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VITTORIO BACCELLI
OMNIAOPERAROTAS
tesseratto editore
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omniaoperarotas vittorio baccelli
© omniaoperarotas
Vittorio Baccelli – novembre 2010
tesseratto editore – Seville (E)
I edizione
www.vittoriobaccelli.135.it
www.vittorio-baccelli.splinder.com
baccelli1@interfree.it
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omniaoperarotas vittorio baccelli
Ormai è un'abitudine, scrivo sempre due righe prima che l'opera cominci. Due righe
che sono rivolte ai miei lettori. E anche questa volta voglio rispettare la
consuetudine. Vi trovate davanti a oltre mille pagine nelle quali troverete la maggior
parte dei miei racconti scritti in un arco temporale che va dal 1998 al 2010. Tutti
non sono perché sicuramente qualcuno sarà rimasto impigliato nella rete e non ho
potuto rintracciarlo, ma la maggior parte sono qui. Come al solito manca l'indice, a
me piace poco metterlo, e anche l'ordine di pubblicazione non rispetta una logica
razionale. Spero comunque che il tutto sia di vostro gradimento e vi possiate
appassionare e divertire, così come io mi sono appassionato e divertito a scriverli.
E se l’uomo scomparisse? Per sua causa, per cause naturali, per motivi fuori della
nostra comprensione; è indifferente.
Se l’uomo scomparisse le grandi metropoli cambierebbero i loro connotati in
brevissimo tempo. Molte delle infrastrutture urbane crollerebbero su se stesse,
negozi, uffici e centri commerciali si trasformerebbero in caverne polverose, i tunnel
delle metropolitane e i vari sottopassaggi verrebbero tempestivamente invasi dalle
acque. Alcune opere, come ad esempio i grattacieli realizzati in acciaio, più resistenti
rispetto a qualsiasi altra costruzione realizzata senza il prezioso metallo, potrebbero
resistere anche per molti anni. Quanto alle materie plastiche potrebbero durare per
un tempo lunghissimo, almeno cinquantamila anni Le strade e le autostrade del
pianeta, prive di manutenzione verrebbero velocemente divorate dalla vegetazione. I
ponti crollerebbero in circa cinquecento anni. E se si pensa che a Chernobyl si è
avuto il peggior disastro ambientale della storia umana, eppure anche in questo caso
la natura ha dimostrato la sua voglia di riprendersi i propri spazi; le piante hanno
letteralmente divorato le costruzioni e i cinghiali sono decuplicati. Nel giro di un
paio di giorni dalla scomparsa dell’uomo l’inquinamento acustico e quello luminoso
sparirebbero. Le specie in via d’estinzione sarebbero fuori pericolo. In tre mesi lo
smog sarebbe solo un ricordo, in circa dieci anni il metano sparirebbe del tutto
dall’atmosfera. Dopo venti anni sparirebbero le piante modificate, dopo cinquecento
crollerebbero le dighe, e dopo duecentocinquanta i coralli rifiorirebbero nei mari.
Per rivedere le acque dei corsi d’acqua ripulite e piene di pesci dovrebbero bastare
meno di cinquanta anni, e mille perché l’aria torni ad essere quella dell’era pre-
industriale. I palazzi crollerebbero nell’arco di cento anni, i ponti di centoventi, le
dighe di duecentocinquanta. Infine ci vorrebbero cinquantamila anni per dissolvere il
vetro e la plastica e, duemila per la scomparsa delle scorie nucleari.
Dopo i duemila anni, della permanenza dell’uomo sulla Terra non ne rimarrebbe
traccia alcuna. Forse le tre piramidi di Giza…
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IN VIAGGIO
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omniaoperarotas vittorio baccelli
«Ah Antonio, sei tu! Meno male che ti sei svegliato, questo qui è due giorni che
dorme.»
Questo qui, è l’Emanuele, l’avevo già conosciuto a Firenze, e anche lì stette tre giorni
immobile facendo dannare chi l’ospitava.
Emanuele col saldatore costruisce piccolissimi oggetti bellissimi, meccanici e al
tempo stesso mistici, ma ha fatto troppi viaggi in acido.
