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INTRODUZIONE
Nel marzo del 1996, la rivistaOutside mi invi in Nepal per partecipare a una spedizione guidata
che doveva scalare il monte Everest e per scrivere un servizio sull'impresa. Ero uno degli otto clienti del
gruppo condotto da Rob Hall, una nota guida neozelandese. Il 10 maggio raggiunsi la cima della
montagna, ma la conquista della vetta richiese un prezzo terribile. Fra i miei cinque compagni di
spedizione che riuscirono ad arrivare in cima, quattro, compreso Hall, perirono nel corso di una tormenta
insidiosa che ci invest senza preavviso mentre eravamo ancora nella parte alta della montagna. Ero
appena riuscito a ridiscendere al campo base, quando appresi che avevano trovato la morte anche nove
scalatori che facevano parte
di altre quattro spedizioni, mentre altri tre sarebbero periti prima della fine del mese.
Quell'esperienza mi lasci profondamente scosso, al punto che la stesura dell'articolo si rivel
un'impresa difficile. Comunque, cinque settimane dopo il mio ritorno dal Nepal consegnaialla rivista
l'articolo, che fu pubblicato nel numero di settembre. Dopo averlo completato, tentai di cancellare
lEverest dalla mia mente per riprendere la vita di sempre, ma ci si rivel impossibile. Immerso in una
fitta nebbia di emozioni confuse, continuavo a cercare di ricavare un senso dalle vicende di quella tragica
spedizione sull'Everest, rimuginando con intensit ossessiva sulle circostanze in cui erano morti i miei
compagni.
L'articolo di Outside era accurato, almeno per quanto mi era possibile data la situazione, ma il
termine di consegna era stato ferreo e il susseguirsi degli avvenimenti tanto complesso da rendere
frustrante il tentativo di ricostruirlo, senza contare che i ricordi dei superstiti erano distorti dallo
sfinimento, dalla carenza di ossigeno e dallo shock. A un certo punto, durante la fase di documentazione,
chiesi ad altre tre persone di riferire un incidente al quale avevamo assistito tutti e quattro in vetta alla
montagna, e non riuscimmo a raggiungere un accordo neppure su fatti essenziali quali l'ora, le parole che
erano state pronunciate e addirittura l'identit stessa dei presenti. Pochi giorni dopo che l'articolo su
Outside era stato dato alle stampe, scoprii che alcuni dei dettagli che avevo riferito erano errati. Per lo
pi si trattava di piccole inesattezze del tipo di quelle che s'insinuano inevitabilmente negli articoli di
cronaca, ma uno degli errori ,non era affatto insignificante, ed ebbe un effetto devastante sugli amici e sui
familiari di una delle vittime.
Quasi altrettanto sconcertante degli errori veri e propri contenuti nellarticolo era la mole di
materiale che era stato necessario omettere per motivi di spazio. Mark Bryant, il direttore di Outside, e
Larry Burke, l'editore, mi avevano concesso uno spazio eccezionalmente ampio per raccontare la storia,
fino a diciassettemila parole, vale a dire almeno quattro o cinque volte l'estensione di un normale articolo
di periodico. Anche cos, mi sembrava che il mio racconto avesse ricevuto tagli troppo drastici per
rendere giustizia a quella tragedia. La scalata dell'Everest aveva scosso la mia vita fin nel midollo, e per
me assunse un'enorme importanza il dovere di registrare quegli eventi con tutti i dettagli, senza sentirmi
limitato da un numero prestabilito di colonne. Questo libro il frutto di quell'impulso coatto.
La fragilit della mente umana ad alta quota ha reso problematico il lavoro di ricerca. Per non
affidarmi troppo alle mie impressioni personali, ho intervistato a lungo la maggior parte dei protagonisti e
in pi occasioni. Quando stato possibile, ho controllato i dettagli consultando i brogliacci della radio
compilati dal personale del campo base, dove non era cos difficile pensare lucidamente. I lettori che gi
conoscono l'articolo apparso su Outside potranno notare alcune discrepanze fra certi particolari indicati
nella rivista, soprattutto in merito ai tempi, e quelli riportati nel libro; la revisione riflette le nuove
informazioni venute alla luce dopo la pubblicazione del servizio sul periodico.
Alcuni autori e consulenti editoriali per i quali nutro un grande rispetto mi hanno sconsigliato di
scrivere il libro cosi in fretta, invitandomi ad aspettare due o tre anni per mettere una certa distanza fra me
e la spedizione, in modo da acquistare il senso della prospettiva. Il consiglio era valido, ma alla fine l'ho
ignorato, soprattutto perch quello che era accaduto sulla montagna mi stava rodendo le viscere. Ho
pensato che scrivere il libro potesse consentirmi di cancellare l'Everest dalla mia vita.
Naturalmente non e stato cos. Inoltre concordo sul fatto che spesso i lettori restano insoddisfatti
quando un autore scrive per compiere un atto catartico, come ho fatto io in questo caso; ma speravo di
ottenere un risultato positivo mettendo a nudo la mia anima subito dopo la sciagura, ancora in preda al
tumulto delle passioni. Volevo che il mio resoconto avesse un tono crudo e spietato di onest, che forse
correva il rischio di sbiadire col passare del tempo e con l'attutirsi della sofferenza.
Alcuni di coloro che mi hanno sconsigliato di scrivere in fretta erano fra coloro che avevano
cercato di dissuadermi dal tentare la scalata dell'Everest. C'erano parecchie ragioni per non andare lass,
ma tentare di scalare l'Everest e un atto irrazionale di per se, un trionfo del desiderio sul buonsenso.
Chiunque prenda in seria considerazione questa idea si colloca quasi per definizione al di fuori della
possibilit di una valutazione razionale.
La verit pura e semplice e che sono salito sull'Everest pur sapendo di sbagliare, e cos facendo ho
contribuito alla morte di tante brave persone, cosa che probabilmente mi peser sulla coscienza per
molto, moltissimo tempo.
JON KRAKAUER
Seattle, novembre 1996
DRAMATIS PERSON
Rob Hall
prima guida
Mike Groom
Australia, guida
Helen Wilton
campo base
Caroline Mackenzie
campo base
Ang Tshering Sherpa
Arita Sherpa
Chuldum Sherpa
Chhongba Sherpa
Pemba Sherpa
Tendi Sherpa
Nepal, sguattero
Doug Hansen
USA, cliente
Yasuko Namba
Giappone, cliente
Stuart Hutchison
Canada, cliente
Frank Fischbeck
Lou Kasischke
USA, cliente
John Taske
Jon Krakauer
Susan Allen
Australia, trekker
Nancy Hutchison
Canada, trekker
Scott Fischer
Anatoli Boukreev
Neal Beidleman
Ingrid Hunt
Pemba Sherpa
USA, cliente
Charlotte Fox
USA, cliente
Tim Madsen
USA, cliente
Pete Schoening
USA, cliente
Klev Schoening
USA, cliente
Lene Gammelgaard
Martin Adams
Danimarca, cliente
USA, cliente
Dale Kruse
Jane Bromet
USA, giornalista
organizzatore e regista
cinematografico
Jamling Norgay Sherpa
e attore cinematografico
Ed Viesturs
cinematografico
Araceli Segarra
cinematografico
Sumiyo Tsuzuki
cinematografico
Robert Schauer
cinema
Paula Barton Viesturs
base
Audrey Salkeld
Liz Cohen
Liesl Clark
e scrittore
Chen Yu-Nan
Taiwan, scalatore
Ian Woodall
spedizione
Bruce Herrod
Cathy O'Dowd
Deshun Deysel
Edmund February
Sudafrica, alpinista
Andy de Klerk
Sudafrica, alpinista
Andy Hackland
Sudafrica, alpinista
Ken Woodall
Sudafrica, alpinista
Tierry Renard
Francia, alpinista
Ken Owen
Philip Woodall
campo base
Alexandrine Gaudin
Francia, assistente
amministrativa
Charlotte Noble
spedizione
Ken Vernon
Sudafrica, giornalista
Richard Shorey
Sudafrica, fotografo
Patrick Conroy
Nepal, sirdar
Jangbu Sherpa
Dawa Sherpa
Todd Burleson
Pete Athans
USA, guida
Jim Williams
USA, guida
Ken Kamler
spedizione
Charles Corfield
USA, cliente
Becky Johnston
Mal Duff
Mike Trueman
Michael Burns
campo base
Henrik Jessen Hansen
spedizione
Veikka Gustafsson
Finlandia, alpinista
Kim Sejberg
Danimarca, alpinista
Ginge Fullen
Jaakko Kurvinen
Euan Duncan
Henry Todd
Mark Pfetzer
USA, scalatore
Ray Door
USA, scalatore
Goran Kropp
Frederic Bloomquist
Ang Rita Sherpa
Svezia, scalatore
Svezia, regista cinematografico
Nepal, sherpa scalatore e
operatore cinematografico
Petter Neby
Norvegia, scalatore
Guy Cotter
e guida
Dave Hiddleston
e guida
Chris Jillet
e guida
Dan Mazur
USA, organizzatore
Jonathan Pratt
Scott Darsney
Chantal Mauduit
Stephen Koch
Francia, alpinista
USA, alpinista e appassionato di
snowboard
Brent Bishop
Diane Taliaferro
USA, alpinista
USA, alpinista
Dave Sharman
Tim Horvath
USA, alpinista
Dana Lynge
USA, alpinista
Martha Lynge
USA, alpinista
Nepal, organizzatore
Jim Litch
USA, medico
Larry Silver
USA, medico
Laura Ziemer
Mohindor Singh
India, organizzatore
Harbhajan Singh
Tsewang SmanIa
India, scalatore
Tsewang Paljor
India, scalatore
Dorje Morup
India, scalatore
Hira Ram
India, scalatore
Tashi Ram
India, scalatore
Sange Sherpa
Nadra Sherpa
Koshing Sherpa
KOJl Yada
Giappone, organizzatore
Hiroshi Hanada
Giappone, scalatore
Eisuke Shigekawa
Giappone, scalatore
Any Gyalzen
Si direbbe quasi che intorno alta parte superiore di quelle grandi cime sia stata tracciata una linea oltre la
quale nessun uomo riesce a spingersi. La verit, naturalmente, che ad altitudini di 7600 metri e oltre gli
effetti della bassa pressione atmosferica sul corpo umano sono cos intensi che diventa impossibile
compiere delle imprese alpinistiche di un certo rilievo e persino le conseguenze di un modesto temporale
possono essere letali, che solo le condizioni ideali del tempo e della neve offrono una sia pur minima
probabilit di successo e che nell'ultimo tratto della scalata nessuna spedizione in grado di dettare le sue
condizioni...
No, non strano che l'Everest non abbia ceduto ai primi tentativi di conquista; anzi, sarebbe stato
molto sorprendente e non poco triste se lo avesse fatto, perch non questo il volto che ci mostrano le
grandi montagne. Forse eravamo diventati un poco arroganti con la nostra nuova tecnica dei ramponi da
ghiaccio e degli scarponi di gomma, con la nostra era della facile conquista meccanica. Avevamo
dimenticato che sempre la montagna ad avere in mano la carta vincente, a concedere il successo solo a
suo tempo. E perch mai, altrimenti, l'alpinismo conserverebbe ancora il suo profondo fascino?
ERIC SHIPTON
Upon That Mountain(1938)
A cavalcioni del tetto del mondo, con un piede in Cina e l'altro in Nepal, ripulii la maschera dell'ossigeno
dal ghiaccio che vi si era condensato sopra e, sollevando una spalla per ripararmi dal vento, abbassai lo
sguardo inebetito sull'immensa distesa del Tibet. A un certo livello, con distacco, comprendevo che la
curvatura dell'orizzonte terrestre che s'inarcava ai miei piedi era uno spettacolo eccezionale. Avevo
fantasticato tanto, per mesi e mesi, su quel momento e sull'ondata di emozioni che lo avrebbe
accompagnato; e ora che finalmente ero l, in piedi sulla cima del monte Everest, semplicemente non
riuscivo a radunare energie sufficienti per concentrarmi.
Erano le prime ore del pomeriggio dellO maggio 1996 e non dormivo da cinquantasette ore. L'unico
cibo che ero riuscito a mandare gi nei tre giorni precedenti era una ciotola di minestra e una manciata di
M&M'S. Settimane e settimane di tosse violenta mi avevano lasciato lo strascico di due costole incrinate,
che trasformavano in unatortuta il semplice atto di respirare. A ottomila metri di quota nella troposfera, la
quantit di ossigeno che giungeva al mio cervello era cos ridotta che la mia capacit mentale era
diventata quella di un bambino ritardato. In quelle circostanze, ero incapace di provare granche, tranne
freddo e stanchezza.
Ero arrivato sulla cima qualche minuto dopo Anatoli Boukreev, una guida russa che lavorava per una
spedizione commerciale americana, e poco prima di Andy Harris, una guida della squadra neozelandese
a cui appartenevo. Mentre conoscevo appena Boukreev, avevo finito per conoscere bene e apprezzare
Harris durante le sei settimane precedenti. Scattai in fretta quattro fotografie a Harrise Boukreev in pose
eroiche sulla vetta, poi mi voltai per iniziare la discesa. L'orologio indicava l'una e diciassette del
pomeriggio. Tutto compreso, avevo trascorso meno di cinque minuti sul tetto del mondo. Un istante
dopo mi fermai per scattare un'altra fotografia, questa volta guardando in basso lungo la Cresta Sud-Est,
la via da cui eravamo saliti. Puntando l'obiettivo su un paio di scalatori che si avvicinavano alla vetta, notai
qualcosa che fino a quel momento era sfuggito alla mia attenzione. A sud, l dove il cielo fino a un'ora
prima era perfettamente limpido, una coltre di nubi nascondeva ora il Pumori, lAma Dablam e tutte le
altre vette minori che circondano l'Everest.
In seguito - dopo che erano stati localizzati sei cadaveri, dopo che erano state sospese le ricerche di altri
due scalatori, dopo che i chirurghi avevano amputato la mano destra del mio compagno di squadra Beck
Weathers, attaccata dalla cancrena - tutti si sarebbero chiesti come mai, quando le condizioni
meteorologiche avevano cominciato a peggiorare, gli alpinisti sulla parte superiore del tracciato non
avessero badato a quei segnali. Per quale motivo guide veterane dell'Himalaya avevano continuato a
salire, sospingendo in avanti una banda di dilettanti relativamente inesperti, ciascuno dei quali aveva
pagato fino a sessantacinquemila dollari per essere portato sano e salvo in cima allEverest, cacciandoli in
una trappola mortale cos evidente?
Nessuno pu parlare a nome delle guide dei due gruppi in questione, perch sono morte entrambe; ma
io posso testimoniare che nulla di ci che avevo visto nelle prime ore del pomeriggio di quel 10 maggio
suggeriva che si stesse addensando una tormenta micidiale. Alla mia mente deprivata di ossigeno, le
nuvole che aleggiavano lungo la grande vallata di ghiaccio nota come Western Cwm o Cwm occidentale
[2]sembravano innocue, soffici e inconsistenti. Sfavillanti al sole intenso di mezzogiorno, somigliavano in
tutto e per tutto a quegli innocui sbuffi di condensa causati dalla convezione che s'innalzavano dalla valle
quasi tutti i pomeriggi.
Mentre cominciavo la discesa ero molto in ansia, ma la mia preoccupazione aveva poco a che fare con
le condizioni atmosferiche: il controllo della valvola della mia bombola di ossigeno mi aveva rivelato che
era quasi vuota e dovevo scendere al pi presto.
Il tratto superiore della Cresta Sud-Est dell'Everest una sottile pinna di roccia e neve battuta dal vento,
percorsa da una massiccia cornice, che serpeggia per quattrocento metri tra la sommit e un'anticima pi
in basso nota col nome di Cima Sud. Percorrere quella stretta cresta non presenta gravi problemi tecnici,
ma si tratta di un percorso pericolosamente esposto. Dopo aver abbandonato la vetta, quindici minuti di
cauta discesa sul ciglio di un abisso profondo oltre duemila metri mi consentirono di raggiungere il
famigerato Hillary Step, un risalto piuttosto marcato nella cresta che richiede qualche manovra tecnica.
Mentre mi agganciavo a una corda fissa, preparandomi a calarmi dallo spuntone di roccia con la tecnica
della corda doppia, notai uno spettacolo allarmante.
Una decina di metri pi in basso, c'era oltre una dozzina di persone in fila alla base del risalto. Tre
scalatori si stavano gi issando in cima alla corda lungo la quale mi preparavo a scendere. Lunica scelta
che mi restava era sganciarmi dalla corda di sicurezza comune e farmi da parte.
Quell'ingorgo comprendeva scalatori che appartenevano a tre spedizioni diverse: la squadra della quale
facevo parte io, cio un gruppo di clienti paganti sotto il comando della celebre guida neozelandese Rob
Hall; un altro gruppo organizzato, guidato dall'americano Scott Fischer, e una spedizione non
commerciale di Taiwan. Salendo a passo di lumaca, l'andatura normale al di sopra dei
settemilanovecento metri, i numerosi scalatori risalirono uno alla volta lo Hillary Step, mentre io aspettavo
in ansia.
Ben presto Harris, che aveva lasciato la vetta poco dopo di me, mi raggiunse. Desideroso di conservare
tutto l'ossigeno che mi restava nella bombola, lo pregai di infilare la mano nel mio zaino per chiudere la
valvola del regolatore, e lui obbed. Nei dieci minuti seguenti mi sentii straordinariamente bene; la testa mi
si era schiarita e avevo l'impressione di essere meno stanco di quando avevo respirato l'ossigeno della
bombola. Poi all'improvviso mi parve di soffocare; la vista mi si oscur e fui assalito dalle vertigini. Ero
sul punto di perdere i sensi.
Invece di spegnere la valvola dell'ossigeno, Harris, anch'egli danneggiato dallo stato di ipossia, aveva per
errore aperto la valvola al massimo, vuotando del tutto la bombola. Avevo appena sprecato l'ultima
riserva di ossigeno che mi restava. C'era, un'altra bombola che mi aspettava alla Cima Sud, cento metri
pi in basso, ma per arrivarci sarei dovuto scendere attraversando il tratto di terreno pi scoperto di tutto
il percorso senza il beneficio dell'ossigeno supplementare.E prima dovevo aspettare che la folla si
disperdesse. Mi tolsi la maschera ormai inutile e, piantando la piccozza nel fianco ghiacciato della
montagna, mi accovacciai sulla cresta. Mentre scambiavo banali congratulazioni con gli scalatori che mi
sfilavano davanti, dentro di me ero frenetico: Presto, fate presto! pregavo in silenzio. Mentre voi altri
vi gingillate quass, io perdo neuroni a palate!
Quasi tutti quelli che mi passavano davanti appartenevano al gruppo di Fischer, ma verso la fine
comparvero due dei miei compagni, Rob Hall e Yasuko Namba. Timida e riservata, la quarantasettenne
Namba sarebbe diventata fra quaranta minuti la donna pi vecchia che avesse mai conquistato l'Everest e
la seconda giapponese che avesse scalato le cime pi alte di tutti i continenti, le cosiddette Sette Sorelle.
Bench pesasse appena quarantacinque chili, le sue proporzioni fragili nascondevano una forza di volont
formidabile; era impressionante vedere come Yasuko fosse stata sospinta verso la vetta dall'incrollabile
intensit del suo desiderio.
Ancora pi tardi, arriv in cima allo Step anche Doug Hansen, un altro membro della nostra spedizione.
Doug era un impiegato postale proveniente da un sobborgo di Seattle, che era diventato il mio migliore
amico su quella montagna. Ce l'hai fatta! gridai nel vento, cercando di mostrarmi pi entusiasta di
quanto fossi. Doug, esausto, mormor qualcosa che non afferrai dietro la maschera a ossigeno, mi strinse
I particolari esatti dell'avvenimento non sono chiari, offuscati ormai dall'accumularsi di dettagli
mitologici, ma l'anno era il 1852 e lo sfondo era la sede del Servizio geodetico dell'India, nella localit di
Dehra Dun, fra le colline del nord. Secondo la versione pi plausibile dell'accaduto, un impiegato fece
irruzione nello studio di sir Andrew Wough, ispettore generale per l'India, esclamando che un computer
bengalese di nome Radhanath Sikhdar, addetto ai rilevamenti per l'ufficio di Calcutta, aveva scoperto la
montagna pi alta del mondo. (Ai tempi di Wough, un computer era un contabile, non una macchina.)
La montagna in questione, denominata Peak xv dai rilevatori sul campo che tre anni prima ne avevano
misurato per primi l'altitudine con un teodolite da ventiquattro pollici, svettava sulla catena montuosa
dell'Himalaya, nel regno proibito del Nepal.
Prima che Sikhdar compilasse i dati del rilevamento ed effettuasse i calcoli, nessuno sospettava che
ci fosse qualcosa di notevole nel Peak xv. I sei punti di osservazione dai quali era stata individuata la
vetta grazie alla triangolazione si trovavano nel territorio settentrionale dell'India, a oltre centosessanta
chilometri dalla montagna. A coloro che avevano eseguito il rilevamento quasi tutta la massa dcl Peak xv
, tranne la sommit, era apparsa oscurata da varie pareti a picco di altezza variabile poste in primo piano,
alcune delle quali davano l'illusione di essere molto pi alte. Tuttavia secondo i meticolosi calcoli
trigonometrici di Sikhdar, che tenevano conto di fattori come la curvatura terrestre, la rifrazione
atmosferica e la deviazione dal filo a piombo, il Peak xv raggiungeva l'altezza di 8840 metri sopra il livello
del mare[3], il punto pi elevato del pianeta.
Nel 1865, nove anni dopo la conferma dei calcoli di Sikhdar, Wough assegn al Peak xv il nome
di monte Everest, in onore di sir George Everest, suo predecessore in quella carica. In realt i tibetani
che vivevano a nord della grande montagna l'avevano gi battezzata con un nome pi mellifluo,
Jomolungma, che tradotto significa Dea madre del mondo, mentre i nepalesi che vivevano a sud
chiamavano la vetta Sagarmata, cio Dea del cielo. Wough, per, decise volutamente di ignorare
quelle denominazioni indigene, nonch la politica ufficiale, che incitava alla conservazione di nomi locali o
antichi, e il nome che rimase defnitivamente in uso fu Everest.
Una volta accertato che l'Everest era il monte pi alto della Terra, era solo questione di tempo
prima che qualcuno decidesse che era necessario scalarlo. Dopo che l'esploratore americano Robert
Peary aveva sostenuto nel 1909 di aver raggiunto il Polo Nord e Roald Amundsen aveva guidato una
spedizione norvegese al Polo Sud nel 1911, l'Everest, ossia il cosiddetto terzo polo, divenne l'oggetto
pi desiderato nel regno dell'esplorazione terrestre. Raggiungerne la vetta, proclam Gunther O.
Dyrenfurth, influente alpinista e cronista dei primi tentativi di scalata dell'Hirnalaya, era un'impresa umana
a livello universale, una causa di fronte alla quale impossibile tirarsi indietro, quali che siano le perdite
che pu esigere.
Quelle perdite, come si vide poi, non sarebbero state insignifcanti. Dopo la scoperta di Sikhdar nel
1852, sarebbero stati necessari, oltre alla vita di ventiquattro uomini, gli sforzi di quindici spedizioni e
centouno anni, prima che la cima dell'Everest fosse finalmente raggiunta.
Fra gli alpinisti e gli altri conoscitori di forme geologiche, l'Everest non ritenuto una vetta
particolarmente attraente. E troppo tozzo nelle proporzioni, troppo largo di raggio, sbozzato in modo
troppo rozzo; ma ci che manca in fatto di grazia architettonica compensato dall'assoluta imponenza
della massa.
L'Everest, che delimita il confine fra Nepal e Tibet, svettando oltre 3650 metri pi in alto delle valli
che ne circondano la base, appare come una piramide a tre lati di ghiaccio scintillante e roccia scura e
striata. Le prime otto spedizioni sull'Everest erano inglesi, e tentarono tutte di scalare la montagna dal
versante settentrionale, cio quello tibetano; non tanto perch presentasse una debolezza evidente nelle
formidabili difese della vetta, quanto piuttosto perch nel 1921 il governo tibetano apr finalmente i confini
del paese, chiusi per lungo tempo agli stranieri, mentre il Nepal continu a restare risolutamente chiuso.
I primi scalatori dell'Everest erano costretti a percorrere a piedi quasi seicentocinquanta chilometri
da Darjeeling, attraversando l'altopiano tibetano, solo per giungere ai piedi della montagna. La loro
conoscenza degli effetti letali dell'altitudine estrema era scarsa e la loro attrezzatura era pateticamente
inadeguata in base ai criteri moderni. Eppure nel 1924 uno dei membri della terza spedizione inglese,
Edward Felix Norton, raggiunse laltezza di oltre 8570 metri, appena trecento al di sotto della vetta,
prima di essere sconfitto dalla stanchezza e dalla cecit causata dalla neve. Fu un'impresa straordinaria,
che probabilmente non stata superata da nessuno per ventinove anni.
Dico probabilmente a causa di quello che accadde quattro giorni dopo l'assalto alla vetta di
Norton. Alle prime luci dell'alba dell'8 giugno, altri due membri della squadra inglese del 1924, George
Leigh Mallory e Andrew Irvine, partirono dal campo pi in alto per raggiungere la vetta.
Mallory, il cui nome legato in modo inestricabile all'Everest, era la forza propulsiva che aveva
spinto verso la vetta le prime tre spedizioni. Durante un giro di conferenze attraverso gli Stati Uniti, era
stato lui a dare quella celebre risposta: Perch esiste, quando un giornalista irritante gli aveva chiesto
per quale motivo voleva scalare l'Everest. Nel 1924 Mallory aveva 38 anni; era un maestro di scuola
sposato, con tre bambini piccoli. Tipico prodotto delle classi superiori della societ inglese, era anche un
esteta e un idealista, con una spiccata sensibilit romantica. La sua grazia atletica, il suo fascino mondano
e la sua straordinaria bellezza fisica lo avevano reso un favorito di Lytton Strachey e del circolo di
Bloomsbury, al quale apparteneva Virginia Woolf. Mentre erano accampati sulle pendici dell'Everest,
Mallory e i suoi compagni leggevano a voce alta passi dell'Amleto e del Re Lear.
Mentre Mallory e Irvine avanzavano lentamente verso la cima dell'Everest, raggiungendola l8
giugno 1924, la parte superiore della piramide fu avvolta dalla nebbia, che imped ai compagni pi in
basso di seguire i progressi dei due scalatori. Alle 12.50 le nubi si diradarono per un attimo e il loro
compagno Noel Odell intravide per un istante, ma nitidamente, Mallory e Irvine prossimi a raggiungere la
cima, con circa cinque ore di ritardo sulla tabella oraria, ma mentre avanzavano speditamente e
deliberatamente verso la vetta.
Tuttavia quella sera i due scalatori non tornarono alla tenda e nessuno li rivide mai pi. Se uno di
loro o entrambi abbiano raggiunto la cima prima di essere inghiottiti dalla montagna e di entrare nella
leggenda da allora motivo di accanite discussioni. Il bilancio delle prove suggerisce di no; in ogni caso,
in mancanza di elementi tangibili, la loro vittoria non stata riconosciuta.
Nel 1949, dopo secoli di inacessibilit, il Nepal apr i confni al mondo esterno, un anno prima che il
nuovo regime comunista in Cina proibisse il Tibet agli stranieri. Coloro che intendevano scalare l'Everest
dovettero quindi spostare le loro attenzioni sul versante meridionale della montagna. Nella primavera del
1953 una grossa spedizione inglese, organizzata con lo zelo e la ricchezza di risorse di una campagna
militare, divenne la terza spedizione che tent di raggiungere l'Everest dal Nepal. E il 28 maggio, dopo
due mesi e mezzo di sforzi prodigiosi, si riusc a porre un campo sulla Cresta Sud-Est, a circa
ottomilacinquecento metri di altitudine. La mattina dopo di buon'ora Edmund Hillary, un atletico
neozelandese, e Tenzing Norgay, uno sherpa estremamente abile, si avviarono verso la vetta respirando
dalle bombole di ossigeno.
Alle nove di mattina si trovavano sulla Cima Sud e guardavano oltre la cresta stretta che conduceva alla
cima vera e propria. Un'ora dopo erano ai piedi di quello che Hillary defin l'ostacolo pi formidabile
sulla cresta: un risalto di roccia alto circa dodici metri. La roccia in s, liscia e quasi priva di appigli,
sarebbe stata un problema interessante da risolvere una domenica pomeriggio per un gruppo di esperti
scalatori nel Lake District, ma l rappresentava una barriera insormontabile per le nostre forze ormai allo
stremo.
Mentre Tenzing dal basso mollava nervosamente la corda, Hillary s'incune in una fessura tra la fortezza
di roccia e un appicco di neve verticale alla sua estremit, poi incominci a salire, un centimetro dopo
l'altro, su quello che in seguito sarebbe diventato celebre come Hillary Step, cio il gradino di Hillary.
La scalata era faticosa e rischiosa, ma Hillary insistette finch, come scrisse in seguito:
Riuscii finalmente a issarmi sulla sommit della roccia, uscendo dalla fessura e sbucando su un'ampia
cengia rocciosa. Per alcuni secondi restai disteso a riprendere fiato e per la pnma volta sentii veramente
che ormai nulla avrebbe potuto impedirci di raggiungere la vetta. Poi mi alzai, piantando saldamente i
piedi sulla cengia, per fare segno a Tenzing di salire. Mentre tendevo la corda con vigore, Tenzing riusc a
risalire la fessura e infine si accasci esausto in cima, come un pesce gigante appena tirato fuori dal mare
dopo una lotta terribile.
Sforzandosi di combattere la stanchezza, i due scalatori continuarono a risalire la cresta sinuosa verso la
cima. Hillary si chiese
ottusamente se avremmo avuto la forza di arrivare fino in fondo. Superata un'altra gobba, vidi che la
cresta davanti a noi cominciava ascendere e in lontananza si scorgeva il Tibet. Alzai la testa e l, sopra di
noi, c'era un cono rotondo di neve. Alcuni colpi di piccozza, alcuni passi cauti e Tensing [sic] e io
arrivammo in cima.
E cos, poco dopo mezzogiorno del 29 maggio 1953, Hillary e Tenzing divennero i primi uomini al
mondo che avessero scalato il monte Everest.
Tre giorni dopo, la notizia della scalata giunse alla regina Elisabetta, alla vigilia dell'incoronazione e il
Times di Londra lo annunci la mattina del 2 giugno, nella prima edizione. L'informazione era stata
trasmessa dall'Everest grazie a un messaggio radio in codice (per impedire ai concorrenti di battere sul
tempo ilTimes ) da un giovane corrispondente di nome James Morris che, vent'anni dopo, quando ormai
aveva ottenuto una notevole fama come scrittore, sarebbe diventato famoso per aver cambiato sesso
scegliendo il nome femminile di Jan. Come scrisse Morris, quarant'anni dopo la storica scalata, in
Coronation Everest: The First Ascent and the Scoop That Crowned the Queen :
Oggi difficile immaginare la gioia quasi mistica con la quale fu accolta in Inghilterra la coincidenza fra i
due avvenimenti [l'incoronazione e la scalata dell'Everest]. Gli inglesi, che si stavano appena riprendendo
dall'austerit che li affliggeva fin dalla seconda guerra mondiale, ma al tempo stesso dovevano
fronteggiare la perdita di un grande impero e l'inevitabile declino del loro potere nel mondo, si erano
quasi convinti che l'ascesa al trono della giovane regina fosse il segno di un nuovo inizio, di una nuova
epoca elisabettiana, come amano definirla i giornali. Il giorno dell'incoronazione, 2 giugno 1953, doveva
essere una giornata che simboleggiava la speranza e la gioia, in cui avrebbero trovato la loro suprema
espressione tutti i sentimenti di lealt patriottica degli inglesi; e meraviglia delle meraviglie, proprio quel
giorno arriv da un luogo remoto, anzi dai confini dell'antico impero, la notizia che una squadra di alpinisti
britannici... aveva raggiunto il supremo obiettivo che ancora restava da conquistare sulla terra
all'esplorazione e all'avventura, il tetto del mondo...
