno dei suoi Essays de chimie (1706) che la combinazione di questo principio con le sostaoze vegetali, animali e bituminose pu essere variata all'infinito; poich la sostanza di un corpo composto consiste esclusivamente nell'assemblaggio delle materie di cui composto, e se si cambia questo assemblaggio, o raggruppandone le parti in altro modo o aumentando qualcuna di queste parti, la cui combinazione infinita, costante

che il cambiamento della sostanza di questi corpi potr essere anch'esso infinito. Homberg riteneva, quindi, che le innumerevoli circostanze concrete, all'interno delle quali avvenivano le reazioni chimiche, potevano dar luogo a una serie continua e infinita di composti diversi. Questa concezione di un mondo chimicamente pieno era inserita in un contesto filosofico (largamente di tipo cartesiano) di notevole interesse. Per questo chimico, infatti, la pluralit dei mondi, la infinit delle sostanze, e il divario enorme fra l'Universo conosciuto e quello conoscibile, erano una testimonianza della infinita potenza del creatore. Tuttavia, le pur limitate conoscenze prodotte dalla chimica riguardo alla struttura della materia e alle modalit della combinazione e delle propriet dei suoi principi costituenti, erano delle verit di ultima istanza dalle quali la stessa onnipotenza divina non poteva arbitrariamente discostarsi: anzi questa onnipotenza si manifestava proprio nella produzione infinitamente varia e numerosa dei corpi composti a partire proprio dagli stessi semplici e limitati principi. L'infinit dell'Universo creato, comunque, era ben poca cosa rispetto al numero degli Universi possibili, anch'essi, presumibilmente in numero infinito. Cos come poca cosa erano i composti trovati in natura, nei confronti di tutti i composti possibili. Una delle conseguenze notevoli di questa concezione continua del mondo materiale era l'esistenza, anche nella chimica, di quelli che lo storico delle idee Arthur Lovejoy ha definito come principio di gradazione e principio di continuit: secondo il primo doveva esistere in natura una scala di esseri ordinata per gradi successivi di perfezione, nel gradino inferiore della quale era contenuto potenzialmente il grado superiore; per il secondo se fra due specie naturali era possibile teoricamente un tipo intermedio, esso era sicuramente realizzato, altrimenti sarebbe venuta meno la pienezza del mondo naturale. Questi due principi erano presenti implicitamente nel pensiero di Homberg come conseguenza del carattere infinito del numero dei composti attualmente esistenti in natura o pensabili come possibili. Infatti la formazione dei metalli a partire dai principi del mercurio e dello zolfo, o materia della luce, avveniva con continuit e gradatamente secondo una logica finalistica guidata dal concetto di perfezione, come abbiamo gi visto nel capitolo sulle origini della chimica. Gran parte di questi temi erano presenti, in maniera rilevante e diffusa, nel pi volte citato Dictionnaire de chymie (1766) di Macquer. In quest'opera gli argomenti della infinit dei corpi naturali della infinit delle proporzioni nelle quali essi si combinavano fra loro e quello della infinit dei mezzi artificiali di laboratorio, necessari per studiarli e/o realizzarli, saranno dei veri e propri luoghi comuni. Per Macquer, ad esempio, la rarit dell'elemento terroso, uno dei costituenti elementari di tutti i corpi, poteva essere spiegata dal fatto che la superficie del nostro globo era stata, sin dall'inizio dei tempi, cio sin dalla sua origine, esposta all'azione continua, ininterrotta e incessante degli altri elementi. Quest'azione aveva disunito lentamente le parti integranti della terra elementare, e combinandole in una infinit di maniere, e in una infinit di proporzioni differenti con le parti degli altri elementi, aveva formato il numero innumerabile dei diversi corpi composti presenti nella superficie del globo terrestre. Nel caso della formazione delle leghe metalliche, questo chimico scriver che dalla mescolanza dei differenti metalli poteva risultare una infinit di combinazioni differenti a seconda della natura, del numero e delle proporzioni dei metalli suscettibili di mescolarsi tra loro. E, a proposito delle precipitazioni, che la propriet sorprendente che possedevano certe sostanze di separarsi da altre con le quali erano strettamente unite, era la causa veramente efficiente di una infinit di decomposizioni chimiche. E le citazioni potrebbero continuare a lungo. Anche se in Macquer l'uso dei termini infinito ed infinit non era particolarmente rigoroso, poich in alcuni luoghi del suo dizionario essi venivano adoperati evidentemente al posto di un numero molto grande o di grandissimo, tuttavia questo chimico riteneva che in natura esistesse realmente un numero infinito di corpi, e che avvenisse un numero infinito di processi di tipo chimico.

