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con la collaborazione di
Elena Pulcini e Monica Toraldo di Francia
Filosofia politica
Un'introduzione
Furio Cerutti
Premessa
Le presenti dispense si basano sulle lezioni di Filosofia politica (come singola disciplina)
tenute nell'a.a. 1994-95, da me riviste ed aggiornate negli anni accademici successivi, e poi
integrate con le voci pertinenti alla Filosofia sociale e alla Bioetica, scritte rispettivamente dalle
titolari di questi insegnamenti, Elena Pulcini e Monica Toraldo di Francia (le voci riguardanti
Teorie dello Stato rientrano evidentemente fra quelle di Filosofia politica). A loro il mio
ringraziamento per questa importante integrazione che permette di adeguare le dispense alle
esigenze del corso propedeutico, riguardante tutte e quattro le discipline di cui si compone
attualmente il Gruppo pluridisciplinare di Filosofia politica (SPS-01 nellordinamento
nazionale).
Questultima edizione 2008 si arricchita del capitolo su violenza, morte e politica e
dellexcursus sulle radicali modifiche che la politica sta vivendo nel passaggio ad unepoca postmoderna (e a quelle di cui la filosofia politica dovrebbe rendersi conto).
Questo testo nella sua prima versione venne letto da Norberto Bobbio, che ne apprezz
lassetto sistematico e mi sollecit a proseguire nel suo miglioramento in vista della definitiva
pubblicazione come libro. Questa non ancora avvenuta, ma la carissima memoria dellamico e
maestro rimane un ulteriore stimolo a porvi mano non appena altri progetti scientifici saranno
ultimati.
Grato rimango altres alla compianta amica e collega Lucia Cesarini Martinelli, Preside della
Facolt al momento della prima edizione delle dispense, che ne favor la raccolta e
pubblicazione. Nel corso di questi dieci anni diversi colleghi mi hanno aiutato, con i loro
commenti e critiche, a rivedere le prime edizioni: soprattutto i colleghi dellallora Seminario
interuniversitario di Filosofia politica, particolarmente Luca Baccelli e Brunella Casalini, e il
prof. Mario Tel dell'Universit libre de Bruxelles; ma anche diversi studenti. Ad essi si estende
la mia riconoscenza.
Autore e co-autrici saranno grati a chiunque vorr segnalarci errori o proposte dintegrazione
scrivendo a <furio.cerutti@unifi.it>
Furio Cerutti, settembre 2008
Furio Cerutti
Furio Cerutti
Indice
A. FILOSOFIA POLITICA.
Premessa.....................................................................................................................................6
PARTE PRIMA. GLI ELEMENTI
1. Le categorie della filosofia politica.........................................................................................7
2. Definizioni di `filosofia politica'..............................................................................................8
3. Una tipologia della filosofia politica..........................................................................................10
4. Che cos' la politica?............................................................................................................12
5. Potere e potere politico.........................................................................................................18
6. Il potere politico e gli altri: peculiarit e `neutralit'............................................................20
7. Potere, forza, violenza, consenso, comandi/norme......26
8. Due vedute diverse: Foucault e Schmitt.................................................................................29
PARTE SECONDA. COME SI ARTICOLA LA POLITICA
9. I fini della politica................................................................................................................31
10. I concetti di ordine ed istituzione.........................................................................................32
11. Modelli di ordine politico....................................................................................................37
12. Legittimit, identit, simbolismo e mito politico..................................................................46
13. Legittimit e legalit............................................................................................................50
14. L'obbligo politico................................................................................................................54
15. Lo Stato...............................................................................................................................61
PARTE TERZA. MONDO E FUTURO
16. Gli Stati...............................................................................................................................64
17. L'era nucleare.....................................................................................................................72
18. Aspetti politici e filosofici della situazione nucleare............................................................78
19. Pace, pacifismo e governo mondiale....................................................................................84
20. Violenza, morte e politica.........................................................................................................92
21. Modernizzazione, globalizzazione, sfide globali: come cambia la politica...........................95
PARTE QUARTA. LA FILOSOFIA POLITICA NORMATIVA
22. Etica e politica: una mappa delle etiche............................................................................101
23. Idealismo e realismo politico.............................................................................................103
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Furio Cerutti
24. I diritti...............................................................................................................................105
25. Libert ed eguaglianza......................................................................................................109
26. Giustizia............................................................................................................................112
27. Filosofie politiche normative di oggi.................................................................................115
Un epilogo in terra ed uno sotto...................................................................................................118
B. FILOSOFIA SOCIALE.
28. Comunit/societ..............................................................................................................120
29. Individuo/soggetto....128
30. Passioni/interessi.............................133
C. BIOETICA
31.Vita/morte..138
32.Responsabilit/cura.......145
Furio Cerutti
A.
FILOSOFIA POLITICA
Furio Cerutti
Occorre qui una digressione linguistica preliminare: il termine `sostantivo' usato come aggettivo
comincia solo adesso a far parte del linguaggio filosofico italiano; viene invero dal latino, ma a noi
arriva attraverso l'inglese `substantive'. Non vuol dire sostanziale, altrimenti non ci sarebbe nessuna
buona ragione per usare la nuova parola: invece ci che riguarda il contenuto, la materia di un
rapporto, in opposizione a ci che riguarda solo la sua forma, le procedure che esso richiede oppure il
metodo con cui ad esso ci avviciniamo. Questa distinzione ha una cittadinanza precisa nella lingua
italiana, ma fuori della filosofia, e cio nel diritto, dove esistono norme procedurali e norme sostantive:
il codice penale dice quali sono i reati e con quali pene vengono puniti e quindi un codice sostantivo,
mentre il codice di procedura penale non ci dice quali sono i reati e quali pene meritano, ma ci dice
come si deve procedere quando si definiscono i reati e quando li si persegue o li si punisce. Sostantivo
in genere si usa in filosofia in opposizione a metodologico o epistemologico.
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Furio Cerutti
non le discuteremo in questo testo, rinviando ai testi di Bobbio, ma faremo puntuali riferimenti
alla categoria che pi attualmente ci interessa, quella di democrazia. Si noti che il presente testo
non sempre ordinato secondo la partizione di categorie fondative e sostantive, bens alcune di
quelle fondative (libert, eguaglianza, giustizia) vengono tematizzate solo nella parte finale,
relativa ai nessi di etica e politica.
Non mi dilungo qui in riflessioni epistemologiche sullo statuto della filosofia politica
rispetto ad altre discipline. Supponendo che il lettore di un testo introduttivo non sappia nulla di
ci di cui si parla, ed in cui vuole appunto introdursi, sarebbe come mettere il carro avanti ai
buoi, o - detto pi elegantemente, alla Hegel - staccare il metodo dalla `cosa stessa' e mandare
avanti quello. Differenziazioni e comparazioni emergeranno via via, alcune gi nel prossimo
paragrafo. Per ora bastino due rilievi: uno il rinvio alla distinzione 2 fra filosofia politica e
scienza politica che Bobbio traccia nel 1 del suo articolo Stato, potere, governo (nel volume
Stato, governo, societ), sebbene quella distinzione richieda oggi qualche riformulazione,
essendo ormai meno compatto lo status epistemologico della scienza politica. Aggiungo poi
che qui si tratter in modo ricorrente della questione dell'`ottima repubblica', ma che io non
condivido l'identificazione, che per me riduttiva, della filosofia politica con una teoria tutta e
solo normativa di che cosa deve stare (la giustizia, la libert, o quant'altro) alla base delle
istituzioni politiche. Certamente condivido altrettanto poco quel tipo di realismo, antiquato e/o
rozzo, che esclude ogni salienza normativa dallo studio della politica. Ma resta per me futile il
normativismo che si accontenti di se stesso, senza cercare tematicamente di riconnettere il
discorso su ci che dev'essere al discorso su ci che , che disegni costituzioni ideali, statuali o
planetarie, senza fornire strumenti concettuali per esaminare i rapporti di potere e per percepire
in dimensione storiche le nuove sfide poste alla politica e alla societ.
Ferme restando queste mie posizioni, che certo influiscono sull'impostazione complessiva
del testo, la presente terminologia filosofica scritta in modo il pi possibile neutrale fra, ed
informativo su i diversi punti di vista.
La filosofia politica ricerca lessenza del politico, ne discute i modelli normativi, ricercando quale
sia lottima repubblica, e non implica un rinvio metodico e verificabile allempiria.
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Dico oggettuali e non oggettive perch i due termini hanno una profonda differenza e non solo in
politica, ma anche in filosofia in genere: mentre oggettivo si definisce in linea di massima per la sua
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Furio Cerutti
Cerchiamo di restringere la prima definizione, modificandola nel senso di dire che nella
filosofia politica, se non di tutto, di molto si pu parlare; ma di qualunque cosa si parli, cio
quando si parli di problemi o di fini o di valori che non sono specifici della sfera politica (il
senso della vita, la verit, il bene, la felicit), questi sono sempre posti in rapporto con categorie
propriamente politiche come la libert, la giustizia, la guerra e la pace, lo Stato e il potere.
Questa sarebbe una definizione oggettuale pi raffinata, ma ancora non basta, pur essendo una
buona base di definizione. necessario aggiungere qualcosa, necessario insomma spostare lo
sguardo dall'oggetto al metodo di questa disciplina; ma pure necessario tenere assieme la
definizione oggettuale modificata appena data con il riferimento al metodo della filosofia
politica. Questa si definisce meglio mettendola in rapporto ad altre discipline che si occupano
della politica, soprattutto la scienza della politica e la storia delle dottrine politiche. Se si
prende, come nel succitato scritto di Bobbio, la definizione corrente di scienza e in parte anche
di sociologia politica, si vede che queste discipline sono caratterizzate anzitutto da
un'intenzione prevalentemente descrittiva ed analitica di fenomeni e processi; e il loro piglio
analitico fondato su di un riferimento sistematico all'empiria, all'insieme del mondo empirico
(nel caso della scienza politica esso si congiunge peraltro con l'intento di fornire interpretazioni
basate su di una teoria generale, per esempio - almeno a fino poco tempo fa - a quella intitolata
al sistema politico). Laddove la filosofia politica, quando analitica, lo nel senso che cerca di
capire le strutture profonde, nascoste, non immediatamente visibili allo sguardo fenomenico. Il
taglio analitico di scienza e sociologia politica caratterizzato da un riferimento costante,
programmatico e metodologicamente regolato ai dati empirici, che possono essere di accesso
pi o meno vicino alla teoria: la sociologia politica maneggia dati empirici molto pi di quanto
faccia la scienza politica, ma la stessa scienza della politica tale non sarebbe se non avesse
sempre dentro di s la regola di indicare le regole attraverso cui una sua proposizione pu
essere empiricamente illustrata, verificata, confermata o falsificata.
Questo riferimento costante e metodico all'empiria non c' nella filosofia della politica, la
quale parla certo di cose che hanno una consistenza empirica, altrimenti parlerebbe
dell'ippogrifo; ma pu parlare anche dell'ippogrifo, qualora si pensi che ci possa servire a
capire certi fenomeni, certi problemi, o certi significati della vita associata. Naturalmente, ci
non scusa chi parla di ippogrifi in modo cos astruso, oscuro e pretenzioso che non se ne ricava
alcuna illuminazione per capire la realt o per dirigere il nostro agire
Mentre giusto dire che la filosofia politica una disciplina concettualizzante, sarebbe
sbagliato dire che l'unica disciplina concettualizzante nei confronti della politica, perch lo
anche la scienza politica: solo che la formazione dei concetti in filosofia politica e in scienza
politica segue- come si accennato - strade diverse.
Ricapitolando, possiamo dire che la filosofia politica anzitutto filosofia. Una filosofia che
si rivolge alle cose della polis cercando di definirle ed interpretarle tramite concetti non
empirici; che, proprio in quanto filosofia, cerca sempre di problematizzare ci che o appare
contrapposizione a soggettivo, oggettuale invece ci che riguarda l'oggetto, proviene dall'oggetto, si
riferisce agli oggetti, differentemente dal riferirsi ai principi o al metodo. Non c' il senso di una realt
indipendente da, od opposta a quella del soggetto che c' invece in oggettivo.
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Furio Cerutti
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Furio Cerutti
pi insufficienti ed anche ingannevoli, dunque precisiamo che la filosofia politica guarda alla
vita politica stricto sensu (ma anche a quella della societ in senso lato) con lattenzione
precipua a quanto di questultima si coagula in potere ed istituzioni politiche capaci di prendere
ed eseguire decisioni che influiscono direttamente ed indirettamente sulla vita della gente
presente e futura. La filosofia sociale guarda non solo ad un oggetto, per cos dire, pi largo, ma
lo fa con lo sguardo rivolto precipuamente alle motivazioni (passioni/interessi), alle forme
aggregative di base (comunit/ societ) degli attori e al configurarsi di questi come individui e
soggetti. In ogni caso si tratta di due discipline teoretiche la cui trama primaria costituita da
concetti o forme, non da correnti storiche, autori o testi; la storia del pensiero serve invece da
materiale e sostegno al discorso concettuale, il cui focus diretto la realt contemporanea o
contemporaneit. Dal punto di vista epistemologico lo stesso pu dirsi della bioetica, le cui
ragioni di affiliazione al Gruppo di filosofia politica si trovano esposte nella parte relativa.
L'altra cosa da chiarire una questione di uso linguistico. Talvolta uso in questo testo il
termine di teoria politica. un termine generico e un po' confuso rispetto alla decisa
distinzione tra filosofia politica e scienza politica che ho delineato sopra. In realt per un verso
certe filosofie politiche si avvicinano molto - per la loro attenzione ai processi effettivi e agli
strumenti empirico-analitici che aiutano a comprenderli - alla scienza politica; e certa scienza
politica si allontana molto dalla sua base empirico-analitica, acquistando sensibilit agli aspetti
filosofici. Allora si determina una terra di nessuno, ovvero di tutti, una zona franca tra filosofia
e scienza politica intese nella loro rigida distinzione: quando si dice teoria politica si indica
proprio questa zona, ovvero linsieme degli interessi teorici rivolti alla politica.
Nel far questo mi appoggio fortemente sul relativo lemma di Bobbio nel Dizionario di politica,
tenendo altres presente l'articolo Politica di Salvatore Veca nell'Enciclopedia Einaudi. Sullidea
bobbiana di politica, oltre al fondamentale lemma Stato. scritto originariamente per lEnciclopedia
Einaudi ed ora in Stato, governo e societ, si vedano anche i pertinenti capitoli in Teoria generale della
politica, Einaudi, Torino 1999.
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Per questi problemi semasiologici il riferimento pi accreditato il Dictionary of the History of the
Ideas, oppure i Geschichtliche Grundbegriffe, il grande lessico prodotto negli ultimi decenni dalla
scuola tedesca della Begriffsgeschichte o storia dei concetti, un esempio tipico di metadiscorso sulla
politica.
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Filosofa tedesca, allieva di Heidegger, emigrata in America per la persecuzione antiebraica e morta
nel 1975
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una forma autonoma, ma non perfetta di associazione degli uomini, e quindi deve cedere il
passo a quella struttura suprema che in Hegel lo Stato, in cui si esprime la sostanza etica del
popolo, in Marx tutto capovolto, e una delle chiavi di lettura della filosofia politica marxiana
la liberazione della societ civile o societ tout court dall imposizione su di essa esercitata
dallo Stato come struttura burocratica oppressiva8.Della coppia Stato - societ civile Bobbio
dice che una delle grandi dicotomie. Bobbio ha l'idea che per capire certi pezzi della realt il
metodo migliore sia quello di articolare la nostra visione in maniera dicotomica, o binomica.
Non tutte le dicotomie sono grandi, ma alcune lo sono, e uno dei modi di studiare la filosofia
politica che Bobbio predilige quello di vedere i collegamenti tra le grandi dicotomie, ci che
evidentemente un po' pi complicato che non mettere tutte le grandi dicotomie su un girello,
con certi termini tutti sullo spiedo di destra e certi altri tutti quanti infilzati sullo spiedo di
sinistra. Pensando alla dicotomia fra la sfera pubblica e la sfera privata non cadiamo dunque
nello scolasticismo di pensare che Stato sia perfettamente corrispondente a pubblico e societ
civile sia perfettamente corrispondente a privato. Talora pensare per dicotomie presenta rischi
di semplificazione eccessiva, di formalismo nel senso peggiorativo di questo termine, ma nel
complesso pensare per grandi dicotomie un valido ed educativo metodo di pensare le cose.
Su questa distinzione Stato-societ civile e su quella ad essa imparentata di sociale e
politico, va detto che, se occorre mantenere ferma la distinzione tra politico e sociale, occorre
pure stare attenti a non confondere il politico con lo statuale. Il politico si deve ritenere per un
verso che sia sfera pi ampia, e secondo alcuni di maggiore spessore, dello statuale. Per un altro
verso nell'epoca moderna c' una tendenziale, ma pur sempre parziale coincidenza tra il politico
e lo statuale. Si pu dire allora che tutta la politica si svolge nello Stato, o con riferimento ad
esso. Ripeto che si tratta di un processo tendenziale e comunque parziale. Facciamo subito
qualche esempio in cui ci non vero: lo si pu vedere nellinterpretazione di ci che avviene o
avvenuto, o nella politica come progettazione del futuro.
A livello storico esistono societ cosiddette primitive, in cui alcuni studiosi ritengono con
buone ragioni che la politica, ovvero il sistema politico, sia esistito, ma nelle quali certamente
non esistito lo Stato. Nel presente ci sono molti che ritengono che la sfera della politica, o del
politico, coinvolga fasce della nostra personalit, del nostro agire, della nostra convivenza pi
spesse che non quelle che entrano e giocano nell'istituzione Stato. Si prenda uno slogan che ha
avuto grande fortuna, anzi una funzione quasi rivoluzionaria, nel movimento delle donne degli
anni Sessanta/Settanta: il personale politico. Ovvero: i drammi, i problemi, le pulsioni che
noi abbiamo nella nostra vita personale non affatto vero che non abbiano rilevanza politica,
possono anzi essere pi rilevanti di altre funzioni quali andare a votare, osservare e fare le leggi.
Viceversa la sfera personale attraversata da forze e strutture che provengono dal politico o in
esso si ritrovano, sicch una vera trasformazione della sfera politica non pu andare disgiunta
8
Si ricordi che quel termine vuol dire nella lingua tedesca tanto societ civile quanto societ borghese.
Cittadino in tedesco si dice Brger, ma ci vuol dire anche borghese (i tedeschi importano per questo
anche il termine francese bourgeois). L'anfibolia (termine usato da Kant: uso equivoco) fra l'aspetto
neutro, societ civile, e l'aspetto classista del termine, societ borghese, crea un po' di problemi e
confusioni nella filosofia politica e sociale tedesca, tanto vero che si di recente introdotta
l'espressione Zivilgesellschaft.
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da cambiamenti che devono prodursi nella sfera familiare e cosiddetta privata. Il politico a cui
faceva riferimento questo slogan non era certamente coincidente con lo statuale; questo slogan,
e la posizione intellettuale che in esso si esprimeva, stato un modo per affermare la non
coincidenza dello statuale e del politico, o addirittura per condannare la restrizione del politico
allo statuale e per rivendicare una pratica della politica pi ampia, pi coinvolgente di quella
che avviene nelle forme dello Stato.
Infine, volgendoci alla politica come progettazione del futuro, la filosofia politica e le
ideologie politiche moderne abbondano di progetti di societ senza Stato, non come ritorno allo
stato primitivo e prepolitico; anche se i critici di queste concezioni temono che davvero si
vagheggi, inconsapevolmente, un ritorno ad una qualche condizione pristina. Queste concezioni
fanno la scommessa che uno sviluppo storico fatto di lotte e di emancipazione porti a far vivere
la societ solo in base alle sue proprie leggi, equilibri ed esigenze interne, senza pi la cappa
oppressiva dello Stato. Quindi configurano per il futuro una prospettiva di politica senza Stato,
ovvero di un'organizzazione non politica, ma puramente tecnica od interpersonale della societ.
Soprattutto in certe versioni del marxismo, questa prefigurazione stata letta in termini di
morte od estinzione non solo dello Stato, ma della politica.
Compiuti questi schiarimenti sull'evoluzione di polis e politica, possiamo affrontare la
questione chiave: che cos' la polis come comunit politica? Non possiamo far niente di meglio
che andare a leggere le righe dell'autore che in un modo o nell'altro ha dominato nei secoli il
linguaggio del pensiero politico. La definizione di politica svolta proprio all'inizio (Libro
primo, 1252-53) della Politica di Aristotele9 :
vediamo che ogni polis una comunit e che ogni comunit si costituisce proponendosi per
scopo un qualche bene (perch tutti compiono ogni loro azione per raggiungere ci che ad essi
sembra essere un bene). Ci posto, possiamo dire che soprattutto vi tende, e tende al pi
eccellente di tutti i beni, quella comunit che regge e comprende in s tutte le altre: e questa
quella che si chiama polis e comunit politica (politik koinona). Ora, un uso linguistico
inappropriato quello di quanti credono che l'uomo di Stato (politiks), l'amministratore
(oikonomiks), il re (basiliks), il padrone (despotiks) siano la stessa cosa, in quanto le loro
differenze si baserebbero solo sul maggiore o minore numero delle persone cui sono preposti e
non sulla specificazione delle loro funzioni [...] quasi non ci sia nessuna differenza tra una
grande casa privata e una piccola polis [...]
Se si studiassero come le cose si evolvono dall'origine anche qui come altrove se ne
avrebbe una visione quanto mai chiara. necessario in primo luogo unire gli esseri che non
sono in grado di esistere separati l'uno dall'altro, per esempio la femmina e il maschio in quanto
strumenti di generazione [...] e chi per natura disposto al comando e chi naturalmente
disposto ad essere comandato, in quanto la loro unione ci per cui entrambi possono
sopravvivere, [...] sicch la stessa cosa vantaggiosa al padrone e allo schiavo.
In questa definizione c' l'indicazione di uno scopo (il bene comune) che decisiva, perch
quella su cui Aristotele fonda l'essenza della polis; c' la dichiarazione di qual l'origine
dell'associarsi, che viene posta nella differenza e quindi nel bisogno: esiste insomma una ratio
d'ordine della comunit che altro non che la stessa natura. C' l'idea, in termini moderni (ma la
divisione del lavoro nella modernit andata ben oltre questi termini), che l'unicit della
funzione e quindi l'assoluta specificit di questa, il fatto che un ente faccia e sappia fare una
9
Cito, con qualche modifica, dalla traduzione di C.A. Viano, UTET, Torino 1966.
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Furio Cerutti
cosa ed una sola, sia il tipo di ordinamento che meglio prepara la perfezione dei risultati.
Fin qui abbiamo visto il finalismo della filosofia politica aristotelica, che altro non se non
la specificazione del suo pi generale teleologismo ontologico. Ora vediamone la caratteristica
pi fondamentale, il naturalismo o evoluzionismo naturalistico: dalle comunit o cellule
elementari uomo-donna e padrone-schiavo nasce la casa come centro insieme familiare e
produttivo (oikos), e dall'intrecciarsi di pi case il villaggio (kome). La comunit perfetta di pi
villaggi la polis,
che ha raggiunto l'autosufficienza (autarkeia) e sorge per rendere possibile la vita, ma sussiste
per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perci ogni polis un'istituzione naturale,
essendolo gi le comunit che la precedono, in quanto essa il loro fine, e la natura di una cosa
il suo fine [...] Ora, lo scopo e il fine sono ci che vi di meglio, e l'autosufficienza un fine
e quanto vi di meglio (A 1252b).
Viene infine il peculiare organicismo (cui appartiene anche lidea di un reciproco vantaggio
fra padrone e servo) della Politica aristotelica:
nell'ordine naturale la polis precede l'oikos e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede
necessariamente la parte, perch tolto il tutto, non ci sar pi n piede n mano [...] dunque
chiaro che la polis per natura ed anteriore all'individuo, perch, se l'individuo, preso da s,
non autosufficiente, star rispetto al tutto nella relazione in cui stanno le altre parti (1253a).
Si noti che l'organicismo non sta soltanto in questa priorit del tutto rispetto alle parti, ma
pure nel legame di reciproco vantaggio fra chi sta sopra e chi sta sotto, fra il governante ed i
governati (si pensi all'apologo, organicistico nel senso della fisiologia, di Menenio Agrippa), fra
il padrone ed il servo, di cui sopra. Nel modello aristotelico, che ha dominato fino al CinqueSeicento il pensiero europeo, la polis dunque un'entit di origine naturale, ordinata ad un fine
e sovraordinata come tutto organico alle sue parti: sia alle aggregazioni inferiori, sia agli
individui10.
Per i moderni invece - s'intenda: per gli approcci contrattualistici e conflittualistici che pi
esprimono l'innovazione creata dalla modernit - l'associarsi degli uomini non un dato, ma un
problema (com' possibile la societ?); non un prodotto della natura, che per i moderni
comunque costruita mentalmente dagli uomini, ma un artificio umano, che pu anche
dissolversi; n risulta da un organico sviluppo di entit sovraindividuali, ma vien visto come
atto pattizio `libero' e volontario degli individui, ultima radice di ogni aggregazione. Pertanto,
dai caratteri e dalle regole del patto derivano i caratteri, le regole (ed i limiti) di Stato e politica.
Infine, fra la sfera politica e le altre, come quella morale o teologica, la differenziazione, o
perfino la separazione definitiva, e non detto che la politica continui ad essere considerata la
sfera pi alta di attivit pratica; anzi essa stata da alcuni recentemente classificata come niente
pi che un sub-sistema del pi generale sistema sociale, ci che poi richiama un'altra
differenziazione tipicamente moderna, quella fra il politico e il sociale, sconosciuta agli antichi.
Base individualistica e sviluppo artificiale della polis: a queste due posizioni-chiave della
modernit si accompagna quella che vede labbandono del finalismo sostantivo nella
concezione della politica. Con questo termine indico l'approccio che considera la politica
subordinata ad un fine rappresentato da un qualche valore definito in base ad una certa
concezione del mondo, della vita o della storia. Nella tradizione cristiana, e segnatamente
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Furio Cerutti
tomistica,dell'Occidente questo fine stato a lungo visto nel `bene comune', attingibile dai
singoli solo in quanto parti della comunit e definito in base ad una qualche gerarchia fra Dio,
uomini e mondo. Caduta l'unit che l'ancoramento teologico dava al pensiero medioevale, e
caduti i poteri universali di riferimento, l'Impero ed il Papato, la prima modernit fece
esperienza sia del competere pluralistico di svariate concezioni del fine della politica ed in
genere dell'umanit, sia dei troppo alti costi (guerre di religione) da pagare tutti, vinti e
vincitori, quando come scopo della politica si vogliano perseguire per intero e senza rinuncia
alcuna i propri fini sostantivi. Nel contempo, sul piano epistemologico, gli approcci rivolti a
comprendere il mondo e le sue parti in ragione dei meccanismi che li governano o delle
funzioni cui assolvono prendevano il sopravvento sugli approcci tesi ad individuare i loro fini.
Da queste esperienze politiche ed intellettuali nasceva cos l'abbandono del finalismo
sostantivo, sostituito dall'idea che l'associazione politica non possa ritenersi ordinata che a fini
minimi ad essa intrinseci, e non provenienti da concezioni metafisiche, teologiche o morali, se
non in quanto possa rappresentare il minimo comun denominatore di tali concezioni. Ma
nasceva e si sviluppava soprattutto l'idea che una definizione di `politica' non possa farsi che in
base ai mezzi o le modalit o procedure che ne sono tipiche in ogni circostanza, anzich in base
ad uno o l'altro dei disparati fini che le sono stati o potranno esserle attribuiti11.
Politica pu dunque dapprima definirsi come quell'attivit che regola la lotta (o il
conflitto; questo concetto-chiave verr pienamente definito alla fine del capitolo 11) per la
redistribuzione di risorse scarse e disegualmente distribuite tramite i rapporti di potere; potere
che a sua volta - in quanto potere specificamente politico - definito dall'essere in ultima
istanza garantito dal possesso esclusivo (monopolistico) della forza o violenza organizzata.
Questa definizione richiede una serie di approfondimenti e commenti. Anzitutto, essa lega
la politica alla pi complessiva attivit sociale degli uomini e delle donne, mirando insieme a
determinarne una peculiarit (cosicch politico e sociale non possono considerarsi equivalenti).
Si basa poi su due condizioni indipendenti: la scarsit delle risorse contese (che non vanno
intese solo come risorse materiali, ma pure sociali o relazionali, per es. il prestigio) e la loro
distribuzione ineguale. Se le risorse fossero illimitate, o se, pur scarse, fossero distribuite
egualitariamente, non vi sarebbe politica (infatti le utopie sociali dell'Ottocento che mirano ad
uno di questi due obiettivi prevedono l'eliminazione della politica). La definizione riconosce
poi non gi, come pure alcuni fanno, l'identit di politica e guerra, bens che non la convivenza
comunitaria, bens la lotta (termine preferito in filosofia politica) ovvero il conflitto (termine
pi sociologico, cfr. cap. 30) sono elementi essenziali della politica - s'intende come problemi
da affrontare e regolare, non come suoi dati immutabili o `eterne verit'. La politica
imparentata con la guerra anche nel senso pi preciso che del potere politico fa parte l'uso
11
Sia chiaro, per inciso, che la distinzione di antico e moderno, o moderno e premoderno va presa cum
grano salis: la modernit non qualcosa di monocolore e tanto meno di monolitico, anche se talora pu
essersi illusa di esserlo. Le posizioni premoderne si ritrovano al suo interno, e non possono essere
ridotte a mera residualit o epigonalit, anche se qualche volta di questo pur si tratta. Il ripresentarsi
aggiornato ed agguerrito del `bene comune', del finalismo, della `comunit organica' e d'altro articola
spesso un conflitto interno alla modernit, indica una sua aporia o un dissidio con suoi risultati non
attesi e non intesi.
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Furio Cerutti
attuale o la permanente e credibile minaccia della forza fisica o violenza, che appunto la
modalit caratteristica del rapporto bellico. Del resto basta ricordarsi che, finora, molti assetti
del potere politico sono nati come risultati di guerre civili e di classe o di guerre fra popoli e
Stati. La conciliazione-ricomposizione dei diversi interessi che alcuni esibiscono come la natura
della politica (cfr. il lemma Politics nel Dictionary di Scruton) soltanto uno dei possibili esiti
dellattivit politica, tanto quanto lo la guerra esterna o civile, e la diversit di interessi, idee e
volont ne rimane il primum ontologico.
Tuttavia, questi primi schiarimenti, pur dicendoci di quali elementi si compone la politica,
non ci dicono ancora come essi vi si ordinino, ovvero quale sia la ratio o finalit interna (se ve
n' una) di questa attivit umana. Ma prima ancora dobbiamo approfondire due temi capitali di
questa definizione: il concetto di potere ed i suoi rapporti con quello di forza.
Furio Cerutti
quindi epistemologicamente vincente, perch definisce il potere con meno elementi possibili e
con meno riferimenti possibili a situazioni concrete o a contenuti particolari. Questa definizione
per esempio evita i difetti della definizione sostanzialistica, cio di impantanarsi nella
discussione se il potere consista davvero in una cosa, oppure consista nelle facolt di una
persona, e se consiste in una cosa, in quale cosa consista etc. Questa la definizione cosiddetta
relazionale di cui le esposizioni sono due: una quella classica di Max Weber12. Si tratta
sempre, in Weber, di definizioni probabilistiche, fondate sulla nozione di chance: il potere
(Herrschaft, in quanto distinta dal pi generico concetto di Macht o potenza) la chance di
trovare in un determinato gruppo sociale obbedienza per un determinato comando. Una
definizione pi recente quella che Bobbio riadatta dal concetto di influenza come stato
definito da Robert Dahl, che uno dei pi rilevanti esponenti della political science americana
nella seconda met del secolo XX. Il potere una relazione fra attori, cio fra soggetti d'azione
13
. Nella relazione di potere un attore induce gli altri ad agire in un modo in cui gli altri
altrimenti non agirebbero. una definizione pi raffinata di quella di Weber, perch Weber
dice la chance di trovare obbedienza ad un determinato comando, mentre Dahl e Bobbio
eliminano il ricorso a concetti formalizzati come obbedienza o comando e vedono il potere
come la possibilit di cambiare il corso delle azioni. Se non c' relazione di potere, A, B, C e D
seguirebbero la linea d'azione x; arriva Z che ha il potere e lo esercita, e allora, invece della
linea d'azione x, viene seguita quella y.
vero che questa definizione pone grandiosi problemi epistemologici: come si fa a capire
quando il mutamento di una linea, di un comportamento, si deve ascrivere all'influenza
dell'attore Z, e non ad altri fattori pi o meno rilevabili? Bisogna trovare delle metodologie per
fare delle ascrizioni corrette e non incerte (a questo problema sono dedicati importanti lavori
epistemologici di Max Weber). Ma intanto abbiamo dato una definizione per i nostri fini
soddisfacente di potere e allora possiamo finalmente fare l'ultimo passo e dire in cosa consiste
il potere specificamente politico: qualunque definizione, delle tre o due che si visto, si scelga
(in realt il potere politico nella maggior parte dei casi passibile di definizione in base a tutte e
tre le formule sopraddette), esso ha la caratteristica di essere garantito, quanto alla sua efficacia,
e di essere reso compatto dalla possibilit di ricorrere all'uso o alla minaccia della forza fisica o
costrizione fisica legittima (della legittimit si tratter in apposito paragrafo pi avanti). In
questo senso ogni potere politico coattivo, ma non perch eserciti la coazione fisica in
continuazione; semplicemente, esso ha come ultima (non: unica) garanzia e peculiarit la
possibilit di usare di fatto o almeno di minacciare l'uso della forza fisica: s'intenda della forza
fisica in senso politico, cio di un'organizzazione della forza fisica (forze di polizia, esercito,
milizie di partito o bande pretoriane; nella storia del mondo si sono trovate le forme pi diverse
di organizzazione di questa forza). Due commenti sono subito necessari.
Va notato anzitutto che questa definizione vale appieno per i rapporti politici entro lo Stato:
12
Nel 16 del Cap. 1 della parte I di Wirtschaft und Gesellschaft (Economia e Societ, uscita nel1922
due anni dopo la scomparsa del suo autore.
13
Si dice attore per non dire soggetto, perch soggetto un termine troppo carico filosoficamente e con
troppe implicazioni, mentre attore un termine sociologico, non filosofico, e usarlo in filosofia
permette di non imbarcarsi in tutte le allusioni e gli ammiccamenti relativi al soggetto e alla
soggettivit.
19
Furio Cerutti
le relazioni di potere fra gli Stati sovrani non implicano legittimit, ma piuttosto un adattamento
`realistico' (in senso colloquiale) ovvero prudenziale (per questo termine v. cap. 23) alla
superiorit conferita ad uno Stato dalle sue dimensioni e dalla sua potenza economica, ma
sempre sancita dalla capacit di esercitare questo potere con abilit politica e di garantirlo
tramite l'organizzazione militare. tuttavia vero che in questo secolo anche fra gli Stati si
creato un potere legittimo (sebbene troppo raramente efficace): quello della Lega (poi Societ)
delle Nazioni, creata nel 1919, in seguito (dal 1945) quello delle Nazioni Unite, per non parlare
delle organizzazioni regionali cui sono stati trasferiti alcuni poteri degli Stati nazionali, e di cui
l'Unione (prima: Comunit) europea l'esempio principe. Come si intender pi avanti nei
capp. 18 e 21, l'emergere recente di momenti di globalit nella vita politica, oltre che
economica e culturale, di tutti gli abitanti del pianeta potrebbe inoltre14 rendere sotto alcuni
profili sempre pi simili i problemi di governo a livello interno15. Nel mondo globalizzato, fra
esterno ed interno non esiste pi la divisione netta propria della politica moderna.
Ancora, va esplicitato il dubbio che la definizione sopra stabilita sia ottusa, e non permetta contro ogni evidenza - di riconoscere carattere politico al potere che non riguardi direttamente
la disposizione sulla forza fisica; come se il potere politico fosse cio solo quello dello Stato.
politico - sottolineiamo - ogni potere capace di ed intenzionato a mutare la distribuzione delle
chances di partecipazione al potere statuale (ivi compreso quello delle organizzazioni
internazionali politiche): per esempio il potere dei partiti, dei leaders, dei gruppi di pressione
nazionali e transnazionali, come Greenpeace o la Campagna per l'abolizione delle mine antiuomo. Riprendendo la terminologia weberiana, potremmo in questi casi parlare, anzich di
potere politico, di potere politicamente orientato.
20
Furio Cerutti
ovvero impedir con le sue forze armate ad un altro paese di accedere a risorse per questo
essenziali. (En passant, e a scanso di equivoci, l'embargo non forma di potere economico,
bens un atto di potere politico che impiega mezzi economici, peraltro sorretti politicamente,
cio militarmente o almeno diplomaticamente.)
Lo stesso vale per il potere ideologico o culturale, che consiste nella disposizione sui mezzi
di riproduzione culturale di una societ, cio consiste nel dominare la creazione, la diffusione e
la riproduzione delle idee, delle informazioni e del modo come queste vengono comunicate.
Definizione valida sia nel caso del potere televisivo, sia in quello del potere di uno sciamano di
una societ primitiva, essendo una definizione abbastanza generica. Anche qui questo potere
pu essere grandissimo: ci possono essere varie scuole di pensiero sul potere o strapotere del
mezzo televisivo, io per esempio evito di sopravvalutarlo, ma non si possono avere dubbi sul
potere di un predicatore medievale, magari eretico, o sul potere di uno sciamano. Eppure anche
questo potere non dispone della caratteristica specifica di quello politico, cio della coazione
fisica.
Qui ci si potrebbe imbarcare nello sforzo di differenziare il potere in rapporto al suo essere
visibile (dichiarato come tale, e presumibilmente legittimo, oltre che provvisto della garanzia
della forza) o invisibile (comunicativo, psicologico, culturale); ci che non va confuso con il
potere occulto, che quel potere politico, ma anche economico, che si esercita fuori o contro
l'ordinamento riconosciuto legittimo. Per tale differenziazione pu aprire la strada ad
un'espansione illimitata della nozione di potere (invisibile) che alla fine ci lascia senza
strumenti analitici per capire chi in una certa societ ed in un determinato periodo il potere
davvero lo abbia e lo eserciti, e come si possa toglierglielo oppure limitarlo. Non una via che
io chiuda come assolutamente impercorribile, ma a livello categoriale non mi sembra se ne
possa dire di pi.
* * *
Oggetto, mezzi e modus operandi del potere. Cerchiamo ora di enunciare alcune
articolazioni del concetto di potere: quelle secondo loggetto, secondo il mezzo e secondo il
modus operandi.
Loggetto sul quale il potere sesercita sono sempre le risorse materiali o relazionali che
esso alloca attraverso decisioni dette appunto potestative, ma queste decisioni (non
necessariamente espresse in atti formali o legali) possono assumere due forme distinte: a)
decisioni sul merito dellallocazione di risorse; b) decisioni di mettere un tema che riguarda
lallocazione di cui sotto a) allordine del giorno (agenda setting power). In un mondo in
rapidissima trasformazione e posto dinanzi a problemi del tutto inediti come quelli ambientali
poter influenzare lagenda setting divenuto di capitale importanza, come si vede nella
riluttanza della politica internazionale ad occuparsi del cambiamento climatico antropogenico.
Veniamo ora ai mezzi. Va detto anzitutto che, in ognuna delle sue forme sotto esaminate, il
potere impiega o sanzioni punitive (o meglio attese di queste) o allettamenti. Si pu anche dire:
sanzione negativa (un male inflitto come risposta ad un comportamento contrario a quello
desiderato da chi detiene il potere - questa una traslitterazione politica della nozione giuridica
di sanzione) e sanzione positiva (un bene attribuito come risposta ad un comportamento
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Furio Cerutti
conforme a quello ecc.) Ovviamente le stesse sanzioni negative consistono in cento oltre cose
(sottrazione di prebende, di segni di prestigio conferiti dal potere, e non solo nell'ancien rgime,
aumenti fiscali a carico precipuo di un gruppo o ceto, cancellazione della clausola di nazione
pi favorita, mozione di condanna votata nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) oltre
alle sanzioni fisiche (la carcerazione, l'attacco o contrattacco militare, l'occupazione). Ma,
diversamente che negli altri tipi di potere (compreso quello interpersonale e particolarmente
erotico, per dirla con Max Weber) che pure impiegano sanzioni ed allettamenti, il potere
politico pu sempre accompagnare le attese di sanzioni positive o negative con l'ulteriore,
credibile attesa che per eseguirle potr essere eventualmente adoprata la forza.
Quanto al modus operandi, esso si definisce a partire dagli effetti che produce, come
costrizione o dissuasione. Nella costrizione A fa cessare B dal fare ci che B fa, oppure gli fa
fare ci che B altrimenti non farebbe (compulsive power). Nella dissuasione A fa s che B
continui a fare ci che fa (anche nel caso in cui B vorrebbe fare diversamente) ovvero a non
fare ci che non fa (deterrent power). La dissuasione nucleare, in cui ogni superpotenza viene
indotta a continuare il suo non-uso bellico delle armi nucleari, solo un caso particolare,
caratterizzato dalla reciprocit (pi o meno paritaria e stabile) del potere che l'una esercita
sull'altra per scongiurarne eventuali mire avventurose. Ma potere di dissuasione anche quello
di un partito o di un boss elettorale che riesce ad impedire che i suoi elettori cambino
preferenza, facendo loro temere che ne avranno altrimenti meno finanziamenti pubblici o meno
posti di lavoro.
Potere istituzionalizzato e cooperazione dei governati. Facciamo un passo ulteriore
nell'osservare la complessit della categoria di potere politico e rileviamo che esso usa
presentarsi con caratteristiche di continuit, almeno tendenziale: non basta fondare un
principato o repubblica, od instaurare un nuovo regime con un atto di forza, essendo problema
politico altrettanto - se non pi - fondamentale quello di mantenere lo Stato, per dirla con
Niccol Machiavelli. Un potere che si continui nel tempo necessariamente un potere
istituzionalizzato, che si deposita in e riproduce tramite delle istituzioni (v. oltre il paragrafo
pertinente). In questa sua dimensione il rapporto di potere non davvero pi identificabile con
il mero esercizio della forza da un lato e la mera subordinazione ad essa dall'altro, emergendo
invece in chi agisce conforme a quanto disposto dal detentore del potere alcuni elementi di
volontariet: preferisco ubbidire o perch calcolo che a non farlo ci rimetto di pi, in termini di
sanzioni fisiche o d'altro genere, o perch, al di l d'ogni calcolo, sento, per ragioni psicologiche
o morali o religiose o `mitiche', di dover agire come il potere si attende (questi aspetti verranno
riformulati pi concettualmente sotto i titoli della legittimit e dell'obbligo politico).
