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Trio in Re Minore
in
BaoTzeBao Editore
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Il mondo non era ancora cambiato. Il Duca Orsino raggiunse in carrozza il castello dove
si sarebbe dovuto tenere l’incontro segreto. Pioveva forte. Per l’occasione aveva un abito
nuovo, fatto su misura dal sarto che – rivedendolo dopo anni di assenza – aveva capito
tutto con uno sguardo solo.
Il sarto depose sul portacenere la cicca della senza filtro. Sorrise alzandosi dallo
sgabello e si avviò, seguito dal Duca, verso la stanza delle pezze di tessuto.
- Non mi prenda troppo in giro, signor Masetti, sia gentile. Cos’ha che mi può fare in
pochi giorni, mi serve per una cena improvvisa, sono stato invitato e sa, non ho di che da
mettermi che sia, sia accettato…
Orsino aveva risposto di getto, senza nemmeno rendersi conto, fino al momento preciso
in cui lo disse, che in effetti di un principe in senso letterale si trattava.
Erano gli anni in cui Orsino lavorava ancora, con una certa qual continuità. Gli piaceva
quel mestiere fra l’artigianato e il mercato, sapeva di aver le capacità e il gusto per farlo
bene. Quel che gli mancava era il danaro. Non ne aveva abbastanza per comprarsi il
tempo per sostenere il progetto culturale che aveva bene chiaro dentro di sé, né quello per
comprarsi un valido aiuto commerciale e finanziario. Quello che aveva, invece, era un
socio di maggioranza. Anche lui senza danaro, ma non lo sapeva. O forse no, lo sapeva
ma non lo lasciava capire. Oppure, meglio ancora: si sarebbe potuto capire benissimo, e
Orsino lo aveva infatti capito, solo che non voleva capirlo. Cosicché - non potendo
liquidare il socio, e volendo invece tentare in ogni modo di continuare a fare bene il suo
mestiere - il Duca Orsino aveva accettato, che dico: aveva addirittura fatto di tutto per
essere invitato a corte. Quella sera avrebbe dunque potuto incontrare - e parlare con la
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calma che una cena riservata e ristretta consentiva - uno dei maggiori professionisti del
mestiere, un uomo bello, ricco e famoso, noto per l’eleganza dei modi, il coraggio e la
lungimiranza culturale. Un principe di nome e di fatto. E se fosse riuscito a trovare le
parole e i modi adatti, chissà…
I tentativi di trovare in provincia i danari per il suo scopo erano andati a battere contro il
muro di inadeguatezza e miopia della città di Orsino. Né lui, va detto, era un portento nelle
relazioni pubbliche: indisciplinato ed estroso, era stimato, forse - ma certamente anche
temuto per la sua indipendenza di giudizio. Il Duca non sapeva chiedere, parlava spesso e
troppo: sin a quel momento aveva ricevuto soltanto dei ‘No, grazie’. Fu così che - venuto
a sapere da un amico suo e del Principe che l’alta eccellenza sarebbe venuta dalla
Capitale, per una riunione d’affari in città, e che aveva ancora libera la cena - aveva
proposto un incontro. L’amico di Orsino, uno fra i pochi ad averlo fattivamente quanto
inutilmente aiutato a trovare gli aiuti cercati, era riuscito a combinare per quel venerdì sera
- pioggia battente, umidità livida - quello che abbiamo lasciato in cima a questo racconto
veridico ed elusivo al tempo stesso, per ragioni di stile più che di rispetto.
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L’oste accolse Orsino con il suo sorriso migliore. L’anticamera del ristorante era
spaziosa, sobria, poco illuminata.
Liberandosi del loden, il Duca si tolse anche il piacere di ignorare il complimento. Frase
già ascoltata – pensava – gradita certamente, ma anche ambigua. Da quando è che me la
sento dire, a parole o con gli occhi ?
Orsino lo seguì nella stanza già allestita. Il tavolo ovale, la cristalleria, le ceramiche, gli
argenti, cinque sedie. Cinque ?
