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Daniela Collu , classe 1982, è conduttrice televisiva, speaker radiofonica e influencer.

Guidata da una
curiosità onnivora e da un’innata vocazione comunicativa, dopo la laurea in Storia dell’arte si avvicina
alla radio e alla televisione. Ha presentato «StraFactor» su SkyUno, «The Real» su TV8, ha partecipato
a «Sbandati» su Raidue e condotto programmi radio su Rai Radio Due e RTL 102,5, dove lavora tuttora.
Ha scritto su riviste online e cartacee (da Donna Moderna a Vice ). Con Vallardi ha pubblicato il suo
primo libro, Volevo solo camminare (2019).
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Antonio Vallardi Editore s.u.r.l.


Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Copyright © 2020 Antonio Vallardi Editore, Milano

L’editore è a disposizione degli aventi diritto per quanto riguarda eventuali fonti iconografiche non identificate.

Immagine di copertina: Courtesy by TOILETPAPER magazine (Maurizio Cattelan & Pierpaolo Ferrari)
Progetto grafico: Giulia Voltini

Realizzazione editoriale di Alessio Scordamaglia

ISBN 978-88-5505-441-6

Prima edizione digitale: novembre 2020


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Alle tartarughe di Maciachini
Sommario

Introduzione. Ceci n’est pas un manuale di storia dell’arte


Postilla all’introduzione
Claude Monet, Ninfee
Leonardo da Vinci, La gioconda
Joseph Kosuth, One and Three Chairs
Jake e Dinos Chapman, Zygotic acceleration
Mimmo Rotella
Pieter Bruegel il Vecchio
Constantin Brâncuși, Uccello nello spazio
Antonio Canova, Paolina Bonaparte
Gustave Courbet, L’origine del mondo
La Sindrome di Stendhal
Gustav Klimt, Goldfish
Raffaello, Le Tre Grazie
Le Corbusier, Ville Savoye
Kiki de Montparnasse
Jan van Eyck, Ritratto dei Coniugi Arnolfini
Tracey Emin, My Bed
Francisco Goya, La maja desnuda e La maja vestida
Marina Abramović
Ulay
Cos’è la melancolia?
Salvador Dalí, Le cene di Gala
Il Duomo di Milano
Michelangelo, Tondo Doni
Piero Manzoni, Merda d’artista
Olafur Eliasson, The Weather Project
Guerrilla Girls
Cindy Sherman
Marc Chagall, Autoritratto con sette dita
Michelangelo, David
Francesco Borromini, Sant’Ivo alla Sapienza
René Magritte, Il tradimento delle immagini
Jan Vermeer, Ragazza con turbante
Carlo Zinelli
Pierre Bonnard
Robert Mapplethorpe
Come si individua un dipinto falso?
Andy Warhol
Mark Rothko
Keith Haring
Giotto, Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta D’Oro
Cos’è l’anamorfosi?
I ritratti del Fayyum
Katsushika Hokusai, La grande onda di Kanagawa
Yoko Ono
Piet Mondrian
Alberto Giacometti
Sandro Botticelli, La nascita Di Venere
Frank Lloyd Wright
Giuseppe Civitelli
Anish Kapoor
Rembrandt van Rijn
Adolf Hitler
Jackson Pollock
Maurizio Cattelan
Vasilij Vasil’evič Kandinskij
Cos’è la sinestesia?
Ultima cena
Colosseo
Il dipinto ritrovato in Stuart Little
Il pene
Conclusioni
Ringraziamenti
Introduzione
Ceci n’est pas un manuale di storia dell’arte

Mettiamo subito le cose in chiaro.


Esattamente come per René Magritte quella non era una pipa (ma poi magari ne parliamo meglio nel
capitolo su René Magritte), questa non è una guida, non è un manuale, non è un testo di studio e non è
il libro da sfogliare prima dell’esame universitario con il vostro docente più meticoloso e pignolo. Questo
libro vuole essere un trionfo di cazzeggio da celebrare insieme. Il volumetto che tenete tra le mani è la
quintessenza della leggerezza cialtrona applicata alla conoscenza dell’arte: dovete pensare a me come
se fossimo uno accanto all’altro davanti a una enorme tela di Jackson Pollock ad aspettare che qualcuno
dica una cosa intelligente mentre in realtà tutti pensano: «Vabbè, con una latta da cinque litri nel
garage di zio Franco in campagna, questo lo so fare pure io».
«Impara l’arte e mettila da parte» diceva qualcuno. «Ma chi ci riesce?» riflettevo io.
Ho iniziato a fare questo gioco su Instagram, qualche anno fa, spulciando nelle memorie residue dei
miei studi universitari: quando mi trovavo davanti a un monumento, una piazza o una chiesa, accendevo
la fotocamera del telefono e raccontavo in un minuto o poco più storie e dettagli curiosi sul tale artista,
su un’opera o sulla corrente, quelle sciocchezze che non si trovano nelle guide turistiche ma che ti
fanno fare una gran bella figura alle cene.
E poiché fare colpo sui nostri amici con informazioni assolutamente inutili ma affascinanti è proprio
quello che tutti vogliamo nel profondo, #1minutodarte, scritto proprio così, in forma di hashtag, è
diventata una rubrica più o meno fissa, che spesso è stata alimentata dalle richieste dei follower, spesso
ha vissuto di viaggi e fughe culturali in Italia e non solo, spesso ha preso vita di notte camminando per
la città, o con un catalogo aperto nel salotto di casa mia, specialmente quando il MoMA era lontano ma
la voglia di Les demoiselles d’Avignon prendeva il sopravvento.
Sono certa non ci sia bisogno che io dimostri come l’arte, in ogni sua forma, sia il mondo intero e il suo
racconto, di come descriva tutto quello che l’uomo è, e anche quello che non sa di essere, di come abbia
permesso di comprendere spesso cose che il pensiero e la parola non avrebbero saputo spiegare. Per me
l’arte è sempre stata il punto di domanda più divertente, quello di fronte al quale mi arrovellavo
sapendo che mai avrei trovato risposte, ma indizi importanti sì. L’arte è il mio delitto irrisolto, solo che al
posto delle vittime, c’ero io, piena di vita e di curiosità da soddisfare.
Ho cominciato da ragazzina con Salvador Dalí, i tagli di Fontana e la Merda d’artista di Manzoni, nel
modo più banale e immediato che esista:
Ma che significa sta roba? Mi stanno prendendo in giro?
Domanda comprensibile ma poco intelligente, lo ammetto, in compenso le risposte erano sempre
sorprendenti, acute, geniali, a volte di un’ironia e una libertà mai incontrate prima. E se l’arte
contemporanea mi ha concesso il lusso del rebus, la sorpresa è stata ritrovare lo stesso gioco di
significati nascosti, di slittamenti, di misteri racchiusi nell’arte antica, nel Medioevo, nel Rinascimento,
nelle pale d’altare e nei ritratti borghesi con le damine e il levriero afghano in posa perfetta. Ci ho perso
in sonno e diottrie e guadagnato in curiosità e senso critico, ho annotato aneddoti scemi e informazioni
preziosissime, qualcosa ho dimenticato, qualcosa mi ha cambiato per sempre, di certo ora ho strumenti
che prima non avevo e una granitica fiducia che la creatività ci salverà tutti.
E adesso siamo arrivati qui, se avete un’oretta libera, un minuto alla volta, la passiamo insieme.
Postilla all’introduzione
(scritta alle ore 16 di un sabato di inizio aprile 2020, probabilmente in compagnia di un
Gewürztraminer, non garantisco)

Io questo libro avrei voluto scriverlo all’aria aperta, immaginando suggestioni e ragionamenti partoriti
all’ombra della fila per il bagno degli Uffizi, o su un volo Ryanair di ritorno dopo un weekend a Vienna a
vedere Klimt, o camminando per New York, cercando tracce di Haring e Basquiat insieme a un
hamburger da blocco delle coronarie. Invece lo scrivo in quarantena, su un balconcino di un metro per
tre, in zona Maciachini a Milano, con le sirene delle ambulanze che portano i malati al Niguarda,
durante la quarantena imposta dall’emergenza Covid-19. Lo scrivo senza libri, che sono rimasti nella
mia vecchia casa del Pigneto a Roma, esclusi dal mio ultimo trasloco fast&furious, lo scrivo senza
biblioteche e senza musei, i luoghi dove (fatta eccezione per il mare e i boschi) più di tutto mi sono
sentita accolta e felice negli ultimi vent’anni della mia vita. Non è stato facile, e a volte ho pensato che
fosse stupido e inutile portare avanti un progetto del genere mentre il Presidente Conte spostava la data
di fine lockdown e tutti cercavamo quella improvvisamente preziosissima ricetta dello Xanax che il
medico ci aveva prescritto qualche mese prima. Poi ho pensato che se c’è una cosa a cui bisognerà
ritornare, quando tutto sarà finito e a maggior ragione se tutto cambierà per sempre, è l’allenamento
alla bellezza e all’immaginazione, alla memoria e alla curiosità. E io questo esercizio che mi sto
regalando, e che spero di regalare a voi, me lo sono goduto. So che se resisterò guardando sempre e
solo il paesaggio fuori dalla mia finestra (cioè un tizio della Scala C con indosso un preoccupante
pigiama beige, sempre lo stesso, che fa videochiamate con sua madre in balcone) è perché mi sono
abituata a centellinare i dettagli, a fantasticare sulle storie, a inventare dietrologie intellettualoidi o
scemissime, e a non accontentarmi mai di un pensiero semplice. E lo dico rischiando di sembrare
immodesta, e ci tengo a precisare che non è stata una mia conquista, ma un regalo gigantesco che l’arte
mi ha fatto. Questo 2020 è un animale strano, ce lo ricorderemo tutti per sempre come l’anno in cui
siamo stati chiusi dentro casa a scalpitare, mentre fuori c’erano la paura e i runner insultati dai balconi.
Non so nulla di cosa ci aspetti, riesco solo a ricordare come si stava, ingannare l’attesa e desiderare
forte cosa arriverà. Dicono che andrà tutto bene, fidiamoci e speriamo, del resto anche dopo la guerra è
arrivata quella figata immensa del Dadaismo.
Claude Monet
NINFEE
Si sta come in primavera, gli Impressionisti, nei giardini (semicit.)

Nel 1883 Claude Monet, padre dell’Impressionismo francese, si trasferisce a Giverny, appena fuori
Parigi, nella casa che acquisterà nel 1890 e dove vivrà fino all’ultimo dei suoi giorni, immerso in una
natura meravigliosa e nell’invidia imperitura di tutti noi. Subito si dedica alla creazione di un giardino
d’ispirazione giapponese con tanto di laghetto artificiale, ponticello romantico, piante esotiche e fiori di
tutti i tipi, destinato a diventare il suo soggetto preferito e sicuramente più famoso. Il miglioramento
della sua produzione in termini di instagrammabilità è del 6000%, un improvement forse paragonabile
solo all’arrivo del piccolo Leone in casa Ferragni.
Nel passaggio dall’osservazione di paesaggi ampi e ariosi, in cui cieli, tramonti e acque trasparenti la
facevano da padrone, a porzioni di realtà più ristrette, familiari, ricorrenti, collochiamo l’ossessione di
Monet per le ninfee e più incidentalmente la nascita dell’astrattismo come processo di affrancamento
dal soggetto raffigurato. Ma non è di questo che parleremo ora.
Prima del 1889 le ninfee in Europa erano bianche, non ne esistevano varietà di altri colori:
all’esposizione universale di quell’anno Latour-Marliac, un ricco appassionato di botanica, presentò un
nuovo innesto di ninfee variopinte, simili ai fiori giapponesi di cui Monet era innamorato. Documenti
dell’epoca attestano che proprio Claude Monet fu tra i primi e più munifici clienti di Latour-Marliac e gli
ordini fatti dal pittore includevano ben 19 varietà di ninfee diverse. Riusciremmo a immaginare quel
gioco magico di sfumature, universi cromatici che le ninfee hanno creato per anni nella pittura di
Monet, assumendo ogni volta caratteri e confini diversi, senza gli innesti tropicali di Latour-Marliac?
Come sarebbero state le pennellate viola, rosa, a volte aranciate alla luce del tramonto, a volte sbiadite
dai riflessi dell’acqua fino a diventare macchie inconsistenti e lattiginose, prive di traccia, disegno e
corpo, senza l’intervento provvidenziale dell’amico botanico?
Lo diceva proprio Monet: «Solo due cose mi appassionano: la pittura e il giardinaggio». Un plauso a lui
per averle condensate nel capolavoro inestimabile che conosciamo. A me per esempio appassionano le
polpette e le foto di bambini asiatici ciccioni: è chiaro che vince lui.
Claude Monet, Il ponte giapponese (1899), National Gallery of Arts, Washington. Per gentile concessione della National Gallery
of Arts, Washington DC.
Leonardo da Vinci
LA GIOCONDA
Leonardo, ovvero il primo make-up artist della storia

Cosa possiamo dire della Gioconda, alias Monna Lisa, alias l’alter ego di Leonardo, alias il-sorriso-più-
enigmatico-della-storia che non sia stato ancora raccontato? NIENTE, ve lo dico io, niente, vi supplico.
Retropensieri, dietrologie, interpretazioni, simbologie illuminanti e misteri sconfinati sull’identità
dell’unica donna a cui stia davvero bene la riga al centro (insieme a Cher) ci hanno perseguitati per
secoli, almeno finché Beyonce e Jay-Z non hanno deciso di spostare l’attenzione su di sé con quel selfie
pazzesco al Louvre. Ma forse non tutti sanno che, prima ancora che Kim Kardashian ci iniziasse alla
gloriosa arte del contouring, Leonardo aveva già pensato a soddisfare le esigenze di noi make-
up addicted in cerca dell’effetto lifting ideale. A quanto pare la fisionomia della Gioconda è stata creata
su una successione di supporti: prima l’artista l’ha osservata attraverso un vetro su cui ha dipinto le
linee di base, poi con un foglio appoggiato sul vetro ha registrato l’impalcatura del volto e del corpo, in
seguito il disegno è stato ritracciato con uno strumento appuntito con la tecnica dell’imprimitura su una
tavola lignea con gesso e colla, e in ultimo, completato col colore. Praticamente quello che facciamo
tutte noi la mattina, iniziando con il copriocchiaie e il fondotinta, spaziando dal livello «trucco invisibile»
a quello «truffa ai danni dello Stato». Ma scendendo nel dettaglio, c’è un particolare su cui Leonardo si
è superato: per rendere la tensione muscolare dell’esatto momento che precede il sorriso vero e proprio
di Monna Lisa, Leonardo ha disegnato un minuscolo tratto sotto il labbro inferiore, una specie di
impercettibile cicatrice necessaria a formare l’ombra e quindi l’illusione di un turgore vagamente
asimmetrico, prospetticamente carnoso, tridimensionalmente sensuale. Grazie a quel gesto
all’apparenza trascurabile, il labbro inferiore e il ghigno appena accennato si mostrano e esplodono in
tutta la loro potenza, e non necessitano di altri elementi. Il sorriso c’è, ma non si vede. Basta un’ombra,
un’unica riga per dare volume al mento, alla bocca, per creare un’intenzione, un atteggiamento, un
pensiero, quasi una intera personalità. Ora provate a spiegarlo al chirurgo plastico, e che Vasari ve la
mandi buona.
Leonardo da Vinci, Gioconda , Louvre, Parigi. Foto © Louvre, Paris, France / Bridgeman Images.
Joseph Kosuth
ONE AND THREE CHAIRS
L’unica volta in cui la domanda ‘in che senso?’ ha senso

Signore e signori, l’arte concettuale alla sua massima potenza. Se per molti di voi l’arte concettuale è
quella che fa innervosire perché non si capisce, la più difficile da immaginare nel nostro salotto di casa
e per cui ci sentiremmo forse degli idioti a spendere dei soldi, in realtà è proprio quella che più di tutti
ci tiene a spiegarsi per bene, tanto che riflette sul linguaggio e sulla forma, prima e più ancora di
quanto non faccia sul contenuto e sulla sostanza. Quest’opera strafamosa di Joseph Kosuth, artista
statunitense considerato il padre del movimento e in generale dell’arte installativa, ne è un esempio
perfetto. Ci sono a tutti gli effetti tre sedie: una è in carne e ossa, o meglio in legno e viti, alla sua
sinistra c’è una foto in bianco e nero che la riproduce, e a destra la definizione di sedia riportata dal
dizionario di lingua inglese. Sono tre sedie? Sì. Lo sono davvero? No.
La prima appartiene alla realtà, si tocca con mano, la seconda al mondo della rappresentazione e della
riproduzione, e la terza a quello del pensiero e della parola, del concetto, appunto: sono tre linee
parallele che stavolta non solo si incontrano ma si intersecano, si fondono, si mescolano fino a formare
l’universo espressivo con cui ogni giorno comunichiamo, ricordiamo, ci fraintendiamo l’uno con l’altro.
Kosuth decostruisce il cordone, torna al concetto di sedia, facendo metaforicamente riflettere lo
spettatore su COSA sia quella roba su cui poggia le chiappe tutto il giorno. Sono linguaggi specifici,
ognuno di essi ha un impatto diverso ed è come se il nostro cervello li mixasse tutti, ma funzionano in
contesti e hanno peculiarità del tutto differenti.
Dunque quando il vostro fidanzato vi sembra un emerito cretino perché non capisce un concetto per voi
basilare e vi balena in testa l’idea di provare in esperanto, lingua dei segni, alfabeto di Klingon o di
fargli un disegno, ecco, pensate a Kosuth, che vi capisce e ci è passato prima di voi. Solo che mentre voi
imprecate e meditate di tornare single, egli è miliardario e espone in tutto il mondo. Chi è l’emerito
cretino, adesso?
Joseph Kosuth, One and Three Chairs , Museum of Modern Art, New York. Foto © The Museum of Modern Art, New York / Scala,
Florence.
Jake e Dinos Chapman
ZYGOTIC ACCELERATION
Inutile fingere: accettiamo qualunque reazione!

C’era una volta il gruppo degli Young British Artists , vale a dire i più fighi del quartierino nella Londra
dei primi anni Novanta, un gruppo di maledetti geni intensissimi e tormentatissimi, destinati a cambiare
il mercato dell’arte mondiale. Nel movimento si fanno notare fin da subito Jake e Dinos Chapman (ex
assistenti del duo creativo per antonomasia, Gilbert & George), fratelli mezzi inglesi mezzi greci, con il
pallino del black humor, del grottesco e della violenza splatter. Partendo dai diorama ispirati ai quadri di
torture di Francisco Goya realizzati con i soldatini giocattolo, passando per le citazioni dagli acquerelli
di Hitler, è con i manichini iperrealistici e deformati che raggiungono la consacrazione della critica, le
budella del pubblico e in alcuni casi anche le ire funeste dei difensori dei diritti dei minori.
Sono ammassi di corpi, riproduzioni fedelissime in scala 1:1 di adolescenti assemblati tra loro come
osceni gemelli siamesi, con gli organi genitali al posto della faccia e aberrazioni fisiche degne di mostri
mitologici. Presenze sinistre e inequivocabilmente ripugnanti, restano in qualche modo realistiche,
riconoscibili, vitali e persino innocenti. Hanno capelli veri e vagine al posto delle orecchie, e noi
spettatori non sappiamo se credere alla verosimiglianza o scappare di fronte all’assurdità.
Del resto la vostra reazione qual è? Disgusto? Attrazione perversa? Desiderio sessuale? Una risata
innocente o velatamente isterica? Qualunque sia la vostra risposta, quello è lo scopo dell’opera: come vi
sentite quando vi accorgete che attrazione e repulsione convivono naturalmente? E se sovvertiamo
l’ordine familiare di un corpo umano, un organismo perfettamente funzionale, nella vostra percezione
vince il normale o l’anormale , da cosa è catturato il vostro sguardo, dall’iperrealismo o dalla
deformazione? L’effetto è quello di una indigestione, se vi sentite uno schifo uscendo dal museo non
preoccupatevi, i fratelli Chapman hanno semplicemente colto nel segno.
Jake e Dinos Chapman, Zygotic Acceleration , Saatchi Gallery, London. Foto © Jake and Dinos Chapman.
MIMMO ROTELLA
Oltre lo strappo: un artista tutto da scoprire

Già vi vedo: «Mimmo Rotella chi? Quello che strappa i manifesti?», con l’aria saccentella di chi pensa di
avere capito tutto. Vi immagino pronti a parlare di denuncia al consumismo, di urbanizzazione
deturpante, di decadenza romantica del paesaggio contemporaneo, ma non mi fregate mica, eh,
nemmeno per sogno, belli miei! Sono tutti bravi a spiegare il décollage , le influenze dell’astrattismo di
Kandinskij che arrivano dagli studi all’Accademia di Napoli, la frammentazione del reale nella Roma
post-bellica tanto cara a Rossellini e l’importanza del cinema nell’estetica di Rotella, ma chi vi dice i
dettagli divertenti, quelli che non servono a nulla, ma fanno colore e curiosità? IO!