Il momento suscit fra gli inglesi una vasta gamma di emozioni intense: orgoglio, patriottismo, nostalgia
per il passato ormai perduto della guerra e dell'audacia, speranza in un futuro rinnovato. La gente di una
certa et serba un ricordo nitido di quel momento in cui, mentre aspettava che il corteo dell'incoronazione
attraversasse Londra sotto la pioggerella di quella mattina di giugno, ud la magica notizia che la vetta pi
alta del mondo era diventata, per cos dire, loro.
Tenzing divenne un eroe nazionale in India, nel Nepal e nel Tibet, ciascuno dei quali ne rivendicava le
origini. Nominato baronetto dalla regina, sir Edmund Hillary vide la sua effigie ritratta su francobolli,
vignette umoristiche, libri, film, copertine di riviste: nel giro di una notte, quell'apicoltore di Auckland dal
viso tagliato con l'accetta si era trasformato in uno degli uomini pi famosi della Terra.
Hillary e Tenzing scalarono l'Everest un mese prima che fossi concepito, quindi non ho partecipato al
senso collettivo di orgoglio e di meraviglia che pervase il mondo; un evento che secondo un amico pi
anziano sarebbe stato paragonabile, in termini di impatto emotivo viscerale, a quello del primo sbarco
sulla luna. Dieci anni dopo, tuttavia, un'altra scalata dell'Everest contribu a segnare il corso della mia vita.
Il 22 maggio 1963, Tom Hornbein, un medico trentaduenne originario del Missouri, e Willi Unsoeld,
trentasei anni, professore di teologia dell'Oregon, raggiunsero la cima dell'Everest seguendo l'ardua
Cresta Ovest, fino a quel momento rimasta inviolata. Ormai la vetta era stata conquistata in quattro
occasioni da undici uomini in tutto, ma la Cresta Ovest presentava difficolt notevolmente superiori alle
altre due vie aperte in precedenza, quella per il Colle Sud e la Cresta Sud-Est e quella lungo il Colle
Nord e la Cresta Nord-Est. La scalata di Hornbein e Unsoeld fu meritatamente accolta come una delle
grandi imprese negli annali dellalpinismo, e lo tuttora.
Verso la fine della giornata che li vide sferrare l'assalto finale alla vetta, i due americani superarono uno
strato di roccia ripida e friabile, la famigerata Fascia Gialla. Superare quella parete richiedeva una
straordinaria forza e abilit; fino a quel momento non era stata mai scalata una parete cos impegnativa sul
piano tecnico a un'altitudine cos estrema. Una volta superata la Fascia Gialla, Hornbein e Unsoeld
dubitarono di riuscire a tornare indietro da quella parte senza danni. La loro speranza di ridiscendere vivi
dalla montagna, conclusero, era superare la vetta e scendere dalla ben nota via della Cresta Sud-Est, un
piano estremamente audace, tenuto conto dell'ora, del terreno sconosciuto e della riserva di ossigeno
nelle bombole che diminuiva a vista d'occhio.
Hornbein e Unsoeld raggiunsero la cima alle sei e un quarto del pomeriggio, proprio al tramonto del
sole, e furono costretti a trascorrere la notte all'addiaccio a 8530 metri, a quell'epoca il bivacco pi alto
della storia. Era una notte fredda ma, grazie al cielo, senza vento. Anche se le dita dei piedi di Unsoeld si
congelarono, e in seguito furono amputate, i due sopravvissero per riferire la loro esperienza.
A quell'epoca avevo nove anni e vivevo a Cornwallis, nell'Oregon, la stessa citt di Unsoeld, che era
amico intimo di mio padre; a volte giocavo con i suoi figli maggiori, Regon, che aveva un anno pi di me,
e Devi, che ne aveva uno di meno. Qualche mese prima della partenza di Willi Unsoeld per il Nepal,
scalai per la prima volta una montagna, un vulcano tutt'altro che spettacolare alto 2750 metri nella catena
montuosa del Cascade Range (la vetta ora raggiungibile con una seggiovia), in compagnia di mio padre,
di Willi e di Regon. Non c' da stupirsi se le cronache dell'epica scalata dell'Everest suscitarono un'eco
lunga e intensa nella mia fantasia di preadolescente. Mentre i miei amici idolatravano John Glenn, Sandy
Koufax e Johnny Unitas, i miei eroi erano Hornbein e Unsoeld.
In segreto sognavo di scalare anch'io l'Everest, un giorno, e per oltre un decennio rimase un'ambizione
bruciante. Quando raggiunsi la ventina, l'alpinismo era diventato il centro focale della mia esistenza e
aveva escluso ogni altro interesse. Raggiungere la vetta di una montagna era un'esperienza tangibile,
immutabile, concreta. I rischi insiti in questa attivit le conferivano una seriet di intenti che era
dolorosamente latitante nel resto della mia vita. Ero eccitato dalla prospettiva inedita che scaturisce dal
capovolgimento del piano ordinario dell'esistenza.
E poi l'alpinismo mi offriva anche la sensazione di appartenere a una comunit. Diventare alpinista
significava entrare a far parte di una societ chiusa, furiosamente idealistica, in gran parte ignorata e
sorprendentemente incontaminata dal mondo esterno. La cultura dell'ascesa era caratterizzata da un
intenso spirito di competizione e da un machismo allo stato puro, ma per lo pi i suoi adepti si
preoccupavano di impressionarsi a vicenda. La conquista della vetta di una certa montagna era ritenuta
meno importante dd modo in cui avveniva la conquista; il prestigio si guadagnava affrontando le vie pi
proibitive con un'attrezzatura ridotta al minimo, nello stile pi audace che si potesse immaginare. Nessuno
era pi ammirato dei cosiddetti arrampicatori solitari, visionari che scalavano da soli, senza corda n
attrezzi.
In quegli anni vivevo per l'alpinismo, arrangiandomi per campare con cinque o seimila dollari l'anno,
lavorando come
carpentiere e pescatore di salmoni per un'impresa commerciale solo quanto bastava per finanziare un
viaggio sui monti Teton, o sullAlaska Range, o in capo al mondo. Ma a un certo punto, intorno ai
venticinque anni, rinunciai alla fantasia adolescenziale di scalare l'Everest. A quell'epoca fra gli esperti di
alpinismo era diventato di moda denigrare l'Everest definendolo una montagnola di sfasciumi, cio una
vetta che non presentava sufficienti difficolt tecniche o fascino estetico per essere un obiettivo degno di
uno scalatore serio, ideale al quale aspiravo disperatamente. Cominciai a guardare dall'alto in basso la
montagna pi alta del mondo.
Un simile snobismo era fondato sul fatto che al principio degli anni Ottanta la via pi facile per scalare
l'Everest - lungo il Colle Sud e la Cresta Sud-Est - era stata percorsa pi di cento volte. I miei colleghi e
io l'avevamo soprannominata la via degli yak. Il nostro disprezzo non fece che consolidarsi nel 1985,
quando Dick Bass, un ricco texano di cinquantacinque anni con una limitata esperienza di scalate, fu
accompagnato in cima all'Everest da uno straordinario giovane alpinista che si chiamava David
Breashears, e l'avvenimento fu accompagnato da un turbine di interesse del tutto acritico da parte dei
media.
Fino a quel momento l'Everest era stato quasi esclusivamente dominio dell'elite dell'alpinismo. Per usare
le parole di Michad Kennedy, direttore del periodico specializzato Climbing: L'invito a far parte di una
spedizione sull'Everest era un onore che ci si guadagnava dopo avere compiuto un lungo apprendistato su
vette pi modeste, e la conquista effettiva della cima innalzava uno scalatore all'empireo dell'alpinismo.
La scalata di Bass cambi tutto questo. Conquistando l'Everest, egli divenne il primo uomo che avesse
scalato tutte le Sette Sorelle[4], impresa che lo rese noto in tutto il mondo e che pungol uno sciame di
scalatori della domenica a seguire le sue orme e catapult brutalmente l'Everest nell'era postmodema.
Per i tipi di mezza et come me, Dick Bass stato una fonte di ispirazione, dichiar Seabom Beck
Walters con la sua marcata cadenza del Texas orientale durante la marcia di avvicinamento al campo
base dell'Everest, nello scorso aprile. Beck, un patologo quarantanovenne di Dallas, era uno degli otto
clienti della spedizione guidata di Rob Hall del 1996. Bass ha dimostrato che l'Everest rientra nelle
possibilit di una persona normale. Ammesso che tu sia discretamente in forma e abbia qualche soldo da
buttar via, sono del parere che probabilmente l'ostacolo principale sia sottrarre dd tempo al lavoro e
lasciare la famiglia per due mesi.
Per numerosissirni scalatori, come dimostrano le statistiche, l'ostacolo insormontabile non tanto
sottrarre del tempo alla morsa della routine quotidiana, quanto il pesante esborso di denaro. Nell'ultimo
decennio, il traffico su tutte le Sette Sorelle, ma in particolare sull'Everest, si moltiplicato a un ritmo
impressionante. E per soddisfare la domanda, il numero di imprese commerciali che vendono ascensioni
guidate alle Sette Sorelle, in particolare all'Everest, si moltiplicato in misura corrispondente. Nella
primavera del 1996 ben trenta spedizioni diverse risalivano le pendici dell'Everest, e almeno dieci di esse
erano organizzate come imprese commerciali.
Il governo del Nepal dovette riconoscere che l'affollamento sull'Everest creava seri problemi in termini di
sicurezza, estetica e impatto sull'ambiente. Affrontando il problema, i ministri nepalesi escogitarono una
soluzione che sembrava racchiudere in s la duplice promessa di limitare il numero degli aspiranti
scalatori, pur aumentando lafflusso di valuta nelle casse nazionali piuttosto impoverite: l'aumento delle
tariffe per l'autorizzazione alle scalate. Nel 1991 il ministero per il Turismo richiedeva duemilatrecento
dollari per il permesso che consentiva a una squadra composta da un numero qualsiasi di alpinisti di
tentare la conquista dell'Everest; nel 1992 il prezzo sal a diecimila dollari per una squadra che
comprendesse fino a nove componenti, e altri milleduecento dollari per ogni scalatore in pi. Eppure gli
alpinisti continuarono ad accorrere a frotte sull'Everest, nonostante l'aumento delle tariffe. Nella
primavera del 1993, anno in cui cadeva il quarantesimo anniversario della prima scalata, un numero
record di spedizioni, quindici, per un totale di duecentonovantaquattro alpinisti, tent la scalata della vetta
dal versante nepalese. Quell'autunno il ministero aument ancora la tariffa per l'autorizzazione, fino a
raggiungere la cifra impressionante di cinquantamila dollari fino a cinque scalatori, pi altri diecimila per
ogni ulteriore alpinista, fino a un massimo di sette. Inoltre il governo decret che non sarebbero state
autorizzate pi di quattro spedizioni sui versanti nepalesi per ogni stagione.
Quello che i ministri nepalesi non avevano preso in considerazione, per, era che la Cina chiedeva solo
quindicimila dollari per autorizzare una squadra a scalare la montagna dal Tibet, qualunque fosse il
numero dei componenti, e non poneva limiti al numero di spedizioni per ogni stagione. Dunque il flusso di
scalatori dell'Everest si spost dal Nepal al Tibet, lasciando senza lavoro centinaia di sherpa. Le
conseguenti proteste indussero il Nepal ad annullare, nella primavera del 1996, il limite delle quattro
spedizioni. E gi che c'erano, i ministri aumentarono di nuovo il prezzo dell'autorizzazione, portandolo
stavolta a settantamila dollari per sette alpinisti, pi altri diecimila a testa per ogni componente in pi. A
giudicare dal fatto che la primavera scorsa sedici delle trenta spedizioni dirette sull'Everest salivano dal
versante nepalese della montagna, pare che l'alto costo del permesso non rappresenti un deterrente
efficace.
Anche prima del disastroso esito delle scalate nella stagione premonsonica del 1996, la proliferazione
delle spedizioni commerciali nell'ultimo decennio era una questione spinosa. I tradizionalisti erano offesi
dal fatto che la cima pi alta del mondo fosse venduta a ricchi parvenu, alcuni dei quali, senza l'ausilio
delle guide, probabilmente avrebbero incontrato delle difficolt anche a scalare la vetta di una cima
modesta come il monte Rainier. LEverest, sbuffavano i puristi, era stato svilito e profanato.
Questi critici facevano inoltre notare che, grazie alla commercializzazione dell'Everest, la cima un tempo
venerata era stata trascinata nel fango della giurisprudenza americana. Dopo aver pagato somme
principesche per essere scortati in cima all'Everest, alcuni alpinisti avevano denunciato le loro guide
quando l'obiettivo era sfumato. Ogni tanto capita un cliente che pensa di aver comprato un biglietto
garantito per la vetta, si lamenta Peter Athans, una guida molto rispettata che ha condotto sull'Everest
dieci spedizioni raggiungendo la cima quattro volte. C' gente che non capisce che una spedizione
sull'Everest non si pu guidare come un treno svizzero.
Purtroppo non tutte le cause legate all'Everest sono prive di fondamento. Pi di una volta, imprese inette
o disoneste non sono state in grado di fornire l'essenziale supporto logistico promesso, come per
esempio l'ossigeno. In alcune spedizioni le guide sono salite fino alla vetta senza condurre con s i clienti
paganti, inducendoli a concludere amareggiati che erano stati portati fin l solo per pagare il conto. Nel
1995, il capo di una spedizione commerciale si dilegu con decine di migliaia di dollari dei suoi clienti
prima ancora che la spedizione prendesse il via.
Nel marzo del 1995 ricevetti una telefonata dall'editore. della rivistaOutside , che mi proponeva di
unirmi a una spedizione guidata sull'Everest che doveva partire di l a cinque giorni, con l'incarico di
scrivere un articolo sulla proliferazione delle imprese commerciali che sfruttano la montagna e sulle
relative controversie. L'intento della rivista non era di farmi scalare la montagna; gli editori volevano
semplicemente che restassi al campo base e riferissi la storia dal Ghiacciaio orientale di Rongbuck, ai
piedi del versante tibetano dell'Everest. Presi in esame la domanda con seriet, al punto da prenotare un
volo e fare le vaccinazioni necessarie, poi mi tirai indietro all'ultimo momento.
Considerato il disprezzo che avevo espresso nei confronti dell'Everest nel corso degli anni, si sarebbe
potuto ragionevolmente presumere che rifiutassi per motivi di principio. In realt, l'invito diOutside aveva
inaspettatamente ridestato un desiderio intenso che era rimasto sepolto da tempo. Rifiutai l'incarico solo
perch pensavo che trascorrere due mesi all'ombra dell'Everest senza salire pi in alto del campo base
sarebbe stata una frustrazione intollerabile. Se dovevo andare all'altro capo del mondo e trascorrere otto
settimane lontano da mia moglie e dalla mia casa, volevo avere l'opportunit di scalare la montagna.
Domandai a Mark Bryant, direttore diOutside , se poteva prendere in considerazione l'idea di rinviare
l'incarico di dodici mesi (che mi avrebbero dato il tempo per allenarmi adeguatamente in modo da poter
affrontare le fatiche fisiche della spedizione). Inoltre m'informai se la rivista sarebbe stata disposta a
prenotarmi i servigi di una delle guide pi stimate, nonch ad accollarsi la relativa spesa di
sessantacinquemila dollari, consentendomi cos di raggiungere davvero la vetta. Per la verit non mi
aspettavo che accettasse il progetto; nei quindici anni precedenti avevo scritto oltre sessanta pezzi per
Outside , ma di rado il budget di viaggio previsto per una di quelle missioni aveva superato i due o
tremila dollari.
Bryant mi ritelefon il giorno seguente, dopo che si era consultato con l'editore diOutside , dicendomi
che la rivista non era disposta a sborsare sessantamila dollari, ma lui e gli altri editori erano convinti che la
commercializzazione dell'Everest fosse una storia importante. Se le mie intenzioni di scalare la montagna
erano serie, insistette,Outside avrebbe escogitato un modo per realizzare il progetto.
Durante i trentatr anni nei quali mi ero considerato un alpinista, avevo intrapreso dei progetti difficili. In
Alaska avevo aperto una via nuova e ardua per il Mooses Tooth e realizzato una scalata solitaria del
Devil's Thumb che aveva richiesto tre settimane di isolamento su una remota placca di ghiaccio. Avevo
compiuto una discreta serie di scalate di alpinismo estremo su ghiaccio in Canada e nel Colorado. Presso
l'estremit meridionale del Sudamerica, dove i venti spazzano la terra come la scopa di Dio -la escoba
de Dios , come dicono gli abitanti del posto - avevo scalato una spaventosa guglia verticale di granito a
strapiombo alta milleseicento metri, chiamata Cerro Torre; sferzata da venti che corrono alla velocit di
cento nodi, ricoperta da una glassa di ghiaccio friabile, era ritenuta un tempo (anche se ora non pi) la
montagna pi difficile del mondo.
Quelle avventure, per, risalivano a qualche anno prima, in certi casi addirittura decenni, quando avevo
poco pi di venti o trent'anni. Ormai ne avevo quarantuno, avevo superato da tempo il momento di grazia
per lalpinismo, e avevo la barba brizzolata, le gengive in cattive condizioni e sette chili di troppo
accumulati intorno alla vita. Ero sposato con una donna che amavo follemente, e che mi ricambiava. Ora
che avevo imbroccato una carriera accettabile, per la prima volta in vita mia vivevo al di sopra della
soglia di povert. La mia faMe di scalate era stata smorzata, in breve, da un insieme di piccole
soddisfazioni che, sommate, formavano qualcosa di simile alla felicit.
Inoltre nessuna delle scalate che avevo compiuto in passato mi aveva portato al di sopra di un'altitudine
modesta. In tutta sincerit, non mi ero mai spinto oltre i 5300 metri, una quota inferiore persino a quella
del campo base dell'Everest.
Da avido studioso della storia dell'alpinismo, sapevo che L'Everest aveva ucciso pi di centotrenta
persone dalla prima spedizione di ricognizione britannica del 1921 - all'incirca un morto ogni quattro
scalatori che avevano raggiunto la vetta - e che molti di coloro che erano morti erano pi forti di me e in
possesso di un'esperienza in alta quota infinitamente superiore alla mia. Ma i sogni dell'infanzia sono duri
a morire, avevo scoperto, e al diavolo il buonsenso.
Alla fine di febbraio del 1996, Bryantmi chiam per informarmi che c'era un posto in attesa per me nella
prossima spedizione di Rob Hall sull'Everest. Quando mi domand se ero sicuro di voler andare fino in
fondo, risposi di s senza neanche riprendere fiato.
Prendendo bruscamente la parola, raccontai loro una parabola. Quello di cui parlo, dissi, il pianeta
Nettuno, non il solito, banale Nettuno, non il Paradiso, perch si d il caso che io non sappia granch del
Paradiso. Dunque vedete che si tratta di voi e nientaltro, solo di voi. Ora, c' un gran pezzo di roccia,
lass, dissi, e devo avvertirvi che gli abitanti di Nettuno sono piuttosto stupidi, soprattutto perch sono
vissuti ciascuno nel proprio bozzolo, E alcuni di loro, quelli che avevo voluto nominare in particolare,
alcuni di loro erano pronti a tutto per quella montagna. Non ci credereste, aggiunsi, questione di vita o di
morte, prendere o lasciare, ma questa gente aveva preso l'abitudine di dedicare tutto il tempo libero e le
energie a sospingere le nubi della propria gloria su e gi per tutte le pareti pi ripide del distretto, E
tornavano tutti esaltati: dal primo all'ultimo, E tanto meglio cos: dissi, perch era divertente che anche su
Nettuno preferissero per lo pi arrampicarsi senza rischi sulle pareti pi facili. Comunque era esaltante, e
gli efftti erano visibili tanto dalla loro espressione risoluta quanto dalla gratificazione che illuminava i loro
occhi. E poi, come avevo fatto notare, questo accadeva su Nettuno, non in Paradiso, dove pu darsi che
non ci sia altro da fare.
Due ore dopo il decollo del volo 311 della Thai Air da Bangkok a Kathmandu, mi alzai dal mio
posto per dirigermi verso la coda dell'apparecchio. Vicino alla fila di toilette sul lato di tribordo, mi
accovacciai per scrutare attraverso un finestrino all'altezza della cintola, nella speranza di intravedere le
montagne. Non restai deluso: laggi all'orizzonte si stagliavano nel cielo gli incisivi aguzzi dell'Himalaya.
Rimasi al finestrino per tutto il resto del volo, in trance, accovacciato su un sacco di plastica pieno di
rifiuti, lattine vuote di acqua tonica e pasti consumati a met, con il viso schiacciato contro il plexiglas
freddo.
Riconobbi subito l'enorme mole massiccia del Kangchenjunga, la terza vetta del mondo in ordine di
altezza con i suoi 8586 metri sopra il livello del mare. Un quartro dora dopo avvistai il Makalu, la quinta
vetta del mondo, e poi, finalmente, il profilo inconfondibile dellEverest.
Il cuneo nero come linchiostro della piramide superiore si stagliava contro il cielo quasi in rilievo,
dominando dall'alto i monti circostanti. Proiettandosi verso l'alto con la corrente a getto, la montagna
apriva uno squarcio visibile nell'uragano che soffiava alla velocit di 120 nodi, sprigionando un
pennacchio di cristalli di ghiaccio che si allungava a oriente come una lunga sciarpa di seta svolazzante.
Mentre fissavo quella scia di condensazione nel cielo, mi venne in mente che la cima dell'Everest si
trovava esattamente alla stessa altezza del jet pressurizzato che mi trasportava attraverso il cielo. L'idea
che mi accingevo a salire fino alla quota di crociera di un Airbus 300 mi sembr in quel momento
assurda, o peggio. Avevo il palmo delle mani umido di sudore.
Quaranta minuti dopo atterravo a Kathmandu. Mentre entravo nell'atrio dell'aeroporto dopo aver
superato la dogana, un giovanottone dall'ossatura massiccia, rasato di fresco, not le due enormi sacche
di tela che portavo con me e si avvicin. Dunque lei sarebbe Jon? mi domand con un melodioso
accento neozelandese, dando unocchiata a un foglio con la fotocopia delle foto dei passaporti che
ritraevano i clienti di Rob Hall. Stringendomi la mano si present, dicendo di essere Andy Harris, una
delle guide di Hall, venuta per accompagnarmi in albergo.
Harris, che aveva trentun anni, spieg che con lo stesso volo da Bangkok doveva arrivare un altro
cliente, un avvocato di cinquantatr anni che veniva da Bloomfield Hills, nel Michigan, e si chiamava Lou
Kasischke. Fin che dovemmo aspettare unora prima che Kasischke recuperasse i bagagli, cos durante
l'attesa Andy e io ci scambiammo le nostre impressioni su alcune difficili scalate alle quali eravamo
sopravvissuti nel Canada occidentale e discutemmo sui meriti dello sci rispetto allo snowboard. La
passione evidente di Andy per le scalate, il suo entusiasmo puro per le montagne, mi fecero provare una
certa nostalgia per il periodo in cui le scalate erano per me l'aspetto pi importante della vita, in cui
tracciavo il corso della mia esistenza in relazione alle montagne che avevo scalato e a quelle che speravo
di scalare un giorno.
Un attimo prima che Kasischke, un uomo alto e atletico con i capelli argentei e unaria di aristocratico
distacco, si staccasse dalla fila della dogana, domandai a Andy quante volte avesse scalato l'Everest.
Per la verit, confess tutto allegro, anche per me sar la prima volta, come per lei. Sar interessante
vedere come riuscir a cavarmela lass.
Hall ci aveva prenotato delle stanze al Garuda Hotel, un albergo bizzarro ma cordiale nel cuore di
Thamel, il frenetico quartiere turistico di Kathmandu, affacciato su una stradina stretta intasata di risci a
pedali e prostitute. poich gi da tempo era popolare presso le spedizioni dirette sull'Himalaya, il Garuda
aveva le pareti ricoperte di fotografie autografate dei celebri alpinisti che vi avevano soggiornato nel
corso degli anni: Reinhold Messner, Peter Habeler, Kitty Kalhoun, John Roskelley, Jeff Lowe. Salendo
le scale per raggiungere la mia stanza passai davanti a un grande poster a colori intitolato Trilogia
himalayana, che raffigurava l'Everest, il K2 e il Lhotse, rispettivamente la prima, la seconda e la quarta
vetta pi alta del mondo. Alle immagini di quelle cime, il poster sovrapponeva il volto di un uomo barbuto
e sorridente in pieno assetto di scalata. Una didascalia identificava lo scalatore come Rob Hall; il
manifesto, destinato a pubblicizzare l'attivit della compagnia di Hall, la Adventure Consultants, ricordava
l'impresa straordinaria da lui compiuta nel 1994, la scalata di tutt'e tre le vette nel giro di due mesi.
Un'ora dopo incontrai Hall in carne e ossa. Era alto un popi di un metro e ottantacinque ed era magro
come uno stecco. Il suo viso aveva qualcosa di angelico, ma dimostrava pi dei trentacinque anni che
aveva, forse per via delle rughe profonde incise all'angolo degli occhi o dell'aria di autorit che emanava.
Indossava una camicia hawaiana e un paio di Levi's sbiaditi con una toppa sul ginocchio che portava
ricamato il simbolo yin-yang. Sulla fronte gli ondeggiava una massa ribelle di capelli castani e la barba
cespugliosa aveva bisogno di una buona regolata.
Socievole per natura, Hall si rivel un abile narratore, ricco di quell'umorismo caustico tipico dei
neozelandesi. Lanciandosi in un lungo racconto che riguardava un turista francese, un monaco buddhista
e uno yak particolarmente irsuto, Hall pronunci la battuta finale con una strizzatina d'occhio maliziosa,
attese un secondo per l'effetto, poi rovesci la testa all'indietro in una risata tonante e contagiosa, non
riuscendo a contenere l'entusiasmo per il suo stesso racconto. Provai subito simpatia per lui.
Hall era nato in una famiglia operaia cattolica di Christchurch, in Nuova Zelanda, ed era il minore di nove
figli. Bench dotato di un'intelligenza pronta e versata nelle materie scientifiche, a quindici anni aveva
lasciato la scuola dopo uno scontro con un professore particolarmente autoritario e nel 1976 aveva
cominciato a lavorare per l'Alp Sports, una ditta locale che produceva attrezzature per le scalate.
Cominci col fare lavoretti qua e l, azionando la macchina da cucire e roba del genere, ricorda Bill
Atkinson, ora abile scalatore e guida, che a quell'epoca lavorava anche lui per l'Alp Sports. Ma grazie
alle impressionanti capacit organizzative di Rob, che erano evidenti anche a soli sedici o diciassette anni,
ben presto si ritrov a dirigere tutto il settore produttivo della compagnia.
Da qualche anno Hall era diventato un appassionato escursionista; nello stesso periodo in cui aveva
incominciato a lavorare per lAlp Sports, aveva preso anche lezioni di arrampicata sulla roccia e sul
ghiaccio. Apprendeva in fretta, osserva Atkinson, diventato uno dei compagni pi assidui di Hall nelle
scalate, ed era in grado di assimilare capacit e attitudini da chiunque.
Nel 1980, a diciannove anni, Hall si un a una spedizione che doveva scalare la difficile cresta
settentrionale dellAma Dablam, una cima di incomparabile bellezza alta 6856 metri, posta diciotto
chilometri a sud dell'Everest. Durante quel viaggio, il primo sull'Himalaya, Hall fece un'escursione al
campo base dell'Everest e decise che un giorno avrebbe scalato la montagna pi alta del mondo. Ci
vollero dieci anni e tre tentativi, ma nel maggio 1990 Hall raggiunse finalmente la cima dell'Everest a capo
di una spedizione di cui faceva parte Peter Hillary, figlio di sir Edmund. Una volta in cima, Hall e Hillary
realizzarono una trasmissione radio che fu diffusa dal vivo in tutta la Nuova Zelanda e a 8848 metri
contro una figura cos stimata dai media non gli avrebbe offerto alcuna possibilit di vittoria.
Poi, cinque mesi dopo lo scalpore suscitato dalle affermazioni di Hillary, Hall fu scosso da un colpo
ancora pi grave: nell'ottobre 1993, Gary Ball mor a causa di un edema cerebrale (rigonfiamento del
cervello prodotto all'altitudine} durante un tentativo di scalata del Dhaulagiri, la sesta montagna del
mondo in ordine di altezza con i suoi 8167 metri. Ball esal l'ultimo respiro fra le braccia di Hall, disteso
in stato di coma in una piccola tenda poco lontano dalla vetta, e il giorno dopo Hall seppell l'amico in un
crepaccio.
In un'intervista per la televisione neozelandandese, che seguiva la spedizione, Hall descrisse con sobriet
come avesse scelto la loro corda preferita per calare il corpo di Ball in fondo all'abisso del ghiacciaio.
Uno scalatore non si separa mai dalla corda, che fatta per unire, aggiunse. E invece ho dovuto
lasciarla scivolare dalle mani.
Rob rimase sconvolto dalla morte di Gary, ricorda Helen Wilton, che ha lavorato come responsabile
del campo base di Hall sull'Everest negli anni 1993, 1995 e 1996. Ma affront la situazione con molta
calma. Rob era fatto cos... tenace. Hall decise di proseguire da solo l'attivit della Adventure
Consultants. Con il suo metodo sistematico continu a migliorare le infrastrutture e i servizi della societ,
riuscendo a conseguire straordinari successi nell'accompagnare scalatori dilettanti sulla vetta di montagne
alte e remote.
Fra il 1990 e il 1995,. Hall riusc a portare sulla vetta dell'Everest trentanove scalatori, tre in pi di quanti
fossero saliti sulla cima nei primi vent'anni successivi alla scalata inaugurale di sir Edmund Hillary. Hall era
quindi giustificato se reclamizzava la Adventure Consultants come la prima organizzazione al mondo per
le scalate dell'Everest, con un numero di successi al suo attivo maggiore di qualsiasi altra. Il depliant che
mandava ai potenziali clienti dichiarava:
Allora, avete sete di avventure? Forse sognate di visitare sette continenti odi salire in cima a una
montagna altissima? La maggior parte di noi non osa mai realizzare i propri sogni e si azzarda appena a
confidarli o ad ammettere di provare desideri cos ambiziosi. La Adventure Consultants specializzata
nell'organizzazione di spedizioni guidate in montagna. Addestrati agli aspetti pratici della realizzazione dei
sogni, collaboriamo con voi per farvi raggiungere la vostra meta. Non vi trascineremo di peso in cima a
una montagna, dovrete lavorare sodo, ma vi garantiamo la sicurezza e il successo della vostra avventura.
Per chi ha il coraggio di guardare in faccia i propri sogni, l'esperienza offre qualcosa di speciale che le
parole non sono in grado di descrivere. Vi invitiamo a scalare con noi la vostra montagna.
Nel 1996 Hall si faceva pagare sessantacinquemila dollari a testa per guidare i clienti sul tetto del
mondo. Si trattava di una somma certamente notevole, equivalente per esempio all'ipoteca sulla mia casa
di Seattle, e non comprendeva n il viaggio aereo in Nepal n l'attrezzatura personale. Non che le altre
societ fossero meno esose; anzi alcuni dei concorrenti facevano pagare un terzo in pi. Ma grazie allo
straordinario numero di successi ottenuto, Hall non stentava a trovare clienti per le sue spedizioni, e
quella era l'ottava che compiva sull'Everest. Chi fosse deciso a scalare quella cima a tutti i costi e fosse
riuscito a mettere insieme i soldi, in un modo o nellaltro, avrebbe quasi sicuramente scelto l'Adventure
Consultants.
La mattina del 31 marzo, due giorni dopo l'arrivo a Kathmandu, i partecipanti alla spedizione sull'Everest
dell'Adventure Consultants per il 1996 attraversarono la pista dell'aeroporto internazionale di Tribhuwn
per salire a bordo di un elicottero Mi-17 di fabbricazione russa, che portava le insegne dell'Asian
Airlines. L'elicottero, un residuato della guerra in Afghanistan tutto ammaccato, era grande come uno
scuolabus, aveva posto per ventisei passeggeri e sembrava messo insieme in un cortile con pezzi di
seconda mano. Il secondo pilota chiuse il portello e ci porse dei batuffoli di cotone da ficcare nelle
orecchie, dopodichquel gigantesco elicottero si alz pesantemente in aria con un rombo da spaccare i
timpani.
