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Il primo problema di Trieste è il ponte.

di Fabio Amodeo

Il primo problema di Trieste è il ponte. Potete pure andare a cercarlo, e scoprirete che non esiste. Il
problema è che non esiste. A Trieste non ci sono fiumi, e niente fiumi niente ponti. Un ponte per la
verità c'è, sopra un canale, ma è lungo così, da qui a qui, e anzi molto più largo che lungo. Lo
chiamano ponte per fargli un complimento. Eppure, il subconscio degli italiani è convinto che ci sia
un ponte che unisce Trento e Trieste. Voi avete studiato tutti la geografia, e sapete che fra Trento e
Trieste ci sono quasi trecento chilometri, molti di più che tra Milano e Torino, che nessuno suppone
unite da un ponte; e se avete provato ad andarci in treno, da Trento a Trieste o viceversa, sapete che
ci si impiega mezza giornata abbondante; ma non sapete cosa permane nel vostro subconscio, giù in
fondo.
Una ragione c'è, come sempre. Ottant'anni fa la maggioranza degli italiani maschi e adulti rischiò di
farsi ammazzare, e tutti gli altri connazionali erano in ansia per qualche parente o amico; e tutti,
quelli al fronte, che tentavano di schivare le pallottole, e gli altri, quelli a casa, quando provavano a
chiedere: ma perché siamo coinvolti in questa spaventosa avventura, ricevevano un'unica risposta:
per Trento e Trieste. Ora voi date la stessa risposta (Trento e Trieste, Trento e Trieste) a milioni di
domande per anni, e qualcosa finirà per depositarsi in fondo a queste persone, che poi
trasmetteranno il dato per via genetica ai discendenti. Trento e Trieste. Come Buda e Pest. Come
Mestre e Venezia. E cosa cè, tra Mestre e Venezia? Il ponte. Appunto.

Vi racconto tutto questo per dire che di Trieste non è che in giro si sappia poi molto, ed è
comprensibile, visto che, guardate un po la carta, è lì, in angolo, una specie di lingua appiccicata al
resto della regione e del paese. Non si capita per caso, in un posto così: ci si va per ragioni molto
forti. Intendiamoci, ci sono quelli che ci capitano per caso: partono dalla Cecenia, o dalla
Bielorussia, o dal Kosovo, o magari dal Curdistan, non hanno molti visti sul passaporto, e forse non
hanno neppure il passaporto, e superano dieci o quindici o venti confini, poi arrivano dietro Trieste,
in un bosco, e...dei signori, diciamo dei consiglieri, dei filantropi che si occupano di dar loro le
indicazioni, disinteressatamente, per carità, dicono loro: prendi questo sentiero, e quando il bosco
finisce giri a destra, e arrivi ad Amburgo o a Francoforte o dove diavolo vuoi. Si sa come sono le
lingue, se al posto di destra questi viandanti capiscono sinistra prendono la strada sbagliata. Ecco,
questi passano per caso a Trieste. Ma sono gli unici. A Bagnocavallo si può passare per caso. A
Vigodarzene si può passare per caso. A Trieste passa per caso solo un kossovaro che ha fatto casino
tra destra e sinistra.

Poi cè un altro problema. I triestini non esistono. O se esistono sono una minoranza trascurabile. A
Trieste ci sono due tipi di abitanti. Quelli che qualche anno fa, per un motivo qualunque, sono
passati di qui per caso (capiamoci, non sono tutti kossovari poco versati in geografia.
Semplicemente ogni regola ha le sue eccezioni) e per qualche motivo hanno pensato di fermarsi. E i
figli di qualcuno che passava di qui per caso e ha pensato di fermarsi. Sui motivi per fermarsi si
potrebbe scrivere un libro, ma diciamo che nell'ordine si possono riassumere in: cè il mare, c'era la
donna della mia vita, c'era un'aria strana e mi è piaciuta, è un posto dove nessuno fa troppe
domande. Quelli che passano di qui per caso e si fermano dopo due anni imparano la lingua, e dopo
quattro cominciano a lamentarsi di tutto, e allora sono diventati dei veri triestini. Si lamentano del
mare, che non è più quello di una volta, delle donne, perché è passato il tempo, e magari la
fidanzata è diventata la moglie, e si sa come vanno certe faccende, si lamentano di quest'aria strana
che infatti guarda tu quanti matti ci sono in giro. Non è che poi si lamentino. Per lo più bofonchiano
tra sé e sé, deplorando in un rumorosissimo silenzio. Un giorno passò di qui per caso James Joyce,
e, guarda combinazione, si fermò per più di dieci anni, e se non fosse scoppiata la guerra tra
l'Austria e il resto del mondo magari ci sarebbe rimasto per sempre. Arrivò, osservò questo
bofonchiare tra sé e sé, e forse lo imparò pure. Così adesso sapete com'è nato il monologo interiore
dell'Ulisse.