1. A Mimmo Rotella è ispirato il personaggio di Nando Moriconi interpretato da Alberto Sordi in Un


americano a Roma . Il buon Rotella infatti, che gravitava nel giro dei registi e sceneggiatori di
Cinecittà dopo essere tornato nel 1952 dagli Stati Uniti, si vantava con tutti della sua esperienza a
Kansas City, dove aveva vissuto per un anno in qualità di Artist in residence . La sua spacconeria e
l’esterofilia esasperata, unite all’amore per le camicie sgargianti, avevano richiamato l’attenzione
di quel genio di Lucio Fulci, sceneggiatore di Steno, che lo trasformò nello «yankee de noantri» più
famoso del cinema italiano. Hai presente Awanagana? Quello!
2. Si è sposato a 73 anni, è diventato padre a 75, e a 86 ha ricevuto una laurea honoris causa in
Architettura all’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. Se cercate un testimonial
del «non è mai troppo tardi», lo avete trovato.
3. Nel 1964 a Venezia si tiene quella che viene definita Biennale Pop, un’edizione particolarmente
monopolizzata dagli artisti d’oltreoceano, in cui Rauschenberg, Jasper Johns, Jim Dine & Co.
ricevono la consacrazione anche grazie all’influenza in laguna di una certa signora di nome Peggy
Guggenheim. Chi ce la fa da solo è invece il nostro Mimmo Rotella, che proprio in quell’anno
merita un padiglione intero dedicato al suo lavoro a partire dal nouveau réalisme , fino ad arrivare
ai famosi manifesti strappati. Peccato che proprio qualche mese prima, il povero Mimmo fosse
stato arrestato per possesso e spaccio di stupefacenti e commercio di materiale pornografico, e che
quindi debba incaricare il gallerista Plinio De Martiis di organizzare la sua sala personale, dalla
scelta delle opere all’allestimento, in attesa di uscire da Regina Coeli. Pensa tu, uno lavora tutta la
vita per avere un padiglione tutto suo alla Biennale e poi sta in galera: come dire, la droga dà, la
droga toglie.
Mimmo Rotella durante la realizzazione di Mitologia 3 , Roma 1962. Per gentile concessione dell’Archivio Mimmo Rotella,
Milano. Foto © 2020 Mimmo Rotella by SIAE.
Pieter Bruegel
IL VECCHIO
Preparatevi alla nuova ossessione della vostra vita

È mezzanotte meno un quarto, sono seduta in cucina a cercare su Google Immagini una bella foto di
Proverbi Fiamminghi , uno splendido olio su tavola dipinto da Pieter Bruegel il Vecchio nel 1559, perché
ho intenzione di raccontarvi della minuzia certosina con cui i pittori fiamminghi si concentravano su
temi a volte leggeri, come appunto le credenze popolari (lo aveva già fatto Hieronymus Bosch), a volte
iconograficamente pesantissimi come la strage degli innocenti o la caduta degli angeli ribelli. Sono qui a
saltellare online di sito in sito e trovo un video americano di curiosità legate al mondo dell’arte in cui si
dice che in ogni dipinto di Bruegel c’è raffigurato un soggetto piegato in due in preda a un attacco
virulento di diarrea.
Mi esplode il cervello. Impazzisco, la notizia mi fa troppo ridere, decido di controllare: il video riporta
tre opere e effettivamente il poverino in difficoltà intestinale c’è, ma in tutti gli altri? Guardo Giochi di
bambini , e lo trovo. Guardo Il Trionfo della Morte , e lo trovo. Guardo Gazza sulla forca , e lo trovo. Da
lì in poi è tutto fanatismo e perdita della vista, controllo ogni singolo centimetro delle opere che riesco a
trovare, e se non intercetto il dissenterico è chiaramente colpa della foto sgranata: l’ideale sarebbe
pianificare un giro del mondo per setacciare con la lente di ingrandimento ogni singolo esemplare della
produzione bruegeliana, ma sono a Milano e non si può. In alternativa potrei imparare al volo l’olandese
e leggere ogni fonte originale in cui poter magari riscontrare cenni biografici legati all’autore e alla sua
attività evacuatoria, per capire se si possa parlare di autoritratto/firma. O potrei anche immaginare
rimaneggiamenti successivi alla prima stesura dell’artista, in cui, su richiesta di un committente bigotto,
il tizio scagazzante sia stato cancellato. Ormai sono nel loop, questa che ha ovviamente l’aria di una fake
news bella e buona mi è entrata nel cuore tanto che rinuncio a parlarvi di altro perché ormai è una
monomania: fosse l’ultima cosa che faccio nella vita io diventerò cultrice della materia sul rapporto tra
Bruegel e la diarrea, nonostante sia ormai chiaro che è una cavolata buona per un video scemo su
Youtube. Lascio qui il beneficio del dubbio, da brava storica dell’arte mi riservo la possibilità di un
lavoro d’archivio e di ricerca appropriato e approfondito, ma per onestà intellettuale, ve lo dico: I WANT
TO BELIEVE!
Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi di bambini , Kunsthistorisches Museum, Vienna. Foto © Kunsthistorisches Museum, Vienna,
Austria / Bridgeman Images.
Constantin Brâncuși
UCCELLO NELLO SPAZIO
L’arte contemporanea si può mettere nel bagaglio a mano?

Constantin Brâncuși nasce nel 1876 a Peștișani, minuscolo comune della Romania sudorientale, abitato
praticamente solo da contadini e falegnami, da cui impara l’arte della lavorazione del legno e la voglia
di andarsene il prima possibile. Dopo il diploma all’Accademia di belle arti di Bucarest, Brâncuși si
incammina LETTERALMENTE verso Parigi (a parte un breve tratto in traghetto sul lago di Costanza),
rischiando più volte la morte per freddo e stenti, e accettando a un certo punto l’aiuto di un amico,
grazie al quale riesce a raggiungere la capitale francese. Grazie alla sua scultura visionaria, fatta di
silhouette astratte, affusolate, minimali, e la ricerca della forma pura che applica anche nella fotografia,
diventa amico di Man Ray e Duchamp, il quale si prende presto l’onere di introdurlo al mercato
americano. Nel 1926 proprio Duchamp, Brâncuși e la sua opera Uccello nello spazio , una rivisitazione
di una scultura ispirata alla maiastra, uccello magico caro al folclore rumeno, tentano di imbarcarsi per
New York, quando vengono fermati alla dogana. Il funzionario, perplesso di fronte a questo oggetto di
metallo dal dubbio gusto e scopo, lo classifica sotto la categoria «Utensili da cucina e forniture da
ospedale», rifiutando di concedere l’esenzione fiscale prevista per le opere d’arte. Apriti cielo! Brâncuși
e Duchamp sono furiosi, indignati, offesi mortalmente dal mancato riconoscimento non solo del valore
artistico della scultura, ma anche della fama che li dovrebbe precedere, e dal rispetto che si deve a
un’opera straordinaria come Uccello nello spazio , anche quando non si vedono né l’uccello, né
tantomeno lo spazio. Brâncuși paga il dovuto ma fa causa alla Dogana degli Stati Uniti d’America,
facendosi supportare nel processo da colleghi artisti e critici d’arte. Si apre un dibattito in cui più che di
tasse si parla di arte contemporanea: da un lato chi difende le intenzioni artistiche di Brâncuși, il diritto
alla creatività e l’importanza di un’arte che non necessariamente «somigli» al reale, dall’altra i
funzionari del governo che in soldoni rispondono che la scultura è brutta, non sembra un volatile e «mio
zio con trenta euro la fa meglio» (semicit.). Due anni dopo il verdetto: l’oggetto «è bello e dal profilo
simmetrico, e se qualche difficoltà può esserci ad associarlo a un uccello, tuttavia è piacevole da
guardare e molto decorativo», dunque può essere considerato opera d’arte e merita il duty free. Tutto è
bene quel che finisce bene. Però, certo, Brâncuși, almeno il becco glielo potevi fare.
Constantin Brâncuși, Uccello nello spazio , Philadelphia Museum of Art. Foto © Philadelphia Museum of Art, Pennsylvania, PA,
USA / The Louise and Walter Arensberg Collection, 1950 / Bridgeman Images.
Antonio Canova
PAOLINA BONAPARTE
Vi autorizzo a guardare con attenzione le tette di sua Altezza Imperiale

Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone e sposa di Camillo Borghese, ha posato per essere ritratta in
veste di Venere Vincitrice da Antonio Canova all’età di 25 anni, cioè nel fiore della sua gioventù e del
turgore del suo seno, anche se evidentemente non fu quello che le valse il titolo di Altezza Imperiale. E
allora perché, tra tutti i dettagli mirabili del capolavoro del 1808 conservato a Roma, parliamo proprio
delle sue tette? Perché ci raccontano molto di come lavorava Canova, delle difficoltà del tempo e delle
ossessioni degli studiosi. Sappiamo da nientepopodimenoché Francesco Hayez (quello del Bacio ) che
Canova faceva un modello in creta del suo soggetto, poi «gettatolo in gesso, affidava il blocco a’ suoi
giovani studenti perché lo sbozzassero» e finalizzava lui l’opera, scegliendo la grossezza del marmo e il
livello di definizione. I calchi sul modello originale, ossia sulla persona, erano non solo vietati, ma
addirittura considerati disdicevoli per uno scultore degno di questo nome, rappresentando una via quasi
troppo facile al risultato sicuro e realistico. Canova naturalmente negava di utilizzare calchi di gesso e
la critica si è spesso schierata in sua difesa o ha cercato smentite, come accade nel caso di Paolina
Borghese, e in particolare del suo seno. La forma del capezzolo che risulta compresso, introflesso, per
niente esuberante e turgido come ci aspetteremmo da un corpo così giovane e voluttuoso, rivelerebbe la
presenza di un peso, di una superficie che lo schiacci, facendolo rientrare. Probabile dunque, secondo
alcuni, che Canova, che aveva dedicato una stanza privata alla lavorazione del ritratto di Paolina, si sia
addirittura azzardato a usare il suo vero corpo come modello: ma ci crediamo? Immaginiamo una
principessa che si sottopone alla tortura di un reggiseno di gesso e acqua per far contento l’artista? I
critici sono discordi, in molti suggeriscono l’esistenza di una domestica o una controfigura che si sia
sobbarcata il lavoro sporco, altri coltivano il mito della mano d’oro capace di realizzare una perfetta
terza coppa B senza colpo ferire.
Una cosa è certa, sarà la posizione, la torsione del busto, la lucentezza del marmo, la maestria della
riproduzione, ma Paolina Bonaparte sposata Borghese, per te Miss Maglietta Bagnata 1808 continua!
Antonio Canova, Paolina Bonaparte , Villa Borghese, Roma. Foto © Galleria Borghese, Rome, Lazio, Italy / Bridgeman Images.
Gustave Courbet
L’ORIGINE DEL MONDO
E un applauso per la modella che si è prestata!

Le figure retoriche non sono il mio forte, mai capita la differenza tra metonimia e sineddoche, ma so che
ogni volta che guardo questo dipinto di Gustave Courbet penso alla definizione «la parte per il tutto».
Geniale il titolo, geniale il soggetto, geniale l’idea di raffigurare gli organi genitali di una donna
qualsiasi, così tanto senza volto e senza nome da renderla LA donna progenitrice, appunto l’Origine del
mondo. Il mio secondo pensiero (che miracolosamente sfugge alla tentazione di una Storia della ceretta
brasiliana dall’antichità ai giorni nostri ) è sul resto del corpo, il resto della persona, la modella che si è
prestata a un anonimato tanto celebre, e a diventare simbolo della vita e della nascita in senso così
ampio. La proprietaria del lato A (scusate, lo so, è difficile trovare altri sinonimi) più famoso della storia
dell’arte sarebbe Constance Quéniaux, una ex ballerina dell’Opéra di Parigi di 34 anni. Se all’inizio il
sospetto era caduto su Joanna Hiffernan, amante dell’artista, la cui chioma fulva tuttavia mal si
abbinava con il pelo pubico bruno, diversi elementi porterebbero a identificare la modella con
Constance. In primo luogo la ballerina fu l’amante del diplomatico ottomano Halil Sherif Pasha, uno dei
personaggi più in vista nel panorama artistico dell’Ottocento nonché committente del quadro. È grazie
alle ricerche dello storico francese Claude Schopp che ricostruiamo i pezzi del puzzle. Schopp, esperto
di letteratura e specializzato nell’opera di Alexandre Dumas figlio, proprio spulciando la corrispondenza
tra l’autore de La signora delle Camelie e la scrittrice George Sand ha trovato una lettera nella cui
trascrizione conservata alla Bibliothèque nationale de France si dice che «on ne peint pas de son
pinceau le plus délicat et le plus sonore l’interview de Mlle Queniault [sic] de l’Opéra » (cioè «uno non
dipinge col suo pennello più delicato e musicale intervista della signorina Quéniaux dell’Opéra»). Ma
rileggiamola bene: intervista? Che intervista? Ed è qui che il lavoro dello storico che studia per bene le
fonti si fa magico e prezioso. Schopp, poco convinto della trascrizione, ha consultato il manoscritto
originale e ha scoperto che Dumas, in realtà, non diceva «interview», bensì «intérieur». Ora sì che ha
senso, e tutto torna! C’è una figura retorica incomprensibile per dire eureka?
Gustave Courbet, L’origine del mondo , Musée d’Orsay, Parigi. Foto © Musee d’Orsay, Paris, France / Bridgeman Images.
La Sindrome di
STENDHAL
Tu chiamale se vuoi, emozioni

Ormai è un’espressione comune che usiamo per raccontare quel senso di meraviglia, stordimento e
mancanza di lucidità che a volte proviamo di fronte a una cosa bellissima, a un capolavoro, che ne so, di
fronte a Tom Hardy nudo. Ma cos’è davvero la Sindrome di Stendhal?
Scientificamente è una reazione psicosomatica comprendente vertigini, incoscienza e tachicardia che
avviene al cospetto di un’opera d’arte e prende il suo nome dal racconto che Stendhal fece della sua
prima visita alla basilica di Santa Croce a Firenze, durante il suo Grand Tour in Italia nel 1817. «Ero
giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti
appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita,
camminavo temendo di cadere.» L’ha teorizzata la psichiatra Graziella Magherini nel 1977, dopo aver
studiato 106 soggetti presso l’arcispedale di Santa Maria Nuova di Firenze, tutti individui di formazione
classica o religiosa, più giovani di quarant’anni e abituati a viaggiare da soli, perlopiù provenienti
dall’Europa occidentale e settentrionale, o dal Giappone. Gli italiani, invece, avvezzi come sono alla
bellezza diffusa nelle loro città d’arte, ne sarebbero immuni. A quanto pare la sindrome colpisce nei
luoghi chiusi (chiese, musei) e si manifesta con tre grandi gruppi di reazioni:

crisi di panico e ansia, con tanto di allucinazioni, palpitazioni e difficoltà respiratorie


disturbi dell’affettività, pianti, sensi di colpa, angoscia oppure euforia immotivata, estasi,
eccitazione massima
disturbi del pensiero, perdita della coscienza – chi sono, dove mi trovo?

C’è anche una versione parallela della Sindrome di Stendhal, fiorentina di nascita, che è chiamata
Sindrome di Parigi: lo stesso effetto di spaesamento a quanto pare viene riscontrato dai turisti nella
capitale francese, ma in forma di delusione delle aspettative. A quanto pare il più colpito è il turista
giapponese tra i venticinque e i quarant’anni che è convinto di arrivare nella Ville Lumière romantica
dei film e dei romanzi e invece si trova davanti una metropoli caotica, sporca e a tratti pericolosa. Come
si dice in francese Tiè, siamo meglio noi?
Sindrome di Stendhal. Foto © Tupungato / Shutterstock.
Gustav Klimt
GOLDFISH
Quando mandarsi a quel paese è un’arte

Anche i pittori austriaci più famosi della Secessione Viennese nel loro piccolo s’incazzano. Cito quasi
testualmente il celeberrimo titolo di Gino e Michele per raccontare un episodio che non ci
aspetteremmo mai dal quel maestro del ghirigoro e della bellezza che è stato Gustav Klimt. Ci ha
abituati al tratto delicato ed etereo delle sue donne, quasi sempre nude o ricoperte d’oro, all’eleganza
dello stile ornamentale Jugendstil (o Art Nouveau che dir si voglia) applicato alla mitologia, all’allegoria,
al simbolismo erotico, alla rappresentazione del sensuale mistico Pinterest oriented , ci ha regalato
Giuditte, Baci, fregi e visioni meravigliose, ma un aneddoto in particolare rivela il suo temperamento di
cui si sa così poco. Siamo nel 1902, il suo dipinto Pesci d’oro , un olio su tela di formato stretto e lungo
con donne nude e elementi dorati, che inaugurano il suo «periodo gold», viene esposto alla XIII mostra
della Secessione su commissione del Ministero dell’Istruzione austriaco. Il dipinto avrebbe dovuto
celebrare la scienza e la conoscenza: Klimt sceglie di rappresentare in modo simbolico la Filosofia, la
Medicina e la Giurisprudenza come un flusso di corpi (la vita e la morte) immersi in una luce vitale e
salvifica (la Sapienza). Tutto bello sulla carta, ma davanti alla tela i professoroni del Ministero storcono
la bocca: le figure sono troppo nude, sembrano demoniache, per niente eleganti e anzi, scandalose.
Klimt, che evidentemente era un rosicone, ritira il dipinto e rimborsa il Ministero, giurando a se stesso
che lavorare nel pubblico, mai più! Ma la vendetta è un piatto che va servito su cavalletto, intingendo il
pennello nella bruciante offesa. Alla successiva mostra della Secessione Klimt si presenta con lo stesso
quadro, intitolato Ai miei denigratori , con il chiaro intento di rompere la continuità e la tradizione non
solo con la sua produzione precedente, intensificando l’uso dell’oro, delle campiture piatte e della figura
femminile, ma anche con le aspettative dei critici del suo tempo, ancorati allo stile decorativo e meno
impegnativo del periodo precedente. Nel dipinto si vede la ragazza in primo piano, voltata di spalle che
sorridendo beffarda ci mostra le terga, ma soprattutto un pesciolone dorato dalla faccia ironica che con
le labbra lambisce letteralmente il sedere di un’altra figura di spalle. Ecco, ora che sapete come è
andata, è o non è il «baciami il culo» più elegante ed eloquente che la storia ricordi?
Gustav Klimt, Pesci d’oro , collezione privata, Austria. Foto © Private Collection / Bridgeman Images.
Raffaello
LE TRE GRAZIE
Non accusatemi di bodyshaming, è solo un’analisi

Lo dichiaro subito, Raffaello non è per niente il mio preferito e, se proprio devo, lo amo più come
architetto che come pittore, anzi amo le architetture dipinte nelle sue opere. Resta il fatto che
lombrosianamente, quella sua faccia hipster nel presunto autoritratto conservato agli Uffizi me lo ha
sempre reso noioso e un po’ banale, ma tale è la ricchezza della produzione e l’impronta che ha lasciato
nelle opere dei suoi successori per secoli e secoli, che non potevo esimermi. Uno dei più grandi
capolavori è Le Tre Grazie , dipinto all’inizio del XVI secolo, un gioiello di composizione ed equilibrio
utile per spiegare come gli artisti dell’epoca si servissero dei modelli in carne e ossa per i loro soggetti.
Trovare uomini disposti a stare nudi per ispirare un Ercole o un David era piuttosto facile, mentre il
casting di donne che si prestassero al lavoro di modelle era più complicato: spesso erano molto pudiche,
o molto sposate, o molto impegnate a guadagnare di più sempre nude, ma con altri mestieri. In quei casi
gli artisti si servivano di modelli maschi per le parti neutre del corpo, rimediando alle differenze fisiche
(seno, genitali, volto) grazie alla statuaria classica e alle opere dei colleghi più antichi. Si abbigliava il
vivo manichino con una calzamaglia molto aderente e liscia, in modo da contenere i muscoli e suggerire
la compattezza della pelle femminile, e di solito lo si posizionava in modo tale da ricreare la sottigliezza
del punto vita, la prosperità dei fianchi o l’armonia delle gambe e della braccia. In questo caso, scusa
Raffaello se te lo dico, l’effetto gender fluid non è riuscitissimo. Osservando l’opera infatti l’anatomia
maschile è ancora rintracciabile in più punti: il busto è poco sinuoso, per niente femminile, le natiche
troppo piccole e strette nel bacino, i polpacci più da terzino che da Modestia, Bellezza e Amore, e le
caviglie tozze e non proprio aggraziate. In più Raffaello, con chi credi di avere a che fare? Pensi che
posizionarne una di spalle al centro a braccia allargate ti proteggerà per sempre dal dover dipingere un
seno perfetto in mancanza di modelli? Vuoi scappare di fronte alla difficoltà, Raffaello? Guarda che poi
la prova delle tette ti tocca superarla di nuovo nel 1511 con il Trionfo di Galatea, e lì come la mettiamo?
Affronta la sfida, Raffaello, non ti nascondere, non è scappando che si diventa una Tartaruga Ninja!
Raffaello, Le Tre Grazie , Musée Condé, Chantilly. Foto © Musée Condé, Chantilly, France / Bridgeman Images.
Le Corbusier
VILLE SAVOYE
Poche regole per ristrutturare al meglio

Il 2020 verrà sicuramente ricordato, almeno per la sua prima metà, come l’anno in cui abbiamo
guardato le nostre case con altri occhi. Stare rinchiusi, senza la possibilità di uscire e vedere spazi
diversi (altre abitazioni, uffici, ristoranti) ci ha fatto sicuramente riflettere sul nostro gusto, su quello dei
proprietari delle nostre case e su quanto costi un architetto che ci rifaccia completamente
l’appartamento entro la prossima pandemia. Spazi troppo angusti e definiti secondo criteri ormai
superati, poca luce, senso di claustrofobia da lockdown inoltrato: la mia scelta in caso di teletrasporto
sarebbe senza dubbio Ville Savoye. Secondo Le Corbusier, padre del Razionalismo, l’architettura
moderna si articola in 5 punti:

i pilotis , cioè i pilastri che sorreggono l’edificio, lo alzano dal terreno come fosse una palafitta;
il toit-terrasse , cioè il tetto a terrazza, con giardino e piscina. Sì grazie, lo voglio
il plan libre , cioè la pianta dell’edificio libera, modulabile all’interno grazie all’impalcatura, lo
scheletro portante in cemento armato;
la façade libre , cioè la facciata libera, dalle costrizioni (e costruzioni) portanti e dai decorativismi;
la fenêtre en longueur (o finestra a nastro), che attraversa la facciata della casa in lungo, rendendo
l’interno luminosissimo, panoramicissimo, ariosissimo, chissà che luce per i selfie!

Partendo da questi elementi, i tre ambiti in cui sviluppare il proprio stile e la propria ricerca sono
volume, pianta e superficie. Le forme su cui basarsi devono essere essenziali e non ornamentali: il cubo,
la sfera, il cono, la piramide e il cilindro. Le superfici devono seguire questa pulizia, senza scombinare
l’ordine e l’armonia, vanno «esaltate nella loro semplicità nitida». A garantire l’ordine c’è la pianta:
«Senza pianta non c’è grandezza di intenzione e di espressione, né ritmo, né volume, né coerenza.
Senza pianta c’è una sensazione insopportabile di cosa informe, di povertà, di disordine, di arbitrio. La
pianta richiede la più attiva immaginazione e insieme la più severa disciplina» (Le Corbusier, Verso una
Architettura , Longanesi, Milano 2003). Ora guardatevi intorno, al sessantesimo giorno di clausura:
come siete messi a immaginazione e disciplina?
Le Corbusier, Ville Savoye , Poissy, Francia. Foto © Picture Alliance / Bridgeman Images.
Kiki de
MONTPARNASSE
Chi c’è dietro il fondoschiena più famoso della storia dell’arte?