Il pavimento era ingombro di cumuli di borse di tela, zaini e scatole di cartone. Sui sedili di fortuna
disposti lungo le paratie dell'apparecchio c'era il carico umano, i passeggeri, seduti con la faccia rivolta al
centro e le ginocchia incastrate contro il petto. Il sibilo assordante delle turbine impediva qualunque
conversazione; non era un viaggio comodo, ma nessuno si lamentava.
Nel 1963, la spedizione di Tom Hornbein aveva cominciato la lunga marcia verso l'Everest da Banepa, a
circa sedici chilometri da Kathmandu, trascorrendo trentun giorni sui sentieri prima di raggiungere il
campo base. Come la maggior parte degli scalatori moderni dell'Everest, noi avevamo deciso di saltare a
pi pari la maggior parte di quella ripida e polverosa salita; l'elicottero doveva depositarci nel lontano
villaggio di Lukla, a 2800 metri di altezza nel massiccio dell'Himalaya. Ammesso che non precipitassimo
durante il volo, ci saremmo risparmiati tre settimane di marcia rispetto alla spedizione di Hornbein.
Guardandomi attorno nella spaziosa cabina dellelicottero, cercai di imprimermi nella mente i nomi dei
compagni di spedizione. Oltre alle guide, Rob Hall e Andy Harris, c'era Helen Wilton, una donna di
trentanove anni, madre di quattro figli, che per la terza stagione doveva fare da responsabile del campo
base. Caroline Mackenzie, un'abile scalatrice e dottoressa che non aveva ancora trent'anni, era il medico
della spedizione e, come Helen, non sarebbe salita pi su del campo base. Lou Kasischke, l'aristocratico
avvocato che avevo conosciuto all'aeroporto, aveva gi scalato sei delle sette cime, cos come Yasuko
Namba, di quarantasette anni, taciturna direttrice del personale nella filiale della Federal Express di
Tokio. Beck Weathers, quarantanove anni, era un patologo di Dallas piuttosto chiacchierone. Stuart
Hutchison, trentaquattro anni, che indossava una maglietta Ren and Stimpy, era un cardiologo canadese
intellettualoide e un postravagante, in congedo da una borsa di studio per la ricerca. John Taske, il
membro pi anziano del gruppo con i suoi cinquantasei anni, era un anestesista di Brisbane che si era
dedicato alle scalate dopo il congedo dall'esercito australiano. Frank Fischbeck, cinquantatr anni, un
editore di Hong Kong tutto azzimato ed elegante, aveva tentato gi tre volte di scalare l'Everest con uno
dei concorrenti di Hall e nel 1994 era arrivato fino alla Cima Sud a poco pi di novanta metri dalla vetta.
Doug Hansen, quarantasei anni, era un impiegato delle poste americane che nel 1995 era salito
sullEverest con Hall e, come Fischbeck, aveva raggiunto la Cima Sud prima di tornare indietro.
Non sapevo che cosa pensare dei miei compagni di spedizione. A giudicare dall'aspetto e
dall'esperienza, non avevano niente in comune con i rudi alpinisti che di solito erano stati miei compagni di
scalata. Comunque sembravano persone simpatiche e accettabili e non c'era un solo rompiscatole in tutto
il gruppo, o almeno nessuno si era ancora rivelato tale. In ogni modo, non avevo molto in comune con
nessuno di loro, tranne Doug; un uomo segaligno e piuttosto serio, con il viso rugoso che faceva pensare
a un vecchio pallone da calcio, lavorava come operaio postale da oltre ventisette anni. Mi spieg che si
era pagato il viaggio lavorando nel turno di notte e facendo di giorno il manovale edile. Dal momento che
prima di diventare uno scrittore mi ero guadagnato da vivere per otto anni come carpentiere (e dal
momento che l'aliquota fiscale che avevamo in comune ci distanziava nettamente dagli altri clienti), mi
sentivo a mio agio con Doug come non potevo sentirmi con gli altri. Per lo pi attribuivo il mio crescente
disagio al fatto che non mi ero mai ritrovato in un gruppo cos numeroso, e per giunta di perfetti
sconosciuti. A parte una spedizione in Alaska che avevo fatto ventun anni prima, tutte le precedenti
avventure le avevo affrontate al massimo con un paio di amici fidati, oppure da solo.
Nelle scalate, la fiducia che si ripone nei compagni non un fattore di poco conto, perch le azioni di
uno scalatore possono influire sul benessere di tutta la squadra. probabile che le conseguenze di un
nodo malfatto, di un passo incerto, di un sasso spostato, o di qualche altra svista, si ripercuotano non
solo sul responsabile, ma anche sui compagni. Quindi non c' da sorprendersi se gli scalatori di solito
siano molto restii a unire le loro forze a quelle di persone delle quali non conoscono l'esperienza.
D'altra parte la fiducia nei compagni un lusso negato a chi sceglie di partecipare come cliente a una
spedizione guidata; bisogna riporre la propria fede nella guida. Mentre l'elicottero proseguiva
rumorosamente verso Lukla, ebbi il sospetto che ciascuno dei miei compagni di spedizione si augurasse
con il mio stesso fervore che Hall avesse fatto bene attenzione a scartare i clienti di dubbia abilit e
avesse le doti necessarie per proteggere ciascuno di noi dalle manchevolezze dell'altro.
Per coloro che non si attardavano, la marcia giornaliera si concludeva nelle prime ore del pomeriggio,
comunque di rado prima che il caldo e l'indolenzimento ai piedi ci costringessero a chiedere a ogni sherpa
di passaggio: Quanto manca ancora al campo? La risposta, avremmo scoperto ben presto, era sempre
la stessa: Ancora un paio di chilometri, sah'b...
Le serate erano pacifiche, con il fumo che indugiava nellaria silenziosa quasi a raddolcire il
crepuscolo, le luci scintillanti sulla cresta dove ci saremmo accampati l'indomani, le nubi che sfumavano il
contorno del passo da superare il giorno dopo. Una crescente eccitazione attirava di continuo il mio
pensiero verso la cresta occidentale...
Si avvertiva anche un senso di solitudine, al tramonto, ma ormai accadeva di rado che si
riaffacciassero i dubbi. In quei momenti avevo l'impressione desolante di essermi lasciato alle spalle tutta
la mia esistenza. Una volta raggiunta la montagna sapevo, o meglio confidavo, che quello stato d'animo
avrebbe ceduto il posto a una concentrazione totale sul compito che mi attendeva. Ma a volte mi
domandavo se non avessi percorso tanta strada solo per scoprire che quanto cercavo realmente era
qualcosa che mi ero lasciato alle spalle.
THOMAS P. HORNBEIN
Everest: The West Ridge
Da Lukla in poi, il percorso per raggiungere l'Everest portava a nord attraverso la gola
crepuscolare del Dudh Kosi, un fiume gelido, strozzato dai massi alluvionali, che scendeva a valle
turbolento e carico di detriti glaciali. Trascorremmo la prima notte della marcia nel villaggio di Phakding,
un agglomerato composto da una mezza dozzina di case e locande strette l'una all'altra su una striscia di
terreno pianeggiante sopra il pendio che sovrasta il fiume. Al calar della sera l'aria divenne pungente
come d'inverno e la mattina dopo, quando mi avviai sulla pista, un velo di brina scintillava sulle foglie di
rododendro. Tuttavia la regione dell'Everest si trova a 28 gradi di latitudine nord, poco oltre i Tropici, e
la temperatura sal nettamente appena il sole fu abbastanza alto da penetrare sul fondo del vallone. A
mezzogiorno, dopo avere superato una fragile passerella sospesa in alto sul fiume (la quarta volta che si
attraversava il fiume, quel giorno), mi sentivo scorrere dal mento rivoletti di sudore e mi ero tolto la
giacca, restando in calzoncini e maglietta. Oltre il ponte, il sentiero abbandonava le rive del Dudh Kosi
per risalire a zigzag la ripida parete del canyon, attraversando boschetti di pini fragranti. Gli spettacolari
pinnacoli affusolati di ghiaccio del Thamserku e del Kusum Kangru svettavano verso il cielo, a oltre
tremila metri sopra di noi. Era un paesaggio splendido, imponente come nessun altro sulla Terra, ma, gi
da secoli, non pi selvaggio.
Ogni palmo di terra arabile era stato sistemato a terrazze e seminato a orzo, grano saraceno e
patate. Sulle pendici dei monti ondeggiavano file di bandierine di preghiera, mentre antichichorten[6] e
muri di pietremani[7] incise con rara finezza facevano da sentinella ai passi pi elevati. Risalendo dal
livello del fiume, trovai la pista affollata da escursionisti, convogli di yak[8], monaci vestiti di tuniche rosse
e sherpa che procedevano a fatica, curvi sotto carichi di legna da ardere, cherosene e lattine di soda
tanto pesanti da stroncare la schiena.
Un'ora e mezza dopo aver lasciato il fiume, superai un'ampia cresta rocciosa, oltrepassai una serie
di recinti per gli yak con le pareti di roccia e mi ritrovai di colpo alla periferia di Namche Bazaar, il centro
sociale e commerciale della societ degli sherpa. Situata a 3440 metri sul livello del mare, Namche
occupa un'enorme conca inclinata, disposta come una gigantesca antenna parabolica a met di un pendio
scosceso. Comprende poco pi di un centinaio di edifici, appollaiati in modo drammatico sul pendio
roccioso e collegati da un labirinto di sentieri e passerelle. Riuscii a localizzare il Khumbu Lodge,
all'estremit inferiore della citt, scostai la coperta che fungeva da porta e trovai i miei compagni di
spedizione riuniti attorno a un tavolo d'angolo a bere t al limone.
Quando mi avvicinai, Rob Hall mi present a Mike Groom, la terza guida della spedizione, un
australiano di trentatr anni con i capelli color carota e il fisico snello del maratoneta. Groom era un
idraulico di Brisbane che lavorava come guida solo occasionalmente. Nel 1987, costretto a trascorrere
una notte all'addiaccio mentre scendeva dalla cima del Kanchenjunga (8586 metri), aveva accusato un
principio di congelamento ai piedi, al punto che avevano dovuto amputargli tutte le dita. Questo infortunio
non aveva per ostacolato la sua carriera di scalatore dell'Himalaya: era andato avanti, conquistando il
K2, il Lhotse, il Cho Oyu, l'Ama Dablam e, nel 1993, l'Everest, senza fare ricorso alle bombole di
ossigeno. Groom, un uomo
straordinariamente calmo e circospetto, era di buona compagnia, ma parlava di rado se non era
interpellato e rispondeva alle domande in modo conciso e con un tono di voce appena percettibile.
A cena, la conversazione fu dominata dai tre clienti medici, Stuart, John e soprattutto Beck, uno schema
che si sarebbe ripetuto per gran parte della spedizione. Per fortuna tanto John quanto Beck avevano uno
straordinario senso dell'umorismo e facevano sbellicare il gruppo dalle risate. Beck, tuttavia, aveva
l'abitudine di trasformare i suoi monologhi in caustiche tirate contro i liberali pisciasotto, e quella sera a un
certo punto commisi l'errore di dichiararmi in disaccordo con lui; in risposta a uno dei suoi commenti,
suggerii che l'aumento del salario minimo sembrava una politica saggia e necessaria. Beck, bene
informato e abile dialettico, fece polpette della mia goffa dichiarazione e io, non avendo i mezzi per
rimbeccarlo, non potei fare altro che starmene buono e mordermi la lingua, fumante di rabbia.
Mentre lui continuava a dissertare sulle innumerevoli follie dello stato assistenziale con la sua cadenza
strascicata del Texas orientale, mi alzai, allontanandomi da tavola per evitare altre umiliazioni. Quando
rientrai nella sala da pranzo, mi rivolsi alla proprietaria per ordinare una birra. La donna, una piccola e
aggraziatasherpani , stava prendendo un'ordinazione da un gruppo di americani che partecipavano a una
spedizione di trekking. Abbiamo fame, le annunci un omone dalle guance colorite, parlando il gergo
locale a voce esageratamente alta e mimando il gesto di mangiare. Vogliamo mangiare pa-ta-te.
Yak-bur-ger. Co-ca Co-la. Ne avete?
Volete vedere il menu? replic lasherpani parlando in un inglese chiaro e trillante, con un lieve
accenno di accento canadese. Abbiamo un assortimento piuttosto vasto, e credo che per dessert ci sia
ancora della torta di mele appena sfornata, se vi interessa.
L'americano, incapace di capire che quella donna delle colline dalla pelle scura gli si rivolgeva in un
inglese dalla pronuncia perfetta, continu a impiegare il suo comico gergo: Me-nu! Bene, bene. S, s,
noi volere vedere me-nu.
Gli sherpa restano un enigma per la maggior parte degli stranieri, che tendono a considerarli attraverso
un filtro romantico. Chi non ha familiarit con la demografia dell'Himalaya d spesso per scontato che
tutti i nepalesi siano sherpa, mentre in effetti non esistono pi di ventimila sherpa in tutto il Nepal, una
nazione delle dimensioni della Carolina del Nord, con circa venti milioni di abitanti e oltre cinquanta
distinti gruppi etnici. Gli sherpa sono una popolazione di montagna, che pratica il buddhismo, i cui
progenitori sono emigrati a sud dal Tibet quattro o cinque secoli fa. Vi sono villaggi sherpa sparsi in tutta
la regione himalayana del Nepal orientale, e comunit abbastanza grandi di sherpa si possono trovare
anche nel Sikkim e a Darjeeling, in India, ma il cuore del territorio sherpa il Khumbu, una manciata di
valli che si diramano dalle pendici meridionali del monte Everest, una piccola regione incredibilmente
impervia, del tutto priva di strade, automobili o veicoli a ruote di qualsiasi genere.
Risulta difficile praticare l'agricoltura in quelle valli fredde, alte e ripide, per cui l'economia tradizionale
degli sherpa ruotava intorno al commercio fra il Tibet e l'India e all'allevamento degli yak. Poi, nel 1921,
gli inglesi intrapresero la prima spedizione sullEverest e la loro decisione di ingaggiare gli sherpa diede
inizio a una trasformazione della cultura sherpa.
Poich il regno del Nepal mantenne la chiusura delle frontiere fino al 1949, la prima esplorazione
dell'Everest, e le otto spedizioni successive, furono costrette ad affrontare la montagna da nord,
attraversando il Tibet, senza mai passare nelle vicinanze del Khumbu. Ma quelle prime nove spedizioni
partirono per il Tibet da Darjeeling, doverano emigrati molti sherpa, che si erano guadagnati fra i
colonialisti del luogo la fama di grandi lavoratori, affabili e intelligenti. Inoltre, poich la maggior parte
degli sherpa viveva da generazioni in villaggi situati fra i duemilasettecento e i quattromiladuecento metri d
altezza, erano adattati fisiologicamente ai rigori dellalta quota. Dietro raccomandazione di A.M. Kellas,
un medico scozzese che aveva compiuto scalate e lunghi viaggi in compagnia degli sherpa, la spedizione
sull Everest del 1921 ne assunse un discreto numero come portatori e aiutanti di campo, pratica che nei
settantacinque anni trascorsi da allora stata seguita da quasi tutte le spedizioni successive, salvo rare
eccezioni.
Da vent'anni a questa parte, l'economia e la cultura del Khumbu sono sempre pi legate nel bene e
nel male, all'afflusso stagionale dei circa quindicimilatrekker e scalatori che visitano la regione ogni anno.
Gli sherpa che apprendono a scalare e lavorano sulle vette, in particolare coloro che hanno conquistato
l'Everest, godono di grande stima nelle loro comunit. Purtroppo, per, quelli che si sono guadagnati una
fama nel mondo dell'alpinismo corrono anche seri rischi di perdere la vita. Dal 1922, anno in cui sette
sherpa rimasero uccisi sotto una valanga durante la seconda spedizione inglese, un numero
sproporzionato di sherpa ha incontrato la morte sull'Everest: in tutto cinquantatre. In effetti ammontano a
oltre un terzo di tutte le vittime dell'Everest.
Malgrado i rischi, esiste unaccanita competizione fra gli sherpa per accaparrarsl gli incarichi pi ambiti
nella tipica spedizione sull'Everest. I posti pi ricercati sono una mezza dozzina, riservati agli scalatori
esperti, che possono prevedere di guadagnare da millequattrocento a duemilacinquecento dollari per due
mesi di rischioso lavoro; una paga allettante per una nazione sprofondata nella mlseria, con un reddlto
annuale pro capite di circa centosessanta dollari.
Per regolare il crescente afflusso di alpinisti etrekker occidentali, nella reglone del Khumbu stanno
sorgendo come funghi locande e case da t, ma la nuova attivit edilizia particolarmente vistosa a
Namche Bazaar. Lungo la pista per Namche ho superat to innumerevoli portatori che risalivano dalle
foreste ai piedi dell'Himalaya trasportando travi di legno appena tagliato del peso di oltre cinquanta chili:
una fatica fisica spossante, per la quale ricevevano un compenso di tre dollari circa al giorno. Coloro che
conoscono da tempo il Khumbu sono rattristati dal boom del turismo e dalla trasformazione che ha
prodotto in quello che gli scalatori occidentali consideravano un paradiso terrestre, un'autentica
Shangri-La. Intere valli sono state disboscate per esaudire la richiesta crescente di legna per il fuoco. Gli
adolescenti che sostano davanti ai localicarrom di Namche indossano pi spesso jeans e magliette dei
Chicago Bulls che gli originali costumi tradizionali, ed facile che le famiglie trascorrano le serate riunite
intorno al videoregistratore per assistere all'ultimo film di Schwarzenegger.
La trasformazione della cultura del Kumbu non avviene certo in meglio, ma non ho sentito molti sherpa
lamentarsene. La valuta portata da trekker e scalatori, oltre ai finanziamenti delle organizzazioni
internazionali di soccorso da questi sostenute, sono stati utilizzati per fondare scuole e cliniche mediche,
per ridurre la mortalit infantile, per costruire passerelle sui fiumi e portare l'energia idroelettrica a
Namche e in altri villaggi. Sembra poco pi che un segno di condiscendenza da parte degli occidentali
deplorare la fine dei bei tempi andati, quando la vita nel Khumbu era molto pi semplice e pi pittoresca.
La maggior parte delle persone che vivono in questo paese impervio non sembra augurarsi l'isolamento
dal mondo moderno o dal flusso disordinato del progresso umano. L'ultima cosa che gli sherpa
desiderano essere conservati come esemplari in un museo antropologico.
Un marciatore forte e gi acclimatato all'altitudine potrebbe coprire la distanza dalla pista aerea di Lukla
al campo base dell'Everest in due o tre giornate di marcia piuttosto intense. Poich tuttavia noi eravamo
arrivati quasi tutti dal livello del mare, Hall fece attenzione a mantenere un'andatura pi tranquilla, che
lasciasse al nostro corpo il tempo di adattarsi all'aria sempre pi rarefatta. Di rado marciavamo per oltre
due o tre ore al giorno. Parecchie volte, quando l'itinerario di Hall prevedeva un ulteriore periodo di
acclimatazione, non si marciava affatto.
Il 3 aprile, dopo un giorno di acclimatazione a Namche, riprendemmo il cammino verso il campo base.
Venti minuti dopo aver lasciato il villaggio, superando una svolta mi trovai di fronte un panorama
mozzafiato. Seicento metri pi in basso, il Dudh Kosi, scavando una profonda fessura nel letto di roccia
circostante, sembrava un filo d'argento attorcigliato che scintillava nell'ombra. Quattromila metri pi in
alto, l'enorme guglia dell'Ama Dablam svettava in controluce all'estremit superiore della valle, come
un'apparizione; e duemilacento metri ancora pi su, sovrastando l'Ama Dablam, sorgeva la massa glaciale
dell'Everest, quasi tutta nascosta dietro il Nuptse. Come sempre, un pennacchio orizzontale di condensa
aleggiava sulla cima come fumo congelato, tradendo la violenza dei venti della corrente a getto.
Rimasi immobile a fissare la cima per quasi mezz'ora, tentando di valutare l'impressione che avrebbe
fatto stare ritto in cima a quel vertice spazzato dai venti. Sebbene avessi conquistato centinaia di
montagne, lEverest era cos diverso da tutte quelle che avevo scalato in precedenza, che le capacit
della mia immaginazione non erano all'altezza dell'impresa. La vetta appariva cos gelida e alta, cos
incredibilmente lontana, che mi sembrava di essermi imbarcato in una spedizione sulla luna. Quando
distolsi lo sguardo per riprendere il cammino lungo la pista, le mie emozioni oscillavano fra unansia
nervosa e un senso di paura quasi opprimente.
Qualche ora dopo, nel pomeriggio, raggiunsi Tengboche[9], il monastero buddhista pi grande e
importante del Khumbu. Chhongba Sherpa, un uomo segaligno e meditativo che si era unito alla
spedizione in qualit di cuoco del campo base, si offr di organizzare un incontro con ilrimpoche , ossia
il lama principale di tutto il Nepal, spieg, un sant'uomo. Proprio ieri ha concluso un lungo periodo di
meditazione silenziosa: non ha pronunciato una parola per tre mesi. Saremo i suoi primi visitatori, e
questo di ottimo auspicio. Doug, Lou e io consegnammo a Chhongba cento rupie a testa [all'incirca
due dollari), per acquistare dellekata cerimoniali, le sciarpe di seta bianca da offrire alrimpoche , poi ci
togliemmo le scarpe e Chhongba ci condusse in una piccola stanza piena di spifferi dietro il tempio
principale.
Seduto a gambe incrociate su un cuscino di broccato, avvolto nelle tuniche color borgogna, c'era un
uomo piccolo e rotondetto con la testa rapata a zero, che sembrava vecchissimo e molto stanco.
Chhongba s'inchin con aria reverente, gli parl brevemente nella lingua degli sherpa e ci fece segno di
venire avanti. Ilrimpoche allora ci benedisse tutti a turno, mettendoci al collo nello stesso tempo lekata
che avevamo comprato, dopodiche ci rivolse un sorriso beato, offrendoci il t. Dovrebbe portare
questakata sulla cima dell'Everest,[10]mi ammon Chhongba con voce solenne. Far piacere a Dio e
la protegger dal male.
Non sapendo bene come comportarmi alla presenza di un essere divino, quella reincarnazione vivente di
un lama antico e illustre, ero terrorizzato al pensiero di offenderlo involontariamente o di commettere
qualche gaffe irreparabile. Mentre sorseggiavo il t dolce in preda all'imbarazzo, ilrimpoche frug in uno
stipetto vicino, estraendone un grosso libro ornato da una decorazione elaborata, che mi consegn. Mi
ripulii sui pantaloni le mani sporche e lo aprii nervosamente. Era un album fotografico. Ilrimpoche , venne
fuori, era stato di recente in America per la prima volta e l'album conteneva le foto del viaggio: sua santit
a Washington, in posa davanti al Lincoln Memorial e all'Air and Space Museum; sua santit in California,
sul molo di Santa Monica. Con un largo sorriso, mi indic eccitato le sue due foto preferite di tutto
l'album: sua santit in posa accanto a Richard Gere e unaltra istantanea che lo ritraeva insieme a Steven
Seagal.
I primi sei giorni di marcia trascorsero in un'atmosfera celestiale. La pista attraversava boschetti di
ginepri e betulle nane, pini del Bhutan e rododendri, sfiorando cascate rombanti, incantevoli giardini di
rocce e ruscelli spumeggianti. L'orizzonte degno delle Valchirie brulicava di vette delle quali avevo letto
fin da quando ero bambino. Poich la maggior parte del materiale era trasportato da yak e portatori, il
mio zaino conteneva poco pi che una giacca, qualche barretta dolce e la macchina fotografica. Privo di
pesi e senza fretta, assorto nella semplice gioia di attraversare a piedi un paese esotico, scivolavo in una
sorta di trance; ma l'euforia non durava a lungo. Prima o poi mi rammentavo della meta che mi aspettava
alla fule del viaggio, e l'ombra che l'Everest gettava sulla mia mente mi riportava di scatto alla realt.
Ognuno di noi marciava secondo la sua andatura, fermandosi spesso per ristorarsi presso le sale da t
che sorgevano lungo la strada e per chiacchierare con i passanti. Mi ritrovai a viaggiare spesso in
compagnia di Doug Hansen, il dipendente delle poste, e di Andy Harris, la guida che faceva da assistente
a Rob Hall e procedeva in coda al gruppo. Andy, soprannominato Harold da Rob e da tutti i suoi
amici neozelandesi, era un ragazzo grande e grosso, con la stazza di un difensore di football e l'aspetto
rude e attraente del protagonista maschile degli spot pubblicitari per le sigarette. Durante l'inverno agli
antipodi era molto richiesto come guida per l'eliski; d'estate invece lavorava come guida per gli scienziati
che conducono ricerche geologiche nell'Antartide o scortava scalatori sulle Alpi meridionali della Nuova
Zelanda.
Mentre percorrevamo il sentiero, Andy parlava con nostalgia della donna con la quale viveva, una
dottoressa che si chiamava Fiona McPherson. Quando ci fermammo a riposare su una roccia, prese
dallo zaino una foto per farmela vedere: era una donna alta, bionda, dallaria atletica. Andy mi disse che
lui e Fiona erano impegnati nella costruzione di una casa sulle colline, poco lontano da Queenstown.
Appassionato dei semplici piaceri rappresentati dal segare travi e conficcare chiodi, Andy ammise che
quando Rob gli aveva offerto per la prima volta quel posto nella spedizione sull'Everest la sua reazione
era stata ambivalente: Mi era difficile lasciare Fi e la casa, per la verit. Avevamo appena messo in
opera il tetto; sa? Ma come si fa a rifiutare una possibilit di scalare l'Everest? Soprattutto quando hai
l'occasione di lavorare a fianco di uno come Rob Hall.
Anche se Andy non era mai stato sullEverest prima di allora, aveva familiarit con I'Himalaya. Nel 1985
aveva scalato un difficile vetta alta 6680 metri, il Chobutse, che sorgeva a una cinquantina di chilometri
dall'Everest, e nell'autunno del 1994 aveva trascorso quattro mesi aiutando Fiona a dirigere la clinica di
Pheriche, un tetro villaggio battuto dai venti che sorge a 4240 metri sul livello del mare, dov facemmo
tappa durante le notti del 4 e 5 aprile.
La clinica era stata finanziata da una fondazione chiamata Himalayan Rescue Association {Associazione
himalayana per il soccorso) soprattutto per curare le malattie legate allaltitudine - anche se offriva cure
gratuite agli sherpa locali - e per istruire itrekker sui rischi che comporta un'ascensione troppo rapida a
quote molto elevate. Era stata istituita nel 1973 dopo che quattro membri di una spedizione giapponese
indipendente di trekking erano morti nelle vicinanze a causa degli effetti dell'altitudine. Prima
dell'istituzione della clinica, le malattie acute causate dall'altitudine uccidevano pprossimativamente uno o
due escursionisti su cinquecento di quelli che passavano da Pheriche. Laura Ziemer, un'avvocatessa di
grido americana che, all'epoca della nostra visita, lavorava in quella istituzione {che occupava in tutto
quattro locali) insieme con il marito medico, Jim Litch, e un altro giovane sanitario di nome Larry Silver,
sottolineava che quel tasso allarmante di mortalit non era stato aumentato da incidenti di montagna; le
vittime erano normalissimi appassionati di trekking che non si erano mai avventurati oltre i sentieri
tracciati.
Ora, grazie ai corsi di istruzione e alle cure d'emergenza fornite dal personale della clinica, composto
tutto di volontari, quel tasso di mortalit stato ridotto a uno su trentamila. Bench gli occidentali idealisti
come la Ziemer che lavorano alla clinica di Pheriche non ricevano compensi e anzi debbano pagarsi le
spese di viaggio per e dal Nepal, si tratta di un posto privilegiato che attira le richieste di medici
estremamente qualificati di tutto il mondo. Caroline Mackenzie, il medico della spedizione di Hall, aveva
lavorato nella clinica della HRA insieme con Fiona McPherson e Andy nell'autunno del 1994.
Nel 1990, l'anno in cui Hall aveva conquistato l'Everest per la prima volta, la clinica era diretta da una
dottoressa neozelandese esperta e molto sicura di se, Jan Arnold. Hall l'aveva conosciuta passando da
Pheriche per raggiungere la montagna, ed era stato vittima di un colpo di fulmine. Invitai Jan a uscire con
me appena tornato dall'Everest, rievoc Hall durante la prima notte che trascorremmo al villaggio.
Come primo appuntamento le proposi di andare in Alaska per scalare insieme il monte McKinley, e lei
rispose di s. Si erano sposati due anni dopo. Nel 1993 Jan Arnold aveva raggiunto il culmine
dell'Himalaya insieme con Hall; nel 1994 e 1995 si era recata al campo base per lavorare come medico
della spedizione e sarebbe tornata anche quell'anno, se non fosse stata incinta di sette mesi del primo
figlio. Cos l'incarico era toccato a Mackenzie.
Il gioved dopo cena, la prima sera che trascorrevamo a Pheriche, Laura Ziemer e Jim Litch invitarono
alla clinica Hall, Harris e Helen Wilton, l'organizzatrice del nostro campo base, per bere insieme un
bicchierino e aggiornarsi sugli ultimi pettegolezzi. Nel corso della serata la conversazione cadde sui rischi
impliciti nell'attivit di scalatore (e guida) sull'Everest, e Litch ricorda ancora la discussione con
agghiacciante lucidit. Hall, Harris e Litch erano perfettamente d'accordo sul fatto che prima o poi era
inevitabile un grave incidente che coinvolgesse un numero elevato di clienti. Comunque, rammenta
Litch, che aveva scalato l'Everest dal Tibet nella primavera precedente, la convinzione di Rob era che
non sarebbe toccato a lui; si preoccupava solo al pensiero di dover salvare il culo a un'altra squadrae,
al momento dell'inevitabile calamit, era certo che si sarebbe verificata sul versante settentrionale della
Sabato 6 aprile, a qualche ora di cammino da Pheriche, arrivammo all'estremit inferiore del ghiacciaio
Khumbu, una lingua di ghiaccio lunga quasi venti chilometri che scende dal fianco meridionale dell'Everest
e che ci sarebbe servita, mi auguravo efficacemente, da autostrada per raggiungere la vetta. Ormai,
raggiunta la quota di 4880 metri, ci eravamo lasciati alle spalle ogni traccia di verde. Lungo la cresta della
morena terminale del ghiacciaio, che si affaccia sulla valle colma di nebbia, sorgono venti monumenti di
pietra, sobriamente allineati, monumenti funebri di scalatori che sono periti sullEverest, in gran parte
sherpa. Da quel punto in avanti il nostro mondo sarebbe diventato una distesa nuda e monocromatica di
roccia e ghiaccio spazzati dal vento. Nonostante l'andatura pacata, avevo cominciato a risentire degli
effetti dellaltitudine, che mi lasciavano con la testa leggera e un lieve affanno.
In quel punto la pista era sepolta in molti tratti da uno strato di neve invernale alto quanto un uomo.
Quando la neve si rammolliva al sole pomeridiano, gli zoccoli degli yak penetravano nella crosta
ghiacciata e le bestie sprofondavano fino al ventre. I conducenti, brontolando, sferzavano gli animali per
spronarli a proseguire, e intanto minacciavano di tornare indietro. Alla fine della giornata arrivammo in un
villaggio chiamato Lobuje e l cercammo riparo dal vento in una locanda affollata e incredibilmente
sporca.
Ai margini del ghiacciaio Khumbu sorgeva un agglomerato di costruzioni basse e cadenti, rannicchiate sul
terreno per resistere alla violenza degli elementi. Lobuje era un luogo tetro, affollato di sherpa e alpinisti
appartenenti a una dozzina di spedizioni diverse, escursionisti tedeschi, branchi di yak smunti, tutti diretti
verso il campo base dell'Everest, poco pi su nella valle, a una giornata di cammino. L'ingorgo, spieg
Rob, era dovuto allo strato di neve, ancora insolitamente alto per la stagione, che fino al giorno prima
aveva addirittura impedito agli yak di raggiungere il campo base. La mezza dozzina di locande del
villaggio era al completo e le tende erano stipate l'una sull'altra nei pochi tratti di terreno fangoso che non
erano ricoperti di neve. Decine di portatorirai etamang , provenienti dalle colline pi in basso - vestiti di
stracci leggeri e svolazzanti, lavoravano come portatori per varie spedizioni - erano accampati nelle
caverne e sotto i massi delle pendici circostanti.