Prima avete sentito bene. Ho detto: vengono, e imparano la lingua. Sì, perché Trieste è uno dei posti
dove tutti usano ancora un linguaggio particolare. Lo si può chiamare lingua, o dialetto, o quello
che volete. Le parlate sono come le squadre di calcio, hanno i loro tifosi e i loro nemici, quelli che
vorrebbero usarle dappertutto, anche negli atti giudiziari, e non so se avete mai sentito parlare uno
delle valli bergamasche, e provate a immaginare un processo con il verbale in parlata della val
Brembana. Già i processi da noi durano vent'anni, figuriamoci se ci fosse da trovare il traduttore dal
bergamasco in occitano, o viceversa. E poi ci sono quelli che vorrebbero abolirle, proibirle, perché
siamo tutti italiani e bisogna parlare italiano. Come se nell'era della televisione ci fosse bisogno di
dirlo. Fatto sta che Trieste è uno dei posti nei quali il dialetto, o la lingua, lo si usa dappertutto.
È una lingua giovane, avrà sì e no duecento anni, che è pure l'età della città. Sì, sui libri di storia e
sulle guide vi diranno che Tergestum ƒu città romana, che fu libero comune, e così avanti. Lasciate
perdere. Quella era una cittadina di qualche migliaio di abitanti, per lo più agricoltori. Pescavano
anche, ma poco, e vicino a riva, con barchette piccole piccole. Perché se armavano una barca un po'
più grande, e andavano al largo....
Bene, non dovete pensare che la pesca fosse come adesso. Non so se avete idea della pesca di
adesso, magari avete l'idea di lupi di mare che sentono l'arrivo del branco di merluzzi, e uomini
robusti con i muscoli tesi che gettano le reti, una via di mezzo tra il Moby Dick e La Terra Trema di
Visconti. Beh, oggi la pesca è un'altra cosa. I pescherecci hanno il sonar, il visore a infrarossi, il
sensore dei battiti crdiaci, il branzin detector. Sembrano delle plance di comando della NASA. I
tecnici di bordo, che poi sarebbero i pescatori, stanno davanti alle loro macchine e scrutano il mare.
"Comandante, contatto a ore 10" dice uno. "Rilevamento" dice il comandante "Profondità ventisei
metri, velocità quattordici nodi, direzione due quattro zero" "Forse ci siamo. Rilevazione ottica"
"Potrebbe essere un'orata che fa una passeggiata. Proviamo ad avvicinarci" "Macchina avanti mezza
forza. Timone due cinque quattro. Preparare lancio reti". "Timone due cinque quattro. Preparare
lancio reti". "Timone due cinque quattro. Lancio reti pronto". Devono essere un po' sordi, sulle
navi, così come sui sottomarini e sui pescherecci, perché ripetono sempre gli ordini sei o sette volte.
Almeno, nei film fanno sempre così.
Insomma, è tecnologia pura applicata alla cattura della sogliola. Quando andate in pescheria, e
chiedete quanto viene quel bel pescione, e vi dicono: trentamila lire al chilo, sappiate che
quindicimila sono per il pesce, e le altre per l'ammortamento nuovo software del branzin detector
satellitare. Difatti anche i pesci sono diversi. Una volta le sogliole erano belle panciute, sembravano
delle piccole balene. Sono diventate così piatte per riuscire a nuotare a filo vongola, sotto la linea
dei radar. E i branzini? Mica erano sempre così affusolati. Lo sono diventati per selezione della
razza. Adesso, quando nuotano, e il peschereccio si mette in coda, riescono a fare delle svolte ad
angolo retto senza rallentare, cose che neppure un Tomcat riuscirebbe a fare.
Torniamo ai triestini. Andavano al largo, magari a inseguire un tonno, beh, non ci crederete, ma dal
nulla si materializzava una galera trireme lunga così e larga così, tutta piena di balestrieri pronti a
sparare, o a frecciare, chissà se si dice, insomma a tirar. La galera aveva un gonfalone scarlatto, con
su un leone di San Marco, con in una mano il vangelo, chiuso a chiave, e nell'altra uno spadone. In
tutto il Mediterraneo, quel gonfalone aveva un solo significato: grane. Grane brutte. La serenissima
repubblica di Venezia infatti aveva questa curiosa concezione: la navigazione doveva essere libera e
sicura dappertutto. Dappertutto fino al canale di Otranto. Dal canale di Otranto in su, era libera e
sicura per le navi veneziane, e basta. Tutti gli altri erano automaticamente pirati.
Ora dovete immaginare questa barca un po' più grande, un gozzo, con l'equipaggio che cerca il
tonno e trova la trireme col leone incazzato. Quelli del gozzo fanno i bravini, come facciamo noi al
blocco stradale, preparano patente e libretto, si mettono bene, sorridono, dicono buon giorno.
“Pirati” dice il comandante della trireme. “Ma no, guardi, pescatori di diporto. Pescasportivi”.
“Pirati” ripete il comandante con la stessa faccia del leone incazzato che sventola sulla sua testa.
“Ma no, venga a controllare, non abbiamo bottino, solo lenze e reti”. “Ce l'avete el lion?”
“Veramente no, noi usiamo unaltra bandiera”. “Ce l'avete il permesso del doge?” “No, non
sapevamo”. “E allora siete fuorilegge. In mare i fuorilegge sono pirati. Siete in arresto per pirateria
e la nave è confiscata. La multa la pagate subito o vi portiamo ai piombi”?