Fra chi il potere detiene e chi ad esso sottoposto, fra governanti e governati, fra Stato
egemonico o leader e Stati alleati o dipendenti o satelliti si crea cos un rapporto in cui agli
elementi di subordinazione od anche sfruttamento ed oppressione che vengono patiti si
accompagnano elementi di convergenza o perfino cooperazione. Gli uni accettano quella
struttura, quei titolari e quei comandi del potere faute de mieux, cio in mancanza di meglio
(nell'ipotesi pi semplice): a non accettarli ci si perde troppo, per rifiutarli o riformarli il tempo
non ancora maturo, ovvero in sfere extra-politiche si possono trovare sufficienti
compensazioni agli svantaggi derivanti dai rapporti di potere politico. Si pu anche vedere la
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Furio Cerutti
uso del suo potere per governare societ e Stato con un disegno ed uno stile che contentino
molto i suoi sostenitori, ma non scontentino eccessivamente gli altri, ma lo usa solo per
riprodurre la sua posizione, gi si trova nella sua fase discendente, preparando suo malgrado il
terreno per un cambiamento. Ma vera anche la cosa opposta: una politica che venga
presentata come pura ricerca di un fine attraverso l'accordo solidale, la persuasione, la fiducia
nelle buone idee, senza cio fare i conti con quella cosa complessa e storica che il potere, o
una politica di pura testimonianza, quindi apolitica, extramondana, come direbbe Max Weber;
oppure chi la propone molto facile che tenti di confondere se stesso o di confonderci, nel
senso che lui dice che gli altri vogliono solo il potere, e solo per i loro egoistici fini, mentre lui
vuole solo raggiungere quei fini comuni e non vuole il potere. Allora si tratta di uno che non sa
molto di politica e scambia la predicazione o la testimonianza con la lotta politica; oppure uno
che tenta di imbrogliare, cio che tenta di attrarre la vostra simpatia per una forma di
cambiamento della politica radicale e salvifica, cio tale che alla fine non c' pi bisogno,
scarsit, disuguaglianza, e siamo tutti uguali, laddove in realt ci che poi resta il potere,
meno contenuto perch non riconosciuto come tale, del leader rinnovatore.
Dopo esserci sforzati di neutralizzare, per quel che giusto, la nozione di potere, ovvero di
non demonizzarla, dobbiamo metterne in evidenza almeno due aspetti problematici, entrambi
legati al momento della diseguaglianza. Uno un problema assai generalmente filosofico, e
come tale non potremo approfondirlo qui: la richiesta, rivolta anche al potere politico, come a
quello religioso, psicologico, economico, di giustificarsi rispetto ad un'idea di libert e di
autonomia degli esseri umani. In quanto sia problema di libert politica, vi ritorneremo sopra
nell'apposito paragrafo. L'altro aspetto deriva al potere politico dal suo essere incardinato nella
diseguaglianza e scarsit, condizioni che non possono non essere in perenne tensione con
l'ideale di un'eguaglianza di diritti e di poteri che ha animato concezioni e pratiche che vanno
dall'isonomia (essere la legge eguale) greca alla democrazia moderna. Non solo che le
proclamazioni di quella eguaglianza hanno sempre, o quasi, contenuto un momento ideologico,
di falsa coscienza: Atene escludeva dalla vita della polis donne, schiavi e meteci, e Thomas
Jefferson, l'estensore della Declaration of Independence (all men are created equal), era
proprietario di schiavi. che la verticalit stessa del potere (alto-basso) sta in contrasto, e per
alcuni in contraddizione, con l'idea di cittadinanza - tanto pi nella modernit, in cui questa
verticalit da un lato si accentua (altro sono le relazioni quasi `faccia a faccia' nella polis, altro
quelle fra governanti e governati nella grande macchina degli Stati territoriali, cfr. G. Sartori,
La politica, Sugarco, Milano 1979, pp. 189-196), dall'altro diviene semplicemente pi visibile e
pi contestata. Questa tensione, questa necessit di giustificare il dislivello di potere
connaturato all'associazione politica uno dei temi fondativi della teoria di Rousseau, che per
risolverla la estremizza: solo l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a
tutta la comunit garantisce la perfetta eguaglianza dei sudditi-cittadini, giacch se tutti hanno
alienato tutto senza riserve, a nessuno resta nulla da rivendicare. Il carattere totale del potere ne
garantisce paradossalmente l'eguaglianza e quindi massimamente lo legittima:
infine, chi si d a tutti non si d a nessuno; e siccome non vi associato sul quale
ciascuno non acquisti un diritto pari a quello che egli cede su di s, tutti guadagnano
l'equivalente di quello che perdono, e una maggiore forza per conservare quello che
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agire come il titolare del potere desidera. Questo ha una conseguenza importante perch vuol
dire che il potere, proprio perch consiste anche di questi elementi, pu causare azioni in
positivo, mentre la mera forza, che in quanto coercizione fisica possiamo altrettanto chiamare
violenza, pu solo avere effetti omissivi, cio solo costringere colui su cui si esercita a non fare
certe cose. Inoltre la specificit della violenza e del potere ridotto a mera forza consiste
nell'intervenire o sul corpo stesso dei dominati, mettendo loro le manette, mandandoli in
prigione o dietro un filo spinato in un campo di concentramento, sparando loro addosso, oppure
agendo sempre in senso fisico sull'ambiente fisico verso il quale i dominati hanno un rapporto
vitale di dipendenza: per esempio violenza anche l'impedire a una persona o ad una
popolazione di ricevere il cibo o l'acqua. Il potere invece un'articolata relazione mentale e
motivazionale fra gli attori.
V' tuttavia in politica un caso in cui il potere si riduce al mero esercizio della forza fisica
da parte di un'istituzione politica (Stato o partito, in questo secolo); si ha allora il fenomeno
detto del terrorismo di Stato o della violenza terroristica di Stato, che ha la caratteristica di
essere completamente extra legem, al di fuori della legge, avendo le caratteristiche dell'assoluta
imprevedibilit e smisuratezza, vale a dire dell'assoluta irrelazione con le cause, le occasioni e
anche le vittime su cui essa sia applica. la violenza che proprio per il suo carattere extralegale, del tutto imprevedibile e smisurato, propria nel mondo moderno solo degli Stati
totalitari. Non che questo esaurisca la definizione di totalitarismo, ma ne uno degli aspetti. Per
quanto riguarda poi la scena internazionale, si vedr nei capp. 16-18 che la guerra
`clausewitziana', quella intessuta di politica, non pu propriamente equipararsi al mero
esercizio della forza fisica; questo si pu dire piuttosto di un tipo di guerra, la guerra di
sterminio compresa quella nucleare. Nelle relazioni internazionali insomma la distinzione fra
potere e forza pu esser fatta valere, ma non esattamente negli stessi termini qui delineati per la
politica interna ad una comunit. Del resto va oggi aggiunto che la separazione di politica
interna ed internazionale si va assottigliando, e sar presto necessario ripensare tutte queste
distinzioni e relazioni.
Quanto nella relazione di potere la parte dell'applicazione della forza sia grande rispetto alla
parte relativa al consenso, e quindi al riconoscimento sia di una situazione di inferiorit da parte
di chi il potere lo subisce, sia dell'opportunit di un suo volontario adeguamento ai comandi di
chi lo detiene, e quale sia (in termini rozzamente quantitativi) la percentuale che spetti alla
forza ovvero violenza da una parte, e al consenso dall'altra, questa non una questione teorica,
ma empirica. Teorico solamente l'assunto che se il potere si riduce a violenza ed elimina
completamente il consenso, si pu dubitare che si tratti ancora di potere politico, venendo
tendenzialmente a cadere la possibilit di legittimarlo. Come diceva Sant'Agostino a questo
livello non c' pi differenza tra regnum e latrocinium, cio il potere come se fosse esercitato
da una banda di ladroni perch, aggiungeva Agostino, viene a mancare completamente
l'elemento della giustizia. Non occorre far nostro questo canone normativo (teologico) per
sostenere che, dove rimanga il solo elemento della forza, non c' pi nessuna ragione di
distinguere i regna dai latrocinia. Non a caso il regime nazionalsocialista stato anche visto
come un Nicht-Staat, un non-Stato.
La questione forza/violenza una questione in parte lessicale. L'uso corrente, da cui
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difficile ricavare una definizione canonica, orientato verso l'affermazione che, usando `forza',
si sottolinea l'aspetto sia organizzato, sia legittimo della forza medesima, mentre quando si usa
`violenza', si vuole mettere l'accento sul suo aspetto di coazione fisica, non necessariamente
contro ogni norma giuridica, ma indipendentemente dalla presenza o meno di una normazione
giuridica sull'uso della forza fisica.
L'uso corrente ci indurrebbe a parlare di forza nei confronti della forza fisica usata da
istituzioni politiche legittime, mentre dovremmo usare violenza quando la forza usata da
istituzioni non legittime, che diventano latrocinia, oppure viene usata da istituzioni legittime,
ma in modo illegale. Se la polizia reprime un certo reato per il bene comune dei cittadini, si usa
dire che lo ha fatto usando la propria forza legittima statuale; se la polizia compie degli abusi o
in casi singoli nello Stato di diritto, o reprimendo sanguinosamente una manifestazione
popolare democratica in una dittatura, si dice che usa la violenza. Naturalmente tutto si
confonde quando questo linguaggio rientra nel gioco di chi vuol dimostrare certe tesi, ad
esempio che ogni potere statuale, ed in particolare ogni potere repressivo, al di l del manto di
legittimit o di legalit di cui si ammanta, altro non in realt che violenza. Questa questione
di specifiche posizioni valutative e quindi la lasciamo da parte, trovandoci ora sul piano delle
definizioni che, per servire a qualcosa, devono tentare di essere avalutative, o mediamente
neutrali.
Un altro schiarimento lessicale: norme o comandi. La definizione corretta, perch pi
comprensiva, `comandi'; il potere emette comandi, che nello Stato moderno che noi
conosciamo, e la cui funzione principalmente la produzione, l'esecuzione e l'accertamento del
diritto, assumono la veste giuridica di norme. Qui i comandi sono espressi attraverso norme
primarie, che ci dicono cosa dobbiamo fare o non fare, e norme secondarie, che ci dicono come
interpretare, gestire, eseguire le norme primarie. Le norme primarie e secondarie costituiscono
insieme l'ordinamento giuridico, concetto delicatissimo di cui non oso dare ulteriori definizioni.
Se vogliamo una definizione di ci a cui si obbedisce nel potere, una definizione che sia
diacronicamente valida, cio non limitata ad un periodo storico, dobbiamo dire `comandi'.
Prendiamo l'esempio famoso del libro V della Guerra del Peloponneso di Tucidide, quando la
citt di Melo non vuole entrare nell'alleanza antispartana, e gli ateniesi dicono che se i meli non
entrano li mettono in pericolo, che se non entrano peggio per loro: alla fine, visto che i meli
con le loro ragioni si rifiutano, gli ateniesi abbattono Melo stessa ( un luogo famoso per la
concezione del potere nella politica internazionale, e ancor pi per discutere il rapporto tra
morale e politica). Quello che gli ateniesi danno ai melii un comando, di fronte al quale, se
non viene ubbidito, sono minacciate e poi imposte sanzioni; ma non una norma giuridica,
anche se gli ateniesi offrono un'argomentazione per sostenere la loro richiesta, che rinvia, si
direbbe modernamente, alle ragioni della propria sicurezza nazionale. Insomma, se a proposito
del potere in generale, usiamo la nozione di norme anzich quella di comandi, ci precludiamo la
possibilit di includervi il potere non giuridicamente organizzato, come parte di quello
premoderno, e come quello interstatale - anche se di questo occorre dire che ormai tende
sempre pi ad organizzarsi in forme giuridiche.
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un rapporto fra eguali, anche la pi sviluppata democrazia abbisogna dellasimmetrico (altobasso) potere politico per sopravvivere e funzionare. Limportante che le asimmetrie in esso
contenute siano le minori possibili, vengano limitate da vari dispositivi e non si perpetuino
N si pu dimenticare la dimensione critica contenuta nella veduta della politica attraverso
il prisma del potere, soprattutto oggi che esso divenuto in Occidente almeno meno crudele e
pi sottile: essa ci serve a svelare i meccanismi e le funzionalit della societ politica, a capire
meglio non solo chi comanda, ma perch comanda, con quanto assenso cio dei comandati.
Del resto, nellaccezione qui perseguita potere non eguale al dominio, non
automaticamente Herrschaft come in tedesco: tale angolazione ci invita piuttosto a pensare di
quanto potere ci sia bisogno e di quanto possiamo fare a meno, limitandolo e controllandolo.
Questa angolazione contiene dunque lessenza classica del liberalismo.
Inoltre nello sviluppo in questo volume della riflessione sulla politica del nostro tempo il
lettore trover che lispirazione realista di partenza si stempera fino a (hegelianamente)
dileguarsi dinanzi alle sfide globali e ad altri fenomeni globalizzanti (cf. lomonimo capitolo
20). Queste sfide ripropongono in chiave inedita dilemmi normativi e fin etici alla politica.
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Ordine considerato un concetto proprio della destra e quindi aborrito dalla sinistra. Credo
che l'idiosincrasia, che purtroppo si trova ancora residuale perfino negli ambienti scientifici, a
discutere il problema dell'ordine sia una forma antiscientifica di ottusit dinanzi a ci che il
problema dell'ordine stato ed . L'ordine uno dei problemi fondamentali della filosofia
politica e possiamo dire che abbia due corni: in uno ci si chiede perch c' e ci pu essere un
ordine anzich il caos, l'isolamento degli attori del processo politico, la mancanza di regole e di
un potere che le faccia rispettare nelle loro interazioni. Ma dell'ordine si pu avere anche una
nozione pi forte, contrapponendolo non semplicemente al disordine, all'irregolarit nel seguirsi
degli avvenimenti, bens all'anarchia, nel senso proprio di mancanza di governo, di un potere
comune - come anarchia c'era ed in parte c' ancora fra gli Stati. Al di l di queste due facce
descrittive del concetto di ordine ve n' una ulteriore, normativa ovvero qualitativa: l'ordine in
quanto giusto o equo o buono o superiore, cui si accenner nella parte finale di questo testo,
quando ci occuperemo tematicamente di norme e valori. Notiamo infine esplicitamente che il
problema dell'ordine politico, pi manifestamente degli altri, riguarda tanto le relazioni
politiche fra gli individui, quanto le relazioni fra gli enti politici supremi, cio gli Stati.
L'altro problema : c' un ordine specificamente politico? La prima domanda - perch
l'ordine - non in realt assolutamente specifica della filosofia politica, riguardando altrettanto
la filosofia della societ; anzich di ordine politico alcuni preferiscono parlare di ordine sociale,
perch gli uomini vivono in societ e non vivono isolati o con rapporti occasionali, le cui regole
cio sono stabilite occasionalmente e non con regolarit. Il secondo corno del problema
dell'ordine ha invece una formulazione esclusivamente interna al terreno politico: c' un ordine
propriamente politico, oppure l'ordine politico deriva da altri ordini, il prodotto, il fenomeno,
il deposito di altri ordini, come quello della natura, o l'ordine prescritto dal Signore, o l'ordine
dettato dalle leggi dell'economia o dell'evoluzione sociale.
Vedremo nel prossimo paragrafo i modelli di risposta a tutte queste domande: il modello
aristotelico, quello hobbesiano e generalmente contrattualistico, poi le variazioni di Hegel e di
Marx e di altri. Dapprima tuttavia cerchiamo di definire la nozione di ordine nel suo significato
pi astratto, che valga, per quanto, pu valere, tanto per l'ordine interno, quanto per quello
internazionale o mondiale.
L'ordine, nella sua nozione analitica generica, indica che vi una qualche regolarit nella
convivenza degli attori politici. In realt quando parliamo di ordine, specie politico, intendiamo
qualcosa di pi di un pallido schema di regolarit; la nozione ha un significato pi intensivo e
pregnante, contiene alcune qualit. Ovvero noi intendiamo con ordine una qualit delle entit
politiche specifica ad esse, e capace di autostabilizzarsi, cio di riprodursi fin quando ci saranno
i problemi da cui l'ordine si genera. Riconoscere questa qualit di autostabilizzazione all'ordine
non vuol dire naturalmente implicare che l'ordine sia di per s atemporale, eterno.
Qualit del concetto politico di ordine (anch'esso ha in verit status analitico, ma lo
chiameremo per brevit politico) sono quelle di consistere non in una regolarit qualsivoglia,
ma in uno schema di regolarit che promuove scopi, produce ed osserva regole e lo fa tramite
strumenti specifici che sono le istituzioni; scopi, regole, istituzioni. (In queste lezioni mi
appoggio molto ai teorici delle relazioni internazionali, in particolare al libro ormai classico di
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Hedley Bull, The Anarchical Society, New York 1977, che non condivido del tutto, ma che un
grande libro, di recente tradotto finalmente in italiano dalleditrice Vita e Pensiero. L'altro
autore al quale mi appoggio un collega prima di Harvard e ora di Princeton University, Robert
Keohane, soprattutto per International Institutions and State Power, Boulder 1989.)
Gli scopi principali che un ordine politico promuove sono la preservazione della vita, il
contenimento della violenza, l'osservanza dei patti, e, ad un livello evolutivo superiore, la
garanzia della propriet e la garanzia di un benessere minimo. Non si tratta di un coerente e
consapevole finalismo: piuttosto come se gli individui umani, od anche - in misura e forme
diverse - gli Stati agissero sempre con piena coscienza di quello che fanno e di dove vogliono
arrivare, come se per conseguire questi scopi gli individui si accordassero per instaurare un
ordine, come se l'ordine fosse funzionale, interno al complesso di scopi che sono, anche per una
concezione non teleologica della politica, gli scopi immanenti ad ogni consociazione politica.
Non c'interessa qui sapere quanto questa finzione del `come se' sia distante dalla realt, e
quanto l'ordine non sia piuttosto il risultato cieco ed inconsapevole, o magari
controintenzionale, di azioni umane che non sono ad esso rivolte. Si pu fare filosofia politica
anche senza risolvere questa questione di filosofia della storia; del resto probabile trattarsi di
un cospirare di azioni finalizzate all'ordine con altre estranee a questa intenzione. invece
giusto sottolineare che, essendo il finalismo proprio dell'agire umano, non c' da meravigliarsi
che esso si ritrovi anche nell'agire politico e nei suoi prodotti, pur avendo noi escluso la finalit
dalla nostra definizione della politica. Questa esclusione riguardava ogni fine storicamente
concreto, pertinente ad una particolare concezione o pratica della politica, assumere il quale
nella definizione avrebbe reso questa non abbastanza estensiva. Gli scopi dei quali parliamo a
proposito di ordine sono un minimo comun denominatore, qualcosa che ogni politica,
indipendentemente dai suoi contenuti e visioni, non pu in qualche modo( una rilevazione
fattuale, non una prescrizione) non perseguire.
Qualcuno va pi in l e dice che lo scopo fondamentale della politica quello di produrre la
pace. Questa la tesi - antischmittiana - di uno scienziato politico tedesco della generazione fra
Weimar e Bonn, Dolf Sternberger. un rappresentante della teoria politica liberale tedesca nel
senso conservatore, non certo un uomo di sinistra. Non possiamo discutere qui la proposta di
Sternberger, ma possiamo reinterpretarla osservando che ogni potere, in quanto potenza
superiore che distribuisce a suo modo le risorse e in quanto monopolio della violenza, tende per
corollario a ridurre la frequenza dei conflitti e a renderli meno cruenti, imponendo una certa
regola che viene almeno per un certo tempo osservata.
Il concetto di ordine fin qui esposto esprime alcune caratteristiche di base dell'associazione
politica, quali risultano ad un osservatore che ne osservi le regolarit. Si parla a suo proposito
anche di ordine minimo. La sua importanza per la convivenza politica che esso stabilizza le
attese degli attori, riducendo l'incertezza su vita e beni propri, della propria comunit ed anche
dei propri discendenti. Questo risultato pu essere in qualche misura gi conseguito con la mera
regolarit dell'accadere in quanto cospirante a quegli scopi. In questo senso ordine - si diceva non dunque contrapposto ad anarchia, bens ad irregolarit, caos. Pi concretamente vero
che, perch quegli scopi vengano consistentemente raggiunti, necessaria per lo pi la presenza
di un qualche potere comune riconosciuto. In ogni caso l'ordine (minimo) attinge, per
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Furio Cerutti
Furio Cerutti
Furio Cerutti
Per chi fosse interessato ad approfondire queste cose, la lettura pi adatta Norberto Bobbio Michelangelo Bovero, Societ e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore. Il saggio di
Bobbio sul modello giusnaturalistico assolutamente magistrale, ma non c' un saggio sul modello
aristotelico. Per questo si pu vedere la voce Politica scritta da S. Veca per l'Enciclopedia Einaudi.
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Furio Cerutti
assieme gli individui hobbesiani non la natura, ma un atto di volont e cio la creazione
artificiale di un ente che imita la natura, ma che naturale non . il Leviatano, il mostro biblico
a cui Hobbes ha dedicato la sua pi matura opera politica. Nell'illustrazione che si trova
nell'edizione originale (1651) esso un uomo artificiale, un sovrano con lo scettro e la corona,
fatto di tanti ometti.
Anche il modello hobbesiano apparentemente naturalistico, o meglio materialistico; ma
in realt la natura di Hobbes non la natura di Aristotele, una natura gi astratta, propria del
modello meccanicistico della filosofia e della scienza del Sei-Settecento. La natura una
macchina, e quindi il paradigma dell'ordine hobbesiano, anche se i termini di riferimento sono
quelli del corpo umano, in realt pi la meccanica che la medicina, come era invece per
Aristotele.
L'ordine politico di tipo hobbesiano meglio detto contrattualistico, in quanto nato da un
contratto, da un atto che gli individui fanno fra di loro, consistente nel rinunciare alla pienezza
dei loro diritti e nel deferirli, soprattutto quello di usare la forza nella regolazione delle loro
controversie, ad un ente che si chiama il sovrano, che pu essere un re o un'assemblea. Il
termine `giusnaturalistico' riguarda la premessa, cio che gli uomini hanno dei diritti naturali a
cui devono parzialmente rinunciare per potersi associare volontariamente nell'ordine politico,
che viene creato per tutelarli; laddove per Locke alcuni di questi diritti sono indisponibili
rispetto all'ordine politico stesso.
L'idea di Hobbes che l'ordine politico si costituisce ed contrapposto o sovrapposto per
un verso allo stato di natura, per un altro verso alla stessa societ civile, che per Hobbes fuori
dallo Stato, ma anche resa possibile dallo Stato: il fatto che la gente si associ e faccia i suoi
traffici non fa parte della vita dello Stato, visto che allo Stato non spetta di promuovere queste
cose e spetta piuttosto di non interferire in esse. Tuttavia la societ civile resa possibile dal
fatto che non vi sono pi guerre fra gli individui, perch regna l'ordine garantito dal sovrano.
Come si vede, in Hobbes c' un rapporto stretto fra ordine e conflitto, l'ordine nasce non
dall'organicismo della natura, ma dalla conflittualit, ed una risposta alla conflittualit.
Il modello spaziale dell'ordine hobbesiano non quello dei cerchi concentrici disposti su un
piano orizzontale, delle varie comunit aristoteliche, ma un modello verticale, precisamente il
modello di alto-basso. Nella politica moderna, con l'emergere vigoroso e definitivo della
categoria di potere, cambia la struttura spaziale dell'ordine politico, come dice anche Giovanni
Sartori (La politica, Milano 1979, p.193). Se l'ordine hobbesiano una risposta al conflitto, ci
vuol dire che la politica per sua definizione al riparo da questo conflitto, cio al di sopra della
disuguaglianza economica e delle sue possibili conseguenze conflittuali purch, e questo un
ulteriore punto caratterizzante, si intenda che nel modello hobbesiano stretto la politica
identica con lo statuale, cio la sfera della politica coincide con la sfera della statualit.
La prestazione, la performance del politico (= statuale) quella di produrre leggi di contro
alle fazioni e agli interessi, per mantenere l'ordine verso l'interno, e di produrre potenza e
vigilanza verso l'esterno, verso gli altri Stati. Nel modello hobbesiano non c' un'eguale
funzione di ordine (come contrario di anarchia) nella politica interstatale, perch Hobbes non
vede ragioni sufficienti per ipotizzare, nei rapporti fra gli Stati, le stesse impellenti necessit di
porre termine al conflitto e di stabilire un ordine che si trovano nello stato di natura dei rapporti
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Furio Cerutti
individuali. La ragione quella che si dice nel cap. 13 del II libro del Leviathan: vero che i
sovrani, gli Stati fra di loro sono in inimicizia tanto quanto gli individui, e stanno fra di loro
nell'atteggiamento di gladiatori, ed in pi si mandano spie per sorvegliarsi. Ma poich ciascuno
Stato sostiene l'attivit economica e produttiva dei suoi sudditi, la condizione di questi sudditi
non tanto miserabile da richiedere una rinuncia al conflitto e quindi alla libert di ciascun
singolo Stato. L'altra ragione, ipotizzata da Bobbio, che mentre tra gli individui ciascuno,
anche il pi debole, pu privare della vita il pi forte sorprendendolo nel sonno, cos non fra
gli Stati: lo Stato pi debole non pu distruggere il pi forte e quindi non c' fra gli Stati quella
generale e radicale paura della morte che c' invece fra gli individui, paura che tra gli individui
tutti sentono, mentre gli Stati pi grandi e pi forti e vigilanti non hanno bisogno di sentirla. C'
una terza ragione: mentre se un individuo muore nella guerra di tutti contro tutti, l finisce la
sua storia, fra gli Stati se uno Stato muore, cio se un sovrano viene radicalmente sconfitto,
muore lui come ente politico, muore lo Stato che egli rappresenta, ma non muoiono gli
individui, perch gli individui semplicemente vengono sciolti dall'obbligo di lealt nei confronti
di un sovrano che non ha fatto il suo mestiere, quello di garantire la protezione. Dunque i
sudditi di un sovrano sconfitto non hanno altro da fare che sottomettersi al sovrano vincitore, il
quale garantir loro pi efficientemente l'ordine e sosterr la loro attivit economica.
Per anticipare un tema che svolger pi avanti: si pu pensare oggi che questa ragione
hobbesiana per la mancanza di un ordine internazionale esplicito e legittimo non valga pi,
perch in un universo di Stati dotati di armamenti nucleari strategici, ciascuno di essi, non solo
le superpotenze, possono infliggere agli altri danni insopportabili. Ne deriva quella cosa che
tutti in teoria sanno, e cio che non si possono pi fare guerre, potendo queste prevedibilmente
portare ad un conflitto nucleare; oppure che bisogna addirittura istituire un ordine
internazionale nella forma di governo internazionale, prospettiva che cambia completamente la
veduta hobbesiana della politica fra gli Stati.
Veniamo adesso ad alcuni modelli diversi ed indipendenti da quelli che ho appena esposto,
pur non essendo tali da costituire altrettanti modelli complessivi dell'ordine (almeno cos si
pensa oggi; trent'anni fa quello `dialettico', hegeliano o marxiano, sembrava esserlo). Una delle
varianti sta nel non considerare l'ordine politico come ordine supremo, ovvero nel non
considerare il politico come l'unico garante dell'ordine. Abbiamo qui il modello genericamente
illuminisico: lastoria naturale, tanto della natura come delle societ, produce la ricchezza
delle nazioni e quindi un progresso che, attraverso lo sviluppo dell'industria e del commercio,
riesce in qualche misura a riequilibrare le diseguaglianze sociali, per esempio attraverso l
oculata e provvidenziale divisione del lavoro fra gli individui e fra le societ. In questo
modello, che quello dell'illuminismo inglese e scozzese, e soprattutto di Adam Smith (Inquiry
into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776), le funzioni dell'ordine sociale sono
compiute soprattutto dalla `mano invisibile' che noi dobbiamo supporre regga i fili dei rapporti
commerciali, politici e quant'altro, in maniera che dallo scontro/incontro dei diversi interessi
singoli e particolari nasca il benessere collettivo. Ricordiamo ancora che l'eco dellidea
illuministica di una storia naturale che avvia a soluzione non trascendente (religiosa) n politica
i problemi dell'umanit si ritrova in qualche misura nelle idee industrialistiche e positivistiche
(fino al socialdarwinismo) dell'Ottocento, le quali vedono nel progresso inarrestabile
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Furio Cerutti
dell'industria e della scienza (materialistica, antimetafisica) la garanzia della futura libert dalla
miseria, dall'ignoranza e dall'inconcludenza della politica (la `riforma sociale'); mentre nella
cooperazione-competizione commerciale starebbe il sostituto progressivo della guerra, tanto pi
dove i limiti liberali al potere statuale e la potenza della societ civile sono capaci di imbrigliare
la disposizione degli Stati alla guerra (Montesquieu, Cobden).
Un'altra idea che diminuisce l'importanza del politico come unico ed incontestato
dispensatore di ordine l'idea kantiana della pubblicit, della ffentlichkeit: cio l'idea che i
cittadini indipendenti, e soprattutto gli intellettuali, debbano e possano esercitare una funzione
di limite della politica, che consiste nel non accettare le mosse o le leggi che non possono
essere sostenute di fronte alla generalit del pubblico. Questo chiaramente non un modello
indipendente, perch una modificazione importante di quello giusnaturalistico e poi diventa grazie a quest'idea della limitazione della politica attraverso la funzione di critica e di controllo
del pubblico - un elemento essenziale dell'ordine liberal-democratico, il quale rinvia per le sue
radici al contrattualismo.
Invece l'idea del contratto viene toto coelo respinta in quanto artificiosa ed inutile da parte
di un'altra dottrina che mira a limitare l'importanza del politico: l'utilitarismo,17. L'utilitarismo
considera che gli individui sono gi di per s, nella loro pluralit, trattabili come un unico
individuo, assumendo che l'utile, in base al quale orientare le azioni,consista nelle utilit
aggregate di tutti gli individui componenti una societ. Nellutilitarismo originario la radicale
primazia dellutile aggregato esclude ogni presenza e rilievo dei diritti fondamentali.
pi difficile classificare Hegel: per un verso c' in Hegel (Grundlinien der Philosophie
des Rechts, 1821, tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto) un'idea di tipo aristotelico, cio l'idea
che famiglia, societ civile e Stato siano tutti svolgimenti organici dell'idea in quella sua fase di
sviluppo che Hegel chiama lo spirito oggettivo. Solo che il rapporto tra questi livelli di
associazione non di continuismo organico, ma di negazione della particolarit e
superamento di ciascun livello nel livello superiore e pi comprensivo, per cui la famiglia e la
societ sono sfere inferiori che sono assorbite e negate nello Stato.
Hegel ritiene, in maniera diametralmente opposta ai liberali britannici o americani, che la
societ civile non sia assolutamente in grado di governarsi da sola, e che anche quel tanto di
autogoverno che essa pu esprimere, le funzioni che Hegel chiama di polizia e di ordinamento
della vita economica e sociale, che oggi noi siamo abituati a considerare funzioni dello Stato e
che Hegel attribuiva alla societ civile, non siano per nulla sufficienti a garantire l'ordine, e
tanto meno a conferire senso ad un nesso politico che pu richiedere ai cittadini il sacrificio
della vita. Egli pensa che l'atomismo e l'egoismo degli individui e delle loro comunit sono
irriducibili, e producono cascami inquinanti, per esempio il pauperismo; finch non compare il
supremo ordinatore che lo Stato, l'unico garante della vita etica, o meglio l'unico garante
dell'ordine come elemento della vita etica degli individui stessi; pertanto anche l'unico a poter
chiedere loro il sacrificio della vita.
Lo Stato per Hegel il supremo ordine, perch la pienezza dell'ordine etico, perch nella
17
Si trova in Bentham (An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789) ma gi
prima in qualche misura in Hume (io non considero Hume il fondatore dell'utilitarismo, ma certamente
in lui ci sono elementi che creano l'ambiente mentale dell'utilitarismo).
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Furio Cerutti
sovranit dello Stato e specificamente del principe che questa pienezza si concreta; una
pienezza che non ha limiti, se non quelli interni alla sua stessa ratio, iscritti nel diritto. Pi
precisamente il limite posto allo Stato che si tratta pur sempre di un momento dello spirito
oggettivo, e al di sopra dello spirito oggettivo lo spirito corre un ulteriore percorso, quello dello
spirito assoluto e quindi vi sono forme della vita spirituale (la religione, l'arte, la filosofia) che
sono pi piene, pi ricche, pi complete, pi assolute che non lo spirito oggettivo, che non lo
Stato.
L'ordine fra gli Stati per Hegel un ordine fra i popoli, che negli Stati si danno forma
istituzionale, ed un ordine etico attraverso non la pace, ma la guerra: la guerra ritenuta da
Hegel un momento di scontro tra le volont degli Stati, non fra le passioni degli individui, tanto
che Hegel celebra come una conquista morale la scoperta dell'arma da fuoco perch solo con
l'arma da fuoco, dice Hegel in un passo abbastanza noto, che il soldato combattente non uccide
il suo nemico in un corpo a corpo in cui si scatenano odi, ma lo uccide impersonalmente, senza
manifestazione di odio o senza la sanguinosit del corpo a corpo, cio come mera incarnazione
della volont politica e quindi della sostanza etica dello Stato di cui l'individuo membro.
Un ordine che solo per gli aspetti filosofici complessivi deriva da quello hegeliano, ma che
per gli altri aspetti ne del tutto diverso, per non dire contrario, quello studiato e previsto dai
classici del marxismo, Karl Marx e Friedrich Engels18. In essi si trovano sia temi scientifici e
analitici a base empirica, sia previsioni ed auspici sul futuro corso delle cose. Qui ritroviamo in
certa misura la posizione, per quanto riguarda il rapporto tra politica e societ, che era stata
propria della filosofia politica e sociale del Settecento: l'ordine politico non ha n autonomia n
superiorit rispetto all'ordine sociale, anzi ne il riflesso, in quanto l'ordine politico la
sovrastruttura dell'elemento di base, il modo in cui di volta in volta gli uomini e le societ
regolano il `processo sociale di vita' ( un termine marxiano).
Marx un po' diverso dal modo in cui i suoi detrattori per un verso e molti dei suoi seguaci
per un altro l'hanno presentato: l'ordine politico, sulle cui caratteristiche non c in Marx ed
Engels una riflessione sistematica ed approfondita, non riflesso dell'`economia', ma dell'ordine
sociale, del modo in cui gli uomini regolano il complesso della loro esistenza in societ, di cui
certo il modo di regolare la produzione e la riproduzione materiale l'elemento chiave. Il punto
che l'ordine sociale come lo vedono Marx ed Engels quello di essere stato finora un ordine
cieco, non previsto n voluto dagli uomini, ma prodotto dalla storia, la storia delle societ di
classe che solo la preistoria di una storia veramente umana. La storia degli uomini fino adesso
ha le stesse caratteristiche della storia naturale, ovvero una storia naturale della societ: due
caratteristiche principali sono quella di essere sottoposta a sue leggi, e quella che queste sue
leggi sono cieche, si affermano al di sopra e al di l delle teste degli individui, anche se sono
ricostruibili ex post dallo scienziato sociale.
L'altro elemento di questo ordine sociale quello che esso un ordine autocontraddittorio e
quindi autonegantesi per la forza stessa delle sue intime contraddizioni: la contraddizione
fondamentale, sempre ripetuta e sempre in termini diversi, quella fra le forze produttive, cio
tutto ci che di materiale e di intellettuale produce la ricchezza di una societ, e i rapporti di
18
Oltre alla opere menzionate pi avanti, si veda Il manifesto del partito comunista, 1848; Prefazione
(1859) a Sulla critica dell'economia politica; e de Il capitale soprattutto il primo volume, 1867)
42
Furio Cerutti
produzione, cio l'ordinamento che di volta in volta viene dato alle relazioni fra gli uomini
dentro alla produzione, non solo dei beni, ma della vita sociale nel suo complesso. La
contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive ed i vecchi rapporti di produzione, gli
ordinamenti economico-sociali e politici, questa contraddizione quella che in ogni societ
provoca lotte, il dilaniarsi e alla fine lo sciogliersi dei vecchi rapporti di produzione in una
nuova forma.
Due sono dunque nel marxismo classico le caratteristiche dell'ordine sociale: quello di
essere cieco e naturale e quello di essere autocontraddittorio e autonegantesi. Per un verso
l'ordine politico non costituisce un problema a s, un riflesso `ideologico' dell'ordine sociale,
per un altro verso esso ha una sua specificit: in particolare c' una specificit dello Stato. Per
Marx ed Engels la forma pi elementare in cui si differenzia e organizza la societ quella
della divisione tra il lavoro manuale e quello intellettuale; non una divisione puramente
tecnica, ma del pi grande impatto ed effetto sociale, in quanto diventa in realt la divisione tra
chi pensa, dirige, coordina, interpreta la nostra vita associata, insomma il ceto dirigente e
intellettuale, e i lavoratori manuali, che sono quelli che non solo lavorano manualmente, ma
eseguono le direttive di chi comanda e coordina.
La divisione tra lavoro manuale ed intellettuale per Marx ed Engels la fonte: a)
dell'ideologia, b) della genesi dello Stato.
Ideologia in Marx ha un significato preciso, vuol dire la falsa coscienza che una societ ha
di se stessa, mentre nell'uso corrente intendiamo per ideologia la dottrina che corrisponde agli
interessi e al potere di un certo gruppo sociale o politico, cio le dottrine in quanto riferite alla
loro origine sociale o sociopolitica. Lo Stato nasce dal fatto che in societ a lavoro diviso, che
per produrre ricchezza non possono altro che dividersi in maniera sempre pi articolata il
lavoro, esiste il bisogno di ricomposizione delle divisioni, quella che Marx ed Engels
nell'Ideologia tedesca, chiamano bisogno di cooperazione in termini generalissimi.
(L'Ideologia tedesca un testo scritto da Marx ed Engels nel 1845-46, ma non pubblicato fino
al 1928.)
Col bisogno di ricomporre le loro attivit divise si profila di fronte agli uomini ci che
viene chiamato un interesse generale, per cui la necessit di un'istituzione, di un'autorit che lo
rappresenti. Lo Stato e non rappresentante e tutore dell'interesse generale: lo Stato per
Marx ed Engels quell'ente, quell'istituzione che di volta in volta la classe dominante ha
costruito e imposto ai dominati, qualcosa che insieme risposta all'esigenza generale di
ricomposizione e soddisfazione dei suoi propri interessi particolari di classe dominante.
Lo Stato la macchina organizzativa e repressiva della societ divisa in classi che si
appropria dell'esigenza generale di una ricomposizione, di un coordinamento della societ e lo
afferma nella versione di volta in volta pertinente agli interessi particolari della classe
dominante. Lo sottolineo, pur non potendo qui citare i testi, per far piazza pulita delle
definizioni volgarmarxiste dello Stato come una macchina nata esclusivamente a fini repressivi,
oppure dello Stato come imposto in base all'invenzione o alla finzione di un interesse generale.
Queste sono spiegazioni volgarmarxiste perch fanno dello Stato o dell'ordine politico una
specie di esito propagandistico inventato dai dominanti. Marx non era n rozzo n elementare, e
ci ha dato una spiegazione pi complessa della nascita e dell'affermarsi dello Stato, giocata
43
Furio Cerutti
Nel 18 Brumaio e ne La guerra civile in Francia, scritto a proposito della Comune di Parigi del 1871.
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Furio Cerutti
regole, salvo quei pochi illuministi che lo vedevano in maniera utopica, per esempio Charles
Fourier). Per un altro verso Marx toglie da questa sua prospettiva uno dei presupposti necessari
per pensare un ordine politico, ed la presupposta scarsit dei beni: un ordine politico si rende
necessario quando ci sia un conflitto distributivo al quale dare regole. Se non c' questo, se c'
l'assoluta pienezza e l'assoluta possibilit di attingere quasi indefinitamente a questa ricchezza
da parte degli individui, facile capire come nella societ comunista l'ordine politico si renda
superfluo.
* * *
Questo capitolo riguardante i modelli di ordine politico non pu chiudersi senza che venga
tematicamente chiarito quel concetto di conflitto che abbiamo visto continuamente interagire
con quello di ordine, e che nel linguaggio scientifico ha ormai sostituito quello di lotta usato
ancora da Marx edda Max Weber.
Per conflitto si intende quella relazione sociale in cui si agisce con il consapevole proposito
di affermare le proprie scelte contro la resistenza di altri; i mezzi
possono essere pacifici o no, ci che esclude la frequente equazione colloquiale conflitto =
scontro violento, guerra, questo essendo solo uno dei tipi possibili di conflitto. Questa
definizione molto simile a quella che di lotta d Weber nella Parte I, cap. I, 8 di Wirtschaft
und Gesellschaft; per la tipologia del conflitto che segue mi appoggio invece agli scritti del
maggior sociologo contemporaneo italiano, Alessandro Pizzorno.
1.
Il conflitto d'interessi quello che si accende intorno a risorse contese perch scarse
( ci che in Weber viene denominato `concorrenza'). Tali risorse possono essere
sostantive (ricchezza, territorio, impieghi) o relazionali (alcuni dicono posizionali:
potere, prestigio). Nel conflitto d'interessi possibile comportarsi da free rider (colui
che partecipa ad un'impresa collettiva, ma cerca di goderne i vantaggi senza
condividerne i costi), per il gruppo cerca di rendere difficile tale comportamento
tramite sanzioni.
2.