Ma solo un numero limitato di questi erano conoscibili tramite l'esperienza artificiale di laboratorio. Fra le operazioni dell'arte e quelle della natura vi era dunque sempre uno scarto, esattamente quello fra finito, per quanto grande possa essere concepito, ed infinito. Questo scarto era alla base della idea stessa della possibilit di un progresso illimitato della conoscenza umana, soprattutto di quella scientifica e sperimentale. Questa, infatti, non poteva avere limiti se non di tipo sincronico, poich diacronicamente la infinit degli oggetti naturali faceva s che la conoscenza scientifica del mondo potesse essere continuamente accresciuta, anche se mai perfettamente compiuta. La conoscenza umana si svolgeva cio nel tempo. In un mondo chiuso, in cui gli enti naturali conoscibili potevano essere considerati in numero finito, il procedere della conoscenza non poteva nemmeno essere pensato come un processo senza fine. Questa tensione fra quelli che potremmo definire, in maniera paradossale, i limiti illimitati dell'arte e la infinit attuale della natura, sar fortemente presente nell'opera di Macquer. Essa assumer una configurazione tipicamente chimica, che in parte abbiamo gi visto negli autori precedenti. Mi riferisco al fatto che per Macquer in natura tutte le sostanze, senza esclusione, potevano combinarsi tra loro in un numero infinito di proporzioni. Nel sostenere questa posizione, per, egli rovesciava il ragionamento di Homberg, per il quale, come abbiamo visto, tutti i possibili (in numero infinito) erano potenzialmente reali: Macquer sosteneva invece che in natura non esistevano combinazioni impossibili; l'impossibilit, relativa, semmai apparteneva all'arte. Questa concezione rinvia, come vedremo, alla teoria della materia di Macquer, per il quale l'affinit o attrazione di combinazione, cio chimica, era una propriet essenziale della materia che si modificava diversamente secondo le diverse circostanze. La componibilit reciproca di tutti i corpi fra loro, e la produzione di un numero infinito di sostanze composte diverse, erano dovute al gioco complesso, e anch'esso infinitamente variabile, fra questa propriet, posseduta da ogni corpo anche nelle sue parti minime, e le circostanze concrete nelle quali essa poteva agire. Ogni corpo, quindi, aveva una qualche forma di affinit per tutti gli altri. Se una combinazione non si realizzava ci era dovuto a un difetto dell'arte, piuttosto che ad una impossibilit ontologica. Difetto peraltro relativo, poich nulla poteva escludere che il progresso della conoscenza rendesse attuale ci che potenzialmente era possibile. Come evidente, in queste teorizzazioni gioca un ruolo fondamentale la tematica delle circostanze, poich, come abbiamo visto, era proprio la variet delle circostanze, naturali o artificiali, a deterrninare la variet dei risultati (i composti) dei processi chimici. Le circostanze naturali erano infinitarnente variabili e quindi davano luogo a un numero infinito di processi e a infiniti composti; quelle artificiali, al contrario, erano necessariamente in numero limitato e davano luogo a un numero altrettanto limitato di risultati. Nel caso delle cristallizzazioni, ad esempio, per Macquer era stato un bene determinare l'autentica forma di tutti i sali suscettibili di cristallizzazione, e di averli fatti cristallizzare effettivamente per scoprirla, anche se tutti gli esperti sapevano che un solo e medesimo sale, bench tenda costantemente alla medesima forma, tuttavia capace di mascherarsi in mille maniere e di prendere una infinit di forme tutte differenti, secondo le circostanze che possono concorrere alla sua cristallizzazione. Infatti, le varie circostanze nelle quali era possibile far avvenire il processo di cristallizzazione, per Macquer dovevano essere considerate come cause che potendo agire successivamente o combinarsi insieme in una infinit di maniere, apportano delle variet innumerevoli alla cristallizzazione. Come si pu facilmente dedurre da quanto detto sopra, in questa chimica non vi era una differenza sostanziale fra i fenomeni della dissoluzione, della mescolanza dei metalli per la formazione delle leghe e le combinazioni vere e proprie. Anzi la dissoluzione rappresentava una sorta di modello generale di ogni reazione chimica: La dissoluzione non altra cosa che l'atto stesso della combinazione, scriver Macquer alla voce del Dictionnaire dedicata a questo fenomeno. I principi di gradazione e di continuit saranno presenti anche nella elaborazione di Macquer soprattutto in quella legge fondamentale molto generale

