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Inno ad Ermes, IV, 1 - 67

Canta Ermes, Musa, di Zeus e Maia,

il signore di Cillene e dell’Arcadia ricca di pecore,

il supremo messaggero degli dei, il figlio di Maia, dico,

- la venerabile ninfa dai bei capelli -, e di Zeus,

lei che i beati fuggiva, dimorando

nell’antro tutto ombra; qui, il Cronide

alla ninfa soleva unirsi

a notte profonda,

- mentre il sonno abbracciava Era dalle bianche braccia -,

di nascosto dagli dei e dagli uomini.

Ma quando Zeus compì il suo piano,

- e per lei il decimo mese era passato nel cielo -,

da solo fece luce e illustre fu l’opera:

ella generò un figlio astuto, ingannatore,

ladro, guida di buoi, padrone dei sogni,

spia notturna, custode di porte,

che presto

avrebbe compiuto imprese famose fra gli immortali.


Nato all’aurora, a mezzogiorno suonava la lira,

a sera rubava i buoi di Apollo arciere,

il quarto del mese generato da Maia padrona.

Egli, poi che schizzò fuori dalle cosce immortali della madre,

non rimase a lungo nella culla,

ma si alzò e andò a cercare i buoi di Apollo,

oltrepassando la soglia dell’antro.

Là trovò una tartaruga, gioì, e quanto!

Ermes, per primo, creò una tartaruga cantante.

Se la trovò sulla porta del cortile,

brucava erba, e lenta muoveva.

Il veloce di mente la vide, rise e disse:

“Che fortuna!

Salve, carissima, ti si batte quando si danza, sai?

Compagna di banchetto,

felice bestiolina: chi ti porta qui, bel giocattolino?

Hai un guscio variopinto, tartarughina;

ti prenderò, bella mia, e porterò a casa; mi servirai,

e non ti disprezzerò; tu gioverai a me prima che ad altri.

A casa meglio stare, fuori, pericolo.

Mi terrai lontano dal tristo maleficio, da viva;

se poi tu morissi, ah come canteresti!”.


Sollevatala, subito andò verso casa, in mano l’amabile gingillo.

Poi, premendo con un bulino di ferro,

la perforò nel molle.

Come quando un razzo pensiero penetra

il cuore di un uomo assai afflitto,

o quando lampi emettono gli occhi,

così il luminoso Ermes meditava parola e azione.

Tagliò con garbo delle canne e le ficcò nel guscio

della tartaruga entrando dal dorso.

Poi, l’ingegnoso, tese intorno una pelle di bue

e vi fissò due bracci, uniti da un ponte,

e tirò sette corde sinfoniche di pecora.

E quando finì, in mano il bel giocattolino,

provò col plettro una per una le corde:

risuonò acutissimo; e il dio cantava

- dolcemente improvvisando, come i giovani

durante la festa gareggiano chiodo a chiodo –

di Zeus e di Maia dalle belle scarpe,

come un tempo si accoppiavano,

e così illuminava la sua nobile stirpe;

in subbuglio le ancelle e la splendida dimora della ninfa,

e i tripodi della casa e i perenni lebèti.


E mentre cantava, già altro meditava.

Depose nella culla la curva lira;

e, smanioso di carne,

schizzò dalla stanza profumata,

per stare di vedetta,

macchinando un inganno profondo,

come i ladri nella notte nera.

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