Il conflitto di riconoscimento riguarda la nostra identit, che spesso non preesiste,
ma si forma veramente solo nella lotta, e - diversamente dagli interessi - non
negoziabile. un conflitto non condotto strategicamente, cio scegliendo razionalmente
i mezzi, ma che fa piuttosto appello a risorse di carattere morale, emotivo, religioso o
filosofico. Per la sua natura stessa questo conflitto, che viene detto brachilogicamente
conflitto didentit, non ammette il free rider. La sua dinamica per s'intreccia con il
tipo 1: esso spiega come si costituisca una certa categoria (nazioni, gruppi etnici o
movimenti come quello femminista od omosessuale) degli attori che partecipano al
conflitto d'interessi.
3.
45
Furio Cerutti
pu cominciare dicendo che ogni politica, ogni associazione politica ricerca, per la sua stessa
definizione, una qualche forma di ordine, cio di rapporto regolare e regolato fra gli attori
politici. Altri (Kant, Sternberger, per rimanere agli autori gi citati) arrivato a dire che il
compito della politica la pace. In termini negativi l'idea del caos per definizione antipolitica,
il politico contenendo come suo telos interno sempre un'idea di ordine, e in questo senso
l'ordine non pu essere posposto al conflitto, perch una conflittualit permanente e priva di
punti di appoggio, di coagulo, di assestamento, priva di un minimo grado di ordine,
politicamente impensabile o la negazione della politica, qualcosa in cui la distribuzione
(asimmetrica) dei beni e la loro stessa produzione sono impossibili. C' per un altro senso in
cui ordine e conflitto sono contrapposti, ed quello che riguarda il modo in cui si arriva alla
politica come ordine, a quella politica che contiene sempre un'idea di ordine. Che cosa
prevalente nella vita politica degli uomini, l'ordine in quanto autoconservantesi o il conflitto
attraverso il quale si arriva di volta in volta ad un ordine che contiene in s la possibilit del
cambiamento? Non si tratta neppure di una contrapposizione diametrale, ma di uno
spostamento di accenti; in ogni caso il punto che la consistenza e stabilit delle istituzioni
politiche pu essere secondo alcuni attinta attraverso quel tipo di ordine che neutralizza i
conflitti, li rende o superflui o marginali. Oppure essa pu essere pensata come qualcosa che
ordine, e quindi ha chances di essere sostenuta e riprodotta, solo in quanto attraversata dal
conflitto, in quanto di volta in volta risposta a nuovi e diversi tipi di conflitto.
Detto in termini sociologici, anzich di filosofia politica, nelle societ prevale l'integrazione
o prevale il conflitto (un hegeliano direbbe la dialettica)? Una cosa dire che di fatto le societ
funzionano prevalentemente attraverso l'integrazione pi o meno completa dei loro membri e
delle forze che li agitano, una cosa invece dire che funzionano meglio quelle societ che si
appoggiano prevalentemente sul conflitto. Questa , per `bobbieggiare' un po', una della grandi
dicotomie del pensiero sociologico, ovvero della filosofia della societ, che in termini di storia
del pensiero pu riassumersi cos:
a. Chi ha considerato prevalente l'ordine ovvero l'integrazione (Comte, Spencer, Durkheim,
Pareto e lo struttural-funzionalismo di Talcott Parsons) ha ritenuto che lo stato normale del
sistema sociale sia quello dell'equilibrio stabile, con legami di funzionalit fra le sue parti ed i
suoi attori (centrale a questo riguardo il concetto di ruolo sociale) ed una prevalenza del
consenso; mentre il conflitto rappresenta un disturbo od una patologia del sistema, avente cause
esterne.
b. Chi ha sostenuto la prevalenza del conflitto (Marx, che per dopo la rivoluzione ne
ipotizza la scomparsa, Stuart Mill, Sorel, Simmel e nella sociologia il suo seguace Lewis Coser,
infine Dahrendorf) lo ha fatto per spiegare in questo modo il mutamento storico e la capacit
d'innovazione delle societ. Nelle teorie che sostengono il conflitto come premessa di un ordine
aventi tale caratteristiche (soprattutto nelle societ democraticamente governate), il conflitto
non viene soppresso come nelle vedute totalitarie, bens avviato a soluzione grazie alla sua
regolamentazione, che pu fra l'altro assumere le forme della proceduralizzazione (=indicare
regole da seguire quando sorge un conflitto) o della ritualizzazione (termine proveniente
dall'etologia); in ogni caso decisivo ci che fa il potere come capacit di allocazione
autoritativa. Qui l'interesse si sposta sulla questione: come organizzare questo potere?
46
Furio Cerutti
Da questo punto di vista si pu dire che la modernit politica sia consistita nell'inventare
forme di riduzione e soluzione del conflitto: lo Stato moderno, assolutista o no, ha stabilito che
i conflitti li dirime un'autorit centrale producendo leggi, e ha creato con la sovranit le
premesse, anche verso l'esterno, per una parziale regolazione del conflitto (diritto
internazionale, bellum iustum, cfr. cap. 16) fra gli Stati. Con il costituzionalismo ed il
liberalismo si poi stabilito che nessun conflitto pu ledere o distruggere i diritti fondamentali
degli individui stabiliti per legge, mentre con la democrazia si convenuto che nella soluzione
del singolo conflitto tramite la regola di maggioranza (cfr. cap. 14) si riconoscono tutti, la
maggioranza che vince e la minoranza che perde.
Furio Cerutti
coerente giustificazione etica. Per dirla con il politologo Fritz Scharpf, oltre allinput legitimacy
delle fonti condivise occorre che un regime funzioni producendo output legitimacy.
Quelle quattro condizioni - il numero pu essere variato, ma senza rinunciare al concetto sono, in ordine gerarchico:
1. la sicurezza politica, nel senso hobbesiano della formula the end of obedience is
protection.
2. il benessere, inteso in senso sia assoluto (un minimo che ponga tutti in condizioni non
ferine) sia relativo, comparato cio con le possibilit di produrre ricchezza attribuibili al sistema
produttivo in un certo suo grado di sviluppo; inoltre tale benessere non devessere distribuito in
modo insopportabilmente diseguale. Esso viene logicamente dopo la sicurezza, e non pu
sostituirla, essendo questa la sua condizione desistenza.
3. la legalit, nel senso della conformit di un regime politico alle leggi, o `naturali' o divine
o (e soprattutto) positive che, in una certa civilt, vengono sentite come giuste, e almeno tali da
permettere una convivenza civile e prosperosa, stabilizzando inoltre comportamenti ed attese.
La quarta condizione non invece qualcosa che le istituzioni possano produrre in quanto
bene politico o politico-sociale come le prime tre, trattandosi piuttosto di una metacondizione:
l'identit per un verso preesiste alle istituzioni politiche, per altri versi ne viene definita e
riprodotta. Salvo situazioni di transizione o statu nascenti, nessuna associazione istituzionale in particolare, nessuno Stato - pu pretendere legittimit se non pu fare assegnamento
sull'identit del corpo politico cui si riferisce. Se, insomma, non vi un soggetto per il cui
universo simbolico e normativo appaia dotato di senso lo stare dentro ad un ordine istituzionale
che chiede di riconoscere la sua autorit, mobilitando una o pi di quelle fonti e producendo in
varie proporzioni quelle condizioni.
Nell'identit politica, una sottospecie dell'identit di gruppo, noi individuiamo quegli
elementi del nostro convivere che, condivisi con altri, ci permettono di dire `noi'. Non si tratta
dell'identit (insieme di tratti distintivi) riconosciuta da un osservatore esterno, bens di quella
che viene percepita (e costruita) come tale dai soggetti stessi: un'identit riflessiva. Essa non
consiste in primis, come molti (da ultimo Samuel Huntington, autore del fortunato The Clash
of Civilizations) spicciativamente ritengono, in ci che ci divide da altri o ad essi ci
contrappone, bens in ci che noi riconosciamo esser nostro in quanto d un senso al passato e
al futuro della nostra vita associata (identit-specchio). L'identit certo sempre anche
principium individuationis, ci che ci fa essere Noi e non questo e quell'Altro, altrimenti si
tratterebbe di un'identit diffusa (un'eccezione del tutto sui generis pu vedersi solo nella
germinante identit del genere umano ormai posto sotto le minacce globali, cfr. cap. 18).
insomma anche identit-muro, ma diverso se prevale il muro portante o il muro di recinzione:
fuor di metafora, vi sono identit aperte all'incontro e allo scambio con gli altri, altre che ne
rifuggono o addirittura consistono solo - e patologicamente - dell'essere il contrario degli altri
(si vedano le recentemente risorte identit etno-nazionalistiche). Un ultimo aspetto da
menzionare che l'identit politica, soprattutto nelle societ ad ordinamento liberaldemocratico, non solo il portato dello sviluppo storico del gruppo, ma contiene altres un
elemento normativo: l'indicazione, codificata nelle Costituzioni, di ci che come
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Chi sull'identit politica voglia sapere di pi veda: F.Cerutti, a cura di, Identit e politica, Laterza,
Roma-Bari 1996)
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da
impiegare, quando occorre, strumentalmente. La presa di distanza
dalla presunta onnipresenza postmoderna del mito e dalla
qui, ma che alla politica (certo non solo ad essa) connaturata, lungi dall'essere un optional
21
H. Lasswell, World Politics and Personal Insecurity, New York 1935, e M. Edelman, The Symbolic
Uses of Politics, Champaign 1976.
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italiano secondo la legge vigente che era lo Statuto albertino; ma non c' dubbio che per il modo
in cui questo incarico venne preparato, cio l'atto insurrezionale della marcia su Roma, e per le
vie che il governo fascista poi percorse, si trattava e si tratt sempre pi di un potere non
legittimo, in quanto distrusse lo stesso tessuto democratico (anche se non troppo) e
costituzionale dell'Italia liberale. Ancor pi eclatante fu il cancellierato di Adolf Hitler, che il 31
gennaio 1933 gli fu conferito da chi aveva il potere di darglielo, cio dal Presidente del Reich, il
maresciallo von Hindenburg, e fu poi confermato dal Reichstag e dalle elezioni del marzo del
1933. Cosa c'era di pi legale del potere del cancelliere Hitler? Ed sempre per via di leggi
debitamente approvate che egli si trasform poi da cancelliere in Fhrer, cio nel capo di un
regime, e poi (per qualche anno) di un impero continentale, che oppresse e stermin decine di
milioni di uomini.
Questo secolo insomma ci ha insegnato che la legalit di un regime non garantisce il
rispetto delle minime regole di convivenza in base alle quali gli individui lo vivono come
legittimo od esecrabile. Gli episodi cui si accennato si possono peraltro iscrivere in un'antica
diatriba, che quella se il potere, una volta conferito legalmente, autorizzi chi lo detiene a farne
un uso che sia contrario non alle leggi vigenti, al diritto positivo vigente, bens ai fondamenti
giuridici, politici, morali e culturali di una certa comunit. Gli antichi usavano porre questo
tema nell'ambito pi generale del dilemma: meglio il governo degli uomini o il governo delle
leggi?.
La soluzione proposta dai maggiori autori dell'antichit - dall'isonomia (eguaglianza dinanzi
alla legge) dei Greci a Cicerone - quella della superiorit del governo delle leggi, a cui gli
uomini sono sottoposti. La formula canonica di questa superiorit lex facit regem, per un
verso, e per un altro verso che il principe non al di sopra delle leggi, cio non legibus
solutus. Contro la superiorit del governo delle leggi sul governo degli uomini si levata la
voce di chi dice che se gli uomini non sono giusti, buoni e non vogliono il bene comune, non
c' legge che tenga, qualsiasi legge pu essere evasa, distorta, cosicch l'elemento definitivo la
qualit degli uomini che governano. Questa un'antica tradizione che arriva fino a oggi; in
qualche misura le contemporanee teorie delle lite potrebbero essere considerate una versione
modernissima di questo antico problema. Esse ci dicono che un governo non buono quando
non funziona bene, e non sono le leggi che contano, ma la qualit della formazione e selezione
dei governanti, in quanto classe decisamente ristretta o di cui sono decisivi i criteri di
riproduzione. Contro la teoria del sovrano che non mai legibus solutus si leva tutta la teoria
della sovranit propria dell'assolutismo, di cui la giustificazione pi grandiosa pare ancora oggi
quella data da T. Hobbes.
Un altro aspetto della problematica di legge e potere, e pi specificamente della soluzione
che indica la superiorit delle leggi rispetto agli uomini, e quindi considera il governo in primis
come governo delle leggi, la determinazione del tipo di legge a cui le leggi particolari devono
conformarsi, perch siano leggi sotto il cui governo si possa vivere in comunit. Questo
riguarda sia la legge nella sua struttura, sia la legge nella sua applicazione o esecuzione. Nella
sua struttura la concezione della legge come quella che supremamente capace di governare gli
uomini l'idea della legge come disposizione astratta e generale che riguarda indifferentemente
tutti coloro che appartengono al corpo politico, alla comunit.
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Furio Cerutti
A questa legge che riguarda tutti e che formulata in modo astratto non si pu derogare
altro che per giustificazioni che vengono esposte nella stessa legge derogatoria, e per motivi che
rientrano in quelli fondativi della stessa legge generale. Si pu derogare solo per rendere pi
efficace e pi universale la legge generale.
Questa una problematica giuridico-politica, ma anche filosofica; la si ritrova fra l'altro in
Rawls, allorch egli si chiede quale tipo di diseguaglianza sia ammissibile in base ad una teoria
della giustizia che ha come canone fra i pi importanti quello dell'uguaglianza. Un esempio pi
comune: tutti i cittadini hanno diritto ad uno sgravio fiscale in base a quanti sono i membri
della famiglia; legge di cui si lederebbe la legittimit se vi si derogasse con una legge che
dicesse ad esempio che tutti i cittadini che hanno il naso aquilino hanno uno sgravio del 10% e
tutti i cittadini che hanno il naso camuso hanno uno sgravio del 5%. Questa sarebbe una legge
discriminatoria. Tanto meno si possono fare leggi di carattere concretistico e cio non astratto,
che dicano ad esempio che tutte le persone che hanno la pelle bianca e il naso aquilino e il cui
nome comincia per F e il cognome per N hanno diritto a maggiori sgravi fiscali, perch questo
vorrebbe dire che attraverso una forma pseudouniversalistica, pseudogenerale noi vogliamo
favorire il signor Ferdinando Neri, che non solo di pelle bianca, ma ha anche il naso aquilino.
Per si pu fare una legge in cui si dice che tutti i cittadini di questa o quella provincia
alluvionata che hanno subito danni per l'alluvione hanno diritto a sgravi fiscali di tot fino alla
data tale. Questa legge non discriminatoria perch soddisfa le finalit di eguaglianza e
perequazione cui aspira la legge astratta e generale che dice che tutti i cittadini devono pagare le
tasse e prima di pagarle hanno diritto ad uno sgravio fiscale di tot rispetto a questi criteri
generali e astratti. Se non facessimo la legge che riguarda i cittadini alluvionati
commetteremmo un'ingiustizia e creeremmo una disuguaglianza a loro carico.
L'altro aspetto che la legge va applicata secondo giustizia e non secondo equit o, detto in
altri termini, va applicata secondo giustizia formale e non giustizia materiale. Decisive non
sono ancora una volta le sole norme primarie, quelle che dicono che chi non paga le tasse
soggetto prima ad un'ammenda, poi ad una multa, poi ad una pena carceraria, ma lo anche il
modo in cui si dice come individuare chi non paga le tasse, come intimargli di pagarle, come
perseguirlo se non le ha pagate, rispettando eventualmente situazioni particolari. Anche questo
deve essere dettato da norme astratte che si chiamano norme secondarie o procedurali. Qui sta il
carattere indispensabile ed egualitario del formalismo giuridico.
La giustizia materiale invece quella che procede secondo criteri (intuitivi e `situazionali')
di equit (da non confondersi con l'equit come fairness delle teorie della giustizia). Essa nasce
in sistemi giuridici sottosviluppati o in realt antigiuridiche: in una banda di ladri sar il
capobandito a fare le parti, non ci saranno norme, codici impersonali di distribuzione. In
formazioni rivoluzionarie sono i capi che all'inizio, prima che si formi un sistema giuridico,
esercitano la giustizia. Non dunque un'alternativa complessiva, ma nasce come risposta ai
difetti e alle insoddisfazioni che ci provoca il formalismo giuridico. L'esempio famoso quello
del Re Salomone, ripreso modernamente da B. Brecht nel dramma Il cerchio di gesso del
Caucaso nella figura del popolare e avvinazzato giudice Azdak. La diatriba nasce fra la madre
ricca che aveva abbandonato il bambino, e che per secondo la legge normale aveva diritto a
riaverlo, e la nutrice che lo aveva cresciuto, aveva creato legami affettivi, ma in base alla legge
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Furio Cerutti
avrebbe dovuto renderlo su richiesta alla madre. Il giudice fa la prova della spada (met
bambino a ciascuna) e la nutrice,che ha il legame affettivo autentico, rinuncia, cosicch si
capisce chi merita di essere madre di questo bambino, che viene dato alla nutrice. Da secoli in
Europa la giustizia formale; il processo di trapasso dalla giustizia materiale, che spesso
correlato con le forme tradizionalistiche di potere, alla giustizia formale, che correla pienamente
con il governo burocratico, legale, o razionale, per usare termini weberiani, stato un processo
enorme. Chi legge Economia e societ di Max Weber vede la grande importanza storica, ma
anche teorica, che Weber d al processo di passaggio da quella che lui chiama la giustizia del
Kad, il giudice di quartiere o di citt musulmano, alla giustizia formale (caso limite ideale) di
quello che lui chiama il Paragraphenautomat, una macchina in cui si infila la causa e da cui si
pu raccogliere poi la sentenza. Oggi che si ampiamente informatizzata la giustizia, rimane il
problema dell'interpretazione, dell'ermeneutica della legge, che non ha ancora trovato una
soluzione tecnica o meccanica, n forse mai la trover.
Non insisto sulla distinzione tra legalit e legittimit, ma voglio far notare che non tutte le
forme e i nomi della legalit, cio della conformit di un regime politico a leggi, sono la stessa
cosa: nel mondo anglosassone c' il concetto della rule of law, che tra noi viene tradotto con
Stato di diritto. Non abbiamo altra traduzione idiomatica e possiamo accettare di adoperare
questa, ma non possiamo dimenticare che, diversamente dalla tradizione concettuale dello
`Stato di diritto', la rule of law della tradizione britannica, ed ancor pi nella tradizione
americana, non indica la semplice conformit alle leggi ed alle procedure in quanto
positivamente date, ma in quanto in esse sono racchiusi e si perpetuano certi valori predicati dal
giusnaturalismo, ovvero riconosciuti nel patto costituzionale: i valori fondamentali della libert
e della dignit dell'uomo.
Lo Stato di diritto, che altro non che la traduzione dell'espressione tedesca Rechtsstaat,
un concetto che dal positivismo giuridico stato in molti casi piegato fino a trovare nella pura
effettivit e positivit del diritto statuale, quale che sia, un sufficiente motivo di legittimazione
di questo diritto e dello Stato o del regime politico su di esso costituito. Molto diversamente
dalla rule of law, una parte della tradizione che si richiama al concetto di Stato di diritto di
tradizione fortemente positivistica e le basta la conformit di un regime, cio dei suoi
ordinamenti supremi alle leggi positive per dichiarare la presenza di uno Stato di diritto e la
intangibilit di esso. Per esempio il concetto di Stato di diritto, di Rechtsstaat stato assai
vigorosamente e polemicamente usato dai teorici conservatori dello Stato liberale contro la
trasformazione sociale e democratica dello Stato stesso - soprattutto nella dottrina politicogiuridica tedesca degli anni Venti, durante la repubblica di Weimar, ed anche negli anni
Cinquanta e Sessanta nella repubblica di Bonn (per la verit questo avvenuto, nei primi anni
Trenta, anche nella giurisprudenza della U.S. Supreme Court). Lo Stato di diritto stato
invocato come barriera proibitiva verso la legislazione solidaristica, perch sociale in questa
accezione vuol dire sostanzialmente solidaristica, cio che lo Stato prende, se non direttamente
ai ricchi, ma comunque pescando dal gran calderone fiscale per trattare un po' meglio sul piano
delle esigenze sociali (salute, istruzione, vecchiaia) coloro che sono maltrattati dalle `libere'
leggi di mercato.
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Furio Cerutti
Furio Cerutti
inganno, manipolazione e violenza (non so se per sua natura non pu, ma di fatto finora stato
cos), noi incliniamo a credere che il potere politico sia una cosa pi complessa ed anche pi
sottile che non un potere consistente in mera forza e/o manipolazione. Inoltre l'obbligo politico
implica anche e sempre la questione della libert politica, pur senza essere questa una coppia
opposizionale, ci che sarebbe un abbaglio. Infine, insieme ad altre, l'obbligo politico si pu
considerare una delle fonti, delle condizioni soggettive per il formarsi dell'ordine politico.
Dell'obbligo politico bisogna dire che politico, quindi non morale e non giuridico,
sebbene a questi possa venir in vario modo raccordato. diverso ed anche pi vasto rispetto
all'obbligo giuridico, perch quest'ultimo contempla sempre la possibilit della sanzione
coercitiva: io devo fare questo perch se non lo faccio mi danno l'ammenda, la multa, mi
infliggono la prigione, mentre nell'obbligo politico l'adesione a ci per cui ci si sente obbligati
anche e sempre una questione di scelta. Appunto non esiste un obbligo politico che sia solo
coercizione: chi osserva l'obbligo politico si sente anche sempre obbligato. Qui "si sente"
segnala che c' una compartecipazione soggettiva, e che si tratta di un ordine interiorizzato.
Anche se per tutto il resto la cosa pu non andarci affatto a genio, per troviamo sempre dentro
di noi qualche ragione per soddisfare a quest'obbligo. Viceversa l'obbligo politico ha una
estensione minore dell'obbligo morale, perch riguarda il comportamento, non le ragioni e non
le convinzioni libere e dirette di chi agisce. rilevante sapere che la gente osserva queste e
quest altre leggi in queste e queste altre condizioni in questi e questi tempi: se vedo questo e
capisco perch questo avviene, posso parlare di obbligo politico. Mentre se io vedo che uno si
comporta conformemente alla legge morale, io non posso mai essere sicuro che lo faccia per
ragioni morali, perch ne ha l'obbligo morale, giacch di fatto lo pu fare per mera convenienza
o per bizzarria, o per gusto estetico o perch altrimenti teme chiss quali sanzioni. L'obbligo
morale non questione di comportamento. E c' di pi.
L'obbligo politico relativamente stabile, cio una volta che un regime politico ne abbia
costruite le condizioni - finch non le distrugge o esso stesso, o perch viene meno o perch le
cose si sviluppano in maniera nuova ed il regime non pi in grado di farvi fronte l'osservanza dell'obbligo politico assicurata. Noi non ci chiediamo ogni giorno perch
dobbiamo obbedire alle leggi, se dobbiamo e in che modo: ogni tanto facciamo delle riflessioni,
il giorno delle elezioni ci chiediamo chi creer le condizioni migliori per cambiare le leggi o per
farci obbedire meglio ad esse, ma di solito non ci chiediamo se vogliamo rifiutare ogni `obbligo
politico' e diventare anarchici, antisociali o terroristi o quant'altro. Tanto meno ce lo chiediamo
quotidianamente. L'obbligo morale diverso, non ha questa relativa staticit o questa
ripetitivit dell'obbligo politico, ed ogni volta, di fronte ad ogni singola situazione, noi ci
chiediamo o almeno siamo tenuti e abilitati a chiederci come dobbiamo agire. L'obbligo politico
non riguarda le convinzioni intime, le condizioni libere, l'intenzione retta, come indicavano gli
scolastici, ma investe solo il comportamento esterno. Lo dimostra il fatto che ci pu essere
soddisfazione dell'obbligo politico anche in una situazione in cui abbia qualche parte quella
categoria tradizionale, ma mai del tutto abbandonata dalla politica, che la menzogna, mentre
non possibile pensare che ci sia una morale in cui la menzogna alberga o accettata come una
delle possibili regole o dei fattori del gioco.
* * *
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Furio Cerutti
Dopo aver chiarito in termini definitori che cos' l'obbligo politico e fatto cenno, anche con
il rinvio al tema della legittimit, alla tematica della sua giustificazione, vorrei adesso illustrare
con un esempio eminente l'altro problema ad esso connesso, quello della sua attuazione e
gestione: ammesso che l'obbligo verso un determinato regime o istituzione possa venir
inizialmente fondato, per capire perch esso venga adempiuto nella vita quotidiana e
continuativa del regime o dell'istituzione necessario individuare le regole (esplicite e
codificate o meno che siano) in base alle quali l'obbligo, che i cittadini si assumono, di ubbidire
alle leggi si concili, o meglio si ingrani con i loro diversi e mutevoli motivi ed interessi. Pur
nella diversit da quello morale, anche l'obbligo politico sottoposto a tensioni e deve in
momenti critici potersi rigiustificare: allora le regole, il modo in cui esso viene gestito non sono
estranei alla sua stessa sussistenza.
Il regime di cui ora parler la democrazia e l'esempio quello della regola di
maggioranza.
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Prima bisogna sgombrare il terreno da equivoci e false credenze; una falsa credenza
potrebbe essere che la regola di maggioranza identica alla democrazia o le coestensiva (dove
c' democrazia c' regola di maggioranza e viceversa). vero che dove c' democrazia c'
regola di maggioranza, ma non vero l'inverso.
Il Gran Consiglio del Fascismo, come si vide la notte del 24 luglio del 1943, quando fu
approvata la mozione presentata da Dino Grandi e altri che chiedeva il ritiro del Duce e
l'armistizio, funzionava in base alla regola di maggioranza. Eppure niente vi era di pi lontano
dalla democrazia del regime fascista e del suo Gran Consiglio. Inoltre in un'assemblea di
condominio si vota a maggioranza, ma nulla pi lontano dalla democrazia di un assemblea di
condominio perch, non solo per ragioni culturali, vi manca l'uguaglianza, un carattere
essenziale della democrazia in cui vige `one man one vote', mentre invece nelle assemblee di
condominio si vota in base ai millesimi, cio il caseggiato viene diviso in millesimi ed ognuno
ha tanto potere elettorale quanti millesimi egli detiene in quanto proprietario.
La regola di maggioranza ha dunque un'estensione diversa e pi larga della democrazia,
tanto vero che si adotta in consessi tutt'altro che democratici o perch sono a-democratici, tipo
l'assemblea di condominio, o perch sono anti-democratici. Peraltro la stessa affermazione
dovunque c' democrazia c' regola di maggioranza vera e non vera, a seconda dei livelli
di discorso: vera nel senso della nostra convinzione basilare che un'assemblea politica
democratica, o costituente o legislativa, cos come un corpo elettorale sovrano, se vogliono
mantenersi democratici, devono votare secondo la regola di maggioranza. Qui si assume, ai fini
della giustificazione e del funzionamento del sistema democratico, che in ogni momento ogni
Faccio stretto riferimento ad un testo di Bobbio, La regola di maggioranza: limiti ed aporie,
contenuto nel volume di Bobbio et al., (et alii non la dicitura usata nella bibliografia italiana,
la usano piuttosto gli americani e gli inglesi; ma non si vede perch non la dovremmo usare noi,
dato che latina, e soprattutto che cento volte meglio della dicitura orribile `autori
vari' (AA.VV.), che io invito a non usare mai essendo del tutto insensata, perch nessun signor
AA.VV. ha mai preso in mano una penna o battuto su di una tastiera, e tanto meno partorito
idee da mettere per iscritto), Democrazia, maggioranza e minoranze, Bologna, Il Mulino, 1981.
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Furio Cerutti
cittadino o cittadina sia eguale a tutti gli altri/altre, e che questa sia la base migliore per la
distribuzione del potere.
Ma ci sono negli Stati Uniti teorie minoritarie, formulate soprattutto da teoriche femministe,
che affermano che, per assicurare una vera e autentica giustizia, bisogna riequilibrare la societ
ed anche le istituzioni, in cui l'eguaglianza solo assunta, ma non reale. Allora bisognerebbe,
almeno per un tempo limitato, cambiare le regole del gioco, mettendo in sonno un presupposto
essenziale della regola di maggioranza, l'eguaglianza di tutti gli individui, e dando per un certo
periodo doppio voto alle donne e agli afroamericani. Si vede qui che una cosa il sapere
fondativo o manualistico, il quale ci dice che la regola di maggioranza sempre la regola dei
processi elettorali delle assemblee democratiche; una cosa fare un'indagine a livello pi critico
e dinamico, in cui bisogna renderci conto che le cose non sono mai definitivamente formulate,
almeno concettualmente, e che possono presentarsi mutamenti anche di quelle che
consideravamo le pi solide costanti (in re) e le pi diffuse convinzioni soggettive.
Non vero inoltre che in una democrazia ci debba essere un estendersi continuo ed
illimitato della regola di maggioranza: questo io lo ritengo uno sciagurato abbaglio concettuale
ed anche politico. Io ritengo che molte democrazie contemporanee, certamente quella italiana,
si siano fatte molto danno estendendo la regola di maggioranza dalle assemblee propriamente
politiche ad ambiti deliberativi di tipo esecutivo-gestionale, oppure legati a saperi specialistici,
dove la regola di maggioranza non c'entra niente, e soprattutto non si deve nominare invano la
democrazia, perch si tratta al pi di collegialit. Ritengo che, una volta presa la decisione
politica d'indirizzo, la sua esecuzione (e soprattutto le sue conseguenze) debba essere sottoposta
ai maggiori controlli democratici, ma debba avvenire non in base ai criteri della
rappresentativit partitica degli esecutori, ma in base ai criteri dell'efficienza; per efficienza
intendendosi che il pubblico dei cittadini titolari di interessi legittimi abbia anzitutto diritto
all'esecuzione rapida, professionale e non inutilmente costosa di quanto stato deliberato, si
tratti di una nuova regola del processo penale o di una nuova legge sull'Universit. Questa la
prima ragione per cui non vero che la regola di maggioranza e la democrazia siano
coestensive.
La seconda ragione deriva da un cambiamento abbastanza recente del sistema politico e
sociale, che pi che escludere mette da parte, quasi rende superflua la regola di maggioranza.
Cominciamo osservando che nella formazione delle deliberazioni con cui si allocano risorse
esistono in realt due procedure fondamentali: una quella della legge, che configura tutti i
rapporti politici come rapporti di diritto pubblico, in cui il legislatore e il suo prodotto, la legge,
hanno una posizione super partes. La legge viene formata attraverso la regola di maggioranza,
il che presuppone che vi sia chi in una deliberazione e nel suo effetto legislativo perde e chi
guadagna: una minoranza che perde, una maggioranza che guadagna. Ma ovviamente alla legge
tutti, maggioranza e minoranza, si piegano. L'obbligo politico viene qui gestito attraverso una
procedura giuspubblicistica; essa ricavata dal modello di tipo inglese, detto quindi
`westminsteriano', di democrazia, e rinvia pi di ogni altro a due presupposti della democrazia
liberale: i limiti del potere e l'effettivo alternarsi dei partiti al governo. In realt sappiamo gi da
tempo che esiste una seconda procedura, teoricamente concorrenziale, ma in realt
concomitante con la prima, di tipo pattizio o contrattuale, in cui non c' una lex super partes,
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Furio Cerutti
bens un pactum inter partes, cio una figura di diritto privato in cui dal compromesso tutti
guadagnano qualcosa e nessuno ha soltanto perdite da sopportare. Dal punto di vista della teoria
dei giuochi banalizzata, la procedura giuspubblicistica un gioco a somma zero (in una
operazione algebrica uno guadagna dieci, l'altro perde dieci e la somma del gioco zero). La
procedura giusprivatistica, compromissoria o pattizia, un gioco a somma positiva, in cui
ognuno guadagna qualcosa e quindi la somma algebrica complessiva superiore a zero. Questa
seconda procedura, che ha portato modelli privatistici nel campo eminentemente (almeno una
volta) pubblico della politica ha preso largo campo, non soppiantando la regolazione via leggi,
via maggioranza-minoranza, ma erodendo lo spazio riservato a questi processi. Negli Stati del
benessere contemporanei si assiste cos ad un processo sociale e politico risoltosi in ci che gli
studiosi chiamano neocorporatismo: un tipo di gestione dei conflitti sociali e politici in cui non
c' il pubblico, la legge, il parlamento, il governo che sta fuori dal gioco e lascia che sindacati e
patronato si mettano d'accordo o si scontrino quanto vogliano, a meno che non diano fuoco alle
fabbriche o a i municipi. La posizione tradizionale sarebbe quella di tenersi fuori, garantendo il
rispetto dell'ordine pubblico o al massimo intervenendo con la legge per fissare super partes le
condizioni generali in base alle quali accordarsi. La funzione del governo in situazione
neocorporatista invece quella di essere insieme mediatore, (non arbitro che dice alle altre due
parti sociali in conflitto tu perdi, tu vinci, ma uno che li mette d'accordo) e parte in causa,
perch lo Stato stesso datore di lavoro nell'enorme settore dell'impiego pubblico, e perch lo
Stato provvede con provvedimenti di tipo finanziario (sgravi fiscali, fiscalizzazione degli oneri
sociali) a distribuire sull'intera comunit i costi del compromesso fra le due grandi corporazioni
dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Questo il neocorporatismo: un gioco a tre in cui il potere pubblico non riveste pi una
funzione super partes tradizionale, ma esso stesso parte in gioco e mediatore, anche disposto
a pagare in parte i costi della mediazione. Una parentesi problematica: questo tipo di regime,
ovvero di costituzione materiale a cui ci siamo abituati dal dopoguerra, in parte eroso dalla
crisi fiscale dello Stato del benessere, dal dislocarsi del conflitto sociale dallo scenario
tradizionale (fra classe operaia o lavoratori dipendenti e padronato o datori di lavoro) a quello
sempre pi definito da un largo settore della societ che non entra neppure nel gioco
neocorporatista: i disoccupati, i poveri, gli immigrati, gli emarginati, quelli che sono in
posizione debole sul mercato del lavoro o che ne sono stati espulsi. Uno dei problemi attuali,
oltre quelli di crisi fiscale, che rende dall'esterno non pi resistentissimo il neocorporatismo
come costituzione materiale, ci che stato figurativamente chiamato il costituirsi della
societ dei due terzi. Alla societ bipolare di capitalisti e operai, lavoratori dipendenti e
possessori dei mezzi di produzione, come forma centrale dello scontro sociale, si sostituita la
societ divisa s in due, ma non pi fra il 50% e l'altro 50%, o meglio fra il 70% e il 20%. Nel
66% della societ dei due terzi ci stanno i lavoratori dipendenti con posizione pi o meno
consolidata tanto quanto gli imprenditori piccoli e grandi, i membri della varie burocrazie
pubbliche e semi-pubbliche, e cos via. L'altro terzo della societ, fra cui i giovani senza lavoro
o con lavoro totalmente precario, completamente fuori da queste coordinate e l'esserne fuori
completamente rende socialmente, e in prospettiva politicamente, pi precaria la societ
postindustriale contemporanea. un problema di crisi e precariet della democrazia
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Furio Cerutti
Furio Cerutti
La storia dei rapporti non facili tra liberalismo e democrazia si pu leggere utilmente in un libro di
Bobbio, Liberalismo e democrazia, pubblicato da Franco Angeli.
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Furio Cerutti
15. Lo Stato
Questo tema capitale verr qui trattato in modo assai succinto per due ragioni. La prima
che,tranne la sovranit, tutte le categorie-chiave del politico, che spesso si espongono a partire
dallo Stato, sono gi state esposte sopra ad un maggiore livello d'astrazione, e baster - quando
occorra - richiamarle. La seconda ragione che per una serie di temi classici (il termine Stato;
continuit o meno fra Stati antichi e moderni; forme di Stato e forme di governo) si preferisce
rinviare alla trattazione, ormai altrettanto classica, che Bobbio ne d nel capitolo Stato, potere e
governo del suo libro Stato, governo, societ. Verr invece svolta qui ampiamente la tematica
dello Stato al plurale, che trova insufficiente trattazione ed attenzione concettuale nei testi
sistematici di filosofia politica.
Ma cominciamo con la definizione. Lo Stato (s'intenda sempre lo Stato moderno - questa ed
altre definizioni contengono molti elementi validi anche per gli Stati dell'antichit, ma valgono
pienamente solo per lo Stato moderno) quell'istituzione che detiene il monopolio della forza
legittima su di un determinato territorio e nei confronti di una determinata popolazione. Esso
non ha al di sopra di s nessun altro ente o istituzione ( dunque superiorem non recognoscens)
e quindi gode di piena sovranit, la quale ha limiti solo materiali, cio vi sono materie sulle
quali la sovranit non si esercita o per limiti naturali (limite mobile, non essendo pi
necessariamente vero che il Parlamento inglese tutto pu decidere nella sua legislazione, salvo
che un uomo divenga donna) oppure limiti imposti alla sovranit dall'ordinamento stesso, limiti
che lo Stato si impone da solo (per es. il Parlamento, inglese od altro, potrebbe domani decidere
una legge costituzionale che neghi a se stesso il potere di deliberare interventi biogenetici).
Insieme ai limiti interni allo Stato vi sono i limiti imposti dall'essere la sua sovranit relativa ad
un territorio e ad una popolazione. Questo elemento sembra puramente aggiuntivo, geografico,
ed invece un elemento concettuale importante: il limite della sovranit dello Stato dato dagli
altri Stati, dal fatto che, come qualcuno ha detto, essendo la terra sferica e non un piano
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Furio Cerutti
illimitato, non vi possono essere - se si esclude una monarchia o dittatura planetaria - altro che
molti Stati, il potere dell'uno essendo sempre delimitato da quello degli altri, e dovendosi
confrontare l'uno con gli altri.
Ricordiamo altre caratteristiche proprie dello Stato all'interno. Anzitutto, gli attori della vita
statuale, secondo la teoria moderna contrattualistica, sono gli individui, mentre gli enti, i
cosiddetti corpi intermedi, e secondo alcuni anche la societ civile, sono secondari rispetto agli
individui umani. Secondo, lo Stato una unit politica relativamente stabile nel tempo e nello
spazio: dico relativamente perch gli Stati possono consensualmente dividersi, essere sottoposti
a secessione e possono essere inglobati in un altro, o disciogliersi in una federazione. Gli Stati
moderni (in verit, ci vale di tutti gli Stati che abbiano una qualche Costituzione, come Atene
e Sparta, ed una configurazione giuridica, come Roma; non vale per regimi personali, satrapieet
similia.) consistono di istituzioni impersonali e permanenti. Ogni Stato ha delle funzioni, non
tutti hanno dei fini, nel senso che possono o no darsi obiettivi indicati da una particolare
concezione politica, ideologica, religiosa o quant'altro. Le funzioni dello Stato moderno sono la
produzione, l'accertamento e l'attuazione del diritto: lo Stato funziona prevalentemente
attraverso la legge, non nel senso di essere un `robot di commi di legge' (Paragraphenautomat,
Max Weber), bens perch gli interessi, le volont, i rapporti di potere di cui esso si sostanzia
debbono sempre e comunque, per divenire atto dello Stato, potersi presentare in forma di legge
o riconducibile ad una legge.
Si suppone insomma che il diritto di volta in volta prodotto dallo Stato sia valido e
vincolante per tutti. Certo, in condizioni eccezionali esso pu essere non valido perch fondato
su autorit cui manca qualcosa, per esempio il titolo per fare la legislazione oppure perch un
attore (un gruppo sociale o nazionale o dottrinale) rivoluzionario si rifiuta di sottostare a quel
diritto della cui produzione lo Stato precipuamente si occupa. Sono casi eccezionali che non
mutano la regola, perch prima o dopo (certo, nel frattempo possono avvenire terremoti) quel
gruppo o viene riassorbito o fa davvero la rivoluzione e crea un nuovo diritto.
Torniamo al tema della sovranit, per trattarlo in modo pi diretto. Con esso si indica il
potere statuale in quanto sommo all'interno e indipendente con riguardo a quanto fuori dello
Stato. La sovranit in quanto summa potestas pensabile solo nella societ politica, perch
soltanto in essa - come sappiamo da quanto si detto sul potere politico - esiste questo
ordinamento verticale e piramidale del potere. Nella sua versione classica, si usano anche
aggettivazioni pi specifiche: essa assoluta, non sottoposta cio a leggi (almeno a leggi
positive) d'altra fonte che quelle fatte dal sovrano medesimo. una, non essendo suddivisa fra
un potere centrale, i ceti, i corpi intermedi, ma risedendo tutta nello Stato in quanto fonte unica,
al che non fa contrasto che i poteri dello Stato possano essere delegati (ma non ceduti) a questa
o quella istanza. perpetua ed inalienabile, non essendo lo Stato propriet personale del
principe, e si pu perdere - come scrisse Leibnitz - solo par la force des armes. In quanto
sovrano, lo Stato ha la plenitudo potestatis che una volta toccava solo al sacro romano
imperatore.
Detto che cos' la sovranit, ci resta da dire in che cosa si manifesta e dove risiede. Sono
due domande capitali della teoria politica classica, ma ne abbiamo gi trattato sotto altro titolo e
qui ci limiteremo a richiamare alcune cose. A riguardo della prima domanda, si usa suddividere
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Furio Cerutti
le risposte in due tipi basilari: quella data da Jean Bodin, il primo teorizzatore della sovranit
come tale (Six livres de la Rpublique, 1562) e poi pi pienamente formulata da Rousseau,
secondo i quali la sovranit consiste nel fare e disfare le leggi, e si incarna dunque
primariamente nel potere legislativo. L'altra risposta quella dei teorici della forza, che vedono
la sovranit soprattutto come monopolio della forza, risedendo essa dunque eminentemente nel
potere esecutivo. Si va da Thomas Hobbes a Carl Schmitt (sovrano colui che decide dello
stato di emergenza).
All'altra domanda si sono date tante risposte quante sono le epoche e le dottrine dello Stato
moderno. La sovranit risiede nel re dell'assolutismo, o nel `King in Parliament' della tradizione
costituzionale inglese, o nel popolo, come recita da ultimo la nostra Costituzione (art 1, comma
2), ma gi duecento anni fa enunciavano quelle degli Stati uniti d'America (We, the people of
the United States, sebbene il potere legislativo vi sia tutto deferito al Congresso) e della
Francia rivoluzionarie.