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è ormai perduta ( se mai è esistita veramente nei comportamenti, al di fuori delle cronache
benevole ) – queste due belle parole pare vogliano soltanto dire che al Nobiluomo ogni
cosa è permessa. Mentre a mio parere – si diceva a bocca chiusa ma ad alta voce il Duca
– il significato corretto è quello opposto, ed esprime l’obbligo cui è tenuto lui prima degli
altri…
Orsino ascoltava, rapito dalla naturalezza del Conte, la sinfonia…, no: l’assolo di flauto
del suo discorso brillante e crudele. Un vero uomo di corte – ammetteva suo malgrado,
cercando di non mostrarsi troppo accondiscendente, né ancora infastidito.
Si sedettero.
Torniamo dunque alla scena, all’ora esatta in cui - puntuale, alto ed elegantissimo, in un
vestito grigio spinato, camicia bianca e cravatta di lana bouclèe - entrò il Principe, seguito
dal Presidente e da un Nobiluomo leggermente claudicante, ma di eretta e nobile postura,
e di lucido sguardo. Fu su quest’ultimo - sul suo gilet beige su pantaloni di velluto a coste
marroni, sulla sua giacca ( …di tweed, sì, di Harris Tweed – riconobbe in un sussulto il
Duca ) e infine sul suo volto, sui suoi occhi che si inchiodò, imbambolato, lo sguardo di
Orsino.
Lui. Qui – tremò in esultante silenzio il mio amico. E la sera cambiò, insieme, d'abito e di
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segno.
Intermezzo ( Andante esplicativo )
Rimanere fisso sul posto mentre tutti attorno si precipitavano incontro agli illustri ospiti
parve al mio amico, nei suoi primi racconti, un disonore.
“ Sai come va, Cino: – mi disse quel giorno d’aprile del 2004 in cui, su mia gentile
insistenza riprese a raccontarmi, dopo un silenzio che era durato quasi un mese - di quella
serata – Ero sconvolto, letteralmente. Quasi mai, in oltre cinquantanni, ho perso in
pubblico il controllo di me stesso, ma spesso non sono riuscito a fare ciò che credevo di
voler fare. Lì, in quel momento, avrei voluto non esserci, oppure che fossimo soli, soli lui e
io.
Più recentemente Orsino ammise con me, che gli ricordavo il suo “Princìpi di
Involontarietà Applicata”, che quel non fare era in realtà forse esattamente quello che
voleva fare, tanto è vero che che fu discretamente notato e compreso, più avanti, per quel
che era - infinita ammirazione - proprio da colui al quale era stato rivolto.
Si ritrovò seduto al tavolo quasi per incanto. Alla sua sinistra il suo socio Conte
Rubirosa, di fronte al quale sedeva il quinto innominato ospite; alla sua destra il Principe
Marco di Fortuneto, ed infine il Presidente.
- … E poi è andato bene tutto, come era nelle aspettative, del resto – sentì
concludere appunto quest’ultimo – pratico di silenzi e consigli d’amministrazione – con
uno sguardo circolare che andò a chiudersi sul Principe.
Nell’attimo che seguì, brevissimo ma aperto, si inserì con prontezza e mestiere l’oste.
- Tutti, mi pare – chiuse brusco il Chierico in gilet beige, che aveva capito bene i
desideri di tutti, di quasi tutti.
- Oh, ma che splendida idea – chiosò Quasi, nella più cortese indifferenza generale,
eccezion fatta per l’oste, compiaciuto per arte e contratto.
Nel frattempo Orsino era riuscito a scuotersi dalla sua immobilità facciale.
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- Il dottor Chierico – pensava, prima gravemente e via via più fiducioso – chi avrebbe
mai detto che ci saremmo incontrati, stasera poi… Forse non tutto è ancora deciso, forse.
( Ora, qui è necessaria un’altra spiegazione. So, immagino che queste cesure
disturbino l’eventuale lettore ma, come vi dicevo prima, avevo iniziato a scrivere queste
note per sole ragioni private, mentre adesso penso che potrebbero un giorno venir lette. )
E’ avvenuto, in questi giorni di fine dicembre, a meno di due settimane dalla sua
scomparsa – lo stesso giorno, capite, lo stesso giorno del Principe ! – che il Notaio mi
abbia dichiarato “ erede testamentario delle proprietà non materiali del Signor Orsino
Aron…” – come recita il foglio protocollato che ho qui davanti mentre scrivo, a puntate,
questa che mi pare sia la sua storia più importante, oltre che la prima che mi raccontò, con
voce nuova, quando ci rincontrammo.