Una delle donne più belle del suo tempo, immortalata in una foto celeberrima del suo fondoschiena, e
no, non parlo di Emily Ratajkowski. La meraviglia di creatura che vedete ritratta nella famosissima
opera di Man Ray Le violon d’Ingres è Kiki de Montparnasse, al secolo Alice Prin, una delle modelle e
personalità simbolo della Parigi degli anni Venti. Stupenda, dotata di fascino e carisma ineguagliabili,
anticonformista fin dalla nascita: la leggenda narra che sua madre la trovò a posare nuda negli atelier
dei pittori a 14 anni e per questo la cacciò di casa, facendo chiaramente un favore al suo carattere
indipendente e fuori dalle righe. Musa di Modigliani, Picabia, Jean Cocteau, Alexander Calder e del
regista Fernand Léger, non si è limitata a ispirare gli altri, ma è stata pittrice, scrittrice, cantante e
ballerina. Capelli corvini, pelle di porcellana, uno sguardo infuocato e un corpo che concedeva sempre
al sogno del peccato, quando non al peccato stesso: la prima volta che Man Ray la incontrò era seduta
in un ristorante, scandalosamente scosciata in segno di protesta contro il cameriere che non voleva
servire lei e la sua amica perché le credeva prostitute. Ovviamente lui se ne innamorò all’istante e per
sei anni la fotografò in tutte le salse, adorando la sua immagine e la sua anima. Esistono persone in
grado di condensare in sé un’epoca e una rivoluzione: Kiki era libera come le donne non erano mai
state, condensava in sé la bellezza e la miseria, la fama e la tragedia, girava per Parigi con un topo
ammaestrato sulla spalla e un’aria da diva così convincente che tutte poi l’hanno imitata, ballava senza
mutande sui tavoli dei bar e finì in galera per oltraggio. C’è un luccichio, una scintilla, nel suo sguardo,
talmente vivida che non potremmo fidarci di un artista che non lo abbia desiderato ardentemente, e non
se ne sia nutrito, trasformandolo in fuoco. Nella sua autobiografia, pubblicata a Parigi nel 1929 (cioè
quando Kiki aveva appena 28 anni, ma sufficiente vita alle spalle da poterla raccontare) e proibita negli
Stati Uniti fino al 1996 perché troppo anti-borghese e immorale, la prefazione è di un certo Ernest
Hemingway e recita: «Questo è un libro scritto da una donna che non è mai stata una signora». Ce ne
fossero come te, Kiki, che tra quel tuo scintillio magico e la signorilità io, personalmente, non avrei
dubbi.
Man Ray, Le Violon d’Ingres , Getty Museum, Los Angeles. Foto
© Adagp Images, Paris / SCALA, Firenze.
Jan van Eyck
RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI
Un dipinto complicatissimo, passo per passo

I Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck è uno di quei dipinti che avete visto duemila volte e su cui si
potrebbero scrivere duemila libri, ma cerco di farvi un riassunto sensato o almeno di raccogliere quelle
informazioni utili per partecipare a un quiz in cui diventate milionari (e, in caso, mi aspetto una
percentuale).

È uno dei primi ritratti di personaggi viventi, e non riferito a una scena religiosa.
Giovanni e Costanza Arnolfini sono due mercanti italiani residenti a Bruges tra il 1420 e il 1472,
ben inseriti nel giro dell’arciduca di Borgogna per cui van Eyck lavora.
L’atteggiamento è piuttosto solenne, siamo nel pieno di una cerimonia. La posizione della mano
dell’uomo suggerisce un giuramento o una benedizione, mentre la mano della donna, posta sul
ventre gonfio, pare sottolineare una gravidanza: in realtà secondo alcuni sarebbe semplicemente la
pesantezza della veste, sollevata sul grembo, a determinare quel volume.
I due soggetti, nel salotto, sono circondati da riferimenti continui all’unione matrimoniale e della
famiglia: il letto è luogo della coppia ma anche della presentazione dei figli alla comunità di amici e
parenti; il colore rosso è simbolo di passione; il dragone intagliato nella spalliera del letto è
emblema di Santa Margherita, protettrice delle partorienti; le arance, considerate all’epoca frutti
esotici, rimandano al peccato originale come la mela e alla redenzione attraverso il matrimonio; i
rosari appesi sono regalo nuziale del marito alla sposa; un’unica candela arde nel lampadario come
fiamma d’amore; il cane è al loro fianco a testimoniare la fedeltà ma anche la ricchezza della
coppia, visto che solo i nobili possedevano animali da compagnia.
Lo specchio è il vero centro del quadro. È uno specchio convesso, ai tempi molto diffuso perché in
base alle credenze popolari teneva lontani gli spiriti malvagi. Il dettaglio delle storie della Passione
di Cristo nella cornice richiama invece una religiosità non pagana. Inoltre allude alla verginità di
Maria, speculum sine macula , e quindi, per analogia, al candore puro della sposa. Ma soprattutto
racchiude un autoritratto del pittore, riflesso nel centro: così facendo egli raddoppia il punto di
vista, sfonda la bidimensionalità del quadro e, contemporaneamente, diventa testimone di nozze.
Auguri!
Jan van Eyck, I coniugi Arnolfini , National Gallery, Londra. Foto
© National Gallery, London, UK / Bridgeman Images.
Tracey Emin
MY BED
«Altri cinque minuti e mi alzo», le ultime parole famose

«Fai della tua vita un’opera d’arte.» Questo è uno dei tanti slogan motivazionali che si trovano oggi su
Instagram, filosofia prêt-à-porter per iniziare bene la giornata scrollando il telefono in tram. Eppure per
alcuni artisti, e alcune opere, è stato un imperativo categorico. Tracey Emin, artista britannica classe
1963, è diventata famosa in tutto il mondo con l’installazione My Bed , riproduzione fedelissima del letto
in cui ha pianto tutte le sue lacrime, senza mai alzarsi per quattro giorni, dopo essere stata lasciata dal
suo fidanzato. Lenzuola appallottolate, vestiti sporchi, biancheria intima, pillole, preservativi, bottiglie
di vodka, giornali, fazzoletti usati, fotografie, mozziconi di sigaretta: ogni dettaglio suggerisce il caos, la
perdita di vitalità, la tristezza in cui ha vissuto, il racconto di un periodo vissuto in semi incoscienza.
Non appena si è alzata, lo spettacolo del suo degrado le è apparso come un’istantanea non di un luogo,
ma di un’esperienza, di una condizione esistenziale, del passaggio tra il vivere con qualcuno e vivere
senza qualcuno. La situazione della sua stanzetta inglese è stata minuziosamente ricreata nello spazio
espositivo, tutto è stato riallestito come una scena del delitto e si è mantenuto così, anche attraverso gli
anni e i passaggi di proprietà da un collezionista all’altro, fino ad approdare nella sala della Tate Britain
di Londra dove l’opera è attualmente conservata. Tracey Emin dice che oggi la sua vita appare molto
diversa da allora, non usa più gli anticoncezionali e anche la cintura poggiata sul tappeto non si chiude
più, ma l’effetto è quello di una foto d’epoca, un fermo immagine di un tempo passato. Realizzare
quest’opera le (e ci) ha permesso di riflettere sul concetto di intimità, di pudore, su come un elemento
così banale come un letto, identico nella sostanza in tutte le nostre case, sia potuto diventare un
autoritratto, l’immagine della sua essenza durante la depressione. Allo stesso tempo, il letto portato nel
museo si trasforma in una macchina del tempo, una capsula che contiene cosa è stato ma soprattutto
cosa NON è più. Ci garantisce che tutto cambia, che tutto passa. Ricordatevelo quando soffrite per
amore, piangete sotto il piumone e non vi lavate i capelli da due settimane: o vi trasformate in un
capolavoro da tre milioni di euro, o alzate il culo, vi fate una doccia e vi rimettete in sesto.
Tracey Emin, My Bed , Tate Britain, Londra. Foto © Tracey Emin / Tate / Tate Images.
Francisco Goya
LA MAJA DESNUDA E LA MAJA VESTIDA
Per i minori di 14 anni o nudo integrale? Fate la vostra scelta

Il 5 ottobre del 2015 l’amministratore delegato di Instagram comunica quello che passa alla storia dei
nostri selfie acchiappalike come «nipple ban»: da quel giorno il social network elimina le foto di topless,
o meglio tutte le foto in cui si scorgano capezzoli femminili. Duecentoquindici anni prima nel gabinetto
privato di Manuel Godoy, potente politico spagnolo, troneggia La maja desnuda , un ritratto di donna
come mamma l’ha fatta: non è una dea, non è un’allegoria, è una donna vera con un corpo stupendo,
sensuale, in una posizione aperta e rilassata e senza manco un fazzoletto addosso. A quel tempo in
Spagna le immagini di nudo erano vietate dalla Chiesa e punite e messe al rogo dall’Inquisizione. Godoy
se ne frega, sfida il Sant’Uffizio e se la tiene in casa. Dello stesso quadro, però, commissiona a Francisco
Goya la versione Maja vestida , come fosse un doppio photoshoppato più potabile per i religiosi: la
stessa donna, sullo stesso letto, nella stessa posizione, ma abbigliata con un abito bianco e un giacchino
damascato. La seconda opera doveva funzionare come coperchio per la prima, così Godoy avrebbe
potuto celare il capolavoro di nudo ai suoi ospiti più bacchettoni o invece mostrarlo fieramente come
faceva anche con la Venere di Velázquez e quella di Tiziano, entrambe nella sua collezione. Non stupisce
dunque che la fattura del secondo quadro sia più affrettata e meno curata del primo: pennellate più
veloci, colori più accesi, linee meno definite, del resto il pezzo forte era un altro. Se per Godoy questa fu
una soluzione, almeno fino alla confisca del quadro da parte di re Ferdinando VII nel 1807, per Goya
invece i guai non erano finiti. Il 16 marzo 1815 fu convocato dall’Inquisizione: «... che si chiami a
comparire davanti a questo tribunale il detto Goya perché le riconosca e dica se sono opera sua, con che
motivo le fece, per incarico di chi e che fine si proponesse» e a quanto pare si salvò solo per
l’intercessione di contatti più potenti. Del resto grandi opere comportano grandi responsabilità. Ps:
sapevate che è il primo ritratto in cui siano stati dipinti i peli pubici? Pps: vi sentite un po’ delle opere
d’arte censurate anche voi per quella foto a Ibiza col bikini troppo piccolo che qualche hater ha
segnalato alle autorità di Instagram?
Francisco Goya, La maja desnuda e La maja vestida , Museo del Prado, Madrid. Foto © Prado, Madrid, Spain / Bridgeman
Images.
MARINA ABRAMOVIĆ
Come lei nessuno mai, dalla prima all’ultima opera

Non basterebbe un’enciclopedia per raccontare la vita o l’arte di Marina Abramović, madre (o nonna,
come lei stessa si definisce) della performance e della body art, quindi vi chiedo di giurarmi che su di lei
leggerete tutto quello che si può. Promesso? Promesso.
In tutta la sua produzione Marina indaga il confine tra mente e corpo, tra il sé e l’altro, mettendo se
stessa al centro dell’opera e scegliendo di vivere sulla propria pelle la paura, il dolore, l’amore, la
perdita, la violenza. Vi faccio qualche esempio:

Rhythm 0 , del 1974: Marina è in piedi nella sala del museo, circondata da visitatori e oggetti di
tutti i tipi. È immobile e inerme nelle loro mani, possono fare di lei quel che vogliono. Hanno armi,
lamette. Dalla contemplazione, al sesso, fino alla violenza, tutto è permesso. Marina, che è il
soggetto dell’opera, abdica a vantaggio dello spettatore. E se la sua volontà scompare, fin dove può
spingersi la volontà di chi guarda? In soldoni: se ti lascio fare tutto, tu cosa farai? Il suo corpo
(identità suprema e sacra per una anoressica maniaca del controllo) è il luogo dove lo spettatore
può specchiarsi, vivere una relazione di antagonismo o di immedesimazione, approfondire il
confine su cui si annidano in ogni azione libertà e sopruso, dove finiamo noi e inizia l’altro.
Freeing the Memory , 1976: per ore e ore l’artista con la testa ciondolante all’indietro, pronuncia
TUTTE le parole che conosce, mescolando il serbo-croato, sua lingua madre, all’inglese e
all’olandese. Così facendo si libera, svuota il cestino della sua memoria e della lingua come unica
forma di comunicazione. Farà lo stesso con la voce, urlando per ore e con il corpo, ballando
bendata su un ritmo africano.
Dragon Heads , 1990: Marina siede al centro di un recinto formato da blocchi di ghiaccio e quindi
destinato a scomparire, mentre sul suo corpo si arrampicano strisciando cinque pitoni di tre metri
tenuti a digiuno da due settimane.
The Artist is Present , 2010: al MoMA di New York, seduta su una sedia per otto ore al giorno,
tutti i giorni per tre mesi, Marina accoglie in silenzio e solo con lo sguardo qualunque visitatore
decida di sedersi davanti a lei, al di là di un piccolo tavolino. L’intensità del confronto diretto, dei
corpi che si incontrano, anche senza le parole, è pura magia.

Lo so che volete che parli dell’amore tra lei e Ulay, romanticoni che non siete altro, e quindi:
Marina Abramović, Rhythm 0 (1974), da «The Complete Performances 1973-1975». Foto © Private Collection, Christie’s Images
/ Bridgeman Images.
ULAY
Non chiamatelo Mr Abramović

Ulay, al secolo Frank Uwe Laysiepen, merita un capitolo a parte, non vorrei mai che venisse percepito
come un’appendice di Marina Abramović, nonostante sia indubbio che debba a lei gran parte della sua
fama e della sua produzione. Nasce in Germania, nel pieno della seconda guerra mondiale, figlio di un
gerarca nazista. Un fatto, questo, che gli procurerà sensi di colpa per tutta la vita e lo farà rinunciare
alla nazionalità tedesca. Se ne va ad Amsterdam dove entra in contatto col mondo artistico locale, in
particolare il movimento olandese Provo. Scopre la fotografia, diventa famoso con le Polaroid di
transessuali e drag queen, la mischia alla performance, alla poesia. Nel 1976 conosce Marina
Abramović, della quale si innamorerà subito e con cui vivrà e lavorerà per dodici anni. Con lei
sperimenta ogni ambito della performance
art, insieme indagano il rapporto d’amore, il significato dell’identità nella coppia, la dipendenza e la
distanza affettiva. La purezza della loro relazione compensa i modi estremi, osceni, a volte disturbanti
con cui rappresentano la vita a due: una immagine su tutte è quella dell’arco doppio, con due frecce,
realizzato in modo che chiunque tiri il colpo ucciderà l’amato. Ma alla fine anche le coppie migliori
scoppiano: loro lo fanno con una performance che li vede ai due capi della Muraglia cinese, si
incontrano a metà strada e concludono il loro amore, e dopo – perché questo accade anche tra esseri
superiori come loro – restano gli avvocati e le cause sui diritti per le opere. Libero da Marina, con
250mila euro di risarcimento danni, Ulay torna alla fotografia. Guidato da un unico grande assunto,
«l’estetica senza etica è cosmetica», affronta temi come l’emergenza ambientale, o l’identità di genere,
usa grandi formati, tecniche nuove, collage. Poi nel 2009 gli viene diagnosticato un cancro, e anche
questa esperienza diventa un’opera. Viaggia in tutto il mondo, insieme a una troupe, per ripercorrere le
tappe della sua esistenza, incontrare di nuovo le persone importanti e chiudere il cerchio. Le riprese
prendono la forma di un documentario, Project Cancer , diretto da Damjan Kozole, in cui c’è tutto, ogni
suo pensiero sull’arte, sull’amore, sulla vita, sulla morte.
Ulay è morto il 2 marzo del 2020: quel giorno online e al telegiornale mandavano in onda solo il video
del suo incontro con Marina al MoMA durante The Artist is Present (il video su Youtube ha 18 milioni di
visualizzazioni). Meritava un capitolo a parte.
Marina Abramović e Ulay, Relation in Time (1977), dal documentario Marina Abramović: The Artist Is Present (2012), ©
Photo12/7eArt/Show of Force/contrasto.
Cos’è la
MELANCOLIA?
Non è malumore, non è sociopatia, è qualcosa di più

Per onestà intellettuale confesso: se qualcuno dice melancolia a me viene in mente il film di Lars Von
Trier con Kirsten Dunst, ma prima ancora Marco Masini che, gioviale e solare come al suo solito,
cantava la malinconoia. Ma visto che i miei genitori non mi hanno fatto studiare invano, cerchiamo di
dare un senso vagamente storico alla melancolia, anzi Melencolia . Così infatti si intitola l’incisione
famosissima di Dürer che ritrae una figura femminile alata, con aria pensosa ai limiti dell’affranto,
circondata da oggetti di vario genere legati al processo alchemico (una bilancia, una clessidra, una
campana, una scala con sette pioli, ecc.). Nel suo atteggiamento e nell’espressione è condensata la
difficoltà di tramutare il piombo in oro e più metaforicamente una riflessione sul pensiero e sull’animo
umano nelle sue tribolazioni. Il volto è scuro, «umor nero» diremmo, le spalle ricurve, il linguaggio del
corpo è chiarissimo: non ce la fa più.
Quel senso di tristezza ostinata e mancanza di entusiasmo è stato oggetto di altre opere e visioni nel
corso degli anni, e molti artisti hanno indagato lo stesso sentimento, da Shakespeare con Ofelia, a
Francesco Hayez con i suoi ritratti di fanciulle malinconiche. Ovviamente in tempi più recenti è arrivata
la psicanalisi e piatto ricco, mi ci ficco. Per Freud la melancolia «è psichicamente caratterizzata da un
profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita
della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento
di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione.»
(Sigmund Freud, «Lutto e melanconia» in Metapsicologia (1915), in «Opere», sotto la direzione di
Cesare L. Musatti, 8: 1915-1917. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti , Bollati Boringhieri, Torino
1976, 1989 e 2013). Come dire: doversi struccare a fine serata.
Ecco la Melencolia è l’opera dedicata a chi non ha più le forze, a chi la domenica sera si deve lavare i
capelli perché domani è lunedì e c’è riunione alle nove, a chi deve riempire la lavastoviglie ma prima
svuotarla dal lavaggio precedente. È quella fatica esistenziale, quello spleen autunnale misto a
pessimismo cosmico, misto a nostalgia di tempi andati, misto a sindrome premestruale apocalittica e
voglia di chiamare gli ex. Marco Masini appunto. Che infatti non a caso cantava anche Vaffanculo .
Albrecht Dürer, Melencolia I , Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles. Per gentile concessione del Los Angeles County
Museum of Art.
Salvador Dalí
LE CENE DI GALA
Tavolo per quattro alle 21, a nome Salvador: un sogno!

Sono anni che aspetto e non succede mai, pregusto la scena ma niente, non accade, evidentemente non
se ne sono ancora accorti. Chi? I foodblogger! Di cosa? Di Salvador Dalí! Ebbene sì, il padre del
surrealismo, che ha rovesciato qualunque tavolo di dibattito nella sua vita e carriera, introducendo il
dubbio rivoluzionario, la visione assurda, il pensiero onirico e irrazionale, si è occupato anche (e non
poco) di food , come direbbero i milanesi. Il suo mio libro preferito, Le cene di Gala , ove per Gala si
intenda naturalmente Gala Éluard, la sua compagna e musa, è un ricettario e un manifesto insieme del
suo rapporto col cibo, e di quella che è stata definita la gastroestetica daliniana. Partiamo da alcuni
assunti che vi serviranno anche come citazioni durante i pranzi in cui vi guardano male perché siete al
terzo tiramisù:
«Tutto ciò che è commestibile mi esalta.»
«La mascella è il migliore strumento di conoscenza filosofica che possediamo.»
«In me qualunque illuminazione nasce e si propaga attraverso le viscere.»
Ecco, già questo basterebbe a raccontare quale sia la relazione d’amore tra Dalí e il cibo, ma è nelle
ricette che scopriamo il suo approccio surrealista e, coerentemente con le sue opere, ricco, sfacciato e
fuori dagli schemi. Dentro ci troviamo Malesseri lillipuziani in salsa con soufflé, trippa e rognoni di
vitello; Interludi sodomizzati con paté e tagliata di manzo; fino agli Orologi molli da dormiveglia con
patate ripiene e maiale cucinato in tutti i modi possibili. Le mie preferite restano però La spalla di
sirena e Le uova di quaglia alle perle di Bandar Pahlavi .
Due nemici di questo libro, di cui naturalmente Dalí si fa subito beffa, sono quelli a dieta e i vegani. Ai
primi dice: «Se siete uno di quelli che calcolano le calorie e trasformano le gioie del cibo in una forma di
penitenza, chiudete subito questo libro; è troppo vivace, troppo aggressivo e troppo impertinente per
voi». Ai secondi confessa che «assaporo meglio la vita, il sapermi vivo, quando divoro un morto»: e gli
animalisti muti! Il libro è una gioia per gli occhi e per lo spirito, e come sempre con Dalí, è un esercizio
di libertà: del resto è l’unico che se ne frega di tutti e prepara dei gamberi di fiume peruviani usando il
purè istantaneo.
Salvador Dalí, Interludi sodomizzati , da Le cene di Gala . Foto © Salvador Dalí, Fundació Gala-Salvador Dalí.
Il Duomo di
MILANO
Tutto quello che c’è da sapere sulla ‘bela Madunina’

È la chiesa più grande d’Italia (eh sì, ufficialmente la basilica di San Pietro è nei confini dello Stato
Vaticano), in compenso è la quarta nel mondo per superficie e la sesta per volume. Capolavoro dello
stile gotico, casa della Madunina, crocevia di appuntamenti e foto ricordo di milanesi e turisti da tutto il
mondo. Ma visto che la coda per entrare a visitarla è proporzionata agli anni che ci sono voluti a
ultimarla, cioè quasi mezzo millennio, ecco qualche chicca che forse non sapete con cui impressionare i
vostri vicini di fila, in attesa di un’audioguida più seria di me.

È l’edificio con più statue al mondo, sono ben 3400, oltre a 135 gargoyle e 700 figure di altro
genere.
Una di queste sculture, sul lato sinistro sopra al portone centrale della basilica, è la prima versione
conosciuta della Statua della Libertà, scolpita da Camillo Pacetti nel 1810, intitolata La Legge
Nuova e identica alla sorella (più giovane) americana, con tanto di torcia e corona a punte.
Se passando davanti al Duomo gridate UFFA, forse gli state facendo un omaggio: l’espressione
infatti secondo alcuni deriverebbe da «AUF», ovvero ad usum fabricae , una sigla che era apposta
per volere di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano, sui blocchi di marmo importato dal lago
Maggiore che servivano per la sua costruzione e che dovevano essere perciò esenti dal pagamento
fiscale (per questo si dice «a ufo», quando parliamo di una cosa fatta a scrocco).
Orologio satellitare nun te temo! O almeno finché la meridiana costruita nel 1768 dagli astronomi
dell’Accademia di Brera sarà ancora così precisa: la striscia di ottone che percorre il pavimento da
sud a nord arrampicandosi sulla parete per tre metri viene colpita a mezzogiorno in punto dal
passaggio della luce solare attraverso un foro praticato nel soffitto, e per moltissimi anni è così che
si sono sincronizzati tutti gli orologi della città.
Se guardando l’altare maggiore, nel tripudio di decorazioni e arredi liturgici, doveste individuare
una lucina rossa sempre accesa, ecco, non avete le allucinazioni, e non è lo scherzo di un ragazzino
con un minilaser: è il segno che identifica la posizione della reliquia più preziosa del Duomo, il
Sacro chiodo, uno dei tre usati durante la Crocifissione di Gesù.
Duomo, Milano. Foto © Anneleven Stock / Shutterstock.
Michelangelo
TONDO DONI
Chiedereste mai uno sconto a Michelangelo?