delle combinazioni chimiche, secondo la quale tutti i composti possedevano propriet che partecipavano di quelle dei principi componenti. Fra i principi e i composti di varia e pi complessa composizione si stabiliva, cio, una sorta di continuum qualitativo; una sorta di scala ininterrotta delle qualit. Solo fra i principi elementari, in quanto portatori di qualit assolute della materia, vi era una discontinuit notevole. Questa legge generale qualitativa della composizione chimica serviva a prevedere, a partire dalle qualit sensibili esibite dal corpo e ancor prima di fare l'analisi concreta, il tipo di componenti in esso presenti. Alla fine del Settecento, questa legge verr sostituita da un'altra, ancora qualitativa, secondo la quale le propriet dei composti erano fortemente eterogenee rispetto a quelle dei componenti. Cio nel passaggio dai principi componenti ai corpi composti si pensava avvenisse una notevole discontinuit di tipo qualitativo, come abbiamo gi visto nel caso dell'acqua. 3. L'idea ontologicamente forte, o anche metaforica, dell'esistenza in natura di un continuum di sostanze composte in numero infinito, definiva, per contrasto, lo statuto dei composti empiricamente trovati mediante la ricerca chimica: ogni composto era s il risultato di una combinazione che avveniva secondo proporzioni definite degli elementi, secondo gradi maggiori di complessit, ma questi gradi e queste proporzioni erano variabili a seconda delle circostanze sperimentali. Inoltre, come abbiamo visto, il numero dei composti possibili era infinito o perlomeno illimitato. Anche i composti ricavati per via sperimentale, quindi, dovevano essere considerati dei prodotti relativi alle capacit di indagine della chimica. Ogni loro classificazione era quindi artificiale e limitata. Le prime classificazioni dei composti erano semplicemente dei raggruppamenti per famiglie di sostanze dotate di propriet chimiche tipiche e distintive: sali, acidi, alcali, metalli, semi-metalli e cos via, magari con la specificazione a quale dei tre regni della natura appartenessero. Una delle prime classificazioni ideali fu elaborata da Becher ed esposta nella sua Physica subterranea. Questa classificazione era rappresentata da una scala di composizione crescente in complessit ed eterogeneit, in analogia con la struttura del linguaggio (lettera sillaba parola frase). Questa scala prevedeva, a partire dagli elementi, i misti, i composti, i decomposti, i surcomposti e i surdecomposti, successivamente definiti dai chimici stahliani composti del primo, secondo, terzo, ..., ordine a seconda del numero degli elementi coinvolti. Ma in realt i nomi dei composti spesso non affermavano nulla sulla loro struttura, ed eventualmente su che tipo e che grado di composizione essi rappresentassero. Ci avverr in parte con la riforma linguistica e classificatoria di Lavoisier del 1787 e del 1789. Grazie a quest'ultima i composti venivano definiti in relazione alla loro reattivit col calorico e con l'ossigeno. Nel primo caso essi erano dei gas. Nel secondo degli acidi, oppure degli ossidi a seconda del radicale che reagiva con l'ossigeno. Per Lavoisier i nomi delle sostanze chimiche dovevano gi di per s fornire una serie finita di informazioni essenziali per la loro identificazione. Mentre per quelle semplici, come abbiamo visto, i nomi (spesso tratti dal greco) dovevano descrivere solo alcune propriet pi generali e distintive, per quelle composte, attraverso una classificazione binomiale di tipo linneiano in classi (o generi) e specie, essi dovevano indicare a quale classe generale le sostanze appartenevano e di quali componenti erano costituite ed in che proporzioni. Ci veniva realizzato mediante l'uso di appropriati prefissi e suffissi (oso, ico, ito, ato, ecc.). In questo modo veniva concretizzata l'ispirazione teorica di fondo dell'impostazione lavoisieriana, derivata dalle posizioni di logica e di linguistica dell'abate Etienne Bonnot de Condillac, secondo le quali il nome deve far nascere l'idea; l'idea deve descrivere il fatto. Il linguaggio, cio, era uno strumento analitico che doveva rispecchiare la struttura analitica dei corpi naturali rivelata dalla chimica. La tensione fra nomenclatura banale, secondo nomi propri, e nomenclatura organizzata secondo un linguaggio di tipo analitico, sar presente in tutta la storia della chimica, con una costante attivit tesa a riformulare, in maniera sempre pi rigorosa, i termini usati, affinch la comunicazione fra chimici potesse (e possa) avvenire in maniera non equivoca.