Dovete ora sapere che Orsino è stato per me IL Nobiluomo, ma non era di nascita
aristocratica.
Trovarsi, com’era, ‘a Corte’ - in compagnia cioè di personaggi che per sangue, per
imprese o meriti avevano danari, titoli e maiuscole – non lo imbarazzava. E la decisione
con la quale aveva deciso di giocarsi, in quella partita, la sua ‘entrata in società’ ( e con
essa la possibilità materiale di proseguire nei suoi progetti editoriali bisognosi di
finanziamento ) non sarebbe stata scossa (era stata meditata, ed era improrogabile) se
non fosse comparso quell’uomo, l’unico fra i presenti – stava riflettendo Orsino – cui
riconosceva la Nobiltà vera, quella alla quale anche lui aspirava.
Era uno dei più prestigiosi e rispettati, temuti professionisti del mestiere che era anche
quello del mio amico. Altro ruolo, incommensurabile distanza e inavvicinabilità dei meriti e
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delle esperienze, precisava sempre Orsino, Ma insomma, Cino, in un certo qual modo…
eravamo colleghi. E mi diceva dei libri che il dottor Chierico aveva scritto, soprattutto di
quelli che doveva aver ben letto, della sua indipendenza di giudizio – spesso presa per
superbia dagli invidiosi incompetenti – , dell’eclettismo ( sempre ben temperato, chiosava
Orsino, che sapeva quanto amassi Bach ) , della misura, del magistero della sua opera.
Il mio amico non invidiava il dottor Chierico, gli era grato; solo avrebbe voluto essere lui,
e sapeva bene che così non sarebbe mai potuto essere.
Infine: svelo a chi non lo avesse già intuito che tutti i cinque commensali avevano a che
fare con il mestiere di Orsino: il Presidente era stato anche Direttore di un importante
quotidiano, il Principe era un grande editore, il Conte Rubirosa uno stampatore, legatore,
editore… , ma questo lo avete capito già bene: Rolando era convinto di essere tutto
questo, e molto di più.
- Chi lo sa ? – meditava senza ironia alcuna, con benevolenza, il Duca Non Duca
quando me ne parlava – Forse la sua indiscutibile bellezza, i suoi nobili nomi di Famiglia, il
suo infallibile fascino, le aspettative vere o presunte - sue e di chi lo circonda - un
temperamento incline alla seduzione, una certa qual natural indifferenza… Chi lo sa, Cino:
forse il peso di queste doti lo hanno reso un uomo… un po’ esagerato, come dire, un poco
vanesio, e molto infelice, credo.
Vi chiedo scusa. Devo interrompere qui, per il momento. Sono passate ore intere senza
che me accorgessi. Non sono uno scrittore professionista, ve ne sarete accorti, eccome !
Sono un uomo libero da doveri familiari, è vero, e ci sono piaceri cui non so, né voglio
resistere. Vado, ma torno. Abbiate pazienza, volete ?
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- A quattordici anni ho cominciato sul serio, ma non lo sapevo, ciò che poi ho
continuato a fare fino a oggi, e credo che continuerò, che lo voglia, possa oppure no…
Stavano parlando da una buona mezzora: ai piatti di jota erano seguite le crespelle
agli spinaci, le carni e le verdure. Il presidente aveva abilmente portato dal tema generale
– la città, i suoi incerti legami, il passato che incombeva ancora, il futuro non condiviso – al
ruolo della stampa e dell’editoria. Il conte Rolando aveva spiegato, raccontato, alluso. I
suoi aneddoti erano sempre pieni di garbo: forse non altrettanto di informazioni precise,
ma il Principe sembrava gradire: una certa, almeno apparente familiarità fra i personaggi
di cui parlava il Conte di Rubirosa e il mondo nel quale Marco di Fortuneto era un
protagonista avevano stabilito un clima di cortesia e affabilità che al Duca non Duca
Orsino piaceva e non piaceva. Era rimasto insolitamente quasi sempre zitto, ascoltando
disciplinatamente – dopotutto non era nobile né celebre, ed era anche il più giovane al
tavolo – ma in realtà era in dissimulata ma tesa attenzione dei silenzi del dottor Chierico.
Questi si era dapprima, in piena concentrazione, assaporato a misurate cucchiaiate la jota
quasi senza alzare gli occhi dal piatto. Ora, dopo aver condito con minuziosa cura le
verdure cotte, ne tagliava un pezzo alla volta per custodirne il calore, portava la forchetta
alla bocca e masticava ogni boccone con lentezza.