Questa storia andò avanti per sei o settecento anni. Capite che i triestini andavano a pesca con dei
gusci, con i quali uscivano appena al largo, e se vedevano qualcosa all'orizzonte, prima di capire
cosa fosse, con due colpi di remo erano già in porto. “Comè andata la pesca?” “Ah, oggi non avevo
voglia, sono uscito solo un attimo per remare un po”.
Comunque non si rassegnavano, e a un certo punto decisero di trovarsi un protettore. I protettori
vicini era meglio lasciarli perdere, te li prendevi in casa e non se ne andavano più, e ti toccava
mantenere loro e i loro cavalieri. Ne scelsero uno lontano, il signore d'Asburgo, che a quei tempi era
un nobile tedesco impegnato ad allargare i suoi possedimenti tra Vienna e Graz. Durante il Trecento
mandarono una delegazione da questo signore, e gli dissero: in cambio di protezione, ti assicuriamo
la nostra fedeltà. L'Asburgo si informò di dove fosse Trieste, difficile da spiegare a uno che da
generazioni non aveva mai visto il mare, ringraziò e fece archiviare la pergamena. Protezione, mai.
Figuriamoci: gli Asburgo avevano da costruire un impero, un lavoro di secoli, dovevano sposarsi
per prendere una contea, fare una guerra per ingoiarne un altra, un lavoraccio. E poi, studiavano per
imperatori, mica per pescatori. Ogni tanto i triestini si mettevano in grane con i loro vicini, per lo
più con Venezia, mandavano una delegazione a chiedere aiuto, e l'Asburgo, impegnato in qualche
guerra in Tirolo o in Boemia, rispondeva: vedremo cosa si può fare. Quando andava bene era una
lettera di condoglianze alle vedove dei caduti.
Poi gli Asburgo furono promossi imperatori, e in questa zona d'Europa diventarono padroni di tutto
quello che non era veneziano e che non fosse caduto in mano ai turchi. E allora si presentarono
dagli abitanti del paesone, che erano sempre lì a fare il vino e l'olio e il sale, e dissero: scusate,
siamo venuti a prendere possesso. Possesso. Complimenti, avete comperato qualcosa? No, siamo i
padroni di questo luogo. Guardate, questa è la vostra dichiarazione di duecento anni fa. Gli abitanti
del paesone manco se la ricordavano, la loro dedizione. Provarono a dire che avevano scherzato, ma
non so se avete mai provato a far sorridere i vopos di confine dell'ex Germania dell'Est, magari
raccontando una barzelletta. Stesso risultato.