Ma al linguaggio che utilizzava parole semplici o frasi per indicare una determinata sostanza, presto se ne aggiunger uno di tipo diverso e pi efficace, cio di tipo simbolico. I primi sistemi di simboli, utilizzati soprattutto nelle tavole delle affinit a partire dai primi decenni del 18 secolo, e delle quali tratter pi avanti, erano di tipo geroglifico: i simboli, cio, rappresentavano in maniera pittografica tutte le sostanze semplici o composte con un unico segno. A partire dal 1813 Berzelius introdusse un nuovo sistema simbolico nel quale ogni elemento era definito da una o pi lettere dell'alfabeto, tratte per lo pi dalle iniziali del nome latino dell'elemento (se esisteva): per esempio, Cu da cuprum per il rame; Sn da stannum per lo stagno; St da stibium per l'antimonio, ecc. Ogni composto, quindi, poteva essere descritto mediante una data combinazione di lettere con l'aggiunta di numeri per indicare la quantit di un determinato elemento che partecipava alla sua costituzione. Anche il linguaggio simbolico evolver storicamente, a seconda degli sviluppi della chimica. La sua introduzione condurr ad una importante razionalizzazione nel lavoro dei chimici e nelle forme della loro comunicazione. Il processo di traduzione simbolica consente, infatti, di abbreviare i tempi della ricerca, della scoperta e della comunicazione. La funzione simbolica, in chimica, rappresenta anche una particolare procedura sintetica di tipo mnemonico, una mnemotecnica, che serve a facilitare la crescita della conoscenza in tempi brevi. un modo abbreviato di operare all'interno di una determinata pratica sociale. Il simbolo chimico dunque un modo abbreviato per dire qualcosa (e non tutto) per poter fare pi agilmente, speditamente, qualcos'altro. Ma il simbolo chimico, rispetto al concetto o alla espressione linguistica, ha un vantaggio ulteriore, cio quello di essere anche una rappresentazione, una forma, che ha la capacit di rivelare una struttura esistente che costituita da un sistema di relazioni fra gli elementi del simbolo. In ci il simbolo chimico si distingue sia dalle espressioni linguistiche, sia dai concetti. Non che questi ultimi non siano dotati anch'essi di una struttura, solo che quella simbolica fondamentalmente visiva. In chimica, per dirla con Rudolf Arnheim, percepire visivamente un pensare visivamente. Le differenti strutture simboliche della chimica, dalle pi semplici alle pi complesse, veicolano una quantit di informazione maggiore rispetto ai concetti ed in maniera pi sintetica, e sono in grado di racchiudere in uno spazio minimo il massimo di informazione. E ci contribuisce ancora di pi a quella possibilit pragmatica di manipolazione mentale e pratica degli oggetti chimici che produce poi quella accelerazione del tempo della scoperta. 4. Come abbiamo visto le prime leggi generali della formazione dei composti erano di tipo qualitativo. Esse erano legate ad alcune valutazioni sperimentali fondate su una particolare idea della combinazione chimica. Altre leggi, ancora di tipo qualitativo, deriveranno dalla constatata capacit delle sostanze di reagire tra loro in maniera assai differenziata, o anche di non reagire affatto. In particolare in quel capitolo della chimica che comprende gli studi sull'affinit. Gi il filosofo Francesco Bacone scriveva nella Silva silvarum (1626) che ogni corpo possedeva una percezione poich quando un corpo si avvicina o si pone in rapporto ad un altro, si ha una specie di elezione che accoglie ci che confacente ed esclude o espelle ci che importuno. Ma l'idea che i corpi avessero una disposizione intrinseca, una tendenza interna a unirsi l'uno con l'altro in maniera specifica, non solo era diffusissima nella chimica del Seicento, ma da questa passer anche in quello successivo, all'interno di una interpretazione particolare del fenomeno, soprattutto in quella di Becher e di Stahl. Per questi due chimici, infatti, le sostanze reagivano tra loro in maniera differenziata a seconda del grado di analogia o di affinit tra i principi costituenti, cio secondo il grado di similitudine delle loro propriet interne e la loro maggiore o minore compenetrazione. Questo sfondo teorico era alla base della prima ricerca sistematica sulle affinit chimiche che Etienne Francois Geoffroy pubblic nel 1718. In essa si sosteneva che in chimica si osservavano alcuni rapporti costanti tra corpi differenti che facevano s che si unissero fra loro con maggiore o minore facilit. Secondo Geoffroy, questi rapporti avevano i loro gradi e le loro leggi. E aggiungeva: Per ci che riguarda le leggi di questi rapporti ho

