tale veemenza, non la smette più, va fino in fondo, non si fa intimorire da niente e da nessuno (dato che è morta) […]” (“Anni luce”, pag. 89)
Chi non ha peli sulla lingua, è come se fosse morto, non ha nulla da temere. I vivi sono pelosissimi.
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Lucio Klobas ha cercato in ogni modo, spasmodicamente, di
ripararsi dalla verità, ben sapendo che non ci sarebbe riuscito. Il suo “Anni luce” (Effigie 2010), ultimo di precedenti dodici fatiche, è il tentativo di schermare con la cartavetrata le fibre oscene del vero. Persino la maschera della parentesi cade - quest'unghia del pensiero, che ritma e affila, che si fa mora, controcanto, ironico dissimulatore, neutralizzatore del paradosso – rivelando il mare ansiogeno dell'emotività.
“Anni luce” è una discesa agli inferi, una seduta di spiritismo a tu
per tu col dio assoluto. Con quest'opera Klobas depone il peso portato in groppa per una vita (o almeno vi tenta).
Il lettore è messo a dura prova, i nervi rischiano di fare un balzo
dalle zeppe viscerali e intermittenti che alte si innalzano, girando e rigirando, in lungo e in largo.
La forza del libro è nel tic, nello sfinimento, nella mancata
risoluzione del pensiero interno. Girare stretti attorno all'amore, attorno all'idea di amore è l'azzardo di Klobas. Intessere una maglia stretta che a stento si faccia sfuggire particolari luminosi o indicazioni cristalline sui personaggi è conseguente ad ogni stagione di fuoco. Dal corpo a corpo con la fotografia – medium e traino dei personaggi principali (padre e madre, madre e padre, fratello gemello, cane e gatto) – quasi a volerne cavare oro, è evidente che Klobas abbia elevato la verità (goffa inesperienza) sulle spalle della tecnica (tecnicismo).
Il primo capitolo (La fotografia), che la descrizione della foto
contiene, è il negativo ed ha un andamento blando e fisso; (il secondo, La fuga, assimilate le tensioni, prenderà la via della fuga).
La storia è intimissima, la scrittura una grata, procede per
accumulo, si gonfia e si sgonfia come un fiume che trascina massi e sporco. Per gradi infinitesimi si giunge allo svelamento nominale dei personaggi; dalla foto, dalla carta, mano a mano i personaggi saltano nella realtà, si fanno di carne, prendono forma. Col rilievo di un modulo formulare - di una formularità interna al testo, con nessi e frasi intere di raccordo che si presentano e si ripresentano: una struttura ossessionata dall'ossessione - giungiamo
“[...] chi parla da solo non invecchia mai.”
(pag. 66) “In verità chi possiede un brandello di memoria (uno qualsiasi) non sarà mai solo (mi consolo).” (pag. 73)
nei pressi del centro. Verve, ironia e sarcasmo sostituiscono la
macchinazione (macchinosità) iniziale, il libro cerca di embricarsi al lettore, fa pressione per entrare.
“I due giovani (giovanissimi) innamorati,
sono morti, cioè sono polvere sottile smossa dall'aria calda, polvere circolare senza peso, leggera, che a volte si rovescia nel suo opposto.” (pag. 51)
Fra allusione e nascondimento compaiono i genitori (fantasmi,
zombie); mai hanno finito di volteggiare sopra il campo filiale, non sono mai morti e zompano nel (sul) testo. In tutti i modi l'autore-ologramma si sforza di tenerli a distanza e a bada. Essi, invece, si avvicinano, così, da “i nostri vecchi vecchissimi genitori” si passa a “i miei vecchi genitori”. In questo centro, dal ghigno sarcastico, nel quale ci troviamo, il visionario grande vacilla, e si lascia invadere dal reale smascherato.
“Quando mio padre si arrabbiava per
colpa del cane (ma non solo) gli si gonfiavano le venuzze del naso e degli occhi, il volto si contraeva e diventava più piccolo di un terzo, le labbra cambiavano posto, sembrava un'anguria pallida e stenta, le mani parevano palette di legno (pressappoco), mentre il corpo dimagriva e si rifugiava in qualche buco del pavimento.” (pp. 88 – 89)
Klobas intende annullare la propria origine, distruggerla, vanificarla
- tanto ne parla, e si prepara a mo' di cuneo nel massimo spazio vuoto. Dall'amore all'odio, tanto ne parla e tanto li affossa, e quelli risorgono - .
Gli stramorti vengono uccisi (riuccisi) nel loro inferno (nell'inferno di
tutti) in una trasfigurazione lisergica e abbandonata dei sentimenti.
Una forza rabbiosa, canina, trionfante nel finale, dilacerante; una
rabbia compressa, esplosa; e corpi dilaniati da una bomba: siamo nell'oltremondo, fatto di apparizioni ribollenti, demoni al galoppo senza palafreniere.
Il pre-finale – di questo libro di inquietudini lancinanti, d'orrore
psicologico, di filamenti putridi appiccicati su parole porose – fa spazio ad “un grugnito malsano di evidente origine straziante” (pag. 127). Pace per i genitori non vi sarà, nemmeno da morti (soprattutto da morti). Il processo (capitolo sei) per questi “orribili predatori del nulla” (pag. 143) è il vero capitolo finale: rivelazione, goduria, empatia, forte abbraccio all'autore e stretta di mano.
L'ultimo capitolo, Paesaggi, sarà innecessario; si corre il rischio che
la tela prima visionariamente tessuta si strappi. Ma è certa una cosa. Dopo la convulsione (la frenesia) dei primi sei capitoli, il pianto arriva a scioglimento, a risolvere. L'autore si scioglie nel pianto, dice perdono per ciò che ha scritto. Questo lo comprendiamo, tenta il volo, ma è richiamato al dovere dalla gravità. A nulla serve la giustificazione, a nulla la bellezza decadente, la crudeltà mentale ha vigore forma persuasione. Certo, la tensione accumulata e la fiamma del vero ritornano indietro, e squagliano la neve, il ghiaccio. Pare stare a sé, sta a sé, quest'ultimo capitolo: è un bimbo al freddo, tenero, lirico; la prosa si distende, acquista la sua più intima marca, la poesia.
“Nei paesaggi vuoti e inesistenti non si
scorge nulla che indichi qualcosa, e ciò lascia sommamente interdetti, sorpresi e meravigliati, increduli. Si resta come si è, né più né meno, più poveri di prima certamente.” (pag. 153)
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Lucio Klobas possiede lo scettro della profondità e sua retorica.
La poesia rende più edibile la morte.
L'intensità del falso finale (Paesaggi) smangia la grana cinica e,
abbiamo detto, scartavetrante del romanzo.
A volte la decadenza, l'autocompiacimento e il vittimismo non sono