Alla frase improvvisa di Orsino, che aveva colto una pausa nella cicaleggio, il dottor
Chierico alzò su di lui lo sguardo, come tutti; poi tornò a misurare l’ ultima mezza patata
lessa che ingialliva, spruzzata appena di erba cipollina verde, il piatto bianco. Depose le
posate e disse:
- L’editore ?
- In un certo senso, sì, professor Cesare – rispose Orsino.
Gli altri avventori tacevano. Nessuno aveva chiamato per nome il dottor Chierico.
Orsino fece appena in tempo a notare uno scambio d’occhiate fra il Principe e il suo
amico. Così riprese, dopo aver posato la forchetta ed essersi passato il tovagliolo sulle
labbra:
- Alle feste cui ero invitato mi annoiavo, mi ci chiamavano per consuetudine. Non mi
piaceva ballare, le ragazze non badavano a me, ma mi piaceva la musica e avevo una
bella collezione di dischi.
Orsino cercava di staccare lo sguardo dal professor Cesare Chierico. Si era reso
conto che quella che era stata fino ad allora una conversazione a più voci, indirizzata alla
ragione principale per cui la cena era stata organizzata, aveva preso una piega diversa.
Incoraggiato dal silenzio nel quale nessuno sembrava voler entrare - per evidenti ragioni di
rispetto alla attenzione che il Dottor Chierico gli aveva riservato - continuò:
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- Così mi presi il compito di portare i dischi, di suonarli uno dopo l’altro, di fare il disc
jockey, come si sarebbe presto comunemente detto. Suonavo i dischi che piacevano a
me, ma ben presto cominciai a tener conto dei gusti affatto diversi dei miei amici…
Dovevo farli ballare e divertire, e mi piaceva farlo. A casa erano Beatles, Mina, cantautori
e jazz, oltre alla musica da camera, ma alle feste erano Bee Gees, Abba o Shocking Blue.
Rolling Stones al massimo, o Brian Auger, e anche, sì, anche Wilson Pickett, Fausto Leali,
Gene Petney, Equipe 84 Mia Martini, i Pooh, sapete… - chiuse un poco bruscamente
Orsino.
- Ed è così che sceglie i libri per la sua casa editrice ? – interloquì il dottor Chierico.
- Non abbastanza, non quanto vorrei saper fare… – rispose il mio amico – Ma
insomma sì. Tengo conto dei miei gusti personali nei libri che acquisto e leggo, ma per
quelli che pubblico cerco di mediare fra una forma, anche tipografica, che sia tesa al
meglio, all’eccellenza – osò dire Orsino cercando di non esagerare ma esagerando, come
era purtroppo incline a fare – e i gusti del pubblico della casa editrice.
Il Dottor Chierico, con un gesto netto della mano destra accompagnato da un lieve ma
evidente piegamento del viso su quello del Conte Rubirosa, lo interruppe bruscamente.
- No.
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- No, professore. Ho poca esperienza, il mio gusto non è abbastanza solido, la mia
preparazione incompleta, la mia forza non è abbastanza temprata. E volendo non cedere
a tutti i ricatti che ogni mercato fa - specie ai pesci come me, di carta e piccoli, ma che
però vogliono crescere - non ho, non abbiamo – disse Orsino girando per un attimo la
testa verso sinistra, dove gli sedeva accanto l’ammutolito ma sorridente Conte Socio di
Maggioranza Rolando di Rubirosa – abbastanza mezzi per sostenere un piano editoriale
adeguato.
- Vedo.
Un silenzio così - mi diceva spesso Orsino, che spesso tornava, specie negli ultimi
mesi, al racconto sempre più particolareggiato di quella serata – io non lo mai più sentito.
Dopo quel “ Vedo ” che durò quanto un’eco a fondo valle, i corpi e i volti dei presenti
parvero rimettersi in movimento. Orsino era stremato. Rolando non osava cercare il suo
sguardo. Il presidente non riusciva a trarre dal cappello magico delle sue risorse
cardinalizie e politiche una battuta, una divagazione. Il Dottor Cesare Chierico stava
finendo la sua mezza patata.