osservato che tra le sostanze che avevano questa disposizione ad unirsi insieme, trovandosene unite due, alcune di quelle che vi si avvicinavano e che vi si mescolavano si congiungevano ad una di esse e facevano lasciare la presa all'altra; alcune altre poi non si congiungevano n all'una n all'altra e non le distaccavano. A queste considerazioni, che oggi possono sembrare banali, egli faceva seguire una serie di protocolli sperimentali molto dettagliati e una tavola sinottica di tutte le reazioni chimiche alle quali partecipavano le sostanze semplici e composte allora conosciute, secondo i diversi gradi della loro reattivit reciproca. In questa tavola, che servir di modello per le moltissime successive, veniva fatto uso di simboli geroglifici per denotare sinteticamente le differenti sostanze. In seguito, il successo della fisica newtoniana condusse i chimici a porsi il problema se l'affinit chimica non dipendesse dalla stessa forza di attrazione che agiva nei corpi terrestri sensibili o fra i pianeti del Sistema solare. La risposta sar in gran parte positiva anche se l'attrazione chimica verr interpretata in maniera assai eterodossa rispetto alle idee originarie di Newton su quella gravitazionale: innanzitutto quella chimica verr considerata una propriet essenziale della materia, responsabile della sua intrinseca attivit; secondariamente, verr interpretata come una forza che non agiva a distanza come quella newtoniana, ma per contatto; infine l'affinit era solo di tipo attrattivo, cio in chimica non venivano prese in considerazione forze di tipo repulsivo, sostenute da Newton, poich i fenomeni chimici repulsivi venivano spiegati con la combinazione delle sostanze con un corpo materiale, ma imponderabile, essenzialmente fluido, cio in grado di trasmettere a tutti i corpi la propria intrinseca capacit espansiva ed elastica. Ma l'accettazione della spiegazione di tipo newtoniano, sebbene con i connotati appena visti, aprir nella chimica una serie di problemi di enorme rilievo e di impossibile soluzione. Essa implicava, infatti, per un verso la possibilit teorica, o, meglio, la speranza, di uno sviluppo razionale della chimica analogo a quello della meccanica; d'altro verso la necessit di una costante ridefinizione del proprio oggetto, onde evitare una eccessiva riduzione di questa scienza alla fisica; riduzione peraltro impossibile poich essa avrebbe comportato il calcolo delle forze di interazione microscopica delle particelle di cui si riteneva fossero costituite le sostanze reagenti. Ma queste particelle sfuggivano, allora, a ogni possibilit di valutazione, diretta o indiretta che fosse. Ma la difficolt maggiore nell'applicazione della meccanica newtoniana proveniva dal fatto che mentre l'attrazione fisica avveniva fra masse astratte, cio in maniera indipendente dalle loro specifiche propriet; l'affinit chimica, al contrario, presupponeva invece in maniera costitutiva l'eterogeneit qualitativa dei reagenti. Le affinit chimiche, per dirla con Tobem Bergmann, erano elettive. Nel Settecento, dunque, le leggi generali della combinazione chimica rimasero quasi esclusivamente di tipo qualitativo e, una volta considerato impossibile il calcolo delle forze microscopiche fra le particelle delle sostanze, esse rimasero comunque di tipo fenomenologico anche quando divennero di tipo quantitativo. Nella prima met del Settecento erano state enunciate quattro leggi qualitative della affinit chimica: 1) l'affinit di aggregazione, che avveniva fra sostanze omogenee, era opposta a quella di composizione che avveniva invece fra