Arriva Daniela con un vassoio con piatti colmi di riso macrobiotico.
A me la cucina macrobiotica ha sempre fatto schifo, sono un patito della dieta
mediterranea, ma la fame ha tutte le volte il sopravvento.
Questo viaggio è un vero viaggio, non ricordo neppure come sono arrivato, gli ultimi
ricordi sono della soffitta nel quartiere latino con Daniela che mi passa il chilum.
Ma ora mi riprendo, faccio mente locale: sono ad Amsterdam, è la prima volta, non ci
sono mai stato, voglio andare in piazza Dam, voglio vedere i Van Gogh! Mi guardo
intorno e vedo arrivare il Moneta con un Van Gogh in una mano e un Picasso del
periodo blu nell’altra, ovviamente dipinti da lui, che mi fa: «Questi non ti bastano?»
E mi ritrovo con Assuero in piazza Dam dopo aver attraversato non so più quanti
canali e piazzette con piccioni che a tratti mi sembra di essere a Venezia, solo che qui
le gondole non si vedono.
«E i provos, dove sono i provos? Meno male che qui non piove, che buon trip
abbiamo preso.» Dice Assuero e non ricordo d’aver preso trip.
La piazza è piena di gente, tantissimi giovani, capelli lunghi o rasati, minigonne, mi
guardo intorno e sento Assuero esclamare: «No! Non è possibile!»
E col dito m’indica Angelino che si sta avvicinando.
Angelino, l’incubo dei lucchesi, sempre a chiedere mille lire.
Angelino ci guarda con gli occhi appannati e fa: «Avete mica un fiorino?»
Cazzo, cazzo, cazzo uno attraversa la vecchia Europa e cosa trova? Acqua a Parigi e
Angelino ad Amsterdam che chiede un fiorino, non è possibile.
Lascio la piazza, con Assuero e Angelino e me ne vado in giro da solo in questo
labirinto d’isolette bagnate dall’Amstel, attraversando un ponte dietro l’altro
fermandomi solo per ammirare una meravigliosa chiesa barocca.
Torno poi dal Moneta e ritrovo la stessa situazione del quartiere latino con due
varianti: il Moneta non fuma ed Emanuele è sempre lì che non dà segni di vita.
A un certo punto della notte appare dal nulla una bellissima nera, completamente
nuda che gira per la casa, poi non la vedo più.
La mattina successiva esco con Marino e il Rossi alla ricerca della casa di
Rembrandt, non la troviamo, ma finiamo per puro caso davanti al museo di Van
Gogh.
Questo me lo vedo e me lo gusto tutto!
Torniamo poi dal Moneta, Emanuele s’è svegliato, beve latte e racconta barzellette, il
Perini finisce nuovamente in paranoia e vuol tornare a Lucca.
Ci fumiamo uno spinello, salutiamo tutti e torniamo alla Land Rover. Siamo partiti da
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circa un’ora, tutti sonnecchiano, io sono alla guida, Daniela nel sonno si rigira e fa:
«Però come è bella Venezia.»
E si rimette a ronfare.
Non saprò più niente del Moneta e dell’Emanuele, Daniela, uno dei miei rari amori,
morirà d’embolia, Marino precipiterà nel Lazio col suo aereo, Assuero morirà di
AIDS, il Grossi diverrà pensionato delle Farmacie Comunali, il Perini erediterà una
cartiera, Angelino farà un miscuglio troppo potente di psicofarmaci e alcol.
Tornerò ad Amsterdam solo in internet.
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LA CENA
Erano i favolosi anni ‘70 ed eravamo stati invitati a cena, Luisa e io, a casa di Elio.
Elio, un nostro caro amico, aveva organizzato questa cena a casa sua per festeggiare
la riuscita di un evento culturale che avevamo con successo organizzato: si intitolava
“manifestazione anaoggettuale” e avevamo presentato degli oggetti privati della loro
funzione, con happening e in chiusura una conferenza dibattito con Corrado Marsan,
critico d’arte de La Nazione.