Il mio amico Mattia mi diceva sempre: «Se un lavoro lo vuoi fare chiedi il giusto, se non lo vuoi fare
chiedi il doppio». Mi sembrava un presupposto illuminante, specie se unito al mio proverbio cinese
preferito, «Se tu mi paghi come dico io, io lavoro come dici tu. Se tu mi paghi come dici tu, io lavoro
come dico io». Le idee chiare in quanto a retribuzione le aveva anche Michelangelo Buonarroti, che
possiamo a tutti gli effetti inserire insieme a Gustav Klimt nella categoria «artisti rosiconi» (cfr. il
Capitolo su Gustav Klimt).
L’aneddoto che vado a raccontare è legato al Tondo Doni, rappresentazione della Sacra Famiglia
conservata agli Uffizi e ricordata nei secoli dei secoli come il simbolo del Cinquecento italiano e un
capolavoro di composizione, grazie alla particolare posa della Vergine, non ritratta con il bambino in
grembo, ma rivolta all’indietro, verso Giuseppe, accovacciato alle sue spalle. È un groviglio di corpi e
colori straordinario, con un dinamismo inarrivabile e un senso dello spazio destinato a fare scuola, fatto
di linee, giochi prospettici e strutture geometriche degne di quel genio dell’architettura che
Michelangelo è stato.
Il committente è Agnolo Doni, un banchiere fiorentino estremamente ricco, che in occasione del
matrimonio con Maddalena Strozzi (o forse per la nascita della loro prima figlia Maria) chiede a
Buonarroti di cimentarsi con il tema sacro. Al ritiro dell’opera però il banchiere strabuzza gli occhi di
fronte alla richiesta di 70 ducati, obiettando che fosse impensabile spendere così tanto per la pittura e
rilanciando al massimo con un’offerta di 40. Michelangelo, che evidentemente avrebbe amato il mio
amico Mattia, per tutta risposta si riprende l’opera e raddoppia il costo della prestazione, a 140 ducati.
Doni molla il colpo e paga il dovuto, intuendo forse di avere a che fare con un talento fuori dal comune
(Michelangelo aveva già fatto la Pietà Vaticana e il David, insomma non era proprio l’ultimo della lista) e
applicando, evidentemente, la lungimiranza laddove c’erano tirchieria e avidità. E fa bene, perché si
tiene in casa questo pezzo di storia dell’arte che non ha eguali nel mondo. L’artista dal canto suo si
evolve, si impone sul committente, detta le sue regole e impone il suo valore. E il saggio cinese, Mattia e
io gli facciamo un applauso!
Michelangelo, Tondo Doni, Uffizi, Firenze. Foto © Immagina / Bridgeman Images.
Piero Manzoni
MERDA D’ARTISTA
Chi mai avrebbe il coraggio di usare l’apriscatole?

Anche io, come i Baustelle, tra i Manzoni preferisco quello vero, Piero . Quanto mi sei simpatico, Piero,
quanto ti voglio bene, quanto dovrebbero tutti avere una Merda d’artista in casa, lì sul comodino, solo
per sorridere un po’ a fine serata pensando che esistono al mondo menti come la tua!
Si potrebbe parlare di un sacco di opere di Manzoni, ma so che già la sua più famosa vi lascia perplessi.
Parliamone, dunque: una serie di 90 barattoli di latta, identici a quelli della carne in scatola, con dentro,
come recita l’etichetta, feci d’artista a conservazione naturale, prodotta e inscatolata nel maggio 1961.
Le espone e le mette in vendita al prezzo dell’oro al grammo, definendo già così il valore di una
qualunque «emanazione» di cotanto ingegno. Manzoni era giovane (ed è morto giovane, mannaggia, a
soli 29 anni), era brillante e viveva nella Milano del dopoguerra, che era tutto un friccicorino di
creatività: raccoglie il suggerimento dadaista, gioca con la ricerca ready-made degli oggetti del
quotidiano (e più quotidiano di così, si muore) e apre il dibattito sulla mercificazione, sulla produzione
artistica seriale, mai come provocazione, ma come parte di una riflessione in cui egli stesso si mette al
centro. In più, cosa si fa con la merda di un artista? La si conserva come la più preziosa reliquia per
consegnarla ai posteri? Si apre la scatoletta per vedere fino a che punto ci ha presi in giro? Ebbene,
qualcuno l’ha fatto, in giro per il mondo: nel 2008, Bernard Bazile, un giornalista francese, ha aperto il
sacro oggetto e dentro ha trovato… un’altra scatoletta più piccola, effetto sorpresa/matrioska! Non se
l’è sentita di andare avanti, si è forse fidato di quel che si dice in giro, cioè che contengano
effettivamente solo gesso, o in alcuni casi carne in scatola o qualunque cosa fosse già presente nella
confezione originale che sarebbe stata poi solo rietichettata. Una cosa è certa: è stata battuta all’asta il
6 dicembre 2016 a Milano per 220.000 euro. Ha vinto Manzoni, ci ha costretti a rivalutare l’artisticità
del prodotto creativo sovvertendo completamente le leggi di mercato, ci ha lasciati in sospeso su sensi e
significati, che è la prima funzione dell’ironia, e sì, ci ha messi di fronte a una verità del marketing
abbastanza inquietante: se ce la vendete bene, compriamo anche la merda.
Piero Manzoni, Merda d’artista , Museo del Novecento, Milano. Foto © Museo del Novecento, Milan, Italy, Luisa Ricciarini /
Bridgeman Images.
Olafur Eliasson
THE WEATHER PROJECT
Si è acceso il sole e chi l’ha acceso sei tu

Ci ho pensato oggi, mentre spostavo la sdraio dal mini balcone alla camera da letto, dove di mattina,
dalla finestra, entra un sole caldo e primaverile. Mi sono inventata il mare, con tanto di olio al
bergamotto e costume, ma ero in casa mia, a Milano.
Ci aveva pensato prima di me, e con presupposti e risultati migliori, Olafur Eliasson, artista danese noto
ai più per un’opera del 2003 realizzata alla Tate Modern di Londra. Entrando nel museo i visitatori
potevano assistere a uno spettacolo della natura a cui, soprattutto i londinesi, erano poco abituati: un
sole caldo, infuocato, al tramonto, accompagnato da un vapore leggero, con uno spazio libero per
sedersi, sdraiarsi e godersi l’atmosfera. Ecco, atmosfera per Eliasson è una parola chiave: i suoi temi di
ricerca sono gli agenti atmosferici, il rapporto e la reazione dell’uomo allo spazio circostante, i fenomeni
naturali e come trasformano l’ambiente intorno a noi, sia in termini scientifici che emozionali.
Ricreando le «condizioni atmosferiche» ci fa interrogare sulle leggi fisiche che governano il mondo e,
ovviamente, pone l’attenzione sul modo in cui sfruttiamo il pianeta senza pensare all’alterazione, a volte
irreversibile, delle leggi di cui sopra. Lo fa con Ice Watch nel 2014 quando invade la piazza del
municipio di Copenaghen con blocchi di ghiaccio che arrivano direttamente dall’Islanda, o al Louisiana
Museum in Danimarca con Riverbed , tra il 2014 e il 2015, dove ricrea un paesaggio naturale roccioso,
attraversato da un corso d’acqua. L’interazione tra l’uomo e l’architettura, il design e l’arte è lo
strumento con cui aprire interrogativi sociali, politici, ecologici e etici, in cui ogni ogni ambito della
realtà diventa un terreno da esplorare.
Be’, funziona: sarò sempre grata all’arte che si inventa la realtà dove non c’è, e all’arte che mi ricorda la
realtà che ho dimenticato. Quando sono entrata alla Tate e ho visto il finto tramonto, poi mi sono
sdraiata a terra, ho sentito quella nebbiolina piacevole su di me, sapevo di avere intorno gente rilassata
e felice di provare la stessa sensazione addosso, e per un attimo è stato Roma, Villa Borghese, un primo
maggio qualunque con gli amici, dopo pranzo, nel brusio generale. Nel mio mondo ideale chiunque
dovrebbe avere un posto in cui vivere di nuovo quel tramonto, in ogni ora, in ogni città, quindi bravo,
Olafur, da me e dai meteoropatici del mondo, grazie di tutto.
Olafur Eliasson, The Weather Project (2003), Tate Modern, Londra. Foto © Richard Haughton / Bridgeman Images.
GUERRILLA GIRLS
Chi vi fa più paura, le donne o i gorilla?

Le avrete sicuramente viste, e se vi è capitato le avrete notate. Probabilmente avrete incontrato qualche
loro opera sui social o magari le avrete anche condivise, se siete sensibili ai temi che propongono. Sono
le Guerrilla Girls, un gruppo di anonime artiste particolarmente – anzi esclusivamente – concentrate sui
temi del femminismo e dell’uguaglianza di genere e sempre nascoste sotto enormi maschere a forma di
scimmia. Attive dagli anni Ottanta, scelgono la loro iconografia ufficiale durante un’intervista: una
giornalista inglese sbaglia a fare lo spelling, scrive Gorilla e loro raccolgono il suggerimento del destino.
Si danno nomi di artiste del passato come Tina Modotti, Frida Kahlo, Anaïs Nin, e non dipingono, non
scolpiscono: la loro è pura arte di protesta espressa attraverso i linguaggi della pubblicità, i poster, i
libri, i giornali, e raccontano il sessismo presente specialmente in ambito artistico. Si occupano da
subito di «quote rosa»: nel 1985 nell’esposizione al MoMA, An International Survey of Recent Painting
and Sculpture , su 165 artisti ospiti c’erano solo 13 donne, e altrettanto ridicola era la proporzione
rispetto agli artisti di colore. Nel loro manifesto più famoso la testa scimmia guerrigliera sul corpo
sinuoso dell’Odalisca di Ingres si chiede «le donne devono essere nude per poter entrare nei musei?»
riferendosi al fatto che, se la percentuale di artiste chiamata ad esporre è così bassa, inversamente
proporzionale è la presenza dei nudi nelle opere appese alle pareti. Il corpo delle donne è materiale da
museo, ma tutto il resto? Molto presto il loro dibattito sul concetto di minoranza e contro ogni forma di
razzismo si allarga dal mondo dell’arte a quello della letteratura, del cinema, della politica, sia nella
gestione che nei contenuti. Sarebbe bello poter pensare che a distanza di diversi decenni la battaglia
antipatriarcato delle Guerrilla Girls si possa ritenere obsoleta e superata, un pezzo da museo appunto,
ma più mi guardo intorno e più penso che abbiamo bisogno di puntare il riflettore sulle disuguaglianze
di genere e su come le donne vengono rappresentate, rispettate, incluse. Insomma, che razza di
evoluzione è la nostra, se dopo quasi mezzo secolo abbiamo ancora bisogno di farci aiutare dalle
scimmie?
Due Guerrilla Girls di fronte al poster Do women have to be naked to get into the Met. Museum? conservato alla National
Gallery of Arts, Washington. Foto © Eric Huybrechts.
CINDY SHERMAN
Una faccia, mille facce (altro che i selfie su Instagram!)

Di alcuni artisti nel corso dei miei anni di studi ho invidiato l’intuizione geniale, di altri la capacità di
rendere propria l’eredità dei predecessori, di altri ancora i massimi risultati ottenuti con il minimo
sforzo, ma se c’è una che invidio ogni santo giorno, una che davvero ha capito tutto della vita, quella è
Cindy Sherman. Nata nel New Jersey nell’America degli anni Cinquanta, ultima di cinque figli, studia
Arte dedicandosi all’inizio alla pittura, ma è nella fotografia che trova la sua casa. Negli anni della
rivoluzione femminile si maschera per la prima volta, interpretando in chiave ironica lo stereotipo della
bona sensuale che piace all’uomo che non deve chiedere mai. Si apre un mondo. Inizia con la serie degli
autoritratti: gioca con il trucco, con il travestimento, a volte è una bambina innocente con le lentiggini e
lo sguardo impertinente, altre una casalinga annoiata in autobus, altre ancora una ricca ereditiera
troppo abbronzata in vacanza negli Hamptons. Si dedica all’immagine delle donne del cinema, dell’arte,
moltissimo a quelle della pubblicità, ogni volta ne assume sembianze, personalità, attitudini, e l’anima,
davvero, arriva fin dentro l’anima. Autoritratti-altro-da-sé, Cindy inventa il selfie e la sua nemesi, è
l’unica artista che ogni volta si ritrae senza raccontare mai davvero se stessa, anzi è la donna più
misteriosa dell’arte, perché ogni volta si fa corpo di altro, come se si facesse possedere da tutte le
identità possibili. È art director dei suoi lavori e sua interprete preferita, anzi, l’unica: in compenso i
ruoli che sceglie sono tanti quante le donne al mondo, calcando la mano sulle storture, sulle rughe, sui
vizi, sulle esagerazioni rischiando di diventare caricatura, ma comunque riportando sempre un vero più
del vero proprio perché è artefatto. Realtà e finzione, identità e maschera, fotografia e teatro: nessuno
come lei sa essere così coerente con se stessa pur diventando sempre qualcun altro. E io la amo e la
invidio per questo, lei che ha saputo creare vi(t)e alternative nell’epoca in cui tutti volevano diventare
qualcuno. E, nella ricerca di autenticità, quanto è catartico camuffarsi, nascondersi, mostrarsi sotto
mentite spoglie? È espressione pura di sé? È racconto puro del mondo? Ogni volta mi commuove
scoprire su cosa si è posato il suo sguardo e in quelle mattine in cui la mia faccia nello specchio è
l’ultima cosa che voglio vedere, io penso a Cindy, lei sì che ha trovato la chiave perfetta.
Cindy Sherman, Untitled #400 (2000), Museum of Modern Art, New York. Per gentile concessione dell’artista e Metro Pictures,
New York.
Marc Chagall
AUTORITRATTO CON SETTE DITA
Come dire, riconoscere la mano dell’artista

Quanto mi piace quando nelle opere si trova un errore e poi si scopre invece che tutto ha un senso.
Misterioso, ma ce l’ha.
Parliamo di Marc Chagall, classe 1887, vero nome ebraico Moishe Segal, un pittore bielorusso di origine
chassidica, che come molti del suo tempo, si trasferisce a Parigi in cerca di accettazione, ispirazione e
fortuna. Non proprio un brillantino di allegria, non a caso diceva di essere «nato morto», poiché il
giorno della sua venuta al mondo i cosacchi bruciarono la sinagoga del suo villaggio: la fuga francese è
dunque il suo tentativo di sottrarsi al destino di dolore e sopraffazione degli ebrei russi sotto il dominio
degli zar e dare una chance al temperamento artistico che aveva scoperto da ragazzo, nonostante fosse
cosa vietata dalla Torah. A Parigi si stabilisce a La Ruche, a Montparnasse, il ritrovo bohémien di
Modigliani, Brâncuși, Apollinaire e Léger, conosce il cubismo ma indaga la parte invisibile, l’anima, la
memoria, lo spirito delle cose, «senza il quale la verità esterna non è completa».
In questo autoritratto si raffigura nel suo studio, nell’atto di dipingere un suo vero quadro intitolato Alla
Russia, agli asini e agli altri , dipinto tra il 1911 e il 1912. Osservando bene, ma il titolo ce lo suggerisce
già, il pittore si ritrae con una mano innaturale (il pollice è nella posizione di una destra, ma invece
dovrebbe essere la sua sinistra), ma soprattutto con sette dita. Possibile sia una svista? Assolutamente
no! Bisogna conoscere la tradizione ebraica, e soprattutto la lingua, perché la scelta dell’artista rimanda
all’espressione in yiddish Mit alle zibn finger («Con tutte e sette le dita»), che significa fare qualcosa
con tutte le proprie forze, mettendo in campo ogni risorsa personale, in italiano diremmo «fare una cosa
con i sette sentimenti». La sua ricerca di realizzazione artistica e personale a Parigi, la profondità delle
sue radici e della tradizione che sente tanto forte da riportarne continuamente simboli e ricordi sulla
tela, l’intensità del suo racconto conscio o inconscio, tutto questo è racchiuso in quella strana mano, che
peraltro non regge nemmeno il pennello, è semplicemente poggiata sul quadro, come a custodire, a
difendere quella parte del dipinto in cui era raffigurata la capanna della sua infanzia e, per estensione,
la sua storia. E per proteggere la memoria, per quello sì, servono sette dita.
Marc Chagall, Autoritratto con sette dita , Stedelijk Museum, Amsterdam. Foto © Stedelijk Museum, Amsterdam, The
Netherlands / Bridgeman Images.
Michelangelo
DAVID
Storie di committenti e sopravvivenza a regola d’arte

Ho lavorato in un’agenzia pubblicitaria per un periodo, facevo un lavoro a metà tra quello del
copywriter e del social media strategist, professione che in soldoni consiste nell’imprecare tra i denti
tutto il giorno, destreggiandosi tra le richieste del cliente, le aspettative del pubblico e le risorse di chi
ti paga. Ogni volta che mi toccava avere a che fare con qualcuno di particolarmente saccente, pur
restando convinta della bontà del mio lavoro, io dentro di me pensavo al naso del David di Michelangelo.
Capolavoro della scultura rinascimentale, simbolo di Firenze e fiore all’occhiello della produzione di
Buonarroti, David è ritratto nel momento precedente al confronto con Golia, con una resa del corpo
spettacolare, grazie al perfetto equilibrio anatomico, alla bellezza del marmo, e a una tecnica sopraffina,
che permise a Michelangelo di tirare fuori un gioiello da un blocco difficilissimo che era stato
precedentemente rifiutato dai suoi colleghi perché di scarso valore.
Ma veniamo al naso: nel 1504 le massime autorità accorrono nello studio di Michelangelo per conoscere
l’imponente scultura che troneggerà in Piazza della Signoria, davanti a Palazzo Vecchio. Tra loro c’è
Pier Soderini, gonfaloniere della Repubblica di Firenze e amante delle arti, il quale guardando l’opera
avanza una piccola critica: bella eh, per carità, ma il naso non lo convince, troppo lungo, un po’
sgraziato, troppo pronunciato. Michelangelo, che abbiamo già conosciuto per una certa inclinazione al
Va’ a quel paese , sceglie questa volta l’arte della diplomazia e della mistificazione, diventando il mio
faro nella nebbia. Afferra scalpello e polvere di marmo, si arrampica sulla scala, arriva all’altezza del
naso e finge di ritoccare i connotati a David, due tocchi qui, due martellate di qua, poi si rivolge a
Soderini e chiede: «E ora?» E Soderini: «Ora sì che è perfetto!» Questo non solo ci dice che a
Michelangelo non la si fa e che il genio creativo si esercita in mille modi, anche e soprattutto nella
difesa della propria opera, ma ci insegna un’altra importante strategia di vita: prendi il file, cambia il
nome e riportalo al cliente tale e quale a come era, nove volte su dieci non solo non se ne accorgerà, ma
sentirà di aver messo mano a un’opera mediocre e di averla trasformata in un capolavoro.
Michelangelo, David , Galleria dell’Accademia, Firenze. Foto © gurb101088 / Shutterstock.
Francesco Borromini
SANT’IVO ALLA SAPIENZA
Non esistono spazi ristretti, ma ristrette visioni

Occhio che questa storia ha una morale.


Nel 1632 quel figo pazzesco di Francesco Borromini, uno dei massimi esponenti dell’architettura
barocca e che, tanto per mettere subito le cose in chiaro, per me personalmente batte il suo nemico
giurato Gian Lorenzo Bernini dieci a zero, riceve l’incarico di una chiesa intitolata a Sant’Ivo nel
complesso universitario della Sapienza, tra Piazza Sant’Eustachio e Corso Rinascimento, praticamente
nel cuore di Roma, alle spalle del Pantheon. Giacomo della Porta, che proprio non era l’ultimo arrivato
(allievo di Michelangelo, ha completato lui la cupola di San Pietro, tanto per dirne una) aveva, prima di
lui, stabilito l’impianto di tutta l’area, immaginando – costretto dagli edifici preesistenti che non
lasciavano molto spazio di manovra – una chiesetta a pianta circolare con cappelle laterali. Borromini
entra in corsa sul progetto, ma invece di proseguire sul lavoro del suo predecessore, rovescia l’idea,
applicando una regola che distingue ogni sua opera: la rivoluzione dello schema. Sceglie la pianta
triangolare, la raddoppia, la ribalta e ne ricava una stella a sei punte, aggiungendo anfratti circolari
ovunque sia possibile. Occupa tutto lo spazio che ha, gioca con le simbologie e con le linee, reagisce in
modo positivo alla limitazione negativa, contrae e allarga, si infila e spinge verso l’alto, si inventa una
cupola a spirale che termina con una corona fiammeggiante.
Al contrario di Bernini, che è poliedrico e multitasking e inanella nel curriculum dipinti, sculture e
capolavori di urbanistica, Borromini è tecnico e ambizioso, è architetto puro del disegno e del dettaglio,
la sua passione è lo spazio, nella forma più alta e sacra del termine. Usa materiali poveri, ama lo stucco,
i mattoni, l’intonaco, perché è il lavoro dell’architetto a rendere preziosa la costruzione, grazie alla
forma, allo studio della struttura, al dinamismo dei volumi, al rifiuto totale della prevedibilità. È
insofferente, nervoso, mai lineare. È contratto, arrotolato e io lo amo, perché siamo tutti bravi a
disegnare miracoli nelle piazze gigantesche, ma è nelle strettoie e nei grattacapi, nei tracciati
complicati, che si misura il genio.
Ecco, la vita a volte è un cortile molto stretto, pieno di limitazioni e a rischio banalità: voi fate come
Borromini, invece di seguire i progetti degli altri, inventatevi uno schema vostro. E sfondate tutto.
Francesco Borromini, Sant’Ivo alla Sapienza, Roma. Foto © ValerioMei / Shutterstock.
René Magritte
IL TRADIMENTO DELLE IMMAGINI
Ripetiamolo insieme: questa non è una pipa!

Ve lo avevo promesso nell’introduzione ed eccoci qua.