sostanze eterogenee: la prima era di tipo fisico, la seconda di tipo chimico; 2) questi due diversi tipi di affinit erano inversamente proporzionali fra loro; 3) ogni corpo aveva pi o meno facilit a combinarsi con ogni altro corpo; 4) infine, che tale facilit non dipendeva solo dal grado di affinit delle sostanze reagenti ma anche dalla forza con la quale le loro particelle aderivano le une con le altre. Esistevano poi diversi tipi di affinit a seconda del numero dei corpi coinvolti: 1) semplice, se la reazione avveniva fra due sostanze: A+B = AB; 2) complicata, se avveniva fra tre sostanze: AB+C = AC+B; 3) reciproca, se era del tipo AB+C=AC+B e AC+B=AB+C; 4) doppia se del tipo: AB+CD=AC+BD. Nel corso del 18 secolo vennero ipotizzati altri tipi di affinit e altre combinazioni; furono tentati calcoli della capacit di combinazione delle sostanze, in particolare da parte di Louis Bemard Guyton de Morveau alla voce Affinit dell'Enyclopdie mthodique (1786). Ma in tutti questi casi non si andava molto

in l da affermazioni molto generiche e approssimate sulla forza delle affinit necessarie a scomporre un composto per formame un altro. 5. Comunque venissero considerate, le affinit chimiche erano ritenute generalmente elettive, cio tipiche e costanti per le stesse sostanze reagenti. Nel 1784, Bermann le distinse tuttavia in due tipi: quelle che agivano per via secca e quelle che agivano per via umida. Oualunque fossero le circostanze prese in considerazione per valutarne gli effetti, fra queste non vi era la massa dei reagenti. Non sar cos per Claude Louis Berthollet che in due sue opere: le Recherches sur les lois de l'affinit (1799) e l'Essai de statique chimique (1803), critic le idee correnti sulle affinit allo scopo di dimostrare che queste non agivano come forze assolute, poich in tutte le combinazioni e decomposizioni delle sostanze reagenti vi era una dipendenza reciproca dalle quantit di queste che partecipavano alle reazioni. Le affinit erano influenzate da una nuova variabile, mai considerata prima di allora: la massa chimica, cio qualcosa di analogo a quella che successivamente verr chiamata concentrazione. Ogni reazione chimica era costituita dunque da un complesso sistema di interazioni fra forze contrapposte, fra le quali agiva anche la massa relativa delle sostanze, che evolveva attraverso una serie continua di equilibri rotti e poi ristabiliti, fino ad una situazione finale di saturazione completa delle affinit delle sostanze reagenti e di quelle risultanti, nella quale, cio, si realizzava uno stato di equilibrio di tipo statico. Un corollario delle ipotesi di Berthollet sar l'idea di una indefinita e continua componibilit dei reagenti fra due punti-limite, uno minimo ed uno massimo. Come abbiamo gi visto l'idea di una serie continua e indefinita di composti che si formavano secondo tutte le proporzioni possibili era molto presente nella chimica settecentesca; quindi da questo punto di vista Berthollet non faceva altro che ribadire una tradizione teorica ben consolidata. Di diverso avviso sar invece Joseph Louis Proust che, rompendo decisamente con questa tradizione, era arrivato per via sperimentale a considerazioni completamente diverse, e per certi versi rivoluzionarie. Infatti, attraverso una serie di ricerche condotte dal 1797 al 1809 sulla composizione degli ossidi metallici del ferro, del rame, dello stagno e su alcuni solfuri metallici (soprattutto del ferro), arriv ad enunciare la legge delle proporzioni definite, secondo la quale ogni composto chimico era costituito da una proporzione fissa e costante dei componenti, indipendente dalle condizioni sperimentali nelle quali esso veniva formato. Per Proust, dunque, nelle sue produzioni materiali, la natura era rigorosamente discontinua, e agiva secondo regole ponderali precise e immutabili. Lo stesso poteva dirsi della sperimentazione artificiale di laboratorio: questa dava luogo a composti esattamente identici a quelli naturali poich esattamente identici erano i rapporti ponderali in atto tra i reagenti. La magnificenza e la illimitatezia delle