Cosa c'entra tutto questo con la lingua? Un attimo, adesso ci arrivo. Un giorno un ministro di sua
maestà imperiale, fate conto di Carlo VI, il papà di Maria Teresa, capitò per caso, allora succedeva.
Guardò la città dall'alto e disse: bel posto per fare un porto. Fare un porto e costruire una città.
Signor ministro, la città c'è già, gli dissero. La cosa? Il ministro era abituato a Vienna, quando
diceva città sapeva cosa intendeva. Gli Asburgo avevano questa strana caratteristica. Quando
dovevano fare qualcosa ci pensavano su prima, valutavano tutto, poi decisa la cosa cominciavano a
farla, subito. Il ministro tornò a Vienna e a Trieste stavano già selciando strade, preparando lotti per
i palazzi, scavando in porto per avere il pescaggio per i galeoni. I contadini del paesotto vedevano
tutto questo gran daffare, e dicevano: mah: avranno soldi da buttar via. Poi, quando fu evidente che
non era un semplice rifacimento di manto stradale, si informarono: scusate, cosa fate? Un porto. Ah,
un porto. Un porto! Ma siete matti. La fuori ci sono le galere, adesso portano anche i cannoni. Le
galere dei veneziani!

No. Le galere non cerano più. A metà del Settecento, Venezia era già quella che è oggi: un posto
organizzato per pelare i turisti. Portarli in gondola, vendere loro un Canaletto o un Guardi, divertirli
con le commedie di Goldoni o con i concerti, avevano già inventato il turismo culturale. I veneziani
si erano già trasformati in gondolieri e osti e venditori di vetri di Murano. Se al turista restava
qualche soldo, veniva portato, secondo le preferenze, al casino o al casinò, dove si completava la
pelatura.
L'Adriatico era libero, pronto per nuovi padroni. Però costruito il porto, si trattava di costruire gli
abitanti, i marinai, gli armatori, gli agenti di cambio, i proprietari di cantieri, gli assicuratori, i
commercianti, gli agenti di Borsa, i banchieri, gli spedizionieri.... Gli abitanti ci sarebbero, provò a
suggerire qualcuno ai ministri di Maria Teresa. Quelli? Occorreva gente del mestiere. E così il
governo asburgico mise in giro la voce che c'era un posto così bello che quando la gente ci passava
per caso si fermava inevitabilmente. Forse quella voce è ancora in giro, chissà. Per sicurezza, gli
Asburgo ci misero anche una città franca, e poche tasse, e aiuti ai cantieri e alla navigazione, e tutto
quello che serve per far venire in un porto la gente del mestiere. E vennero.
Ebrei di Venezia, di Corfù e di Costanza. Armeni esuli per il mondo. Levantini di ogni tipo, contenti
di lasciare i loro suk. Greci, greci in gran numero. Armatori e marinai delle isole della Dalmazia.
Tedeschi di Boemia e di Sassonia, innamorati del mare. E italiani e croati ed egiziani e gente senza
patria di ogni dove. Vennero con i risparmi di famiglia e degli amici, per investire nel nuovo affare,
o senza soldi, alla ventura. Un melting pot. Una babilonia. Già. Che lingua si parla in una
babilonia? Non certo la lingua del paesone di agricoltori, un dialetto duro e incomprensibile, peggio
del carnico. E neppure la lingua dei padroni, il tedesco, parlato, sì, in terraferma, ma ignoto e
completamente inutile per tutti quelli che andavano per mare. No, c'era solo una lingua che era nota
a tutta questa gente, che in tutto il Mediterraneo veniva usata per trattare affari, parlare di mare,
navigare, vendere, comperare, e da così tanto tempo che nessuno ricordava un prima diverso. Era la
lingua franca, quello che oggi è l'inglese per i piloti d'aereo e gli esploratori di Internet: il veneziano
coloniale, lontano parente della lingua di Goldoni, ricchissimo di parole salmastre, specializzate,
dedicate al mare e ai commerci e ai crediti e alle assicurazioni ma con una sintassi poverissima,
scheletrica, in modo che la lingua fosse facile da assimilare. Pochi pronomi, mi, ti, lu, ela, lori,
uguali per soggetto e complementi. I verbi: un presente, mi son, mi go, mi vado. Un passato, unico
per ogni situazione, da mezz'ora fa al 250 avanti Cristo: dove te son andado stamatina? Anibale iera
là, coi elefanti, e po el xe andà oltre le Alpi. Un futuro, vago e indistinto: anderemo, vederemo. E
poi due diabolici tempi indefinibili, un congiuntivo e un condizionale, legati non da una consecutio
o da un periodo ipotetico o da qualunque logica, ma da ineffabili sfumature di affinità e di
differenza. Coss'te disi, andasimo a far un giro? Se poderia, vederemo. E niente doppie, per non
complicarsi la vita.