Che la sovranit risieda nel popolo o ad esso appartenga risultato del maggior
cambiamento storico in questo campo dopo la nascita dello Stato sovrano dalle ceneri
dell'universale Sacro Romano Impero e prima dell'attuale crisi della sovranit. Tale
cambiamento prese la forma di una congiunzione fra statualit e nazionalit: quest'ultima
divenne la formula politica in cui il popolo sostitu il principe come titolare della suprema
potest e legittimit. Non che le nazioni, come vogliono le dottrine nazionalistiche,
preesistessero allo Stato e reclamassero forma statuale (indipendenza, unit, potenza). C' stato
invece un nation-building parallelo o successivo allo state-building, e questo intreccio
risultato vincente perch ha fuso insieme il nuovo principio di sovranit e legittimit, il popolo
come demos, con un'entit in cui preesistenti elementi etnici e culturali (lingua, tradizioni,
talora religione) venivano fusi ed esaltati nella nuova figura della nazione, del popolo come
ethnos. stato in questo alveo che si sono potute vincere le lotte per l'indipendenza da poteri
estranei o assoluti, e per la creazione di una cittadinanza in termini di diritti civili, politici ed
infine sociali. Ancora cinquant'anni fa, molti hanno potuto intendere la Resistenza italiana
come `secondo Risorgimento'.
In questa luce, la nazione non un'entit etnica (biologica), o mitico-spirituale (una
`comunit di destini') o un organico ed ineludibile frutto di storia e tradizioni che preesista od
esista indipendentemente dallo Stato. Essa piuttosto un atto di volont comune, un plebiscito
di tutti i giorni (Ernest Renan, 1881) o una comunit immaginata (Benedict Anderson,
1983), prodotto di un'operazione, di una costruzione culturale e politica svolta dalle lites
intellettuali, che prende realt in uno Stato preesistente (Francia, Spagna) o in uno Stato in
costruzione o ricostruzione (Germania, Italia, Polonia nell'Ottocento). Storicamente, il `popolo'
cui la nazione ha voluto dar forma stato concepito privilegiando nel modello tedesco i legami
di sangue e tradizione (ius sanguinis) ed in quello francese i valori e le leggi (libert, galit,
fraternit) in cui chi sta in Francia (ius soli) o chi parla francese (nelle lites dell'Africa
francofona, per esempio) si riconosce.
L'idea di nazione ha rifondato la sovranit, trasferendola dal principe al popolo, cos
fornendo un cemento unitario di rilegittimazione agli Stati esistenti od in via di creazione. Che
in Europa gli Stati in gran parte esistessero non si doveva allo spirito nazionale, bens allo
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Furio Cerutti
sviluppo del sistema politico europeo fra Medioevo e prima modernit. Esso vide il definitivo
smembrarsi dell'unit politica universale, il Sacro Romano Impero, aggravata dallo smembrarsi
della cristianit con la Riforma protestante; fattori politico-dinastici, religiosi, economici e
geopolitici (l'essere l'Europa relativamente protetta dalle invasioni, una volta esauritasi quella
tartara) condussero alla creazione di Stati indipendenti (in quello che chiameremo pi in l il
`sistema vestfaliano'), che sopravvissero poi alla fine dell'antico regime con cui erano
concresciuti.
Tutto questo s'intender meglio una volta trattate le relazioni internazionali e le categorie
che ne derivano. Un cenno va fatto al nazionalismo, di cui la prima met di del ventesimo
secolo ha visto i trionfi e gli orrori in Europa occidentale, mentre ad altri abbiamo poi assistito
nella parte orientale del continente (ex-Jugoslavia). Per un verso esso si spiega come ideologia
compensatoria - con la fornitura di un'identit tanto forte quanto mitico-emotiva ed escludente della frammentazione sociale e psicologica creata, in societ sempre pi di massa,
dall'economia di mercato (mondiale) e dal regime industriale. Per altro verso esso ha coinciso
con, anzi ha stimolato l'implosione del sistema vestfaliano, rivelatosi nelle due guerre mondiali
ormai del tutto incapace di regolare i rapporti internazionali con un ordine pur minimo. Non a
caso queste esperienze hanno dato vita sul nostro continente alla svolta politica e culturale
verso l'unificazione europea.
Furio Cerutti
Furio Cerutti
politica, non vuol dire anarchia in senso colloquiale, o la confusione e il caos. Vi possono
essere tanti rapporti relativamente regolati tra gli Stati, ma fra questi non c' l'archia o l'archs,
cio non c' un potere, un governo comune che faccia rispettare leggi e imponga soluzioni. In
questo schema elementare dei rapporti fra gli Stati, sempre possibile il ricorso alla forza
organizzata, non alla forza tout court, ma alla forza statualmente organizzata, usata per piegare
la volont dell'altro, per fargli fare le cose che altrimenti non farebbe. Si vede qui che la guerra
un altro esempio della relazione di potere, perch, se riprendiamo la definizione relazionale
del potere, vediamo che esso ci che usando qualsivoglia strumenti, anche bellici o comunque
violenti, permette ad a di far fare a b ci che b senza quell'intervento di a non avrebbe mai
fatto. Vale qui a maggior ragione la distinzione tra costrizione e deterrenza.
Quando si parla di guerra in filosofia politica indispensabile ricorrere al filosofo della
guerra per eccellenza e cio a Carl von Clausewitz che ha scritto Vom Kriege.24. La guerra, dice
Clausewitz nel primo libro di Della guerra, un atto di violenza volto a piegare l'avversario al
soddisfacimento del nostro volere. Gi in questa definizione si dice che la violenza il mezzo
per realizzare un fine, che quello di piegare il nemico, allo scopo evidentemente di
raggiungere il nostro fine politico. La guerra e non pura violenza, ovvero non si attua
sempre e solo in quella che Clausewitz chiama la sua forma astratta di guerra assoluta. Non
essendo atto isolato nel tempo e nella vita dello Stato, la politica la attraversa mediandosi con la
natura del mezzo-violenza; la guerra effettiva dunque la continuazione della politica con
altri mezzi. Questa la celebre formula del pensiero clausewitziano, la Formule cos
battezzata da Raymond Aron nel suo monumentale Penser la guerre. Clausewitz (1976).
Quanto sia complesso il fenomeno della guerra Clausewitz lo dice in un'altra nota
formulazione: essa una `trinit' di violenza e odio (la parte del popolo), di giuoco di
probabilit e caso (la parte del condottiero e dell'armata), infine di mezzo della politica
sottoposto all'intelletto (la parte del governo).
Sono dunque le relazioni fra gli Stati compiutamente descritte da categorie quali l'anarchia e
la possibilit di guerra? Non v' in esse ordine alcuno, n in senso analitico n in senso
valutativo? La risposta non pu essere che ambivalente, avrebbe dovuto esserlo gi da tempo,
lo deve essere tanto pi ora che siamo in un'epoca nuova, l'era nucleare, che forse un'epoca di
transizione. La struttura elementare delle relazioni fra gli Stati resta l'anarchia, la mancanza di
un potere comune legittimo ed efficace, ma ad essa si sono sovrapposti, modificandola
profondamente, elementi di altro genere, dall'`addomesticamento' della guerra al crearsi di una
societ internazionale fino al ruolo presente delle istituzioni internazionali. Elementi che
dapprima seguiremo nella loro evoluzione moderna, per discuterne poi la sorte paradossale
nell'epoca contemporanea o nucleare.
Mentre la Guerra dei trent'anni aveva devastato l'Europa, soprattutto quella centrale,
coinvolgendo ampiamente le popolazioni negli scontri militari (invasioni, saccheggi, massacri e
persecuzioni religiose), dopo Vestfalia il sistema europeo tende ad assestarsi su di uno schema
regolare di azione e reazione (l'`equilibrio di potenza'), la cui conservazione interesse di tutti,
24
Clausewitz era un generale prussiano del tempo delle guerre napoleoniche, morto nel 1831, anche lui
di colera come Hegel; la vedova, Marie von Clausewitz, pubblic un anno dopo, nel 1832, questo
trattato incompiuto
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Furio Cerutti
insieme con nuove regole, fattuali o codificate, di contenimento della violenza, i temperamenta
belli. Che non vi sia pi semplice interazione fra gli Stati, ma che fra di essi si stabiliscano
alcuni, seppur ristretti, fini comuni significa che al di l del sistema si sta formando una societ
internazionale (prendo questa terminologia dal libro-chiave di Hedley Bull, The Anarchical
Society, 1977). Il contenimento della violenza quando c' la guerra ed il mantenimento della
pace finch non sono toccati gli interessi di sicurezza degli Stati, la preservazione della loro
sovranit (della tua, della sua e per reciprocit della mia) e della stessa societ (contro suoi
sovvertitori come Napoleone o Hitler), quindi il rispetto dei patti rebus sic stantibus: ecco i fini
della societ internazionale che si sono venuti formando nella storia moderna, dando corpo a
quella che Bull chiama - raffigurandone efficacemente l'ambivalenza - societ anarchica.
Tutti insieme essi configurano l'ordine internazionale.
Veniamo ora ad illustrare e schiarire alcune cose appena richiamate. Il contenimento della
violenza rispetto alla Guerra dei trent'anni e alle precedenti guerre di religione,
l'addomesticamento della guerra (Carl Schmitt in Der Nomos der Erde, 1951) avvenne dentro
e grazie alla figura del sistema internazionale pi nota nel suo nome inglese di balance of
power. Che cosa significa esattamente questo equilibrio?
Fra Stati di potenza diversa, ma in equilibrio fra di loro, la nozione a cui equilibrio fa
opposizione supremazia. L'equilibrio di potenza vuol dire un sistema in cui non si afferma la
supremazia di uno Stato. Non si afferma attraverso quel meccanismo che, qualora uno o un
gruppo dei membri del sistema cerchi di conseguire una supremazia, porta gli altri ad allearsi
pro tempore e ad hoc, cio per contrastare con tutti i mezzi politici e anche militari l'ascesa alla
supremazia di quell'altro attore o gruppo di attori. Questo un equilibrio che da un lato nasce
dai rapporti effettivi, nasce dalle cose, ma ad un certo punto diventa anche dottrina e concetto,
diventa addirittura principio giuridico con il Trattato di Utrecht del 1713 che pone termine alla
guerra di successione spagnola, dove si presenta proprio il termine `iustum potentiae
equilibrium'. Del resto il primo episodio evidente di equilibrio di potenza era stato il sistema
politico degli Stati italiani fra il 1454, la pace di Lodi, e l'invasione in Italia nel 1494 da parte di
Carlo VIII di Francia. L'equilibrio di potenza correlato in qualche modo con altre dottrine e
fenomeni politici, primariamente con la ragion di Stato, cio con la dottrina che ritiene che la
salus rei publicae giustifichi (pur nel quadro complessivo della sottomissione della politica alla
morale, quale viene idealmente mantenuta nella cultura del Cinque-Seicento) comportamenti
opportunistici, cio giustifichi l'abbandono di un'alleanza, la non osservanza di un patto e il
voltafaccia, la mobilit delle alleanze, perch di volta in volta diverso lo Stato che sembra che
puntare alla supremazia, cosicch di volta in volta diverse devono essere le alleanze. Ancora
una notazione storica: il concetto di equilibrio di potenza grosso modo attuato nel sistema
politico europeo tra il 1648, pace di Vestfalia, e, a voler essere radicali nella veduta, il 1914.
Alcuni limitano la validit di questo concetto al Sei-Settecento; nella sua accezione pi astratta
ovviamente vero che l'equilibrio di potenza si rompe con Napoleone, ma si pu altrettanto
sostenere che quella di Napoleone fu un'avventura alla fine della quale si ristabil con il
congresso di Vienna l'equilibrio di potenza. Si pu sostenere peraltro che ci che si ristabilisce
a Vienna nel 1815 non pi l'equilibrio di potenza, ed in effetti il nuovo assetto verr poi
chiamato in maniera diversa: il Concerto delle Nazioni. Questo fu il primo atto rilevante in cui i
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Furio Cerutti
partecipanti, i membri del sistema politico europeo, che poi vuol dire in quel periodo il sistema
politico mondiale, si mettono assieme per sancire ufficialmente che non sono solo membri di
un sistema, ma membri di una societ, e che l'equilibrio non si regger pi su di un meccanismo
di riequilibrio cieco, ma cercando di determinare in maniera preventiva, e non post factum, cosa
si pu fare e cosa non si pu fare, quali cambiamenti ci possono essere e quali no - pur meglio
restando che non vi sia nessun cambiamento. A questo una parte dei partecipanti al Congresso
di Vienna pone anche un sigillo ideologico, la Santa Alleanza, che naturalmente non coincide
con il Concerto delle Nazioni, che comprende tutti. La Santa Alleanza riguarda le potenze
arciconservatrici: l'Impero asburgico, la Prussia e la Russia, ma a sua volta una forma di
societ internazionale che, diversamente dalle alleanze del Sei/Settecento che avevano un fine
prevalentemente e dichiaratamente programmatico (cio impedivano la troppa potenza dell'uno,
quali che fossero le affinit o disparit di fede fra amici ed avversari del momento), ha anche un
fine e un'ispirazione ideologica.
Il Concerto delle Nazioni - nuova e pi matura versione delle politiche di ordine
internazionale, in quanto introduce il tentativo di prevenire e pianificare lo sviluppo
internazionale, ma il cui fine rimane quello del mantenimento dell'equilibrio di potenza - dura
fino al 1914, data-limite evidente. La prima guerra mondiale non pu che spezzare l'equilibrio,
anche se si assume la versione pi continuistica, guardando a quelle che gli storici francesi
chiamano tendenze di lunga durata. Oltre il 1914 mi pare proprio impossibile allungare la vita
dell'equilibrio di potenza come principio regolativo. Si tenta infatti di sostituirlo con la Societ
delle Nazioni, che un primo sistema di sicurezza collettiva. La nuova etichetta del sistema
internazionale la sicurezza collettiva: facciamo tutti parte di una stessa societ internazionale
e invece di guardare ciascuno alla sicurezza di s e solo di s e al massimo dei suoi alleati,
garantiamo la sicurezza di tutti. Ognuno impegnato a intervenire per garantire questa
sicurezza, dovunque sia minacciata. Noi siamo ancora in regime di sicurezza collettiva; almeno
nel senso che la nozione, la mentalit politica, giuridica, strategica che d forma e legittimit
all'agire della stragrande maggioranza degli Stati e soprattutto delle organizzazioni
internazionali, ancora adesso la sicurezza collettiva, con aggiunta oggi della sicurezza
comune. L'organizzazione pi efficace nel garantire collettivamente sicurezza ai suoi membri
stata la NATO (North Atlantic Treaty Organization). Alla sicurezza collettiva si ispira
ovviamente la stessa ONU, ma il suo tasso di efficienza purtroppo assai minore di quello delle
organizzazioni parziali o regionali.
Veniamo ora all'altra faccia di questa limitazione della guerra, di questo temperamento
dell'anarchia internazionale. Si tratta della dottrina della guerra giusta o bellum iustum che non
va confusa, come molti hanno fatto per loro comodo polemico, con l'apologia della guerra. Nel
suo sviluppo la dottrina della guerra giusta pu anche essere stata soggetta a questa torsione, ma
nella sua genesi una dottrina della limitazione della guerra, di restrizione delle occasioni in cui
si pu fare la guerra e del modo in cui ammesso farla. La nozione di guerra giusta comincia
con Agostino e poi con Tommaso e si consolida in una tradizione che attraversa il Medioevo e
poi il Rinascimento con i grandi trattatisti del Cinquecento, come lo spagnolo Vitoria, e del
Seicento, come l'olandese Groot (Grozio). giusta la guerra che ha le seguenti caratteristiche
(riepilogate in una standard version a fini didattici): dichiarata da un'autorit legittima;
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Furio Cerutti
motivata da una giusta causa; condotta dai belligeranti con retta intenzione, cio per
raggiungere quel fine dichiarato e non uno subdolamente nascosto; necessaria perch non vi
altro modo di risolvere le controversie, l'ultima ratio; ed condotta con mezzi proporzionali,
anche se questo non sullo stesso piano logico, ai fini che si vogliono raggiungere, giustificati
dalle condizioni precedenti. Questa grosso modo la nozione che d forma e giustificazione, e
in qualche misura anche restrizione, alla guerra nei primi secoli della modernit. una dottrina
che riguarda la guerra tra gli Stati cristiani, cattolici o protestanti, non riguarda i rapporti con
Stati, popoli, potenze extra-europei, n riguarda gli scontri fra gli Stati cristiani nelle colonie.
Gli scontri nei territori coloniali sono al di l della amity-line, della linea di amicizia che
dovrebbe reggere fondamentalmente i rapporti tra gli Stati cristiani (qui seguo C. Schmitt, Der
Nomos der Erde). Questa dottrina, cos come l'ho sommariamente esposta, una dottrina che
prevalentemente, salvo cio che nell'aspetto che decreta la proporzionalit dei mezzi, determina
quando e a quali condizioni giusto fare la guerra. quindi una dottrina dello ius ad bellum.
Fra gli Stati cristiani essa viene in realt generalizzata e formalizzata tanto da perdere
significato, perch in realt essa viene cos piegata alle esigenze di attori ciascuno sovrano e
ciascuno cristiano, ciascuno cio dotato di titoli per far guerra, che non c' alla fine pi nessuno
tra questi attori che non trovi modo di muover guerra trovando comunque una giustificazione
dottrinale.
Pertanto la dottrina dello ius ad bellum perde interesse, anche se interessante notare che
alcuni dei suoi concetti vengono recuperati nel sistema di sicurezza collettiva, venendo per
sottoposti ad altri principi (tale sistema, introdotto dapprima dalla Lega delle Nazioni, vuole
fare della sicurezza legittima di ogni singolo qualcosa che viene gestito e difeso da tutti). Il
principio della giusta causa si ritrova nel capo VII dello Statuto della Nazioni Unite art. 51, che
quello che prevede che se uno Stato aggredito ha il diritto di rispondere, di far guerra
all'aggressore, e gli altri Stati suoi alleati hanno il diritto di appoggiare l'aggredito contro
l'aggressore, ma con il limite, dovuto al regime di sicurezza collettiva, che questo lecito finch
non intervengano i mezzi militari provvisti dall'organizzazione internazionale stessa; in quel
momento le iniziative dei singoli Stati dovrebbero cessare. L'art. 51 quello che ha permesso
l'intervento degli occidentali in Corea nel 1950 e poi, pi recentemente, per cacciare
l'aggressore iracheno dal Kuwait nel 1991. Cos come l'art. 43 attribuisce all'organizzazione
delle Nazioni Unite il potere di utilizzare mezzi militari per ristabilire il diritto internazionale
infranto e ristabilire il rispetto dei fini dell'organizzazione, anche se gli strumenti (come il
Comitato dei capi di stato maggiore) che sono pure previsti dal capo VII non sono stati mai
creati, n tanto meno messi a disposizione dai singoli Stati aggrediti o minacciati.
Il concetto di autorit legittima subisce un primo peculiare allargamento del periodo postcoloniale, cio da quando alla fine degli anni Sessanta - inizio degli anni Settanta
l'organizzazione delle Nazioni Unite riconosce una quasi personalit giuridica, e quindi un
quasi diritto di fare guerra, ai movimenti di liberazione nazionale, che pure non sono attori
statali o membri dell'O.N.U. Segnalate queste tendenze di segno cambiato nello ius ad bellum,
va detto poi che l'aspetto del bellum iustum che pi si sviluppa effettivamente nel Settecento ed
Ottocento, e poi nel nostro secolo, lo ius in bello, cio l'idea di fare la guerra secondo principi
giuridici. Il che ad alcuni pu sembrare una contraddizione in termini, ed in effetti lo perch
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Furio Cerutti
nulla vi di pi antigiuridico del conflitto bellico: silent inter arma leges, si diceva una volta,
oppure all is fair in love and war. Si tratta di regole consuetudinarie di comportamento che alla
fine diventano norme, addirittura trattati o convenzioni internazionali. Esse definiscono molte e
diverse materie. Definiscono il titolo e i diritti-doveri del neutrale, principalmente il diritto di
non essere aggredito purch non faccia certe cose che configurerebbero appoggio ai
belligeranti. Determinano altre norme che la guerra sia posta in forma, cio non che uno la
mattina si alza e invade l'altro, bens la guerra va dichiarata e terminata con un atto giuridico: la
dichiarazione di guerra e il trattato di pace. Ancora le potenze naziste e fasciste hanno fatto
guerra osservando queste forme: Mussolini il 10 giugno del 1940 concluse il suo celebre (e
famigerato) discorso da Palazzo Venezia annunciando che la dichiarazione di guerra stata
presentata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna. Hitler con la Polonia fu meno
formale, iniziando semplicemente a sparare, ma dicendo che erano stati i polacchi a sparare per
primi, e facendo un comunicato su cui era scritto che dalle 5.45 del 1 settembre 1939 si
rispondeva al fuoco. Non parliamo dei giapponesi che presentarono a Washington una
dichiarazione di guerra quando i loro aerei erano gi in volo per l'attacco a Pearl Harbor (7
dicembre 1941). Oggi, dato anche il carattere etnico o civile della maggior parte dei conflitti
armati, la dichiarazione di guerra non si usa quasi pi. Delle regole dello ius in bello fa poi
parte, ed forse la pi rilevante dal punto di vista morale, la definizione di chi combattente
legittimo e chi non lo , originando quindi uno statuto giuridico che mira a definire addosso a
chi si pu sparare e addosso a chi non si pu sparare. Ci tutela la sfera delle popolazioni civili,
e mira anche alla tutela dei combattenti che non siano truppe regolari, ma partigiani e
guerriglieri, che possono essere messi semplicemente al muro se non gli si riconosce lo status di
combattenti. Questo si ritrova anche nell'et nucleare perch definisce giuridicamente la
nozione di innocenti, cio dei non combattenti che andrebbero preservati dall'effetto delle
esplosioni nucleari. Lo ius in bello definisce quali sono i mezzi di condotta leciti e quali non,
quindi esclude un certo tipo di armi, o un certo comportamento nei confronti del nemico,
proibisce le sofferenze non necessarie, soprattutto se ne possono restare vittima i civili; regola
una serie di altre materie quali il rispetto dei feriti e dei prigionieri, il rispetto dell'uniforme,
delle bandiere, dei luoghi d'arte e di cura, delle localit non difese, le cosiddette citt aperte.
Il problema dello ius in bello duplice: uno che esso sempre sottoposto alla clausola si
omnes, cio esso valido se alla validit e alla osservanza di questo diritto aderiscono tutti,
tanto che se uno non vi aderisce, l'altro ha diritto di infrangere anch'esso le regole: se tu mi
bombardi le popolazioni civili io bombardo le tue, se tu attacchi i miei prigionieri, io fucilo i
tuoi prigionieri e cos via (diritto di rappresaglia). L'altro punto debole che non esiste un
giudice, un'istanza autonoma che indaghi le infrazioni ed imponga le sanzioni. Il giudizio e la
punizione espressi da un tertius super partes che non c' sono sostituiti dalla rappresaglia, che
naturalmente colpisce pi efficacemente i vinti, ma non necessariamente i colpevoli. Oppure la
tutela delle norme giuridiche non viene affidata ad un tribunale internazionale, ma alla giustizia
nazionale che di solito non molto efficace ed equanime; qualche volta funziona, ma tardi ed in
maniera quindi poco incisiva. Ce ne sono pochi esempi, uno la Corte marziale dell'esercito
degli Stati Uniti, che con molto ritardo e blandamente pun gli ufficiali responsabili del
massacro di My Lai, uno dei peggiori massacri di popolazioni civili durante la guerra del
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Furio Cerutti
Furio Cerutti
meri confini della nazione sia in quello stretto di ci che riguarda i rapporti fra nazioni
sovrane che tali rimangono. Per questo caso la locuzione pi precisa intergovernativo.
Sopranazionale viene rigorosamente usato solo per entit che superino almeno parzialmente
la sovranit nazionale: per esempio nellUnione europea vi sono elementi intergovernativi
accanto ad elementi sopranazionali o comunitari. Nel suo uso generico, internazionale
comprende sia intergovernativo sia sopranazionale sia globale, che pi precisamente
ci che riguarda gli affari planetari ovvero dellumanit indipendentemente dalle sovranit
nazionali, per esempio il global warming.
Furio Cerutti
anche in Italia, era un giovane ufficiale della fanteria americana e il suo reparto, terminata la
guerra in Europa, attendeva di essere trasferito in Giappone. Fussell ha scritto anni fa un
articolo poi pubblicato in libro, Grazie a Dio per la bomba atomica, perch come combattente
in Francia, dove venne ferito, ritiene che la sua vita e quella dei suoi commilitoni sia stata
salvata dalla conclusione rapida della guerra. Altre ragioni sono interne alla strategia: la
proposta di un gruppo di fisici era stata quella di farla esplodere in un sito deserto, invitando i
giapponesi a vederne l'effetto, in modo da fare impressione su di loro in questo modo e
convincerli alla resa. La proposta fu scartata perch, se la bomba poi non fosse scoppiata, la
dimostrazione non avrebbe avuto effetto, anzi sarebbe stata considerata un bluff, e il Giappone
avrebbe ripreso baldanza. L'altra versione che la bomba sia stata usata per fare impressione
all'Unione Sovietica, la quale era entrata molto tardivamente in guerra con il Giappone, e solo
per pressione degli alleati, mentre era in procinto di imporre il suo dominio ai paesi europei con
un espansionismo di cui gi si profilavano i caratteri, soprattutto sulla questione polacca. Era in
corso durante i giorni dell'esperimento di Alamogordo la Conferenza di Potsdam, la citt
tedesca sede storica dello Stato prussiano dove gli alleati, a Germania vinta e occupata, si
riunirono. C'erano Truman, Stalin e Churchill che in quei giorni fu bocciato alle elezioni e
sostituito dal labourista Attlee. La strategia americana durante la Conferenza fu pi marcata e
pi decisa grazie al fatto che Roosevelt aveva avuto notizia segreta del favorevole successo
della prima esplosione di una bomba atomica. La versione estremizzata che il massacro di
Hiroshima e Nagasaki avvenne per interesse di potenza degli Stati Uniti, gi proiettati nella
imminente guerra fredda (anche se ancora non si sapeva che si sarebbe chiamata cos).
Il 1946-47 vide il fallimento dei piani di mettere l'energia atomica, di cui si era dimostrata
la distruttivit, sotto controllo internazionale, soprattutto vide il fallimento del piano Baruch,
che era un grande banchiere e statista americano. Il suo intento era quello di mettere l'energia
nucleare tutta sotto controllo dell'O.N.U., e fu rifiutato dall'Unione Sovietica con l'argomento
che l'unico paese ad avere l'energia nucleare e a sapere come si faceva la bomba rimanevano gli
Stati Uniti. Questo capitolo di nuclear history interessantissimo, in esso si vedono i problemi
di una gestione mondiale di una nuova tecnologia, problemi che non hanno smesso di
ripresentarsi da allora ad oggi, si pensi oggi alla bioingegneria. La storia prende un'altra strada e
nel 1949 l'Unione Sovietica fa esplodere la sua prima bomba atomica e nel 1952-53 tutte e due
le superpotenze si dotano della bomba termonucleare all'idrogeno.
Alla fine degli anni Cinquanta abbiamo il cambiamento di vettore, dalle sole `fortezze
volanti' si passa ai missili tattici e intercontinentali o strategici, sia lanciati da terra, dove i
lanciatori sono individuabili e possono essere distrutti, sia lanciati dal mare, dove pressoch
impossibile individuare i sommergibili, che diventano a loro volta a propulsione nucleare.
L'unico altro grande fatto tecnologico si ha verso la fine degli anni Sessanta-primi anni Settanta:
per un verso si affina parecchio la gestione dell'intelligence, della sorveglianza e del controllo
di una possibile guerra nucleare, affidandola ad una rete satellitare, e inoltre si crea il cosiddetto
MIRV (le testate nucleari portate dai missili non hanno pi un'ogiva ogni missile, ma ogni
missile porta cinque, dieci ogive indipendenti). Aumenta enormemente la potenza distruttiva e
si rende enormemente pi difficile il conteggio e quindi il controllo degli armamenti, sul quale
si delineano accordi basati sul numero dei vettori.
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Furio Cerutti
Questa la storia tecnologica delle armi nucleari, che non d'interesse meramente
tecnologico, perch senza conoscerla non possiamo capire quali sfide lo sviluppo tecnicoscientifico ha posto ad ogni sua tappa all'intelligenza e alla volont politica. Volgiamoci ora alla
storia politico-strategica: fino alla met degli anni Cinquanta, ancora durante la guerra di Corea,
l'uso della bomba nucleare per risolvere i conflitti convenzionali considerato possibile nelle
dottrine politiche e militari, anche se poi non viene adottato. Fino ad allora l'arma nucleare ha
ancora l'aspetto della pi grande bomba o del pi bel cannone che esista. I francesi nel 1954,
quando stanno per essere espulsi dall'Indocina, dal paese di Ho Chi Minh, chiedono appoggio
agli americani, e si legano al dito per molti anni avvenire il fatto che gli americani non vogliano
usare le armi nucleari contro il governo comunista del Vietnam; da questa esperienza trarranno
motivi per dotarsi di un loro proprio arsenale nucleare. Chi ha le armi nucleari, oltre le due
superpotenze, prima di tutto la Gran Bretagna, molto dipendente dalla tecnologia americana, e
poi la Francia, del tutto indipendente dalla tecnologia americana, che si dota di armi nella prima
met degli anni Sessanta, durante gli anni pi trionfanti del governo di De Gaulle, tornato al
potere nel 1958; viene infine, sempre negli anni Sessanta, la Cina. Queste sono le cinque
potenze ufficialmente nucleari, che sono anche i membri permanenti e con diritto di veto delle
Nazioni Unite, perch sono le cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Molti
negli anni Cinquanta cercano di entrare nella tecnologia nucleare, anche l'Argentina e il Brasile:
chi ci arriva effettivamente sono Israele, come noto, il Sud Africa, che per di recente vi ha
rinunciato, l'India e il Pakistan.
Per riprendere dagli anni Cinquanta: una volta che si diffondono le bombe termonucleari e
la differenziazione dei vettori (bombardieri, missili intercontinentali lanciati da terra e dal mare)
si crea, prima di fatto e poi come dottrina, quella cosa che viene chiamata MAD, Mutually
Assured Destruction, distruzione reciproca assicurata, ma l'acronimo significa altres `folle';
mentre la dottrina precedente era stata quella che in caso di grave lesione degli interessi di una
superpotenza o di un attacco diretto ad essa sarebbe intervenuta la rappresaglia massiccia.
Questa la dottrina della met degli anni Cinquanta; alla fine di questi, svanisce la possibilit di
usare l'arma nucleare per colpire e trarne vantaggi, e cresce la sicurezza che usando l'arma
nucleare si distrugge l'avversario, ma si viene anche distrutti, perch l'avversario, se
superpotenza, dotato della cosiddetta capacit di secondo colpo, cio si dotato in precedenza
della possibilit, pur avendo ricevuto un attacco nucleare di vasta portata che lo lasci in pezzi,
di una rappresaglia che distrugga a sua volta chi lo ha colpito in maniera insopportabile - il che
vuol dire pi del 50% della popolazione e pi del 30% del potenziale economico-industriale. Di
fronte al fatto che diventa sempre pi preclusa la possibilit di vincere una guerra nucleare, si
passa dall'idea di un uso militare dell'arsenale, nel senso di una rappresaglia massiccia, all'idea
di un uso politico, che vuol dire che l'arma nucleare non pi destinata ad essere usata in
guerra, ma destinata a sconsigliare, dissuadere l'avversario possibile dall'usarla contro di noi,
sia de facto, con un attacco effettivo, sia politicamente, cio aumentando il nostro potenziale,
facendoglielo vedere e dicendogli anche se io non ti attacco sono molto pi forte di te e quindi
ti devi piegare al mio volere politico. Sulla base tecnica della MAD si crea l'equilibrio del
terrore e la dottrina dell'uso politico per fini di deterrenza dell'arma nucleare. Il che vuol dire
che l'arma nucleare viene costruita, sviluppata e migliorata non per essere usata, ma per
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Furio Cerutti
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infliggono orribili distruzioni alla stessa parte che ne detenga di pi o le detenga da pi lungo
tempo e possa infliggere eventualmente distruzioni maggiori all'altra parte. Anche in questo
caso le distruzioni subite dalla parte che ha proporzionalmente meno danno sono distruzioni
intollerabili perch aggrediscono alla radice il potenziale economico, civile ed umano di un
paese. Tuttavia dagli anni Cinquanta in avanti si sviluppata, e poi per fortuna stabilizzata, la
natura politica delle armi nucleari, cio quella di essere armi di deterrenza, di dissuasione,
capaci non di vincere la guerra, ma di impedire che una guerra avvenga.
Ora, fra uso politico e uso militare delle armi nucleari esistono nessi complessi:
a) c' stata un'alternanza, nella storia dell'et nucleare, fra il prevalere (nelle dottrine
politiche e militari degli attori) dell'uno e dell'altro uso. Se da tempo prevale l'uso politico, ci
non garantito per sempre: la loro natura stessa di armi (cio di strumenti che promettono un
vantaggio di potenza) che contiene la possibilit di quella alternanza (che durante la guerra
fredda stata un'alternanza quasi ciclica).
b) al fondo della dottrina dell'uso politico c' pur sempre l'idea che, se la deterrenza fallisse,
subentrerebbe l'uso bellico `punitivo' di quelle armi. E la deterrenza poteva fallire e, in un
futuro riacutizzarsi del contrasto fra i vecchi (o fra i nuovi) Leviatani nucleari, potrebbe fallire.
Ed ben improbabile che possa allora verificarsi l'ipotesi, solo mentale, ma normalmente
giustificabile, del bluff: che la parte attaccata dica abbiamo bluffato e ci andata male, a
questo punto anzich rispondervi con il nostro `secondo colpo' e finire in un `omnicidio'
preferiamo arrenderci, fate di noi quel che volete pur di non scatenare una guerra nucleare.
Io condivido dunque con molti l'idea che la deterrenza non ha risolto in maniera
soddisfacente i problemi politici e morali che l'et nucleare ci pone. Altri la pensano
diversamente, pensano che la deterrenza sia definitivamente stabile, che ci garantisca per
sempre; oppure pensano che se la deterrenza fallisse sarebbe una bruttissima cosa ma non cos
spaventosa perch ci si potrebbe risollevare da uno scontro nucleare. Si ricordi che, se finito il
bipolarismo politico, non lo quello nucleare: alla fine, del resto non raggiunta n garantita, del
processo START (Strategic Arms Reduction Talks;) USA e Russia resteranno pur sempre con
3500 testate ciascuno. Alcuni pensano infine che tutti i paesi con una certa potenza economica
debbano avere armi nucleari. Dopo il 1989 uno studioso, John Mearsheimer, scrisse un articolo
per suggerire, quasi per imporre alla Germania di dotarsi di armamenti nucleari per aumentare
la stabilit dell'Europa e del mondo. Io ritengo al contrario che le armi nucleari e la deterrenza
rimangano un problema vitale, anzi letale, anche dopo la fine della guerra fredda, anche dopo la
fine del bipolarismo politico.
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statuale per cui l'unica paura che dovrebbe rimanere dopo il patto sarebbe quella dei cittadini di
fronte alla legge si incrina, perch attraverso questo tipo di sistema di sicurezza, la deterrenza
nucleare, lo Stato rischia di aumentare la paura anzich diminuirla. Gli effetti possibili di questo
sistema di sicurezza, dove esso debba concretamente venir messo in atto, crea molta pi paura
che non quella che lo Stato riesca ad assorbire e neutralizzare, che non la paura derivante dalla
situazione di possibile guerra civile, di possibile disordine sociale. una paura pi astratta,
infinitamente pi impersonale, ma non per questo meno pesante e terribile.
Queste sono, rapidamente, le conseguenze politiche delle armi nucleari e ci potremmo
fermare qui se facessimo pura teoria politica; ma siccome facciamo un discorso di filosofia
politica, dobbiamo ancora parlare degli aspetti pi universali e filosofici di questa situazione.
`Situazione nucleare' la formula che uso per sintetizzare uno stato di cose avente il suo
nucleo filosofico nel fatto che non questo o quello Stato, ma tutti gli Stati, cio il genere umano,
arrivato ad un punto che, per garantire al massimo grado la sicurezza dei singoli Stati nei
rapporti interstatali, si mette credibilmente in pericolo la sopravvivenza del genere umano
stesso. Per sopravvivenza del genere umano non si intende, n esclusivamente n
principalmente, la sopravvivenza biologica che rischia di essere cancellata dagli effetti di una
guerra nucleare totale; un evento che non sicuramente prevedibile che si verifichi, cos come
non si pu scientificamente escluderlo. In ogni caso da questa previsione scientifica degli
effetti, si accetti o no la specifica dottrina dell'inverno nucleare, si pu ricavare la certezza della
distruzione pressoch totale della civilt umana. Gli inglesi usano l'espressione riportare a
forza di bombe il genere umano nell'et della pietra (to bomb humankind back into the stone
age).
Della situazione nucleare si danno diverse spiegazioni: o che derivi dagli imperialismi di
questa o quella potenza, oppure da una logica economico-sociale interna al processo di
industrializzazione, oppure ancora l'idea non legata ad un'ipotesi storica, ma antropologica, che
essa derivi dall'esaltazione di una cosa che c' sempre stata, cio l'aggressivit umana.
L'ultima di queste spiegazioni ideologica, nel senso che deriva da una
sovrainterpretazione in termini di filosofia della civilt, di aspetti o categorie che sono
importanti nello studio della natura (biologia dell'aggressivit); ma una categoria che viene
estrapolata dal suo terreno specifico e resa categoria filosofica generale vittima di un processo
di ideologizzazione.
Le spiegazioni risalenti all'imperialismo e all'industrializzazione sono insufficienti nel senso
che si tengono al di sotto del livello di approfondimento che una cosa cos drammatica come la
situazione nucleare richiede. A me sembrano appiattimenti economicistici o sociologistici: sono
processi storici e sociali specifici di un'epoca, che non spiegano come non questo o quel paese,
non questa o quella regione, non questa o quella classe sociale, ma l'intera umanit arrivi al
punto di mettere in forse con le sue proprie mani la propria esistenza e sopravvivenza. Per
capire questo ci vuole qualcosa di pi che l'estrapolazione di processi sociologici ed economici
che riguardano il periodo di duecento o trecento anni della modernit.
Dobbiamo ricorrere a spiegazioni di tipo filosofico. Ci troviamo di fronte un panorama non
uniforme: alcuni recepiscono la drammaticit intrinseca alla situazione nucleare cos come
viene definita e dicono che questo dipende o dal materialismo o dal nichilismo o dalla
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modernit che si autodistrugge. Credo che queste interpretazioni abbiano il difetto opposto agli
appiattimenti di cui abbiamo appena parlato, avendo un effetto di vanificazione olistica. Di un
fenomeno, di un processo che specifico della nostra epoca, a cui l'umanit arrivata nella
nostra epoca, e che si deve cercare di capire nella sua logica specifica, esse danno una
spiegazione attraverso megacategorie, ovvero megadefinizioni della situazione umana, che in
realt vanificano la specificit del processo che ha prodotto la situazione nucleare, e con alcuni
filosofemi sulla sorte dell'umanit e della civilt vanificano anche il contributo specifico che
pu venire dalla filosofia politica. Dall'altro lato tali interpretazioni falliscono il bersaglio,
perch per esempio tutta la tematica, di cui alcuni filosofi pi o meno post-moderni si dilettano,
del nichilismo, non ha pressoch niente a che fare con la annichilazione di cui la situazione
nucleare ci offre la possibilit: non c' nessun nesso riconoscibile scientificamente fra il
cosiddetto nichilismo, cio in una parola il sovvertimento e la ridefinizione di tutti i valori, la
Umwertung aller Werte di Nietzsche, e la dinamica che ha portato alla situazione nucleare. Una
battuta cattiva: per studiare i problemi gravi dell'epoca moderna e la sua crisi e la sua
conclusione, anche i filosofi avrebbero fatto bene a studiare le dinamiche e le possibilit di
annichilazione e un po' meno il nichilismo: guardando insomma in faccia il nihil che
effettivamente esiste come potenzialit dei nostri prodotti, e non pensando che esso derivi per
qualche magico influsso dalla crisi d'identit dei ceti intellettuali che hanno compiuto o che si
dibattono nella Umwertung aller Werte. Ma di solito i filosofi preferiscono parlare dei filosofi
ad altri filosofi e non parlare filosoficamente delle sorti del genere umano e dei singoli
individui.
Finita la parte polemica, vorrei dire che io ritengo che le radici della situazione nucleare
siano nella `dialettica' ovvero nel paradosso della sicurezza, nel security dilemma, cio nel
produrre massima insicurezza come risultato delle nostre misure prese per garantire la
sicurezza. Ma queste sono solo le radici: occorre aggiungere la circostanza evolutiva che questa
sicurezza stata largamente delegata alla tecnica e precisamente alla tecnica senza regolazioni,
senza istituzioni adeguate per controllare il nesso contemporaneo di tecnica e sicurezza. Da
questa prospettiva si vede che la situazione nucleare pone quattro questioni che non sono solo
di filosofia politica, e la cui definizione ha le radici nella filosofia politica, ma che poi mobilita
la filosofia tout court e non solo la filosofia. Le questioni sono quelle della tecnica, del genere
umano, della pace perpetua e quella del rapporto tra idealismo e realismo.
Si tratta anzitutto del problema eminentemente filosofico di che cosa la tecnica rivela
dell'uomo e del suo rapporto con il cosmo: da un lato con la realt fisica e dall'altro con gli altri
uomini. Detto in maniera storiografica si va dal poiein aristotelico alla riflessione heideggeriana
sulla tecnica (fine degli anni Quaranta). Oggi sono due gli elementi principali. Primo, gli
uomini sono arrivati a penetrare e sovvertire quelli che almeno adesso a noi, al nostro stato
attuale della conoscenza, risultano i livelli ultimi della materia. Non solo il nucleo dell'atomo,
ma ci che sta sotto, la struttura della materia, sono nozioni in continua evoluzione. Io detesto il
continuo rinvio alle eterne verit e figure della filosofia e della letteratura e mitologia, perch
penso che il mondo sia realmente cambiato e che il filosofare non sia il filosofare sull'eterno, su
autori eterni o categorie eterne. Ritengo che pensare questo sia un vizio idealistico e mi schiero
decisamente con la tradizione materialistica moderna che pensa che la realt sia qualcosa che
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viene fuori dall'impatto con la natura e con gli altri e che, pur essendoci dei problemi costanti in
questo impatto, le configurazioni e le categorie che ne vengono fuori, e che servono per capire
questo impatto, cambino nel tempo. Ciononostante, nel rapporto dell'uomo con la natura non si
pu eliminare il richiamo al mito: tema filosofico di Prometeo.