produzioni naturali dei corpi composti trovavano quindi un limite nelle stesse leggi di natura. L'enfasi eccessiva che la chimica settecentesca metteva sul carattere decisivo delle circostanze nelle quali avvenivano le varie combinazioni chimiche rischiava infatti di far perdere a questa scienza il suo carattere universale (terrestre): se erano le circostanze a decidere dei rapporti quantitativi mediante i quali avveniva la produzione dei composti, allora ognuno di questi poteva essere considerato un prodotto particolare ed eccezionale di un insieme di condizioni sperimentali, anche irripetibili. La natura, invece, non solo era sempre analoga a se stessa, anche nelle condizioni artificiali del laboratorio, ma essa era rigidamente discontinua, poich agiva sempre secondo le stesse leggi ponderali universali discrete. Le ricerche di Proust ebbero un certo successo e nei primi del secolo scorso la legge delle proporzioni definite prevalse sulla ipotesi continuista di Berthollet, anche se le ricerche sui sistemi chimici complessi in equilibrio, svolte fra il 1900 e il 1914, condussero il russo N.S. Kurnakov a considerare fondate alcune delle idee di Berthollet sul carattere continuo della composizione di alcune classi di sostanze composte, che possono variare la loro composizione entro limiti abbastanza ampi, pur rimanendo omogenee.

Ma la vittoria di Proust oscurer anche quella parte delle teorie del chimico suo antagonista che iniziava a gettare una luce pi profonda sulla costituzione degli equilibri chimici in soluzione. Riprese alla met del secolo, esse costituirono il punto di partenza per la formulazione della legge di azione di massa degli equilibri chimici enunciata nel 1879 dai danesi Cato Maximilian Guldberg e Peter Waage. Dopo la legge di Lavoisier della conservazione della massa e degli elementi nelle reazioni chimiche, la legge di Proust veniva a porre un altro ben preciso vincolo legale alla presunta capacit della natura di variare all'infinito, arbitrariamente e a suo piacimento, le possibili combinazioni fra le sostanze elementari per produrre composti. Alla fine del Settecento, Jeremias Benjamin Richter enunci un altro principio di conservazione della chimica, quello della neutralit dei sali nelle reazioni di doppio scambio: se si mescolavano due soluzioni neutre di sali, e si aveva una reazione fra questi, i prodotti finali erano anch'essi neutri. Da ci Richter dedusse che gli elementi dei reagenti iniziali e dei prodotti finali dovevano trovarsi in rapporti determinati per quanto riguardava le loro masse. Ma Richter elabor (1792) anche una fondamentale legge della combinazione chimica, la legge degli equivalenti, secondo la quale le quantit di alcali (o di acidi) che si combinano con qualsiasi acido (o alcale) conservano tra loro gli stessi rapporti nelle combinazioni con tutti gli altri acidi (o alcali). Agli inizi del secolo scorso, come conseguenza della sua teoria atomica, che porter un notevole contributo all'idea del carattere discontinuo, discreto e limitato delle combinazioni chimiche, John Dalton enunci la legge delle proporzioni multiple, nella quale si sosteneva che i rapporti quantitativi fra gli elementi, che formano diverse combinazioni con un altro elemento, sono dati da rapporti fra numeri interi, ovvero che in una serie di composti formati dagli stessi elementi A e B, la quantit di A che si combina con l'unit di peso di B in un composto un multiplo semplice della quantit di A che si combina con la medesima quantit di B in un altro composto. Ma la quantit, la discontinuit e la discretezza raggiungeranno oltre la massa i volumi. Infatti dalle sue ricerche sulle combinazioni gassose Joseph Louis Gay Lussac enunci nel 1808 la cosiddetta legge dei volumi: una reazione fra sostanze gassose, ad una data temperatura e pressione, ha luogo sempre nei rapporti pi semplici di modo che con un volume di una sostanza gassosa si combina sempre un volume uguale o doppio o al massimo triplo di un'altra sostanza gassosa. 