I tre o quattro servizi igienici di pietra del villaggio traboccavano letteralmente di escrementi. Le latrine
erano cos disgustose che la maggior parte delle persone, tanto nepalesi quanto occidentali, evacuavano
per terra all'aperto, dovunque li cogliesse lo stimolo. Enormi cumuli di feci maleodoranti erano sparsi
dappertutto, al punto che era impossibile evitarli, e il fiume di neve sciolta che serpeggiava attraverso il
centro dell'abitato era diventato una fogna a cielo aperto.
La sala principale della locanda in cui eravamo alloggiati era arredata con piattaforme di legno che
servivano da brandine a una trentina di persone. Mi trovai una brandina libera al livello superiore, scrollai
ben bene il materasso sudicio per scacciare il maggior numero possibile di pulci e pidocchi e aprii il
saccopiuma. Addossata alla parete vicina c'era una stufetta di ferro, che forniva calore, alimentata da
sterco di yak essiccato. Dopo il tramonto la temperatura scese ben al di sotto dello zero, e i portatori
entrarono a frotte per sfuggire ai rigori della notte scaldandosi attorno alla stufa. Poich lo sterco di yak
brucia male anche nelle circostanze migliori, e tanto pi nellaria povera di ossigeno dei
quattromilanovecento metri, l'ambiente fu ben presto saturo di un fumo denso e acre, come se il tubo di
scappamento di un autobus diesel si scaricasse direttamente nel locale. Per ben due volte durante la notte
dovetti uscire allaperto per respirare, assalito da una tosse irrefrenabile. La mattina dopo avevo gli occhi
iniettati di sangue che bruciavano, le narici intasate di fuliggine nera e una tosse secca e insistente che mi
avrebbe accompagnato fino alla fine della spedizione.
Rob aveva intenzione di farci restare a Lobuje un solo giorno, per acclimatarci, prima di percorrere i
dieci o dodici chilometri che ci separavano dal campo base, dove i nostri sherpa erano arrivati alcuni
giorni prima in modo da preparare il terreno per il nostro arrivo e stabilire il percorso da seguire lungo le
pendici inferiori dellEverest. La sera del 7 aprile, per, arriv a Lobuje un corriere affannato che portava
un messaggio inquietante dal campo base: Tenzing, un giovane sherpa assunto da Rob, era precipitato
per quarantacinque metri in un crepaccio, una spaccatura aperta nel ghiacciaio. Altri quattro sherpa lo
avevano tirato fuori vivo, ma era gravemente ferito e probabilmente aveva un femore fratturato. Rob,
pallidissimo, annunci che lui e Mike Groom si sarebbero affrettati a raggiungere il campo base all'alba
per coordinare i soccorsi a Tenzing. Mi dispiace darvi questa notizia, aggiunse, ma voi altri dovrete
aspettare qui a Lobuje con Harold fin che non avremo la situazione sotto controllo.
Tenzing, apprendemmo in seguito, stava compiendo una ricognizione sull'itinerario al di sopra del Campo
Uno, scalando una sezione relativamente poco impegnativa del ghiacciaio Khumbu insieme ad altri
quattro sherpa. I cinque uomini procedevano in fila indiana, il che era sensato, ma non erano assicurati
con la corda, e questa era una grave violazione del protocollo alpinistico. Tenzing avanzava sulle orme
degli altri quattro, seguendo esattamente lo stesso percorso, quando uno strato sottile di neve che
copriva un profondo crepaccio aveva ceduto sotto di lui; prima ancora di avere il tempo di gridare, era
caduto a precipizio nelle viscere del ghiacciaio, tenebrose come il leggendario paese dei Cimmeri.
La quota di 6250 metri era giudicata troppo elevata per evacuarlo in elicottero senza rischi, in quanto
l'aria era troppo rarefatta per assicurare sufficiente spinta portante ai rotori di un elicottero, per
consentirgli cio di atterrare, decollare o anche solo librarsi con ragionevole sicurezza; quindi sarebbe
stato necessario trasportare Tnzing per circa novecento metri in discesa, fino al campo base,
procedendo lungo la seraccata del Khumbu, uno dei tratti pi ripidi e insidiosi di tutta la montagna.
Portare al campo Tenzing ancora vivo avrebbe richiesto uno sforzo imponente.
Rob era sempre molto interessato al benessere degli sherpa che lavoravano per lui. Prima che il nostro
gruppo partisse da Kathmandu ci aveva fatto riunire, tutti seduti in circolo, per impartirci una lezione
insolitamente severa sulla necessit di mostrare agli sherpa la debita gratitudine e il giusto rispetto. Gli
sherpa che assumiamo sono i migliori del settore, ci aveva ammonito. Svolgono un lavoro
incredibilmente duro per una somma di denaro piuttosto modesta secondo i canoni occidentali. Voglio
che vi ricordiate tutti che senza il loro aiuto non avremmo la minima possibilit di raggiungere la vetta
dellEverest. Velo ripeto, senza il sostegno degli sherpa nessuno di noi avrebbe la possibilit di scalare la
montagna.
In una conversazione successiva, Rob confess che negli anni precedenti aveva espresso delle critiche
agli organizzatori di alcune spedizioni che avevano trattato i loro sherpa senza le dovute attenzioni. Nel
1995 un giovane sherpa era morto sull'Everest e Hall riteneva che l'incidente fosse accaduto perch allo
sherpa era stato consentito di salire in alto senza il debito addestramento. Io ritengo che la responsabilit
di prevenire questo tipo di incidenti spetti a coloro che organizzano questi viaggi.
L'anno prima, una spedizione guidata americana aveva assunto come sguattero uno sherpa di nome
Kami Rita. Forte e ambizioso, appena ventunenne o poco pi, lo sherpa aveva insistito per essere
ammesso a lavorare come sherpa scalatore nella parte superiore del percorso. In segno di
apprezzamento per il suo entusiasmo e la sua dedizione, qualche settimana dopo gli era stato concesso il
permesso, nonostante non avesse alcuna esperienza alpinistica e non avesse ricevuto un addestramento
formale alla tecnica di scalata.
Da 6700 a 7600 metri la via normale risale lungo un pendio di ghiaccio ripido e insidioso, noto col nome
di Lhotse Pace, o parete del Lhotse. Come misura di sicurezza, le spedizioni fissano sempre una serie di
corde su questo pendio, da cima a fondo, e gli alpinisti devono assicurarsi durante l'ascesa agganciando
un moschettone di sicurezza alle corde fisse. Kami, essendo giovane, inesperto e arrogante, aveva
pensato che non fosse davvero necessario agganciarsi alla corda. Un pomeriggio, mentre trasportava un
carico su per la parete del Lhotse, aveva perso la presa sul ghiaccio duro come la roccia ed era
precipitato per oltre seicento metri fino in fondo alla valle.
Il mio compagno di squadra Prank Pischbeck aveva assistito al drammatico avvenimento, dato che nel
1995 aveva compiuto il terzo tentativo di scalare l'Everest come cliente della societ americana che
aveva assunto Kami. Prank stava salendo con le corde sulla parte superiore della parete del Lhotse,
raccont con voce turbata, quando alzai la testa e vidi qualcuno precipitare dall'alto a capofitto. Quando
mi pass accanto urlava, lasciando dietro di s una scia di sangue.
Alcuni alpinisti si erano precipitati nel punto in cui il corpo di Kami si era arrestato, ai piedi della parete,
ma lui era gi morto a causa delle ferite riportate nella caduta. Il suo corpo era stato trasportato al campo
base, dove, secondo la tradizione buddhista, per tre giorni i suoi amici avevano portato cibi per
alimentare il cadavere; poi era stato trasferito in un villaggio presso Tengboche e l cremato. Mentre il
corpo veniva consumato dalle fiamme, la madre di Kami aveva lanciato gemiti strazianti, percuotendosi il
capo con un sasso appuntito.
Kami era ben presente nella mente di Rob, quella mattina dell'8 aprile, quando lui e Mike si affrettarono
a raggiungere il campo base per cercare di portare via Tenzing vivo.
Passando tra gli slanciati penitentes del ghiacciaio, la Phantom Alley, entrammo nel fondo della valle
disseminata di massi, al termine di un enorme anfiteatro... Qui [la seraccata compiva una brusca
deviazione, volgendo a sud come il ghiacciaio del Khumbu. Stabilimmo il nostro campo base a 5420
metri di altitudine, sulla morena laterale che formava il bordo esterno della curva. Enormi macigni
conferivano al luogo unaria di solidit, ma il fluire ininterrotto del pietrisco sotto i piedi correggeva
quellimpressione. Tutto ci che si poteva vedere, sentire e udire - la seraccata, la morena, le valanghe, il
gelo - parlava di un mondo che non era destinato ad accogliere la presenza umana. Non vi scorrevano
acque, non vi crescevano piante: solo distruzione e disgregazione... Quella sarebbe stata la nostra casa
per parecchi mesi finch la montagna non fosse stata vinta.
THOMAS F. HORNBEIN
Everest: The West Ridge
L'8 aprile, poco dopo il calar della sera, la ricetrasmittente di Andy si ridest crepitando all'esterno della
locanda di Lobuje: era Rob che chiamava dal campo base, riferendo buone notizie. Era stato necessario
formare una squadra di trentacinque sherpa, appartenenti a varie spedizioni, che avevano lavorato per
tutta la giornata, e alla fine erano riusciti a portare a valle Tenzing. Assicurandolo a una scaletta di
alluminio, si erano industriati a calarlo, trascinarlo e trasportarlo lungo la seraccata, e ora lo sherpa
riposava al campo base per riprendersi da quella dura prova. Se il tempo reggeva, all'alba sarebbe
arrivato un elicottero per trasportarlo in ospedale a Kathmandu. Con evidente sollievo, Rob ci diede il
via per lasciare Lobuje la mattina dopo e proseguire da soli fino al campo base.
Noi clienti ci sentimmo enormemente sollevati al pensiero che Tenzing fosse in salvo, e non meno
sollevati alla prospettiva di lasciare Lobuje. John e Lou si erano beccati non so quale violento disturbo
intestinale a causa della sporcizia dell'ambiente circostante. Helen, la responsabile del campo base,
soffriva di un'emicrania lancinante, scatenata dall'altitudine, che non voleva saperne di attenuarsi, mentre
la mia tosse era peggiorata notevolmente dopo la seconda nottata trascorsa nella locanda invasa dal
fumo.
Per questo la terza notte che trascorremmo al villaggio decisi di sottrarmi a quel fumo nocivo,
trasferendomi in una tenda innalzata all'esterno e lasciata libera da Rob e Mike quando erano andati al
campo base. Andy decise di venire con me, ma alle due di notte mi svegliai di soprassalto quando lui
scatt di colpo a sedere accanto a me, cominciando a gemere. Ehi, Harold, gli domandai dal mio
saccopiuma, ti senti bene?
Veramente non lo so. A quanto pare, qualcosa che ho mangiato a cena non vuol saperne di
restare gi. Un attimo dopo Andy brancicava disperatamente la lampo dell'apertura, riuscendo a
mettere fuori la testa e il torso appena in tempo prima di vomitare con violenza. Quando i conati si
placarono, rimase immobile, carponi, per alcuni minuti, fuori della tenda per met, poi scatt in piedi, si
allontan di alcuni metri e si cal i pantaloni, cedendo a un violento attacco di diarrea. Trascorse il resto
della notte all'addiaccio, continuando a liberarsi con violenza del contenuto del suo apparato
gastrointestinale.
La mattina dopo Andy era debole e disidratato, scosso da un tremito violento. Helen gli sugger di
restare a Lobuje finch non avesse ripreso le forze, ma Andy si rifiut di prendere in considerazione
l'idea. Non passerei un'altra notte in questo buco schifoso neanche per tutto l'oro del mondo, annunci
facendo una smorfia, con la testa fra le ginocchia. Oggi vengo al campo base insieme a voi, anche a
costo di strisciare.
Alle nove di mattina eravamo pronti con i bagagli e ci mettemmo in cammino. Mentre il resto del
gruppo procedeva di buon passo lungo la pista, Helen e io restammo indietro per affiancarci a Andy, che
doveva compiere uno sforzo incredibile solo per mettere un piede davanti all'altro. Ogni tanto si fermava,
si appoggiava per qualche minuto ai bastoncini da sci in modo da riprendersi, dopodich radunava le
forze per procedere nell'avanzata.
Il percorso descriveva un saliscendi lungo alcuni chilometri attraverso i depositi rocciosi della
morena laterale del ghiacciaio del Khumbu, prima di scendere sulla superficie del ghiacciaio vero e
proprio. Il ghiaccio era quasi tutto ricoperto da ciottoli, ghiaia e macigni di granito, ma di tanto in tanto la
pista attraversava un tratto rimasto a nudo, che rivelava una sostanza ghiacciata e traslucida scintillante
come onice levigata. L'acqua di disgelo colava impetuosa attraverso innumerevoli canali superficiali e
sotterranei, creando uno spettrale brontolio armonico che risuonava nella massa del ghiacciaio.
A met del pomeriggio raggiungemmo un bizzarro corteo di penitentes di ghiaccio isolati l'uno
dall'altro - il pi grande era alto una trentina di metri - noto con il nome di Phantom Alley, il viale dei
fantasmi. Scolpite dagli intensi raggi solari, quelle torri, che sprigionavano una luminosit radioattiva
color turchese, sporgevano dal ghiaione come i denti di uno squalo gigante, estendendosi fin dove poteva
giungere lo sguardo. Helen, che era passata pi volte di l, annunci che eravamo vicini alla meta.
Circa tre chilometri pi avanti, il ghiacciaio descriveva una brusca curva a est; noi raggiungemmo
faticosamente la sommit di un lungo pendio e vedemmo stendersi ai nostri piedi una citt variopinta di
cupole di nylon. Pi di trecento tende, che ospitavano altrettanti scalatori e sherpa di quattordici
spedizioni, punteggiavano il ghiaccio cosparso di massi. Impiegammo venti minuti solo per individuare il
nostro recinto in quel vasto insediamento. Quando arrivammo al tratto finale, in salita, Rob ci venne
incontro a grandi passi. Benvenuti al campo base dell'Everest, esclam con un gran sorriso. Il mio
Il villaggio creatoad hoc che ci avrebbe fatto da casa per le prossime sei settimane sorgeva
all'estremit superiore di un vasto anfiteatro naturale, disegnato da pareti rocciose proibitive. Le scarpate
al di sopra del campo erano ricoperte di ghiacciai sospesi, dai quali si staccavano immense scariche che
precipitavano rombando a tutte le ore del giorno e della notte. Quattrocento metri a est, incuneata fra la
parete Nuptse e il bastione occidentale dell'Everest, la seraccata del Khumbu s'insinuava attraverso uno
stretto varco in un caos di schegge ghiacciate. Lanfiteatro era aperto a sud-ovest, quindi era inondato
dal sole; nei pomeriggi limpidi in cui non c'era vento faceva tanto caldo che si poteva stare seduti
tranquillamente all'aperto in T-shirt. Ma non appena il sole calava dietro la vetta conica del Pumori, una
montagna alta 7145 metri poco pi a ovest del campo base, la temperatura scendeva di colpo verso lo
zero. Quando mi ritiravo nella tenda per la notte, mi sentivo cullare da una serenata di crepitii e schiocchi
sonori, a rammentarmi che ero disteso su un fiume di ghiaccio in movimento.
In stridente contrasto con la natura scabra e selvaggia dell'ambiente circostante c'era la miriade di
comfort del campo dell'Adventure Consultants, che accoglieva quattordici occidentali - gli sherpa ci
definivano collettivamente membri, oppuresahib - e quattordici sherpa. La mensa, un enorme
padiglione di tela, era arredata con un grande tavolo di pietra, un impianto stereo, una biblioteca ed era
dotata di luci elettriche alimentate dall'energia solare; la tenda delle comunicazioni, adiacente a questa,
ospitava un telefono satellitare e un fax. Era stata improvvisata persino una doccia con un tubo di gomma
e un secchio riempito d'acqua riscaldata dal personale di cucina. A intervalli di pochi giorni arrivavano a
dorso di yak pane e verdure fresche. Perpetuando una tradizione dell'epoca dell'impero coloniale,
consolidata dalle spedizioni dei bei tempi andati, ogni mattina Chhongba e il suo aiutante Tendi facevano
il giro delle tende per servire tazze fumanti di t sherpa ai clienti ancora imbozzolati nei sacchipiuma.
Avevo sentito raccontare tante storie sull'Everest trasformato in una discarica dalle orde di scalatori
sempre pi numerose, storie in cui la responsabilit principale veniva addossata alle spedizioni
commerciali. Anche se negli anni Settanta e Ottanta il campo base era effettivamente un enorme cumulo
di rifiuti, negli ultimi tempi era diventato un luogo abbastanza ordinato, senza dubbio l'insediamento
umano pi pulito che avessi visto da quando avevo lasciato Namche Bazaar, e gran parte del merito delle
pulizie andava in realt alle spedizioni commerciali.
In questo senso le guide, che portavano clienti sullEverest un anno dopo l'altro, avevano un
interesse che i visitatori occasionali non potevano coltivare. Nell'ambito della spedizione del 1990, Rob
Hall e Gary Ball avevano promosso un'iniziativa per rimuovere cinque tonnellate di rifiuti dal campo base.
Hall e alcuni suoi colleghi avevano anche avviato una collaborazione con i ministri del governo di
Kathmandu per formulare una politica che incoraggiasse gli scalatori a tenere pulita la montagna. Nel
1996, oltre alla tariffa dell'autorizzazione, le spedizioni dovevano versare una somma di quattromila
dollari, destinata a essere rimborsata solo se una quantit prestabilita di rifiuti fosse stata riportata a
Namche e Kathmandu. Anche i barili contenenti gli escrementi estratti dalle nostre latrine dovevano
essere rimossi e portati via.
Il campo base brulicava di attivit come un formicaio. In un certo senso il recinto dell'Adventure
Consultants fungeva da sede del governo per l'intero campo base, perch nessuno sulla montagna
godeva di maggiore rispetto di Hall. Qualunque problema ci fosse, che si trattasse di dispute sindacali
con gli sherpa, di un'emergenza medica o di una decisione critica sulla strategia della scalata, gli interessati
venivano nella tenda-mensa per chiedere consiglio a Hall, che dispensava con generosit la sua saggezza
In almeno due occasioni, una volta nel Wyoming e un'altra a Yosemite, era precipitato a terra da
un'altezza di circa venticinque metri mentre si arrampicava sulla roccia. Durante il periodo in cui aveva
lavorato come assistente istruttore in un corso del NOLS sulla Wind River Range, era piombato sul
fondo di un crepaccio, a venti metri di profondit, nel ghiacciaio Dinwoody, perch non era assicurato
con la corda. Forse la caduta pi disonorevole, per, si era verificata quando era un novellino delle
scalate sul ghiaccio; nonostante l'inesperienza, aveva deciso di tentare l'ambita prima scalata di una
difficile seraccata chiamata Bridal Veil Falls, nel Provo Canyon, nello Utah. Mentre sfidava in velocit
due esperti scalatori sul ghiaccio, Fischer aveva perso la presa a trenta metri d'altezza ed era precipitato
a capofitto.
Con grande stupore di coloro che avevano assistito all'incidente, si era rialzato subito, visto che aveva
riportato ferite relativamente leggere, e si era allontanato con i propri mezzi. Tuttavia durante il lungo volo
verso terra la punta tubolare di una piccozza gli aveva trapassato il polpaccio uscendo dalla parte
opposta, e quando lui l'aveva estratta la punta cava gli aveva asportato un campione di tessuto,
lasciandogli nella gamba un foro abbastanza grande da permettere il passaggio di una matita. Fischer non
vedeva motivo di sprecare le sue limitate risorse finanziarie per farsi curare una ferita cos insignificante,
per cui aveva scalato montagne per sei mesi con una ferita aperta e infetta. Quindici anni dopo, mi mostr
con orgoglio la cicatrice permanente inflittagli da quella caduta: un paio di segni lucenti delle dimensioni di
una monetina da dieci centesimi, ai lati del tendine dAchille.
Scott si spingeva oltre ogni limite fisico, ricorda Don Peterson, un noto scalatore americano che lo
conobbe dopo la caduta dalla Bridal Veil Falls. Peterson divenne per lui una sorta di mentore, che lo ha
accompagnato a intervalli nelle sue scalate nel corso dei vent'anni successivi. Aveva una forza di volont
sbalorditiva. Non importava quanto soffriva; ignorava il dolore e andava avanti. Non era il tipo d'uomo
che si d per vinto perch ha una vescica a un piede.
Scott era divorato dall'ambizione di diventare un grande scalatore, di essere uno dei migliori del mondo.
Ricordo che alla sede del NOLS c'era una specie di rudimentale palestra. Scott entrava in quella stanza e
regolarmente si allenava con tanta intensit da vomitare. Regolarmente. Non cpita spesso di incontrare
persone cos motivate.
Fischer attirava il prossimo con la sua energia e generosit, la sua assenza di malizia, il suo entusiasmo
quasi infantile. Istintivo ed emotivo, poco propenso all'introspezione, aveva quel tipo di personalit
comunicativa e magnetica capace di stabilire in un attimo un'amicizia che dura tutta la vita; centinaia di
persone, fra cui alcune incontrate appena un paio di volte, lo consideravano un amico per la pelle. Per
giunta era straordinariamente attraente, con un fisico da culturista e il viso delicatamente cesellato da divo
del cinema. Fra coloro che si sentivano attratti da lui c'erano non poche rappresentanti del gentil sesso,
alle cui attenzioni non era indifferente.
Uomo dagli appetiti intensi, Fischer fumava parecchia marijuana (tranne quando lavorava) e beveva pi
di quanto fosse salutare. Una stanzetta sul retro dell'ufficio della Mountain Madness fungeva da suo
rifugio segreto, dove amava ritirarsi con gli amici, dopo aver messo i bambini a letto, per passare in giro
la pipa e guardare le diapositive delle loro imprese in alta quota.
Durante gli anni Ottanta Fischer aveva fatto varie scalate impressionanti che gli erano valse una certa
fama a livello locale, ma non era riuscito a ottenere la celebrit nell'ambiente dell'alpinismo internazionale.
Malgrado i suoi sforzi, non era stato in grado di procurarsi un lucroso contratto con uno sponsor del tipo
di quelli che erano toccati ad alcuni dei colleghi pi famosi ed era preoccupato al pensiero che quei
grandi alpinisti non lo rispettassero.
I riconoscimenti erano importanti per Scott, osserva Jane Bromet, la sua agente pubblicitaria,
confidente e frequente compagna di scalate, che accompagn la spedizione della Mountain Madness fino
al campo base per mettere in rete dei file Internet per la Outside Online. Desiderava ardentemente la
celebrit. Aveva un lato vulnerabile che restava sconosciuto alla maggior parte delle persone; era
sinceramente turbato al pensiero di non .essere considerato uno scalatore di tutto rispetto. Si sentiva
sottovalutato e questo lo faceva soffrire.
Quando part per il Nepal, nella primavera del 1996, aveva cominciato a ottenere alcuni dei
riconoscimenti che riteneva gli fossero dovuti. In gran parte gli erano giunti sulla scia della scalata
dell'Everest nel 1994, compiuta senza l'ausilio dell'ossigeno. Battezzata col nome di Sagarmatha
Environmental Expedition, la squadra di Fischer aveva rimosso dalla montagna oltre duemiladuecento
chilogrammi di rifiuti, compiendo unopera molto meritoria per il paesaggio e ancor pi positiva per le
pubbliche relazioni. Nel gennaio 1996, inoltre, Fischer aveva guidato una prestigiosa scalata del
Kilimangiaro a scopo di beneficenza, raccogliendo un milione di dollari a vantaggio dell'organizzazione
umanitaria CARE. In gran parte grazie alla spedizione di pulizia dell'Everest e a quella successiva scalata
di beneficenza, quando part per l'Everest nel 1996 Fischer era apparso spesso in posizione di rilievo sui
media di Seattle e la sua carriera di scalatore era in piena ascesa.
Era inevitabile che i giornalisti gli rivolgessero delle domande sui rischi associati con il genere di alpinismo
da lui praticato e si chiedessero in che modo riusciva a conciliarlo con il ruolo di marito e di padre.
Fischer rispondeva che ora correva di gran lunga meno rischi di quanto avesse fatto nella sua giovent
sfrenata, poich era diventato molto pi prudente e conservatore nelle scalate. Poco prima di partire per
l'Everest nel 1996, aveva confidato allo scrittore di Seattle Bruce Barcott: Sono convinto al cento per
cento che torner... Anche mia moglie ne convinta al cento per cento. Non si preoccupa affatto per
me, quando guido una spedizione, perch sa che far tutte le scelte giuste. Quando succede un incidente,
penso che si tratti sempre di un errore umano, ed questo che voglio evitare. Da giovane ho avuto molti
incidenti. Si possono indicare molte ragioni, ma in ultima analisi il motivo un errore umano.
Nonostante le assicurazioni di Fischer, la sua erratica carriera di alpinista incideva in modo pesante sulla
vita familiare. Andava pazzo per i bambini e quando si trovava a Seattle era un padre eccezionalmente
premuroso, ma le assidue scalate lo tenevano lontano da casa per mesi di fila. Era stato assente a sette
delle nove feste di compleanno del figlio. In effetti, dicono gli amici, quando part per l'Everest nel 1996, il
suo matrimonio era seriamente compromesso, situazione aggravata dalla sua dipendenza finanziaria dalla
moglie.
Come la maggior parte delle agenzie concorrenti, la Mountain Madness era un'impresa con un margine
di profitto quasi inesistente, e lo era fin dagli inizi: nel 1990 Fischer aveva guadagnato appena dodicimila
dollari. Comunque la situazione stava finalmente cominciando a diventare pi promettente, grazie alla
crescente popolarit di Fischer e agli sforzi della sua socia nonch amministratrice, Karen Dickinson,
dotata di capacit organizzative e lucidit che compensavano lo stile rilassato e disinvolto di Fischer nella
gestione degli affari. Ispirandosi al successo ottenuto da Rob Hall come guida all'Everest, e ai lauti
compensi che di conseguenza riusciva a ottenere, Fischer aveva deciso che per lui era venuto il momento
di inserirsi nel mercato dell'Everest. Se fosse riuscito a emulare Hall, questo avrebbe catapultato ben
presto la Mountain Madness nell'orbita dei profitti.
Il denaro in s non rivestiva una straordinaria importanza per Fischer. Si curava poco degli aspetti
materiali della vita, mentre era avido di rispetto - da parte della famiglia, dei colleghi, della societ in
generale - e sapeva che nella nostra cultura il denaro il principale indizio di successo.
Avevo incontrato Fischer a Seattle poche settimane dopo il suo trionfale ritorno dall'Everest. Non
lo conoscevo bene, ma avevamo degli amici in comune e spesso ci incrociavamo sulle pareti di roccia o
alle riunioni di scalatori. In quell'occasione mi aveva parlato a lungo della spedizione guidata che stava
progettando per la scalata dell'Everest, cercando di lusingarmi con la proposta di partecipare anch'io, per
scrivere poi un articolo sulla scalata perOutside . Quando avevo replicato che sarebbe stata una follia
tentare l'Everest per una persona con la mia limitata esperienza dell'alta quota, lui aveva osservato: Eh,
l'esperienza spesso viene sopravvalutata. Tu hai fatto qualche scalata piuttosto pesante, roba molto pi
tosta dell'Everest. Ormai il grande E stato sviscerato da capo a fondo, lo abbiamo ingabbiato del tutto.
Abbiamo costruito un'autostrada fino alla vetta,[12]* te lo assicuro.
Scott aveva solleticato il mio interesse, probabilmente pi di quanto credesse, e da allora non
aveva pi mollato la presa. Ogni volta che mi vedeva riprendeva l'argomento dell'Everest e aveva
ripetutamente interpellato Brad Wetzler, uno dei redattori diOutside , suggerendogli l'idea. Nel gennaio
1996, in gran parte grazie all'azione concertata da Fischer, la rivista prese l'impegno di inviarmi
sull'Everest, probabilmente come membro della sua spedizione, secondo le indicazioni di Wetzler. Nella
mente di Scott l'affare era fatto.
Un mese prima della data prevista per la partenza, per, ricevetti una telefonata da Wetzler con la
notizia che cera stato un cambiamento nei piani: Rob Hall aveva proposto alla rivista un accordo
notevolmente pi vantaggioso, quindi Wetzler mi suggeriva di unirmi alla spedizione dellAdventure
Consultants anzich a quella di Fischer. A quell'epoca conoscevo Fischer e lo apprezzavo, mentre non
sapevo molto di Hall, per cui all'inizio mi mostrai riluttante, ma dopo che un fidato compagno di scalate
mi ebbe confermato la solida reputazione di Hall, accettai con entusiasmo di scalare l'Everest con
l'Adventure Consultants.
Un pomeriggio al campo base, domandai a Hall per quale motivo era stato cos ansioso di avermi
con s. Lui mi rispose con candore che in realt non era particolarmente interessato a me, e neanche alla
notoriet che poteva ottenere dal mio articolo; quello che lo attirava tanto era la messe di inserzioni
pubblicitarie che avrebbe ricavato dall'accordo concluso conOutside .
Mi spieg che, in base ai termini di quell'accordo, avrebbe ricevuto in contanti solo diecimila dollari
della quota abituale; il saldo sarebbe stato versato in natura, e cio con i costosi spazi pubblicitari della
rivista, che si rivolgeva a un pubblico di alto livello, amante dell'avventura e "fisicamente attivo, vale a dire
proprio la base della sua clientela. Cosa ancor pi importante, aggiunse Hall, un pubblico
americano. Probabilmente lottanta o il novanta per cento del mercato potenziale per le spedizioni guidate
sull'Everest e sulle altre Sette Sorelle vive negli Stati Uniti. Dopo questa stagione, in cui si affermato
come guida sull'Everest, il mio amico Scott godr di un grande vantaggio sull'Adventure Consultants per il
solo fatto che ha sede in America. Per competere con lui dovremo innalzare in modo significativo il livello
della nostra presenza pubblicitaria in questo paese.
In gennaio, quando apprese che Hall mi aveva sottratto alla sua squadra, Fischer and su tutte le
furie. Mi telefon dal Colorado, sconvolto come non lo avevo mai sentito, per dirmi che non intendeva
concedere la vittoria a Hall. (Come Hall, Fischer non si cur di nascondermi che non era interessato a
me, bens alla notoriet e alla pubblicit collaterali.) Alla fine, comunque, non se la sent di presentare alla
rivista un'offerta pari a quella di Hall.
Comunque, quando arrivai al campo base con il gruppo dellAdventure Consultants anzich con la
spedizione della Mountain Madness, Scott non mi port rancore. Appena andai a trovarlo al suo campo,
mi vers una tazza di caff, mi mise una mano sulla spalla e parve sinceramente felice di vedermi.
Nonostante i numerosi elementi della civilt moderna presenti al campo base, era impossibile
dimenticare che eravamo oltre cinquemila metri sopra il livello del mare. Lo sforzo necessario per
raggiungere la tenda-mensa all'ora dei pasti mi lasciava ansimante per alcuni minuti e, se mi alzavo troppo
in fretta dalla sedia, mi girava la testa e venivo assalito dalle vertigini. La tosse profonda e raschiante che
avevo contratto a Lobuje peggiorava di giorno in giorno. Il sonno divenne difficile, un sintomo comune
del mal di montagna in forma blanda. Quasi tutte le notti mi svegliavo di soprassalto tre o quattro volte
ansimando per riprendere fiato, con la sensazione di soffocare. Tagli e graffi non si cicatrizzavano;
l'appetito svan e il sistema digestivo, che richiede molto ossigeno per metabolizzare il cibo, non riusciva
ad assimilare quello che mi sforzavo di mangiare, per cui il mio corpo cominci a consumare le riserve, al
punto che braccia e gambe cominciarono pian piano a rinsecchirsi.