Così, per germinazione spontanea, senza decreti e senza regole, in un periodo indefinito tra il 1750
e il 1800, è nato il triestino. Questa storia si porta dietro una piccola coda. Quelli che passavano di
qua per caso, e si sono fermati, il triestino lo imparano. Ma quelli che sono nati qui, quelli pensano
in questa lingua. Pensano con una sintassi elementare, con tre o quattro tempi tra loro scoordinati,
con delle particelle pronominali che devono far tutto. Le altre lingue, italiano compreso, le
imparano, e imparano a tradurre il loro pensiero. Con due conseguenze. La prima: per favore, un
minuto di silenzio per gli insegnanti di italiano che devono far entrare in capo la consecutio e il
periodo ipotetico a dei giovani, qualche volta volonterosi, ma di solito non tanto, che nel DNA
linguistico non hanno niente di simile. La seconda, che quando uno cresciuto a Trieste impara le
altre lingue, le impara davvero, ci suda su, ci soffre, ci ragiona, italiano compreso. E quando la
controlla, quell'altra lingua diventa come un organo in mano a uno strumentista di talento. E così ne
avete imparata un'altra. Che a Trieste potranno mancare imprenditori, o ultimamente armatori, e
idraulici, come dappertutto, e magari anche levatrici, visto che i bambini quasi non nascono più. Ma
gli scrittori, gli scrittori no, quelli non mancheranno mai.
Questo porto doveva diventare l'orgoglio dell'Austria, che fece tutto quello che una madre
affettuosa poteva fare: mandare la gente migliore, procurare capitali, pochini, per la verità, perché
l'impero aveva molta pompa ma anche molte toppe, e le tecniche, anche quelle pochine, perché
l'avanguardia tecnologica era in Inghilterra, in Germania, in Francia, ma non certo in Austria. Ma
insomma si arrangiarono, a metà Ottocento fecero arrivare la ferrovia da Vienna, Graz e Lubiana,
negli anni successivi costruirono il porto vecchio, poi appena concluso decisero che era sbagliato e
si misero a costruire quello nuovo, e poi contribuirono a fondare compagnie di navigazione,
assicurazioni, cantieri, banche. Lavorarono per più di centanni per edificare quello che l'Austria non
aveva mai avuto, un grande porto capace di convogliare verso Levante le merci di tutta Europa, di
aprofittare dell'apertura del Canale di Suez, di mandare le proprie navi fino in Cina e in Giappone.
Quando ebbero finito, negli ultimi anni dellOttocento, scoprirono che nel frattempo lEuropa era
stata presa dalla follia nazionalistica.
Gli italiani volevano unirsi con gli italiani. Gli slavi con gli slavi. I tedeschi con i tedeschi, che non
voleva dire l'Austria multilingue, ma l'Impero tedesco, quello di Bismarck, di Guglielmo e
dell'aristocrazia militare prussiana. In un posto nel quale italiani, slavi, tedeschi e svariate altre
nazionalità convivevano, ciò significava che sul futuro cerano molte idee, e molto diverse tra loro.
Naturalmente, penserete, a sovrintendere a tutto ciò c'era locchio benigno di Francesco Giuseppe, il
giovanotto diventato imperatore nel 1848 e che sembrava destinato a non morire mai, e della sua
buona amministrazione.