La pipa di René Magritte, quella che in gergo musicale viene chiamata One Hit Wonder, cioè quell’opera
talmente iconica da spingere tutte le altre in secondo piano. Partiamo dal titolo, Il tradimento delle
immagini , che è già tutto un programma. Parliamo della prima versione, quella del 1928, in cui l’artista
belga, capobanda del surrealismo europeo, mette in scena un’apparente contraddizione. C’è una pipa e
la scritta «Questa non è una pipa». Una frase netta, quasi elementare, che apre un mondo gigantesco,
una discussione sulla realtà, anzi, al plurale, sulle realtà. Quella infatti non è una pipa, ma L’IMMAGINE
di una pipa, la sua riproduzione, la sua versione dipinta, non si può prendere in mano, non si può
fumare, non esiste davvero, se non in forma di rappresentazione. Eppure il nostro cervello ci ha dato
una chiara risposta: al primo sguardo è un pipa, finché l’attenzione non viene richiamata dalla scritta,
una didascalia inoppugnabile, chiarificatrice. Questo passaggio fondamentale ci ricorda che stiamo
guardando un’opera d’arte e non un oggetto, che la percezione si è allargata, ci siamo posti come
spettatori. Ecco, Magritte gioca esattamente su due piani: la prima impressione e il ragionamento, lo
spaesamento e la comprensione, l’illusione di afferrare con uno sguardo e il senso di surrealtà
dell’immagine e del significato. Fa lo stesso con i palazzi illuminati in notturna sotto il cielo di
mezzogiorno (L’Impero delle luci , 1954) o con stivali-piedi in cui non si sa cosa contenga cosa, in un
paradosso circolare che resta sospeso, senza tempo, senza prima e dopo, equilibratissimo e inspiegabile
(Il modello rosso , 1935). Fa sorridere l’idea di dover usare una realtà indecifrabile per poter aprire un
interrogativo sulla comprensione della realtà stessa, sulla capacità emotiva e intellettuale che abbiamo
di accoglierla e sul linguaggio con cui la raccontiamo.
A volte si scende nell’inconscio, a volte si resta in superficie, ma sempre Magritte ci trascina sul terreno
dell’esistente, ci bussa sulla spalla e ci fa rendere conto di cosa vedono i nostri occhi e cosa invece la
nostra mente.
È un saltello continuo e irresistibile tra realtà e rappresentazione, sappiamo che è diverso da come
appare eppure non riusciamo a staccare lo sguardo. Come con le foto dei tizi carini su Tinder.
René Magritte, Il tradimento delle immagini , Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles. Foto © Photothèque R. Magritte
/ Adagp Images, Paris / SCALA, Firenze.
Jan Vermeer
RAGAZZA CON TURBANTE
Può un orecchino di perla stregare il mondo? Sì

Signore e signori, il marketing.


Come, direte voi, il marketing con la ragazza con l’orecchino di perla, cioè con la faccia più piatta e più
inflazionata della storia dell’arte mondiale? Ebbene sì.
Partiamo dall’inizio: pittura olandese, è un esempio di tronie , cioè un ritratto in cui il soggetto è
raffigurato in abiti esotici o d’altri tempi, uno dei generi preferiti di Vermeer, forse perché gli
permetteva di esercitarsi parecchio sulla resa realistica dei lineamenti, sulla vividezza dell’espressione e
sulla creazione di quella atmosfera silenziosa, eterea, che contraddistingue tutti i suoi lavori e in
particolare questo, di cui si è detto che sembra dipinto con polvere di perle. Perché ho scelto questo per
parlarvi di psicologia ed efficacia d’acchiappo? Osserviamo l’opera. La giovane donna, di cui non
conosciamo l’identità perché l’artista non ce la rivela, è ritratta di spalle, con il viso girato verso lo
spettatore e lo sguardo puntato su di lui. Il volto è quasi poggiato sulla spalla, l’espressione è intensa e
allo stesso tempo trasognata. Potrebbe sembrare una foto rubata se solo non sapessimo che questo
effetto su tela richiede sicuramente ore e ore di posa. La donna si è girata verso il pittore (e per
estensione verso chi guarda) come in risposta a un richiamo. Eppure si abbandona allo sguardo in
maniera esplicita, pur non offrendo completamente il resto del corpo. La perla al centro dell’opera è
emblema di questa contraddizione: pura per antonomasia, preziosa, esotica, innocente ma erotica. Lo
sfondo nero, il giallo e blu del suo turbante, la pennellata luminosa sulla pelle, tutto contribuisce al
fascino della ragazza. In più, i suoi lineamenti regolari, e il fatto che i capelli e il corpo siano nascosti,
rendono il suo volto neutro, quasi per nulla connotato, al punto che basta cercare su Instagram per
trovare infinite riproduzioni del quadro incarnate da ragazze qualunque, con fisionomie anche diverse,
ma allo stesso tempo perfettamente somiglianti.
Ora fatemi un favore, e so che dal momento in cui vi chiederò questa cosa non riuscirete a non farla,
prendete una rivista di moda, una di quelle con gli editoriali patinatissimi e le modelle stupende: in
quante foto è riprodotta la stessa composizione? Ecco, quello è il marketing dell’immagine: creazione di
un’empatia spontanea, la scoperta della bellezza riconoscibile ma sorprendente, e quel gioco misterioso
che te ne fa desiderare ancora.
Jan Vermeer, Ragazza con turbante , Mauritshuis, L’Aia. Foto © Mauritshuis, The Hague, The Netherlands / Bridgeman Images.
CARLO ZINELLI
La risposta alla domanda ‘ma questa è arte?’

Esistono le persone giuste, al momento giusto, nel posto giusto.


E poi esistono le persone giuste che non c’entrano nulla con le coordinate spazio temporali in cui
vivono. Carlo Zinelli è uno degli esponenti più interessanti dell’Outsider art , inserito nel movimento
dell’Art brut , coniato da quel genio meraviglioso di Jean Dubuffet, che raccoglie sotto questo nome tutti
gli autori e le esperienze artistiche di non professionisti, di emarginati dalla società, di malati di mente,
persone che non partecipano in maniera volontaria e intenzionale a un discorso estetico e di mercato,
ma che creano arte in maniera spontanea, senza ambizioni culturali.
Carlo Zinelli, veronese di adozione, appassionato di musica, parte come volontario per la guerra civile
spagnola nel 1939. Gli viene presto diagnosticata una personalità schizofrenica che lo porterà nel 1947,
dopo anni di isolamento, a essere rinchiuso nel manicomio di S. Giacomo alla Tomba, insieme a
un’ottantina di pazienti in gravissime condizioni. Qui, pur in una situazione di drammatica
emarginazione, la sua vita cambia per sempre. Scopre l’arte, incoraggiato dai suoi terapeuti, dipinge e
colora ogni giorno, e anche se non è più in grado di comunicare a parole in maniera comprensibile e i
deliri persecutori sono frequenti, nell’arte trova una terapia, una cura, un modo di esistere. I suoi primi
lavori sono i graffiti sulle pareti della sua stanza, ma è nell’atelier in cui entra per la prima volta nel
1957 che troverà pace e calma. Le sue opere sono il ritratto della malattia: figure ripetute
ossessivamente, horror vacui, linee finissime quasi da incisione, cura maniacale per i dettagli, ma a uno
sguardo esterno e inconsapevole cosa resta impresso? La coerenza dello stile, una composizione
interessante e densa, il ritorno di simboli e di elementi, l’uso del colore espressionista ma allo stesso
tempo casuale, perché è il disegno che prevale, che assorbe ogni istanza comunicativa. Ci sono animali
ricorrenti, parole che tornano spesso («fine-mondo» è una di queste), riferimenti sessuali, ricordi della
guerra. C’è un alfabeto Zinelli che non ha nulla da invidiare a quello di Basquiat, o di Capogrossi, e che
resta riconoscibile anche quando sperimenta, ad esempio con i collage. Carlo è un artista, le sue opere
sono arte, che lui lo voglia e lo sappia, o no. Nel 1969 l’ospedale psichiatrico sposta la sede, il
cambiamento per lui è troppo pesante da sopportare e smette di dipingere, si chiude di nuovo in se
stesso, fino alla sua morte, nel 1974. Ci lascia 2000 opere, tutte dipinte su fogli bianchi e qualche
scultura. E ci lascia un universo incredibile, da scoprire, e la certezza che l’arte, a volte, può davvero
salvare la vita.
Carlo Zinelli, Figure a più colori su sfondo giallo (1960 ca), collezione Oliana e Alessandro Zinelli. Per gentile concessione degli
eredi.
PIERRE BONNARD
Quando un quadro si può considerare finito?

Qualcuno si offende se dico che non è il mio preferito e che se proprio devo pensare a un centinaio di
artisti di cui raccontarvi, Pierre Bonnard non rientra nei primi milleduecento? Se sì, mi scuso. Se invece
no, vi starete chiedendo perché allora parliamo di lui. Pittore francese nato a fine Ottocento, quello che
definirei un impressionista con qualcosa in più, mi è utile per affrontare con voi il concetto di
compiutezza.
Bonnard dipingeva a memoria, al contrario dei suoi colleghi che restavano ore davanti al soggetto (di
solito naturale, paesaggistico) per cogliere le sfumature dei colori e le variazioni della luce. Lui, invece,
ai suoi soggetti applicava il filtro del ricordo, arricchendo la composizione di una elaborazione interiore,
emotiva e intellettuale. Questo lo portava a rimaneggiare spessissimo l’opera, ad aggiungere nel corso
del tempo correzioni e modifiche, e a spostare sempre di più il momento in cui l’opera potesse dirsi
completata. Narra la leggenda che Bonnard fosse addirittura solito aggirarsi nei musei in cui le sue tele
erano esposte, e che di nascosto tirasse fuori una piccola scatolina con pennello e colori… un tocco qui e
un aggiustamento lì e l’opera rinasceva, inedita, ancora una volta.
Quando finisce un’opera? Proviamo a pensare a una tela di Pollock, o di Kandinskij, o ai mille e più
tocchi di pennello dei quadri divisionisti o dei paesaggi impressionisti: quand’è che si mette il punto,
qual è il gesto che conclude l’opera? Ci ho pensato tantissimo negli anni di studio, immaginavo che ci
fosse un momento in cui l’artista soddisfatto della sua creatura volesse lasciarla così com’era. Ma come
agisce il passare del tempo sulla creazione artistica? Quel pazzo (ma solo perché ci costringe a guardare
le tele in radiografia) di Pablo Picasso dipingeva più volte sulla stessa tela, bulimico com’era nella
produzione, e anche lì in qualche modo tracciava una gerarchia tra opere che potevano dirsi finite, poi
finite e passate, poi passate e rinunciabili. E cosa succede quando l’opera viene data al pubblico, e
quindi esposta non solo all’interpretazione ma anche alla relazione fisica con il tempo e lo spazio?
Quante volte gli artisti avranno voglia di rapire le loro tele e aggiustare quella virgola che a distanza di
anni proprio non va più bene? Una vita impegnativa, vi dico, quella dell’artista. Ma mai come quella del
custode museale.
Pierre Bonnard, Sala da pranzo sul giardino , Solomon R. Guggenheim Museum, New York. Foto © Solomon R. Guggenheim
Museum, New York, USA / Bridgeman Images.
ROBERT MAPPLETHORPE
Coraggio ed eros in un clic

Si può raccontare l’opera senza raccontare l’artista? In alcuni casi è la produzione che parla per l’autore
e non abbiamo necessità o interesse a scavare nel suo vissuto per comprenderne lo stile. In altri è
assolutamente impossibile. Con Robert Mapplethorpe per esempio è impensabile: newyorkese, nato nel
1946 nel Queens in una numerosa famiglia cattolica di origini irlandesi, a sedici anni viene beccato a
rubare un giornaletto porno gay, e racconta che quella scintilla di proibito, misto all’eccitazione e al
mistero è l’effetto che ha voluto ricreare sempre con la sua arte.
Spoiler: ci è riuscito perfettamente.
Prova, da ragazzo, a reprimere il suo orientamento sessuale, si arruola addirittura in una associazione
paramilitare a cui anche il padre aveva aderito, ma la rivoluzione gli bussa sulla spalla: sono gli anni
della guerra del Vietnam, delle rivolte studentesche, di una nuova idea di sesso, di amore, di mascolinità
e femminilità è alle porte. E poi l’arte e le droghe, conosce il jetset più interessante di quegli anni, da
Patti Smith (una delle sue muse e modelle preferite) a Andy Warhol, e fotografa nelle sue Polaroid
indimenticabili sia ballerini che marchettari, sia modelli che colleghi. Con il suo stile, allarga le maglie
dell’erotismo esplicito e della pornografia e restituisce al corpo nudo spesso ostentato un’aura di poesia
delicatissima, e un’artisticità senza uguali. Ha solleticato i palati dei critici più affezionati alla forma e
alla tecnica, regalandoci un uso mirabile della luce, le migliori scale di grigi, composizioni simmetriche
degne di un architetto; ha scandalizzato i ben pensanti con il Portfolio X, colmo di immagini sadomaso,
di atti sessuali, di nudi maschili; ha messo d’accordo tutti con i soggetti floreali, tulipani elegantissimi e
rassicuranti, che nonostante uno stile quasi conservatore restavano carnosi, ugualmente seducenti,
perché il suo sguardo, quello sì, emergeva indipendentemente dal soggetto. È incredibile quanto si
possa rimanere classici con un immaginario così audace per l’epoca, eppure Mapplethorpe a me ha
sempre ricordato Canova, mi ha sempre impressionato per l’equilibrio e non per lo sconvolgimento delle
regole, ne ho sempre riconosciuto la pulizia, il rigore anche mentre guardavo un suo autoritratto con un
frustino infilato nel sedere. È morto di AIDS nel 1989, hanno detto di lui che è stato il Michelangelo
degli anni Ottanta. Io, per quello che vale, dico che è giusto, e forse nemmeno gli rende giustizia.
Robert Mapplethorpe, foto dell’artista © Leee Black Childers / Getty.
Come si individua
UN DIPINTO FALSO?
Questa non è istigazione a delinquere, mi raccomando!

Basta la firma a determinare l’autenticità di un’opera d’arte?


Ma figuriamoci, non funziona con le borse, immaginate con i dipinti! Replicare all’infinito lo stesso
capolavoro cercando di imbrogliare l’appassionato sprovveduto è fin troppo facile. Esistono però delle
tecniche, e molte sono in via di perfezionamento, che aiutano carabinieri e studiosi ad attribuire con
certezza la paternità di un’opera e soprattutto a stabilirne l’originalità, perché l’occhio allenato
dell’esperto potrebbe non bastare. Quali sono gli aspetti e le tecniche da considerare?

Presenza di disegni o dipinti sotto la superficie. Si controlla con i raggi X ed è la prima mossa.
Anacronismi: sono state usate vernici che risalgono a tempi diversi da quelli della presunta
realizzazione? La misurazione della radioattività del piombo nelle pitture a olio ci aiuta a risalire a
una data.
Stato della tessitura della tela, forma e dimensioni della pennellata, schemi e modelli che possiamo
recuperare da dipinti contemporanei a quello in esame per avere dei termini di confronto
immediati.
Analisi spettroscopica a infrarossi, che evidenzia l’alterazione delle molecole del materiale usato,
sia la tavola che i pigmenti, e aiuta a stabilire un limite temporale.
Analisi microscopica della superficie, si osserva la craquelure, cioè quella rete di crepe del dipinto,
per capire se è artificiale.
Duroflessimetro, uno strumento che riporta l’essiccamento della pittura dovuto al passare degli
anni.
Luce radente, per mettere in luce ridipinture o restauri già avvenuti sull’opera.
Luce di Wood, per riconoscere dei materiali fluorescenti come alcune colle e alcuni pigmenti, al
fine di ricostruire gli interventi sul dipinto.
Riflettografia infrarossa, per vedere i disegni preparatori, le quadrettature, le incisioni pregresse
alla realizzazione dell’opera, che il più delle volte ci dicono che è originale.
Le impurità nei pigmenti: anticamente per renderli più «morbidi» nei pigmenti venivano aggiunte
tracce di altre terre, quindi più sono sporchi, più è probabile che siano autentici.

La direzione declina ogni responsabilità in caso di utilizzo improprio del presente testo da parte di
falsari o aspiranti tali: impostori, vergogna!
Come si individua un dipinto falso? Foto: SeventyFour / depositphotos.com.
ANDY WARHOL
Il re della Pop Art, dentro e oltre la mitologia

Nell’immaginario comune Andy Warhol è ormai come i suoi soggetti: talmente riconoscibile da poter
essere (ri)prodotto in serie come una Coca-Cola, talmente famoso da non aver bisogno di presentazioni,
come le sue Liz Taylor o Marilyn Monroe. Eppure, esattamente come per le sue opere, ci sono mille cose
che non sapete del maestro della Pop Art e della sua vita, perché oltre l’icona e oltre le notizie che
conoscono tutti, come per le gambe, c’è di più.

Il vero cognome è Warhola, i genitori erano emigranti della classe operaia austro-ungarica. Invece,
sulla data di nascita non si sa nulla di certo: a quanto pare non è stata registrata e Andy si è
divertito per tutta la vita a giocare con la sua età di fronte ai giornalisti.
Era mezzo calvo e aveva un occhio pigro, ma furbescamente ha risolto puntando sul look: parrucca
argentea, grossi occhiali e via, andare.
Era un cattolico bizantino super praticante, faceva spesso volontariato e lo si incontrava facilmente
a messa. Non ne parlava, era molto geloso della sua vita privata e, forse per lo stesso motivo, non
si è mai dichiarato apertamente omosessuale.
Non di soli Velvet Underground vive la Factory: tra i cantanti cui Andy ha prestato la sua opera
artistica infatti c’è la nostra Loredana Bertè. Si incontrano all’inizio degli anni Ottanta in un bar,
l’artista la scambia per una cameriera ma poi la invita nel suo studio e scopre il suo ultimo disco,
Made in Italy . Immediatamente si innamora del pezzo Movie e gira per lei un videoclip di
avanguardia cinematografica, con scene urbane in notturna e Loredana sovraesposta e
coloratissima. Pasta queen , la chiamava, esiste una cosa più bella di questa?
Sì, esiste una cosa ancora più bella: compare come guest star in una puntata di Love Boat .
Viene dichiarato clinicamente morto due volte. La prima il 3 giugno del 1968, quando Valerie
Solanas, una femminista frequentatrice della Factory, gli spara con una pistola in preda alla rabbia
per il rifiuto di una sua sceneggiatura. La seconda il 22 febbraio 1987, in un modo decisamente più
popular, cioè per complicazioni dopo un intervento alla cistifellea. Profeticamente, la sua ultima
opera fu L’ultima cena ripresa dall’opera di Leonardo.
Andy Warhol, Liz (1963), collezione privata, Londra. Foto © Christie’s Images, London / Scala, Florence.
MARK ROTHKO
Mai farsi ingannare dai colori pastello!

Questo è il momento in cui distruggo ogni vostra certezza, e quanto mi piace!


Prendetevi un momento, fissate il dipinto di Mark Rothko, elaborate le sensazioni che vi suscita,
immaginate di vederlo lavorare, di assistere al movimento lento del pennello, alla creazione delle
splendide sfumature, alla costruzione di questo equilibrio formale in cui le tinte si mischiano, la luce e le
profondità danno vita a una poesia magica, accogliente, quasi rilassante, una coccola per gli occhi.
Ecco, la verità è che Rothko era incazzato nero.
Quarto figlio di una famiglia ebrea di origine lettone, emigra negli Stati Uniti, prima a Portland, poi nel
Connecticut dove frequenta l’università di Yale, e poi a New York, la città in cui si stabilisce e dove
sviluppa la sua visione estetica.
Il lavoro di Rothko, facile a dirsi, si concentra sulle emozioni e sul colore: grandi campiture, tinte molto
accese o polverose e tenui, geometrie nette e ricorrenti, nessun disegno, un astrattismo drammatico e
misterioso, senza appigli figurativi, profondo, a tratti ipnotico. Ma al contrario del risultato rassicurante,
la spinta creativa e l’intenzione espressiva erano ben altre. Grande bevitore, Rothko dormiva spesso in
giro, soffriva la fame, rifiutava un sistema economico come quello americano, in cui la ricchezza era in
mano a pochi e nelle mani dei poveri restava nulla. Anche quando il mercato dell’arte lo aveva ormai
accolto e lo proponeva come uno dei protagonisti più quotati dell’Action painting, viveva il contrasto tra
una visione del mondo più equa e libera e le dinamiche economiche e di potere a cui doveva
partecipare. «Quando ero giovane l’arte era qualcosa di solitario: non c’erano né gallerie, né
collezionisti, né critici, né denaro. Malgrado ciò era un’età dell’oro, non c’era niente da perdere, bensì
un obiettivo da raggiungere...» dice nel 1960, confermando il sentimento di estraneità di fronte al
mondo del bello e vuoto e, allo stesso tempo, una coscienza critica che di certo non ce lo annovera tra i
«pittori da salotto». E anche quando accettò la commissione per le opere che avrebbero dovuto
abbellire il ristorante del Four Seasons, il più prestigioso ristorante di New York in cui c’erano già
capolavori di Picasso e Pollock, il tormentato Rothko lo fece con una sola missione: «Spero di rovinare
l’appetito di ogni stronzo che va a mangiarci».
Mark Rothko, Untitled (1953/54), Art Institute of Chicago. Foto © The Art Institute of Chicago / Art Resource, NY / Scala,
Florence.
KEITH HARING
Ricordatevi di questa storia quando andate a votare

Lo avete riconosciuto al primo sguardo, del resto Keith Haring è senza dubbio uno degli artisti più
iconici del mondo, avete visto le sue opere e i suoi inconfondibili pupazzetti stilizzati ovunque, su
quaderni, calamite, t-shirt e grafiche pubblicitarie. Ma la domanda che vi faccio è: cosa di lui non
possiamo vedere più?
Prima una breve introduzione, poi vi dico dove vado a parare. Haring nasce in Pennsylvania nel 1958,
fin da bambino manifesta interesse e talento per il disegno e i fumetti, studia arte, si appassiona alla
vita di Dubuffet, Pollock, Andy Warhol e nel 1979 a New York incontra Jean-Michel Basquiat, fedele
compare di notti passate a dipingere illegalmente sulle pareti della metropolitana, sui treni fermi al
capolinea, sui muri dei sobborghi cittadini. I due, padri fondatori del graffitismo americano, riusciranno
a imporsi nel mercato artistico, ad avere la benedizione dei migliori galleristi, mecenati e personalità
influenti dello showbiz internazionale, e a ricevere commissioni di opere importanti, di grande impatto
sociale e destinate a restare per anni nella memoria collettiva. Quasi tutte.
Siamo a Roma, nel 1992, l’allora sindaco Franco Carraro fa una cosa alla quale io penso spesso tre, di
solito due, sicuramente almeno una volta a settimana. Per non fare brutta figura con Michail Gorbaciov,
l’ex presidente sovietico in visita nella capitale, fa rimuovere un dipinto di Keith Haring dalla parete del
Palazzo delle Esposizioni, perché secondo lui rovinava il decoro urbano.
Keith Haring.
Rovinava.
Il decoro urbano.
Voi direte: «Ma che svista imperdonabile, che errore marchiano, che non si ripeta mai più!»
Ecco, nel 2001 l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli cancella l’altra opera che Keith Haring, ormai
morto da dieci anni, aveva regalato alla città, un dipinto di 6 metri per 2 realizzato sul Lungotevere, sul
ponte di vetro all’altezza della fermata della metropolitana Lepanto. Motivo? Avrebbe turbato i santi
occhi dei pellegrini del Giubileo.
Si dice che un fulmine non possa colpire due volte nello stesso punto: se questo potesse accadere anche
con l’ignoranza adesso avremmo due capolavori in più, e io un pensiero ricorrente in meno.
Keith Haring, murale a Barcellona (1989) © Shutterstock.
Giotto
INCONTRO DI ANNA E GIOACCHINO ALLA PORTA
D’ORO
La rockstar della pittura italiana del Trecento