6. Ripercorrendo un tratto della storia della formazione e della natura dei composti, abbiamo visto come la chimica moderna, inizialmente fortemente qualitativa, abbia lentamente introdotto metodi quantitativi che hanno dato luogo alla scoperta di alcune delle leggi pi generali della composizione chimica. Ma il trionfo nella chimica dell'approccio quantitativo sar di tipo particolare, perch esso non annullava affatto il dato distintivo di questa scienza, cio quello di essere un sapere legato alla omogeneita, alla differenza, alla molteplicit qualitativa degli oggetti semplici o composti di cui tratta. Cosicch possiamo ben dire che la qualit resa ancora pi visibile ed evidente dai differenti rapporti quantitativi attraverso i quali le diverse sostanze reagiscono tra loro: la quantit, cio, un modo di rendere numericamente visibile la irriducibile diversit della materia plurale con la quale hanno a che fare i chimici. Ma tutto il grandissimo insieme di ricerche che ha avuto luogo lungo i tre secoli della storia dei composti chimici che abbiamo fin qui trattato, ricerche sperimentalmente verificate sul campo, nei laboratori di tutto il mondo, da intere generazioni di scienziati, ha dato luogo via via a un'incessante riconsiderazione sulla reale struttura del mondo naturale; a immagini della natura sempre nuove e scientificamente fondate ma comprendenti anche degli invarianti teorici (perfino metafisici) di grande rilievo. Uno di questi riguarda il carattere continuo o discontinuo della composizione chimica, che non sar risolto una volta per tutte, anche se esso si presentato in modo diverso, in epoche diverse dello sviluppo storico della chimica; in luoghi problematici che a volte solo metaforicamente sembravano evocare temi gi trattati in un passato pi o meno recente.

Proprio a partire dalle leggi quarbtitative che abbiamo appena esposto si apr il grande dibattito su cosa esistesse nel mondo dell'invisibile materiale che faceva s che queste leggi si verificassero con una ricorrente ed impressionante precisione e regolarit. La questione fu posta chiaramente agli inizi del secolo scorso da Berzelius, dimostrando che l'abbandono dell'idea di una natura continua, magnificente e illimitatamente varia, apriva pi problemi di quanti ne risolvesse. Una volta rivelati fenomenologicamente i limiti legali della natura e dell'arte, la prima domanda che i chimici si posero era da che cosa derivassero questi limiti. Di quali ulteriori e pi nascoste leggi essi fossero il risultato. Anche se fosse stato sufficientemente dimostrato, scriveva infatti Berzelius, che i corpi... sono formati da atomi indivisibili, da ci non conseguirebbe affatto che si debba verificare il fenomeno delle popolazioni costanti e specialmente quelle che si osservano nella natura. Perch ci accada, indispensabile ancora l'esistenza di leggi che regolino il modo di unione degli atomi e ne definiscano i limiti, perch chiaro che se un numero indeterminato di atomi di un elemento potesse combinarsi con un numero pure indeterminato di atomi di un altro, esisterebbe un numero illimitato di composti formati da questi elementi e la differenza di composizione quantitativa di tali composti non potrebbe, per la sua insignificanza, venir messa in evidenza anche dalle esperienze pi raffinate. Ne consegue che proprio da queste leggi dipendono le proporzioni chimiche. Le leggi dalle quali derivava il fatto enorme del carattere individuale e discreto dei composti chimici saranno dedotte nei secoli 19 e 20 da quel vasto insieme di teorie dette della valenza, dei legami chimici e della struttura, che, a partire dagli atomi di Dalton fino a quelli quantomeccanici odierni, arriveranno a definire composto chimico come un aggregato di atomi uguali o distinti, combinati in quantit discrete a seconda della capacit reciproca di creare uno o pi legami tra loro spazialmente orientati. Saranno queste teorie a confermare ulteriormente il problema della composizione nella centralit che esso ha sempre avuto, sin dal momento costitutivo di quel sapere autonomo e distinto chiamato, misteriosamente, chimica. FINE.

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