- Mi hanno parlato di una collana, sua, vostra – disse allora il Principe – sul mare e le
sue storie…
- Gente di Mare, sì, siamo al quinto titolo… - riprese a respirare Orsino.
- Ne ha copie qui ?
- Certamente. Ne ho portata una di ciascun libro – riprese colore Orsino – mi
ripromettevo, dopo il dolce…
- Oh sì, davvero molto gentile, sa, Aron, sul mare sto così bene…
- Ma va là Marco, che tu sei uomo di pianura, come me del resto !
- Cesare mi conosce troppo bene – sorrise benevolmente a tutti il Principe – ma non
del tutto, non del tutto…
- Solo un testo, visto come una mappa e da una buona distanza, possiamo forse dire
di poter conoscere davvero.
- Due amici, persino due grandi e liberi amici sanno, ciascuno di se stesso, meno di
quanto sappia l’amico. La distanza è necessaria per conoscere quanto ci è più vicino,
anche se non è sufficiente. Quando entro in un libro, le volte che ci riesco e ci rimango
abbastanza - in una frase appena, o in una pagina di riguardo, bianca a sinistra prima del
nuovo capitolo in quella destra – lì a volte mi par di trovare - e subito mi par di perdere -
ciò che di più vero c’è, ciò che nemmeno l’autore sa di avervi lasciato.
Orsino aveva pronunciato la frase intera in un respiro soltanto. A testa bassa, come
parlando a sé, ma osando alzare lo sguardo sulla parola “ vero”, che sussurrò – mi riferì il
presidente solo pochi giorni fa, mentre ricordavamo insieme il comune amico scomparso –
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quasi al di sotto della percettibilità, ma con una sicurezza che stupì lui per primo, dopo che
ebbe ripreso fiato.
Quattro camerieri, il padrone del ristorante e sua figlia, maitre patissier, entrarono
nella stanza riservata. Gli occhi e i nasi furono tutti sui grandi piatti di porcellana bianca,
sulla millefoglie destrutturata e gialla, sulla croccante pasta sfoglia, sul velo di zucchero
che la decorava.
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Caffè e liquori. Tavola spoglia e ripulita. Non si può più fumare, peccato.
Accanto alle tazzine e ai bicchieri una piccola pila di libri dalla copertina blu. Il
Principe ne sta sfogliando uno, “ L’ultimo viaggio del Baron Gautsch ”, di Pietro Spirito. Il
dottor Chierico sta leggendo “Sei Marinai dell’Adriatico”, di Giubek Marini.
Il professor Cesare Chierico alzò gli occhi dalle pagine. Storse un poco le labbra.
Depose il libro lasciando l’indice fra le pagine.
- Qui c’è una bandiera rossa d’onore – disse con allegra pompa imperiale – , una
buona prosa asciutta, chi è questo Giubek Marini, non l’ho mai sentito…
Orsino stava già per aggiungere particolari, vinto dall’emozione causata dal ricordare
l’amico Giubek, morto poco più di un anno prima, e i suoi burberi consigli in materia di
editoria, politica e civiltà. Ma seppe star zitto, e fu una fortuna.
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Solo un cenno di saluto – rimuginava insofferente – : che sbruffone devo esser stato,
il solito asino !
Il vestito nuovo si faceva sentire, adesso. Pareva ad Orsino di essere stretto in una
camicia di forza. Sognò di essere a casa, in pigiama, appollaiato sulla sua poltrona
preferita, a fumare, finalmente.
- Certo, signor Ban, grazie a lei è andato tutto benissimo. La millefoglie poi,
complimenti a sua figlia…
Appena fuori, scosso dal freddo, Orsino alzò il colletto del loden. La sua macchina
era poco lontana. La discesa, un angolo, pochi passi. Il piazzale era poco illuminato, ma si
vedeva bene una berlina scura - luci interne accese - posteggiata accanto al coupè del
Duca.
Prima ancora di poter capire, Orsino vide la porta posteriore spalancarsi a metà.
- Lei non è un editore, caro Aron – disse subito il professor Cesare Chierico. – , lei è
altro!
Orsino taceva. Si era girato e guardava i volti in penombra dei due uomini seduti sul
sedile posteriore. Taceva, senza fiato: aspettava.
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- Lei non da credito, il giusto credito, alle sua capacità. Lei ha scelto la via tortuosa,
quella meno fortunata, per riconoscersi, per scoprire chi è davvero.