Alcuni dei miei compagni di squadra si sentivano ancora peggio di me in quell'aria rarefatta e in
quell'ambiente poco igienico. Andy, Mike, Caroline, Lou, Stuart e John soffrivano di attacchi di
gastroenterite che li costringevano a corse frenetiche verso le latrine, mentre Helen e Doug erano
tormentati da feroci emicranie. Come cerc di spiegarmi Doug, come se qualcuno mi avesse
conficcato un chiodo in mezzo agli occhi.
Quello era il secondo tentativo sull'Everest di Doug con la squadra di Hall. L'anno prima, Rob
aveva costretto lui e altri tre clienti a tornare indietro a cento metri appena dalla cima, perchera tardi e il
crinale della vetta era sepolto sotto una coltre di neve alta e instabile. La vetta sembrava cos vicina,
ricordava Doug con una risata dolorosa. Credimi, da allora non passato giorno che non ci abbia
pensato. Era stato indotto a tornare quell'anno da Hall, il quale, dispiaciuto che a Hansen fosse stato
negato il privilegio di raggiungere la vetta, gli aveva accordato un forte sconto sulla tariffa ordinaria per
consentirgli un altro tentativo.
ra gli altri clienti, Doug era il solo che avesse arrampicato in modo costante senza affidarsi a una
guida professionista; pur non essendo un alpinista eccezionale, aveva quindici anni di esperienza che lo
mettevano perfettamente in grado di badare a s stesso in alta quota. Se c'era qualcuno nella nostra
spedizione capace di raggiungere la vetta, ero convinto che fosse Doug: era forte, era motivato ed era gi
arrivato vicinissimo alla cima dell'Everest.
A meno di due mesi dal quarantasettesimo compleanno, divorziato da diciassette anni, Doug mi
confid che era stato legato a una lunga serie di donne, che prima o poi lo avevano lasciato tutte, stanche
di dover competere con le montagne per ottenere la sua attenzione. Qualche settimana prima di partire
per l'Everest nel 1996, Doug aveva conosciuto un'altra donna durante una visita a un amico di Tucson, e
si era innamorato di lei. Per qualche tempo avevano comunicato fra loro con un turbine di fax, poi erano
trascorsi parecchi giorni senza che Doug avesse ricevuto sue notizie. Immagino che sar rinsavita e mi
avr cancellato dalla sua vita, sospir con un'espressione sconsolata. E dire che era davvero in gamba.
Pensavo proprio che stavolta sarebbe durata.
Qualche ora dopo, quel pomeriggio stesso, si avvicin alla mia tenda sventolando un fax appena
arrivato. Karen Marie mi annuncia che sta per trasferirsi nella zona di Seattle! esclam in estasi.
Accidenti, stavolta potrebbe essere una faccenda seria. Far bene a conquistare la vetta e a togliermi
dalla testa l'Everest prima che lei ci ripensi.
Oltre a intrattenere una corrispondenza con la nuova donna della sua vita, Doug ingannava il tempo al
campo base scrivendo innumerevoli cartoline postali agli allievi della scuola elementare Sunrise,
un'istituzione pubblica di Kent, nello stato di Washington, che aveva venduto delle T-shirt per aiutarlo a
raccogliere i fondi per la scalata. Mi mostr molte delle sue cartoline: C' chi ha grandi sogni e chi ne ha
di piccoli, aveva scritto a una bambina di nome Vanessa. Qualunque sia il tuo sogno, l'importante non
smettere mai di sognarlo.
Doug dedicava dell'altro tempo ascrivere fax ai figli ormai adulti, Angie, di diciannove anni, e Jaime, di
ventisette, che aveva allevato da solo. Era alloggiato nella tenda vicina alla mia e ogni volta che arrivava
un fax di Angie me lo leggeva con un sorriso radioso. Santo cielo, osservava, chi lo avrebbe mai detto
che un povero stronzo come me potesse avere una figlia cos straordinaria?
Da parte mia, scrivevo poche cartoline o fax e passavo la maggior parte del mio tempo al campo base a
chiedermi come mi sarei comportato sulla montagna a quote superiori, in particolare nella cosiddetta
Zona della morte, intorno ai 7600 metri. Avevo al mio attivo pi ore di arrampicata su roccia tecnica e
su ghiaccio della maggior parte degli altri clienti e persino di molte guide, ma sull'Everest l'esperienza
tecnica contava poco o niente, e avevo trascorso a quella quota meno tempo di qualsiasi altro scalatore
presente. In effetti, l al campo base, che si trovava appena ai piedi dell'Everest, ero gi alla quota pi alta
che avessi mai raggiunto in vita mia.
Questo non sembrava impensierire Hall. Dopo sette spedizioni sull'Everest, mi spieg, aveva messo a
punto un sistema di acclimatazione notevolmente efficace, che ci avrebbe consentito di adattarci alla
scarsit di ossigeno nell'atmosfera. (Al campo base l'ossigeno era approssimativamente la met di quello
esistente al livello del mare, mentre in vetta si riduceva a un terzo.) Di fronte a un aumento dell'altitudine, il
corpo umano si adatta in vari modi, dall'aumento del ritmo della respirazione, alla modifcazione del pH
del sangue, a un drastico potenziamento del numero di globuli rossi del sangue portatori di ossigeno; un
processo clie richiede settimane.
Hall insisteva comunque nel dire che dopo tre escursioni al di sopra del campo base, in ciascuna delle
quali saremmo saliti di circa seicento metri sul versante della montagna, il nostro organismo si sarebbe
adattato a sufficienza per consentirci di arrivare senza danni fino in cima, a 8848 metri. Finora ha
funzionato gi nove volte, amico, mi assicur Hall con un sorrisetto malizioso, quando gli confidai i miei
dubbi. E alcuni del tizi che ho portato in cima erano messi quasi peggio di te.
Pi la situazione appare insostenibile e le esigenze si. Fanno pressanti. [per lo scalatore], pi dolce alla
fine l'allentarsi di tutta quella tensione, che consente di nuovo al sangue di scorrere liberamente. La
prossimit del rischio serve solo ad acuire le capactt di percezione e di. controllo, e forse questa la
molla di ogni sport pericoloso: si cerca deliberatamente di innalzare la soglia dello sforzo e della
concentrazione per purificare la mente, si direbbe, dalle banalit. un modellino in scala della vita, ma
con una differenza: mentre di solito nella routine quotidiana si possono correggere gli errori raggiungendo
una sorta di compromesso, in questo caso le azioni, sia pure per un breve periodo, hanno un effletto
letale.
A. ALVAREZ
The Savage God.A Study of Suicide
disponibilit degli yak. Dotato di un talento naturale per la tecnica, Rob adorava le infrastrutture,
l'elettronica e i gadget di ogni genere; dedicava il suo tempo libero ad armeggiare con l'impianto elettrico
a pannelli solari o a leggere i numeri arretrati diPopular Science .
Secondo la tradizione di George Leigh Mallory e di quasi tutti gli altri conquistatori dell'Everest, la
strategia di Hall consisteva nel cingere d'assedio la montagna. Al di sopra del campo base, gli sherpa
installavano una serie progressiva di quattro campi, ciascuno all'incirca seicento metri pi in alto del
precedente, facendo la spola fra un accampamento e l'altro con ingombranti carichi di viveri, combustibile
per la cucina e ossigeno, finch tutto il materiale necessario non era stato ammassato a 7986 metri di
quota, sul Colle Sud. Se tutto procedeva secondo il grande piano di Hall, l'attacco alla vetta sarebbe
stato lanciato da quel campo pi alto, il Campo Quattro, di l a un mese.
Anche se a noi clienti non veniva richiesto di partecipare al trasporto del carico,[13]era necessario
che facessimo ripetute puntate al di sopra del campo base prima dell'attacco alla vetta, per acclimatarci.
Rob annunci che la prima di queste sortite di acclimatazione si sarebbe svolta il 13 aprile: un'escursione
di un giorno intero al Campo Uno, appollaiato sul ciglio superiore della seraccata del Khumbu, ottocento
metri pi in alto.
Dedicammo il pomeriggio del 12 aprile, giorno del mio quarantaduesimo compleanno, a preparare
l'attrezzatura per la salita. Il campo somigliava a una vendita in cortile di prestigiosi articoli sportivi, dal
momento che avevamo sparpagliato tutta la nostra roba fra i macigni per scegliere gli indumenti, regolare
le imbracature, agganciare i moschettoni di sicurezza e fissare i ramponi agli scarponi (i ramponi sono
griglie di spuntoni d'acciaio lunghi cinque centimetri che si agganciano alla suola degli scarponi per fare
presa sul ghiaccio). Rimasi sorpreso e preoccupato nel vedere che Beck, Stuart e Lou toglievano
dall'involucro degli scarponi da montagna nuovi di zecca che, per loro stessa ammissione, avevano
appena provato. Mi domandai se sapessero quali rischi correvano salendo sull'Everest con calzature che
non fossero state opportunamente rodate; vent'anni prima ero partito per una spedizione con un paio di
scarponi nuovi e avevo imparato a mie spese come gli scarponi da montagna rigidi e pesanti possano
causare ferite debilitanti ai piedi, prima di ammorbidirsi con l'uso.
Stuart, il giovane cardiologo canadese, scopr che i ramponi non si adattavano neppure agli
scarponi nuovi. Per fortuna, ricorrendo al suo vasto assortimento di attrezzi e a una notevole ingegnosit
per risolvere il problema, Rob riusc a mettere insieme una cinghia speciale che consentiva di utilizzare i
ramponi.
Mentre preparavo lo zaino per l'indomani, venni a sapere e, fra le esigenze familiari e i problemi
legati a carriere prestigiose e impegnative, pochi dei miei compagni di spedizione aveno avuto
l'opportunit di fare pi di un paio di scalate durante l'anno precedente. Bench apparissero tutti in
eccellenti condizioni fisiche, le circostanze li avevano costretti a svolgere il grosso dell'allenamento sullo
StairMaster e sultapis roulant , anzich su vere e proprie cime. Questo mi diede da riflettere: le
condizioni fisiche rappresentano un fattore essenziale dellalpinismo, ma esistono molti altri aspetti
altrettanto importanti, nessuno dei quali si pu mettere a punto in palestra.
Ma forse sono soltanto uno snob, rimproverai a me stesso. In ogni caso, era evidente che tutti i
miei compagni erano eccitati quanto me alla prospettiva di piantare i ramponi in una montagna autentica,
la mattina dopo.
La via che avremmo seguito verso la vetta percorreva il ghiacciaio del Khumbu risalendo la parte
inferiore della montagna. Dalla crepaccia terminale[14]che ne contrassegnava lestremit superiore, alla
quota di 7000 metri, quel grande fiume di ghiaccio scorreva verso il basso per quasi 3,5 chilometri lungo
una vallata relativamente poco ripida, chiamata Western Cwm o Cwm occidentale. Avanzando a passo
di lumaca su gobbe e cavit presenti sulla parte inferiore del Cwm, il ghiacciaio si frantuma in una serie di
innumerevoli spaccature vertiali dette crepacci. Alcuni di questi crepacci sono tanto stretti da poter
essere superati con un passo, altri invece sono larghi fino a venticinque metri e profondi alcune centinaia,
per unestensione di quasi ottocento metri da un'estremit all'altra. Quelli grandi avrebbero rappresentato
un ostacolo tormentoso alla nostra salita e, se nascosti sotto una crosta di neve, avrebbero costituito un
serio rischio, ma nel corso degli anni le sfide poste dai crepacci del Cwm si erano rivelate prevedibili e
superabili.
La seraccata era tutto un altro discorso: non esisteva tratto che gli scalatori temessero di pi
nell'ascensione al Colle Sud. Intorno ai 6100 metri, nel punto in cui sporgeva dall'estremit inferiore del
Cwm, il ghiacciaio precipitava in basso con un salto verticale. Era la famigerata seraccata del Khumbu, il
tratto tecnicamente pi impegnativo di tutta la scalata.
La velocit di movimento del ghiacciaio in questo tratto stata misurata e valutata fra i novanta e i
centoventi centimetri al giorno. Slittando sul terreno ripido e irregolare con spostamenti intermittenti, la
massa di ghiaccio si frantuma in un caos di enormi blocchi instabili chiamati seracchi, alcuni dei quali
sono grandi come edifici. Poich la via della scalata passava sotto, a fianco e attraverso centinaia di
quelle torri instabili, ogni traversata della seraccata era un pocome un giro di roulette russa: prima o poi
un seracco qualsiasi sarebbe precipitato senza preavviso, e potevi solo sperare di non trovartici sotto in
quel momento. Dal 1963, anno in cui un compagno di Hornbein e Unsoeld che si chiamava Jake
Breitenbach rimase schiacciato sotto un seracco, diventando cos la prima vittima della seraccata, altri
diciotto scalatori hanno trovato la morte in quel tratto.
L'inverno precedente, come aveva gi fatto in passato, Hall si era consultato con gli organizzatori di tutte
le altre spedizioni che progettavano la scalata dell'Everest in primavera, e insieme si erano accordati per
designare fra loro una squadra che si sarebbe assunta la responsabilit di individuare e mantenere aperto
il tracciato attraverso la seraccata. La squadra designata riceveva duemiladuecento dollari per il disturbo
da ciascuna delle altre spedizioni impegnate nell'ascensione. Negli ultimi anni il metodo della cooperativa
aveva incontrato una vasta, se non universale, approvazione, ma non sempre era andata cos.
La prima volta che una spedizione aveva pensato di incaricare unaltra di preparare il percorso sul
ghiaccio era stato nel 1988, quando una squadra americana fornita di finanziamenti generosi aveva
annunciato che qualunque spedizione intendesse seguire il tracciato da loro attrezzato sulla seraccata
avrebbe dovuto versare duemila dollari. Alcune delle altre squadre. impegnate quell'anno nella scalata si
erano indignate, non riuscendo a comprendere che l'Everest non era pi semplicemente una montagna,
ma anche un bene dal punto di vista economico; e le proteste pi veementi erano venute proprio da Rob
Hall, che all'epoca guidava una piccola spedizione neozelandese a corto di fondi.
Hall aveva censurato l'iniziativa, sostenendo che gli americani violavano lo spirito della montagna e
praticavano una forma vergognosa di estorsione alpina, ma Jim Frush, il cinico avvocato che era a capo
della spedizione americana, si era mostrato inflessibile e Hall alla fine aveva accettato a denti stretti di
inviare un assegno a Frush, ottenendo il passaggio attraverso la seraccata del Khumbu, (In seguito Frush
rifer che Hall non aveva mai onorato il suo pagher.)
Meno di due anni dopo, tuttavia, Hall aveva fatto un volta faccia, arrendendosi alla logica di considerare
la seraccata come strada a pedaggio. Anzi, dal 1993 a tutto il 1995 si era offerto volontario per
attrezzare il percorso e riscuotere lui stesso il pedaggio. Nella primavera del 1996 decise di non
assumersi la responsabilit della seraccata, accontentandosi di pagare il capo di una spedizione
commerciale[15]concorrente, un veterano dellEverest di origine scozzese che si chiamava Mal Duff,
perch rilevasse l'incarico. Molto tempo prima che arrivassimo al campo base, una squadra di sherpa
ingaggiati da Duff aveva aperto un percorso a zigzag fra i seracchi, disponendo oltre un chilometro e
mezzo di corde e installando una sessantina di scalette di alluminio sulla superficie irregolare del
ghiacciaio. Le scalette appartenevano a un intraprendente sherpa del villaggio di Gorak, che a ogni
stagione metteva insieme un discreto profitto affittandole.
Cos fu che alle 4.45 del mattino di sabato 13 aprile mi ritrovai ai piedi della leggendaria seraccata,
intento a sistemarmi i ramponi nel gelido crepuscolo che precede l'alba,.
I vecchi alpinisti incalliti che sono scampati di stretta misura a una a vita di rischi amano consigliare ai
loro giovani protetti di ascoltare con attenzione la propria voce interiore, se voglionmo sopravvivere.
Abbondano i racconti su scalatori che hanno deciso di restare nel saccopiuma dopo aver percepito
nell'etere qualche vibrazione sospetta e in questo modo sono scampati alla catastrofe che ha spazzato via
gli altri, incapaci di prestare fede ai presagi.
Non dubitavo affatto del potenziale valore di prestare attenzione al subconscio. Mentre aspettavo che
Rob aprisse la marcia, il ghiaccio sotto di noi emetteva una serie di schiocchi sonori, come se si
spezzassero in due dei giovani tronchi d'albero, e mi sentivo accapponare la pelle a ogni crepitio e
brontolio che proveniva dalle turbolente viscere del ghiacciaio. Il problema era che la mia voce interiore
mi gridava s che ero sull'orlo della morte, ma lo faceva ogni volta che mi allacciavo le stringhe degli
scarponi; quindi feci del mio meglio per ignorare la mia istrionica immaginazione e, stringendo i denti,
seguii Rob in quell'irreale labirinto turchino.
Anche se non avevo mai affrontato una seraccata temibile come quella del Khumbu, ne avevo scalate
molte. Di solito presentano dei passaggi verticali, o addirittura aggettanti, che richiedono una notevole
esperienza con la piccozza e i ramponi. Nella seraccata del Khumbu non mancavano di certo tratti ripidi,
ma erano stati tutti attrezzati con scalette o corde, o tutt'e due, il che rendeva in gran parte superflui gli
attrezzi e le tecniche tradizionali per le scalate su ghiaccio.
Dovevo apprendere ben presto che sull'Everest neanche la corda, la quintessenza dell'attrezzatura dello
scalatore, si utilizza nel modo tradizionale. Di solito un alpinista legato a uno o due compagni con un
tratto di corda lungo quarantacinque metri, e questo fa s che ciascuno sia direttamente responsabile della
vita degli altri; arrampicare in cordata un atto serio e molto intimo. Sulla seraccata del Khumbu, invece,
l'esperienza imponeva che ciascuno di noi arrampicasse in modo indipendente, senza essere legato
fisicamente agli altri in alcun modo.
Gli sherpa di Mal Duff avevano ancorato una corda fissa che si stendeva dal fondo gella seraccata fino
alla sommit. Portavo fissata alla cintura un'asola di sicurezza lunga novanta centimetri, munita di un
moschettone all'estremit libera, e dovevo assicurarmi non legandomi in cordata a un compagno di
squadra, ma agganciando il moschettone di sicurezza alla corda fissa e facendolo scorrere su di essa via
via che salivo. Arrampicando in questo modo, avremmo potuto muoverci con la massima rapidit nei
tratti pi pericolosi della seraccata, senza dover affidare la nostra vita a compagni di cui ignoravamo
l'abilit e l'esperienza. In effetti, per tutta la durata della spedizione non ebbi mai motivo di assicurarmi a
un altro scalatore.
Se da un lato la seraccata imponeva il ricorso ad alcune tecniche di arrampicata ortodosse, dall'altro
esigeva tutto un nuovo repertorio di prestazioni, come per esempio la capacit di procedere in punta di
piedi con scarponi da montagna e ramponi da ghiaccio lungo tre fragili scalette traballanti, assicurate alle
due estremit, per superare abissi tali da aggrovigliare lo stomaco. Ci furono parecchi passaggi del
genere, e non riuscii mai ad abituarmi a quell'esperienza.
A un certo punto mi trovavo in precario equilibrio su una scaletta, nel chiarore incerto che precede
l'alba, e mi spostavo con la massima leggerezza da un piolo incurvato all'altro, quando il ghiaccio che
sosteneva la scala alle due estremit cominci a vibrare come se fosse investito da una scossa tellurica.
Un attimo dopo si ud un rombo spaventoso, mentre un grosso seracco nelle vicinanze precipitava
fragorosamente. Rimasi impietrito, con il cuore in gola, ma la valanga di ghiaccio pass a una quindicina
di metri da me, sulla sinistra, senza causare danni. Dopo aver atteso qualche minuto per ritrovare il
sangue freddo, ripresi il mio numero da equilibrista per raggiungere l'altro capo della scaletta.
Il perenne e spesso violento fluire del ghiacciaio aggiungeva un ulteriore elemento di incertezza a ogni
traversata sulle scalette. Con il movimento del ghiaccio, i crepacci a volte si comprimevano, curvando le
scalette come stecchini da denti, mentre altre volte si espandevano, lasciando una scaletta penzoloni nel
vuoto, sospesa a qualche fragile ancoraggio, senza che nessuna delle due estremit poggiasse su ghiaccio
solido. Gli ancoraggi[16]che assicuravano le scalette e le corde fuoriuscivano regolarmente dal ghiaccio
quando il sole pomeridiano scaldava e fondeva il ghiaccio e la neve circostanti. Nonostante la
manutenzione quotidiana, esisteva il pericolo molto concreto che una corda qualsiasi cedesse sotto il
peso del corpo.
In ogni caso la seraccata, pur essendo molto impegnativa e letteralmente terrificante, aveva anche
un fascino sorprendente. Quando l'alba cancell dal cielo l'oscurit, il ghiacciaio frantumato ci rivel un
paesaggio tridimensionale di una bellezza fantasmagorica. La temperatura era di quattordici gradi
sottozero e i ramponi scricchiolavano con un suono rassicurante sulla crosta del ghiacciaio. Seguendo la
corda fissa, mi aggiravo in un labirinto verticale di stalagmiti di un azzurro cristallino, mentre fortezze di
roccia nuda orlate di ghiaccio fiancheggiavano i bordi del ghiacciaio, sollevate come le spalle di una
divinit malevola. Tutto assorto nell'ambiente che mi circondava e nell'impegno fisico richiesto, mi immersi
nel piacere incondizionato dell'ascesa, e per un paio d'ore dimenticai persino di avere paura.
A tre quarti del cammino dal Campo Uno, durante una pausa di riposo, Hall osserv che la
seraccata era in condizioni migliori di quanto l'avesse mai vista: Di questi tempi il percorso sembra una
vera autostrada. Poco pi in alto, per, a 5800 metri, le corde ci condussero alla base di un gigantesco
seracco in precario equilibrio. Imponente come un edificio alto dodici piani, troneggiava sulla nostra testa
con una inclinazione di trenta gradi sulla verticale. Il percorso seguiva una passerella naturale che risaliva
lungo la parete sporgente con una curva brusca: avremmo dovuto arrampicarci su quella torre pendente,
per poter sfuggire alla sua mole minacciosa.
Compresi che la sicurezza dipendeva dalla velocit e mi affrettai con la massima rapidit possibile
per raggiungere ansimando la relativa sicurezza della sommit del seracco, ma dal momento che non mi
ero ancora acclimatato la mia andatura massima non era pi celere dello strisciare di una lumaca. A
intervalli di quattro o cinque passi dovevo fermarmi, aggrapparmi alla corda e risucchiare disperatamente
l'aria rarefatta e amara, procurandomi un dolore lancinante ai polmoni.
Raggiunsi la sommit del seracco senza che cedesse e mi accasciai senza fiato sulla superficie
piatta, con il cuore che mi pulsava come un maglio. Poco dopo, verso le otto e mezza del mattino, arrivai
in cima alla seraccata stessa, oltre gli ultimi seracchi. La sicurezza del Campo Uno, per, non mi
garantiva una grande serenit: non potevo fare a meno di pensare alla lastra di ghiaccio inclinata in modo
sinistro poco pi in basso, e al fatto che avrei dovuto passare sotto la sua mole instabile almeno altre
sette volte, se volevo conquistare la cima dell'Everest. Gli alpinisti che schernivano quel percorso
definendolo la via degli yak, evidentemente, pensai, non avevano mai affrontato la seraccata del
Khumbu.
Prima di lasciare le tende, Rob ci aveva spiegato che saremmo dovuti tornare indietro alle dieci in
punto, anche se alcuni di noi non avevano ancora raggiunto il Campo Uno, per poter tornare al campo
base prima che il sole di mezzogiorno rendesse ancora pi instabile la seraccata. All'ora stabilita soltanto
Rob, Frank Fishbeck, John Taske, Doug Hansen e io eravamo arrivati al Campo Uno; Yasuko Namba,
Stuart Hutchison, Beck Weathers e Lou Kasischke, scortati dalle guide Mike Groom e Andy Harris, si
trovavano sessanta metri pi in basso del campo, quando Rob attiv la radio per dare l'ordine di tornare
tutti indietro.
Per la prima volta avevamo la possibilit di vederci a vicenda in piena azione e potevamo quindi
valutare i punti forti e quelli deboli delle persone da cui sarebbe dipesa la nostra esistenza nelle prossime
settimane. Doug e John (il pi anziano del gruppo, con i suoi cinquantasei anni) avevano entrambi un'aria
solida, ma la vera sorpresa era Frank, l'editore di Hong Kong dal perfetto aplomb e dal tono di voce
sommesso; facendo tesoro dell'esperienza acquisita nelle tre precedenti spedizioni sull'Everest, era partito
con un'andatura lenta ma regolare, mantenendola per tutto il percorso. All'arrivo in cima alla seraccata
aveva superato quasi tutti, e senza mai dare l'impressione di avere il fiato grosso.
In netto contrasto con lui, Stuart - che era il pi giovane e in apparenza il pi forte di tutta la
squadra - era partito dal campo in testa al gruppo, a tutta velocit, ma ben presto aveva esaurito le forze
e all'arrivo era visibilmente in crisi, nella retroguardia. Lou, ostacolato da uno strappo muscolare a una
gamba che si era procurato durante la prima mattinata di marcia verso il campo base, era lento ma abile;
Beck e soprattutto Yasuko, viceversa, erano apparsi incerti.
Pi di una volta Beck e Yasuko avevano corso il rischio di cadere da una scaletta e precipitare in
un crepaccio, e Yasuko pareva ignorare quasi del tutto l'uso dei ramponi.[17]Andy, che si era rivelato un
insegnante dotato ed estremamente paziente e al quale, come guida pi giovane, era stato assegnato il
compito di accompagnare i clienti pi lenti, in coda al gruppo - le aveva dedicato l'intera mattinata
mostrandole alcune tecniche basilari dell'arrampicata su ghiaccio.
Quali che fossero le varie deficienze del gruppo, una volta raggiunta la sommit della seraccata,
Rob annunci che era molto soddisfatto delle prestazioni di tutti. Per essere la prima volta che salite
oltre il campo base ve la siete cavata alla grande, proclam come un padre orgoglioso dei suoi rampolli.
.Penso che quest'anno abbiamo una squadra dawero forte.
Per ritornre al campo base ci volle poco pi di unora. Quando mi tolsi i ramponi per percorrere
le ultime centinaia di metri fino alle tende, il sole sembrava in grado di scavarmi un buco nel cranio. Il mal
di testa mi colp con tutta la sua violenza pochi minuti dopo, mentre chiacchieravo con Helen e Chhongba
nella tenda-mensa. Non avevo mai provato nulla di simile: un dolore straziante fra le tempie, cos intenso
che era accompagnato da ondate di nausea e brividi e mi rendeva impossibile pronunciare frasi coerenti.
Temendo di essere stato colpito da una sorta di ictus, in piena conversazione, mi allontanai barcollante,
ritirandomi nel saccopiuma e abbassandomi il berretto sugli occhi.
Quel mal di testa aveva l'intensit accecante di un'emicrania, ma non avevo idea della causa che lo
aveva scatenato. Dubitavo che fosse dovuto all'altitudine, perch mi aveva colpito solo al ritorno al
campo base. Era pi probabile che fosse una reazione alle forti radiazioni ultraviolette che mi avevano
bruciato la retina e cotto il cervello. Qualunque fosse la causa, la sofferenza era intensa e senza requie.
Nelle cinque ore seguenti restai disteso nella tenda tentando di evitare ogni stimolo sensoriale. Se aprivo
gli occhi, o anche solo li spostavo da una parte all'altra dietro le palpebre chiuse, ricevevo una scossa di
dolore lancinante. Al tramonto, non riuscendo pi a resistere, mi diressi brancolando verso la tenda
dell'infermeria per chiedere consiglio a Caroline, medico della spedizione.
Lei mi prescrisse un potente analgesico e mi consigli di bere dell'acqua, ma dopo qualche sorso
rigurgitai le pillole, il liquido e i resti del pranzo. Hmmm, medit Caroline, osservando gli schizzi di
vomito sui miei scarponi. Penso che dovremo tentare un altro rimedio. Mi diede istruzione di tenere
sotto la lingua una pillola minuscola, che sciogliendosi mi avrebbe impedito di vomitare, e poi di mandare
gi due compresse di codeina. Un'ora dopo il dolore cominci ad attenuarsi e io, quasi piangendo di
Sonnecchiavo nel saccopiuma, osservando le ombre proiettate sulle pareti della tenda dal sole mattutino,
quando Helen grid: Jon! Telefono! Linda! Calzai in fretta un paio di sandali, superai con un solo
scatto i cinquanta metri che mi separavano .dalla tenda delle comunicazioni e afferrai il ricevitore
sforzandomi di riprendere fiato.
Tutto l'apparato del telefono satellitare e del fax non era molto pi grande di un computer portatile. Le
telefonate erano costose, circa cinque dollari al minuto, e non sempre si riusciva a ottenere la
comunicazione, ma il solo fatto che mia moglie potesse comporre un numero di tredici cifre a Seattle e
parlare con me sul monte Everest mi lasciava sbalordito. Anche se la chiamata mi fu di grande conforto,
la rassegnazione nella voce di Linda era inconfondibile anche dall'altro capo del globo. Me la cavo
bene, mi assicur, ma vorrei che tu fossi qui.
Diciotto giorni prima si era sciolta in lacrime, accompagnandomi all'aereo che mi avrebbe portato nel
Nepal. Mentre tornavo a casa in macchina dall'aeroporto, mi confess, non riuscivo a smettere di
piangere. Quello dei saluti stato uno dei momenti pi tristi della mia vita. A livello inconscio sapevo che
avresti potuto non tornare, e mi sembrava un tale spreco. Mi sembrava cos maledettamente stupido e
inutile.
Eravamo sposati da quindici anni e mezzo. Ci eravamo presentati davanti a un giudice di pace meno di
una settimana dopo che avevamo parlato per la prima volta di fare quel tuffo nel vuoto. A quell'epoca
avevo ventisei anni e da poco avevo deciso di rinunciare alle scalate e affrontare la vita con seriet.
Quando l'avevo conosciuta, anche Linda era una scalatrice, e per giunta straordinariamente dotata; ma
aveva rinunciato all'alpinismo dopo che si era fratturata un braccio e lesionata la schiena, e di
conseguenza aveva soppesato a mente fredda i rischi insiti in quell'attivit. Linda non si sarebbe mai
sognata di chiedermi di abbandonare l'alpinismo, ma l'annuncio che intendevo smettere aveva rafforzato
la sua decisione di sposarmi. Tuttavia non avevo valutato in pieno la presa che l'alpinismo aveva sulla mia
anima, o lo scopo che conferiva alla mia vita altrimenti priva di un timone; non prevedevo il vuoto che
avrebbe lasciato. Meno di un anno dopo, avevo recuperato la corda dal ripostiglio ed ero tornato alla
roccia. Nel 1984, quando ero andato in Svizzera per scalare una parete alpina notoriamente pericolosa,
la Parete nord dell'Eiger, Linda e io eravamo arrivati sull'orlo della separazione, e il nucleo dei nostri
problemi era la mia attivit di alpinista.
Il nostro rapporto era rimasto instabile per due otre anni dopo il mio tentativo fallito sull'Eiger, ma in un
modo o nell'altro il matrimonio era riuscito a soprawivere a quel periodo turbolento. Linda aveva finito
per accettare la mia passione per la montagna, rendendosi conto che era una parte cruciale, bench
sconcertante, della mia natura. L'alpinismo, aveva compreso, era un'espressione essenziale di un aspetto
singolare e immutabile della mia personalit che non potevo modificare pi facilmente di quanto potessi
cambiare il colore dei miei occhi. Poi, nel bel mezzo di quel delicato riawicinamento, la rivistaOutside
aveva confermato la mia missione sull'Everest.
Da principio avevo fatto finta che si sarebbe trattato di un incarico giornalistico pi che alpinistico, che
avevo accettato la missione perch lo sfruttamento commerciale dell'Everest era un argomento
interessante e la somma offerta era allettante. Avevo spiegato a Linda e a chiunque altro esprimesse
scetticismo sulle mie qualifiche per affrontare l'Himalaya che non prevedevo di salire molto in alto.
Probabilmente salir poco pi in alto del campo base, insistetti. Tanto per avere un assaggio di quello
che si prova a un'altitudine cos elevata.