Mi piace tantissimo saltellare nei secoli e portarvi a scoprire esempi di strabiliante modernità, come
accade nel Trecento, a Padova, grazie a un signore di nome Giotto di Bondone. Forse lo avete sentito
nominare. Egli è un mito imprescindibile se volete conoscere la pittura e l’architettura medievali,
nonché anticipatore del Rinascimento, influenza costante di chiunque si sia misurato con l’iconografia
sacra nei secoli. Insomma, è praticamente il David Bowie del XIV secolo.
Per parlare di Giotto ho scelto uno degli episodi della vita di Maria, affrescati nella Cappella degli
Scrovegni, suo capolavoro padovano, famosissimo nel mondo non solo per la tecnica mirabile ma anche
per lo stile assolutamente innovativo rispetto ai contemporanei. La scena, che occupa il primo registro
della parete sud, ritrae Gioacchino e Anna, genitori della Vergine Maria. Secondo quanto riportato nei
Vangeli apocrifi, Gioacchino e Anna erano stati cacciati dal Tempio perché incapaci di generare prole.
Per la vergogna, lo sterile Gioacchino si era dato alla fuga, rifugiandosi nel deserto presso gli amici
pastori, lasciando Anna nella sofferenza e nello struggimento, fino all’intervento di un angelo che
annunciava l’arrivo di un figlio, anzi di una figlia, per l’appunto Maria, che sarebbe arrivata a
sconvolgere la vita di entrambi, ormai vecchietti. Giotto li dipinge così, con la barba bianca e le rughe
sul volto, nel pieno del ricongiungimento, immortalando l’istante del bacio, a quanto pare il primo bacio
della storia dell’arte. Occhi negli occhi, labbra sulle labbra, le mani di Anna accarezzano dolcemente la
nuca e il volto di Gioacchino, i due coniugi sono assorti nella loro intimità, tanto che nemmeno la
presenza delle amiche sorridenti sullo sfondo riesce a distrarli. Incredibile come Giotto riesca a
dipingere la carnalità e la sacralità allo stesso tempo, come la storia di questo amore finalmente aiutato
dalla divina provvidenza ci appaia fisico, tridimensionale, passionale. Ci sono una delicatezza e insieme
una forza modulate da Giotto in maniera magistrale: il cielo blu piatto e profondo, l’architettura solida e
pesante alle loro spalle, e poi la naturalezza dei volti, delle acconciature e delle vesti, l’intensità dello
sguardo e la dolcezza del gesto. L’opera riporta insieme un momento terreno e trascendente, la
manifestazione di Dio e di Eros, in un equilibrio perfetto che, lasciatemelo dire, rende Giotto, ancora
una volta, il migliore di tutti.
Giotto, Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro , Cappella degli Scrovegni, Padova. Foto © Scrovegni (Arena) Chapel,
Padua, Italy / Bridgeman Images.
COS’È L’ANAMORFOSI?
No, state tranquilli, non vi si è appannata la vista

Guardiamo insieme il dipinto: è il tipico ritratto di interno del XVI secolo di un pittore tedesco, con i
protagonisti in posa circondati dai loro oggetti cari o più caratteristici. Guardatelo bene, ma bene bene,
però! Ok, ora la maggior parte di voi se ne sarà accorta. Parlo di quella strana macchia obliqua, in basso
al centro della composizione, una presenza fantasmatica e astratta di difficile decifrazione. Ecco, quello
è un esempio di anamorfosi. La parola deriva dal greco, significa «forma ricostruita» e raccoglie tutte
quelle deformazioni prospettiche e illusioni ottiche che si sono diffuse come giochi pittorici a cavallo tra
Cinquecento e Seicento. L’anamorfosi è a tutti gli effetti un’aberrazione dell’immagine, in cui i normali
rapporti di altezza e larghezza vengono sovvertiti all’occhio umano, per poi ricomporsi se osservati da
un preciso punto di vista, oppure con l’utilizzo di lenti o di specchi concavi o convessi. A volte queste
immagini incomprensibili fluttuano nello spazio, altre si sdoppiano in riflessi, ma hanno tutte come
comune denominatore l’utilizzo di una tecnica di distorsione che esaspera la prospettiva all’ennesima
potenza, fino a costruire spazi illusori di percezione, come se si potesse creare una nuova dimensione
dello sguardo. Nel Rinascimento si esplorano le possibilità della prospettiva soprattutto per creare
l’apparenza di altri spazi. Spesso la composizione è plasmata come si farebbe con una scenografia
teatrale, con espedienti ottici arditi: il trompe-l’œil per esempio o, in architettura, l’illusione di vaste
profondità rannicchiate in piccole geometrie.
E, a proposito di artisti scienziati, non vi stupirà sapere che studi di anamorfosi sono stati ritrovati negli
appunti di Leonardo da Vinci, poi ripresi nei gabinetti ottici nei secoli successivi, fino a divertire
moltissimi contemporanei, soprattutto autori di arte urbana, graffiti e murales, insomma quei
buontemponi che vi disegnano una voragine nel marciapiede integro facendovi spaventare da pazzi. Ma
torniamo per un momento al dipinto di Holbein. In mezzo agli oggetti che individuiamo senza difficoltà,
tutti elementi che rimandano alla scienza e al sapere, resta illeggibile quel medaglione deformato, e non
a caso. È un teschio, simbolo della morte, a ricordare agli spettatori che non tutto si vede, e non tutto si
conosce, e che sempre e comunque, dipende dai punti di vista.
Hans Holbein il Giovane, Ambasciatori , National Gallery, Londra. Foto © National Gallery, London, UK / Bridgeman Images.
I RITRATTI DEL FAYYUM
Scusa, hai detto ‘foto profilo’?

Amici, qui tiriamo fuori l’artiglieria pesante. Al tempo del mio racconto dei ritratti del Fayyum su
Instagram rimasi sconcertata da quanto nessuno conoscesse nulla sul tema, eppure sono una delle
opere fondamentali della storia dell’arte e in generale una delle testimonianze più preziose nella storia
dell’umanità. Si tratta di una serie composta da circa seicento ritratti funebri, quasi perfettamente
conservati, realizzati su tavole lignee che servivano a ricoprire le mummie egizie di età romana, tutti
ritrovati appunto nella oasi del Fayyum, a 130 km dal Cairo. Praticamente sono la «foto buona» che si
mette sulla lapide del cimitero, solo che questi hanno duemila anni. Si contendono con gli affreschi di
Pompei il trofeo per la migliore opera pittorica dell’antichità, ma, se volete la mia opinione, vincono a
mani basse.
Sono realizzati a tempera o a encausto, una tecnica con la quale i pigmenti, sciolti nella cera calda,
venivano fissati sulla superficie attraverso l’utilizzo di attrezzi roventi chiamati cauteri o cestri. Quello
che mi fa impazzire dei ritratti del Fayyum è il realismo incredibile, degno di una fotografia:
l’espressività degli occhi, le acconciature dettagliate, la tridimensionalità dei volti, quelle sopracciglia
perfettamente delineate! E in più trovo incredibile che si siano conservati così bene da raccontarci,
senza timore di incertezza, come erano le fisionomie dei cittadini dell’Impero dell’epoca, in particolare
dei coloni greci ed egizi che popolavano la regione in cui sono state ritrovate le tavole. Se possiamo
immaginare i volti reali di uomini e donne di oltre venti secoli fa è grazie a queste immagini, e se ci
penso mi vengono i brividi. Proviamo a fare un identikit: sono persone di al massimo 35 anni, di una
classe sociale abbastanza elevata da potersi permettere addirittura il ritratto sul sarcofago (me lo
immagino come la targa personalizzata sulla Ferrari dei rapper americani), i maschi sono tutti simili,
con volto triangolare, naso pronunciato e zigomi sporgenti, e le femmine hanno lineamenti più dolci,
occhi grandi e spesso monili preziosi ad abbellire collo e orecchie. Provate a cercare le immagini online
o sui libri d’arte, passerete ore a guardarli come si fa con le foto d’epoca dei vostri nonni e, se siete
pazzi come me, vi verrà voglia di far produrre un vostro ritratto a encausto da lasciare nel testamento,
con precise disposizioni di metterlo, se non proprio sulla vostra versione mummia egizia, almeno come
foto profilo su Facebook!
Ritratto funerario di ragazza, Cleveland Museum of Art, Cleveland. Foto in licenza Creative Commons 1.0.
Katsushika Hokusai
LA GRANDE ONDA DI KANAGAWA
Il magnete sui frigoriferi di tutto il mondo

Alzi la mano chi ha visto quest’opera almeno una volta nella vita.
Ora alzi la mano chi, senza leggere o googlare, si ricorda il suo titolo corretto e nome e cognome
dell’autore.
Vi conosco, mascherine! Lo so, è uno dei capolavori più virali della storia dell’arte, ma nessuno conosce
nulla di La grande onda di Kanagawa , e quindi eccomi qui a colmare lacune e dare un senso alla mia
esistenza.
Realizzata nel 1830 dall’artista Katsushika Hokusai, fa parte della serie di stampe Trentasei vedute del
monte Fuji , ed è realizzata con la tecnica della xilografia in stile ukiyo-e, che prevedeva l’utilizzo di
matrici di legno, secondo la moda del periodo Edo, tra il XVII e il XX secolo. Hokusai l’ha prodotta in
tarda età, a settant’anni, in un momento di profonda crisi esistenziale, dopo la morte della moglie, a cui
si aggiungevano una malattia e molte difficoltà economiche. La scelta del monte Fuji gli permetteva di
sintetizzare in un unico soggetto il desiderio di trascendenza e sacralità con la forza della natura viva,
tangibile e mutevole. Se è vero che il soggetto è giapponesissimo, è anche vero che si ritrovano
nell’opera moltissime insospettabili influenze occidentali: l’utilizzo della prospettiva, ad esempio, o
anche del blu di Prussia, un pigmento sintetico importato dai Paesi Bassi nel 1820, molto più resistente
al tempo e allo sbiadimento e assolutamente più efficace in termini di profondità rispetto alla tradizione,
tanto che per Hokusai diventa praticamente l’unico colore a definire volumi e intensità dell’acqua, a
contrasto con la schiuma bianca e con il marrone rosato delle barche dei pescatori. Come quali barche?
Le avete viste adesso per la prima volta, vero? Lo sapevo!
Eppure non sono un elemento da sottovalutare, anzi rappresentano la lotta dell’uomo contro la natura,
la resistenza del popolo giapponese alle avversità e, in modo più autobiografico, il tentativo di
sopravvivenza di Hokusai ai debiti e alla sfiga. Al centro della composizione, triangolare, immobile,
maestoso nonostante le dimensioni, il monte Fuji, la pietra simbolica su cui si basa tutta l’identità
nazionale.
Una curiosità: possiamo, grazie al titolo, geolocalizzare perfettamente l’onda originale a circa 30 km a
sud di Tokyo e 90 dal monte Fuji. Io ve lo dico, magari vi viene voglia di fare turismo artistico surfistico
alternativo, in attesa dell’onda perfetta!
Katsushika Hokusai, La grande onda di Kanagawa , Metropolitan Museum of Art, New York. Foto © Metropolitan Museum of
Art, New York.
YOKO ONO
Fan dei Beatles: ricredetevi!

Di Yoko Ono tutti ricordano solo una cosa: che è stata la ragione dello scioglimento dei Beatles. Moglie
di John Lennon, il loro fu un amore talmente intenso, simbiotico e totalizzante, che quando si crearono
le prime fratture all’interno del gruppo dei Fab Four fu facile per amici, giornalisti e opinione pubblica
dare la colpa a lei, responsabile di aver vampirizzato il talento del prezioso baronetto capellone. Quello
che non si sa di Yoko è cosa la rende grandiosa e, credetemi, è tantissimo. Artista a tutto tondo, capace
di spaziare dalla musica al cantautorato, alle arti figurative e all’installazione, Yoko nasce benestante e
si ritrova a patire la fame durante la seconda guerra mondiale, in una Tokyo bombardata e con il padre
deportato in un campo di prigionia in Cina. Due sono le costanti della sua vita, fin da giovane: il senso di
frustrazione e il suo talento artistico. Si trasferisce con la famiglia a New York, entra nel gruppo Fluxus.
L’avanguardia concettuale e la performance sono il suo mondo. Nel 1966 conosce Lennon a una mostra,
nessuno dei due sa chi sia l’altro. Lui si dice perplesso e piuttosto deluso dalle opere, finché non vede
una scala piazzata al centro di una sala: il pubblico è invitato a salire fino all’ultimo piolo per leggere le
scritte che ci sono sul soffitto. In un’intervista dice: «In piccole lettere c’era scritto ‘Sì’, era positivo. Mi
sentii sollevato. È un grande sollievo quando sali la scala […] e non vedi ‘no’ o ‘vai a quel paese’ o
qualcosa del genere, ma ‘sì’». L’unione amorosa diventa subito sodalizio artistico e non solo, e negli anni
successivi diventano inseparabili, tra proteste a letto contro la guerra in Vietnam e dischi scritti a
quattro mani.
Quelle di Yoko sono opere molto interattive, che dividono pubblico e critica, c’è chi parla di lei come di
una innovatrice visionaria e coraggiosa e chi la definisce una ricca annoiata che sarebbe passata
inosservata senza la fama di John. Certo, sarebbe una cosa da fan dei Rolling Stones in cattiva fede
negare la grande coerenza della sua produzione, il suo impegno pacifista, femminista, la sua carica
ribelle e poetica insieme, la dedizione con cui si è data all’arte mettendosi spesso a disposizione e al
centro delle sue performance di body art, spingendo sempre oltre il limite la sua capacità espressiva e il
senso di scoperta e curiosità di chi guarda. Ha rotto gli schemi e si è assunta la responsabilità della sua
potenza, non è stata amata dal pubblico e avrebbe meritato molto di più. Se posso dare un consiglio,
parafrasando qualcuno a lei molto caro, abbattete ogni pregiudizio e give Yoko a chance .
Yoko Ono, foto dell’artista © Keystone / Zuma / Bridgeman Images.
PIET MONDRIAN
Oltre i quadratini colorati c’è di più

C’è quel momento alle scuole medie in cui tutti ci sentiamo degli artisti pazzeschissimi con il sacro
fuoco della pittura nelle mani e una strada lastricata d’oro e di galleristi genuflessi davanti a noi. Di
solito quel momento coincide con il punto del programma ministeriale di educazione artistica in cui si
parla di Piet Mondrian. Ed eccoci, a dodici anni, brufolosi e concentrati, con righello e pennarelli
colorati a ripercorrere le orme del grande pittore olandese, fondatore, insieme all’amico Theo van
Doesburg, del movimento neoplasticista De Stijl. Focalizzatevi sul concetto di ripercorrere: Mondrian è
il re del «questo potevo farlo anche io», secondo forse solo a Lucio Fontana, sì, quello dei tagli. I due
sono infatti accomunati dalla semplicità del risultato creativo a fronte però di una ricerca inesauribile e
una sperimentazione davvero infinita. Entrambi lavorano sullo spazio, ma Mondrian si dedica
soprattutto alla riduzione, alla sintesi, alla definizione della forma essenziale, all’astrazione, nel vero
senso della parola, della realtà naturalistica. È bellissimo studiare l’evoluzione del suo stile: Mondrian
inizia come un pittore di paesaggio (mulini, campi, fiumi) con uno stile impressionista in cui già si
scorge però la sua predilezione per il rosso, il giallo, il blu. Tra il 1905 e il 1908 la mente lavora
sull’occhio, gli alberi si fanno sempre più stilizzati, i ponti sempre più grafici, e ancora di più dal 1912,
quando trasferitosi a Parigi conosce i cubisti Picasso e Braque, e scopre una restituzione della realtà in
cui i piani e i punti di vista coesistono, si sovrappongono. Parte dalla Natura per arrivare alla Verità,
proprio così, con le lettere maiuscole, operando non solo un percorso spaziale e stilistico, ma anche
spirituale e filosofico. Ed ecco allora che le linee orizzontali e verticali si intersecano a raccontare i ritmi
naturali, le emozioni umane, i colori riempiono spazi asimmetrici in un reticolato perfetto e dinamico,
per niente asettico, anzi vitale, mi verrebbe da dire quasi simpatico! Fervente fan della scuola teosofica,
Mondrian incarna e persegue l’idea di un’arte capace di collegare l’uomo all’universo, abbandonando
l’irrazionale, il superfluo, il contingente, per sposare invece il rigore, la pulizia, le linee rette, le forme
plastiche, i colori primari in dialogo/contrasto con i non-colori.
… vi sembravano quattro quadratini colorati bene, senza uscire dai bordi, eh?
Piet Mondrian, Composizione a losanga con giallo, nero, blu, rosso e grigio , Art Institute of Chicago. Foto © The Art Institute of
Chicago.
ALBERTO GIACOMETTI
Come si ritrae un corpo senza corpo?

Iniziamo col dire una cosa: sono a dieta, devo perdere almeno cinque chili.
Perdonatemi dunque se il pensiero spontaneo che ho di fronte a una delle sculture esili e filiformi di
Alberto Giacometti è «maledetta, guarda che punto vita!» Ecco, ora posso tornare a essere la studiosa
tutta spirito e spiritosaggine che conoscete e smetto di essere invidiosa di un ammasso di bronzo. È pur
vero che la prima cosa che salta agli occhi e che si ricorda di Giacometti è proprio questa visione del
corpo, così slanciato, etereo, fragile a tratti, sempre profondamente umano. Non è un caso che ve lo
racconti subito dopo Mondrian, poiché, pur con modalità diverse, anche qui c’è una ricerca mistica di
ritorno a ciò che è essenziale, alla verità pura, eterna. I soggetti di Giacometti sono spesso ricorrenti, il
più delle volte sono ritratti di famiglia (il fratello Diego, la moglie Annette, l’amante Caroline) (che
modernità ritrarre insieme la moglie e l’amante!) (certo che a ’sti artisti si perdona qualunque cosa),
eppure non riconosciamo mai un volto o uno sguardo, sono presenze quasi divine, ieratiche, che
esistono oltre l’apparenza contingente. Nato come post-impressionista, arruolatosi nelle file del
surrealismo, a quanto pare Giacometti tiene come punto fermo della sua ricerca l’impossibilità di
rappresentare la realtà come la si percepisce. L’uomo non può che essere isolato nello spazio, in un
tempo sospeso, e il suo corpo deve ridursi all’osso, quasi scomparire, essere senza contorni, mostrarsi
così, frantumato e sfilacciato. Eppure i suoi corpi resistono, sfidano la fisica e, sebbene così sottili,
svettano verso il cielo (le sue sculture arrivano anche a tre metri) avvolte da un alone drammatico e
tragico, ma non per questo respingente. Anzi, sono ipnotiche, l’assenza di ogni connotazione spinge a
uno sguardo meno superficiale, viene voglia di conoscere quella donna, capire il perché delle spalle
curve, condividere il peso esistenziale che a metà del Novecento, con una guerra appena finita,
Giacometti doveva sentire intensamente. Giacometti dipinge, disegna e scolpisce per capire, per andare
oltre ciò che l’occhio vede al primo colpo e, nonostante con un certo dichiarato pessimismo creda sia
impossibile raggiungere l’orizzonte inaccessibile dell’esistenza, pensa anche che sarebbe folle
arrendersi senza provare.
Praticamente come me con la dieta.
Alberto Giacometti, Donna in piedi , Museum of Modern Art, New York. Foto © The Museum of Modern Art, New York / Scala,
Florence.
Sandro Botticelli
LA NASCITA DI VENERE
Un prontuario da museo, per fare bella figura

Ho controllato: su Instagram cercando l’hashtag #Botticelli escono oltre 189mila risultati. Foto di
dettagli di opere, di cataloghi d’arte, riproduzioni in cartolina, poster, magneti da frigo e chi più ne ha
più ne metta. Ma ho il terrore di leggere cosa ci sia scritto nelle didascalie, quindi vediamo di limitare i
danni da qui in poi.
Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, AKA Sandro Botticelli ha regalato all’umanità alcune delle
opere più iconiche del Rinascimento italiano, tanto da diventarne quasi il testimonial perfetto.
Inseritissimo nel giro di quelli che contano nel Quattrocento, cioè la famiglia de’ Medici (ricchi,
filantropi, potenti, papi e festaioli), dopo aver dipinto madonne&bambini e ritratti di nobili, scopre la
filosofia neoplatonica e un catalogo iconografico infinitamente più divertente, fatto di allegorie delle
stagioni, figure mitologiche, temi pagani e insomma dammi tre parole: Felicità, Bellezza e Amore .
Prendiamo ad esempio La Nascita di Venere . La dea è ritratta nel momento immediatamente successivo
a quello della nascita, cioè quando arriva a Cipro, sospinta dalle onde del mare che l’ha generata e
aiutata dal vento fecondatore Zefiro (abbracciato a un’altra figura perché è un vento d’amore) e accolta
dalle Ore, di cui noi vediamo la Primavera, che le porge un mantello per coprire la sua nudità. Un paio
di info utili da rivendere come farina del nostro sacco con gli amici:

il volto della Venere è ispirato a Simonetta Vespucci, la più figa del suo tempo, la nobildonna di cui
tutti erano innamorati e musa di Botticelli, il quale per dimostrarle eterna devozione, lasciò scritto
di essere sepolto ai suoi piedi nella chiesa di Ognissanti a Firenze.
Ci sono pareri contrastanti su cosa simboleggi Venere: è una nuova visione filosofica della vita, in
cui l’Umanesimo strappa lo scettro del potere all’oscuro Medioevo? È l’anima che rinasce e si
purifica in un bagno battesimale che richiama quello di Cristo? È la collezione primavera/estate di
Gucci?
Botticelli conosceva i filtri e la color correction prima delle fashion influencer: il dipinto è
realizzato non su tavola, ma su teli di lino su cui aveva approntato una imprimitura a base di gesso
tinto con un po’ blu, in modo da dare a tutto un’atmosfera azzurrina perfetta, che tra l’altro con
l’oro e l’arancio è chiaramente in palette armocromatica.
Sandro Botticelli, La nascita di Venere , Uffizi, Firenze. Foto © Galleria degli Uffizi, Florence, Tuscany, Italy / Bridgeman
Images.
Frank Lloyd
WRIGHT
Bello il Guggenheim, ma si dovrà pure far benzina!