Secondo tema della filosofia della tecnica: a che cosa porta l'essere penetrati cos a fondo
nella struttura della materia e, ci che pi conta, esserci impadroniti in maniera cos grandiosa e
nello stesso tempo suicida delle forze della natura? Che cosa ci riveli e che cosa tutto ci abbia
di effetto sulla formazione del s, ovvero dell'identit individuale e poi anche dell'identit di
gruppo. il grande tema della dialettica dell'illuminismo - Dialektik der Aufklrung - che
Horkheimer e Adorno hanno scritto nel 1944 e che rimane uno dei grandi libri filosofici
dellultimo secolo, anche se di una stagione filosofica che non pi la nostra.
Terzo aspetto di questo primo tema evocato dalla situazione nucleare, la tecnica: il
problema della responsabilit, cio il problema che i livelli di potenza e di distruttivit raggiunti
dalla nostra tecnica, indipendentemente da come si interpreti metafisicamente il nostro
atteggiamento tecnico verso il mondo, ci esortano a cambiare il nostro approccio morale alla
tecnica, che non pi moralmente e politicamente neutra come nella prima modernit.
Il problema dunque se non dobbiamo inventarci un'etica del tutto nuova nei confronti
della manipolazione della realt fisica, e quindi degli altri come realt fisica, un'etica della
responsabilit. Hans Jonas, di cui io non condivido l'impostazione ontologica aristotelica, ha
avuto il merito di mettere sul tavolo in forma compatta questo tema, la responsabilit,
implicante aspetti trasversali che attraversano anche i punti successivi. Responsabilit rispetto a
chi? Rispetto ai singoli, al genere umano? Chi il genere umano? Solo quelli che vivono
adesso, o anche quelli che sono vissuti prima e/o quelli che vivranno dopo?
L'ultimo aspetto della tecnica un aspetto meno filosofico, ma di scienza politica con
implicazioni filosofiche o almeno etiche. Dato e non concesso (questo un problema etico che
lasciamo aperto) che vogliamo, dobbiamo moralmente controllare scienza e tecnologia, siamo
in grado di farlo, e come si fa? Quali sono gli istituti politici che dobbiamo inventarci, e che
non sono mai esistiti nella storia del mondo?
Per venire ora al tema del genere umano, opportuno che io riprenda ed approfondisca la
nozione di sopravvivenza. chiaro di cosa tratta la sopravvivenza: la possibilit di una
riproduzione della nostra specie attraverso i normali meccanismi di riproduzione. `Normali'
perch i meccanismi stanno gi cambiando e diventando non anormali, ma artificiali. La
riproduzione della vita umana sotto questo riguardo il contrario dell'estinzione.
Gli zoologi e gli etologi dicono che l'estinzione il normale destino delle specie viventi e in
effetti ogni giorno si estinguono migliaia di specie vegetali e animali, e non c' dubbio che la
antropizzazione del paesaggio terrestre ha accelerato il tasso di estinzione. Alcuni dicono perci
che l'estinzione della specie umana in questo senso sicura, perch il normale destino delle
specie viventi e quindi che non c' da preoccuparsi n da stupirsi. Ma in verit lo stupirsi, il
meravigliarsi , come dice Platone, l'origine della filosofia, del pensiero, ascrivendo questa
meraviglia ad una ninfa o dea, Iride. Ora, se noi consideriamo zoologicamente l'umanit non c'
da meravigliarsi, n da far grandi pensate filosofiche sull'estinzione possibile della specie
umana.
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Questa un'opinione rispettabile, non falsa in zoologia. Ma falsa nel contesto di filosofia
politica e filosofia morale in cui non ci interessa il destino biologico o zoologico dell'umanit,
ma guardiamo l'umanit dal punto di vista morale, metafisico e politico. Metafisico per il
significato che tale destino ha; morale per quanto esso dipenda dalle nostre scelte di fare o non
fare, di omettere; politico in quanto il destino degli uomini possa essere fatto oggetto di nuovi
progetti ed istituzioni politiche: intendo non il destino dei singoli uomini, ma della specie.
In questa sede morale e politica, che la sede per ogni discorso culturale, non ci interessa la
sopravvivenza meramente biologica. Ma poi credo, senza invadere pi di tanto il terreno delle
scienze naturali, che si possa sostenere con buone ragioni dal punto di vista di zoologia ed
etologia, che non possibile rappresentare la vita umana e la sua riproduzione se non entro
condizioni culturali, cio non possibile rappresentarla come qualcosa che si riproduce per
mero risultato di pulsioni istintuali, quando qualsiasi filosofo, antropologo culturale, etologo,
primatologo sa che, se vogliamo veramente definire la vita umana, non possiamo definirla altro
che ascrivendo costituzionalmente alle sue condizioni e alla sua riproduzione i fattori culturali,
cio cose che noi creiamo e trasformiamo.
Dal punto di vista `zoologico', si detto, non c' da meravigliarsi dell'estinzione possibile;
per un verso l'estinzione sicura perch il destino biologicamente naturale della specie e
quindi statisticamente sicura, e poi sicura per ragioni pi specificamente fisiche,
cosmologiche, cio perch ad un certo punto il sistema solare si raffredder e in poco tempo,
nel senso cosmico, scompariranno le condizioni di temperatura necessarie alla riproduzione
della vita umana e della vita tout court, non solo sul nostro pianeta, ma nel sistema solare
intero.
Quanto all'estinzione della vita umana per via di uno scontro termonucleare, certamente
vero che le previsioni scientifiche implicano riserve fallibilistiche. Si tratta per qui di un
fallibilismo un po' sui generis perch, mentre il fallibilismo scientifico `normale' affida la
contestazione della tesi ad un esperimento, in questo caso nessuna esperienza possibile, n
auspicabile, o pu essere messa in conto, come se si trattasse di una normale procedura
scientifica; provare a fare una guerra termonucleare per vedere come va a finire, se poi ci
estinguiamo veramente o no, una cosa priva di ogni senso comune. Gli studiosi dicono che, si
accetti o no la teoria dell'inverno nucleare, gli effetti sono tali e l'incertezza degli effetti tale,
che non si pu escludere l'estinzione nello stesso puro senso biologico e zoologico.
A questo punto come filosofi possiamo dire che, anche se dovessimo ritenere bassa la
probabilit sia che avvenga un conflitto termonucleare e ne nasca l'estinzione della specie
umana, oppure se dovessimo ritenere bassissima la possibilit che scoppi un qualsiasi conflitto
termonucleare, indipendentemente dalle sue conseguenze, dal punto di vista filosofico il fatto
che esso possa scoppiare, e che possa avere queste conseguenze, filosoficamente
rilevantissimo, perch l'estinzione della vita umana ha dei significati filosofici che non sono
mai esplicitati fino in fondo. Tutta la filosofia, quando si occupata della morte, si occupata
della morte dell'individuo, compreso l'esistenzialismo (si pensi al Sein-zum-Tode di Heidegger),
non della morte della specie. rilevante filosoficamente e antropologicamente che la specie
umana debba vivere con questa possibilit al suo fianco. Questo la specie umana lo fa gi,
perch alcuni pensano che il Creatore possa ripetere Sodoma e Gomorra o il Diluvio e perch
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altri pensano, con qualche fondamento, che, se non nel novero dei nostri 60, 70, 80 anni di vita,
almeno negli anni di vita di altre generazioni, possa comparire un'asteroide che si schiacci sulla
terra e ci faccia fare la stessa fine dei dinosauri. Questo un tema filosofico abbastanza
corrente, la precariet dell'esistenza umana nelle sue condizioni cosmiche. Quella che non
corrente la riflessione filosofica sul significato di una precariet fatta in casa, che ci siamo noi
stessi procurati, che fino a pochi decenni fa non esisteva. Per alcuni migliaia di anni gli uomini
hanno vissuto, e i filosofi hanno pensato, che il pericolo massimo fosse lo scontro con un
asteroide, adesso possibile, oltre lo scontro con un asteroide, la catastrofe nucleare, cio
prodotta da cose che noi stessi abbiamo creato, usato, messo in circolazione.
Questo il significato di sopravvivenza o di minaccia alla specie, quello di dover vivere
con la possibilit che, seppur non scompaia la specie nel senso della mera vita vegetativa,
scompaiano tutte o la maggior parte delle condizioni lato sensu culturali di vita della nostra
specie, e che questo avvenga per opera di nostri artefatti.
La tematica kantiana degli esseri finiti acquista nel nostro secolo una connotazione diversa,
perch una finitudine che pu riguardarci anche in altri significati che non quelli kantiani. Se
ancora Kant poteva pensare come prolungamento del nostro agire morale al regno dei fini, che a
quell'agire dava senso, un po' pi difficile pensare ad un senso del nostro agire morale se
dobbiamo pensare che fra le possibilit in esso insite vi sia la fine culturale, e magari anche
biologica, della specie, per effetto del nostro stesso operato.
Quindi il secondo gruppo di problemi che nascono dalla situazione nucleare sono quelli che
possiamo intitolare al genere umano. Perch il genere umano? Perch esso viene minacciato
nella sua sopravvivenza e proprio perch viene minacciato si pu pensare che esso esista per la
prima volta realiter e non semplicemente come ens rationis, che esista un nesso tanto materiale
quanto invincibile, quello della minaccia e della paura dell'estinzione, che ci tiene per la prima
volta assieme come mai hanno potuto fare tutti i nessi morali, religiosi, civili che ci siamo
potuti immaginare. Allora, se il genere umano esiste ben pi realmente di una volta, proprio
perch la sua sopravvivenza non pi n sicura n di per s evidente, nascono alcuni problemi
pi particolari. Da chi costituito il genere umano? Solo dai presenti sulla terra, dai nostri
contemporanei, oppure dobbiamo ammettere che esso sia costituito in quanto attore morale,
soggetto di diritti e doveri, anche dalle generazioni future? Qui c' molta letteratura filosofica,
molta contemporanea ma anche non contemporanea, che ormai sta diventando anche
politicamente rilevante, perch le generazioni future sono un importante punto di discussione,
un coprotagonista, un attore giovane che d un po' fastidio al capocomico. Questo si vede anche
nelle grandi discussioni etico politiche sulla distribuzione della ricchezza, che ha molti aspetti,
dei quali uno se la distribuzione attuale debba essere giudicata ed eventualmente cambiata
non solo e non tanto rispetto ai contemporanei, ma in vista di come essa impatter sulle
generazioni future. Questo per ci che riguarda la distribuzione della ricchezza, dell'energia,
dell'alimentazione. Un altro punto importante sorto anche in un paese che arriva sempre
ultimo a nuove formulazioni, cio l'Italia: nella discussione sul sistema pensionistico, uno dei
punti di vista pi avanzati che il sistema iniquo nei confronti delle generazioni future,
perch erode in anticipo la ricchezza a cui tali generazioni dovrebbero potere aver parte. La
cosa curiosa che negli altri paesi l'argomento delle generazioni future stato un argomento
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progressista, in Italia nel campo della questione pensionistica viene - meno come argomento e
pi come slogan - portato in campo da forze di destra. L'altro aspetto se le generazioni future
facciano parte o no del genere umano relativo ai danni che con la nostra tecnologia stiamo
infliggendo al pianeta: rischiamo di consegnare alle generazioni future una terra ridotta ad una
discarica o ad una stufa, a seconda del problema che si mette in rilievo (rifiuti o global
warming).
Altro subtema del tema `genere umano' se valga la pena di assicurarne la sopravvivenza, e
se s a quali costi. L'assunzione della sopravvivenza del genere umano come valore pu essere
contestata, il mestiere dei filosofi quello di prendere sul serio ogni domanda e nessuna
soluzione.
La terza serie di problemi che derivano dalla situazione nucleare quello della pace
nucleare perpetua e qui devo fare un'ampia digressione su pace e pacifismo.
K.Waltz, Man, the State and War,1959, tr. it. Giuffr, Milano 1998.
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della pace e mettercela per nell'ambito di un disegno complessivo: alla pace si arriva non
ripetendone il nome come slogan salvifico, ma come prodotto di una strategia che tenga
presente la situazione politica, economica, sociale nella sua intera complessit e difficolt. Ci
include la possibilit dell'uso della forza, per esempio per impedire ad un paese di attaccarne o
ricattarne altri dotandosi di armi nucleari, o per proteggere popolazioni vittime di massacri o
genocidio. La pace in questo senso una categoria politica, per fare la pace occorre un potere
ad essa ordinato. L'altra definizione di pacifismo quella che considera la pace nel senso nel
non-ricorso alla violenza armata come unico ed indefettibile principio: se vuoi la pace sii
sempre pacifico. Questo pacifismo ammette come unico mezzo il comportamento pacifico, la
non-violenza. Esso si presenta in due versioni molto differenti: una extra-mondana, per dirla
con Weber, che rifiuta le logiche del mondo ed esprime solo una testimonianza morale o
religiosa di fratellanza e solidariet. Laltra versione, il pacifismo radicale come strategia
politica, si risolve spesso e necessariamente (la politica contenendo necessariamente la
violenza) nel condannare le guerre degli uni ma non degli altri, o nellignorare che proclamando
che non si useranno mai gli strumenti militari si rafforzano i regimi che tolgono vita e libert ai
cittadini loro o di altri paesi. Il cedimento (in verit lultimo di una serie) a Hitler e Mussolini,
attuato in nome del mantenimento della pace dai governi britannico e francese negli accordi di
Monaco del 1938, contribu direttamente alle ulteriori aggressioni che portarono alla seconda
guerra mondiale.
Con l'avvento prima della guerra totale, poi della guerra termonucleare e quindi della
possibilit di distruzione della civilt, il fattore tempo diventato un elemento decisivo nel
valutare la bont di questa o di quella politica, soprattutto di un progetto di pace, che si deve
misurare anche dai tempi in cui esso in grado di raggiungere il proprio scopo, cio di
consolidare in senso pacifico le relazioni tra gli uomini e le loro comunit. La pace perpetua nel
senso dominante, cio non assoluta assenza di conflitti, ma pace in cui il conflitto bellico non
pi la soluzione principale, ed solo l'ultima ratio per la risoluzione dei conflitti, nell'et
nucleare divenuto una questione di tempo, perch vi sono buone ragioni per ritenere che pi
dura un regime basato sul possesso delle armi nucleari in mano agli Stati nazionali e sulla stessa
deterrenza, pi aumentano le chances di un uso bellico di queste armi. Una politica di pace oggi
va scelta o respinta anche in base alle attese credibili che essa pu suscitare intorno alla rapidit
con cui porta alla pace perpetua, in primis come pace nucleare.
Un altro argomento contro il pacifismo radicale come atteggiamento politico che esso
una dottrina che, per usare un termine di Bobbio, si avvicina molto al pacifismo strumentale,
cio a quello che si propone di raggiungere e consolidare la pace tramite la manipolazione di
uno degli strumenti di guerra: per esempio la pace via disarmo o per mezzo del controllo delle
armi. pacifismo strumentale perch si pensa che dal controllo o dall'abolizione dello
strumento, disarmo parziale o totale, si possa conseguire la pace. Ma anche il pacifismo che si
propone pi generalmente di arrivare alla pace tramite la non-violenza ha alcuni caratteri del
pacifismo strumentale, nel senso che considera la violenza, che uno strumento della politica,
un disvalore. Quindi da questo punto di vista partecipa dei vantaggi e/o svantaggi del pacifismo
strumentale.
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Questa critica dei tempi pu essere usata anche nei confronti di un'altra forma di pacifismo
che il cosiddetto pacifismo culturale: l'idea che la via maestra alla pace sia l'educazione alla
pace, la crescita della cultura della pace, posizione che spesso imparentata con il pacifismo
radicale ed extra-politico, ma non lo necessariamente: si pu pensare che la cultura della pace
sia un aspetto, un capitolo importante di un pacifismo politico o meno. Se uno non pensa al
pacifismo culturale come un valore, una via maestra, pu comunque pensare che sia una via
secondaria o uno svincolo importante della via maestra, si pu pensare che meglio avere un
pacifismo politico, ma che tuttavia questo non basta, che il pacifismo politico necessario, ma
non sufficiente e il pacifismo culturale complemento necessario e non sufficiente del primo. Il
pacifista culturale pi illustre forse Sigmund Freud,26. L'unica via, dice Freud, che possiamo
vedere tra tutte le vie politiche e strumentali il cambiamento di un atteggiamento culturale e
un aumento ed ispessimento di legami tra individui e fra grandi individui, cio fra gli Stati.
uno scritto sconsolato; Freud non si mai fatto illusioni su niente e su nessuno. Egli scrive che
l'unica via che pu portare a una sostanziale diminuzione della guerra rischia di essere la
macina di un mulino che va troppo piano, e che quindi quando ha macinato tutta la farina
necessaria per sfamare la gente, la gente gi morta di fame. Nello stesso momento in cui vede
il pacifismo culturale come unico momento che effettivamente garantisca la pace, Freud stesso
denuncia che i tempi dei processi di trasformazione culturale e antropologica sono difformi da
quelli della politica, perch questi possono arrivare prima e fare piazza pulita degli attori. Nel
1932 non c'erano le armi nucleari, ma era tale l'eco delle distruzioni grandiose della prima
guerra mondiale in termini di vite umane di soldati, non tanto di potenziale economico e di
civili, nelle battaglie di logoramento sui fronti orientali, occidentale, e su quello italiano del
Carso, che Freud stesso in quel contesto fa l'ipotesi non di estinzione del genere, ma di una
distruttivit inarrestabile e totale delle future guerre: quasi un presentimento. Il pacifismo che
ho chiamato politico possiamo chiamarlo anche pacifismo istituzionale, con un termine pi
preciso, usato anche da Bobbio 27Pacifismo istituzionale significa che la pace perpetua, il
contenimento della guerra vengono pensati principalmente in termini di nuove istituzioni
sociali e/o politiche che mutino i processi di aggregazione e di conflitto.
Pacifismo politico e pacifismo istituzionale non sono sinonimi e appartengono a due diversi
ordini di definizioni: quello politico tale in contrapposizione a quello extra politico, il
pacifismo istituzionale invece distinto dal pacifismo strumentale e culturale. In realt non
sono sinonimi perch uno pu anche inventarsi un pacifismo istituzionale extra politico, se uno
pensa che la pace perpetua possa derivare da un governo mondiale fedele al Signore retto dal
Papa o dal Sommo Sacerdote buddista e ordinato teocraticamente: questo sarebbe un pacifismo
istituzionale ma extra-politico. La stessa cosa sarebbe l'idea di una istituzione che sia una
fratellanza universale con un Grande Fratello a capo, il consiglio dei Grandi Fratelli come
26
Freud ha scritto due volte sulla guerra, una volta nel 1915 Considerazioni attuali sulla guerra e di
nuovo nel 1932 Perch la guerra? in un volume curato per conto della Lega delle Nazioni da Albert
Einstein.
27
Nel volume Il problema della guerra e le vie della pace (Bologna 1979) che raccoglie una serie di
scritti di Bobbio nella prima fase (anni Sessanta) della stupefazione e dell'indignazione del mondo, e
della paura del mondo e degli intellettuali, di fronte al pericolo nucleare e al MAD che si stava
edificando in quegli anni.
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che hanno portato all'unificazione europea sono spinte, per usare un linguaggio di politologia
contemporanea, di carattere sistemico o funzionale, cio di un sistema che funziona
indipendentemente dalla volont politica. Gli imperativi sistemici - si veda la Scuola di
Francoforte - vengono spesso accreditati di tutti i mali possibili, ed il sovrastare delle spinte
sistemiche in terreni che non possono essere assoggettati alla razionalizzazione di questo tipo
un serio e grave problema. Ma, pur tenendo presente questo problema centrale degli effetti
degenerativi delle spinte sistemiche sul tessuto umano e culturale, dobbiamo anche non
dimenticarci che le spinte e gli imperativi sistemici possono avere una ricaduta fortemente
positiva sul terreno che sistemico non , cio quello della politica, della societ, della cultura e
cos via. Da questo punto di vista tali imperativi funzionali o sistemici, che nell'Unione si sono
affermati, e a cui la cultura politica, filosofica, e storica ha dato una adeguata veste politica, dai
trattati di Roma (1957) a quelli di Maastricht (1991), Amsterdam (1997) e Nizza (2000), hanno
evitato che si potesse ripetere qualcosa di simile al 1914-18 o al 1939-45.
Pi fortunata di quella che si richiama al commercio appare la dottrina che ritiene essere la
trasformazione democratica dei regimi interni degli Stati la base pi sicura per garantirne un
comportamento non bellicoso; non perch gli Stati democratici non facciano guerre, anzi ne
hanno fatto di molto accanite contro Stati dittatoriali, ma perch essi non usano farsi guerra fra
di loro. Lo dimostra lesperienza storica tanto quanto la dimostrazione teorica di questa tesi,
che va sotto il nome di dottrina della pace democratica. La sua prima origine nel progetto di
trattato Sulla pace perpetua scritto da Kant nel 1795, laddove Kant affida la pacificazione
permanente dei conflitti interstatali alla trasformazione repubblicana dei regimi, al
federalismo e allaffermarsi del diritto cosmopolitico, riguardante il rapporto fra gli Stati e gli
abitanti del globo.
Per concludere sulla pace in epoca nucleare, si pu pensare che essa non derivi n da una
moralizzazione in senso kantiano della politica (che forse non arriver mai, ma che, anche se
arrivasse, potrebbe essere - s' visto - troppo tardi) n dal prevalere di una superpotenza,
vittoriosa nella guerra fredda e capace di fare da Terzo o da gendarme nucleare; non si sa se gli
USA abbiano le forze per fare questo, o se ne abbiano la volont, e soprattutto non si sa per
quanto tempo le possano o la possano avere. E la pace nucleare o perpetua o non .
Si pu pensare invece che a fungere da Terzo sia il nocciolo medesimo dell'et nucleare e
cio il terrore come base dell'equilibrio. In verit noi stiamo assistendo dal 1945, dal punto di
vista nucleare, alla pace perpetua, che sar un po' tetra, ma stata pace. Non voglio dire che la
deterrenza nucleare sia la garanzia della pace, perch anzi io la penso in maniera opposta, ma
voglio dire che stiamo assistendo ad un primo periodo fattuale di pace perpetua. Naturalmente
tutto questo pu essere affermato solo se si differenzia fortemente fra guerra nucleare e guerra
convenzionale, e quindi anche fra pace convenzionale e pace nucleare. La pace nucleare non ha
impedito che guerre sanguinose (Indocina, Afghanistan, Iran-Iraq o Prima guerra del Golfo)
avvenissero durante la Guerra fredda, n tanto meno dopo il suo termine. Dal 1989 inoltre le
guerre classiche, interstatali o civili, che pure non mancano (Etiopia-Eritrea, per non dirne che
una) sembrano avere minore frequenza e importanza rispetto alle guerre di nuovo tipo, a sfondo
etnico o religioso o di scontro fra civilt, e spesso condotte da attori non-statali (Osama bin
Laden contro gli USA) e con largo impiego di metodi terroristici.
90
Furio Cerutti
Ora, io ritengo che la pace nucleare sia un valore in s, il quale si nei passati cinquant'anni
di fatto affermato, per effetto di un fattore impersonale, il terrore nucleare, fonte di equilibrio: il
terrore della distruzione non solo del nemico ma anche propria, e di tutti. Io non ritengo invece
che la pace convenzionale sia un valore assoluto in s, ma un valore strumentale, che deve poter
essere accordato con altri beni come il mantenimento di un minimo di ordine internazionale
legittimo e quindi, come prevede lo stesso Statuto delle Nazioni Unite, la violenza militare deve
poter essere impiegata per reprimere le grossolane violazioni dell'ordinamento legittimo: atti di
aggressione, invasioni, occupazioni. Inoltre deve poter essere impiegata per preservare l'altro
valore che ritengo assoluto, cio la pace nucleare: contro uno o pi Stati che volessero crearsi
un potenziale nucleare per usarlo poi a fini o di attacco o di ricatto, la comunit internazionale
ha tutto il diritto di usare mezzi militari convenzionali. Se abbia anche il diritto di usare mezzi
nucleari cosa di cui si deve discutere; ma per dissuadere una potenza che vorrebbe diventare
nucleare dal procacciarsi armi nucleari, basta un forte armamento convenzionale da parte di chi
lo vuole impedire.
Un ultimo cenno va dedicato al tema del governo mondiale. Rammentiamo anzitutto che,
oltre a quella di un ordine internazionale che garantisca puramente la sopravvivenza, esistono
altre idee dell'ordine internazionale, ordinate a valori come la giustizia o la solidariet tra i
popoli o la libert. Di questo occorre parlare fra le questioni di etica pubblica
Nella sua versione classica la questione del governo mondiale vecchia quasi quanto la
filosofia politica moderna e comprende tre temi fondamentali: a. se esso sia possibile, cio se vi
siano forze, attori e tendenze di cui si possa pensare che si verranno a congiungere e a
sintetizzare dando vita a un governo mondiale; b. se esso sia funzionante, che una cosa
diversa, perch pu essere possibile la sua genesi e poi quando esso va a regime ci si rende
conto che non funziona, che si autoparalizza o provoca effetti contro-intenzionali, ad esempio
pi conflitti di quanti non riesca a prevenire; infine una terza questione, c. che quella pi nota
di cui fa cenno anche Kant, cio che esso, ammesso che sia possibile e funzionante, non sia
gravido del pericolo di diventare una tirannide su scala planetaria. Alcune di queste domande e
di risposte negative: che impossibile, che non funzionerebbe, che sarebbe tirannico, vengono
rivolte non solo nei confronti dell'idea vera e propria del governo mondiale, cio di una
sovraistituzione con poteri complessivi di governo, ma anche nei confronti dell'altra idea, di
istituzioni singole di tipo federativo. C' chi pensa che qualsiasi globalizzazione politica sia,
tanto nella forma di un governo complessivo, organico e unitario, tanto nella forma di singole
istituzioni a scopi limitati, una forma che va verso la servit28.
Un corollario importante della situazione nucleare il capitolo, scritto assai poco dai
filosofi politici, che riguarda gli effetti della situazione nucleare su democrazia e sovranit
popolare, cio due cardini dell'ordinamento politico contemporaneo. Si pu pensare, ma
andrebbe studiato meglio, che la deterrenza nucleare vi incida seriamente, anche se non sempre
esplicitamente e visibilmente, perch essa tende a sottrarre alla sovranit popolare e alla
decisione democratica intere sfere vitali, a cominciare da quella della vita e della morte, nonch
del benessere di intere popolazioni. Tende a sottrarre alla vita comune quel senso dello stare
28
Furio Cerutti
assieme, del rispettare limiti, della solidariet e del cercare di progredire assieme che la risorsa
indispensabile della vita politica democratica.
Infine, un capitolo importante della filosofia politica contemporanea che prende spunto
dalle relazioni internazionali, ma che poi ha un raggio pi vasto, quello del rapporto fra
ordine e giustizia. Consiste sostanzialmente nell'intendere come legittimo non qualsiasi ordine,
ma solo un ordine che abbia questa caratterizzazione della giustizia: un ordine giusto. Questo
vuol dire assumere esplicitamente un punto di vista normativo nei confronti della politica
internazionale e quindi collide con la tradizione realista secondo cui ogni punto di vista
normativo estraneo alla politica e a quella internazionale pi che mai. Per le cose cambiano e
oggi questo approccio ha una sua consistenza e legittimit nelle discussioni filosofiche sulla
politica internazionale, pur non essendo n l'unico n il prevalente. Il porre il problema del
rapporto tra ordine e giustizia d origine a quella letteratura, largamente sconosciuta sul vecchio
continente e diffusa negli Stati Uniti e in genere nel mondo anglofono, che si chiama etica
internazionale. Si pu parlare di approcci normativi che riguardano tre aree sostantive: uno
quello delle sanzioni economiche e/o militari per il mantenimento dell'ordine internazionale e
dell'intervento umanitario, detto anche ingerenza umanitaria, negli affari sovrani di un altro
Stato. Questa in parte una ripresa, sotto segni abbastanza nuovi, perch cambiato lo scenario
(sono cambiate le armi, ma in parte cambiata anche la cultura) della tradizione del bellum
iustum.
Un altro capitolo importante quello dei diritti umani nei loro tre o pi livelli: diritti civili,
politici, sociali e ormai si parla di una quarta categoria o quarta generazione di diritti, quelli
ambientali, e anche di una quinta cio quella dei diritti riproduttivi. I diritti civili sono quelli che
riguardano che cosa lo Stato non ha diritto di fare, i diritti politici riguardano che cosa il
cittadino ha il diritto di fare, quanto potere gli spetta, qual la sua giusta parte nella spartizione
del potere. Infine i diritti sociali: alcuni dicono che i diritti sociali alla tutela della famiglia,
all'educazione, al lavoro, alla casa, all'assistenza, alla previdenza, devono essere considerati alla
pari degli altri e che quindi l'associazione politica deve essere ordinata a produrli, ed essa non
perfetta se, oltre a produrre la libert del cittadino, il potere democratico nel prendere decisioni,
non produce anche la sua effettiva possibilit di essere un cittadino responsabile, educato ecc.
Altri pensano che questi non siano diritti nel senso proprio, ma siano condizioni importanti o
necessarie per il godimento degli altri diritti civili e politici. In ogni caso sul piano
internazionale la tutela di diritti umani, non solo dei propri cittadini, ma dei cittadini di tutto il
mondo29, sta diventando un punto di vista importante nell'orientamento sugli affari
internazionali. Volendo parlare con un lessico diverso, che sta assumendo anche in Italia una
qualche diffusione, si pu dire che si tratta di questioni di cittadinanza: della questione di
definire a livello universale che cosa faccia parte della cittadinanza (se per essere cittadino uno
debba essere solo fruitore di diritti politici e civili o anche dei diritti sociali), di quando che
l'essere cittadino sia veramente tale. Ma la cittadinanza anche un problema di appartenenza,
perch io posso avere uno Stato liberale e per molti aspetti democratico come quello
29
Cio un problema, per dirla con Kant, di diritto cosmopolitico, che non riguarda le relazioni fra gli
Stati n le relazioni fra i cittadini e i singoli Stati, ma le relazioni fra i cittadini del mondo con tutti gli
Stati.
92
Furio Cerutti
configurato nella Costituzione degli Stati Uniti, e poi avere gli schiavi in casa, oppure posso
avere una bellissima polis in cui tutti sono cittadini e poi tenere le donne chiuse in casa e gli
schiavi nel cortile. La questione non solo della dimensione verticale della cittadinanza, ma
anche della sua dimensione orizzontale, cio della delimitazione del gruppo di popolazione a
cui si riconoscono i diritti di cittadinanza, che pu andare da quelli che fanno parte del mio
gruppo o addirittura di alcune classi o ceti particolarmente designati del mio gruppo; l'altro
estremo che tutti gli abitanti della terra abbiano pari diritti di cittadinanza: esistono solo
cittadini del mondo.
Il terzo capitolo delle etiche internazionali, che poi uno sviluppo della questione dei diritti
sociali a livello planetario, contiene le etiche della giustizia internazionale, pi esattamente
della giusta distribuzione di beni, di risorse alimentari, energetiche. Qui c' un sotto-capitolo
riguardante le etiche demografiche, un punto di vista etico sul problema della popolazione. Ne
fa parte anche l'argomento della scialuppa di salvataggio (lifeboat ethics) inventato da uno
studioso americano, G. Hardin, che dice che sbagliato aiutare i paesi poveri, gli affamati a
sopravvivere, perch questo non fa altro che incrementare la loro riproduzione e la
irresponsabilit nei confronti della riproduzione, e quindi non fa altro che peggiorare nel futuro
sia le condizioni dei loro posteri, sia degli eventuali donatori. La logica quella che in una
scialuppa di salvataggio (la Terra) che tiene 100 persone, quando ce ne sono gi 100 o 110 non
se ne fanno salire altre. Ma prevalgono gli approcci che argomentano invece il dovere o degli
individui o degli Stati di provvedere ad una pi equa redistribuzione delle risorse.
* * *
Al termine di un capitolo sul moderno credo utile una ricapitolazione del suo rapporto con
il conflitto, elemento con il quale la modernit pu leggersi come un confronto continuo, di cui
rammento qui quattro momenti:
1. In quanto nascita del Leviatano la modernit politica stata uno sforzo massimo di
rimediare alla distruttivit del conflitto civile con la creazione del potere supremo e
lattribuzione ad esso del monopolio della forza, ci che prescindendo dal dilemma della
sicurezza ha prodotto altres un dispositivo per sopravvivere e/o negoziare nel conflitto
interstatale.
2. Con il costituzionalismo si poi creato un antidoto ad una pacificazione illimitata ed
oppressiva del conflitto politico in quanto elemento costitutivo e vivificante della politica
stessa. Nello Stato costituzionale il conflitto possibile senza essere distruttivo.
3. Con il liberalismo la modernit ha cercato di porre lindividuo al riparo dalle
conseguenze oppressive sia dellordine leviatanico sia del conflitto non regolato.
4. Nel quadro definito da 1-3 la democrazia ha introdotto un dispositivo per cos dire
tecnico, la regola di maggioranza, per risolvere il conflitto senza lasciare che esso paralizzi o
distrugga la polis, allocando cio via via il potere secondo la mutevole maggioranza. Ma ci ha
senso solo come democrazia liberale, limitata dalla costituzione e dai diritti individuali.
Altrimenti quella regola perde legittimit, dando origine alla dittatura della maggioranza.
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Furio Cerutti
Furio Cerutti
Furio Cerutti
alluso indiscriminato ed appunto terrorizzante della violenza da parte degli apparati statali o di
partito (come nel caso delle SS naziste o delle Brigate nere della Repubblica sociale italiana,
entrambe dipendenti dai partiti e non dallo Stato, a differenza del KGB, il Comitato per la
sicurezza dello Stato sovietico, e delle sigle che lo precedettero) allo scopo di mantenere la
popolazione intera, e non solo i dissidenti od oppositori, in uno stato di permanente e
paralizzante timore dinanzi ad uno Stato assoluto e tirannico, ovvero totalitario, come ormai da
tempo si dice. La differenza primaria fra Stato totalitario (un esempio presente: la Corea del
nord e prima lIraq di Saddam Hussein) ed autoritario (la Libia di Gheddafi, il Portogallo
salazarista fino al 1974, la Spagna di Franco fino al 1975) sta appunto nel controllo completo
che il regime cerca desercitare non solo sulla politica, ma sulla societ intera tramite gli
apparati terroristici. Per sfiorare una querelle che ogni tanto risorge, il fascismo italiano voleva
essere totalitario, ma fu (per fortuna) velleitario anche in questo, finendo per essere pi
autoritario che altro anche perch non pot mai eliminare la presenza di forze ad esso estranee
come la monarchia e la Chiesa cattolica.
Esiterei invece ad usare il termine di terrorismo di Stato per il terrore usato come arma
bellica fra gli Stati, si tratti dei massacri di civili da sempre usati per intimorire o dei
bombardamenti a tappeto (con effetto fire storm) delle citt tedesche e di Tokyo da parte
degli Alleati o infine delle bombe atomiche esplose su Hiroshima e Nagasaki. Che in guerra si
cerchi di indebolire il nemico anche deprimendone il morale fa parte della dinamica della
guerra. Lo stesso dicasi per gli effetti collaterali sui civili di azioni miranti al suo nerbo
militare ed economico, anche se questa formula diviene talora un passepartout per giustificare
modalit doffesa che potrebbero discriminare fra combattenti e non-combattenti, ma in realt
non lo fanno. Che lo si faccia colpendo direttamente ed indiscriminatamente i civili e con mezzi
estremamente distruttivi costituisce una lesione delle leggi della guerra giusta (giustificata) ed
in particolare della proporzionalit fra i mezzi ed i fini leciti dellazione bellica, fra i quali
ultimi non rientra quello di terrorizzare la popolazione. Ma eccedere in violenza quando gi si
in guerra cosa diversa dal rompere la pace civile ammazzando i presunti nemici e cercando di
scatenare una guerra intestina.
2.Forme dincidenza indiretta
Qui metto al primo posto lomessa o ritardata regolazione di aspetti della vita associata che
contengono potenziali esiti letali: sicurezza nei processi lavorativi e nellambiente di lavoro,
sanit pubblica, traffico. Dalla diminuzione degli esiti mortali che solitamente consegue da
nuove e pi adatte leggi, regolamenti e finanziamenti si pu inferire che con ogni ritardo (per
lopposizione dinteressi particolaristici, o perch non si aggiornata in tempo lagenda
legislativa) la politica ha lasciato accadere pi morti che non fosse necessario in base alle
conoscenze e agli strumenti esistenti. Se sproporzionato e demagogico gridare in questi casi ai
politici assassini, pur vero che qui risiede un problema etico e politico di responsabilit
della politica e dei politici solitamente eluso dai dibattiti sia politici sia etici; anche qui, in una
sede meno drammatica di quella delle sfide globali, la politica e letica contemporanee
stentano ad adeguare la propria sensibilit ai problemi incessantemente creati ex novo dalla
sviluppo tecnico ed economico.
96
Furio Cerutti
Al secondo posto viene invece ci di cui, tanto pi nel paese ove ha sede la suprema
autorit della Chiesa cattolica, sempre pi si parla e talora si strilla: la legislazione sulla bioetica
umana, dalle terapie genetiche ai problemi di fine vita, ed ivi incluso laborto. Senza
addentrarci ora in tali questioni, come avviene invece negli ultimi due capitoli di queste
dispense, notiamo che questo un altro luogo supremo dellincontro fra decisione politica
(compresa la formazione della decisione) e vita/morte, spettando da qualche tempo ad essa non
solo approvare o negare come sempre stato - la liceit dellaborto (con le connesse
questioni di che cosa possa chiamarsi vita), ma il diritto di creare la vita e perfino quale vita
(problema delleugenetica) al di fuori dei processi naturali o di far cessare ogni processo
vitale quando la vita che resta appaia priva di qualit e dignit umane.
Le piaccia o no, anche la politica pi prosaicamente votata alla spartizione delle risorse e
aliena da o incapace di affrontare questioni supreme non pu pi fare meno di affrontare queste
ultime. Dal primo allultimo giorno della nostra vita, anche la pi pacifica e di routine che sia,
la politica ci accompagna anche quando non lo vorremmo o non ce ne rendiamo conto.
Furio Cerutti
Furio Cerutti
non detto che procedano di pari passo e che dove ci sia l'una ci siano anche le altre. Ci pu
essere la modernizzazione economica che funziona benissimo, almeno per un certo tempo,
senza modernizzazione politica; ci pu essere una modernizzazione culturale che non si traduce
in modernizzazione economica, perlomeno entro tempi prevedibili e previsti. Queste discrasie
temporali provocano disarmonie sociali e scontri politici e dottrinari (su quale sia la `vera'
modernizzazione su cui puntare).
Le teorie del capitalismo - sostenevo prima - si possono anche intendere come teorie della
modernizzazione. A me sembra in particolare che si possa leggere la grandiosa teoria marxiana
della genesi storica e della struttura logica del modo di produzione capitalistico come una
grande teoria della modernizzazione, e mi sembra sciocco contrapporre le teorie sociologiche
della modernizzazione al `vecchio e antiquato' Marx, perch uno dei primi che ha fornito una
grande ricostruzione della modernizzazione appunto Karl Marx - non nella sua filosofia
giovanile, che va bene per i filosofi o per gli storici della filosofia, ma nella teoria racchiusa nel
Capitale e nelle Teorie sul plusvalore30. Ne far ora un brevissimo riassunto.
Per Marx il modo di produzione capitalistico unepoca, la pi recente, ma non l'ultima,
della formazione economica della societ, insomma del processo continuo attraverso cui la
societ prende le sue diverse forme storiche. Marx ha l'idea che il processo sociale di vita,
quello attraverso cui la vita degli individui e delle societ si produce, si sostenta e si riproduce,
consista di due aspetti. Uno l'aspetto materiale che sostanzialmente l'interazione con la
natura: strappare alla natura materie o direttamente, oppure materie gi usate, residui di
precedenti processi lavorativi, e tras-formarle ai fini pertinenti alla riproduzione umana. Questo
quello che Marx chiama il ricambio organico fra uomo e natura, il processo attraverso cui
avviene la copertura dei bisogni umani ed un processo eterno, che c' sempre, perch se non ci
fosse il genere umano sparirebbe, anche se la sua scala e le sue forme tecniche cambiano
perch, dice Marx, diverso mangiare la carne cruda con le mani o cuocerla e mangiarla con la
forchetta e il coltello. Questo l'aspetto contenutistico; poi c' l'aspetto che lui chiama formale
del processo produttivo, in genere del `processo sociale di vita', il fatto cio che esso prenda
forma economica (la `formazione economica della societ'), una forma che ovviamente non
sempre la stessa, trasformandosi nei secoli. In questo cambiamento si possono ravvisare alcune
grandi epoche: c' il modo di produzione orientale, quello antico, quello feudale, poi quello
capitalistico, ma da come sono andate le cose si pu prevedere che ce ne sar un altro, quello
comunista. Il modo specifico capitalistico coincide con un grande fenomeno, una grande
trasformazione formale, cio il fatto che tutti gli elementi del processo produttivo prendono la
forma di merce, sulla quale Marx compie la sua famosa analisi ispirata alla logica hegeliana (si
veda il pezzo forte del Capitale, la prima sezione del primo libro, Merce e denaro). Ma quello
che pi importante, e che veramente definisce il capitalismo come capitalismo, che a
prendere la forma di merce la stesso forza lavoro, che diventa la merce forza lavoro, che pu
essere venduta dal lavoratore e comprata dal capitalista. con questo mutamento strutturale,
alle radici stesse dei rapporti fra gli uomini, che il capitalismo si costituisce come epoca nuova,
qui - diremmo noi - la radice o almeno una delle radici della modernizzazione.