Erano balle, naturalmente. Tenuto conto della durata del viaggio e del tempo che avrei dovuto dedicare
all'allenamento, avrei guadagnato molto di pi restando a casa e svolgendo altri incarichi, ma avevo
accettato quello perch ero vittima del mito dell'Everest. La verit era che desideravo scalare quella
montagna pi di quanto avessi mai desiderato qualsiasi altra cosa in vita mia. Fin dal momento in cui
avevo accettato di andare nel Nepal, la mia intenzione era stata arrivare pi in alto che potevo, tenuto
conto delle mie gambe e dei miei polmoni tutt'altro che eccezionali.
Quando mi aveva accompagnato all'aeroporto, Linda aveva letto ormai da tempo al di l delle mie
proteste superficiali: intuiva la vera portata del mio desiderio, e ne era atterrita. Se resterai ucciso,
aveva obiettato con un misto di disperazione e di collera, non sarai solo tu a pagarne il prezzo. Dovr
pagarlo anch'io, per tutta la vita. Questo non conta per te?
Non rester ucciso, avevo replicato. Non essere melodrammatica.
Esistono uomini sui quali I'irraggiungibile eserdta una particolare attrazione. Di solito non sono esperti: le
loro ambizioni e fantasie sono abbastanza forti da spazzare via i dubbi che uomini pi prudenti
potrebbero nutrire. Le loro armi pi efficaci sono la determinazione e la fede. Nel migliore dei casi questi
uomini sono considerati degli eccentrici. Nel peggiore} dei folli...
LEverest ha avuto la sua parte di fedeli di questo genere. La loro esperienza alpinistica variava da
zero a ben poco; di sicuro nessuno aveva quel tipo di esperienza che rende la scalata dell'Everest un
obiettivo ragionevole. Tutti avevano tre doti in comune: fiducia in se stessi} grande determinazione e
tenacia.
WALT UNSWORTH
Everest
Sono cresduto con unambizione e una determinazione senza le quali sarei vissuto molto pi felicemente.
Riflettendo molto ho finito per assumere l'atteggiamento distaccato dei sognatori perch le vette lontane
esercitavano su di me un grande fascino e attiravano ogni mio pensiero. Non ero troppo sicuro di cosa
potessi raggiungere con la sola tenacia e poche altre capacit ma mi ponevo obiettivi molto impegnativi e
ogni fallimento non faceva che rafforzare la mia determinazione a realizzare almeno uno dei miei grandi
sogni.
EARL DENMAN
Alone to Everest
In quella primavera del 1996, sulle pendici dell'Everest, non mancavano i sognatori: le credenziali di
molti aspiranti scalatori della montagna erano esili quanto le mie, se non di pi. Quando per ciascuno di
noi veniva il momento di valutare le proprie possibilit e di soppesarle contro la sfida formidabile
rappresentata dalla montagna pi alta del mondo, a volte si aveva l'impressione che met della
popolazione del campo base soffrisse di delusione clinica. Forse, per, non sarebbe dovuta essere una
sorpresa: l'Everest ha sempre attirato come una calamita ciarlatani, cacciatori di pubblicit, inguaribili
romantici e altri individui con una presa non troppo salda sulla realt.
Nel marzo 1947, per esempio, arriv a Darjeeling Earl Denman, un ingegnere canadese ridotto in
miseria, che annunci al mondo la sua intenzione di scalare l'Everest, pur avendo una scarsa esperienza
alpinistica ed essendo privo dell'autorizzazione ufficiale per entrare nel Tibet. In un modo o nell'altro,
riusc a convincere due sherpa, Ang Dawa e Tenzing Norgay, ad accompagnarlo.
Tenzing, lo stesso uomo che in seguito avrebbe compiuto la prima scalata dell'Everest insieme con
Hillary, era immigrato a Darjeeling dal Nepal nel 1933, a diciassette anni, sperando di essere ingaggiato
da una spedizione che partiva per la vetta quella primavera sotto la guida di un celebre alpinista inglese
che si chiamava Eric Shipton. Quell'anno il giovane e ambizioso sherpa non fu prescelto, ma rimase in
India e fu ingaggiato in seguito da Shipton per la spedizione inglese sull'Everest del 1935. Quando
accett di accompagnare Denman nel 1947, Tenzing era gi salito tre volte sulla montagna; in seguito
ammise di aver saputo fin dall'inizio che i piani di Denman erano azzardati, ma anche a lui riusciva
impossibile resistere alla forza di attrazione dell'Everest:
Non c'era nulla di sensato in quell'impresa. Primo, probabilmente non saremmo neanche riusciti a entrare
nel Tibet. Secondo, se fossimo entrati probabilmente saremmo stati arrestati e noi guide ci saremmo
trovate in seri guai, alla pari con Denman. Terzo, non credetti neanche per un istante che, anche se
avessimo raggiunto la montagna, un gruppo del genere sarebbe stato in grado di scalarla. Quarto, il
tentativo sarebbe stato estremamente pericoloso. Quinto, Denman non aveva denaro sufficiente n a
pagarci n a garantire una somma decente alle persone che dipendevano da noi, nel caso ci fosse
successo qualcosa. E cos via. Qualunque uomo sano di mente avrebbe detto di no, ma io non ci riuscii,
perch in fondo al cuore sapevo che dovevo andare, e per me l'attrattiva dell'Everest era pi potente di
qualsiasi altra forza al mondo. Ang Dawa e io ne parlammo per qualche minuto, poi prendemmo una
decisione. Ebbene, dissi a Denman, tentiamo.
Mentre la piccola spedizione attraversava il Tibet per raggiungere l'Everest, i due sherpa cominciarono
ad. apprezzare e rispettare sempre di piil canadese. Malgrado l'inesperienza, ammiravano il suo
coraggio e la sua forza fisica. E a suo credito va detto che Denman fu pronto a riconoscere le sue lacune
quando arrivarono alle pendici della montagna e si trovarono di fronte alla realt. Quando furono investiti
in pieno da una tormenta alla quota di 6700 metri, Denman ammise la sconfitta e i tre uomini fecero
dietrofront, tornando sani e salvi a Darjeeling appena cinque settimane dopo la partenza.
Non era stato altrettanto fortunato Maurice Wilson, un inglese idealista e malinconico che aveva tentato
un'impresa altrettanto arrischiata tredici anni prima di Denman. Spinto da un malinteso desiderio di aiutare
il prossimo, Wilson aveva concluso che la scalata dell'Everest sarebbe stata il modo ideale di
pubblicizzare la sua fede nella possibilit di curare la miriade di mali che affliggono l'umanit con una
combinazione di digiuno e fede nell'onnipotenza di Dio. Aveva abbozzato il piano di sorvolare il Tibet con
un piccolo aereo da turismo, compiere un atterraggio di fortuna sulle pendici dell'Everest e di l proseguire
fino alla vetta. La mancanza di qualunque nozione tanto di alpinismo quanto di volo non gli sembrava un
impedimento serio alla realizzazione del progetto.
Dopo aver acquistato un Gypsy Moth con le ali di tela, lo battezz con un gioco di paroleEver Wrest ,
sforzo perpetuo, e apprese i rudimenti del volo. Trascorse quindi cinque settimane ad arrampicarsi
sulle modeste colline della Snowdonia e del Lake District, in Inghilterra, per imparare, a suo parere, lo
stretto indispensabile sulla tecnica della scalata e poi, nel maggio 1933, decoll col suo minuscolo
apparecchio sulla rotta per l'Everest, attraverso Il Cairo, Teheran e l'India.
A. quel punto Wilson aveva attirato su di s una notevole attenzione da parte della stampa. Raggiunse in
aereo Purtabpore, in India,. ma non avendo ottenuto dal governo nepalese il permesso di sorvolare il
Nepal, vendette laereo per cinquecento sterline e raggiunse via terra Darjeeling, dove apprese che gli
era stata negata l'autorizzazione a entrare nel Tibet. Neppure questo valse a dissuaderlo: nel marzo 1934
ingaggi tre sherpa, si travest da monaco buddhista e, sfidando le autorit dell'impero coloniale, percorse
clandestinamente quattrocentottanta chilometri attraverso le foreste del Sikkim e larido altopiano del
Tibet. Il 14 aprile era ai piedi dell'Everest.
Risalendo il ghiacciaio di Rongbuck orientale costellato di massi, da principio fece discreti progressi, ma
poi rimase vittima della sua inesperienza, perdendo pi volte l'orientamento e ritrovandosi frustrato e
sfinito. Tuttavia rifiut di darsi per vinto. Verso la met di maggio aveva raggiunto l'estremit superiore
del ghiacciaio di Rongbuck orientale, a 6400 metri, dove saccheggi una riserva di viveri e attrezzature
nascosta sul posto dalla spedizione fallita di Eric Shipton del 1933. Di l Wilson part per scalare il
versante settentrionale, che portava al Colle Nord, riuscendo ad arrivare a circa 6900 metri prima che
una parete verticale di ghiaccio si rivelasse superiore alle sue possibilit, costringendolo a tornare indietro
verso il luogo dov'erano state nascoste le provviste di Shipton; ma anche stavolta non volle saperne di
rinunciare. Il 28 maggio annot nel suo diario: Ancora un ultimo sforzo, e otterr il successo, poi part
per affrontare ancora una volta la montagna.
Un anno dopo, quando Shipton torn sull'Everest, la sua spedizione s'imbatte nel corpo congelato di
Wilson, disteso sulla neve ai piedi del Colle Nord. Dopo qualche discussione decidemmo di seppellirlo
in un crepaccio, scrisse Charles Warren, uno degli scalatori che avevano ritrovato il cadavere. In quel
momento ci scoprimmo tutti il capo, e penso che fossimo piuttosto scossi. Credevo di essere diventato
indifferente al pensiero della morte, ma per un verso o per laltro, date le circostanze, e forse per il fatto
che, dopo tutto, era perito proprio facendo quello che facevamo noi, la sua tragedia ci colp un
potroppo da vicino.
Le gesta sulle pendici dell'Everest di Wilson e Denman, sognatori appena qualificati come alcuni dei miei
compagni, sono un fenomeno che ha suscitato notevoli critiche; ma il problema di chi sia al suo posto
sull'Everest e chi no pi complicato di quanto possa sembrare a prima vista. Il fatto che uno scalatore
abbia pagato un'ingente somma di denaro per partecipare a una spedizione guidata non significa di per s
che non sia qualificato a trovarsi sulla montagna. Anzi, almeno due delle spedizioni commerciali che si
trovavano sull'Everest nella primavera del 1996 comprendevano veterani dell'Himalaya che sarebbero
stati giudicati qualificati anche in base ai criteri pi rigorosi.
Il 13 aprile, mentre aspettavo al Campo Uno che i miei compagni mi raggiungessero in cima alla
seraccata, un paio di scalatori della squadra della Mountain Madness di Scott Fischer ci superarono
procedendo a un ritmo impressionante. Uno di loro era Klev Schoening, un trentottenne impresario edile
di Seattle, ex componente della squadra nazionale di sci degli Stati Uniti, che, pur essendo
eccezionalmente forte, non aveva una grande esperienza in alta quota. Tuttavia era accompagnato dallo
zio Peter Schoening, una leggenda vivente dell'Himalaya.
Peter, che di l a due mesi avrebbe festeggiato il sessantanovesimo compleanno, era un uomo
allampanato e leggermente curvo, vestito con un completo di GoreTex logoro e sbiadito, che era tornato
sulle pendici superiori dell'Himalaya dopo una lunga assenza. Nel 1958 aveva scritto una pagina di storia,
contribuendo in misura determinante alla prima scalata dello Hidden Peak, una montagna alta 8068 metri
nella catena del Karakorum, in Pakistan, la prima scalata mai effettuata a quella quota da alpinisti
americani. Peter era diventato ancor pi famoso, comunque, per avere interpretato un ruolo eroico in una
spedizione fallita sul K2 nel 1953, lo stesso anno in cui Hillary e Tenzing avevano conquistato la vetta
dell'Everest.
La spedizione, composta da otto uomini, era stata bloccata da una violenta tempesta di vento sul K2,
proprio nel momento in cui stavano per lanciare l'assalto finale alla vetta, quando un componente della
squadra, Art Gilkey, fu colpito da una tromboflebite, un coagulo di sangue nelle vene prodotto
dall'altitudine, che poteva rivelarsi fatale. Rendendosi conto che dovevano trasportare immediatamente in
basso Gilkey, se volevano avere qualche speranza di salvarlo, Schoening e gli altri avevano cominciato a
calarlo lungo il ripido crinale che porta il nome di Cresta degli Abruzzi, sotto l'infuriare della tempesta. A
7620 metri di quota, uno scalatore di nome George Bell era scivolato, trascinando con s altri quattro
compagni. Avvolgendosi istintivamente la corda intorno alle spalle e alla piccozza da ghiaccio, Schoening
era riuscito chiss come a trattenere Gilkey con una mano sola, mentre nello stesso tempo arrestava la
scivolata dei cinque alpinisti evitando di farsi travolgere anche lui. Questa impresa, una delle pi incredibili
negli annali dell'alpinismo, nota da allora semplicemente con il nome di Assicurazione[18].
E ora Pete Schoening si faceva accompagnare sull'Everest da Fischer e dalle sue due guide, Neal
Beidleman e Anatoli Boukreev. Quando chiesi a Beidleman, un possente scalatore del Colorado, come si
sentiva a guidare un cliente .della statura di Schoening, lui si affrett a correggermi con una risatina
autoironica: Uno come me non pu 'guidarePeter Schoening. Considero semplicemente un grande
onore trovarmi nella sua stessa squadra. Schoening aveva firmato il contratto con il gruppo della
Mountain Madness di Fischer non perch avesse bisogno di una guida per farsi accompagnare in cima,
bens per risparmiarsi l'enorme fastidio di ottenere l'autorizzazione e procurarsi ossigeno, tende,
provviste, l'assistenza degli sherpa e altri dettagli logistici.
Pochi minuti dopo che Pete e Klev Schoening erano passati di l diretti alloro Campo Uno, comparve la
loro compagna di squadra Charlotte Fox. Dinamica e statuaria, la Fox era una trentottenne che faceva
parte del corpo di sorveglianza sugli sci di Aspen, nel Colorado, e aveva gi scalato due Ottomila: il
Gasherbrum II, nel Pakistan, alto 8035 metri, e il vicino dell'Everest, il Cho Oyu, di 8201 metri. Ancora
pi avanti, incontrai un componente della spedizione commerciale di Mal Duff, un finlandese di ventotto
anni che si chiamava Veikka Gustafsson e aveva al suo attivo la conquista di una serie di vette himalayane
che comprendeva l'Everest, il Dhaulagiri, il Makalu e il Lhotse.
Nessuno dei clienti di Hall poteva reggere il confronto, dato che non avevano mai raggiunto la vetta di
uno degli Ottomila. Se un uomo come Peter Schoening era l'equivalente di un professionista del baseball
di prima categoria, i miei compagni e io sembravamo una squadra raccogliticcia di giocatori dilettanti di
provincia che si fossero conquistati l'accesso al campionato nazionale a forza di bustarelle. Certo, in cima
alla seraccata Hall ci aveva definiti una squadra davvero forte, e forti lo eravamo davvero, in confronto
ad altri gruppi di clienti che Hall aveva condotto in cima alla montagna negli anni precedenti; ci
nonostante mi appariva chiaro che nessuno di noi aveva la minima speranza di scalare l'Everest senza un
notevole aiuto da parte di Hall, delle sue guide e degli sherpa.
D'altra parte il nostro gruppo era molto pi competente di parecchie altre squadre che si trovavano in
quel momento sulle pendici della montagna. C'erano alcuni scalatori dalle capacit molto dubbie che
facevano parte di una spedizione commerciale condotta da un inglese, le cui credenziali sullHimalaya
erano come minimo oscure; ma le persone meno qualificate sullEverest non erano affatto clienti delle
guide, bens membri di spedizioni non commerciali organizzate in modo tradizionale.
Mentre tornavo al campo base attraversando la parte inferiore della seraccata, superai un paio di
alpinisti pi lenti, forniti di indumenti e attrezzature dall'aspetto molto strano. Apparve quasi subito
evidente che non avevano una grande familiarit con gli attrezzi e le normali tecniche della scalata su
ghiaccio; lo scalatore che procedeva in coda urt pi volte con i ramponi .la superficie del ghiaccio,
incespicando. Mentre aspettavo che superassero l'apertura di un crepaccio sormontata da due scalette
traballanti unite a un'estremit per formare un ponte, restai scosso nel vederli procedere insieme, quasi a
passo doppio, correndo un rischio inutile. Un impacciato tentativo di conversazione dalla parte opposta
del crepaccio mi rivel che erano membri di una spedizione di Taiwan.
La fama dei taiwanesi li aveva preceduti sull'Everest. Nella primavera del 1995, la stessa squadra aveva
raggiunto lAlaska per scalare il monte McKinley, in preparazione al tentativo sull'Everest del 1996.
Nove scalatori erano riusciti ad arrivare in cima, ma sette erano stati sorpresi da una tempesta durante la
discesa, avevano perso l'orientamento ed erano rimasti una notte intera all'aperto a 5900 metri di quota,
provocando una costosa e rischiosa operazione di salvataggio da parte del National Park Service.
Rispondendo a una richiesta dei ranger del parco, Alex Lowe e Conrad Anker, due dei pi abili alpinisti
statunitensi, avevano interrotto una scalata per precipitarsi dalla quota di 4400 metri in soccorso dei
taiwanesi, che ormai erano pi morti che vivi. Superando grandi difficolt e affrontando notevoli rischi per
la loro stessa vita, Lowe e Anker avevano trascinato uno alla volta i taiwanesi in stato di incoscienza da
5900 metri a 5250, dove un elicottero aveva potuto evacuarli dalla montagna. In tutto, cinque
componenti della squadra taiwanese, di cui due con gravi sintomi di assideramento e uno gi morto,
furono prelevati dal monte McKinley a bordo dell'elicottero. Uno solo mor, ricorda Anker, ma se
Alex e io non fossimo arrivati in tempo, ne sarebbero morti altri due. In precedenza avevamo gi notato il
gruppo di Taiwan, perch aveva un'aria cos incompetente. Non stata una grossa sorpresa quando si
sono trovati in difficolt.
Il capo della spedizione, Gau Ming-Ho un gioviale fotografo indipendente che si fa chiamare
Makalu, dal nome della straordinaria vetta himalayana - era esausto e assiderato e per scendere dalle
pendici pi alte della montagna aveva dovuto farsi aiutare da un paio di guide dell'Alaska. Quando gli
alaskani lo portarono gi, riferisce Anker, Makalu gridava: 'Vittoria! Vittoria!' a tutti quelli che
incontravano, come se quel disastro non fosse accaduto. S, quel Makalu mi proprio sembrato un tipo
strano. Quando i superstiti della disfatta sul McKinley comparvero sul versante meridionale dell'Everest
nel 1996, il loro capo era ancora una volta Makalu Gau.
La presenza dei taiwanesi sull'Everest era motivo di notevole preoccupazione per quasi tutte le altre
spedizioni sulla montagna. Serpeggiava fra gli alpinisti la sincera preoccupazione che gli scalatori di
Taiwan costringessero altre spedizioni ad accorrere in loro soccorso, mettendo a repentaglio altre vite
umane, per non parlare del rischio di compromettere le possibilit di raggiungere la vetta degli altri
scalatori. Comunque i taiwanesi non erano il solo gruppo che apparisse del tutto privo dei requisiti
necessari. Accampato accanto a noi al campo base c'era un venticinquenne norvegese di nome Petter
Neby che aveva annunciato la sua intenzione di compiere una scalata solitaria della parete sudovest,[19]
una delle vie pi pericolose e impegnative sul piano tecnico dell'intera montagna, nonostante la sua
esperienza nell'Himalaya fosse limitata a due scalate sul vicino Island Peak, un rilievo alto 6169 metri in
una catena sussidiaria del Lhotse che non richiedeva prestazioni tecniche pi complesse di un'energica
passeggiata.
E poi c'erano i sudafricani. Sponsorizzati da un grande quotidiano, ilSunday Times di Johannesburg,
avevano ispirato con la loro iniziativa un intenso orgoglio nazionale, ricevendo prima della partenza la
benedizione personale del presidente Nelson Mandela. Era la prima spedizione sudafricana alla quale
fosse mai stata concessa l'autorizzazione a scalare l'Everest, un gruppo misto sul piano razziale, che
nutriva lambizione di portare sulla vetta la prima persona di colore. Il loro capo era Ian Woodall, un
trentanovenne loquace con il muso da topo che amava rievocare aneddoti sulle sue valorose imprese di
commando dietro le linee nemiche durante il lungo e brutale conflitto con l'Angola negli anni Ottanta.
Per formare il nucleo della squadra, Woodall aveva reclutato tre dei pi forti scalatori sudafricani: Andy
de Klerk, Andy Hackland e Edmund February. La composizione mista della squadra era particolarmente
importante per February, un negro dalla voce sommessa che era gi un paleoecologo e scalatore di fama
internazionale. I miei genitori mi hanno dato lo stesso nome di sir Edmund Hillary, spiega. Scalare
l'Everest sempre stato uno dei miei sogni personali fin da quando ero giovanissimo. Ma il fatto ancor
pi significativo che consideravo la spedizione come il simbolo potente di una giovane nazione che tenta
di raggiungere l'integrazione e di adottare la forma di governo democratica, sforzandosi di riscattarsi dal
passato. lo sono cresciuto sotto molti aspetti sotto il giogo dell'apartheid, e questo mi amareggia molto,
ma ora siamo una nazione nuova. Credo fermamente nella direzione imboccata dal mio paese.
Dimostrare che noi sudafricani possiamo scalare l'Everest insieme, bianchi e neri, arrivando alla vetta...
sarebbe davvero grande.
La nazione intera si era schierata a favore della spedizione Woodall anci il progetto in un momento
davvero propizio, spiega de Klerk. Con la fine dell'apartheid, i sudafricani erano finalmente liberi di
viaggiare dovunque volevano e le nostre squadre sportive potevano gareggiare in tutto il mondo. Il
Sudafrica aveva appena vinto la coppa del mondo di rugby e aleggiava nell'aria una sorta di euforia
nazionale, una grande ondata di orgoglio. Cos, quando si present Woodall con la proposta di una
spedizione sudafricana sull'Everest, tutti si dichiararono favorevoli e lui pot raccogliere una grossa
somma di denaro, l'equivalente di parecchie centinaia di migliaia di dollari americani, senza che nessuno
facesse troppe domande.
Oltre a s stesso, ai tre scalatori sudafricani e a un alpinista e fotografo inglese, Bruce Herrod, Woodall
voleva includere nella spedizione anche una donna, quindi prima di lasciare il Sudafrica aveva invitato sei
candidate a una scalata fisicamente spossante, ma tecnicamente priva di difficolt, sul Kilimangiaro, alto
5895 metri. Al termine della prova, durata due giorni, Woodall aveva annunciato che la scdta era ristretta
a due fnaliste: Cathy O'Dowd, ventisei anni, un'insegnante di giornalismo bianca dall'esperienza alpinistica
limitata, il cui padre era direttore dell'Anglo American, la pi grande societ del Sudafrica, e Deshun
Deysel, venticinque anni, un'insegnante nera di educazione fisica senza alcuna esperienza di alpinismo, che
era cresciuta in una township segregazionista. Entrambe le donne, aveva detto Woodall, avrebbero
accompagnato la squadra al campo base, e una volta sul posto lui ne avrebbe scelta una per la scalata in
base alla loro prestazione durante la marcia di avvicinamento.
Il 1 aprile, durante il secondo giorno di marcia di avvicinamento al campo base, avevo avuto la
sorpresa di imbattermi in February, Hackland e de Klerk sul sentiero, poco prima di Namche Bazaar,
mentre ridiscendevano dalle montagne, diretti a Kathmandu. De Klerk, che era mio amico, mi aveva
informato che i tre scalatori sudafricani e Charlotte Noble, medico della spedizione, avevano dato le
dimissioni dalla squadra prima ancora di raggiungere la base della montagna. Woodall, il capo, si
rivelato un autentico bastardo, mi aveva spiegato de Klerk. Un maniaco del controllo totale. E poi di
lui non ci si poteva fidare... non si sapeva mai se raccontava balle o diceva la verit. Non abbiamo voluto
mettere la nostra vita nelle mani di quell'uomo, e cos ce ne siamo andati.
Woodall aveva sostenuto con de Klerk e gli altri di avere compiuto numerose scalate in Himalaya, fra
cui alcune al di sopra degli ottomila metri, ma in realt tutta la sua esperienza himalayana si riduceva alla
partecipazione come cliente pagante a una spedizione commerciale sull'Annapurna guidata da Mal Duff
nel 1990, in occasione della quale aveva raggiunto i 6500 metri.
Inoltre prima della partenza per l'Everest Woodall si era vantato, nel sito Internet dedicato alla
spedizione, di avere alle spalle una luminosa carriera nei ranghi dell'esercito inglese al comando della
Long Range Mountain Reconnaissance Unit, una unit di ricognizione che aveva svolto gran parte del suo
addestramento in Himalaya. Aveva raccontato alSunday Times di essere stato anche istruttore della
Royal Military Academy di Sandhurst, in Inghilterra. Si d il caso, invece, che nell'esercito inglese non
esista una Long Range Mountain Reconnaissance Unit, e che Woodall non aveva mai prestato servizio
come istruttore a Sandhurst; del resto non aveva mai combattuto dietro le linee nemiche in Angola.
Secondo un portavoce dell'esercito britannico, Woodall era stato semplicemente un ufficiale pagatore.
Inoltre aveva mentito sul numero di componenti del gruppo iscritti sull'autorizzazione alla scalata
dell'Everest rilasciata dal ministero del Turismo nepalese.[20]Fin dall'inizio aveva sostenuto che tanto
Cathy O'Dowd quanto Deshun Deysel erano elencate nel permesso e che la decisione finale su quale
delle due sarebbe stata invitata a far parte della squadra per la scalata sarebbe stata presa al campo
base. Dopo aver lasciato la spedizione, de Klerk scopr che mentre O'Dowd era indicata
nell'autorizzazione, insieme al padre sessantanovenne di Woodall e a un francese di nome Tierry Renard
(che aveva pagato trentacinquemila dollari a Woodall per far parte della squadra sudafricana), Deshun
Deysel, l'unica persona di colore dopo le dimissioni di Ed February, non lo era. Questo fece capire a de
Klerk che Woodall non aveva mai avuto la minima intenzione di includere Deysel nel gruppo degli
scalatori.
Tanto per aggiungere l'insulto all'offesa, prima di lasciare il Sudafrica Woodall aveva ammonito de Klerk
- che sposato con un'americana e ha la doppia cittadinanza - che non sarebbe stato ammesso a far
parte della spedizione se non avesse accettato di usare il passaporto sudafricano per entrare nel Nepal.
Ne fece un caso nazionale, ricorda de Klerk, perch eravamo la prima spedizione sudafricana
sull'Everest e cos via. E poi salta fuori che lui a non avere un passaporto del Sudafrica. Non ha
neanche la cittadinanza sudafricana: inglese, ed entrato nel Nepal con il passaporto inglese.
Le numerose menzogne di Woodall diventarono uno scandalo internazionale, riportato sulla prima pagina
dei quotidiani di tutto il Commonwealth britannico. Man mano che le reazioni negative della stampa
giungevano fino a lui, il megalomane capo della spedizione si mostr indifferente alle critiche, e isol il pi
possibile la sua squadra dalle altre spedizioni. Giunse a bandire dalla squadra il cronista Ken Vernon e il
fotografo Richard Shorey, delSunday Times , nonostante che avesse firmato un contratto in cui una
clausola specificava che, in cambio dell'appoggio finanziario del giornale, i due giornalisti sarebbero stati
autorizzati ad accompagnare la spedizione in qualsiasi momento e che il mancato rispetto di questa
condizione sarebbe stato causa di rescissione del contratto.
In quel periodo il direttore delSunday Times , Ken Owen, era in viaggio per il campo base in
compagnia della moglie, nel corso di un trekking organizzato in coincidenza con la spedizione sudafricana
sull'Everest, e a fargli da guida era l'amica di Woodall, Alexandrine Gaudin, una giovane francese. A
Pheriche, Owen apprese che Woodall aveva dato il benservito al suo cronista e al suo fotografo.
Sconcertato, invi un messaggio al capo della spedizione, spiegando che il giornale non aveva alcuna
intenzione di ritirare Vernon e Shorey e che i giornalisti avevano ricevuto l'ordine di ricongiungersi alla
spedizione. Quando ricevette questo messaggio, Woodall and su tutte le furie e si precipit dal campo
base a Pheriche per farla finita con Owen.
Secondo quest'ultimo, durante il confronto che segu, lui chiese a bruciapelo a Woodall se il nome di
Deshun Deysel comparisse sull'autorizzazione, e Woodall replic: Questi non sono affari suoi.
Quando Owen insinu che Deysel era stata ridotta a fare da pedina in quanto donna di colore, per
conferire alla squadra un carattere nazionale sudafricano del tutto spurio, Woodall minacci di uccidere
tanto Owen quanto la moglie. A un certo punto il sovreccitato capo della spedizione dichiar: Le
strappo dal collo quella fottuta testa e gliela caccio su per il culo.
Poco dopo il giornalista Ken Vernon, appena arrivato al campo base, fu informato a muso duro dalla
signorina O'Dowd che non ero 'graditoal campo, incidente che fu riferito per la prima volta via fax
dall'apparecchio satellitare di Rob Hall. Come scrisse in seguito Vernon sulSunday Times :
Le risposi che non aveva il diritto di bandirmi da un accampamento per il quale il mio giornale aveva
pagato. Quando insistetti, lei afferm di agire dietro istruzioni del signor Woodall. Mi disse che Shorey
era stato gi espulso dal campo e che avrei dovuto seguirlo, visto che l non mi avrebbero fornito n vitto
n alloggio. Mi tremavano ancora le gambe dopo la marcia e, prima di decidere se battermi contro
l'editto o andarmene, chiesi una tazza di t. Neanche per sogno, fu la risposta. La signorina O'Dowd si
avvicin al capo degli sherpa della spedizione, Ang Dorje, e gli disse in modo che potessi sentire:
Questo Ken Vernon, una delle persone di cui ti ho parlato. Non deve ricevere alcuna forma di
assistenza. Ang Dorje un pezzo d'uomo duro come una pepita, col quale avevamo gi diviso parecchi
bicchieri di chang, la forte bevanda locale. Lo guardai chiedendo: Neanche una tazza di t? Va detto a
suo credito che, nella migliore tradizione dell'ospitalit sherpa, guard la signorina O'Dowd ed esclam:
Sciocchezze. Mi afferr per il braccio, mi trascin nella tenda-mensa e mi serv una tazza di t fumante
con un piatto di biscotti.
In seguito a quello che defin il suo scontro agghiacciante con Woodall a Pheriche, Owen si convinse
che ...l'atmosfera della spedizione era malsana e che i dipendenti delSunday Times , Ken Vernon e
Richard Shorey, potevano correre pericolo di vita. Diede quindi istruzioni a Vernon e Shorey di tornare
in Sudafrica e il quotidiano pubblic una dichiarazione in cui affermava di revocare la sponsorizzazione
della spedizione.
Tuttavia, poiche Woodall aveva gi ricevuto il finanziamento del quotidiano, questo atto rimase
puramente simbolico, senza esercitare quasi alcun impatto sulla sua condotta sull'Everest. Si rifiut di
rinunciare al comando della spedizione o di scendere a qualsiasi compromesso, anche dopo avere
ricevuto una lettera dal presidente Mandela, che lo invitava a una riconciliazione nell'interesse nazionale.
Woodall insistette ostinatamente perch la scalata dell'Everest procedesse come previsto, con lui
saldamente al timone.
Di ritorno a Citt del Capo dopo il fallimento della spedizione, February descrisse la sua delusione.
Forse sono stato un ingenuo, dichiar con voce rotta dall'emozione, ma negli anni dell'adolescenza ho
odiato l'apartheid. Scalare l'Everest insieme con Andrew e gli altri sarebbe stata una grande prova che le
antiche usanze erano state abbandonate. Woodall non aveva il minimo interesse alla nascita di un nuovo
Sudafrica. Ha preso i sogni di un'intera nazione e li ha usati per i suoi scopi egoistici. La decisione di
lasciare la spedizione stata la pi penosa di tutta la mia vita.