- Lei, caro Aron – gli disse cercandone lo sguardo immobilizzato – , lei è una persona
nobile, lei…
- Mi ascolti, giovane pesciolino direttore della piccola casa editrice locale – riprese,
irridente e secco il Professore – Lei fa buoni libri, è di buone letture, e scommetto che sa
anche scrivere. Lasci perdere le scuse, i soldi, il mercato… Faccia della sua Casa quello
che vuole fare, o la abbandoni e si metta a fare qualcosa sul serio - ma sul serio davvero,
mi capisce ? - Lei non è più un disc jockey, se poi lo è mai stato…Cosa sta aspettando ? -
ha quasi cinquantanni, vero? - Che sia troppo tardi ?
Si girò verso il parabrezza, allungò la mano alla sua destra, a cercare la maniglia.
- Ci sono passato, per quelle strade, io. Non vi indugi troppo, ci è restato abbastanza.
Io, io ho resistito, e diamine!, Resisto ancora troppo! – sfiatò come parlando a se stesso.
E non faccia paragoni – riprese con maggior forza un attimo dopo – va da sé che io sono
io, e lei no ! Usi con forza la sua ammirazione per me. Si tiri fuori dal suo buco. Basta
salite, si lasci andare, scenda ! Vada in pianura ! Vada, adesso. Vada a casa, che è
davvero troppo tardi !
Fino all’ultima volta in cui - pochi giorni prima di morire, due settimane fa - mi
raccontava ancora quella storia e il suo finale, ogni volta non sapeva esserne certo.
Probabilmente ho solo pensato di averlo detto, quel Grazie, figurati ! Ero cotto, ero di carta
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Quel che è invece certo è che pochi giorni dopo il mondo cambiò.
E che due anni dopo quella sera dei primi di settembre del 2001, - due anni molto
intensi e belli, ma altrettanto severi, nei quali la profezia del professore lo inseguiva -
Orsino lasciò la Casa Editrice. Perché, quale la causa puntuale e quali le remote non è
questo il luogo né il tempo di dire. Posso solo testimoniare di un dolore profondo, nascosto
alla bene e meglio, troppo acuto per venir del tutto dissimulato. Nelle sue carte sparse, nei
faldoni e nei quaderni, sotto titoli come “Ilrestomanca” o “Unavitadamarrano” ( scritti così,
in una parola soltanto ) , o nei files intitolati “leggerezze e scrivitudini”, ci sono migliaia di
parole che testimoniano del dolore e delle cure.
Lui, generosamente, diceva che le cose si erano messe per il verso giusto da quel
primo marzo del 2004 in cui ci rincontrammo per non lasciarci che.
Già.
Da domani, forse, potrò guardare alle sue carte con maggior confidenza e
leggerezza. E chissà, forse, trascriverle ordinatamente, da buon esecutore testamentario.
Buon DuemilaNove.
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CODA ( Tempestoso )
Ieri sera, in punta di fine anno, avevo - come mi ero ripromesso – finito di scrivere il
racconto della cena con i principi che tanto contò per il mio amico Orsino. Chi di voi
l’avesse già letta sa come finisce. Pubblicare in Rete è così facile ed immediato che non
so, né saprò mai se qualcuno ha già letto, né chi è, né tanto meno se tornerà più su
queste pagine di pixel. Ma devo pensare anche al riverbero dei testi in Rete, alla loro
possibilità di diffondersi senza alcuna possibilità, per l’autore-editore, di saperne la
destinazione. I libri, quelli di carta, non avevano sorte diversa, dopotutto, ma la loro fisicità,
almeno, permetteva note, appunti, identificazioni… Insomma personalizzazioni che, che
insomma…
Dopo aver chiuso il computer sono rimasto a cenare qui da solo, nella casa di Orsino.
Prevedevo di farmi una tartina o due, di stappare una bottiglia del suo amato ( anche da
me, statene certi ) Sauterne, di fumarmi uno dei suoi sigari, e di lasciarmi infine dormire in
poltrona fino a svegliarmi, possibilmente meno stanco e abbattuto di quanto ero dopo aver
scritto, io che non sono uno scrittore, quella storia di una intera vita raccolta in quattro ore.