Moltissime persone avevano visitato la mostra e si erano fermate per l’happening,
anche la conferenza era stata un successo oltre le nostre aspettative. I giorni
successivi apparvero articoli sia sui quotidiani locali che su alcune riviste d’arte. Fu
la dimostrazione che anche a Lucca la sperimentazione artistica aveva un suo spazio.
Questi i motivi che avevano portato Elio a organizzare la cena.
Avevo acquistato una bottiglia di spumante e all’ora fissata con Luisa imbocchiamo
via del Battistero, quella degli antiquari, giriamo nella piazzetta della chiesa e
suoniamo il campanello illuminato: - Elio Luigi Ardinghi – grafico pubblicitario -
Udiamo il campanello squillare, ma il portone rimane chiuso.
Suoniamo un’altra volta, nessuna risposta. Riproviamo, niente.
Sarà presto, ci diciamo, avranno avuto da fare fino a tardi in negozio, facciamo un
giro. Con calma arriviamo fino al Duomo in piazza San Martino, poi raggiungiamo
piazza Grande e di nuovo a casa di Elio.
Suoniamo, ancora nessuna risposta.
«Questa poi! vuoi vedere che se lo sono dimenticato?»
Intanto il tempo passa e facciamo un giro sulle Mura, non abbiamo l’orologio, ma le
dieci saranno passate da un bel pezzo. Sulle Mura le luci sono spente e ci avvolge una
meravigliosa aria medioevale. Stasera sembra proprio che non ci sia nessuno in giro,
solo sulle Mura intravediamo nel buio un paio di persone che vagano in silenzio.
Si avvicina un grosso cane nero, forse un labrador, con occhi grandi e gentili, lo
accarezzo sulla testa e se ne va soddisfatto.
Il tempo passa, decidiamo di tornare a casa di Elio per vedere cosa sia successo,
inizio ad avere un dubbio: «Non avremo mica sbagliato il giorno?»
Un silenzio strano in via del Battistero completamente deserta coi suoi negozi
d’antiquariato chiusi, anche una leggera nebbia in volute soffici si spande per la via.
Siamo perplessi e un po’ turbati quasi sembra di vivere in un sogno, c’è troppo
silenzio, troppa solitudine.
Dico a Luisa: «Questa volta suona te.»
Lei si avvicina e preme il pulsante del campanello, s’ode in lontananza lo squillo.
Dopo una manciata di secondi ecco il secco schiocco della serratura elettrica del
portone che scatta e di colpo tutto cambia pur restando uguale. Una comitiva di
persone passa per la via vociando confusamente, si sente il rombo di un motorino
lontano, una campana soffusamente rintocca, le luci della strada sembrano più vivide
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e dal portone socchiuso esce musica rock e quell’inconfondibile brusio di una agitata
riunione tra amici.
Frastornati saliamo le scale, la casa è zeppa di gente che conosciamo, tivù accesa,
giradischi a pieno volume. «Ma che avete fatto? è da oggi che prepariamo. Vi
abbiamo aspettato per un casino di tempo! Abbiamo già mangiato! Ve lo eravate
dimenticato, vero?»
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IL CONTO IN BANCA
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mappe psicogeografiche dei territori che ho attraversato, ma questo non era il mio
intendimento.
Posso solo dirvi che la mia deriva mi ha portato da una città all’altra dell’Europa, poi
imbarcato in splendide crociere ho conosciuto una miriade di porti del Mediterraneo,
sono infine sbarcato negli USA ove ho soggiornato a New York per oltre un anno,
gustandomi ogni attrattiva metropolitana.
Con un aereo sono poi giunto all’isola di San Tomè e qui ho riscoperto nuove radici.
Col mio nuovo nome ho realizzato la mia esistenza, sono proprietario di un albergo e
gestisco un bar all’aperto assieme ad una compagna di colore che è quanto di più
bello e squisito avessi mai desiderato.
Ho tre figli che passano le loro giornate a giocare sul mare, qui gli orari sono relativi,
il denaro è un optional anche se per me scorre a fiumi, i paesaggi sono da sogno.