Piano. L'occhio sì, era benigno, e finiva in grane serie solo chi se le andava proprio a cercare. E
l'amministrazione era onesta, corretta, sparagnina, come si conviene a un paese con grandi
ambizioni e pochi capitali. Ma non pensate che fosse il miglior mondo possibile. Non negli ultimi
ventanni di storia dell'Impero, quando, sentendo questa grande struttura schricchiolare sotto il peso
dei nazionalismi, il potere centrale tentò di sopravvivere in un modo un po sporco: spingendo le
nazionalità una contro laltra. Pareva un normale gioco tattico, e forse lo era. Ma il risultato fu che,
quando l'impero si dissolse, lasciò in quello che era il suo grande corpo una tal massa di veleni che
qualcuno di quelli stiamo tentando di smaltirlo ancora adesso. Dai Sudeti, 1938, alla Bosnia, 1994,
erano tutte gemme di Francesco Giuseppe.
E adesso provate a immaginare la situazione. Per ventanni, tra il 1895 e il 1915, il grande porto
finalmente funziona, ci sono lavoro e soldi per tutti, le banchine sono piene, sui moli non c'è posto
per far attraccare tutte le navi. Accanto al porto è nato un sistema industriale, che si è espanso a
Monfalcone, in provincia di Gorizia, in Carniola, quella che oggi è Slovenia, in Istria. E dietro i
moli c'è unaria di piccola capitale di un impero, con teatri, sale da concerto, salotti, gallerie darte.
Per vent'anni, nel suo piccolo, Trieste è uno degli ombelichi del mondo. Bene, penserete, gli abitanti
saranno stati felici e contenti. E invece no. Mai, mai come in questo periodo tutti si danno da fare
perché questo finisca. Vogliono cambiare i confini, le costituzioni, i governi, i poteri economici.
Vivendo nel paese di Bengodi, lavorano indefessamente perché il paese di Bengodi si tramuti in
qualcosa d'altro. Con passione, impegno civile, dedizione totale: quando quell'Europa deciderà di
suicidarsi, e scoppierà la prima guerra mondiale, molti coerentemente andranno a combattere e a
morire per le loro idee.
Capite che cerano dei problemi. Che al dottor Freud, che allora esercitava, non mancavano i clienti.
Che quando si dice che a Trieste c'è unaria strana, almeno un po' viene da ancora da quei giorni, e
da quello che ci hanno lasciato gli scrittori, i poeti, gli artisti di quel tempo. Se ne accorsero anche i
contemporanei: una delle ultime cose che l'Impero costruì a Trieste fu un manicomio. Ma lo fece
grande come una città: per muoversi da una parte all'altra occorre prendere l'automobile, a piedi ci
si impiegano delle ore. In caso di bisogno, poteva contenere buona parte della città. Il messaggio era
chiaro.

Alla fine vinsero i nazionalisti, questo pezzo dEuropa si riempì di confini, e in mezzo finì per
trovarsi una grande città, con un grande porto, che non serviva proprio a nessuno. Ed è ancora così.
La città, per gli standard moderni, non è più grande. Il porto se la cava, ma ha alle spalle un sistema
ferroviario che chiede perdono al cielo: per forza, ogni cinquanta chilometri c'è un confine. E gli
abitanti sono ancora lì a chiedersi chi e quando ha sbagliato; il manicomio è ancora lì, bellissimo,
anche se non è più un manicomio, perché proprio lavorando da queste parti, evidentemente su una
materia prima molto ricca, un certo Basaglia vent'anni fa ha convinto il mondo a chiuderli, i
manicomi.
In mezzo sono successe un po' di cose. Per esempio, sono cominciate le pulizie etniche. Adesso voi
che per faccende di pulizie etniche avete appena assistito perplessi a un paio di guerre penserete che
si tratti di una moda di fine secolo, come le scarpe da signora con la suola da mezzo metro o
Internet. E invece no, è un'invenzione di tanto tempo fa. Pensate che nel 1918 la città di Maribor, in
Slovenia, aveva una maggioranza tedesca; dall'altra parte del confine, la piana di Klagenfurt, in
Austria, era a maggioranza slovena. Oggi gli sloveni d'Austria e i tedescofoni di Slovenia sono
minoranze simboliche, con la consistenza del panda gigante.