Con la partenza di February, Hackland e de Klerk, nessuno dei componenti che erano rimasti a far
parte della squadra (fatta eccezione per il francese Renard, che si era unito alla spedizione solo per
essere elencato sul permesso e compiva la scalata in modo del tutto indipendente dagli altri, con i suoi
sherpa personali) aveva un'esperienza alpinistica superiore al minimo indispensabile; almeno due di loro,
ricorda de Klerk, non sapevano neppure allacciarsi i ramponi.
Lo scalatore solitario norvegese, gli alpinisti di Taiwan e soprattutto i sudafricani erano spesso oggetto di
discussione nella tenda-mensa di Hall. Con tanti incompetenti in giro per la montagna, osserv
accigliato Rob una sera, verso la fine di aprile, mi sembra piuttosto improbabile che si riesca ad arrivare
alla fine della stagione senza che succeda qualcosa di brutto, lass.
Dubito che qualcuno possa sostenere di amare la vita alle alte quote; di amarla, intendo, nel senso
ordinario del termine, Si prova, vero, una sorta di tetra soddisfazione nel progredire verso lalto sia
pure lentamente; ma si obbligati a trascorrere la maggior parte del tempo nell'estremo squallore di un
campo in alta quota, sempre che anche questo conforto sia possibile, Fumare impossibile, il cibo tende
a provocare il vomito; la necessit di ridurre il peso al minimo impedisce di portare con se qualsiasi forma
di letteratura che non sia quella rappresentata dalle etichette sulle scatolette di cibo; l'olio delle sardine, il
latte condensato e la melassa si versano dappertutto; tranne brevissimi istante durante i quali di solito non
si dell'umore adatto per godere di piaceri di natura estetica, non c' altro da vedere se non il
deprimente caos che regna all'interno della tenda e l'aspetto irsuto e barbuto del proprio compagno di
spedizione (per fortuna il fragore del vento sommerge di solito il suono del suo respiro ansimante), Peggio
ancora, si avverte una sensazione di totale impotenza e incapacit ad affrontare qualunque emergenza
possa presentarsi, In genere tentavo di consolarmi col pensiero che un anno prima sarei stato eccitato alla
sola idea di partecipare all'impresa in corso, ma l'altitudine esercita sulla mente lo stesso effetto che ha sul
corpo: lintelletto diventa torpido e insensibile, e il mio unico desiderio era portare a termine quel dannato
lavoro e ridiscendere per trovare un clima pi decente .
ERIC SHIPTON
Upon That Mountain
Poco prima dell'alba di marted 16 aprile, dopo due giorni di riposo al campo base, ci avventurammo
ancora una volta nel labirinto della seraccata per cominciare la seconda escursione di acclimatazione,
Mentre seguivo nervosamente il tortuoso percorso segnato in mezzo a quel caos di ghiaccio che emetteva
sinistri gemiti e scricchiolii, mi accorsi di non avere il respiro affannoso come nella prima ascensione sul
ghiacciaio: il mio organismo si stava gi adattando all'altitudine. Il terrore di essere schiacciato dalla
caduta di un seracco, invece, era rimasto assolutamente immutato,
Speravo che ormai quella gigantesca torre pendente a 5800 metri, soprannominata Trappola per topi
da qualche buontempone della squadra di Fischer, fosse crollata; invece era sempre l, in precario
equilibrio, ancora pi inclinata di prima. Anche stavolta misi a repentaglio il mio apparato cardiovascolare
affrettandomi a salire in alto per sottrarmi alla sua ombra minacciosa, e anche stavolta mi sentii cedere le
ginocchia appena arrivato sulla sommit del seracco, in debito di ossigeno e tremante per leccesso di
adrenalina che mi frizzava nelle vene.
A differenza dalla prima escursione di acclimatazione, durante la quale eravamo rimasti al Campo Uno
meno di un'ora prima di tornare al campo base, questa volta Rob aveva intenzione di farci trascorrere
lass le notti del marted e del mercoled, per proseguire poi per il Campo Due, dove avremmo
pernottato ancora tre volte prima di ridiscendere al campo base.
Alle nove di mattina, quando raggiunsi il Campo Uno, Ang Dorje,[21]il nostrosirdar scalatore,[22]stava
scavando delle piattaforme per le tende nel pendio di neve ghiacciata. A ventinove anni, Ang Dorje un
uomo snello dai lineamenti delicati, con un carattere schivo e ombroso e una forza fisica sorprendente.
Mentre aspettavo l'arrivo dei miei compagni, presi una pala in soprannumero e cominciai ad aiutarlo, ma
nel giro di pochi minuti ero esausto per lo sforzo e dovetti sedermi a riposare, strappando allo sherpa una
sonora risata. Non ti senti bene, Jon? mi prese in giro. E pensare che questo solo il Campo Uno, a
seimila metri. Qui l'aria ancora molto densa.
Ang Dorje era originario di Pangboche, un agglomerato di case di pietra e campi terrazzati coltivati a
patate che si estende su un pendio scosceso alla quota di 3960 metri. Suo padre era uno sherpa
scalatore molto stimato, che gli aveva insegnato fin dai primi anni di vita i rudimenti dell'alpinismo, in
modo che il ragazzo potesse acquisire delle capacit utili a procurargli un lavoro. Quando Ang Dorje era
appena adolescente, il padre era diventato cieco a causa di una cataratta e lui aveva dovuto abbandonare
la scuola per guadagnare e mantenere la famiglia.
Nel 1984, mentre lavorava come inserviente di cucina per un gruppo di trekker occidentali, aveva
attirato lattenzione di una coppia canadese, Marion Boyd e Graem Nelson. Ricorda oggi Boyd:
Sentivo la mancanza dei miei figli e, quando cominciai a conoscere meglio Ang Dorje, scoprii che mi
ricordava il mio primogenito. Era un ragazzo vivace, pieno di interessi, ansioso di apprendere e
coscienzioso fin quasi all'eccesso. Si sobbarcava lavori durissimi e soffriva tutti i giorni di emorragie dal
naso a causa dell'altitudine. Ne restai colpita.
Dopo aver ottenuto l'approvazione della madre di Ang Dorje, Boyd e Nelson avevano cominciato a
finanziare il giovane sherpa perch potesse tornare a scuola. Non dimenticher mai il suo esame di
ammissione [per entrare alla scuola elementare regionale di Khumjung, costruita da sir Edmund Hillary].
Era molto piccolo di statura, anche se in et prepuberale. Ci fecero stipare tutti in una stanzetta, insieme
con il direttore e quattro maestri, mentre Ang Dorje stava impalato in mezzo a noi, con le ginocchia che
gli tremavano, e tentava di riesumare quel poco di istruzione formale che ricordava per superare l'esame
orale. Sudammo sangue tutti quanti, ma alla fine fu accolto, a condizione che frequentasse le prime classi
insieme con i bambini pi piccoli.
Col tempo Ang Dorje era diventato un ottimo studente, e aveva ottenuto l'equivalente di una licenza
media prima di lasciare la scuola per tornare al lavoro, nell'industria dell'alpinismo e del trekking. Boyd e
Nelson, tornati a pi riprese nel Khumbu, avevano assistito alla sua maturazione. Ora che aveva per la
prima volta la possibilit di seguire una dieta adeguata, cominci a diventare alto e forte, ricorda Boyd.
Ci raccont tutto eccitato che aveva imparato a nuotare in una piscina di Kathmandu. A venticinque
anni circa, impar ad andare in bicicletta e fu vittima di una breve infatuazione per la musica di Madonna.
Capimmo che era davvero cresciuto, quando ci offr il suo primo regalo, un tappeto tibetano scelto con
molta cura. Voleva donare qualcosa anche lui e non solo ricevere.
Quando la reputazione di Ang Dorje come scalatore forte e pieno di risorse si era diffusa fra gli alpinisti
occidentali era stato promosso al ruolo disirdar e in quella veste, nel 1992, era andato a lavorare per
Rob Hall sull'Everest; al momento del lancio della spedizione di Hall nel 1996, Ang Dorje aveva gi
scalato la montagna tre volte. Riferendosi a lui con rispetto ed evidente affetto, Hall lo definiva il mio
principale assistente e disse pi volte che considerava essenziale il suo ruolo per il successo della
spedizione.
Il sole splendeva luminoso, quando l'ultimo dei miei compagni raggiunse il Campo Uno, ma verso
mezzogiorno una frotta di cirri alti provenienti dal sud si era gi ammassata nel cielo; alle tre del
pomeriggio dense nubi turbinavano sul ghiacciaio e la neve tamburellava sulle tende con un fragore
assordante. La tempesta dur tutta la notte; al mattino, quando uscii carponi dalla tenda che dividevo con
Doug, il ghiacciaio era coperto da uno strato di neve fresca alto pi di trenta centimetri. Decine di
valanghe precipitavano rombando lungo le ripide pareti pi in alto, ma il nostro accampamento era al
sicuro, fuori della loro portata.
Alle prime luci dell'alba di gioved 18 aprile, quando il cielo ormai si era schiarito, raccogliemmo il nostro
equipaggiamento per intraprendere la marcia di trasferimento al Campo Due, a sei chilometri e mezzo di
distanza e a un'altitudine superiore di cinquecentodiciotto metri. Il percorso saliva lungo il fondo in lieve
pendenza del Cwm occidentale, il circo morenico pi alto della terra, una depressione a ferro di cavallo
scavata dal ghiacciaio del Khumbu nel cuore del massiccio dell'Everest. Il Cwm era delimitato sulla
destra dai bastioni del Nuptse, alto 7879 metri, mentre l'imponente parete sudoccidentale dell'Everest
formava la parete sinistra, e l'ampio fronte ghiacciato della parete del Lhotse dominava lo sfondo.
Quando ci mettemmo in marcia dal Campo Uno la temperatura era spaventosamente bassa, tanto che
mi sentivo le mani ridotte ad artigli rigidi e doloranti, ma, non appena i primi raggi di sole investirono il
ghiacciaio, le superfici del Cwm raccolsero e amplificarono il calore radiante come un enorme forno a
energia solare. Fui assalito all'improvviso da una vampata di calore e, temendo l'arrivo di un'altra
emicrania della stessa intensit di quella che mi aveva colpito al campo base, mi tolsi tutto quello che
indossavo sopra la biancheria termica e ficcai una manciata di neve sotto il berretto da baseball. Marciai
per tre ore di seguito sul ghiacciaio, stordito ma di buon passo, fermandomi solo per bere dalla bottiglia
dell'acqua e per rinnovare sotto il berretto la riserva di neve che si scioglieva a contatto con i capelli
ormai impastati.
All'altezza di 6400 metri, ormai inebetito dal caldo, m'imbattei in un grosso oggetto avvolto in un telo di
plastica blu e abbandonato lungo la pista. Il mio cervello, intorpidito dall'altitudine, impieg un paio di
minuti per capire che quell'oggetto era un corpo umano; scosso e turbato, restai a fissarlo per qualche
minuto. Quella sera, quando chiesi informazioni, Rob mi disse che non ne era sicuro, ma pensava che la
vittima fosse uno sherpa morto tre anni prima.
Il Campo Due, a 6500 metri di quota, comprendeva circa centoventi tende sparse sulla nuda roccia
della morena laterale, lungo il bordo del ghiacciaio. Lass l'altitudine si manifest come una forza maligna,
che mi infliggeva un malessere simile ai postumi di una violenta sbornia di vino rosso. Troppo sofferente
per mangiare e persino per leggere, trascorsi la maggior parte dei due giorni seguenti chiuso nella mia
tenda, .con la testa fra le mani, tentando di ridurre gli sforzi al minimo indispensabile. Il sabato,
sentendomi leggermente meglio, salii di circa trecento metri sopra il campo, per fare un podi moto e
accelerare l'acclimatazione, e l, alla sommit del Cwm e a una cinquantina di metri dalla pista principale,
trovai nella neve un altro corpo umano, o meglio, la parte inferiore di un corpo. Lo stile dell'abbigliamento
e gli scarponi di cuoio pregiato mi fecero pensare che la vittima fosse un europeo e che il corpo si
trovasse sulla montagna da almeno dieci o quindici anni.
Il ritrovamento del primo cadavere mi aveva lasciato fortemente scosso per alcune ore, mentre lo shock
dell'impatto col secondo svan quasi subito. Pochi degli scalatori che salivano faticosamente avevano
dedicato a entrambi pi di uno sguardo casuale. Era come se sulla montagna regnasse il tacito accordo di
far finta che quei resti essiccati non fossero reali; come se nessuno di noi osasse riconoscere qual era la
vera posta in gioco, lass.
Luned 22 aprile, un giorno dopo il rientro dal Campo Due al campo base, Andy Harris e io ci recammo
nell'accampamento dei sudafricani per cercare di capire come mai si erano ridotti a essere considerati dei
paria. Situato a una quindicina di minuti dalle nostre tende, sullo stesso ghiacciaio, il loro campo era tutto
raccolto su una gobba di detriti glaciali, sulla quale svettavano un paio di alti pali di alluminio con le
bandiere nazionali del Nepal e del Sudafrica, oltre a striscioni pubblicitari della Kodak, della Apple e di
altri sponsor. Andy fece capolino nella tenda-mensa e, sfoggiando il suo sorriso pi accattivante,
esclam: Ehil, c' qualcuno in casa?
Si venne a sapere che Ian Woodall, Cathy O'Dowd e Bruce Herrod si trovavano sulla seraccata,
impegnati nella discesa dal Campo Due, ma era presente la fidanzata di Woodall, Alexandrine Gaudin,
insieme al fratello, Philip Woodall. Inoltre nella tenda c'era una giovane donna esuberante, che si present
come Deshun Deysel, e invit Andy e me a prendere il t. I tre componenti della squadra sembravano
indifferenti agli echi negativi del discutibile comportamento di Ian e alle voci che predicevano l'imminente
disintegrazione della spedizione.
Laltro giorno ho fatto la mia prima arrampicata sul ghiaccio, esclam Deysel in tono entusiastico,
accennando a un vicino seracco sul quale si allenavano i componenti di varie spedizioni, per mettere alla
prova le loro capacit. Mi sembrato davvero emozionante. Spero di salire fra qualche giorno sulla
seraccata. Avrei voluto chiederle che cosa pensava della slealt di Ian e come si era sentita nello
scoprire di non essere inclusa nell'autorizzazione alla scalata dell'Everest, ma lei era cos allegra e ingenua
che non me la sentii di farlo. Dopo una conversazione di una ventina di minuti, Andy invit tutta la
squadra sudafricana, compreso Ian, a fare un salto nel nostro accampamento per bere un goccetto
quella sera stessa, sul tardi.
Quando tornai al campo, per, trovai Rob, la dottoressa Caroline Mackenzie e il medico della
spedizione di Scott Fischer, Ingrid Hunt, impegnati in una conversazione radio piuttosto tesa con
qualcuno che si trovava pi in alto sulla pista. Qualche ora prima, scendendo dal Campo Due verso il
campo base, Fischer aveva incontrato uno dei suoi sherpa, Ngawang Topche, seduto sul ghiacciaio a
6400 metri d'altezza. Ngawang, un veterano di trentotto anni che proveniva dalla valle di Rolwaling, con
un sorriso pieno di vuoti e un carattere mite, lavorava al campo base da tre giorni, trasportando carichi e
svolgendo altre mansioni, ma i suoi compagni si erano lamentati pi volte, protestando che si fermava
spesso a riposare, senza svolgere la sua parte del lavoro.
Interrogato da Fischer, Ngawang aveva ammesso di sentirsi debole, stordito e a corto di fiato da pi di
due giorni, Fisher, quindi, gli aveva ordinato di scendere subito al campo base; nella cultura degli sherpa,
per, rientra una componente di machismo che li rende estremamente restii ad ammettere delle infermit
fisiche. Gli sherpa non dovrebbero essere colpiti dal mal di montagna, soprattutto quelli della Rolwaling,
una regione famosa per i suoi possenti scalatori; quelli che vi sono soggetti e lo ammettono apertamente
finiscono spesso nella lista nera, perdendo cos l'occasione di essere ingaggiati dalle spedizioni
successive. Per questo Ngawang aveva ignorato le istruzioni di Scott e, invece di scendere, era salito al
Campo Due per trascorrervi la notte.
Quando aveva raggiunto le tende, nel tardo pomeriggio, ormai delirava, incespicando come un ubriaco e
sputando a ogni colpo di tosse della schiuma rosea mista a sangue: tutti sintomi che indicavano un caso
avanzato di edema polmonare causato dall'altitudine, una malattia misteriosa e potenzialmente letale,
causata dall'ascesa troppo rapida a una quota eccessivamente alta per cui i polmoni si riempiono di siero.
[23]L'unica cura realmente valida per l'edema polmonare una rapida discesa; se la vittima resta a lungo
ad alta quota, l'esito pi probabile la morte.
A differenza di Hall, il quale insisteva perch tutto il gruppo restasse unito durante le scalate al di sopra
del campo base, sotto la stretta sorveglianza delle guide, Fischer era un fautore dell'opportunit di
lasciare liberi i clienti di spostarsi su e gi per la montagna durante il periodo di acclimatazione. Di
conseguenza, quando si era scoperto che Ngawang era grave, al Campo Due c'erano quattro clienti di
Fischer, ossia Dale Kruse, Pete Schoening, Klev Schoening e Tim Madsen, ma nessuna guida. La
responsabilit del soccorso di Ngawang era ricaduta quindi sulle spalle di Klev Schoening e di Madsen;
quest'ultimo, che aveva trentatre anni, era una semplice guardia forestale di Aspen, nel Colorado, e non
aveva mai superato i 4200 metri di altitudine prima di quella spedizione, alla quale era stato convinto a
unirsi dalla sua ragazza, la veterana dell'Himalaya Charlotte Fox.
Quando entrai nella tenda-mensa di Hall, la dottoressa Mackenzie era alla radio che diceva a qualcuno
al Campo Due: Somministrate a Ngawang acetazolamide, dexamethasone e dieci milligrammi di
nifedipina sublinguale... S, conosco il rischio. Dategliela comunque... Vi assicuro che il rischio che muoia
di edema polmonare prima che riusciamo a portarlo gi molto, ma molto pi alto del pericolo che la
nifedipina gli faccia calare la pressione del sangue a un livello pericoloso. Vi prego, fidatevi di me! Dategli
quei farmaci, presto!
spedizione nel duplice ruolo di medico della squadra e organizzatrice del campo base.
Pur esprimendo una certa ambivalenza riguardo a quella proposta in una lettera inviata a Fischer in
gennaio, Hunt accett alla fine quell'incarico non retribuito e arriv nel Nepal alla fine di marzo, ansiosa di
contribuire al successo della spedizione. Tuttavia il peso della gestione del campo base e delle esigenze
mediche di circa venticinque persone si era rivelato superiore alle sue previsioni. (Tanto per fare un
confronto, Rob Hall stipendiava a tempo pieno due persone di notevole esperienza, la dottoressa
Caroline Mackenzie e l'organizzatrice del campo base Helen Wilton, per sbrigare il lavoro che Hunt
faceva da sola, e per giunta gratis.) A peggiorare le sue difficolt, inoltre, Hunt aveva problemi di
acclimatazione e per quasi tutto il soggiorno al campo base accus forti mal di testa e affanno.
Dopo che Ngawang era crollato durante il tentativo di scendere a valle, marted mattina, ed era stato
riportato a braccia al campo base, non gli fu somministrato di nuovo ossigeno, bench le sue condizioni
continuassero a peggiorare, in parte perch sosteneva ostinatamente di non essere malato. Alle sette di
quella mattina arriv di gran carriera da Pheriche il dottor Litch, che sugger energicamente a Hunt di
cominciare a somministrare ossigeno a Ngawang, aprendo la valvola al massimo, e di chiamare un
elicottero.
Ormai Ngawang perdeva conoscenza di continuo e aveva gravi difficolt respiratorie. Il mercoled
mattina, 24 aprile, fu richiesto un elicottero, ma le nuvole e le nevicate impedivano il volo, cos Ngawang
fu caricato in una cesta e, sotto le cure di Hunt, fu trasportato a Pheriche a dorso di sherpa.
Quel pomeriggio l'espressione accigliata di Hall trad la sua preoccupazione. Ngawang molto grave,
osserv. Ha uno dei peggiori casi di edema polmonare che abbia mai visto. Avrebbero dovuto portarlo
via con l'elicottero ieri, quando ce n'era la possibilit. Se fosse stato uno dei clienti di Scott a sentirsi cos
male, anziche uno sherpa, non credo che lo avrebbero curato con tanta superficialit. Quando arriver
gi a Pheriche forse sar troppo tardi per salvarlo.
Quando lo sherpa ammalato raggiunse la clinica della HRA il mercoled pomeriggio, dopo un tragitto di
dodici ore, le sue condizioni continuarono a peggiorare, nonostante ora si trovasse a 4267 metri
(un'altitudine non molto superiore a quella del villaggio in cui aveva trascorso quasi tutta la vita), e questo
costrinse Hunt a metterlo, contro la sua volont, nel sacco di Gamow pressurizzato. Ngawang, che ne
era terrorizzato e non riusciva d'altronde a comprenderne i benefici, fece convocare un lama buddhista e,
dopo aver acconsentito a farsi chiudere con la lampo all'interno, cosa che evidentemente gli causava un
senso di claustrofobia, chiese di poter avere con s nel sacco i libri di preghiera.
Perch il sacco di Gamow funzioni a dovere, necessario che un assistente immetta continuamente
all'interno dell'aria pura mediante una pompa a pedale. Il mercoled sera Hunt, esausta dopo aver
assistito ininterrottamente Ngawang per quarantotto ore, affid la responsabilit della pompa ad alcuni
sherpa amici di Ngawang. Mentre lei schiacciava un pisolino, uno degli sherpa si accorse, attraverso la
finestrella di plastica trasparente del sacco, che Ngawang aveva la bocca ricoperta di schiuma e non
dava pi segno di respirare.
Svegliata con questa notizia, la dottoressa Hunt apr subito il sacco, diede inizio alla rianimazione
cardiopolmonare, e chiam il dottor Larry Silver, uno dei volontari che lavoravano alla clinica della HRA.
Dopo che Silver ebbe inserito un tubo nella trachea di Ngawang, immettendogli a forza dell'aria nei
polmoni con un tubicino di gomma {una pompa amano), Ngawang riprese a respirare, ma soltanto dopo
un periodo di almeno quattro o cinque minuti in cui l'ossigeno non era affluito al cervello.
Due giorni dopo, venerd 26 aprile, il tempo finalmente miglior quanto bastava per consentire il
trasporto in elicottero e Ngawang fu trasferito in un ospedale di Kathmandu, ma i medici annunciarono
che aveva riportato gravi danni cerebrali; ormai era ridotto a poco pi che un vegetale. Nelle settimane
seguenti langu in ospedale, con lo sguardo vacuo rivolto al soffitto, le braccia distese lungo i fianchi e i
muscoli atrofizzati, arrivando a pesare meno di quaranta chili. Verso la met di giugno mor, lasciando la
moglie e quattro figlie nella Rolwaling.
Quello che desta stupore che il caso di Ngawang fosse noto, pi che agli scalatori impegnati nella
scalata dell'Everest, a decine di migliaia di persone che si trovavano ben lontane dalla montagna. Questo
ghiribizzo dell'informazione era dovuto a Internet, e a noi che eravamo al campo base faceva un effetto
addirittura surreale. Un compagno di squadra, per esempio, poteva chiamare la famiglia con il telefono
satellitare e apprendere quello che facevano i sud africani al campo base dalla moglie che navigava sul
World Wide Web dalla Nuova Zelanda o dal Michigan.
Almeno cinque siti Internet diffondevano rapporti[24]inviati da corrispondenti al campo base
sull'Everest. La squadra sudafricana aveva aperto un sito tutto suo sul Web, cos come la International
Commercial Expedition di Mal Duff. Nova, lo spettacolo televisivo della PBS, produceva un bollettino in
rete complesso e molto ricco di informazioni, trasmettendo aggiornamenti quotidiani grazie a Liesl Clark e
all'eminente storico dell'Everest Audrey Salkeld, che facevano parte della spedizione MacGillivray
Freeman IMAX. (La squadra dell'IMAX, diretta dall'abile regista ed esperto scalatore David
Breashears, che aveva guidato Dick Bass sull'Everest nel 1985, stava girando un film sulla scalata del
costo di cinque milioni e mezzo di dollari, destinato al grande schermo.) La spedizione di Scott Fischer
aveva non meno di due corrispondenti che inviavano messaggi online per un paio di siti Web in
concorrenza fra loro.
Jane Bromet, che inviava ogni giorno rapporti telefonici per Outside Online,[25]era una delle due
corrispondenti della squadra di Fischer, ma, non essendo una cliente, non era autorizzata a salire pi in
alto del campo base. L'altra corrispondente nella spedizione di Fischer, invece, era una cliente che
intendeva arrivare alla vetta e lungo il percorso inviava messaggi quotidiani per la Interactive Media della
NBC: si chiamava Sandy Hill Pittman, e sulla montagna non c'era personaggio pi in vista di lei o pi
bersagliato dai pettegolezzi.
Pittman, una miliardaria interessata ai problemi sociali e appassionata di alpinismo, era tornata a dare
l'assalto all'Everest per la terza volta. Quell'anno era pi decisa che mai a raggiungere la vetta,
completando cos la sua crociata molto pubblicizzata per scalare le Sette Sorelle.
Nel 1993 si era unita a una spedizione guidata che tentava la via del Colle Sud e della Cresta Sud-Est, e
aveva fatto scalpore presentandosi al campo base con il figlio di nove anni, Bo e una bambinaia che
doveva occuparsi di lui. Tuttavia aveva accusato una serie di problemi ed era arrivata appena a 7300
metri, prima di essere costretta a tornare indietro.
Nel 1994 era tornata sull'Everest, dopo avere raccolto oltre duecentocinquantamila dollari da sponsor
commerciali per assicurarsi le prestazioni di quattro dei migliori alpinisti del Nordamerica: Breashears
(che aveva un contratto per filmare la spedizione per la rete NBC), Steve Swenson, Barry Blanchard e
Alex Lowe. Lowe - a detta di alcuni il migliore scalatore del mondo - era stato ingaggiato come guida
personale di Sandy, incarico per il quale aveva ricevuto un generoso compenso. I quattro erano partiti
prima della Pittman per attrezzare con le corde una parte della parete Kangshung, una parete
estremamente difficile e rischiosa sul versante tibetano della montagna. Con una buona dose di assistenza
da parte di Lowe, Pittman era salita con le corde fisse fino a 6700 metri, ma ancora una volta era stata
costretta a rinunciare prima di raggiungere la vetta; stavolta il problema era costituito dalle condizioni
pericolosamente instabili della neve, che avevano costretto l'intera squadra ad abbandonare la montagna.
Finch non mi ero imbattuto casualmente in lei a Gorak Shep, durante la marcia verso il campo base,
non avevo mai incontrato Pittman faccia a faccia, pur avendo sentito parlare di lei da anni. Nel 1992, la
rivistaMen's Journal mi aveva incaricato di scrivere un articolo su un viaggio che avrei dovuto compiere
da New York a San Francisco in sella a una motocicletta Harley-Davidson in compagnia di Jann Wenner
{il leggendario e iperbolicamente ricco editore diRolling Stone ,Men's Journal eUs ) e di alcuni dei suoi
ricchi amici, fra cui Rocky Hill, il fratello di Pittman, e il marito, Bob Pittman, il cofondatore della MTV.
La Hog grondante di cromature e dal rombo assordante che Jann mi aveva prestato era un veicolo
eccitante, e i miei compagni di viaggio d'alto bordo erano abbastanza cordiali, ma avevo ben poco in
comune con loro e sia a loro sia a me riusciva impossibile dimenticare che partecipavo al viaggio dietro
compenso di Jann. A cena Bob, Jann e Rocky confrontavano il modello di aereo privato che
possedevano (Jann mi raccomand un Gulfstream IV, non appena fossi stato in grado di permettermi un
jet personale), discutevano delle loro tenute in campagna e parlavano di Sandy, che guarda caso in quel
periodo stava scalando il monte McKinley. Ehi, sugger Bob quando apprese che ero anch'io un
appassionato di alpinismo, tu e Sandy dovreste scalare qualche montagna insieme, una volta o laltra.
Ed era quello che stavamo facendo adesso, a quattro anni di distanza.
Alta un metro e ottanta, Sandy Pittman mi sopravanzava di circa sei centimetri e i capelli corti da
monello apparivano pettinati con eleganza anche lass a cinquemila metri. Esuberante e spiccia nei modi,
era cresciuta nella California settentrionale, dove il padre l'aveva iniziata da bambina alle gioie del
campeggio, delle escursioni a piedi e dello sci. Apprezzando la libert e i piaceri della collina, aveva
continuato a dilettarsi di escursioni anche durante gli anni del college e oltre, bench la frequenza delle sue
gite in montagna fosse diminuita notevolmente dopo il trasferimento a New York verso la met degli anni
Settanta, in seguito al fallimento del primo matrimonio.
A Manhattan, Sandy Pittman avevalavorato comebuyer per la casa Bonwit Teller, come esperta di
merchandising per Mademoiselle e come redattrice di bellezza in una rivista chiamataBride's , prima di
sposare Bob Pittman. Infaticabile nell'attirare su di s l'attenzione del pubblico, Sandy si era fatta un
nome e compariva regolarmente nelle rubriche mondane di New York, frequentando Blaine Trump, Tom
e Meredith Brokaw, Isaac Mizrahi e Martha Stewart. Per poter fare pi comodamente i pendolari fra la
loro opulenta residenza nel Connecticut e un appartamento in Central Park West carico di opere d'arte e
gestito da domestici in livrea, lei e il marito avevano acquistato un elicottero, che impararono a pilotare.
Nel 1990 Sandy e Bob Pittman erano apparsi sulla copertina della rivistaNew York con il titolo La
coppia del momento.
Poco dopo Sandy aveva intrapreso la costosa e reclamizzata campagna per diventare la prima donna
americana che avesse mai scalato le Sette Sorelle. Tuttavia l'ultima, e precisamente l'Everest, continuava
a sfuggirle, e nel marzo 1994 Sandy aveva perso la gara contro il tempo a favore di una quarantasettenne
alpinista e ostetrica dell'Alaska, Dolly Lefever. Ciononostante, aveva continuato la sua ostinata caccia
all'Everest.
Come osserv Beck Weathers una sera al campo base, quando Sandy va a scalare una montagna, non
lo fa esattamente come voi e me. Nel 1993 Beck era stato nellAntartide per un'ascensione guidata al
Mount Vinson nello stesso periodo in cui Pittman scalava la montagna con un altro gruppo guidato, e
ricordava con una risatina che lei si trascinava dietro una gigantesca sacca piena di ghiottonerie da
gourmet , che richiedeva quattro persone solo per sollevarla. Inoltre si era portata anche un televisore
portatile e un videoregistratore per poter guardare i film nella sua tenda. Voglio dire, bisogna ammettere
che non sono in molti a scalare le montagne con questo stile. Beck riferiva inoltre che Sandy aveva
diviso generosamente con gli altri partecipanti alla scalata tutto quel bendidio e che era una persona
simpatica e interessante da avere accanto.
Per l'assalto all'Everest del 1996, Pittman aveva messo insieme ancora una volta un equipaggiamento
che non si vede di solito negli accampamenti degli scalatori. Il giorno precedente alla partenza per il
Nepal, in uno dei primi messaggi Web per la Interactive Media della NBC, aveva annunciato entusiasta:
Tutta la mia roba pronta. A quanto pare avr tanto il computer e lapparecchiatura elettronica quanto
lattrezzatura per la scalata... Due computer portatili IBM, una videocamera, tre macchine fotografiche
da 35mm, una macchina fotografica digitale Kodak, due registratori a nastro, un lettore di CD-ROM,
una stampante, pi pannelli solari e batterie sufficienti per alimentare il tutto (almeno spero) ...Non mi
sognerei mai di lasciare la citt senza una buona scorta di miscela Dean & DeLuca's Near East e .la
macchinetta per lespresso. Dal momento che arriveremo sullEverest verso Pasqua, mi sono portata
quattro uova di cioccolato. Una caccia all'uovo di Pasqua a seimila metri di quota ? Vedremo !