So che già dalla foto vi ho un po’ disorientati. Avrei potuto scegliere altri progetti per raccontare il
genio di Frank Lloyd Wright, due su tutti Casa Kaufmann, altrimenti nota come Casa sulla cascata, o il
Guggenheim Museum di New York, opere tanto riconoscibili da non necessitare di spiegazione, biglietti
da visita perfetti per raccontare il patrimonio inestimabile che ci ha lasciato uno dei più famosi
architetti americani del XX secolo. Invece andiamo in Minnesota, in un punto qualunque della provincia
statunitense, precisamente a Cloquet, cittadina di 11mila anime, e mentre facciamo benzina vi racconto.
Negli anni Trenta, Wright si era fissato con questo pazzo proposito di costruire una città ideale,
Broadacre City: sprovvista di un centro vero e proprio, le sue unità abitative tutte uguali si sarebbero
estese per un acro almeno, cioè mezzo ettaro di terra. I collegamenti tra le case sarebbero stati grandi
strade in grado di accogliere molte automobili, e gli abitanti, come è prevedibile, avrebbero spesso
avuto bisogno di fare rifornimento, di incontrare i «vicini» e magari di mangiare qualcosa di buono. Le
stazioni di servizio sarebbero state dunque lo snodo della vita cittadina, dei punti nevralgici di socialità
e di produzione economica. Come mai non si è fatto nulla di un disegno visionario tanto ambizioso?
Storie di soldi, ahinoi: poco prima dell’apertura dei cantieri, infatti, conti alla mano, è venuto fuori che
l’architetto avrebbe dovuto pagare una quota annuale di 1.700 dollari – più di 25mila dollari di oggi –
per ogni singola stazione di servizio. Non proprio due lire, ma se pensiamo a quanto avrebbe reso oggi
in termini di turismo avere un’intera cittadina firmata da Wright forse il gioco sarebbe valso la candela.
L’unica cosa che del progetto sopravvive è la Lindholm Service Station: tetto in rame a sbalzo, con una
punta orientata verso il fiume St. Louis, per collegare simbolicamente il trasporto su acqua a quello su
strada: pompe aeree per riempire i serbatoi dipinte con i colori patriottici rosso, bianco e blu (poi troppo
costose da realizzare e quindi sostituite da pompe a terra); una torretta di osservazione per godersi il
traffico cittadino; i lucernari che illuminano gli spazi ben equilibrati dominati dall’uso del cemento e del
gradino come elemento ricorrente. Il distributore di benzina è ancora visitabile e in funzione: se
capitate da quelle parti, mi raccomando, una visita al capolavoro e una controllata alle gomme.
Frank Lloyd Wright, R. W. Lindholm Service Station, Cloquet, Minnesota. Foto © Bridgeman Images.
GIUSEPPE CIVITELLI
La fama non fa l’artista, le opere lo fanno

Esistono gli artisti e poi esiste il mercato.


Questo è un presupposto che vale sempre la pena di ricordare, per qualunque forma di espressione, e in
particolare per alcune personalità che sono rimaste per anni lontane dai riflettori, dai gossip e dai
trend. Conoscere artisti e opere indipendentemente dal loro coefficiente di valutazione commerciale o
da quanto fossero richiesti per mostre e cataloghi è fondamentale per esercitare un senso critico che
vada oltre le mode e una sensibilità capace di cogliere l’importanza del contributo in sé, la profondità
del segno lasciato da un artista e i motivi per cui di alcuni si parla e di altri no.
Giuseppe Civitelli nasce in un piccolo paesino della provincia di Cosenza, Aiello Calabro, si interessa da
subito all’arte e all’artigianato, restaura mobili, case, dipinge e intaglia, ma la vita (e la guerra) lo
portano verso un mestiere vagamente meno glamour. Dopo aver girato l’Europa da Berna a Barcellona,
da Monaco a Belgrado, si stabilisce a Roma, dove fino alla pensione sarà dirigente di una scuola
elementare statale nel quartiere di Primavalle. Ecco, non proprio un posto da copertina. Il destino vuole
che all’interno della scuola ci sia un laboratorio di ceramica, dove Civitelli può continuare a produrre e
ad affinare la tecnica di lavorazione dell’argilla e la decorazione. Finalmente, superati i quarant’anni,
conosce lo scultore Marino Mazzacurati, si fa largo nell’ambiente artistico romano e inizia a esporre in
collettive e personali, vende in Italia e all’estero, si misura con la grafica e la pittura. Dal 1973 si ritira
in Umbria, continua a produrre ma non espone più, e nel 1990 muore. Nel 2009, però, gli eredi ricevono
la chiamata di Lisa Hockemeyer, la figlia di un collezionista tedesco che aveva acquistato molte opere di
Civitelli: sta organizzando una mostra prestigiosa, curata da Gillo Dorfles, intitolata The Hockemeyer
Collection. 20th Century Italian Ceramic art con nomi del calibro di Lucio Fontana, Gio Ponti, Leoncillo
e Fausto Melotti. E in mezzo a questi grandissimi nomi, non sfigura affatto, anzi, si riconosce lo
spessore della sua opera: il suo tratto è modernissimo, giocoso come Enrico Baj e incisivo come Emilio
Vedova, geometrico come Capogrossi e senza tempo come quello delle ceramiche antiche, con una
tridimensionalità che esplode nei pochi colori reiterati, negli schemi lineari, nell’astrattismo grafico, in
uno stile mobile e mutevole e allo stesso tempo coerente e solido. Esistono migliaia di Civitelli nella
storia dell’arte, di alcuni resta la storia, di altri resta l’arte.
Giuseppe Civitelli, ceramica. Per gentile concessione degli eredi.
ANISH KAPOOR
Il nero è mio e ci gioco solo io!

Certo che gli artisti sono strani, eh.


Bei tempi quelli in cui si poteva rivendicare la paternità di un’opera, o che so, di un movimento. Ma a
quanto pare non basta. Almeno non ad Anish Kapoor. L’artista inglese, indiano d’origine, ha alzato
l’asticella e ha addirittura comprato i diritti di un colore. Come se non bastasse poi non si tratta di un
colore qualsiasi, ma di un super colore, il nero più nero del mondo, il nero assoluto, il nerissimo. Si
chiama Vantablack, e la radice del nome è «Vertically Aligned NanoTube Arrays» (disposizioni di
nanotubi allineati verticalmente), non l’ha inventato Kapoor ma la società britannica Surrey
NanoSystems e nasce in origine per scopi militari. Serviva infatti per dipingere gli aeroplani «invisibili»
ai radar. Dipingere un oggetto con il Vantablack lo riduce a una sagoma, è come se non esistesse più, se
perdesse tridimensionalità. Se immaginiamo di dipingere una stanza intera di questo nerone, potremmo
vivere l’esperienza di camminare nel nulla senza riferimenti, in un buio sospeso e disorientante, senza
coordinate spaziotemporali. I diritti del Vantablack sono stati acquistati da Kapoor nel 2016, tra le
critiche del mondo artistico: a quanto pare i colleghi rivendicavano il diritto a poter usare un colore
tanto speciale, che dovrebbe essere patrimonio dell’umanità. O forse rosicavano e basta, perché erano
arrivati tardi a questa geniale intuizione del monopolio sul nero.
C’è anche chi lo ha ripagato con la stessa moneta: Stuart Semple, un artista britannico che di solito
lavora su tele di grandissime dimensioni, ha inventato un altro super colore, il rosa più rosa del mondo,
e ha stabilito che tutti potessero usarlo al mondo, ad eccezione di Anish Kapoor… che si diverta col suo
nero, piuttosto!
Recentemente i due hanno avuto un simpatico scambio su Instagram: Kapoor ha mostrato un dito medio
sapientemente inzuppato nel rosa più rosa, Semple ha risposto con le due dita in segno di vittoria,
ovviamente ricoperte dal nero più nero.
Non so come spiegare a questi signori che prima di loro c’è stato Yves Klein con l’International Blue
Klein (IKB), un preciso pigmento sviluppato nel 1957 e brevettato nel 1960, che lo ha reso famoso in
tutto il mondo, ma non importa, mi godo lo spettacolo di questi tizi che si scannano, in attesa che arrivi
un terzo litigante a dirgliene di tutti i colori.
Anish Kapoor, foto dell’artista © Chris Felver / Bridgeman Images.
REMBRANDT VAN RIJN
Quando l’occhio del pittore fa un po’ quello che vuole

No, non è la copertina del nuovo disco di Achille Lauro.


È uno delle centinaia di ritratti che ci ha lasciato il buon Rembrandt Harmenszoon van Rijn, pittore e
incisore olandese, considerato il più importante artista nella storia dei Paesi Bassi, attivo nel Seicento, il
cosiddetto secolo d’oro olandese, cioè quando commercio, arti e scienza di quelle parti erano il massimo
della vita. La produzione di Rembrandt è come una specie di censimento per immagini delle personalità
più rilevanti del suo tempo, mischiata a suoi selfie e a scene religiose, e soprattutto è un sacco di roba:
siamo sui 600 quadri, oltre 400 incisioni e 2000 disegni a soggetto variabile. C’è un filo rosso che li
collega tutti, ed è la capacità di creare uno stile super dinamico, mobile, in cui per una volta – cosa rara
soprattutto nella ritrattistica ufficiale – le figure non sono statiche, non sono prive di vita, e soprattutto
sono vere. I difetti, le rughe, alcune espressioni del volto e dello sguardo che spesso rivelano
smarrimento, fragilità, erotismo, ecco, tutto questo è da considerarsi l’evoluzione di uno stile personale
che parte dalla conoscenza ineccepibile dell’iconografia classica. Quando si guarda un’opera di
Rembrandt ci si chiede davvero cosa renda un dipinto un capolavoro: sarà la straordinaria sensibilità
dell’artista? Sarà la mano talentuosa? Sarà la disciplina che regala una tecnica sopraffina?
Nientepopodimeno che l’università di Harvard risponde ai nostri interrogativi: è lo strabismo.
Ebbene sì, Rembrandt era strabico, e nemmeno di Venere. La neurobiologa Margaret Livingstone ha
analizzato numerosi dipinti del maestro del Seicento e ha riscontrato in tutti le stesse caratteristiche,
giungendo alla conclusione che uno degli occhi di Rembrandt fosse disallineato rispetto all’altro. Questo
lo portava a fissare lo sguardo rendendo meglio nella bidimensionalità della tela le scene tridimensionali
che dipingeva. Schiacciava naturalmente la profondità, appiattiva la visione, praticamente faceva da
solo quello che chiedono tutti gli insegnanti di disegno quando invitano gli allievi a chiudere un occhio
per vedere meglio. Si vede in 23 autoritratti su 24: l’occhio destro puntava a destra, il sinistro puntava
dritto. Insieme facevano magie.
Rembrandt, Ritratto d’uomo in costume di nobile polacco , National Gallery of Art, Washington. Per gentile concessione della
National Gallery of Art, Washington.
ADOLF HITLER
Alzi la mano chi lo vorrebbe in salotto

«In fondo ha fatto anche cose buone.»


Quando sento questa frase, riprovevole sotto ogni aspetto, la mia mente selettiva pensa sempre alla
produzione artistica di quel maledetto di Adolf Hitler. Ebbene sì, anche i dittatori guerrafondai possono
avere un animo artistico, ed è esattamente di questo che parleremo, senza addentrarci in analisi storico-
politiche delle altre cose su cui ha messo la firma. Adolf Hitler fu anche pittore, produsse centinaia di
quadri tra il 1908 e il 1913, mentre viveva a Vienna, e addirittura nel Mein Kampf raccontò della sua
passione per la pittura, amore evidentemente non corrisposto, visto che all’esame di ammissione
all’Accademia di Belle Arti fu impietosamente bocciato. Due volte. Frequentava lo stesso bar e gli stessi
circoli viennesi in cui si riunivano gli artisti, cercando di entrare nelle loro grazie o di vendere almeno
qualcuna delle sue cartoline di paesaggi ad acquerello. Dipinse anche quadri, oltre alle cartoline,
vendeva le sue opere ai corniciai, che aggiungevano spesso un’illustrazione di prova dentro le cornici, e
ai tappezzieri che realizzavano divani con un dipinto incastonato nello schienale imbottito. Anche
quando partì per la prima guerra mondiale, appena venticinquenne, portò con sé al fronte gli strumenti
del mestiere, immortalando case contadine, scene di guerra, cameratismo tra soldati.
Parliamoci chiaro, non ci sono capolavori nella sua produzione, in più la storia, la critica e il mondo
artistico si sono sempre posizionati piuttosto a sfavore di una sua riabilitazione: moltissima parte dei
suoi lavori è stata sequestrata dall’esercito americano alla fine della seconda guerra mondiale, e
attualmente è tutto ancora nelle mani del governo statunitense, che si rifiuta categoricamente di
dedicare mostre o destinare a Hitler la parete di un museo. Certo, nostalgici del Terzo Reich che
custodiscono gelosamente le sue opere ce ne sono in giro per il mondo, ma anche con i collezionisti ha
avuto fortune alterne. Se è vero infatti che una sua tela nel 2012 è stata battuta per 42mila euro, è
anche vero che nel 2019 la casa d’aste Weidler di Norimberga non è riuscita a venderne neanche una.
Ora, al di là del cattivo gusto di scegliere come sede dell’evento proprio la città in cui si tenne il
processo per i crimini commessi dal nazismo, vi faccio una domanda: quanto amore per i paesaggi
viennesi, inconsapevolezza della storia o black humor servirebbe per mettersi un originale Adolf Hitler
in salotto?
Adolf Hitler, Fattoria a Fournes , collezione privata, Austria. Foto © Private Collection, Peter Newark Pictures / Bridgeman
Images.
JACKSON POLLOCK
No, questo non lo sai fare anche tu

Da un artista che nessuno vorrebbe in casa a uno che, ne sono certa, vorremmo tutti, anche quelli che
non capiscono nulla di arte, quelli che non distinguerebbero la Gioconda con i baffi da quella senza. Sto
parlando di Jackson Pollock, il massimo esponente dell’espressionismo astratto americano, il nome che
ci viene in mente quando si tratta di action painting . Nasce nel 1912 a Cody, nel Wyoming, figlio di
agricoltori, viaggia fin da ragazzo tra l’Arizona e la California, si interessa di arte, studia alla Manual
Arts High School di Los Angeles e prosegue a New York, dove incontra Lee Krasner, famosa pittrice e
sua futura moglie. Insieme a lei e grazie all’aiuto economico di Peggy Guggenheim, ha spazio e colori a
smalto a sufficienza per perfezionare una tecnica unica, inedita. Pollock stende la tela a terra e lascia
colare il colore dall’alto, senza che il pennello tocchi la superficie del quadro, modulando l’intensità e lo
spessore della linea con un movimento improvvisato ma non casuale, caotico ma non privo di senso. Il
jazz in pittura, come è stato spesso definito. Via il cavalletto dunque, ispirato dalla sand painting degli
indiani navajo che tracciavano immagini rituali sul terreno con la sabbia, concepisce un’arte che vive
nel gesto, nell’esplosione dell’atto creativo, la pittura come stato dell’essere, come libera associazione
inconscia di linguaggi, di colori, senza freni inibitori. La sua pittura non racconta la realtà, ma l’unica
reazione possibile a essa, costringe a osservare i dettagli e non capire nulla lo stesso, a non arrivare mai
al punto, tra filamenti, colature, sbrodolamenti, sovrapposizioni e coperture.
Nonostante le opere di Jackson Pollock sembrino create in modo apparentemente casuale, il matematico
e artista Richard Taylor negli anni Novanta ha rintracciato nel reticolato dei suoi dipinti la geometria
dei frattali, cioè di forme geometriche, ripetute, schemi matematicamente perfetti, come i fiocchi di
neve in pratica. Ed è come se il suo cervello lavorasse inconsciamente applicando segni e gesti ripetuti,
come se le trame intricate di cui non sappiamo indicare l’inizio e la fine, il prima e il dopo,
improvvisamente acquistassero una direzione chiara, netta. Pollock è nel quadro, materialmente, ci
cammina dentro, ti ci trascina, si infila nell’ingorgo di colori, e forse solo lì trova se stesso e la pace.
Dice: «L’artista moderno, mi pare, lavora per esprimere un mondo interiore; in altri termini: esprime il
movimento, l’energia e altre forze interiori». E chi meglio di lui?
Jackson Pollock, Autumn Rhythm (Number 30) , Metropolitan Museum of Art, New York. Foto © The Metropolitan Museum of
Art / Art Resource / Scala, Florence.
MAURIZIO CATTELAN
Il genio italiano, non accetto discussioni

Maurizio Cattelan, io ti amo.


Lo dico, lo dichiaro, lo metto nero su bianco, lo firmo col sangue: io, Maurizio, ti amo e ti difenderò dai
detrattori e dagli haters senza senso dell’umorismo finché campo. L’ultimo genio italiano, un artista di
una libertà e di un coraggio, di una leggerezza, ironia e profondità che per me restano ineguagliati nel
panorama nazionale e non solo. Partiamo dall’inizio, vi racconto le mie sue opere preferite.
È il 1991, espone per la prima volta alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna con un’opera
intitolata Stadium , un calcio balilla di 21 metri in cui la sua squadra di operai senegalesi che
lavoravano in Veneto si batteva contro i bianchi delle riserve del Cesena. Dai, lo amo.
Nel 1993, invitato a partecipare alla Biennale di Venezia, affitta il suo spazio a un’agenzia di pubblicità e
intitola l’opera Lavorare è un brutto mestiere . Tutti a interrogarsi sulla presunta riflessione dell’artista
sulla mercificazione dell’opera, sul ruolo del commercio, sullo strapotere del marketing e io lì, che lo
amo.
Nel 1994 convince il suo gallerista parigino Emmanuel Perrotin a travestirsi da coniglio rosa/pene
gigante e a presentarsi così a tutti per un mese. Adorabile.
Nel 1997 torna alla Biennale: durante il sopralluogo al padiglione che avrebbe dovuto ospitare le sue
opere trova uno stato di degrado, sporcizia e cacche di piccione ovunque tanto che decide di lasciare
tutto com’è, aggiungere solo duecento uccelli imbalsamati in alto e il gioco è fatto. Applaudo fortissimo.
Nel 1999 con il curatore Jens Hoffman organizza una finta mostra internazionale, La Sesta Biennale dei
Caraibi , con tanto di catalogo e lista di artisti famosi, peccato che l’evento non esista: non ci sono opere
e al massimo gli artisti possono andare in vacanza gratis per due settimane. Immaginate la faccia dei
critici che non aspettano altro che una nuova Biennale. Rido ad alta voce.
Nel 2004 per la mostra State of Play alla Serpentine Gallery di Londra, fa affiggere ovunque manifesti
neri con un testo bianco in lingua araba. L’effetto immediato è quello di una minaccia terroristica, in
realtà i poster riportano uno scambio epistolare tra innamorati, pericoloso solo per gli ignoranti e gli
xenofobi. Lo venero.
Altro che minuto, potrei andare avanti per ore, raccontando delle sue mille collaborazioni, della recente
banana attaccata con lo scotch, del Papa trafitto dal meteorite, del manichino di Hitler, e se volete farlo
sono a disposizione, perché io lo adoro, ecco, io lo amo, l’ho già detto? Lo ripeto, Maurizio Cattelan, io ti
amo.
Maurizio Cattelan, L.O.V.E. , Piazza Affari, Milano. Foto © Greta Gabaglio / Shutterstock.
Vasilij Vasil’evič
KANDINSKIJ
La domanda ‘cosa rappresenta?’ non è quella giusta

Mentre leggete questo minuto d’arte vi chiedo di ascoltare il Lohengrin di Richard Wagner, poi vi spiego
perché.
Vasilij Vasil’evič Kandinskij, o come lo chiamavan tutti Wassily Kandinsky, è il pittore russo passato alla
storia come il primo in assoluto ad aver dipinto quadri completamente astratti. Qualche cenno
biografico: Kandinskij studia legge e musica, da giovane girovaga un po’ tra Mosca e Monaco di
Baviera, conosce la sua futura moglie e si trasferisce a Murnau, dove nascono i suoi famosi paesaggi
bavaresi: intorno al 1908 il suo stile è assimilabile all’espressionismo francese ma già nel 1910 si
concentra sempre più sull’uso esclusivo di forme (per lo più geometriche) e colori. Il mondo cambia in
quegli anni, e Kandinskij sa che l’arte è figlia del suo tempo e che la rivoluzione sta arrivando: per lui
questo significa allontanarsi dal naturalismo, niente più montagne e case, ma triangoli e rettangoli. Poi
prende i colori e li mette nelle forme geometriche, costruendo la teoria della pittura astratta, rendendo
spirituale la composizione artistica. Le forme e i colori sono stati d’animo: il blu per esempio è la
profondità, richiama l’infinito, la purezza, il soprannaturale, la quiete o la tristezza, ed è il colore del
silenzio. Il rosso caldo al contrario è la forza, l’energia, la determinazione, ricorda il suono delle fanfare
con la tuba, assordante, incalzante. Tutto ha un significato, anche se non somiglia a nulla di realmente
esistente: con Kandinskij il gioco «cosa rappresenta?» davanti a un’opera astratta non si può e non si
deve fare, davvero, gli fate un torto. Piuttosto leggete il suo Lo spirituale nell’arte , la bibbia grazie alla
quale riuscirete a decifrare intenzioni e codici di tutta la sua produzione. Il presupposto comunque è
sempre uno, ed è che il percorso pittorico è lo stesso dell’anima: è necessario abbandonare
l’attaccamento al reale, bisogna raggiungere l’essenza delle cose, rispondendo a una necessità interiore
e non esteriore. Per questo le sue opere non hanno quasi mai titolo, non raffigurano niente, ma
interpretano, raccontano, restituiscono una sensazione emotiva, uno stato dello spirito. La pittura
rappresenta se stessa, nient’altro, ma risponde alle medesime esigenze di espressione di tutti gli altri
artisti del passato. Solo, cambia la strada per arrivare al traguardo: per Kandinskij non è importante
raccontare ciò che vede con gli occhi, e dunque l’aspetto percettivo del reale (o dell’arte), ma solo
quello emotivo.
Ora tornate al Lohengrin di Wagner: immaginate Kandinskij che al Bolshoi ascolta l’opera e poi dice:
«Credevo di vedere tutti i miei colori, li avevo sotto gli occhi» e immaginate che goduria sinestetica
deve essere stata per lui. E adesso potete rimettere Despacito .
Vasilij Vasil’evič Kandinsky, Dipinto con centro verde , Art Institute of Chicago. Foto © The Art Institute of Chicago.
COS’È LA SINESTESIA?
Di che colore è il mercoledì?