A Trieste nel 1914 c'erano trentamila austriaci. Pochi anni dopo, nessuno. Va bene, qualcuno era
stato trasferito qui per punizione, qualcuno faceva il poliziotto, e come tutti i poliziotti seguì lo
Stato che lo aveva nominato. Ma trentamila poliziotti sono un po' troppi, finirebbero per arrestarsi
tra di loro. Possibile che di quei trentamila, tra i quali professionisti, dirigenti d'azienda, padroni, a
nessuno sia venuto la voglia di fermarsi? Sui libri di storia su questa faccenda non c'è nulla. Fatto
sta che uno dei pochi che rimase, Julius Kugy, alpinista e cantore della montagna, è diventato
famoso un po' anche per questo.
Poi venne il fascismo, e decise che tutti dovevano essere italiani. Difficile, in una città il cui elenco
del telefono somigliava già allora a un verbale dell'assemblea dell'Onu. Però per un ventennio
l'italianizzazione andò avanti, e così oggi al cimitero ci sono famiglie che non hanno mai cambiato
nome, ma che sulla tomba hanno tre grafìe; lo stesso nome scritto all'italiana, alla tedesca e alla
slava. Fatto sta che durante il ventennio quelli che erano sloveni, e un po' vispi, e non avevano
voglia di farsi assorbire, capirono presto che era meglio cambiar aria, e trasferirsi a Lubiana.
Poi ci furono le leggi razziali, e l'occupazione tedesca, e una fetta importante della Trieste che
pensava e lavorava, quasi l'intera comunità ebraica, scomparve nei campi di concentramento. Ora
fate sparire da una città tre diverse classi dirigenti, e qualcosa di strano e sbagliato succederà a
quella comunità. Anche se subito dopo la guerra ci fu un esodo dall'altra parte: tutti quelli che
abitavano l'Istria e Fiume, ed erano italiani, o avevano motivi per non amare il paradiso socialista,
pensarono bene di andarsene, o furono indotti da alcuni esempi poco incoraggianti, e di due o
trecento mila che erano molti si fermarono proprio lì, per poter vedere la costa della loro Istria
almeno da lontano.

Intanto avevano rifatto i confini, e avevano lasciato attorno a Trieste un pezzo di terra così piccolo,
ma così piccolo, che qualcuno che bagnava il giardino di casa si trovava denunciato dalla
Jugoslavia per tentata alluvione, e se si usciva per una passaggiata era meglio avere il passaporto in
tasca. Si trovava un prato, si raccoglievano i fiori, allora non era ancora un attentato all'ambiente, e
tra un ciclamino e una margherita ci si trovava oltre confine. Oltre confine: oltre la cortina di ferro,
una grana mica da poco.
È difficile fare il conto di questo va e vieni, ma si capisce come mai in giro per il mondo, ovunque
si vada, si trova un triestino, e quelli che oggi vivono a Trieste e sono figli di triestini e nipoti di
triestini sono un club minuscolo.
E insomma passateci vicino, e fate un pensierino, quando vedete il cartello, non tirate diritto come
fate sempre; e passando per caso forse vi incuriosirà questa città dall'aria austriaca senza più
austriaci, abitata da gente un po' pigra che ama far compagnia, andare in gita o in viaggio, in barca o
in montagna, mangiare e bere, e tiene più a un tuffo in mare che al successo, ma che mantiene lo
stesso quell'aria inquieta e un po' strana. E badate che ha un piccolo segreto, che non vi ho ancora
raccontato: come ogni posto ha i suoi bei reazionari, e i suoi nazionalisti ancora in attività,
malgrado i danni fatti dalla categoria per un intero secolo; anzi, essendo una città di confine ne ha di
più di un tipo, di più di una lingua. Eppure, malgrado ciò, non c'è un porto del Mediterraneo
orientale dove come qui voi possiate arrivare, e se vi va fermarvi, e nessuno vi chiederà chi siete, di
che razza, di quale credo politico, di quale religione, e la vostra chiesa la troverete comunque,
perché ci sono tutte e l'unica che manca, la moschea, la costruiranno presto.
Insomma un posto nel quale sentirsi al riparo dalla storia e dalle sue stupidità, che in quella che si
chiama Mitteleuropa, ma che a chiamarla con il nome giusto è un gran casino, è un punto non da
poco. Forse è per questo che tanti che ci passano per caso si fermano. A questo va e vieni gli
stanziali sono indifferenti: tanto sanno che, se vi fermate, dopo un po' imparerete la lingua,
scorderete i congiuntivi, sempre che li usiate ancora, e direte "ciò, mona", durante i consigli di
amministrazione. Che vuol dire "ascolta, gonzo": ma la sfumatura non è esattamente la stessa, le
implicazioni sono molto più scurrili. Eppure nessuno ci si è mai offeso.

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