Lo dovevo fare e lo avevo fatto, ma la spossatezza che aveva seguito la caduta di
tensione mi aveva davvero abbattuto, e così - invece di cogliere dal liquido paglierino e
dalla cenere del Partagas la desiderata sonnolenza – ero più agitato e sveglio che mai.
Decido allora di darmi ancora da fare, di “portarmi avanti” con il lavoro che progettavo
di cominciare di là a qualche tempo, quello di cui nelle righe finali ( non più finali, adesso )
del racconto.
Scartabello dunque fra faldoni e libri, ammucchio carte, apro buste. Leggo le sue
note ( e qui già intravedo, e vi potrei già dire quali, spunti interessanti, ma non c’è tempo.
ora) , mi siedo in poltrona: seguo una pista che rimanda da una frase sulla pagina di un
suo quaderno ad un’altra in un libro che mi ricordo di aver visto sul suo comodino, vicino al
letto dove Orsino fu trovato morto alle prime ore del 16 dicembre dell’anno scorso. Vado a
cercarlo. Lo trovo. Lo prendo e. Ed esce, come una foglia cade da un albero, esce dalle
sue pagine ( è un librone rilegato rigido), cade un libricino bianco e piccolo. Titolo:
“Pianura Proibita” . Autore: Cesare Chierico. Mi siedo sul letto. Ho le palpitazioni. Sono un
uomo sano, ma non proprio uno sportivo, mi pare di avere il cuore in bocca. Apro il libro, lo
sfoglio. E’ piccolo, magnificamente stampato su carta da edizioni d’arte. Disegni bellissimi
in bianco nero, di Carlo Mattioli. Caratteri che paiono stampati dal piombo, in due colori:
rosso brillante e nero. Arrivo all’ultima pagina: sulla sinistra un quadro a colori pastello,
riprodotto benissimo, sulla destra poche righe stampate e, dopo il luogo e la data di
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chiusura - Viareggio, 17 ottobre 2001 – trovo, vergate a matita grossa, tre righe. Queste:
ANCHE A ME,
GRAZIE .
15, dicembre, 2008
ANCHE A ME,
GRAZIE .
15, dicembre, 2008
Non trattengo più la commozione. Le lacrime erano già spuntate alle prime righe, ma
ora colano. Tiro sul col naso, mi asciugo con la manica della camicia. Mi calmo un poco,
ho la gola arsa e vado in cucina a bere un bicchiere d’acqua fresca. Ho il libretto in mano,
mi siedo al tavolaccio di legno dove abbiamo fatto notte molte e molte volte. Lo riapro alla
pagina della nota. Mi accorgo che la frase con cui comincia è incomprensibile, dunque
vado indietro, a pagina 41. Ultimo capoverso. In stato di nuova, quasi insopportabile
eccitazione, leggo:
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ANCHE A ME,
GRAZIE .
15, dicembre, 2008
Non ho più parole, né pensieri, ne lagrime. Solo tremo. Scuoto la testa e tremo. Chi
ha letto questa storia fino al suo epilogo, ancora prima di questa inaspettata coda, ha
capito perché.
Con tutta la calma che possa richiamare, con ogni precauzione che possa prendere
mi rendo conto che davvero ora le cose si fanno ancora più complesse, per me. Non
credo di riuscire a interpretare il ruolo che la nostra amicizia, la sua morte e il suo lascito
mi indicano, mi impongono. Ora, dopo questa scoperta, dopo quel capoverso e quelle tre
righe testamentarie, di gratitudine postuma, mi sento del tutto inadeguato.
E’ dunque per questo, per dirlo, per non mentire a me stesso, per non tradire la
fiducia di Orsino Aron, per questo mi trovo qui adesso, che è già quasi giorno, a battere
sui tasti ciò che voi – chissà ? - state leggendo.
Ora - dopo aver trasferito in calce a questa Coda le prove fotografiche di quanto vi ho
raccontato - andrò via di qui, andrò a casa mia. Sono certo che dormirò. O forse sto
dormendo, e questo che vi ho raccontato è stato un sogno. Siamo il sogno o i sognatori ? -
mi chiedeva, citando il famoso apologo cinese, Orsino. – E se non lo sai tu - ammiccava
stringendo gli occhi e sorridendomi - tu che ti chiami Cino…
Quando mi sveglierò so però già dove dovrò andare a camminare, da solo, prima che
sia, anche per me, troppo tardi.
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