Lo so che state cercando «cos’è la sinestesia?» su Google, quindi vi aiuto io, anche perché
modestamente me ne intendo di brutto.
Scientificamente la sinestesia è una condizione neurologica molto particolare, dovete immaginarla come
una specie di corto circuito sensoriale in cui in cui il cervello riesce a rielaborare in una sola volta dati
provenienti da diversi sensi. È, a tutti gli effetti, una percezione simultanea di più sensi, innescata da un
unico stimolo: per esempio una persona sinestetica può vedere dei colori mentre ascolta un suono, o
viceversa associare un suono a determinate forme. Ce ne sono più di 60 tipi, tra cui la sinestesia tattile,
in cui alla vista si associano sensazioni fisiche in alcune parti del corpo; la sinestesia lessicale-gustativa,
in cui leggendo alcune parole si percepiscono specifici gusti; la sinestesia musicale colorata in cui si
percepisce la musica come colori nell’aria. Io ho scoperto all’università di essere sinestetica, durante un
seminario su Aleksandr Skrjabin, un compositore e pianista russo che ha teorizzato la fusione di tutte le
arti, proprio partendo da questa sua condizione. Più la docente spiegava e più capivo di essere «affetta»
anche io dallo stesso «disturbo» che è invece una benedizione dal punto di vista della percezione della
realtà e che accomuna molti artisti. Vincent van Gogh per esempio. Sappiamo infatti dalle sue lettere al
fratello che nel 1885 iniziò a studiare pianoforte e che l’esperienza fu piuttosto bizzarra: ogni nota gli
evocava un colore. Il suo docente, prendendolo per pazzo, lo cacciò dal corso, facendoci il favore di farlo
concentrare ancora di più sulla pittura. Anche per van Gogh, come abbiamo detto prima per Kandinskij,
i colori e le forme diventavano espressione e ricerca di specifiche sensazioni ed emozioni, e la realtà
così come la percepiva passava in secondo piano. Si definiva un musicista del colore e diceva: «Ciò che
è il colore in un quadro, è nella vita l’entusiasmo!» nonostante non sia famoso per il suo brio
spumeggiante, anzi chissà che a un certo punto non fosse sopraffatto da tutta questa attività sensoriale.
Arrivò ad attribuire il suo evidente problema con l’alcol e il fumo alla «stanchezza mentale di elaborare
complesse armonie di note e colori». Volete altri sinestetici famosi? Lo scrittore Vladimir Nabokov che
associava un colore a ogni lettera dell’alfabeto (lo faccio anche io), la cantante Tori Amos che vede la
musica come un lungo filamento di luce, il jazzista Duke Ellington, che vedeva ogni nota di una tonalità
diversa, musicalmente e cromaticamente parlando. Ora tocca a voi: avete appena scoperto di essere
sinestetici?
Vincent van Gogh, Notte stellata , Museum of Modern Art, New York. Foto © The Museum of Modern Art, New York / Scala,
Florence.
ULTIMA CENA
L’occasione è importante, il menù cosa prevede?

Cosa conta di più quando si organizza una cena? Il menù o la compagnia?


So che non avete dubbi, e che chi se ne importa del cibo quando si sta insieme, ma guardate come è
rimasto fregato Gesù che oltre a sfamare i dodici apostoli si è dovuto beccare pure il tradimento di
Giuda!
Concentriamoci dunque su cosa ha da offrire la tavola, o meglio su cosa, in secoli di arte e nelle diverse
versioni dell’Ultima cena , è stato messo nei piatti dei tredici commensali più famosi di sempre.
Partiamo da un presupposto di natura storica: la cena avviene durante la Pasqua ebraica, si mangiavano
pane azzimo, frutta secca, erbe amare, tutto accompagnato da vino diluito in acqua. Vediamo invece
come gli artisti/chef hanno rivisitato il menù:

nel mosaico del VI secolo d.C di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, c’è il pane ma non il vino, in
compenso troneggiano in tavola due bei pescioloni (che sono tra l’altro un alter ego simbolico di
Cristo).
Nel dipinto del Maestro del Libro di Casa, anonimo tedesco a cavallo tra il 1500 e il 1600, c’è
l’agnello, simbolo di purezza ma anche del sacrificio che sta per toccare a Cristo.
A metà del 1200, Duccio di Buoninsegna, autore senese della Pala della Maestà, rischia grosso e
addirittura mette sul piatto un maialino arrosto. Ma Cristo non era ebreo? Resto perplessa.
Nell’affresco di Antonio Baschenis a Santo Stefano a Carisolo (Trento) il menù si fa un po’ esotico,
ma anche un po’ anni Ottanta, con i gamberi. Che c’entrano, direte voi? Vanno all’indietro, quindi
in senso contrario alla retta via, forse preannunciano il peccato e il tradimento.
Domenico Ghirlandaio nel 1486 dipinge pane, vino e formaggio, ma anche ciliegie sparse sulla
tavola, a simboleggiare forse le gocce di sangue che Cristo sta per versare. Menzione d’onore al
gatto che guarda composto lo spettatore.
La più famosa di tutte, quella di Leonardo del 1494, conservata in Santa Maria delle Grazie a
Milano, presenta un piatto mai visto: l’anguilla con le arance, a quanto pare di gran moda nel
Rinascimento.
Siamo nel 1592, Tintoretto ambienta la scena che potete vedere nella chiesa di San Giorgio
Maggiore a Venezia in una specie di taverna un po’ buia, ma è l’unico che mette a tavola il dolce, in
particolare una torta non proprio invitante. Ma senza dessert, lo sappiamo tutti che la cena non è
completa.

Vi direi di prendere spunto per le cene con gli amici, ma ecco, se proprio dovete ispirarvi alle storie
della vita di Cristo, punterei sulla scelta meticolosa degli invitati.
Leonardo da Vinci, Ultima cena , Santa Maria delle Grazie, Milano. Foto © Yuri Turkov / Shutterstock.
COLOSSEO
Brevi cenni sul monumento più famoso del mondo

È già passata quasi un’ora d’arte e non abbiamo parlato di uno dei monumenti più visitati al mondo?
Che svista imperdonabile! Sono nata e cresciuta a Roma, ho lavorato in Via dei Fori Imperiali per
quattro anni e ci sono passata davanti infinite volte. Per me il Colosseo è come la porta del bagno di
casa, son più le volte che non lo guardo, sapendo che c’è, che quelle in cui mi soffermo a osservarlo,
ricordando nel mentre la fortuna di vivere in una delle città più belle del pianeta. Come per il Duomo di
Milano, un «forse non tutti sanno che» degno del miglior turista della domenica:

è stato realizzato in soli cinque anni, dal 75 all’80 d.C.. Se penso a quanto ci stanno mettendo con i
cantieri della metropolitana Linea C rimpiango l’antica Roma. Si stava più veloci quando si stava
peggio.
Qualche numero: 80 ingressi, 50mila spettatori, lungo 189 metri e largo 156 per un totale di più di
20mila metri quadrati e 48 metri di altezza. Solo per la facciata esterna sono stati utilizzati più di
100mila metri cubi di marmo travertino.
Quello stesso marmo è stato asportato e utilizzato per la costruzione di altri importantissimi edifici
romani, come la Basilica di San Pietro e Palazzo Barberini. Ciò che vediamo ora è un terzo della
costruzione originale. Pazzesco, no?
Perché si chiama Colosseo? Due scuole di pensiero: o perché era costruito accanto a una statua, un
colosso appunto, di Nerone, o perché sorge sul colle dove anticamente si collocava il tempio di
Iside (da cui Collis Isei ).
Il Colosseo aveva un cappellino, o meglio un coperchio, o meglio una tenda solare formata da circa
80 vele triangolari, tenute insieme da 320 funi di sostegno. Questo per non morire di insolazione
mentre si gustava comodamente lo sbudellamento di un gladiatore a opera di qualche bestia
feroce.
Al Colosseo c’era uno dei primi ascensori della storia: un sistema di montacarichi brevettatissimo e
funzionantissimo consentiva di spostarsi tra l’arena e il sottosuolo dove, in un doppio binario di
corridoi alternati, venivano stoccati sia le scenografie degli spettacoli, che gli animali. Occhio a non
sbagliare!
Pool Party al Colosseo! Se ci penso adesso mi viene subito voglia di tuffarmi: ebbene sì, il
monumento più famoso della storia era anche usato come piscina per le naumachie, spettacoli in
cui i gladiatori mettevano in scena le battaglie navali. Certo, per riempirlo tutto servivano 7 ore…
ma vuoi mettere la meraviglia?
Colosseo, Roma. Foto © Dima Moroz / Shutterstock.
Il dipinto ritrovato in
STUART LITTLE
Occhio alle scenografie, potrebbe esserci un tesoro!

C’è stato un momento, durante la mia carriera universitaria, in cui ho desiderato fortemente far parte
del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri, lavorare dunque per acciuffare ladri
sofisticati e preziose opere d’arte trafugate illecitamente, poi mi sono arresa al fatto di essere
perspicace come un tordo e coraggiosa come un ombrellone da spiaggia, e ho rinunciato. Ma leggere
una notizia come quella che vi sto per raccontare mi ha riacceso nel cuore un barlume di speranza.
In una sera qualunque del 2009 Gergely Barki, un consulente esperto d’arte del museo nazionale
ungherese di Budapest, è sul divano a guardare insieme a sua figlia di tre anni quella delizia di film che
è Stuart Little, un topolino in gamba . A un certo punto qualcosa sullo sfondo di una inquadratura
cattura la sua attenzione. Appeso alla parete c’è, ed è secondo Gergely inequivocabilmente lui, il dipinto
La bella addormentata con vaso nero , un’opera del pittore espressionista Robert Bereny (1888-1953),
scomparsa e dichiarata perduta fin dagli anni Venti. Del dipinto infatti si conservava fino a quel
momento solo una fotografia in bianco e nero scattata nel 1928, che evidentemente il nostro Barki
doveva conoscere molto bene, se gli è bastato uno sguardo per individuarlo. Come ci è finito un quadro
che sarà poi battuto all’asta per 229.500 euro sul muro di casa di Stuart Little? Barki si cala nei panni
dell’investigatore e recupera i contatti della produzione, dello staff della Sony e della Columbia
Pictures, finché ben due anni dopo non scopre l’arcano: la scenografa del film lo aveva comprato per
due lire da un antiquario di Pasadena, il quale a sua volta lo aveva comprato da un tizio che se l’era
aggiudicato per 40 dollari a un’asta di beneficenza. Nessuno, per decenni, si era accorto del valore
artistico dell’opera, probabilmente acquistata in origine da un ebreo americano pochi anni dopo la sua
realizzazione, finché il gusto da primo Novecento dell’impressionista ungherese non si è rivelato
perfetto per la casa di un topo parlante. Cosa ci insegna questa storia? Prima di tutto che se fai la
scenografa a Hollywood ti conviene sapere due nozioni al volo di storia dell’arte, che non si sa mai quali
gioie regali il trovarobato, e in secondo luogo, come dice Barki in un’intervista, che «uno studioso non
può mai distrarsi troppo dal proprio lavoro, perfino quando sta guardando un film di Natale a casa».
Robert Berény, Bella addormentata con vaso nero nel film Stuart Little , alle spalle di Hugh Laurie, Jonathan Lipnicki e Geena
Davis (1999). Foto © Everett Collection / Bridgeman Images.
IL PENE
Già l’apparenza inganna, il dipinto ancor di più

Portate via i bambini, questo minuto è vietato ai minori di 14 anni.


Lo so, l’argomento è scabroso, ma di grande attualità. Se pensate infatti che solo nella chat private o in
certi messaggi bollenti delle due di notte tra amanti sia possibile trovare peni orgogliosamente esibiti
come capolavori d’arte, dovreste dare un’occhiata alla produzione pittorica del Cinquecento italiano.
Esattamente come ora va di moda il grandangolo per aumentare l’«effetto maschio» nelle foto da
rimorchio, nei ritratti del XVI secolo si registra la presenza di un certo rinforzino delle braghe, una
specie di push-up imbottito, una custodia rigida in grado di regalare almeno, ehm… un quarto di nobiltà
in più. Ma al contrario dei reggiseni, in questo caso lo slip da battaglia si presenta in tutta la sua onestà
intellettuale, spunta dagli abiti e a volte fa il paio con altri strumenti simbolo della virilità, come la
spada, quella sì fieramente impugnata nel palmo. Nel ritratto di Pier Maria Rossi di San Secondo del
Parmigianino, addirittura facciamo il bis: speculare alla figura ieratica e porno-soft del conte parmense
c’è una piccola scultura di Marte, dio della guerra, ritratto nudo, con la spada in mano, in una posizione
che sembra ambigua al primo sguardo, poiché pare che invece che tenere in mano l’elsa della sua
spada, ostenti il sesso bellamente eretto. E se vi sentite in imbarazzo per questa prima impressione,
sicuramente generata dal pacco del protagonista del dipinto in primo piano, state sereni, nessuno si
faceva problemi di pruderie al tempo: mi vien da dire che forse eravamo più liberali cinquecento anni fa.
Nessuno escluso, dai nobili rampanti ai politici integerrimi, la moda del momento li voleva tutti così, ma
non per sempre: gli inguainati e proud to be vengono sgonfiati con l’arrivo della Controriforma, negli
anni in cui il canone figurativo cambia completamente e impone agli artisti di evitare qualunque invito,
esplicito e non, al peccato, all’indecenza, al paganesimo e in generale a condotte di vita poco ortodosse.
Dunque nello stesso periodo in cui la Chiesa copre le nudità dei corpi del Giudizio Universale della
Cappella Sistina di Michelangelo, l’umanità perde la mutanda rinforzata come accessorio moda:
peccato, avrei adorato vederlo declinato nella collezione autunno-inverno 2021.
Parmigianino, Ritratto di Pier Maria Rossi di San Secondo . Foto © Museo Nacional del Prado / Photo MNP / Scala, Florence.
Conclusioni

Come passa il tempo quando ci si diverte, eh? Siamo arrivati alla fine, torno seria per un attimo, perché
vorrei dire una cosa a cui tengo.
È proprio fresca fresca di questi giorni una polemica sui social network particolarmente attinente a
tutto quello che avete letto nelle pagine precedenti, e chissà, magari anche con le considerazioni sul
tono e lo spirito non particolarmente accademici che la lettura di questo libro vi avrà generato.
L’influencer di fama mondiale Chiara Ferragni ha posato all’interno delle sale del Museo degli Uffizi a
Firenze per uno shooting fotografico per Vogue Hong Kong, e come quasi sempre accade, ha suggellato
la sua esperienza con una bella foto postata sul suo account di Instagram. La foto è stata ripresa dal
profilo ufficiale del Museo che nella didascalia ha osato addirittura spingersi oltre: ha paragonato
Chiara a Simonetta Vespucci, la musa di Botticelli ritratta in veste di Venere nel celeberrimo dipinto
conservato proprio a Firenze (di cui ho parlato anche io qualche pagina fa).
Apriti cielo!
Ci sono state accuse di profanazione, di riduzione ai minimi termini del becero marketing del patrimonio
culturale più alto e prezioso che abbiamo; si è detto che è stata svenduta la bellezza dell’Italia, che il
branding mangerà tutto e che il Rinascimento è stato trattato alla stregua di un vestitino qualunque,
mercificato come un costume da bagno sulle pagine vacue e superficiali dell’imprenditrice digitale
(importante il sopracciglio alzato, serve a sottolineare che non ci credono fino in fondo all’esistenza di
un mestiere del genere. Nel 2020.).
Io non potrei essere più in disaccordo e mi sento anche sinceramente stufa di certe piccolezze di
pensiero.
Ho lavorato nei musei per otto anni, ricordo giornate intere in cui strappavo un unico biglietto gratuito
al vecchietto di quartiere che veniva a prendere il fresco dell’aria condizionata, come consigliano al
telegiornale: trascorrevo i miei turni seduta al desk di accoglienza di istituzioni museali in cui né chi
restava fuori dalla porta, né tantomeno chi era nella gestione e avrebbe dovuto ingegnarsi per stimolare
attenzione e attaccamento, si interessavano a rendere vivo il nostro patrimonio culturale.
E renderlo vivo significa usarlo, significa mostrarlo, proporlo, con ogni mezzo possibile. Altrimenti
marcisce. E con lui una fetta enorme dell’economia di questo paese.
Io non sono il Ministro dei Beni Culturali, questo mi sembra evidente, ma non voglio credere che in
nome della dignità istituzionale, dell’ortodossia di una élite culturale trombona e bacchettona, si rinunci
al più grande motore della conoscenza che esista: la curiosità.
Cosa ci fa una fashion influencer in un museo? Perché potendo scegliere qualunque set al mondo, per
raccontarsi ha voluto gli Uffizi? E cosa rappresenta questo dipinto di fronte al quale si è fotografata,
invitando tutti i suoi 20,5 milioni di followers a vederlo dal vivo? Se nella testa di anche solo uno dei
suoi seguaci è balenata una domanda del genere, allora hanno fatto centro e tutto è bene quel che
finisce bene. Va considerato un altro punto: nessun adolescente ha visitato musei con la scuola
quest’anno, sono stati in casa chiusi a imparare il programma ministeriale mentre i genitori lavoravano
in smartworking e il Presidente del Consiglio snocciolava dati sui morti di Covid. Non so voi, ma io non
me la sento di fare i processi alle intenzioni proprio ora e piuttosto che rompere le palle al dito e alla
luna, io sono felice che ci sia qualcuno che si ricorda del cielo, una volta tanto.
Quanto avrei voluto gli influencer quando lavoravo nei musei deserti, quanto avrei amato sapere che
qualcuno richiamava pubblico per noi, e quando dico per noi intendo bigliettai, librai, custodi, direttori,
curatori, restauratori, studiosi, critici, chiunque viva in mezzo all’arte e senta la stessa frustrazione che
ho provato io per anni.
Intorno all’arte in Italia c’è un’eco di silenzio. Se non fosse stato così io forse, invece di ritrovarmi a
raccontarla con uno smartphone in mano, sarei rimasta dov’ero, a godermi il privilegio di vivere nella
bellezza, nella ricchezza dell’arte.
Ma la bellezza va condivisa, e la ricchezza va moltiplicata. E invece non succedeva nulla. Secondo
l’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali nel 2016 il 52% dei musei possedeva un
account sui social network ma solo il 13% era attivo nei tre più usati; il 51% aveva una pagina Facebook,
il 31% un account Twitter e solo il 15% uno su Instagram. E solo il 19% dei musei offriva il wi-fi
gratuito. Le cose saranno migliorate negli ultimi tempi, ma anche solo stando alle mie esperienze da
fruitrice non mi sembra che siano stati fatti passi da gigante.
Sono passati anni, ho cambiato molti altri lavori, e quel famoso detto con cui abbiamo iniziato, «Impara
l’arte e mettila da parte», ancora non mi riesce di applicarlo.
Io l’arte l’ho imparata, e la metto ovunque. Perché spesso le cose migliori si trovano dove non le cercavi.
E chissà che una quattordicenne non abbia cercato su Wikipedia Botticelli, grazie alla sua icona
preferita.
Fatevi contagiare dalla curiosità, approfondite, sfruttate i mezzi a vostra disposizione, lavorate insieme
a chi fa questo mestiere (e spesso lo fa male) per innescare un circolo virtuoso, giocate con gli ambiti,
mischiate le competenze, trasformate le nozioni in conoscenza, non siate mai mai mai mai snob di fronte
al sapere, ricordatevi che quel figo di Piero Angela saltava su e giù dalle piastrine per raccontarci come
è fatta la milza, e se io so come funzionano i miei anticorpi è ancora solo grazie a lui.
In questo caso vi ritrovate una conduttrice radiofonica e televisiva con una propensione alla blasfemia
cazzona che tenta di catturare la vostra attenzione un minuto dopo l’altro, perché lo so che poi abbiamo
tutti altro da fare.
Ma in quel minuto, sono felice di raccontarvi a modo mio una cosa che prima non sapevate, e se la
modalità vi sembra poco rispettosa, leggete tra le righe la passione, la felicità, l’impegno dello studio e
il desiderio di non mandare sprecato tutto quel tesoro.
I musei non sono chiese, e la cultura non è per pochi. Tutto ciò che non usiamo della vita, si perde e si
spreca, compreso Botticelli.
E non abbiate paura di divertirvi e sparigliare le carte: Marcel Duchamp ha messo i baffi alla Gioconda
nel 1919. È passato un secolo, e tanta strada c’è ancora da fare. Confido che ce la faremo. Magari un
minuto alla volta?
Ringraziamenti

Il primo ringraziamento va a Internet.


L’idea di questo format (e di questo libro) nasce su Instagram e tutto quello che avete letto è stato
stimolato, ricordato, verificato e elaborato grazie a Internet, poiché librerie, musei e biblioteche erano a
svariati metri di distanziamento sociale e diversi decreti ministeriali da me. La rete mi ha salvata e mi
ha concesso un posto libero in cui essere me e condividere con chi mi segue ciò che amo. Non sarò mai
abbastanza grata ai divulgatori e agli appassionati che si spendono online per gli altri, e alla community
di persone che mi segue. Spero di ripagarvi in entusiasmo e dedizione.
Il secondo (ma altrettanto primo) ringraziamento va alle persone che hanno monitorato il mio stato
psicofisico durante la stesura del libro, nell’anno peggiore di sempre. Voi sapete chi siete e siete il
capolavoro della mia vita. Al fondamentale gruppetto Aiuto una menzione d’onore, avete la mia eterna
riconoscenza e il mio amore incondizionato.
Il terzo (ma altrettanto primo e altrettanto secondo) ringraziamento va alla Vallardi in tutte le sue
manifestazioni: ce l’abbiamo fatta!
Il quarto (ma altrettanto primo, secondo e terzo) ringraziamento va a Maurizio Cattelan, Pierpaolo
Ferrari e Toilet Paper Magazine per avermi regalato la loro arte per la copertina di questo libro, e a
Paride Vitale, mirabolante deus ex machina di questa felicità.
Grazie sparsi ma dal centro esatto del mio cuore a Cristina Fogazzi, Costantino D’Orazio, Irene Graziosi,
Massimo Fiorio, Roberto Marone, Malcom Pagani, e a te, che c’eri e ci sei e sai tutto.
E a Mattia Torre.
Infine grazie alla vita, che resiste sempre.
E a me.
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