30
Marx pubblic soltanto il vol. I del Capitale nel 1867, gli altri due volumi e le Teorie sul
plusvalore, che dovevano essere il quarto, uscirono postumi.
99
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Furio Cerutti
Coca Cola.
la circolazione mondiale degli stessi `dogmi' o parole-chiave, comunque interpretati: per
es. `democrazia', `lotta all'inflazione'.
3. Globalizzazione sociale o politica:
l'infittirsi ed estendersi di organizzazioni informali o "reti" transnazionali: per prendere
solo esempi estremi, mafie, scacchisti, terroristi ideologici di varia osservanza, pedofili.
lo stesso per quanto riguarda organizzazioni intergovernative ed anche sovranazionali
(nel pi recente uso terminologico queste sono le due specie del genere
"internazionale").
Ho scelto un approccio descrittivo alla globalizzazione perch filosoficamente di essa diversamente dalla coppia modernizzazione-capitalismo - difficile poter gi dire qualcosa di
sensato o addirittura definitivo. Per dirla sbrigativamente, essa pu portare ad una Cosmopolis
democratica ovvero ad una dispotica, cos come pu invece scatenare reazioni di tipo
tribalistico, giacch la globalizzazione culturale non significa necessariamente
omogeneizzazione su scala mondiale, provocando anche un rifiuto oppure una trasformazione
localistica delle immagini culturali globalizzanti (nel contesto di Brazzaville o di Wu Han la
Coca Cola pu avere un senso diverso che in quello newyorkese). La modernizzazione indotta
dalla globalizzazione, insomma, non vuol dire necessariamente occidentalizzazione.
In ogni caso, frettoloso, sul piano delle previsioni, ma anche degli auspici, dedurre dalla
globalizzazione lo sviluppo di una cittadinanza o di un governo mondiale. Sono comunque
questioni troppo problematiche e complesse per trattarne in un'introduzione alla filosofia
politica.
Diversa previsione si pu fare invece per le sfide globali che ho sopra indicato - rebus sic
stantibus - risiedere nelle armi nucleari e nel riscaldamento globale dellatmosfera con tutti i
suoi possibili sviluppi pi o meno sicuramente prevedibili e tutte le sue conseguenze
climatiche, biologiche, economiche (fame per sommersione o desertificazione di terre), sociali
(disordinate migrazioni di massa) e politiche (reazioni polemogene e/o dittatoriali alla risultante
insicurezza). Se vero che queste minacce riguardano, pi o meno indistintamente, tutti gli
abitanti della terra, e che solo sulla base della cooperazione di tutti possono essere affrontate
con qualche speranza di successo, vi in esse una possibilit di configurare il genere umano
come una comunit non-volontaristica, e quindi potenzialmente politica. Non il caso qui di
sviluppare questa tesi, chi voglia la pu trovare ampiamente trattata nel mio Global Challenges
for Leviathan: A Political Philosophy of Nuclear Weapons and Global Warming, 2007
(trad.ital. in preparazione per il 2009), ma era necessario enunciarla per illuminare quanto
viene detto sotto sulla modifica post-moderna della politica.
Il mio punto di vista qui non prescrittivo, cio del tipo: per risolvere questi nuovi
problemi come vuole la ragione o la legge morale occorrono istituzioni di tale o tal'altra fatta.
Neppure del tipo che chiamerei esigenzialistico: siccome la sovranit statuale indebolita,
siccome i processi hanno assunto scala mondiale, siccome gli uomini starebbero meglio se
governati in quest'altro modo, allora oggi enunciamo la necessit di istituzioni nuove ed
adeguate e domani le otterremo. Adottando il punto di vista che all'inizio di questo testo ho
chiamato analitico o ricostruttivo, cerco soltanto di dire - ma con lo sguardo rivolto al futuro,
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Furio Cerutti
dunque di prevedere - qual tipo di istituzioni possa essere richiesto ed alla fine imposto dai
nuovi problemi in ragione della loro struttura e della loro cogenza. Orbene, credo si possa dire
che i problemi posti dalla mondializzazione-globalizzazione verranno pi o meno bene gestiti
da istituzioni internazionali o interstatali o intergovernative (qui li uso come sinonimi).
Istituzioni (formali-legali o informali come i `regimi internazionali', per es. quello di nonproliferazione nucleare) che cio nascono da un accordo fra gli Stati e non richiedono una
formale e totale rinuncia alla propria sovranit; esse sono in grado di deliberare solo
all'unanimit, ed uno Stato membro pu sempre, sebbene non facilmente, ritirarsi in fase di
approvazione od esecuzione di una decisione (in gergo si chiama opting out). Sulla gestione
delle due sfide globali la previsione molto pi incerta: poich una sola rilevante defezione da poniamo - un accordo di disarmo nucleare o di riduzione di emissioni gassose a tutela
dell'ecosfera pu far saltare l'intero accordo e riacutizzare conflitti deleteri, sembra perci che le
sfide globali possano essere affrontate con sufficiente garanzia di successo solo da istituzioni
sovranazionali, aventi un potere di decisione e di esecuzione autonomo rispetto agli Stati, o
meglio rispetto a veti o comportamenti defettivi ed opportunistici da parte di singoli Stati. A
livello mondiale queste istituzioni non esistono, n in tempi politici le si pu pensare in
gestazione seguita da un parto; l'ONU ben distante dalla sovranazionalit, di cui vi sono in
essa solo alcuni pallidi elementi. A livello continentale (regionale, come si usa dire) elementi di
sovranazionalit si trovano solo nell'Unione europea, o pi esattamente nella parte comunitaria
(l'acquis communautaire), nella quale si decide a maggioranza. Essi non riguardano la parte di
high politics della costruzione europea, non essendovi alcun elemento di sovranazionalit (e
talora neppure di un'unitaria cooperazione intergovernativa) nella politica estera e di sicurezza,
in quella finanziaria e in quella fiscale dell'UE. Queste aree sono sottratte alla competenza
dellUnione oppure vi rientrano solo se c lunanimit.
Per la filosofia politica un aspetto pu tuttavia diventare interessante nei prossimi anni: lo
svilupparsi delle esistenti o imminenti istituzioni internazionali in un senso che - per forza di
cose, indipendentemente dalle ripetute proteste di intangibile sovranit da parte dei membri - va
aldil dei descritti limiti di tali istituzioni e rende meno netta e cognitivamente meno produttiva
la divisione internazionale-sovranazionale. Se le cose vanno avanti cos, per concettualizzarle
occorrer rivedere profondamente la moderna teoria dello Stato. A questa esigenza del resto
cospirano altres altri fattori come l'attenuazione od obsolescenza della separazione fra politica
e morale, soprattutto in prospettiva mondiale.
Concludendo: che la politica moderna con il suo Stato sovrano non sia pi in grado si far
fronte alle due maggiori sfide che la modernit stessa ha prodotto deriva, si detto, dalla scala
globale, letale e futuribile (proiettata nel futuro) delle sfide stesse. Spieghiamoci: la politica
come concepita da un Machiavelli o un Hobbes, da un Richelieu o un Cavour aveva due
caratteristiche. Poteva affidarsi ad un ambiente fisico e perfin sociale relativamente stabile e
pertanto, pur sovvertendo qua e l gli equilibri di potere, non aveva bisogno di chiedersi quali
fossero i suoi effetti pericolosi nel futuro lontano, come oggi invece dobbiamo fare decidendo
di emissioni di anidride carbonica o testate nucleari. Inoltre, quella politica aveva come oggetto
la redistribuzione di risorse scarse e diseguali, come si dice nella definizione che apre questo
testo; mentre oggi essa deve occuparsi anche di cosa affatto diversa, la salvaguardia per noi ed i
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Furio Cerutti
Furio Cerutti
della virt.
Le etiche che rispondono alla domanda che cosa giusto fare? pronunciano norme capaci
di regolare i nostri atti in base ad un principio o a pi principi interconnessi, indipendentemente
dai fini che gli attori possono proporsi in rapporto ad una qualche concezione del mondo, della
vita terrena od ultraterrena, della storia ecc. Queste etiche normative si distinguono in
deontologiche e consequenzialistiche.
Le etiche deontologiche ci dicono che un atto giusto o ingiusto, lecito od illecito in base
alla sua qualit intrinseca, rapportata ad un principio o regola generale dell'agire: un'idea della
ragione in morale ovvero ragion pratica, un'idea della dignit umana o altro. Il tipo-base di
queste etiche quella kantiana. Ad esso si richiamano oggi sia la teoria della giustizia di John
Rawls sia l'etica del discorso di Karl-Otto Apel e Jrgen Habermas.
Le etiche consequenzialistiche chiamano giusto quell'atto che produce il miglior esito
complessivo, visto da un punto di vista impersonale che d egual peso all'interesse di ognuno.
Di queste etiche il tipo fondamentale l'utilitarismo, che identifica quel miglior esito
complessivo con il saldo netto pi alto di piacere umano aggregato (piaceri meno dolori, e
riguardante la totalit degli individui).
L'utilitarismo ha subito in seguito una grande quantit di mutamenti, pi ancora delle teorie
deontologiche. Per un certo aspetto si pu dire che esso oggi sopravviva in due cose largamente
separate: un utilitarismo filosofico e prevalentemente metaetico da un lato, ed questo un esito
molto sbiadito rispetto all'utilitarismo sensista dei fondatori (Bentham, Stuart Mill). Per altro
verso l'utilitarismo uscito dalla filosofia ed diventato una pura e semplice teoria della scelta
razionale: theory of rational choice, che una trattatistica relativa a come prendere le migliori
decisioni, sviluppata nei terreni specifici dell'economia, in parte anche delle politiche
pubbliche, o in sotto settori come quello militare.
L'approccio utilitaristico si pu anche definire una teoria che giudica le azioni in base al
bene che producono, e non c' dubbio che esso contiene un elemento di correlazione dei mezzi
al fine, fine che uno sceglie come definizione dell'utilit.
Facciamo le seguenti osservazioni: 1) l'utilitarismo parla di bene,ma quando parla di bene
questo esclusivamente un bene non morale, scelto cio in base al gusto, in base alle
sensazioni, in base ai valori di una civilt, ma non compito di una teoria morale stessa
sceglierlo. Inoltre esso un bene aggregato, cio - si diceva una volta - derivante da piaceri, pi
avanti si disse scelte e oggi si dice preferenze individuali.
Occorre tenere a mente queste cose perch impediscono di confondere l'utilitarismo con il
teleologismo. Le teorie teleologiche, o etiche del bene, dicono che c' un bene comune, ovvero
un bene supremo, che viene definito in base ad una qualche teoria o religiosa o metafisica o di
filosofia della storia e che considerato al di sopra e al di fuori delle preferenze individuali, sia
come bene supremo di ciascun singolo individuo, sia come bene proprio della comunit. L'agire
morale di queste teorie consiste dunque nell'ordinare finalisticamente, non solo tutti i nostri atti,
ma tutta la nostra vita al conseguimento di quel bene, cio al conseguimento, all'avvicinamento
della nostra vita personale al modello di vita buona o - nel greco di Aristotele - `eu zen'.
Aristotele resta la base delle etiche teleologiche, di cui abbiamo di recente visto una
riproposizione negli autori detti appunto neoaristotelici (Alasdair MacIntyre, Charles Taylor).
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Furio Cerutti
Dovrebbero
risultare
evidenti
ed
incolmabili
le
differenze
fra
consequenzialismo/utilitarismo e teorie teleologiche, ma ne dico ancora una: mentre il
consequenzialismo resta una teoria normativa che giudica ogni singolo atto, il punto di vista
delle teorie teleologiche l'intero arco della nostra vita, del nostro agire morale, cio non il
singolo atto, ma l'habitus; in una parola le teorie teleologiche sono, non sempre ma spesso,
teorie della virt o, come meglio si dice, prendendo il termine aret dal greco, che significa
virt, teorie aretaiche.
Questo quadro d'assieme ci permette ora di riconsiderare meglio ci che sta al di fuori di
esso ed per rilevante per i comportamenti politici, cio per i rapporti tra morale e politica. Ne
stanno al di fuori le dottrine che non ci chiedono di conformare il nostro comportamento n al
giusto n al bene, ma a ci che opportuno dal punto di vista del nostro benessere egoistico
quanto all'obiettivo e delle regole di saggezza ed astuzia ricavate dall'esperienza quanto al
metodo. Per una serie di rigiri della storia delle idee e delle parole, ad una certo punto il
concetto e soprattutto il termine greco per saggezza pratica, non astratta, ma che consiste nel
bene muoversi nelle cose della vita, cio phronesis (una virt intellettuale per Aristotele), si
staccato dalla matrice originaria ed venuto ad indicare questa saggezza pratica nel senso di
una saggezza diversa ed addirittura opposta al punto di vista morale; siccome poi phronesis
stata tradotta dal tardo medioevo in avanti con prudentia, allora nella filosofia politica il punto
di vista prudenziale venuto ad indicare precisamente il punto di vista dell'opportunit, in
quanto altro rispetto al bene e al giusto. L'approccio prudenziale caratteristico del realismo
politico.
Furio Cerutti
comunque diversi da quelli morali: la prudenza degli individui, l'interesse o degli individui o
delle nazioni o delle classi, il rapporto amico-nemico. Ci sono varie sfumature del realismo:
una che ritiene che siccome il principio della politica, il suo telos il potere in s e non in vista
di qualcosa d'altro, ogni moralit non solo estranea e impotente, ma non vera: poich la
politica quella cosa e solo quella cosa, ci che in essa si presenta come moralit, in realt non
che ideologia (falsa coscienza) ed instrumentum regni. Esiste poi una forma pi moderata di
realismo che ritiene che il potere sia la sostanza ed il principio procedurale della politica, ma
non come fine a se stesso, bens in vista di un bene collettivo terreno, come la sicurezza, la
gloria, l'onore o comunque che il potere sia un remedium mali: pensano cos i teorici della
ragion di Stato che sono da ascriversi alla tradizione del realismo politico. Questa versione pi
equilibrata del realismo ritiene che, in un mondo in cui originariamente non v' altro che
insicurezza e paura, si possono bens aver in mente le idee pi generose, ma prioritario resta
assicurare a s ed al proprio gruppo la sopravvivenza, nonch condizioni migliorabili
d'esistenza. Per far questo occorrono il potere e la forza, raccolti nell'istituzione Stato, la cui
esistenza e difesa costi quel che costi (inganni, delitti e massacri compresi) condizione
irrinunciabile per ogni perseguimento del bene comune ed individuale. Questo tipo standard di
realismo pu essere pi finemente sottodistinto in realismo a base antropologica e realismo a
base strutturale. Il primo si giustifica considerando che negli attori politici, gli individui umani
anzitutto, la tendenza all'egoismo o alla supremazia-sopraffazione-arricchimento prevalga sulla
solidariet e benevolenza, e dunque sia necessaria la regolazione tramite il potere coattivo, di
cui la forza diventa elemento fortemente caratterizzante o perfino dominante, per evitare il
peggio. L'altro sotto-tipo prescinde da assunzioni pertinenti all'antropologia filosofica e vede la
ragione del prevalere della Machtpolitik (politica di potenza) nel permanere di condizione di
anarchia fra gli attori - il riferimento principale qui alla politica fra gli Stati. Ci permette di
pensare che, se mai l'anarchia venisse superata o attenuata (come abbiamo visto che sta in
effetti accadendo), anche la primazia `realistica' della potenza, del self-interest, della logica
prudenziale dovrebbe essere ridiscussa.
Queste ultime considerazioni aprono la strada ad una terza versione del realismo politico,
quella che dice che i valori morali possono farsi strada nella politica ed avere forte influenza su
di essa, solo se si tengono fuori dal quotidiano e comune accadere politico, se non pretendono
di guidare precettisticamente e moralisticamente il nostro agire politico, ma solo di ispirarne i
principi. Questo il punto di vista di chi non vede un'alternativa assoluta ed eterna tra realismo
politico e normativismo, sia perch molte delle condizioni sotto cui lo Stato moderno ha
tutelato la salus reipublicae si sono sostanzialmente (si pensi solo alle sfide globali, o alla pi
generale perdita di neutralit etica per quanto riguarda la tecnica) modificate; sia perch quella
contrapposizione non tiene conto del maggior articolarsi delle dottrine morali disponibili. Si
noti per esempio che i realisti politici, quando parlano di una morale che non ha niente a che
fare con la politica, hanno della morale una visione assai semplificata e mal informata: per loro
la morale quella deontologica e quella soltanto, n hanno essi nozione delle recenti tendenze
al pluralismo morale (diversi approcci morali a diverse sfere di azione e di relazioni; da non
confondersi con l'eclettismo).
Comunque si sviluppi in avvenire la controversia fra normativismo e realismo, non si pu
10
Furio Cerutti
chiudere la trattazione dei rapporti di etica e politica senza ricordarne un celebre, ed ancor
significativo (comunque lo si rielabori oggi) episodio teorico, affidato allo scritto Politik als
Beruf (Politica come professione/vocazione - questa sarebbe la traduzione esatta) che Max
Weber compose nel 1918, alla fine della Grande Guerra. Si tratta dell'ammissione da parte di
Weber (che i realisti considerano un loro padre spirituale) che il vero uomo politico, lungi dal
poter fare a meno di qualsiasi considerazione etica, di qualsiasi riflessione sull'orientamento del
proprio agire, deve nutrirsi di due etiche concorrenti, eppure indissolubilmente legate; il
mezzo specificamente politico della violenza a dare risalto al problema etico nella politica. La
Gesinnungsethik (etica della convinzione intima) ha dalla sua che anche la politica non si fa
solo con il cervello, come dice Weber, cio con il mero calcolo strategico, e che una fede
sincera nella propria causa impedisce alla politica, che per Weber questione di grandi scelte
(siamo in anni di guerre e rivoluzioni), di ridursi ad opportunismo prudenziale tutto dedito al
culto del potere. Ma tale etica sconfina facilmente nell'utopia millenaristica, e soprattutto nella
copertura offerta sia a mezzi altrimenti ingiustificabili, sia a vantaggi incontrollati di cui il
Gesinnungspolitiker ed i suoi seguaci vanno a godere, se riescono ad affermarsi, sotto il manto
delle loro alte convinzioni. Perci si possono far valere in politica le proprie convinzioni,
sostiene Weber, solo se si considerano quali saranno o sono state le conseguenze del proprio
agire e ci se ne assume la responsabilit, anzich scaricarla sulla nequizia od immaturit del
genere umano o dei propri concittadini. Con il nostro linguaggio, potremmo dire che un
approccio normativo, e specialmente deontologico, ai problemi etici, alle grandi e talora
tragiche scelte che si pongono in politica, giustificabile solo se si in grado di sostenerne le
conseguenze, commisurando mezzi e fini, intenzioni ed effetti controintenzionali o - come si
dice - perversi (non si tratta di consequenzialismo morale, che una delle etiche normative e
per il quale pure si porrebbero problemi di `etica della convinzione').
Il nesso fra le due etiche diventa questione drammatica quando i convincimenti intimi non
verificati dallintelligenza politica e dalla sapienza storica si pongono in contrasto irrefrenabile
con la realt e cercano di spezzare limpasse sia ricorrendo al disprezzo per la realt e per i suoi
abitatori, gli altri uomini, amici o avversari che siano, sia usando senza freni della violenza per
dimostrare a se stessi e al proprio gruppo di esistere e di contare. Si produce allora una delle
forme pi perverse di quel fenomeno del fanatismo che una patologia insieme della psicologia
(individuale e di gruppo), della cultura e della politica, e che ha connotato buona parte della
terribile storia del Novecento, ma si pu considerare una costante o un elemento ricorrente
nella storia. Lo ritroviamo oggi non solo nelle perversioni delle religioni, da Al Qaeda ai
fanatici induisti e ai cristiani fondamentalisti (quasi solo americani) che uccidono i medici che
praticano laborto; ma anche in quel terrorismo di matrice ideologica di cui si parla nel cap. 20.
24. I diritti
Nel
Furio Cerutti
salvo che in momenti in cui essa totalmente negata e la sua riconquista diviene un fine ed
una lotta unica e complessiva. In tempi normali ci imbattiamo ne `le' libert, quelle
fondamentali ed inviolabili, non solo nel senso che non devono venir lese, ma che non sono
neppure passibili di revisione. Si usa distinguerle in base alla loro sfera di allocazione:
- libert civili, fra cui primeggiano quelle personali, e fra queste anzitutto l'habeas
corpus, cio la libert rispetto al potere politico di non essere detenuti o uccisi se non per
forza di legge; seguono le libert di parola, religione, stampa, assemblea, associazione e i
diritti di propriet, alla difesa (nella tradizione anglosassone risalente alla Magna Charta del
1215 corrisponde allincirca alla nozione del due process of law) e ad un processo equo (fair
trial), infine alla tutela della propria sfera privata (privacy). La libert della stampa e in
genere dei media si classifica anche come libert strumentale, riguardando gli strumenti
indispensabili attraverso i quali si esplicano alcune delle altre libert precedenti (sul rapporto
fra libert e diritti v. sotto).
- libert politiche: si riassumono nella libert di non obbedire ad autorit se non
legittime, intrecciandosi dunque con il tema dell'obbligo politico.
Uno sviluppo di alcune di queste libert si trova nelle libert economiche, principalmente
quella di comprare e vendere quel che ci appartiene, compresa la nostra forza-lavoro,
ommerciando con tutti, e quella di produrre senza monopoli statali o privati che ce lo
impediscano di diritto o di fatto. Queste libert sono pienamente riconosciute ed attuate
soltanto nei paesi a pieno sviluppo capitalistico e dotati di un regime liberale e democratico.
Le libert fondamentali che abbiamo fino ad adesso catalogato prendendole dalla realt
politica e costituzionale, in quanto vengano riconosciute dagli altri e dalle istituzioni entro le
quali viviamo, diventano diritti di libert o come oggi pi generalmente si dice, diritti umani
(ma se si intendono i diritti in senso proprio, cio giuridicamente validi e vincolanti, occorre
dire diritti fondamentali). Prima di tutti vengono i diritti civili che sono tutti negativi, cio
che derivano dalla astensione di altri soggetti dal fare certe cose che possono limitare questi
diritti di libert: particolarmente derivano dalla astensione dello Stato a fare atti aventi effetti
limitativi. A questi diritti di libert negativi corrisponde, da parte di chi si deve astenere, un
dovere: ed una corrispondenza piena, cio si tratta di doveri perfetti e assoluti, non
occasionali e non discrezionali.
I diritti civili sono i diritti personali gi detti, i diritti riguardanti l'inviolabilit del domicilio,
della corrispondenza, la libert di movimento, di riunione, di associazione, di religione, di
pensiero e della sua espressione, quindi quello che si chiamava diritto alla libera stampa e che
adesso deve trovare un altro nome, non essendo pi la stampa in senso tecnico ad essere l'unico
strumento di espressione del pensiero. C' poi il diritto ad essere giudicato, cio il diritto al
giudizio come parte lesa; questo un diritto fondamentale che integrato dal diritto ad essere
giudicato solo dal giudice naturale e quindi non da un giudice inventato l per l, n tale che
proceda fuori dalle regole dello Stato di diritto, per esempio il cad: tanto meno un giudice fatto
apposta per colpire gli oppositori di un certo partito, come era il Tribunale speciale fascista per
la difesa dello Stato, o analoghe corti in analoghe dittature. I diritti civili si potrebbero ancora
suddividere in base alla loro genesi non storica ma logica. O sono diritti che preesistono allo
Stato; o derivano da un'autolimitazione dello Stato, come il diritto all'inviolabilit della
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Furio Cerutti
Lo ius sanguinis stato attenuato nella recente legislazione tedesca degli anni Duemila.
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Furio Cerutti
I diritti sociali invece, per non parlare di quelli di terza generazione (solidariet, sviluppo)
richiedono non l'astensione, ma l'intervento diretto e attivissimo dello Stato che deve darsi
molto da fare per dare lavoro a tutti, per dare istruzione a tutti, per garantire a tutti pensioni di
invalidit e di vecchiaia. Una cosa riconoscere il rilievo, l'importanza di queste pretese, per
esempio delle rivendicazioni del lavoro e della pensione in quanto condizioni per la piena
fruizione dei diritti di libert. Questo crea per lo Stato, e ancora prima per la societ civile, un
dovere, ma non perfetto e assoluto, a fare il possibile per dare a ciascuno lavoro, istruzione,
pensione in maniera da permettergli di essere lui un cittadino optimo iure, e ai suoi figli di
godere pienamente delle possibilit di sviluppo. Questa una cosa su cui pi o meno siamo tutti
d'accordo. Un'altra cosa attribuire a quelle rivendicazioni di condizioni, riconosciute
importanti per la fruizione stessa dei diritti di libert, il carattere di diritti. Questa un'altra
cosa, perch, se si tratta di un diritto, configura da parte dello Stato un dovere perfetto e
assoluto quanto quello di non mandarmi la polizia alle tre di notte per arrestarmi senza un
mandato di un giudice, di non aprire la mia corrispondenza, di non venire a bruciare le mie
Chiese o Sinagoghe. Riconoscerli come diritti significa obbligare lo Stato a garantire quelle
prestazioni a tutti, perch altrimenti ciascun cittadino pu andare di fronte ad una corte e
reclamare con successo di avere comunque un lavoro, una pensione, un'istruzione per i suoi
figli. Questo richiede che lo Stato si carichi, non come libera scelta discrezionale, ma come
dovere politico-giuridico di compiti che prima di tutto lo espandono enormemente dal punto di
vista sia della sua amministrazione sia, soprattutto, della fiscalit: uno Stato che deve fare tutte
queste cose diventa uno Stato fiscalmente esosissimo, che ha bisogno di una grande e costosa
amministrazione finanziaria e pubblica. In Italia abbiamo l'esempio di una situazione
particolarmente insoddisfacente nei confronti dei cittadini, ma anche negli altri paesi le
amministrazioni sono simili, seppur talora pi efficienti. possibile che lo Stato debba, per
adempiere a questi compiti, portare delle limitazioni di tipo burocratico ai diritti di libert, per
esempio tutte le limitazioni che spogliano il cittadino della sua individualit e lo rendono, per
dirla in maniera grossolana ma efficace, un numero e niente pi che un numero, come fruitore
della macchina assistenziale dello Stato. L'altra cosa distinta che i compiti sociali di cui lo
Stato si carica, contengono un notevole rischio di inefficienza nel senso tecnico, cio di un
rapporto mezzi/fini inadeguato; dati quei mezzi non si raggiungono i fini che con quei mezzi si
dovrebbero poter raggiungere, oppure dati quei fini si sono scelti mezzi, per sottostima oppure
qualitativamente, inadatti a raggiungere quei fini: questa inefficienza, da distinguere
dall'inefficacia, che riguarda il raggiungimento o meno di un obiettivo indipendentemente dai
costi. Inefficienza vuol dire che pu verificarsi che le risorse dei cittadini, non solo quelle
fiscali, ma certo queste prevalentemente, vengano per un verso sottoposte ad un'enorme
pressione, per un altro vengano allocate autoritativamente, cio da un'autorit centrale, nella
fattispecie lo Stato, che certo ha il titolo per farlo, ma che non ha l'obbligo di sottoporsi ad un
vaglio di efficienza; non v' cio un'istanza neutrale ed esperta che verifichi se le risorse usate
per fini sociali siano state usate in maniera tale da soddisfare almeno gli obiettivi minimi per i
quali sono state estratte dai singoli cittadini e gestite dallo Stato.
Inoltre riconoscere le rivendicazioni sociali come diritti pu peggiorare la cosiddetta crisi
fiscale dello Stato, cio una situazione per cui, indipendentemente dalla volont, per sole
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Furio Cerutti
questioni di proporzioni tra chi paga le tasse, quanto le paga, la potenzialit produttiva di
un'economia e le prestazioni di uno Stato, ci sia una sproporzione tale per cui lo Stato, anche
mettendo il massimo delle imposte, non riesca mai o a coprire le prestazioni sociali che
vengono richieste, e allora possibile che si abbia una crisi di legittimit perch la gente dir:
noi vogliamo questo, ti abbiamo eletto per questo, paghiamo le tasse per questo e tu, Stato, non
dai ci che noi vediamo altri Stati sono in grado di dare? Oppure, per dare questo a tutti e
quindi evitare la crisi di legittimit, lo Stato pu indebitarsi in maniera tale che il debito non sia
pi coperto dal gettito fiscale e quindi sia inarrestabile, arrivando a livelli economicamente
insopportabili, come quello di superare l'intero prodotto interno lordo, cose che sono pur
successe.
Furio Cerutti
insomma delle libert di autodeterminarsi secondo un piano o progetto, delle libert che
consistono nell'autorealizzazione dell'individuo, ovvero degli individui associati in un gruppo,
attraverso un'obbligazione assunta verso se stessi: sono libero di fare questa cosa perch la
voglio fare, perch mi impongo di farla e solo io la impongo a me stesso, ovvero noi la
imponiamo a noi stessi. Qui stanno le risposte alla domanda: chi governa e per che cosa? Sono
queste le libert tipiche del pensiero democratico e socialista, sia che le si ascriva a Rousseau,
in cui l'idea dell'autorealizzazione riceve la sua versione pi radicale, sia che non la si persegua
dentro la tradizione rousseauiana. Il problema che tra queste due libert esistono quantomeno
delle tensioni: esse non si accordano cos facilmente e secondo alcuni addirittura non possono
che scontrarsi. Infatti lo sforzo di realizzare le libert `di', che ci permettono la
autorealizzazione, pu implicare, e spesso implica, l'aumento del government, dell'autorit
pubblica, e quindi limita le libert `da', che massimamente fioriscono quanto pi piccolo il
governo, sia come quantit di vincoli e di proibizioni o imposizioni, sia anche come piccola
dimensione dell'apparato governativo.
Io ritengo, in larga compagnia, che il tipo di rapporto tra queste libert, cio fra le forme
politiche che le incarnano oggi, sia quello di un nesso interno reciprocante, nel senso che tuttora
non si pu pensare ad un pieno sviluppo delle libert `da', delle libert liberali, se non
nell'ambito della democrazia, della partecipazione universale alle scelte di chi governa.
Viceversa la democrazia non democrazia se non costruita non solo rispettando, ma
arricchendo il terreno delle libert `da', delle libert negative. Dalla critica marxiana in avanti, e
soprattutto nella sua vulgata socialista e comunista, si creduto che la democrazia potesse fare
largamente a meno, superandole in una libert pi alta, delle libert `da', e che l'unica vera
libert fosse quella, democratica, di essere cittadini di uno Stato pienamente democratico,
proletario ed operaio. Uno Stato in cui tutti, grazie alla diffusione universale del cibo, della
salute e dell'istruzione, potessero pi pienamente realizzarsi che non nei vecchi regimi in cui
alcuni erano, vuoi materialmente, vuoi culturalmente pienamente sviluppati, mentre gran parte
della popolazione restava nel sottosviluppo sociale ed intellettuale.
Si cos contrapposta una democrazia sostanziale o sociale ad una democrazia formale.
Questa stata una vera disgrazia per lo sviluppo della democrazia e del pensiero socialista, nel
senso che un'operazione fallita nel corso di decenni e decenni, in cui sono state vanamente
buttate energie e sparso sangue. Da questo punto di vista il crollo dei regimi comunisti ha
dimostrato che le pretese `democrazie popolari' ovvero sostanziali non erano solo regimi di
illibert, che negavano le libert `da', le libert negative, liberali; anzi la scoperta storica pi
rivelatrice per chi non lo sapeva o non lo voleva sapere che esse erano insieme quelle che
meno permettevano lo sviluppo pieno dei cittadini.
Si visto cio che la stessa base dell'eguaglianza, insomma la creazione delle migliori
condizioni sociali e culturali per la partecipazione di tutti al potere, non possibile se non
facendo partecipare tutti, e non solo retoricamente, ma effettivamente, al potere stesso,
lasciandoli liberi dalle oppressioni di un governo dispotico e burocratico e lasciando che tutti si
esprimano come vogliono. Ci vuol dire che bisogna riconoscere che tutti i cittadini non si
potranno mai esprimere come `tutti', ma si esprimeranno come questi e quegli altri, cio si
esprimeranno divisi in partiti, in opinioni che devono avere la possibilit di partecipare, divisi
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Furio Cerutti
fra chi si occupa di politica e chi vive nella societ e si occupa di questa o quella funzione
sociale. Tutti devono poter partecipare in piena libert alla spartizione del potere, quindi alla
vita politico-istituzionale, alle elezioni, perch si visto che senza la piena garanzia delle
libert liberali, non si hanno due cose che sono essenziali allo stesso sviluppo economico e
sociale e quindi alla piena realizzazione dei cittadini e, s'intende, delle cittadine. Non si ha
sufficiente informazione sullo stato del paese dei cittadini, di quello che essi vogliono o non
vogliono. La vita politica liberale prima di tutto un grande fenomeno di osmosi e
comunicazione fra chi governa e chi governato: se si tolgono e si riducono le libert, l'osmosi
si ferma, le informazioni non vengono pi passate e i governanti fanno di testa loro e spesso se
la rompono. L'imbrigliamento delle libert `da' impedisce la cosa pi elementare di un regime
politico che implementi i principi del liberalismo e cio il controllo sul governo; se non ci
fossero sindacati liberi che possono fare sciopero quando vogliono, se non si avessero partiti
che possono fare l'opposizione in Parlamento, se non si avesse anzitutto una libera stampa, non
si avrebbe un controllo sul governo.
Per illuminare pienamente la relazione di libert ed eguaglianza conviene ora approfondire
concettualmente il secondo termine. Si possono fare tante distinzioni fra i vari concetti di
eguaglianza, si pu fare una distinzione tra un'eguaglianza sostantiva e un'eguaglianza
procedurale: l'eguaglianza sostantiva quella che consiste nell'attribuire a ciascuno una certa
quantit di beni, secondo criteri diversi di eguagliamento o, come si dice in un italiano un po'
sindacale, di perequazione o, in maniera pi teorica, di redistribuzione. Per fare l'eguaglianza
sostantiva ci sono criteri diversi (numerica, proporzionale) che sono esposti nella voce
Uguaglianza del Dizionario di politica. L'eguaglianza procedurale consiste invece non nel dire:
ti do tot in base al criterio y per portarti alla situazione tendenzialmente egualitaria o meno
diseguale z, ma consiste nel dire semplicemente: qualunque cosa ti dia o non ti dia, vi tratter
tutti in modo eguale, finch non vi siano ragioni che giustifichino di trattarvi in maniera
diseguale. Oggi per la coppia concettuale pi nota e pi utile in filosofia politica la coppia
eguaglianza di posizioni o di benessere - eguaglianza di opportunit: l'eguaglianza di posizioni
quella che Ronald Dworkin, uno dei massimi filosofi del diritto dei nostri giorni, chiama
trattamento eguale, cio l'eguaglianza che consiste nel fare in modo che tutti abbiano
tendenzialmente la stessa quantit di beni, anche redistribuendo il prodotto in maniera
necessariamente diseguale a fini perequativi. Sulla base di questo concetto di eguaglianza si
costruisce un forte apparato redistributivo e quindi uno Stato fortemente dirigistico, come si
dice in maniera polemica, e soprattutto un grande apparato burocratico che deve prendersi cura
di tutti e fare in modo che tutti stiano tendenzialmente allo stesso modo.
L'altra eguaglianza quella di opportunit o di risorse, che certamente include sempre
l'eguaglianza di diritti fondamentali, ma non si riduce a questa. Essa non vuol dire trattare tutti
in modo eguale, ma vuol dire trattare tutti con eguale rispetto e considerazione, considerare
legittime e degne di tutela le aspirazioni e le preferenze di tutti e di ciascuno, e provvedere tutti
e ciascuno dei mezzi basilari per poter sviluppare queste preferenze, talenti, aspirazioni. En
passant, se lo Stato sociale, che in altre versioni si chiama welfare state o anche Stato
assistenziale, che gi una forma degenerativa di Stato sociale, stato la grande figura, l'idea
dominante gli anni Quaranta-Settanta di questo secolo, avendo beninteso radici nei decenni
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Furio Cerutti
precedenti, oggi sia per sviluppi interni al pensiero democratico, sia per la critica durissima dei
neoliberali, siamo piuttosto in una fase in cui l'idea dell'eguaglianza abbandona l'idea
`egualitaristica' di eguaglianza redistributiva di posizioni, e si riavvicina a questa versione, che
chiamerei liberale, dell'eguaglianza di opportunit, di risorse, di punti di partenza per tutti.
26. Giustizia
Con questa categoria di massimo impegno teorico abbiamo ancor pi problemi che con
libert ed eguaglianza, con le quali essa viene spesso posta in una triade. La complessit del
tema tale che, in un testo introduttivo come questo, conviene limitarsi ad elencarne ed
illustrarne brevemente un certo numero di significati, senza nemmeno tentarne un'esposizione
sistematicamente unitaria. Basti infatti pensare che - prescindendo dalla possibilit od
opportunit di tematizzare la distinzione fra giustizia come sostantivo e come aggettivazione
(giusto-ingiusto) - questa categoria rilevante tanto per la politica quanto per la morale e il
diritto, e non sar nemmeno possibile districare sempre questi tre piani. Cominciamo dunque
l'elencazione.
1. Giustizia, libert ed eguaglianza sono tre valori, ma mentre questi ultimi due possono
anche venir semplicemente descritti (il tale regime libero, nella tale societ v' eguaglianza) in
base a certi criteri che definiscono cosa libert e che cosa eguaglianza, la giustizia implica
sempre anche un aspetto normativo: il tale regime ingiusto, la tale societ giusta significano
un obbligo a condannare o combattere il primo e a riconoscere o promuovere la seconda.
opportuno porre attenzione a non confondere i tre termini, soprattutto giusto ed eguale:
una distribuzione eguale di beni non significa eo ipso trattarsi di una distribuzione giusta, se a)
questi beni vengono distribuiti egualmente a soggetti di ineguale condizione, oppure b) la
distribuzione eguale, o anche quella perequativa (dare di pi a chi ha di meno), lede altri valori,
come la libert, che uno pu considerare pari o superiore all'eguaglianza.
2. Il punto di vista di ci che giusto o ingiusto caratterizza ogni filosofia politica
normativa, quale che ne sia la concreta configurazione - questo vale per Platone come per
Agostino, per Aristotele come per Rawls, per restare a pensatori di cui proposizioni riguardanti
la giustizia sono citate in questo testo. Assumere quel punto di vista implica una presa di
distanza critica rispetto all'assetto di fatto del potere e la richiesta che esso si legittimi in base ad
un criterio metafattuale o perfino metapolitico (morale, teologico, giusnaturalistico). Questa
giustificazione in base a criteri di giustizia fondamentale fra i criteri di legittimit (v. sopra nei
capp. 12-13) in base ai quali esaminare un regime politico
Ripeto peraltro qui la duplice valutazione che una filosofia politica che escluda
radicalmente, come fa il realismo politico tradizionale, questo punto di vista risulta ottusa, sia
rispetto alla complessit della politica moderna, per capire ed orientarci nella quale abbiamo
bisogno, in prima istanza, tanto di Machiavelli quanto di Kant, sia rispetto alla politica
contemporanea, che sta andando comunque al di l di Kant e di Machiavelli. Ma ritengo
altrettanto essere futile una filosofia politica che si ritenga filosofica solo perch esalta il
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Furio Cerutti
momento normativo e di esso, cio di una qualche teoria della giustizia o della democrazia
come dovrebbe essere, si appaga, quasi che le questioni di paura/sicurezza, potere e
conflitto/guerra non riguardassero lo sforzo di pensare filosoficamente la politica.
3. In ragione di quanto detto sotto (1), si deve distinguere fra a. concezioni sostantive della
giustizia, che la identificano con la conformit di atti, norme, leggi, regimi ecc. con certi valori
sostantivi come l'eguaglianza (in una delle sue diverse versioni), od un certo ordine cosmico,
come nel pensiero greco, od un ordine naturale fondamentale, come quello ipotizzato nel
giusnaturalismo; e b. concezioni procedurali, che la identificano con una massima formale,
adattabile a qualsiasi situazione - l'interpretazione della situazione e il modo di
quell'adattamento sono, come ormai sappiamo, cos problematici che rendono altamente
fungibili, e dunque soggetti alle pi varie torsioni, quelle massime.
Fra queste ricordiamo quelle del diritto romano, che individuano il comportamento giusto
in quello che d a ciascuno il suo (unicuique suum) o che non reca offesa ad alcuno (neminem
laedere) - come illustrazione dell'adattabilit di queste massime si ricordi che la prima (Jedem
das Seine) pot venire scritta dai nazisti sul cancello d'entrata dei campi di sterminio. Nella
tradizione giudaico-cristiana, la suprema norma di giustizia la Regola aurea, enunciata da
Ges Cristo nel Discorso della montagna: tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi,
anche voi fatelo a loro: questa infatti la Legge e i Profeti (Matteo 7, 12), ovvero con la
misura con cui misurate, sar misurato a voi in cambio (Luca 6, 38). Nell'imperativo
categorico kantiano agisci in modo che la massima della tua azione possa divenire fondamento
di una legislazione universale (i filosofi morali odierni lo chiamano test di universalizzabilit)
pu vedersi una rielaborazione di quella norma.
4. In filosofia politica, ma non solo qui, rimane fondamentale la distinzione aristotelica fra
giustizia commutativa e distributiva.
La giustizia commutativa o retributiva riguarda il modo di trattare un singolo (individuo o
gruppo) in una data situazione secondo un criterio che possa essere adottato per tutti i singoli
che si trovino in pari situazione. una giustizia di scambio o fra beni o fra mali, 32. Nei classici
del pensiero politico e sociale rimane celebre la critica all'apparente `giusto scambio' di capitale
e forza-lavoro nel Libro primo del Capitale di Marx.
La giustizia distributiva riguarda invece la distribuzione di beni, materiali od immateriali,
fra pi attori (individui o gruppi) nell'ambito di un insieme: la societ per la giustizia fra classi o
ceti, il globo per la giustizia fra Stati e/o popolazioni33. Criteri classici nelle dottrine relative alla
giustizia distributiva sono ad ognuno secondo il suo merito (se ne trova eco ovunque, anche
nell'art. 33, comma 3 della nostra Costituzione, che attribuisce gli aiuti statali per raggiungere i
gradi pi alti dell'istruzione ai capaci e ai meritevoli); oppure, per restare a Marx, ad ognuno
secondo il suo lavoro (nella prima fase della societ comunista) e ad ognuno secondo i suoi
bisogni (fase pi avanzata di questa societ; si veda Critica del programma di Gotha, del
1875).