Quella sera, il cronista mondano Billy Norwich aveva organizzato un ricevimento di addio per Sandy
Pittman da Nell's, nel centro di Manhattan. La lista degli ospiti comprendeva Bianca Jagger e Calvin
Klein. Amante dei travestimenti, Sandy si era presentata indossando sopra l'abito da sera la tuta da
alpinista, con tanto di scarponi da montagna, ramponi, piccozza da ghiaccio e una bandoliera di
moschettoni.
Al suo arrivo sull'Himalaya, aveva dato l'impressione di voler mantenere il pi possibile le abitudini
dell'alta societ. Durante la marcia fino al campo base, un giovane sherpa di nome Pemba era addetto ad
arrotolare ogni mattina il suo saccopiuma e prepararle lo zaino. Quando giunse ai piedi dell'Everest
insieme al resto del gruppo di Fischer, ai primi di aprile, il suo bagaglio comprendeva pile di ritagli di
giornali che la riguardavano da distribuire agli altri residenti del campo base. Entro pochi giorni
cominciarono ad arrivare regolarmente dei corrieri sherpa che le recapitavano dei pacchetti spediti al
campo base tramite la DHL Worldwide Express; contenevano fra laltro gli ultimi numeri diVogue ,
Vanity Fair ,People ,Allure . Gli sherpa erano affascinati dalle fotografie pubblicitarie della biancheria e
consideravano un bottino ambito le striscette imbevute di profumo inserite nelle riviste come campioni di
prova.
La squadra di Scott Fischer era affiatata e compatta; quasi tutti i compagni di Sandy Pittman accettarono
le sue manie e parvero accoglierla in seno al gruppo senza eccessive difficolt. Sandy poteva essere una
compagnia estenuante, perch doveva stare sempre al centro dell'attenzione e non faceva che parlare di
s, ricorda Jane Bromet. Ma non era una persona negativa; non abbassava il morale del gruppo, anzi
era piena di energia e su di tono quasi tutti i giorni.
Ci nonostante, parecchi esperti alpinisti che non facevano parte del suo gruppo consideravano la
Pittman una dilettante esibizionista. Dopo il tentativo fallito di scalata della parete Kangshung nel 1994,
uno spot pubblicitario della Vaseline Intensive Care (principale sponsor della spedizione) era stato
sonoramente deriso dagli esperti perch presentava la Pittman come un'alpinista di classe mondiale.
Tuttavia lei non aveva mai rivendicato questo ruolo; anzi, in un articolo pubblicato suMen's Journal
sottoline che voleva che Breashears, Lowe, Swenson e Blanchard capissero che non ho mai
scambiato le mie capacit di dilettante avida di emozioni con la loro abilit di scalatori di livello
internazionale.
I suoi illustri compagni di scalata nel tentativo del 1994 non la criticarono mai, almeno non in pubblico.
Dopo quella spedizione, anzi, Breashears divenne un suo grande amico e Swenson la difese spesso dai
detrattori. Vedi, mi aveva spiegato una volta Swenson durante un ricevimento a Seatt.le, poco dopo il
loro ritorno dall'Everest, forse Sandy non una grande alpinista, ma sulla parete Kangshung ha
riconosciuto i suoi limiti. S, vero che Alex, Barry e David e io abbiamo fatto tutto il lavoro di
preparazione e fissato tutte le corde, ma a modo suo anche lei ha contribuito al tentativo, mostrando un
atteggiamento positivo, raccogliendo i fondi e trattando con i media.
Comunque non le mancavano certo le critiche. Molti erano offesi dal suo ostentato sfoggio di denaro e
dall'impudenza con la quale cercava le luci della ribalta. Come riferiva Joanne Kaufman sulWall Street
Journal :
La signora Pittman nota in alcuni circoli pi come arrampicatrice sociale che come scalatrice di
montagne. Lei e il signor Pittman erano ospiti abituali in tutte le soiree mondane e le manifestazioni di
beneficenza, oltre che protagonisti fissi di tutte le rubriche mondane. Pi d'uno si sentito tirare per le
falde della giacca dalle dita tenaci di Sandy Pittman, commenta un ex socio in affari del signor Pittman
che desidera mantenere l'anonimato. A lei interessa la pubblicit. Se avesse dovuto restare
nell'anonimato, non credo che si sarebbe dedicata a scalare montagne.
Che sia giusto o. no, agli occhi dei suoi detrattori Sandy Pittman incarnava tutto ci che vi era di
reprensibile nella volgarizzazione delle Sette Sorelle per opera di Dick Bass e nella successiva
degradazione della montagna pi alta del mondo. D'altronde lei, isolata dal suo denaro, da un folto
gruppo di collaboratori pagati e da un'incrollabile fede in s stessa, restava all'oscuro del risentimento e
del disprezzo che ispirava agli altri, altrettanto ignara della Emma di Jane Austen.
Se racconttiamo delle storie a noi stessi per poter vivere...Andiamo in cerca della predica in un suicidio
della lezione sociale o morale nellomicidio di cinque persone. Interpretiamo ci che vediamo optando
per la soluzione pi funzionale fra le tante che si offrono alla nostra scelta. Soprattutto se siamo scrittori;
tutta la nostra vita consiste nel sovrapporre una linea narrativa a immagini disparate nel dipanare le idee
con le quali abbiamo imparato a cristallizzare la cangiante fantasmagoria della nostra esperienza.
JOAN DIDION
The White Album
Alle quattro del mattino, quando la sveglia del mio orologio da polso cominci a trillare, ero gi
sveglio; avevo passato quasi tutta la notte in bianco, lottando per respirare in quell'aria pi rarefatta. E
adesso era gi l'ora di incominciare l'odiato rituale di emergere dal calore del bozzolo di piume d'oca per
esporsi al freddo agghiacciante dei 6500 metri di altitudine. Due giorni prima, venerd 26 aprile, avevamo
risalito tutto il percorso dal campo base al Campo Due in un solo giorno per dare inizio alla terza e ultima
escursione di acclimatazione, preparandoci all'assalto finale alla vetta. Quella mattina, secondo il grande
piano di Rob, avremmo dovuto salire dal Campo Due al Campo Tre per trascorrere una notte a 7300
metri.
Rob ci aveva detto di tenerci pronti a partire alle quattro e tre quarti in punto, vale adire dopo tre
quarti d'ora, quindi la tabella oraria mi concedeva appena il tempo di vestirmi, mandare gi a forza una
barretta dolce con una tazza di t emettere i ramponi. Mentre puntavo la lampada del casco su un
termometro da quattro soldi fissato alla giacca a vento che avevo usato come cuscino, vidi che la
temperatura all'interno dell'angusta tenda per due persone era scesa aventi gradi sotto zero. Doug!
gridai alla massa informe sepolta nel saccopiuma accanto a me. Ora di alzarsi, Slick. Sei sveglio, l
dentro?
Sveglio? mi rispose con voce roca e stanca. Che cosa ti fa pensare che sia riuscito a dormire?
Ho l'impressione di avere qualcosa che non va alla gola. Amico, sto diventando troppo vecchio per
questa vita.
Durante la notte, le fetide esalazioni del nostro respiro si erano condensate sul tessuto della tenda,
formando un fragile strato interno di brina; quando mi sedetti e cominciai a frugare attorno a me nel buio,
in cerca dei vestiti, mi riusc impossibile non sfiorare le basse pareti di nylon, e ogni volta scatenavo una
tormenta all'interno della tenda, ricoprendo ogni cosa di una pioggia di cristalli di ghiaccio. Scosso da
violenti brividi, mi riparai con tre strati di soffice biancheria in pile chiusa dalle lampo, vi sovrapposi un
guscio esterno di nylon antivento, poi infilai gli scarponi di plastica scricchiolante. Latto di stringere i lacci
mi strapp una smorfia di dolore; nelle ultime due settimane le condizioni delle mie dita screpolate e
sanguinanti non avevano fatto che peggiorare nell'aria gelida.
Fuori dal campo alla luce delle lampade, sulle orme di Rob e Frank, cominciai a procedere a zigzag
fra torri di ghiaccio e cumuli di sassi per raggiungere il corpo principale del ghiacciaio. Nelle due ore
successive salimmo lungo un pendio lievemente inclinato come un campetto da sci per principianti, prima
di arrivare alla crepaccia terminale che delimitava l'estremit superiore del ghiacciaio del Khumbu. Subito
s'innalz sopra di noi la parete del Lhotse, un vasto mare inclinato di ghiaccio che scintillava come un
mucchio di cromature sporche alla luce obliqua dell'alba. Da quella superficie gelata scendeva sinuosa,
come se pendesse dal cielo, una sola corda da nove millimetri, che ammiccava invitante verso di noi,
come il gambo di fagiolo della favola di Jack. Afferrandone lestremit inferiore, assicurai la maniglia
jumar[26]alla corda leggermente logora e cominciai la salita.
Fin da quando avevo lasciato il campo soffrivo un freddo fastidioso, perch avevo indossato
indumenti pi leggeri del solito in previsione dell'effetto forno che si verificava tutte le mattine quando il
sole investiva il Cwm occidentale. Invece quella mattina la temperatura rimase rigida per effetto di un
vento tagliente che soffiava dall'alto della montagna, creando un gelo che scendeva forse addirittura a
quaranta gradi sotto zero. Nello zaino avevo un altro maglione in pile, ma per indossarlo avrei dovuto
prima togliermi i guanti, lo zaino e la giacca a vento, sempre restando sospeso alla corda fissa.
Preoccupato al pensiero che mi cadesse qualcosa, decisi di aspettare finche non avessi raggiunto un
tratto di parete meno ripido, dove tenermi in equilibrio senza stare aggrappato alla corda. Cos continuai
a salire, e a sentire sempre pi freddo.
Il vento sollevava enormi onde turbinanti di neve farinosa che scorrevano gi per la montagna come
frangenti, incollando ai miei abiti uno strato di brina. Sugli occhiali si form un guscio di ghiaccio che mi
appannava la vista. Cominciavo a perdere la sensibilit nei piedi e mi sentivo le dita delle mani legnose.
Proseguire in quelle condizioni diventava sempre meno prudente. io ero in testa alla fila, a settemila metri,
quindici minuti pi avanti della guida Mike Groom, e decisi di aspettarlo per parlare con lui della
situazione. Ma proprio un attimo prima che lui mi raggiungesse, la voce di Rob risuon brusca alla radio
che Mike portava dentro la giacca, e lui interruppe la salita per rispondere alla chiamata. Rob vuole che
scendiamo tutti! annunci, gridando per farsi sentire al di sopra del vento. Via di qui!
Era mezzogiorno quando rientrammo al Campo Due e cominciammo a valutare i danni. io ero
stanco, ma per il resto stavo bene. John Taske, il medico australiano, aveva un lieve principio di
congelamento alla punta delle dita. Doug, invece, aveva riportato guai seri: togliendosi gli scarponi, scopr
di avere un principio di congelamento a parecchie dita dei piedi. Nel 1995, durante il primo tentativo
sull'Everest, si era congelato i piedi in modo tanto grave da perdere una parte di tessuto da un alluce,
danneggiando la circolazione in modo permanente, e questo lo rendeva particolarmente sensibile al
freddo; ora quel congelamento supplementare lo rendeva ancor pi vulnerabile alle condizioni
atmosferiche rigide che regnavano nella parte superiore della montagna.
Ancora pi gravi, comunque, erano i danni al suo apparato respiratorio. Meno di due settimane
prima della partenza per il Nepal, Doug aveva dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico alla
gola, che aveva lasciato la trachea estremamente sensibile. Quella. mattina, aspirando boccate di aria
caustica e satura di neve, si era evidentemente congelato la laringe. Sono fottuto, gracchi con un
sussurro appena percettibile, apparentemente distrutto. Non riesco neanche a parlare. Per me finita.
Non darti ancora per vinto, Douglas, lo rincuor Rob. Aspetta di vedere come ti sentirai fra un paio
di giorni. Sei un bastardo con la pelle dura. Penso che tu abbia ancora una buona probabilit di arrivare
sulla vetta, quando ti sarai rimesso. Tutt'altro che convinto, Doug si ritir nella tenda che dividevamo,
avvolgendosi nel saccopiuma fin sopra la testa. Era dura vederlo cos avvilito; per me era diventato un
buon amico, che dispensava generosamente la saggezza acquisita durante il fallito tentativo di scalata del
1995. Al principio della spedizione mi aveva regalato un amuleto sacro buddhista benedetto dal lama del
monastero di Pangboche, che portavo orgogliosamente al collo in segno del legame che mi univa a lui.
Desideravo che arrivasse in cima anche lui quasi con la stessa intensit con la quale volevo raggiungerla
io.
Per il resto della giornata aleggi sul campo unatmosfera di shock e di blanda depressione. Pur senza
mostrarci il suo volto peggiore, la montagna ci aveva costretti a rintanarci con la coda fra le gambe. E non
tocc solo alla nostra squadra ritrovarsi mortificata e piena di dubbi: il morale sembrava basso in
parecchie delle spedizioni al Campo Due.
Il malumore si manifest in modo particolarmente evidente nel dissidio che scoppi fra Hall e i capi delle
spedizioni di Taiwan e del Sudafrica a proposito del compito di installare oltre un chilometro e mezzo di
corde per assicurare il percorso di salita sulla parete del Lhotse. Verso la fine di aprile era stata gi
fissata una serie di corde fra l'estremit superiore del Cwm e il Campo Tre, a circa met della parete. Per
completare il lavoro, Hall, Fischer, Ian Woodall, Makalu Gau e Todd Burleson (il capo americano della
spedizione guidata dell'Alpine Ascents) si erano accordati sul fatto che il 26 aprile uno o due membri di
ogni squadra avrebbero unito le loro forze per installare le corde sul resto della parete che rappresentava
il passaggio fra il Campo Tre e il Campo Quattro, a 7986 metri di altitudine. Ma non era andata secondo
le previsioni.
Quando Ang Dorje e Lhakpa Chhiri, della squadra di Hall, la guida Anatoli Boukreev, della squadra di
Fischer, e uno sherpa della squadra di Burleson erano partiti dal Campo Due, la mattina del 26 aprile, gli
sherpa che avrebbero dovuto unirsi a loro dalle squadre del Sudafrica e di Taiwan erano rimasti nei
sacchipiuma, rifiutandosi di collaborare. Quel pomeriggio Hall, appena lo aveva saputo al suo arrivo al
Campo Due, aveva fatto delle chiamate radio per scoprire come mai il piano era andato a monte. Kami
Dorje Sherpa, ilsirdar della spedizione di Taiwan, si era profuso in scuse, promettendo di rimediare, ma
quando Hall aveva chiamato alla radio Woodall, l'incorreggibile organizzatore della spedizione
sudafricana gli aveva risposto con un fuoco di fila di oscenit e insulti.
Manteniamo la questione su un piano civile, amico, lo aveva rimbeccato Hall. Credevo che avessimo
concluso un accordo. Woodall aveva replicato che i suoi sherpa erano rimasti nelle tende solo perch
nessuno era venuto a svegliarli per informarli che c'era bisogno del loro aiuto. Hall aveva ribattuto che in
realt Ang Dorje aveva cercato pi volte di scuoterli, ma loro avevano ignorato le sue insistenti richieste.
A quel punto Woodall aveva dichiarato: O sei uno spudorato bugiardo, oppure lo il tuo sherpa.
Dopodich aveva minacciato di mandare. un paio di sherpa della sua squadra a sistemare Ang Dorje a
suon di pugni.
A due giorni di distanza da quello sgradevole scambio di battute, l'ostilit fra la nostra squadra e quella
sudafricana non accennava a diminuire, e ad accentuare il malumore che regnava nel Campo Due
contribuivano le notizie frammentarie che ci giungevano sul peggioramento delle condizioni di Ngawang
Topche. Quando continu a peggiorare anche a bassa quota, i medici ipotizzarono che il suo male non
fosse un semplice edema polmonare, ma piuttosto un caso di edema complicato dalla tubercolosi o da
qualche affezione polmonare preesistente. Gli sherpa, invece, avevano una diagnosi diversa: erano
convinti che uno degli scalatori della squadra di Fischer avesse mandato in collera l'Everest - o meglio
Sagarmatha, la dea del cielo e che la divinit si fosse vendicata su Ngawang.
Lo scalatore in questione aveva intrecciato una relazione con una componente di una spedizione che
tentava la scalata del Lhotse. Poich la privacy non esisteva entro i ristretti confini del campo base, le
effusioni amorose che si svolgevano nella tenda della donna erano doverosamente registrate dagli altri
membri della squadra, specie gli sherpa, che durante quei convegni se ne stavano seduti fuori, puntando il
dito e ammiccando. [X] e [Y] fanno porcherie, fanno porcherie, commentavano fra un risolino e l'altro,
e mimavano l'atto sessuale inserendo un dito nel pugno chiuso formato con l'altra mano.
Nonostante le risate (per non parlare delle loro abitudini notoriamente libertine), comunque, gli sherpa
disapprovavano il sesso fra coppie non sposate sulle divine pendici del Sagarmatha. Ogni volta che il
tempo volgeva al brutto, accadeva che l'uno o l'altro sherpa puntasse il dito verso le nuvole che
ribollivano in alto, dichiarando con seriet: Qualcuno ha fatto porcherie. Porta sfortuna. Ora verr la
tempesta.
Sandy Pittman aveva riportato questa superstizione in una nota del suo, diario della spedizione nel 1994,
immesso su Internet nel 1996:
24 aprile 1994
Campo base dell'Everest (metri 5350),
Parete Kangshung, Tibet
Questopomeriggio... arrivato un
corriere postale che ha portato lettere da
casa per tutti pi una rivista porno,
inviata per scherzo da qualcuno che .laggi
in patria ha a cuore il benessere degli
scalatori. ...Met degli sherpa se l'
portata nella tenda per dedicarle
un'ispezione pi attenta, mentre l'altra
Il buddhismo praticato sulle alte pendici del Khumbu ha un sapore nettamente animistico; gli sherpa
venerano un intricato miscuglio di divinit e spiriti che abiterebbero le gole, i fiumi e le vette della regione,
e rendere il dovuto omaggio a questo insieme di divinit , ritenuto di importanza fondamentale per
assicurare un passaggio senza incidenti attraverso il terreno pieno di insidie.
Per placare Sagarmatha, quell'anno, come del resto tutti gli anni, gli sherpa avevano costruito oltre una
dozzina di bellissimichorten di pietra, edificati con cura meticolosa, uno per ogni spedizione. L'altare del
nostro campo, un cubo perfetto del lato di un metro e mezzo, era sormontato da un triumvirato di pietre
appuntite scelte con cura, sopra le quali s'innalzava un palo di legno alto tre metri, coronato da un
elegante ramoscello di ginepro. Inoltre cinque lunghe catene di bandiere di preghiera[27]multicolori
s'irradiavano dal palo sopra le nostre tende per proteggere l'accampamento dal male. Ogni mattina prima
dell'alba ilsirdar del nostro campo base, uno sherpa benevolo e molto rispettato che aveva superato la
quarantina e si chiamava Ang Tshering, bruciava bastoncini di incenso di ginepro e innalzava preghiere al
chorten ; prima di dirigersi verso la seraccata, tanto gli occidentali quanto gli sherpa passavano accanto
all'altare, lasciandolo sempre sulla destra e attraversando le nubi di fumo dolciastro per ricevere la
benedizione di Ang Tshering.
A parte l'attenzione che si dedicava a certi riti, comunque, il buddhismo praticato dagli sherpa era una
religione cos elastica e priva di dogmi da risultare riposante. Per restare nelle grazie di Sagarmatha, per
esempio, nessuna squadra poteva affrontare per la prima volta la seraccata senza celebrare un'elaborata
puja , una cerimonia religiosa. Ma quando, nel giorno stabilito, il lama fragile e rinsecchito che doveva
presiedere allapuja non era riuscito a compiere il tragitto dal suo lontano villaggio, Ang Tshering aveva
decretato che dopo tutto potevamo benissimo salire lo stesso sulla seraccata, perch Sagarmatha capiva
che avevamo intenzione di celebrare comunque il rito al pi presto.
A quanto pare, altrettanto lassista era latteggiamento che regnava sulle pendici dell'Everest riguardo alla
fornicazione. Per quanto a parole rispettassero il divieto, alcuni sherpa facevano uneccezione per s: nel
1996 sbocci persino un romanzetto fra uno sherpa e unamericana della spedizione IMAX. Sembrava
quindi strano che gli sherpa attribuissero la colpa della malattia di Ngawang agli incontri extraconiugali
che si svolgevano in una delle tende della Mountain Madness. Ma quando feci notare questa
contraddizione a Lopsang Jangbu Sherpa, il ventitreennesirdar scalatore di Fischer, lui insistette che il
vero problema non era che una delle clienti di Fischer avesse fatto porcherie al campo base, ma
piuttosto che continuasse ad andare a letto con l'amante anche sulle pendici della montagna.
Il monte Everest Dio... per me, per tutti, dichiar con solennit Lopsang dieci settimane dopo la
spedizione. Se marito e moglie vanno a letto assieme, buono. Ma quando [X] e [Y] vanno a letto
insieme, sfortuna per la mia squadra... Cos dico a Scott: 'Per favore, Scott, tu sei capo. D per favore
a [X] di non dormire con ragazzo al Campo Due. Ti prego'. Ma Scott ride e basta. Il primo giorno che
[X] e [Y] sono insieme in tenda, subito dopo Ngawang Toche si ammala al Campo Due. E ora morto.
Ngawang era lo zio di Lopsang; i due uomini erano stati molto uniti e Lopsang aveva fatto parte della
squadra di soccorso che aveva trasportato Ngawang sulla seraccata la sera del 22 aprile. Poi, quando
Ngawang aveva smesso di respirare a Pheriche ed era stato trasferito a Kathmandu, Lopsang si era
precipitato a valle dal campo base (con la benedizione di Fischer), in tempo per accompagnare lo zio
durante il volo in elicottero. Il breve viaggio a Kathmandu e il rapido ritorno a piedi al campo base lo
avevano lasciato molto affaticato e relativamente male acclimatato, e questo non era di buon auspicio per
la squadra di Fischer, che contava su di lui almeno quanto Hall contava sul suosirdar scalatore, Ang
Dorje.
Nel 1996 erano presenti sul versante nepalese dell'Everest numerosi abilissimi scalatori dell 'Himalaya,
veterani come Hall, Fischer, Breashears, Pete Schoening, Ang Dorje, Mike Groom e Robert Schauer, un
austriaco della squadra dell'IMAX. Eppure anche in quella compagnia selezionata spiccavano quattro
astri fuori del comune, degli scalatori che avevano mostrato una tale straordinaria abilit al di sopra dei
7900 metri da formare un gruppo a s: Ed Viesturs, l'americano che interpretava da protagonista il film
dell'IMAX; Anatoli Boukreev, una guida del Kazakhistan che lavorava per Fischer; Ang Babu Sherpa,
che era stato ingaggiato dalla spedizione sudafricana, e Lopsang.
Socievole e attraente, gentile fin quasi all'eccesso, Lopsang era straordinariamente spavaldo e
incredibilmente ricco di fascino. Figlio unico, era cresciuto nella regione della Rolwaling e non fumava n
beveva, fatto piuttosto insolito fra gli sherpa; sfoggiava un incisivo d'oro e aveva la risata facile. Benche
avesse l'ossatura minuta e non fosse alto di statura, la disinvoltura, l'attitudine a lavorare sodo e le
straordinarie doti atletiche gli erano valse la fama di Deion Sanders del Khumbu. Fischer mi disse che a
suo parere Lopsang aveva il potenziale necessario per diventare la reincamazione di Reinhold
Messner, il celebre alpinista altoatesino che di gran lunga il pi grande scalatore himalayano di tutti i
tempi.
Lopsang aveva fatto il suo debutto nel 1993, all'et di vent'anni, quando era stato assunto come
portatore da una squadra congiunta indo-nepalese guidata da un'indiana, Bachendri Pal, e composta in
gran parte da donne. Lopsang, essendo il pi giovane della spedizione, era stato relegato all'inizio in un
ruolo secondario, ma la sua forza era cos impressionante che all'ultimo momento era stato assegnato alla
squadra destinata a scalare la vetta, e l'aveva raggiunta il 16 maggio senza l'ausilio dell'ossigeno.
Cinque mesi dopo la scalata dell'Everest, Lopsang aveva conquistato anche il Cho Oyu, insieme con una
squadra giapponese. Nella primavera dd 1994 aveva lavorato per Fischer nella Sagarmatha
Environmental Expedition, raggiungendo per la seconda volta la vetta dell'Everest, anche stavolta senza
bombole di ossigeno. Nel settembre successivo stava tentando la scalata della Cresta Ovest dell'Everest
con una squadra norvegese, quando era stato travolto da una valanga; dopo un volo di sessanta metri gi
dalla montagna, era riuscito chiss come ad arrestare la caduta con la piccozza, salvando cos la vita a s
stesso e a due compagni di cordata, mentre uno zio che non era legato agli altri, Mingma Norbu Sherpa,
era rimasto ucciso. Quella perdita aveva molto scosso Lopsang, ma non aveva assolutamente attenuato
la sua passione per l'alpinismo.
Nel maggio 1995 aveva scalato l'Everest senza ossigeno per la terza volta, in quel caso come
componente della spedizione di Hall, e tre mesi dopo aveva conquistato la vetta del Broad Peak (8047
metri), nel Pakistan, mentre lavorava per Fischer. Quando Lopsang sal sull'Everest con Fischer nel
1996, arrampicava solo da tre anni, ma in quel periodo aveva partecipato a non meno di dieci spedizioni
sull'Himalaya e si era conquistato la fama di alpinista di altissimo livello.
Scalando insieme l'Everest ne11994, Fischer e Lopsang avevano sviluppato un'immensa ammirazione
reciproca. Entrambi erano dotati di unenergia illimitata, di un fascino irresistibile e di una vocazione a far
struggere di desiderio le donne. Considerando Fischer il suo mentore e il suo modello, Lopsang aveva
persino cominciato a portare i capelli legati a coda di cavallo, come lui. Scott molto forte, io sono
molto forte, mi spieg con la sua tipica mancanza di modestia. Formiamo buona squadra. Scott non mi
paga bene come Rob o i giapponesi, ma io non ho bisogno di soldi; io guardo al futuro, e Scott il mio
futuro. Lui mi dice: 'Lopsang, mio forte sherpa! Ti far diventare famoso!'... Io penso che Scott ha molti
progetti per me con Mountain Madness.
Il pubblico americano non aveva una innata simpatia per l'alpinismo, a differenza delle nazioni alpine
dell'Europa o della Gran Bretagna, dove esso era nato. In quei paesi esiste una maggiore disponibilit a
comprendere e, sebbene l'uomo della strada nel complesso ritenga che le imprese alpinistiche siano un
incosciente rischio della vita, riconosce tuttavia che debbano essere compiute. In America non esiste
niente di simile .
WALT UNSWORTH
Everest
A un giorno di distanza dal primo tentativo di raggiungere il Campo Tre, frustrato dal vento e dal
freddo glaciale, tutti i membri della squadra di Hall eccetto Doug (che rimase al Campo Due per
consentire alla laringe di cicatrizzarsi) compirono un altro tentativo. A trecento metri di altezza dalla base
dell'immensa lastra inclinata della parete del Lhotse, incominciai l'ascesa lungo una sbiadita corda di nylon
che sembrava proseguire all'infinito; ma pi salivo, pi i miei movimenti diventavano torpidi. Con la mano
guantata facevo scivolare verso l'alto la maniglia jumar sulla corda fissa, restavo sospeso al congegno per
tirare due lunghi respiri faticosi, che mi bruciavano i polmoni; poi spostavo in alto il piede sinistro
conficcando il rampone nel ghiaccio e aspiravo disperatamente altre due boccate d'aria; piantavo il piede
destro vicino al sinistro, inspiravo ed espiravo dal fondo del torace, inspiravo ed espiravo di nuovo e
spostavo ancora pi su la maniglia jumar. Erano almeno tre ore che davo fondo a tutte le mie energie e
prevedevo che sarebbe passata ancora unora prima di potermi prendere una pausa di riposo. Salivo in
quel modo estenuante per raggiungere un crocchio di tende appollaiate chiss dove su quella parete
liscia, pi in alto, ma i miei progressi si potevano valutare in termini di centimetri.
Chi non pratica l'alpinismo, e cio la stragrande maggioranza dell'umanit, tende a ritenere che questo
sport sia una ricerca sfrenata e dionisiaca di emozioni sempre pi intense. Ma l'idea che gli scalatori siano
semplici drogati di adrenalina a caccia di uno sballo ipocrita del tutto falsa, almeno nel caso
dell'Everest. Quello che facevo lass non aveva quasi niente in comune con il salto con l'elastico o i lanci
liberi col paracadute o le corse in motocicletta a duecento chilometri l'ora.
Una volta lasciate alle nostre spalle le comodit del campo base, la spedizione divenne in effetti
un'impresa quasi calvinista. Il rapporto fra sofferenza e piacere era superiore in ordine di grandezza a
quello di qualsiasi altra montagna che avessi mai scalato; arrivai ben presto a capire che scalare l'Everest
era innanzi tutto una questione di resistenza al dolore. E mentre ci assoggettavamo una settimana dopo
l'altra a fatiche, tedio e sofferenza, mi colp l'idea che probabilmente la maggior parte di noi inseguiva
soprattutto qualcosa di simile a uno stato di grazia.
Certo, per alcuni scalatori dell'Everest entravano in gioco una miriade di altri motivi meno virtuosi: la
celebrit, l'avanzamento nella carriera, la titillazione del proprio ego, la solita vanagloria, lo sporco
profitto; d'altra parte questi ignobili incentivi erano un fattore meno importante di quanto molti critici
potessero presumere. In realt quello che ho osservato col passare delle settimane mi costrinse a
rivedere in modo sostanziale i preconcetti che nutrivo su alcuni dei miei compagni di squadra.
Prendiamo per esempio Beck Weathers, che in quel momento sembrava un minuscolo puntolino rosso
sul ghiaccio, centocinquanta metri pi in basso, verso la fine di una lunga coda di scalatori. La mia
impressione iniziale su Beck non era stata favorevole: quel patologo cordialone di Dallas, dotato di
capacit alpinisti che men che mediocri, a prima vista faceva l'impressione di un ricco parolaio
repubblicano deciso ad acquisire la cima dell'Everest per il suo carnet di trofei. Invece, pi lo conoscevo
e pi si guadagnava il mio rispetto. Anche se gli scarponi nuovi gli avevano ridotto i piedi come due
hamburger al sangue, Beck tirava avanti, un giorno dopo l'altro, senza quasi accennare a quello che
doveva essere un dolore terribile. Era tenace, motivato, stoico. E quella che all'inizio avevo scambiato
per arroganza si rivelava sempre pi come pura e semplice esuberanza. Beck non sembrava nutrire
malanimo per nessuno al mondo (fatta eccezione per Hillary Clinton), mentre la sua allegria e il suo
sconfinato ottimismo erano cos accattivanti che, mio malgrado, cominciai a provare una forte simpatia
per lui.
Figlio di un militare di carriera dell'aeronautica, Beck aveva trascorso l'infanzia trasferendosi da una base
militare all'altra prima di approdare a Wichita Falls, dove aveva frequentato il college. Dopo la laurea in
medicina si era sposato, aveva avuto due figli e aveva aperto senza problemi, a Dallas, uno studio medico
che rendeva molto bene. Poi, nel. 1986, alle soglie dei quarant'anni, aveva trascorso una vacanza nel
Colorado e, dopo aver sentito il richiamo della sirena delle alte quote, si era iscritto a un corso
elementare di alpinismo nel Rocky Mountain National Park.
Non raro che i medici siano iperattivi cronici, e Beck non era il primo che si lasciasse prendere la
mano da un nuovo hobby; ma l'alpinismo non era come il golf o il tennis o i vari altri passatempi che
appassionavano i suoi colleghi. Le esigenze della montagna - le prove fisiche ed emotive da superare, i
rischi estremamente concreti - ne facevano qualcosa di pi di un gioco. Arrampicare somigliava alla vita,
solo che era pi ricco di luci e ombre, e finora nulla aveva affascinato Beck a tal punto. La moglie,
Peach, er