32
Come spiega Bobbio in La grande dicotomia: pubblico/privato, in idem, Stato, governo, societ,
Torino 1985.
33
Si parla allora di giustizia internazionale, un'area di studi e di proposte che si venuta sviluppando
solo recentemente in ordine ai cosiddetti rapporti Nord-Sud del mondo: cfr. L. Bonanate, Etica e
politica internazionale, Torino 1992.
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Furio Cerutti
Nel nostro secolo, fallite ed ancor prima rifiutate - anche dal movimento operaio
occidentale - le rivoluzioni che avrebbero dovuto portare al comunismo, l'idea della giustizia
distributiva congiunta a quella dell'eguaglianza venuta a presentarsi come compito assegnato
allo Stato (Stato, appunto, sociale) per compensare le ineguaglianze prodotte dall'economia
capitalistica di mercato, cui anche la sinistra veniva riservando la funzione di produrre
efficienza economica, cio sempre pi ricchezza con sempre minor impiego di risorse.
Efficienza-mercato e giustizia sociale-Stato sono stati per decenni la formula vincente (si pensi
all'`economia sociale di mercato' tedesca) nei paesi occidentali, soprattutto europei, almeno fino
alla correzione o capovolgimento di questa linea imposti a partire dal 1979 in Gran Bretagna
dal governo conservatore di Margaret Thatcher (poi John Major) e dal 1981 negli USA dalla
cosiddetta reaganomics (Reagan's economics) del presidente repubblicano eletto nel 1980.
Ritorneremo nel paragrafo seguente sulla giustizia distributiva sotto il profilo teorico.
5. Ritengo opportuno segnalare un'ulteriore distinzione emergente nell'uso linguistico, di
cui non svolgo per qui le possibili implicazioni filosofiche; si tratta di una distinzione
trasversale rispetto ad altre qui ricordate.
C' un senso di `giusto' che implica semplicemente un agire corretto rispetto ad una legge o
a criteri comunque formalizzati. Abbiamo visto nel cap. 16 la `guerra giusta', cio giustificata in
ordine a certi criteri restrittivi. Abbiamo menzionato il `giusto salario' nello scambio fra capitale
e lavoro nonch la critica marxiana all'ingiustizia-ineguaglianza ivi contenuta. d'uso comune
la nozione di `giusta sanzione penale'. Giusto significa qui soltanto un obbligo, determinatasi
una certa situazione, ad agire nel suo ambito rispettando certi criteri; non un obbligo e tanto
meno una motivazione a fare qualcosa. Ci si muove qui prevalentemente sul piano della
giustizia commutativa/retributiva, anche se non parlerei di un'identit con siffatto piano.
C' poi un senso pi enfatico di `giusto' in cui la giustizia associata, pi o meno
tacitamente o surrettiziamente, con altri valori, come l'eguaglianza nel caso della giustizia
sociale, o con ideali evolutivi come il progresso o la rivoluzione. Qui `giusto' implica una
doverosit a fare qualcosa, prendendo l'iniziativa e avanzando fino al compimento. Fiat
iustitia, pereat mundus il motto del deontologismo morale radicale; ribellarsi giusto era
una massima centrale nel pensiero politico di Mao Zedong; creare una societ giusta stato
ed l'ideale del socialismo democratico; `Giustizia e libert' stato il binomio che ha dato
nome ad una delle forze principali dell'antifascismo e poi della Resistenza in Italia.
Sempre sul piano linguistico, ulteriori lumi verrebbero dalle riflessioni che si possono fare
sui diversi corrispondenti di `giusto' nelle lingue germaniche (right/just, recht/gerecht), nonch
sulla coppia, ancora da menzionare, equity/fairness.
6. Anche sul piano giuridico la giustizia si presenta come un metalivello normativo rispetto
al diritto. Per soddisfarla non basta che il diritto sia la legge, anzich la volont di un capo o di
un popolo o di una rivoluzione. Occorre altres che il diritto non si limiti alla legge positiva, a
ci che comandato dall'autorit politica pur legittima, ma incarni qualche principio civile,
morale o religioso di giustizia (ius non iussum, sed iustum).
Altra cosa la giustizia intesa come realizzazione-amministrazione del principale valore
intrinseco ad ogni ordinamento giuridico. Qui si presenta l'alternativa fra la giustizia identificata
con la corretta applicazione di una legge in quanto norma generale (propria di rule of law 11
Furio Cerutti
Rechtsstaat - Stato di diritto, cfr. sopra cap. 13) e l'equit (equity), cio una gestione del diritto
affidata alla flessibilit, senso della concretezza dei casi e discrezionalit di giudici e corti (si
ricordi, per un caso estremo di equit, il brechtiano giudice Azdak citato nel cap. 13
34..
7. Si dice nel linguaggio comune che agire secondo giustizia l'opposto dell'agire secondo
criteri d'utilit. Ci vero se s'intende l'utilit, il tornaconto momentaneo di un individuo.
L'utilitarismo come filosofia morale invece conosce come suo criterio essenziale la giustizia, o
meglio la giustezza (rightness) delle azioni che pi contribuiscono ad ottimizzare il piacere o la
felicit aggregate degli individui.
Per approfondire questa differenza, ma anche la sua evoluzione, cfr. la voce Giustizia scritta da M.
Cappelletti per l'Enciclopedia delle Scienze Sociali della Fondazione Treccani, vol. IV, Roma 1996.
35
A Theory of Justice, 1971; Political Liberalism, 1993, entrambi tradotti, e pi tardi i Collected
Papers. Gli aspetti etici del pensiero di Rawls, come degli altri autori sotto menzionati, possono esser
visti in E. Lecaldano, Etica, Utet 1995; ed una rassegna critica (dal punto di vista normativistico) di
quelle filosofie si trova in W. Kymlicka, Contemporary Political Philosophy. An Introduction, Oxford
1990, trad. it. Feltrinelli, Milano 1996.
11
Furio Cerutti
del razionalismo normativo (deontologico, ma con elementi pur tratti dalla sua critica
dell'utilitarismo) del liberal Rawls sono i communitarians come (con molte differenze fra di
loro) Michael Walzer, Michael Sandel, il canadese Charles Taylor ed il gi menzionato
Alasdair MacIntyre. Essi ritengono che le astratte regole del contratto sociale siano insufficienti
a tenere insieme gli individui, di cui verrebbero anzi aumentati l'atomizzazione e l'orientamento
all'utile individuale. Non lo Stato liberal-democratico (che non viene rifiutato, ma giudicato
insufficiente e burocraticamente impersonale), bens l'identit organica (non mera sommatoria
degli individui) della comunit etnica e/o locale e/o religiosa, con la forza delle sue tradizioni e
la concretezza personale delle sue relazioni, pu rimediare alla disgregazione sociale. Il
comunitarismo - come viene ora chiamato in italiano - un fenomeno culturale tipico della
storia e della sociologia degli Stati uniti, mentre per l'aspetto teorico gli argomenti contro
l'astrattezza normativa si trovano gi svolti, ad alto livello filosofico, nella critica hegeliana
della morale kantiana; inoltre alcuni di questi autori ignorano che le loro posizioni ripetono
topoi del pensiero romantico, anticapitalistico e antimoderno, o peggio dell'organicismo sociale
che in Europa ha preceduto le ideologie fasciste. Ciononostante la disputa liberalscommunitarians diventata un passaggio obbligato della filosofia politica, anche fuori del suo
terreno originario americano. 36
Fuori dal terreno appena descritto, la principale filosofia politica normativa, ben nota in
Europa come in America e nel resto del mondo, quella di Jrgen Habermas, la cui opera
principale Teoria dell'agire comunicativo del 198137. Habermas considerato il punto d'arrivo
della cosiddetta scuola di Francoforte, cio di quel gruppo di studiosi, quasi tutti ebrei e quasi
tutti francofortesi, originari o assimilati, e comunque membri dell'Istituto per la ricerca
sociale,38 fondato a Francoforte sul Meno nel 1923, che sotto il nazismo si trasfer a New York.
Quello americano fu il periodo pi ricco e pi vitale dell'istituto, il cui nome ufficiale `teoria
critica della societ', che pi o meno voleva dire marxismo critico e non-ufficiale, ma poi
assunse il significato di un punto di vista autonomo. La figura leader era quella di Max
Horkheimer, la cui principale attivit si svolse negli anni Trenta-Quaranta.. Poi c'erano
Friedrich Pollock, l'economista, l'ex-allievo di Heidegger, Herbert Marcuse, e Theodor
Wiesengrund-Adorno, che era il pi giovane e versatile o geniale (musicologo, sociologo,
critico letterario, ma prima di tutto filosofo). L'opera principale della teoria critica, che la
Dialettica dell'illuminismo (Dialektik der Aufklrung), scritta nel 1944, pubblicata nel 1947 e
venuta alla notoriet negli anni '60, non scritta, come molti banalmente dicono in ordine
alfabetico, da Adorno e Horkheimer, scritta invece - come si vede dal frontespizio - da
Horkheimer e Adorno: quest'ordine ha un senso preciso nella genesi della teoria critica. Altri
membri sono, per la teoria politica, Otto Kirchheimer e Frank Neumann, che ha scritto un
grande libro sul nazismo (Behemoth, 1942) ed un importante articolo su paura (o angoscia) e
36
Per riassumere le posizioni esposte fin qui nel presente paragrafo mi sono in parte servito dei
corrispondenti lemmi in R. Scruton, A Dictionary of Political Thought, MacMillan, London 1996.
37
Habermas ha scritto tante altre cose che sono tutte tradotte in italiano, anche l'ultima opera
sistematica, che riguarda la teoria della democrazia e del diritto: Fatti e norme, il cui titolo originale
un po' diverso (Faktizitt und Geltung, 1993)
38
Institut fr Sozialforschung\Institute for Social Research.
11
Furio Cerutti
politica nel 1954, anno in cui Neumann mor prematuramente in un incidente d'auto.
Il problema della teoria critica di dare conto, di riformulare alcuni grandi temi sulla sorte
della modernit, quei grandi temi che Marx aveva espresso in termini di reificazione, cio
sostituzione ai rapporti umani ed interpersonali dei rapporti cosali che si istituiscono tra i
prodotti del nostro lavoro appena questi prendono la forma di merce. Reificazione fa coppia
con feticismo, fenomeno che si ha quando le cose, i rapporti di merce e di denaro si presentano
come fossero essi stessi rapporti sociali. Un altro grande tema quello che Max Weber, l'altro
grande interprete della modernit e del capitalismo in alternativa a Marx, aveva espresso in
termini di razionalizzazione, prima di tutto della nostra condotta di vita (L'etica protestante e lo
spirito del capitalismo, 1905), o come disincanto, razionalizzazione e burocratizzazione del
mondo, figlie di una razionalit incapace di interrogarsi sui propri fini e rivolta solo alla scelta
dei mezzi. Questo lo sfondo principale su cui nasce la teoria critica, di cui il documento
principale, la gi citata Dialettica dell'illuminismo, sostiene la tesi che la razionale scienza
moderna, che si pretende diversa da e superiore al mito, ricade invece nella mitologia (fra
l'altro, con l'esaltazione positivistica dei `fatti'), non essendo capace di riconoscere i limiti della
ragione ed il nesso fra il dominio dell'uomo sull'altro uomo, quello dell'uomo sulla natura e
quello dell'uomo su se stesso. Si aggiunge poi, in successivi scritti di Horkheimer, la critica
della ragione strumentale, la critica alle irrazionalit e agli orrori prodotte dalla ragione quando
essa si chiuda nella scelta dei mezzi, ai soli fini del potere sulla natura e del potere sugli altri
uomini, e non sia pi rischiarata da un ideale illuministico pieno. Quello che poi Habermas
risusciter chiamandolo il progetto della modernit, il progetto di dare alla modernit, al
capitalismo, allo Stato moderno un'anima razionale nella sostanza, che non si esaurisca in
quella razionalit strumentale o tecnica che secondo la vecchia teoria critica ha portato - fra
l'altro - ad Auschwitz.
Habermas a partire dai tardi anni Sessanta la pensa diversamente: per spiegare la societ
non si pu ricorrere ad un unico principio o schema, nemmeno a quello che la ragione
illuministica incapace di autocritica produce disumanit. La societ va invece ormai intesa in
base a quello che Habermas chiama uno schema binario, composto di sistema e Lebenswelt, il
mondo della vita, che un concetto husserliano che arriva ad Habermas attraverso la sociologia
fenomenologica di Alfred Schtz (o Schutz, come scrivono in USA, dove questo ebreo
viennese emigr). La Lebenswelt l'insieme di linguaggio, conoscenze, concezioni tramite cui
noi capiamo il mondo, e da cui noi, attivandole come motivazioni e forme comunicative,
caviamo gli orientamenti per la nostra vita di tutti i giorni. La modernit consiste nel portare
dentro il mondo della vita, e soprattutto entro alcuni suoi settori, un forte impulso alla
razionalizzazione, che Habermas ritiene processo irreversibile per quanto riguarda i due
subsistemi di cui formato il sistema sociale: quello economico e quello politico, in cui non
contano le personalit, gli intendimenti o le norme, ma quelli che Luhmann e i pensatori
sistemici come lui (da cui qui Habermas alla fine attinge, pur essendone un critico sostanziale)
chiamano i due codici, che sono per il sistema politico il potere, e per il sistema economico il
denaro. Si tratta di subsistemi che sono dominati dall'agire strategico, cio dall'agire volto a
disporre le nostre relazioni con le cose e con gli altri uomini in conformit al fine che ci siamo
noi stessi, per nostra esclusiva scelta od interesse, proposti. Al di fuori dei subsistemi
11
Furio Cerutti
rimangono gli ambiti della riproduzione sociale: la cultura, l'educazione e le relazioni personali,
che sono regolate dall'agire comunicativo, cio da quello che volto all'intesa con gli altri
attraverso procedure argomentative libere da istanze di dominio, e quindi non manipolative o
persuasive, quelle in cui ho gi deciso cosa voglio che l'altro faccia o ci di cui voglio che l'altro
si convinca.
Questo un agire in cui l'istanza ultima non l'istanza dell'utilit, dell'egoismo e neppure
della scelta razionale dei mezzi, ma la ricerca dell'intesa fra i molti soggetti partecipi. questa
una teoria critica che passata attraverso la svolta linguistica della filosofia e che pertanto si
vanta di avere sostituito come schema fondamentale lo schema intersoggettivo e comunicativo
a pi soggetti a quello tradizionale e monologico di soggetto-oggetto, proprio della filosofia
della coscienza, come la chiama Habermas. Comunicazione e intesa si sviluppano non in base
agli interessi fra cui cercare un compromesso, ma in base alle pretese argomentabili di verit tra
i soggetti. Il punto che questa binariet di sistema e Lebenswelt non cos pacifica: dai due
subsistemi, politico-burocratico ed economico, partono quelli che Habermas chiama imperativi
sistemici, che cercano di sottomettere alla logica di potere e di denaro le stesse sfere intoccabili
della riproduzione: la cultura, l'educazione, e la riproduzione personale, rischiando di
impoverirne e disseccarne la linfa e il senso. Queste sono tematiche che Habermas ha chiamato
il pericolo della colonizzazione della Lebenswelt.
L'ultimo sforzo di Habermas quello di riprendere la teoria dell'agire comunicativo per
svilupparne una teoria della democrazia e della sovranit popolare. La filosofia politica di
Habermas si accompagna ad una teoria morale che egli ha sviluppato insieme con Karl-Otto
Apel e che si chiama `etica del discorso': si tratta di una teoria costruttivistica, universalistica,
quindi kantiana, ma strettamente proceduralistica, e qui sta l'innovazione rispetto al kantismo.
Furio Cerutti
E vano voler indicare una priorit fra queste motivazioni, essendo lessere umano il
coacervo che ed essendo la politica uno specchio fedele di questa pluralit di moventi e dei
loro sviluppi. Il tentativo di riportare tutto a spiegazioni in termine di scelta razionale, proprio
di una buona parte della scienza politica soprattutto americana, appare a questo autore ottuso.
Resta che non si pu capire lagire politico soprattutto dei gruppi (partiti, Stati, alleanze) se non
si tiene fermo che 1) sempre presente. Si noti che alcune di tali questioni vengono riprese
nelle voci di Filosofia sociale.
Risaliamo sulla superficie della terra. Qui i nostri concittadini (nazionali, europei, del
mondo) fanno politica in modi e secondo moduli a cui meglio non applicare direttamente in
chiave esplanatoria le categorie sviluppate in questa introduzione alla filosofia politica, perch
non funzionerebbe. Prima di tutto si tratta appunto di categorie, quindi di concetti altamente
astratti, senza i quali ci perderemmo nella selva dellaccadere concreto, ma che per essere messi
a frutto per capire questultimo abbisognano come diceva Marx di una massa di termini
intermedi concettuali, storici, geografici ed altro. Inoltre nellaffrontare il mondo sub specie
filosofia politica (per illuminarne la specificit e produttivit) si dovuto mettere da parte quei
nessi che nella politica effettiva contano moltissimo, anzitutto quelli con lagire economico:
dallaumento del profitto dimpresa alla ricerca di nuovi finanziamenti, dalla ricerca di lavoro a
migliori trattamenti stipendiali e pensionistici, queste sono le preoccupazioni principali che la
gente ha in testa quando va a votare (insieme ad altre di carattere identitario, ideologico o etico)
e quando i politici trattano fra di loro con la mente al successo e alla rielezione. Ma
linterpretazione dei propri interessi profondamente influenzata dai modelli culturali che la
gente ha in testa, e che talora la portano a fare il contrario di quello che sarebbe utile a quegli
interessi. La politica cos intessuta anche di percezioni deformanti (misperceptions), di cecit,
rodomontate, ricerca dellexploit mediatico, di astuzie che talora sono tali e talaltra si risolvono
in disastri per chi pretende che lo siano. Su questo influiscono non solo i modelli culturali, ma
le personalit individuali soprattutto dei leaders - con i loro vizi e virt.
Non ci si pu attendere dalla filosofia politica che essa sia in grado di restituire il senso ed il
sapore di tutti gli aspetti della politica. Chi vi sia interessato deve visitare altre scienze, dalla
scienza politica alla psicologia ed antropologia. Ma soprattutto deve leggere libri di storia,
cominciando con Tucidide, memorie e (auto)biografie, acquisendo il gusto per recuperare
attraverso tali letture lintero spessore della politica senza dimenticarne la trama concettuale. Il
cinema, dove c un lungo filone di ottimi film politici, e la migliore televisione (sui networks
internazionali; in Italia non esiste) sono altre fonti che possono restituire quello spessore. Le
categorie si capiscono meglio e c pi gusto a studiarle se si hanno
12
Furio Cerutti
28. Comunit/societ
1.
Attraverso la coppia concettuale comunit/societ possibile riassumere quelle che sono
state, nel corso dello sviluppo storico, le fondamentali forme di socializzazione.
In generale il termine comunit designa un insieme di individui legati dal possesso di una o
pi caratteristiche comuni, come territorio, lingua, etnia, religione, cultura.
Ma c un pi preciso significato di comunit che si afferma a partire dal romanticismo
tedesco e che verr ratificato dal classico libro di F. Tnnies, Comunit e societ (1887)39:
una forma di socializzazione nella quale gli individui, sulla base di una stessa appartenenza
etnica, della prossimit locale o di valori comuni, condividono una forma di coesione
solidale, affettivamente fondata.
Al contrario, societ indica una forma di socializzazione in cui gli individui si
rapportano gli uni agli altri con atteggiamento strumentale, mirando al fine della reciproca
massimizzazione degli interessi e dellutile individuale40. Si noti peraltro che della societ
esistono concezioni diverse rispetto a questa, che quella preferita da chi scrive in quanto
consente di meglio sottolineare il contrasto con il concetto di comunit; esse (come in Max
Weber, v. sotto) evidenziano il suo fondarsi su di un nesso aggregante che poggia su valori
razionalmente condivisi e/o su norme giuridiche piuttosto che sul self interest gestito dalla
razionalit strumentale.
Questa distinzione, su cui torneremo, trova eco nella distinzione tematizzata da Max
Weber tra la comunit, nella quale la disposizione dellagire sociale poggia () su una
comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad
essa partecipano, e lassociazione, nella quale la disposizione allagire sociale poggia su
39
Ferdinand Tnnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, 1912; trad. it. Comunit e societ, Ed. di
Comunit, Milano 1979.
40
Axel Honneth (filosofo tedesco), Comunit, in Filosofia politica, aprile 1999.
12
Furio Cerutti
Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, 1922; trad. it. Economia e societ, ed. di Comunit,
Milano 1980, 5 voll., vol. I, Parte prima, cap. I, 9.
42
Pietro Costa (storico del pensiero politico), Cittadinanza e comunit, in Filosofia politica, aprile
1999.
43
Aristotele, Etica nicomachea, in Id.,Opere, Laterza, Roma-Bari 1983, vol.7.
44
Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987; e The
Elements of Law, natural and Politic (1640); trad.it. Elementi di legge naturale e politica, La Nuova
Italia, Firenze 1985.
41
12
Furio Cerutti
John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,
Studio tesi, Pordenone 1991.
46
Jean Jacques Rousseau, Discours sur lorigine et les fondements de lingalit, 1755; trad. it.
Discorso sullorigine e i fondamenti dellineguaglianza, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970.
47
Jean Jacques Rousseau, Du contrat social, 1762; trad.it. Il contratto sociale, in Id., Scritti politici,
cit.
48
Cfr. Immanuel Kant, Scritti politici, Utet , Torino1965.
49
Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, cit. , p.99.
50
Ibidem, p. 160.
12
Furio Cerutti
causa della sua volont unificante pu dirsi propriamente una persona civile51. Si tratta
dunque della costituzione artificiale di un corpo politico operata dal sovrano; n si pu qui
parlare di vincoli affettivi perch ci che lega gli individui al sovrano solo un rapporto
reciprocamente funzionale di potere-obbedienza. Tuttavia restano tracce, anche in Hobbes,
dellesigenza di valorizzare il momento inclusivo nella rappresentazione della collettivit
politica.
Ancora pi forte questesigenza appare nella linea Spinoza-Rousseau52.
Il contratto, che fonda la sovranit dello Stato e con essa lidentit giuridico-politica dei
soggetti, istituisce allo stesso tempo una solidariet tra i soggetti e il corpo sociale e politico.
Dice Rousseau che con il contratto ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il
suo potere sotto la suprema direzione della volont generale; e noi, come corpo, riceviamo
ciascun membro come parte indivisibile del tutto53. Il contratto sociale provoca un passaggio
istantaneo dalla condizione privata alla condizione pubblica e d luogo alla nascita di un
Io comune, di una persona pubblica che, aggiunge Rousseau, prendeva un tempo il
nome di citt e prende oggi quello di repubblica o di corpo politico 54. Popolo, sovrano, Stato,
repubblica sono nomi per qualcosa che nasce ed esiste grazie al movimento che include i
soggetti nel corpo politico e li rende obbedienti alla sua volont.
In altri termini, nonostante lidea da tutti condivisa che la coesione sociale sia affidata al
patto razionale e allistituzione giuridica e politica dello Stato, tesa a garantire il rispetto dei
diritti individuali e la realizzazione di un equilibrio tra interesse individuale e interesse
comune, lesigenza comunitaria permane; senza tuttavia che si espliciti in forma sistematica
una qualche opposizione tra comunit e societ.
Un importante momento di differenziazione lo troviamo in Hegel, che cerca di fondere in un
unico approccio i diversi elementi tradizionali55. Per Hegel ogni forma di unione sociale, che
Locke, Rousseau e Kant avevano inteso contrattualisticamente come societ di liberi e uguali
cittadini, rappresenta soltanto una delle sfere costitutive della societ moderna: accanto al
sistema dei bisogni (sfera economica) compaiono la sfera privata della famiglia e la sfera
sovraordinata dello Stato. Hegel concepisce la societ civile secondo il modello contrattuale
moderno, la famiglia secondo il modello romantico dellunione, e lo Stato secondo la
concezione aristotelica della koinonia. La societ moderna comprende dunque tre forme di
socializzazione: nella famiglia gli individui sono tenuti insieme dallamore, nella sfera
economica sono uniti solo dalla libert negativa dei rapporti contrattuali, nello Stato dal
comune legame ad un fine sovraordinato.
Ma una sistematica distinzione tra comunit e societ non compare fino a Tnnies, che
raccoglie le istanze critiche anti-individualistiche - gi presenti nel preromanticismo tedesco
(da Mller a Stein, Savigny). Qui si affermava infatti (sebbene ancora senza una precisa
51
Ibidem, p.180.
Baruch Spinoza, Tractatus politicus, 1677; trad.it. Trattato politico, Laterza, Roma-Bari 1991;
Rousseau, Il contratto sociale, cit.
53
Rousseau, Il contratto sociale, cit., libro I. cap.VI.
54
Ibidem.
55
G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts,1821; trad. it. Lineamenti di filosofia del
diritto, Laterza, Roma-Bari 1994.
52
12
Furio Cerutti
distinzione concettuale) la differenza tra societ e comunit: mentre nel contesto giuridico
della societ gli individui si rapportano luno allaltro perseguendo vicendevolmente i loro
fini o interessi, nelle unioni naturali (come famiglia, trib, popolo) essi sono
reciprocamente legati da vincoli pre-razionali, come quelli prodotti dai sentimenti, dai
costumi e dalle tradizioni.
E importante sottolineare che il tema della comunit (diversamente declinato a seconda
dei contesti teorici) interviene allaltezza della crisi e della critica del paradigma
individualistico e meccanicistico sul quale, a partire dal giusnaturalismo classico (a livello
teorico) e dalla rivoluzione francese (a livello storico-politico), si era andata delineando la
concettualizzazione della moderna razionalit politica.
Tnnies, valendosi di numerose innovazioni concettuali e prospettive teoriche prodotte
dallo sviluppo della teoria sociale dopo Hegel, tematizza dunque lopposizione
comunit/societ. Comunit indica linsieme delle relazioni organiche tra gli individui, che
hanno il loro paradigma nei rapporti familiari; allude cio allunit delle volont umane come
presupposto naturale, solo in riferimento alla quale le parti (le singole volont) possono avere
una collocazione. La societ invece, indica linsieme delle relazioni meccaniche tra gli
individui, il cui paradigma fornito dalle relazioni commerciali e contrattuali che poggiano
sullo scambio di prestazioni.
Tnnies propone la tesi seguente: che nel corso dellaffermazione del capitalismo le sfere
dazione della societ (gesellschaftlich) avrebbero minacciato o dissolto progressivamente
quelle delle relazioni sociali (sozial). Egli non voleva n affermare linevitabilit di un
determinato sviluppo, n esprimere nostalgie per le comunit rurali, ma esplorare le
possibilit sociali (sozial) della creazione di comunit (come corporazioni e sindacati)
adeguate allepoca industriale.
In questa direzione va anche alcuni anni dopo Emile Durkheim, attento alla crisi morale
della societ industriale. Durkheim non parla propriamente di comunit/societ, ma i suoi
concetti di solidariet meccanica e organica riflettono questa distinzione: mentre nelle
condizioni della solidariet meccanica regna tra i soggetti una concordia emotiva e cognitiva
cos alta che lintegrazione sociale pu compiersi sulla base stabile di una coscienza
collettiva, nelle condizioni della solidariet organica le differenze individuali tra i soggetti
sono tanto grandi che lintegrazione sociale viene garantita solo dalla costrizione cooperativa
della divisione del lavoro56.
Ma mentre Tnnies auspica un equilibrio tra le due forme, Durkheim le vede in
successione storica. E si pone quindi il problema di introdurre correttivi ad unintegrazione
sociale fondata solo sulla divisione del lavoro, e quindi carente di convinzioni morali comuni.
Di qui, prima la sua proposta di una divisione del lavoro pi giusta, poi la necessit di
ricorrere ad una sorta di fusione collettiva57 .
A questo si ispirer lanticapitalismo romantico (Francia e Germania), identificando
56
Emile Durkheim (sociologo francese), De la division du travail social, 1893; trad.it. La divisione
del lavoro sociale, ed. di Comunit, Milano 1962.
57
Emile Durkheim, Les formes lmentaires de la vie religieuse, 1912; trad.it. Le forme elementari
della vita religiosa, Comunit, Milano 1977.
12
Furio Cerutti
sempre pi la comunit con qualsiasi forma di unione sociale nella quale i soggetti, attraverso
legami dati biologicamente o consolidati storicamente, sviluppano reciprocamente vincoli
affettivi pi forti che nei meri rapporti giuridici (famiglia, comune rurale medievale, setta
religiosa): ci sfocia, a sinistra nella creazione di una classe lavoratrice politicizzata; a destra,
nella realizzazione politica di una comunit popolare, non pi legata allo Stato di diritto.
Lidea di comunit viene ad assumere cos una connotazione ideologica, con lunica
eccezione di Helmuth Plessner, che propone una riflessione, in prospettiva liberale, sui limiti
della comunit58. La comunit viene ad essere identificata con specifiche realt nazionali e
razziali; come testimoniano i miti del sangue e suolo (Blut und Boden) che faranno da
sfondo al tentativo di costruzione di una comunit di popolo (Volksgemeinschaft) negli
anni Trenta. Sar questa la deriva mitica e totalitaria della comunit, la cui ossessiva
evocazione sar soltanto indice del suo compiuto esaurimento come categoria esplicativa dei
moderni fenomeni politici, almeno in ambito continentale.
Contemporaneamente, per, negli Stati Uniti si sviluppa un diverso concetto di comunit:
la questione centrale qui fino a che punto una societ democratica potesse perdere ogni
vincolo con le communities locali o religiose, senza perdere anche i presupposti della sua
stessa esistenza. Emerge un uso pi libero del concetto di comunit, privo di implicazioni
nostalgiche e ideologiche, che consente di concepire la stessa societ democratica come un
progetto comunitario, al quale cio partecipano attivamente le diverse communities.
Momento importante di sintesi di questa tradizione la riflessione di J. Dewey59 e la sua
visione della democrazia come community of communities, fondata dunque su un concetto di
comunit reinterpretato in senso liberale. Per communities si devono intendere infatti quelle
forme di unione sociale nelle quali i soggetti producono, attraverso la partecipazione
democratica, valori e fini che li fanno sentire uguali e legati da vincoli comuni.
Dopo la IIa Guerra mondiale il concetto di comunit subisce una eclissi teorica pressoch
completa, salvo che nel pensiero cattolico, per non dire di quello islamico (la Umma dei
credenti).
Esso riemerso solo di recente nel contesto di quellinsieme di autori di area
anglosassone, definiti appunto communitarians60, che si contrappongono al modello
individualistico della tradizione liberale.
Qui ritorna il contrasto comunit/societ: mentre con societ (a partire da Locke, Kant
o Hegel) viene intesa una forma di unione sociale in cui i soggetti si rispettano
reciprocamente come portatori di diritti, comunit indica una sorta di unit nella quale i
58
Helmuth Plessner (filosofo tedesco, 1892-1985), Grenzen der Gemeinschaft, 1924; trad.it. I
limiti della comunit, Laterza, Roma-Bari 2001.
59
John Dewey (filosofo statunitense, 1859-1952), The Public and its Problems, 1946; trad. it.
Comunit e potere, la Nuova Italia, Firenze 1971.
60
Alasdair MacIntyre (filosofo scozzese), After Virtue, Univ. of Notre Dame Press 1981; trad. it.
Dopo la virt, Feltrinelli, Milano 1988; Michael Sandel (filosofo americano), Liberalism and the
Limits of Justice, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1982; trad.it. Il liberalismo e i limiti della
giustizia, Feltrinelli, Milano 1994; Charles Taylor (filosofo anglo-canadese), Sources of the Self,
Cambridge Univ. Press, 1989; trad.it. Radici dellIo, Feltrinelli, Milano 1993; Michael Walzer
(filosofo statunitense), Spheres of Justice: a Defence of Pluralism and Equality, Basic Books, New
York 1983; trad.it. Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987.
12
Furio Cerutti
John Rawls (filosofo statunitense, 1921-2004), A Theory of Justice, The Belknap Press of Harvard
Univ. Press, Cambridge 1971; trad. it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1997.
62
Zigmunt Bauman (sociologo inglese di origine polacca), Missing Community, 2001; trad. it. Voglia
di comunit, Laterza, Roma-Bari 2001.
12
Furio Cerutti
processi di globalizzazione.
Queste patologie, per sintetizzare brevemente, sono riconducibili essenzialmente a due:
lerosione dellidentit, del legame sociale e del senso generata dallomologazione e
dallindifferenziazione globale; e le nuove forme di esclusione prodotte dalla dinamica della
globalizzazione.
In entrambi i casi il bisogno di comunit diviene il sintomo pi evidente della rinascita
del locale dentro il configurarsi di una dimensione globale; il sintomo cio di una
resistenza , come dice Manuel Castells63, di un bisogno di appartenenza e solidariet da un
lato, di inclusione e di riconoscimento dallaltro, che rispondono entrambi ad un forte bisogno
identitario, disatteso dalla societ globale.
E indubbio che questo bisogno assume oggi forme per lo pi regressive e distruttive.
Esso genera infatti, dentro e fuori dallOccidente, comunit della paura64, vale a dire forme
di coesione prodotte dalla condivisione dellansia e dalla costruzione di capri espiatori;
oppure d origine, come nel caso delle comunit etniche, religiose, nazionalistiche, al ritorno
a lealt primordiali 65 e a forme di alleanza entropiche e fusionali produttrici di conflitti e
violenza.
E ci vuol dire che il revival comunitario si configura come lorigine principale
dellesplosione dei conflitti identitari (etnici, religiosi, nazionalistici) che attraversano il
pianeta dando origine a forme radicali di violenza.
Allo stesso tempo per il bisogno di comunit non pu essere liquidato come un illiberale
residuo arcaico; ma va assunto in tutta la sua problematicit in una prospettiva normativa che
sappia ripensare la comunit non pi come Gemeinschaft, residuo premoderno e naturalmente
ascritto, ma come oggetto di una libera scelta, come risposta al desiderio ineludibile di
riconoscimento e di appartenenza
In questo senso la comunit si configura come momento costitutivo e permanente del sociale
che coesiste, quale luogo di coesione e di solidariet tra gli individui, con la societ, quale luogo
dei rapporti giuridici e contrattuali; in quanto, al di l di ogni logica oppositiva, esse sono
entrambe, come aveva gi intuito John Dewey, dimensioni indispensabili per il buon
funzionamento delle democrazie moderne.
63
Manuel Castells (sociologo di origine catalana), The Power of Identity, II vol. di The Information
Age, Blackwell, Oxford 1997, 3 voll.; trad. it. Il potere dellidentit, Univ.Bocconi, Milano 2003.
64
Zigmunt Bauman, Voglia di comunit, cit., ed anche Id., In Search of Politics, Polity Press,
Cambridge 1999; trad.it.La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; Ulrich Beck
(sociologo tedesco), Risikogesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986; trad.it. La societ del
rischio, Carocci, Roma 2000.
65
Clifford Geertz (antropologo inglese), Mondo globale, mondi locali, Il Mulino, Bologna,
1999.
12
Furio Cerutti
29. Individuo/soggetto
1.
Genericamente il termine individuo sta ad indicare un essere vivente, indivisibile,
irriducibile luno allaltro, singolo nel sentire, pensare, agire.
In questo senso, potremmo dire, sono sempre esistiti individui, mentre il
riconoscimento dellindividuo come valore sociale un evento relativamente tardo, connesso
allorigine stessa della modernit. Possiamo anzi dire che l individuo, inteso come entit
autonoma e indipendente, forse la maggiore conquista della modernit che ne fa il punto di
partenza ineludibile di ogni prospettiva etica, sociale o politica.
Lemergere del valore dellindividuo, a partire dal XVII secolo, genera la rottura della
visione olistica del mondo, fortemente ancorata (dalla polis greca alle societ feudali) alla
struttura olistica della societ. Secondo questa visione, lindividuo parte di un tutto;
subordinato al tutto organico della comunit che rigidamente gerarchizzata; vincolato
agli altri contro la propria volont, sottomesso a tradizioni, leggi e valori che non ha egli
stesso prodotto. In questo contesto, premoderno appunto, il noi prevale sullIo e lo
precede, determinandone scelte, orientamenti, condotta.
Ci non vuol dire che non ci siano tracce premoderne del valore dellindividuo 66: si pensi
al conosci te stesso socratico; allo stoicismo e alla figura del saggio; al cristianesimo e alla
valorizzazione dellinteriorit. E ancora allassunzione, nei sec. XIII-XIV, dellindividuo
come categoria fondamentale del diritto (cfr. il nominalismo di Guglielmo da Ockam,
secondo il quale esistono solo esseri singoli ciascuno dei quali assolutamente uno,
individuum). Infine, soprattutto, si pensi alla Riforma protestante e alla genesi del s
ascetico67 .
Ma solo con la modernit che lindividuo si afferma pienamente, divenendo un valore
sociale in corrispondenza dei tre grandi processi che segnano lorigine e il dispiegamento
dellet moderna: nascita della scienza, sviluppo del mercato, origine dello Stato.
Lemergere dellindividuo, quale entit autonoma e indipendente, o per meglio dire, come
entit sovrana, trova a questo punto unimmediata connessione con laffermarsi dellidea di
soggetto: questo viene inteso cartesianamente come coscienza razionale e pensante (cogito
ergo sum), separata dal corpo e dal mondo, dotata di libero arbitrio e capace di costruire
autonomamente le proprie certezze e verit.
Non a caso nella riflessione filosofica i due termini vengono spesso usati in modo
intercambiabile. Ma sebbene ci sia generalmente legittimo, dal punto di vista della filosofia
sociale, la nozione di individuo distinta da quella di soggetto ed , soprattutto, pi
pertinente; in quanto soggetto evoca la dimensione epistemologica e cognitiva (si pensi alla
coppia oppositiva soggetto/oggetto), mentre individuo evoca la dimensione sociale (si pensi
66
Cfr. Louis Dumont (antropologo e filosofo francese, 1911-1998), Essais sur lindividualisme,
Seuil, Paris 1983; trad.it. Saggi sullindividualismo. Una prospettiva antropologica sullideologia
moderna (1983), Adelphi, Milano 1993.
67
cfr. Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1922; trad.it. Letica
protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1977 (Ia ed.1945).
13
Furio Cerutti
Hans Blumenberg (filosofo tedesco, 1920-1996), Die Legitimitt der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt
am Main 1966; trad.it. La legittimit dellet moderna, Marietti, Genova 1992.
69
Michel de Montaigne, Essais, 1588; trad.it. Saggi, Adelphi, Milano 1992.
70
Ren Descartes, Passions de lame (1649); trad.it. Le passioni dellanima, in Id., Opere filosofiche,
13
Furio Cerutti
convivenza sociale.
Possiamo allora dire, riassumendo, che lindividuo moderno colui che dotato di
diritti, interessi e passioni; e che dallintreccio tra questi tre aspetti, legittimi e irrinunciabili,
si delinea unimmagine molto pi complessa di quella dellhomo oeconomicus, progettuale e
razionale.
Il diritto infatti contiene in s un elemento conflittuale e di dominio (cfr. lo jus in omnia
di Thomas Hobbes71); gli interessi sono contaminati dalle passioni (in particolare da quella
passione peculiare della modernit che lamore di s nelle sue molteplici manifestazioni),
che spingono gli uomini a condotte irrazionali e distruttive (Hobbes: nella difesa della vita gli
uomini tendono alla ricerca del potere; Locke: la ricerca dei beni materiali diventa oggetto di
un desiderio illimitato di acquisizione e appropriazione72; Rousseau: il desiderio di eccellere
spinge lIo alla costruzione di una falsa identit73).
Ne emerge limmagine di un individuo conflittuale, che tenta di colmare la propria
carenza attraverso lacquisizione e il dominio, e che vede nellaltro essenzialmente il nemico
(Hobbes) o il rivale (Locke, Rousseau, Smith).
La stessa soluzione a questa situazione conflittuale (luscita dallo stato di natura) non ,
in prima istanza, lesito di una decisione razionale, ma mediata dalle passioni: si pensi al
ruolo della paura in Hobbes, passione ragionevole, stato detto74, senza la quale gli
individui non sarebbero indotti al patto che edifica lo Stato; o al ruolo dellamore di s in
Rousseau che consente allindividuo di combattere la distruttivit dellamor proprio.
Ci vuol dire, correggendo in parte la tesi di Hirschman secondo la quale nella modernit
si combattono le passioni con gli interessi75, che le passioni si combattono con le passioni. E
che questa dinamica emotiva di controbilanciamento prelude al patto razionale.
E vero comunque che, nella prima modernit, gli individui sono capaci, se non altro in
ultima istanza, di porre in atto una decisione razionale e consapevole che, attraverso la
negoziazione con laltro e la costruzione dellordine politico, garantisca la soddisfazione dei
loro interessi.
2.
Questo modello entra in crisi nella seconda modernit (o post-modernit), ed ha a suo
fondamento la crisi stessa dellindividuo.
Lindividuo post-moderno viene descritto da gran parte della sociologia contemporanea
(da David Riesman a Richard Sennett, da Christopher Lasch a Robert Bellah, da Gilles
Utet, Torino 1981.
71
Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987.
72
John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,
Studio tesi, Pordenone 1991.
73
Jean Jacques Rousseau, Discours sur les sciences et les arts, 1750; trad.it. Discorso sulle scienze e
sulle arti, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970; e Discours sur lorigine et les fondements de
lingalit, 1755; trad. it. Discorso sullorigine e i fondamenti dellineguaglianza, in Id., Scritti
politici, cit.
74
Raymon Polin, Politique et philosophie chez Thomas Hobbes, Vrin, Paris 1977 (Ia ed. 1953).
75
Albert O.Hirschman, The Passions and the Interests, Princeton Univ. Press, Princeton 1977;
trad.it.Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1979.
13
Furio Cerutti
Lipovetski a Charles Taylor) come un individuo edonista e narcisista, teso alla ricerca di
unautorealizzazione senza limiti, slegato dal sociale e estraneo allaltro, indifferente alla
sfera pubblica, incapace di progettualit e di decisione politica. Si parla addirittura di fine
dellindividuo, con accenti spesso nostalgici dellindividuo (hobbesiano e prometeico) della
prima modernit.
Ma pi che di fine dellindividuo, siamo in presenza di quelle che vorrei definire
patologie dellindividualismo: vale a dire di sviluppi degenerativi 76 di aspetti della
modernit che sono da sempre potenzialmente iscritti al loro interno.
Alcuni autori come Sennett e Lasch77 - tendono a ricondurre lorigine della crisi
dellindividuo alla comparsa (verso la fine del XVIII sec.) dellideale dellautenticit, visto
come eccessiva enfasi sullIo.
Ma cos si finisce per condannare quella che una legittima aspirazione dellindividuo:
unaspirazione che emerge, a partire gi da Rousseau, in una fase pi matura della modernit;
quando la ricerca dellautenticit esprime appunto un bisogno singolare di autorealizzazione,
e testimonia la presenza di un individuo come ha ben notato Georg Simmel 78- consapevole
della propria unicit e originalit.
Il problema non sta nella ricerca dellautenticit in quanto tale che appare, a partire dalla
riflessione rousseauiana, come un legittimo bisogno di fedelt a se stessi, ma come
sostiene Charles Taylor79 - nella sua degenerazione verso patologie narcisistiche.
Alle cause di questa degenerazione si pu qui solo accennare: dal processo di
burocratizzazione della societ alla crisi della famiglia, dal dilagare di una societ dei
consumi allincapacit delle istituzioni (soprattutto politiche) di garantire sicurezza,
dallemergere di fenomeni di spettacolarizzazione alle chances illimitate offerte dallo
sviluppo tecnologico.
Tutto questo provoca quella trasformazione patologica dellamore di s in senso sempre
pi autoreferenziale che stata definita processo di personalizzazione80 e che genera un
individuo narcisistico, preoccupato unicamente della propria autorealizzazione, onnipotente e
vuoto allo stesso tempo.
Non si tratta tuttavia n di un tradimento della modernit e di una sua irrazionalistica
inversione di rotta, come affermano alcuni sociologi81, n di un liberatorio superamento dei
76
Sul concetto di patologie del sociale, cfr. Axel Honneth (filosofo tedesco), Patologie del
sociale.Tradizione e attualit della filosofia sociale, in Iride, Il Mulino, ag. 1996, n.18.
77
Richard Sennett (sociologo statunitense), The Fall of Public Man, Norton New York 1976;
trad.it.Il declino delluomo pubblico, Bompiani, Milano 1982; Christopher Lasch (sociologo
statunitense), The Culture of Narcissism, Norton New York 1979; trad.it. La cultura del narcisismo,
Bompiani, Milano 1981.
78
Georg Simmel, (filosofo e sociologo tedesco, 1858-1918), Die beiden Formen des Individualismus,
1901-1902; trad. it. Le due forme dellindividualismo, in Id., La legge individuale e altri saggi, a cura
di F.Andolfi, Pratiche ed., Parma 1995.
79
Charles Taylor (filosofo anglo-canadese), The Malaise of Modernity, Canadian Broadcasting Corp.,
1991; trad.it. Il disagio della modernit, Laterza, Roma-Bari 1994.
80
Gilles Lipovetski (sociologo francese), Lre du vide, Gallimard, Paris 1983-93; trad.it. Lera del
vuoto. Saggi sullindividualismo contemporaneo, Luni, Milano 1995.
81
Tra cui i gi citati Sennett e Lasch.
13
Furio Cerutti
Cfr. Michel Maffesoli (sociologo francese), Le temps des tribus, Librairie gnrale franaise, Paris
1991; trad.it. Il tempo delle trib. Il declino dellindividuo, Armando, Roma 1988.
83
Alexis de Tocqueville, De la dmocratie en Amrique, 1835-40; trad. it. La democrazia in
America, in Id., Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968.
84
Cfr. Elena Pulcini, Lindividuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame
sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001
85
Hannah Arendt (filosofa tedesca di origine ebraica, 1906-1975), The Human Condition, Univ. of
Chicago Press, Chicago 1958; trad. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1991 (3 ediz.).
86
Hans Jonas (filosofo tedesco di origine ebraica, 1903-1993); Das Prinzip Verantwortung, Insel,
Frankfurt am Main 1979; trad. it. Il principio responsabilit, Einaudi, Torino 1990; Emmanuel
Lvinas (filosofo francese di origine ebraico-lituana, 1906-1995), Totalit et infini, Nijhoff, La Haye
13
Furio Cerutti
adeguato a far fronte alle sfide generate dalle patologie della modernit.
Il concetto di responsabilit particolarmente interessante laddove si ricordi che esso
contiene una duplice valenza: esso implica infatti la massima attribuzione di valore
allindividualit (limputabilit allIo dei suoi atti e delle sue omissioni: nessuno pu essere
responsabile al mio posto) e lapertura allalterit (responsabilit come cura dellaltro,
risposta allaltro). Nel primo caso si tratta di una riassunzione della propria autonomia
intesa anche come capacit di rendere conto del proprio agire; nel secondo caso si tratta di
una rottura dellentropia e dellindifferenza attraverso la presa in cura dellaltro, la capacit di
rispondere, potremmo dire con Lvinas, alla chiamata dellaltro.
Inoltre, in quanto implica la capacit di tener conto degli effetti e delle conseguenze delle
proprie azioni, la responsabilit contiene un elemento di progettualit e di previsione che
sembra specularmente opporsi alla patologie dellindividuo consumatore e spettatore: tra cui
quella che potremmo definire una perdita di futuro.
Non a caso sullidea di responsabilit Hans Jonas ha costruito unetica per le
generazioni future che possa essere allaltezza dei problemi generati dallo sviluppo della
tecnica e dallemergere dei rischi globali.
Tuttavia, proprio a causa delle patologie dellindividualismo, qualsiasi proposta o
modello di etica della responsabilit non pu fondarsi su un astratto dover essere e su
premesse deontologiche, ma deve fare i conti con le trasformazioni antropologiche in atto,
per riuscire a pensare una responsabilit che sia, in primo luogo, emotivamente fondata; come
in parte fa lo stesso Jonas quando vede nella riattivazione della paura, di fronte ai rischi che
lumanit deve affrontare nella societ tecnologica, la fonte emotiva della cura e della
responsabilit.
Un individuo responsabile si configura dunque non tanto come un individuo capace di
aderire ad una norma, ma come un individuo capace di correggere le patologie
dellindifferenza e dellatomismo, riattivando in primo luogo la dinamica delle passioni.
30. Passioni/Interessi.
1.
Lintreccio passioni/interessi di grande rilevanza per la filosofia sociale in quanto
consente di tematizzare il problema delle motivazioni che stanno a fondamento dellagire
sociale e politico: aspetto per lo pi trascurato dalla riflessione contemporanea.
Ma se il problema della passione al centro del pensiero filosofico fin dalle origini, il
tema dellinteresse diventa centrale solo a partire dalla modernit, quando esso viene ad
assumere il significato definitivo di utile, o vantaggio materiale.
A partire da Hobbes87, il perseguimento dellinteresse diventa il corollario stesso di quella
figura paradigmatica della modernit che lhomo oeconomicus: vale a dire dellindividuo
1961; trad. it. Totalit e infinito, Jaka Book, Milano 1977; Zigmunt Bauman (sociologo inglese di
origine polacca), Postmodern Ethics, Blackwell Publishers, Oxford (UK)-Cambridge (USA), 1993;
trad. it. Le sfide delletica, Feltrinelli, Milano 1996.
87
Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987; e The
Elements of Law, Natural and Politic (1640); trad. it. Elementi di legge naturale e politica, La Nuova
Italia, Firenze 1985.
13
Furio Cerutti
Albert O.Hirschman, The Passions and the Interests, Princeton Univ. Press, Princeton 1977; trad.
it. Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1979.
89
Platone, Simposio, in Id., Opere complete, 8 voll., Laterza, Bari, 1971, vol. 3; e Id., La Repubblica,
in Id., Opere complete, cit., vol.6; Aristotele, Etica Nicomachea, in Id., Opere, Laterza, Roma-Bari
1983, vol.7.
90
Questa concezione delle passioni presente, con evidenti differenze, sia nello stoicismo greco
13
Furio Cerutti
La costruzione del soggetto morale resta al centro del pensiero cristiano sulle passioni
che, a partire da Agostino fino alla grande sintesi di Tommaso in epoca medievale, attenua il
rigorismo stoico; e affida non al potere repressivo della ragione ma alla qualit della volont
(guidata, secondo la formula agostiniana, dallamor Dei e non dallamor sui) la soluzione al
problema delle passioni91.
Ed ancora in una prospettiva morale, del tutto separata da ogni dimensione politica, che
le passioni vengono trattate agli inizi dellet moderna: prima in Montaigne92 poi in
Cartesio93, solo in parte influenzati dallo stoicismo, il riconoscimento della naturalit e
dellutilit delle passioni parallelo alla condanna di ogni eccesso. E sfocia nella
elaborazione di strategie di perfezionamento morale, fondate sul loro buon uso, cui
corrisponde tuttavia un sostanziale conservatorismo politico.
E solo con Hobbes, come si gi accennato, che il problema delle passioni investe
immediatamente la sfera sociale e politica. La metafora dello stato di natura descrive una
situazione caotica e conflittuale nella quale le passioni (gloria, desiderio di potere) sono
legittime in virt dei diritti naturali dellindividuo, ma sono anche ci che minaccia lordine
sociale. La risposta al problema delle passioni e allo stato di guerra che ne deriva, non pi
affidabile allesercizio soggettivo della volont o della ragione, lo Stato, istituzione
artificiale fondata su un patto razionale tra gli individui, stimolato dalla passione della paura.
La sua funzione quella di garantire lordine proteggendo gli individui da se stessi.
Lopposizione passioni/ragione si traduce in quella disordine/ordine, o natura/artificio
che ritroviamo alla base del contrattualismo di Locke94 o Spinoza95, sebbene con toni meno
pessimistici che in Hobbes. Si pu allora dire che il politico moderno nasce come risposta al
problema delle passioni
Linteresse agisce in questo contesto, come momento normativo: ci che induce in
ultima istanza gli individui a rinunciare o controllare le proprie passioni affidandosi
allistituzione artificiale dello Stato.
Il modello contrattualistico non esaurisce tuttavia il quadro della modernit sociale e
politica. Laltro grande modello, spesso ignorato dalla riflessione contemporanea, quello
elaborato dalla Political Economy; nel quale il ruolo del politico si ridimensiona fortemente e
le passioni sono oggetto non solo di una realistica legittimazione, ma di una inedita
valorizzazione.
antico (Zenone, Crisippo, III e II sec. a.C.), sia nello stoicismo romano (Epitteto, Marco Aurelio, I-III
esc. d.C.). Cfr. per tutti Marco Aurelio, Ricordi, Rizzoli (BUR), Milano 1984 (Ia ed. 1953).
91
Agostino, De Civitate Dei, 413-426; trad. it. La citt di Dio, Einaudi, Torino 1992; Tommaso
dAquino, Summa theologiae, iniziata nel 1269 e incompiuta; trad. it. La Somma teologica, Bologna
ESD, 1985, 35 voll., vol III, Le passioni.
92
Michel de Montaigne, Essais, 1588; trad.it. Saggi, Adelphi, Milano 1992.
93
Ren Descartes, Passions de lame (1649); trad. it. Le passioni dellanima, in Id., Opere
filosofiche, Utet, Torino 1981.
94
John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,
Studio tesi, Pordenone 1991.
95
Baruch Spinoza, Tractatus politicus, 1677; trad. it. Trattato politico, Laterza, Roma-Bari 1991.
13
Furio Cerutti
Bernard Mandeville, The Fable of the Bees, 1723; trad. it. La favola delle api, Laterza, Roma-Bari
1987.
97
Adam Smith, The Theory of Moral Sentiments, 1759; trad. it. Teoria dei sentimenti morali, Istituto
dellEnciclopedia Italiana, Roma 1991.
98
Jean Jacques Rousseau, Discours sur lorigine et les fondements de lingalit, 1755; trad. it.
Discorso sullorigine e i fondamenti dellineguaglianza, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970; e
Id., Emile, 1762; trad. it. Emilio, Armando, Roma 1981.
99
Immanuel Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, 1798; trad. it. Antropologia pragmatica,
Laterza, Bari 1985.
100
Ernst Bloch (filosofo tedesco di origine ebraica, 1885-1977), Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1959; trad. it. Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, vol. I
101
Alexis de Tocqueville, De la dmocratie en Amrique, 1835-40; trad. it. La democrazia in
America, in Id., Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968.
13
Furio Cerutti
democratica e vi riconosce una delle principali cause delle patologie della democrazia. La
scomparsa di passioni forti (soprattutto pubbliche) allorigine di quel ripiegamento
individualistico peculiare delle societ democratiche che produce sia la crisi dellindividuo
(apatia, passivit) sia la crisi del legame sociale (solitudine, atomismo), consentendo
lemergere di forme di dispotismo mite, esercitato dal potere politico, a cui lindividuo si
assoggetta inconsapevolmente.
Lindebolimento delle passioni equivale in altri termini alla incapacit, da parte degli
individui, di riconoscere il loro stesso interesse, privandoli di fatto della loro sovrana
capacit di decisione e partecipazione.
Tocqueville intuisce cos profeticamente un fenomeno che assumer consistenza nelle
societ democratiche postmoderne: vale a dire la messa in atto di comportamenti individuali
irrazionali (contrari al proprio interesse) originati non dalla forza delle passioni, ma dalla loro
debolezza; come possiamo vedere dallespandersi delle patologie narcisistiche.
3.
Che le passioni possano avere un ruolo positivo sia per la formazione dellidentit sia per
la costruzione del legame sociale un assunto che, di recente, sembra essere sempre pi
condiviso dalle scienze sociali. Si assiste ad una grande riscoperta da parte di varie discipline
del ruolo cognitivo e comunicativo delle passioni e quindi al superamento della tradizionale
dicotomia p/ragione. Da Niklas Luhmann102 alla Sociology of Emotions statunitense103, la
rivalutazione del ruolo tuttaltro che residuale delle passioni nellagire sociale tende a
prefigurare un diverso e pi complesso paradigma di razionalit.
Interessante dal punto di vista della filosofia sociale e politica la proposta di Martha
Nussbaum nel suo recente Lintelligenza delle emozioni104. Il riconoscimento del valore
conoscitivo e valutativo delle passioni consente di pensare unidea di ragione non
disincarnata, sensibile alla vulnerabilit dellindividuo, in quanto dipendente dal mondo, dagli
altri individui e dalla contingenza della storia. Il rispetto delle inclinazioni emotive
individuali diviene componente essenziale per la fondazione di una teoria normativa liberale,
che si basi sulla comprensione della bisognosit (neediness) delluomo, e che assuma a suo
fondamento non solo il concetto di diritto ma anche quello di capacit (cfr. il
Capabilities Approach condiviso con Amartya Sen).
102
Niklas Luhmann, Liebe als Passion, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1982; trad. it. Amore come
passione, Laterza, Bari 1984.
103
Sulla Sociology of emotions, cfr. Gabriella Turnaturi (a cura di), La sociologia delle emozioni,
Anabasi, Milano 1995.
104
Martha C. Nussbaum (filosofa statunitense), The Upheavals of Thought. The Intelligence of
Emotions, Cambridge Univ.Press, Cambridge 2001; trad. it. Lintelligenza delle emozioni, Il Mulino,
Bologna 2004.
13
Furio Cerutti
Furio Cerutti
intrinseco a cui riconoscere la titolarit di un diritto soggettivo senza che sia necessario
addurre motivazioni adeguate.
Anche limitandosi al solo ambito delle scienze biologiche sembra difficile dare una
definizione oggettiva del termine-concetto vita ed pi corretto considerare tale nozione
come una nozione artificiale, o convenzionale, cui facciamo riferimento per distinguere
fenomeni di diversa natura (E. Lecaldano, a cura di, Enciclopedia di bioetica).
In questi termini i criteri di distinzione fra esseri viventi e non viventi non potranno
essere considerati oggettivi e la lista degli esseri viventi potr essere pi o meno ampia a
seconda della definizione di vita che si assume e delle caratteristiche che vengono incluse
come rilevanti per qualificarla: una determinata essenza, riducibile al codice genetico, cio
allinformazione biologica racchiusa nella macromolecola del DNA, che costituisce il
materiale responsabile della trasmissione e dellespressione dei caratteri ereditari; o invece
determinate qualit e capacit come quelle di riproduzione, evoluzione, crescita e sviluppo,
metabolismo, autoregolazione, reattivit agli stimoli esterni.
Se poi si passa dallambito delle scienze biologiche a quello della riflessione etica, in cui
si pongono domande relative ai nostri obblighi e alle nostre responsabilit come agenti
morali, la questione si complica ulteriormente; non solo dobbiamo impegnarci a distinguere
analiticamente i diversi contesti e ambiti problematici in cui ci poniamo interrogativi
riguardo ai nostri comportamenti nei confronti della vita, qualificando in modo preciso l
ambito di riferimento semantico del termine, ma dobbiamo anche essere disposti a
giustificare con argomentazioni e ragioni la rilevanza morale di determinate caratteristiche,
qualit, capacit che, in quel determinato contesto, poniamo alla base della pretesa di pi
specifiche forme di trattamento e di considerazione morale e/o giuridica (es. la condivisione
come specie di un determinato patrimonio genetico, o la capacit di provare piacere e dolore,
di avere emozioni, di relazionarsi, o ancora la capacit, ai livelli superiori, di avere preferenze
riflessive, di autodeterminazione).
Sono molti i filosofi morali che oggi concordano nel considerare come nucleo essenziale
della bioetica la riflessione sulla novit irriducibile delle odierne opzioni etiche che si
presentano nelle societ occidentali, per quanto riguarda le condizioni del nascere, curarsi e
morire degli esseri umani. Sono infatti proprio le situazioni di frontiera, con i difficili quesiti
decisionali che pongono, a mettere alla prova la validit dell etica teorica tradizionale, nelle
sue versioni normative sia consequenzialiste che deontologiche: a mettere, cio, alla prova la
sua capacit di fornire delle linee-guida soddisfacenti per orientare il nostro giudizio morale
e i nostri comportamenti, individuali e collettivi, quando ci troviamo di fronte alle nuove
possibilit di scelta e ai dilemmi che sollevano. Ci si chiede se essa ci possa essere ancora di
aiuto, oppure se i principi, le norme, i valori che abbiamo ereditato debbano essere integrati,
abbandonati o rivisti alla luce dei nuovi poteri di cui ci troviamo ormai depositari e dei casi
esemplari della riflessione bioetica.
Lo sviluppo delle biotecnologie umane, che con il loro potere di ridisegnare
continuamente la linea di confine fra caso e scelta, fra ci che naturalmente dato e ci che
viene a ricadere nellambito dellagire intenzionale e del controllo umano, stanno cambiando
in profondit le nostre esistenze, costituisce una sfida non solo per letica strettamente intesa.
14
Furio Cerutti
Quest accelerato sviluppo pone sotto una diversa prospettiva anche la questione dei
vincoli che lo Stato, o altre istituzioni sovranazionali o internazionali, possono
legittimamente imporre alla libert di scelta dei cittadini, come pure alla libert,
costituzionalmente protetta, della scienza. Si aprono riaprono cos interrogativi di fondo del
tipo:
1. qual il ruolo del diritto nelle societ liberal-democratiche e multietiche? deve
solo ratificare i mutamenti che si registrano nella societ, lasciando alla libert-responsabilit
individuale il pi ampio spazio possibile per le decisioni che riguardano il nascere, il curarsi
(o non curarsi) e il morire, o deve invece cercare di influenzarli esprimendo e imponendo
scelte di valore anche se non condivise da tutti, o condivise solo dalla maggioranza (es. le
questioni che riguardano i requisiti per laccesso alle tecniche di riproduzione medicalmente
assistita e le modalit della loro applicazione, o quelle che concernono le c.d. decisioni di
fine vita)?
2. le nuove situazioni rese possibili dalla ricerca medica e biologica, che, proprio per
la loro novit, non possono essere risolte col solo riferimento al dettato costituzionale, in che
senso correggono, o spingono a rivedere il modo di impostare la questione dei limiti fissati
dai diritti di libert dei cittadini allintervento dello Stato? o meglio, fino a che punto arrivano
i diritti di autonomia di ciascuno degli esseri umani coinvolti nelle nuove situazioni e dove
comincia lambito in cui lintervento dello Stato, con divieti, obblighi, regolamenti,
necessario?
3. alla luce di possibili futuri scenari di rischio per le condizioni di vita, la sicurezza e
la libert delle generazioni a venire, si deve far valere un principio politico di precauzione che
censuri in anticipo, in modo autoritativo, indirizzi e obbiettivi della ricerca e della
sperimentazione in campo biomedico? e, in caso affermativo, secondo quali criteri, con quali
procedure?
Non casualmente il contrasto pi radicale nellambito bioetico si esplicitato intorno al
tema cruciale della disponibilit/indisponibilit della vita umana, che ha messo in luce una
contrapposizione decisiva: quella fra una prospettiva etica, propria della filosofia della vita di
matrice cattolica, che considera la vita umana come un bene indisponibile in ogni suo stadio,
dal momento della fecondazione fino alla morte naturale dell'organismo biologico', e teorie
etiche laiche che ritengono invece, almeno in linea di principio, che luomo ne possa
disporre, ma che si trovano poi a differenziarsi sulla questione dei limiti, pi o meno ampi, da
porre a questo potere di disposizione e sulla loro possibile giustificazione.
Per far capire la portata di questa divisione si pu far riferimento alla discussione che si
sviluppata, a livello etico prima e poi istituzionale, intorno agli inizi della vita umana
individuale e alla questione della liceit o meno di sperimentare su embrioni umani, in
particolare su quelli creati in eccesso con la fecondazione in vitro e crioconservati, che sono
comunque destinati a perire (per alcuni protagonisti del dibattito in materia si dovrebbe
comunque parlare di pre-embrione e non di embrione per i primi stadi di moltiplicazione
cellulare).
Ritornata alla ribalta con la scissione fra procreazione e sessualit ed il perfezionamento
delle tecniche di fecondazione extracorporea, la questione dello statuto ontologico e/o morale
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e giuridico dellembrione costituisce uno dei temi pi controversi della discussione bioetica
per le sue molteplici implicazioni pratiche: da quelle relative al futuro della ricerca in uno dei
settori davanguardia nella lotta contro le malattie e il loro carico di sofferenza, compresa la
ricerca sulla c.d. clonazione terapeutica, a quelle pi direttamente attinenti al
disciplinamento del corpo femminile e del processo procreativo. In modo schematico e
semplificatorio, su un versante si schierano quanti tendono, in definitiva, a porre l'accento,
sulla rilevanza morale della presenza di un patrimonio genetico individualizzante: lo zigote,
la cellula uovo fecondata, gi identit biologica, da rispettare come 'persona', o trattare
come tale sotto il profilo etico e giuridico, riconoscendogli la titolarit di diritti soggettivi, in
primo luogo di un inviolabile diritto alla vita che la legge civile avrebbe lobbligo di recepire
e proteggere. Sull'altro versante si collocano quanti invece hanno sottolineato, seppure da
prospettive filosofiche anche molto diverse, limportanza dell'aspetto biografico e relazionale
della vita umana individuale, che ha la sua matrice nella gestazione; o quanti hanno
quantomeno sostenuto, anche sulla base dei pi recenti studi sullo sviluppo fisico e mentale
del feto nella fase prenatale, la rilevanza della presenza di stati neurologici e psicologici. I
sostenitori di questa seconda prospettiva, pur riconoscendo in genere la necessit di una tutela
dell'embrione fin dal concepimento, postulano sempre una qualche teoria della gradualit del
valore della vita umana, variamente argomentata sul piano filosofico, da cui far discendere la
liceit di una tutela differenziata dei diversi stadi di sviluppo dell'essere umano in formazione
e quindi la possibilit di bilanciare, in alcune situazioni, la tutela dell embrione ai primissimi
stadi con altri beni e diritti in gioco (ad es., la libert procreativa della donna, o il diritto alla
salute).
Di fronte ai possibili scenari futuri che lincontro fra biologia della riproduzione e
ingegneria genetica rende ipotizzabili (di embrioni selezionati secondo certi standard di
perfezione biologica, o di bambini programmati con un determinato corredo genetico in base
alle preferenze e aspirazioni dei genitori, o generati con le tecniche di clonazione) si pu
tuttavia arrivare ad argomentare la necessit di una limitazione preventiva, da parte della
morale e del diritto, tanto della libert di ricerca e di sperimentazione della comunit
scientifica quanto della libert procreativa dei singoli, facendo ricorso a una strategia
concettuale pi complessa, che prescinde dalla questione, indecidibile, dello statuto
dellembrione; ed questa la via seguita da Jrgen Habermas. Nellargomentazione
habermasiana la contingenza delle origini della vita biologica individuale, cio la naturalit
del processo procreativo, dovrebbe, in via di principio, essere tutelata e resa indisponibile alla
sua oggettivazione tecnica, in quanto condizione di possibilit dei nostri ordinamenti morali,
della nostra libert etica e della nostra coscienza di quel che siamo come esseri-di-genere,
ovvero della nostra identit propriamente umana di esseri responsabili e comunicativi. Tale
tutela andrebbe poi garantita con linclusione fra i diritti fondamentali, universalmente
riconosciuti e protetti, del diritto a ereditare un patrimonio genetico non modificato
artificialmente (diritti di quarta generazione).
Lo sviluppo di sempre nuove e pi efficaci tecnologie nellambito delle scienze della vita
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e della cura della salute ha imposto non solo un ripensamento del significato e delle
implicazioni filosofiche dellinizio della vita umana individuale, ma ha anche indotto a
ridefinire le basi stesse su cui fondare la definizione di morte degli esseri umani.
Le nuove tecnologie di rianimazione e il perfezionamento di strumenti di supporto o di
sostituzione di funzioni vitali dellorganismo irreversibilmente compromesse, ma anche i
progressi nellambito dei trapianti, hanno condotto, nel corso della seconda met del XX
secolo, ad una revisione del modo tradizionale di caratterizzare, in ambito medico, la fine
della vita e alla ricerca di nuovi criteri per la definizione di morte dellindividuo umano,
considerato come un organismo fornito di una sua unit, specificit e di una sua vicenda
biologica con un inizio e un termine. E del 1968 la proposta della Commissione della
Harvard Medical School di adottare una nuova definizione che identifica la morte dellessere
umano con la cessazione dellattivit cerebrale nel suo complesso e non pi con larresto
irreversibile e definitivo delle grandi funzioni cardio-respiratorie. Sebbene questa nuova
definizione sia stata poi acquisita, sul piano legislativo, dalla maggior parte dei paesi
occidentali (Italia compresa), essa lascia spazio a non poche obbiezioni ed bene pertanto
tenere distinto il problema filosofico della definizione di morte da quello della sua
definizione clinica e del suo accertamento tecnico. Lo testimonia lampio dibattito in corso in
cui si confrontano differenti concezioni riguardo alla natura della morte degli esseri umani: la
morte come processo, piuttosto che come singolo evento, come fatto o come decisione
etica, come collegabile alla cessazione irreversibile dellattivit cardiaca, o invece
dellattivit cerebrale nel suo complesso, o, ancora, alla cessazione permanente della sola
attivit corticale, considerata da alcuni decisiva perch, col suo venire meno, viene meno la
possibilit stessa di una vita propriamente umana, ossia cosciente; rimane, cio, una vita solo
vegetativa che pu essere prolungata per moltissimi anni .
Il problema etico centrale relativo alla morte degli esseri umani non tuttavia, come
rileva Eugenio Lecaldano (filosofo morale, di impostazione analitica, da tempo impegnato nel
dibattito bioetico), quello di decidere se essi siano vivi o morti, ma piuttosto di chiederci se
siamo legittimati a fare azioni che comportino, direttamente o indirettamente, la morte di
qualcuno (noi stessi o altri), o la sua agevolazione e, segnatamente, quali sono i casi di morte
che chiamano in causa giudizi di illiceit morale. Ed proprio il progressivo avanzare della
medicina tecnico-scientifica sul terreno della fine della vita a rendere urgente e lacerante la
discussione pubblica sulla possibilit o meno di riconoscere un diritto morale a morire, che la
morale tradizionale non ha mai ammesso e che, se riconosciuto, dovrebbe portare a una
revisione delle nostre leggi (come in alcuni paesi europei gi avvenuto; emblematico il
caso dellOlanda che ha modificato il suo codice penale per rendere legale, in determinate
situazioni, sia leutanasia che il suicidio medicalmente assistito).
In discussione, nel nuovo orizzonte aperto dallet della tecnica, non pi solo se uno
Stato possa imporre la morte per un fine altro da s, ma se possa imporre autoritativamente la
vita.
Intorno a questo interrogativo centrale si articolano poi una serie di interrogativi pi
specifici: sulla liceit o meno di interrompere i trattamenti che tengono in vita pazienti in
coma vegetativo permanente, di considerare come vincolanti per la pratica medica le c.d.
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disumanizzazione della stessa pratica medica; essa ha, cio, condotto, come effetto
controintenzionale, ad un progressivo allentamento dellattenzione per il malato in quanto
persona, per i suoi bisogni, paure, sofferenze, e, in alcuni casi, all abbandono di questi al
rapporto impersonale ed estraniante con le macchine, utilizzate a fini diagnostici e/o di
sostituzione di funzioni vitali. Come ha sottolineato Hans Jonas, uno dei filosofi pi attenti
agli effetti perversi delle nuove tecniche di differimento della morte, non solo al malato
sofferente e senza speranza che pu capitare di trovarsi, a causa della sua impotenza fisica
di paziente sottoposto alle norme e controlli dellistituzione ospedaliera, nella condizione di
prigioniero: prigioniero di una terapia di sopravvivenza che gli fa dono di una vita che egli
non ritiene pi degna di essere vissuta. Prigioniero delle nuove tecnologie diviene, infatti, il
medico stesso che, in alcuni casi, pu sentirsi trasformato in tirannico e a sua volta
tirannizzato padrone del paziente.
Si pu allora concludere dicendo che la riflessione filosofica sullambivalenza dei
successi della tecnica moderna e dei suoi pi recenti prodotti nellambito delle
biotecnoscienze ha messo in evidenza come il problema delleutanasia (letteralmente buona
morte) acquisti un valore paradigmatico per quello che rivela delluomo contemporaneo e
del suo rapporto col mondo: esso rappresenta il modo in cui la nostra stessa epoca stata
costretta, suo malgrado, a confrontarsi col problema della morte e con le difficolt derivanti
dal compito che abbiamo affidato alla medicina, quello di non farci morire mai. Un compito
di cui ormai abbiamo cominciato a dubitare.
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32. Responsabilit/cura
Nel dibattito odierno sulle problematiche sollevate dalle biotecnologie e sulle modalit
del passaggio dalla bioetica al biodiritto una categoria morale ha assunto un ruolo centrale:
quella di responsabilit. Ma anche in questo caso ci troviamo davanti a un concetto
polivalente, che si presta a essere usato con significati molto diversi per dar corpo a
prospettive normative sostantive -sia sotto il profilo etico che politico-giuridico, che risultano
dissimili o divergenti.
Quando si parla di responsabilit dal punto di vista morale, e non giuridico, si fa
riferimento a una nozione che, sotto il profilo dei suoi caratteri formali, tiene insieme pi
elementi: lattribuzione di responsabilit a qualcuno non equivale a limitarsi solo alla
considerazione della relazione causale che connette lagente alle conseguenze delle sue
azioni, ma coinvolge anche le intenzioni e i motivi di quella persona e la risposta che suscita
nellagente lo stato di cose che si prodotto (E. Lecaldano, a cura di, Dizionario di
bioetica).
Lassunzione di responsabilit viene ad indicare, pi generalmente, un atteggiamento
dellagente morale che include non solo limpegno a farsi carico di qualcosa e a rispondere
interamente dei propri atti, ma anche la disponibilit a fornire ragioni per le proprie credenze
e per le proprie azioni.
Per molti rappresentanti della c.d. bioetica laica, le cui teorie convergono su un
paradigma comune che valorizza la nozione di autonomia del soggetto morale, limplicazione
sul piano pubblico del concetto di responsabilit comporta che alle persone venga
riconosciuto lo status di persone capaci di una vita riflessiva e critica, sulla base di ben
ponderate convinzioni. Fermo restando che le scelte che procurano danno agli altri debbono
essere oggetto di regolamentazione e sanzione giuridica, a tutti i cittadini andrebbe garantita,
pertanto, la pi ampia possibilit di sviluppare e esercitare la propria responsabilit morale
anche nei nuovi contesti della bioetica, evitando, cio, il ricorso a norme severe, invasive
della sfera personale e privata di chi coinvolto in prima persona. Sarebbe lobiettivo stesso
dello sviluppo della personalit e dellautostima, considerato come obiettivo irrinunciabile
delle liberaldemocrazie contemporanee, a postulare lesercizio dellautodeterminazione e la
correlata assunzione di responsabilit, specie per le questioni che segnano il profilo
complessivo di unesistenza e che si rivelano, nei singoli casi concreti, caratterizzate dal
conflitto reale fra pi istanze e fra lealt diverse. Una posizione esemplare di
questimpostazione quella difesa da Ronald Dworkin in Lifes Dominion, un testo che si
confronta con la questione del giusto modo di gestire il conflitto sociale fra concezioni
confliggenti in materia di aborto e di eutanasia. Alla domanda se una comunit politica debba
o meno rendere i valori intrinseci una questione di decisione collettiva anzich di decisione
individuale, Dworkin risponde che compito di uno Stato liberaldemocratico non quello di
imporre ai cittadini cosa dovrebbero pensare sui valori etici e spirituali, bens quello di
incoraggiare gli individui a diventare responsabili delle loro scelte nelle decisioni cruciali per
la loro vita personale, quali le decisioni sul se, come e quando procreare e sul come e quando
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morire.
Se vi una convergenza di massima nellargomentazione a favore di una politica che
rispetti il pluralismo morale e culturale, garantendo a ciascuno la possibilit di vivere (e di
morire) in accordo con i propri valori e credenze, diverse sono invece, anche nellambito
laico, le configurazioni sostantive dellindividuo responsabile a seconda che laccento
venga a cadere sulla sovranit dellagente, intesa come autosufficienza, o sulla natura
intrinsecamente relazionale del soggetto morale, un soggetto che sempre parte di una rete di
relazioni, variamente articolate. In questa seconda prospettiva il concetto di responsabilit si
presenta, nei suoi contenuti, complesso e pluridimensionale: include in s non solo la
dimensione della reciprocit, che comporta il rispetto della libert dellaltro e la disponibilit
al dialogo, al confronto delle ragioni, ma anche quella dellasimmetria delle posizioni, dei
rapporti in cui l altro, chiunque egli sia, un soggetto debole, vulnerabile, dipendente dal
nostro potere, e della cui sussistenza, benessere e crescita ci impegniamo a farci carico. Cos
inteso il concetto in esame mostra in modo pi diretto la sua connessione con un' altra
nozione, quella di limite: il comportamento responsabile richiede anche la capacit di
autolimitazione, nelle proprie scelte e nellesercizio del proprio potere, comunque questo si
configuri.
Pensare la responsabilit come correlata ai concetti di relazionalit e di limite ci consente
il passaggio a un diverso piano della riflessione sulle nuove tecnologie, che sposta il centro
dattenzione dalla dimensione individuale a quella sociale-collettiva della responsabilit
nellet della tecnica e dellinterdipendenza planetaria: responsabilit nei confronti di chi pur
lontano nello spazio esiste gi ed influenzato dalle nostre azioni, ma anche nei confronti di
chi non esiste ancora.
In questorizzonte di pi ampio raggio si colloca la proposta di Hans Jonas di una
riformulazione delletica che sia allaltezza vuoi dei rischi globali con cui oggi ci dobbiamo
confrontare, vuoi delle nuove minacce alla continuazione di una vita autenticamente umana
sul pianeta, come quelle che possono derivare da uno sviluppo incontrollato delle
biotecnologie e delle neuroscienze.
La riflessione critica di Jonas sui nuovi e inquietanti poteri di cui ci siamo dotati, sul
cambiamento qualitativo dellagire umano e sullenormit degli effetti cumulativi delle azioni
delluomo occidentale, effetti che per la prima volta nella storia dellumanit appaiono
irreversibili, consente di mettere a fuoco il novum etico di cui lo sviluppo tecnico-scientifico
ci ha fatto carico: lirrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni
quotidiane pratico-terrene. E questo novum etico a rendere necessaria, per Jonas, una
ridefinizioni dei nostri valori e obblighi sulla base di un principio cruciale, quello di
responsabilit nei confronti delle generazione future, che supera la visione antropocentrica
per collegare il bene umano alla protezione dellintera biosfera, con tutta la ricchezza e
vulnerabilit delle sue specie.
La mutata ottica, che pone al centro della scena etica il precetto di non lasciare ai
discendenti uneredit devastata, eleva a valore di importanza decisiva per il mondo di
domani lesercizio odierno, come singoli e come collettivit, dellautolimitazione, che deve
poter progredire da una moderazione nelluso del potere a una moderazione nella sua
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Furio Cerutti
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Il primo registro interpretativo del racconto rimanda alla lettura heideggeriana del mito:
luomo, in quanto essere per la morte, al mondo come uomo della cura, dell angoscia per
la morte a venire. Il concetto di cura intesa come angoscia, ansia, affanno, traccia un primo
percorso di sviluppo di questo tema.
Il racconto dellorigine pu tuttavia esser letto anche in altra chiave, come mito pre o
anti-cartesiano, come una parabola che sottolinea linscindibilit di psiche e soma, di
spirito e passione, secondo una visione olistica del soggetto-oggetto della cura. Ed
soprattutto questultima interpretazione a trovare spazio nella discussione filosoficoscientifica degli ultimi decenni, volta a (ri)costruire, nel non facile dialogo fra varie
competenze disciplinari, una visione pi integrata dellindividualit umana, o meglio una
visione globale delluomo, quale necessario preludio per una trasformazione, teorica e
pratica, anche delle discipline biomediche e dei loro modelli epistemologici.
In questa seconda prospettiva lattenzione per il il tema della cura si sviluppa allora
nella direzione di una specificazione pi dettagliata del senso e delle componenti - cognitive,
etiche ed empatiche- del prendersi cura come pratica relazionale, di scambio comunicativo,
i cui fini sono plurimi e mutevoli, dipendentemente dal diverso status dei soggetti della
relazione e dalle situazioni particolari: ripristinare uno stato precedente, lenire le sofferenze e
non lasciare che il dolore del corpo e della mente restringa i confini del s fino a rendere
impossibile ogni rapporto col mondo, sostenere e rispettare, nella relazione terapeutica, la
capacit di autodeterminazione dei c.d. pazienti, ma anche agevolare una trasformazione
evolutiva, una crescita (lanalogia pi diretta , in questo senso, con le cure materne e con la
relazione madre-bambina/o).
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Furio Cerutti
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che ciascuno ricever risposta e verr incluso, nessuno sar lasciato solo e fatto soffrire. Due
visioni in tensione reciproca che, per Gilligan, riflettono la verit paradossale dellesperienza
umana: il fatto che ci possiamo conoscere come individui separati solo nella misura in cui
viviamo in connessione con altri e che possiamo avere esperienza del rapporto soltanto nella
misura in cui impariamo a differenziare laltro da noi.
In questo senso la proposta di Gilligan trova significativi riscontri in quel filone della
riflessione bioetica di cui Daniel Callahan forse lesponente pi noto, quello che pi si
impegnato a promuovere un progetto di riumanizzazione dellistituzione medica fondato
proprio sulla valorizzazione del concetto di care.
I termini care e caring conoscono oggi una grande fortuna, tanto da esser entrati nel
lessico quotidiano ma, come accade per tutti i termini non facilmente definibili e oltremodo
suggestivi, corrono anche il pericolo di esser impiegati, nei pi diversi contesti, con una
valenza fortemente retorica che finisce per svuotarli, ancora una volta, di ogni contenuto
significativo. Pu essere utile pertanto mettere in evidenza come nel concetto di care, nel
senso di caring, di prendersi cura, ci che rileva soprattutto il riferimento a un insieme di
disposizioni umane e morali (virt) quali: il senso di responsabilit e limpegno nei confronti
del benessere altrui, la disponibilit a identificarsi con la sofferenza degli altri, la solidariet
nella condivisione
In questo senso lagire morale, sia nella sfera personale-privata sia in quella sociale e
pubblica, viene a configurarsi come questione non solo di ragioni appropriate, ma anche di
emozioni e di sentimenti appropriati, allinterno di contesti relazionali di diversa natura, che
possono sempre facilitarne o inibirne lo sviluppo nel tempo.
Se forte la somiglianza fra le disposizioni qualificanti la relazione di cura nelluno e
nellaltro indirizzo, tanto da aver dato luogo a una loro crescente e proficua interazione,
diverse sono invece le matrici a cui si fa riferimento.
Per il pensiero femminista lattitudine al caring ricondotta a un insieme di qualit
intellettuali e affettive specificamente femminili, anche se poi vi sullorigine ultima di tali
disposizioni una divisione, che riflette una pi profonda divergenza circa la natura della
differenza di genere sessuale: da una parte le esponenti del filone del maternal thinking
radicano tali qualit e competenze nel corredo psichico e corporeo di ogni donna perch le
collegano allesperienza della maternit, dallaltra le correnti antiessenzialistiche tendono
piuttosto a evidenziare i condizionamenti storico-sociali e culturali dell identit femminile
e delle attitudini ad essa ascritte.
Per gli orientamenti interni al pensiero bioetico che si sono impegnati a ridefinire il
modello epistemologico e operativo della professione medica lintento stato invece, quello
di promuovere un modello di medicina ancora capace di articolare al suo interno conoscenza
tecnica e sapere pratico, scienza e arte della salute, rivalutandone, in questa direzione, l
originaria disposizione al prendersi cura e alla costruzione di una relazione terapeutica
fondata sul dialogo e sulla solidariet interpersonale; perch proprio questa disposizione,
considerata fondativa del senso stesso della professione medica in tutta la fase della medicina
classica, che poco aveva da offrire in termini di terapie efficaci, ad essere compromessa dagli
sviluppi e successi della medicina scientifico-tecnologica odierna, che tendono a trasformare
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