Raccogliere le conchiglie è la mia attività preferita e vicino al bar che gestisco, su un
lungo asse di legno ho allestito una piccola esposizione.
Spesso qualche turista vorrebbe acquistarne qualcuna, ma gli sorrido e scuoto il capo.
Ho anche imparato assieme ai miei ragazzi a dipingere con le terre sulle cortecce,
come fanno i nativi, e alcuni di questi lavori li regalo ai figli dei turisti.
Non ricordo quanti anni ho, né in che anno siamo, le uniche notizie giungono dai
pescatori e sono relative a ciò che accade nei villaggi vicini, con i turisti, così buffi e
anacronistici, esistono solo scambi commerciali.
Ho imparato ad apprezzare la magica musica tribale e, al tramonto con gli isolani ci
ritroviamo con i nostri primitivi strumenti e improvvisiamo melodie che innalzandosi
parlano della natura e dei sentimenti più intimi dell’uomo.
Ho scoperto l’armonia con ciò che mi circonda, un profondo sentimento questo che
mi era totalmente sconosciuto.
Ogni gesto diviene rituale, ogni azione è un mito, la totale libertà sta assumendo
connotati religiosi.
Il senso del divino è ovunque e ogni tanto mi soffermo a ripensare gli inferni urbani
della mia precedente esistenza.
Anche un conto corrente bancario e un computer impazzito possono divenire la
chiave della liberazione e della conoscenza. Ne sono la dimostrazione vivente.
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Il suono del campanello mi coglie in piena notte mentre sto beatamente dormendo.
Guardo l’orologio, sono le due e mezzo. Ma chi diavolo sarà a quest’ora? Mi chiedo
intorpidito mentre premo i pulsanti: luce scale e apriportone. Di sentire al citofono
chi sia, neanche a parlarne, il mio citofono è fuori uso praticamente da quando
l’hanno installato. Abito al 4° piano e l’ascensore non c’è, perciò attendo
pazientemente alla porta chi sta salendo. Un po’ incuriosito, a quest’ora di notte chi
verrà a rompere? E agli ultimi scalini vedo salire una mora ricciolina in jeans e T-
shirt, scarpe da tennis e zainetto.
«Ciao Antonio!»
Ma chi sarà? Eppure il volto ovale, lineamenti sottili, mi ricordano qualcuno, una
parte di me è sicura che quella ragazza, 22 o 25 anni, snella, ben fatta, seno
mozzafiato, io la conosco benissimo. Dev’essere che mi sono svegliato
all’improvviso e non riesco a far mente locale, ma è proprio ok e poi mi ha salutato
come se fosse in piena confidenza.
«Oh ciao, come mai a quest’ora?»
Rispondo istintivamente sorridendo, e lei: «Passavo da Lucca e non potevo non
venirti a trovare.»
A quel punto, bacio sulla guancia modello vecchi amici ed entra. È proprio bella e
smetto di domandarmi dove diavolo l’abbia conosciuta, anzi ad essere sincero, al
momento non me ne frega proprio nulla.
Ci sistemiamo nello studio, sul tappeto, sbaraccati sui cuscini, luci soffuse, metto un
po’ di musica e lei inizia a raccontarmi che ha passato a Venezia gli ultimi mesi ospite
di questo e di quella che io tra l’altro dovrei conoscere, e minuziosamente narra le
cose che ha fatto e quello che ha visto, poi, dice, mi è presa nostalgia di te e della tua
fantastica casa sui tetti di Lucca, ed eccomi qui.
Ascolto con un sorriso tipo compiaciuto e seguito a non riuscire a farmi venire in
mente dove l’ho conosciuta e sono certo che in casa mia questa qui mica c’è mai
stata, ma è uguale.
«Guarda cosa t’ho portato...»
E dallo zainetto tira fuori una pipetta di ceramica con bocchino d’osso, già carica. Me
la passa e io l’accendo, mentre un forte odore aromatico d’erba si diffonde nello
studio. Aspiro tre volte come da rito e poi gliela passo, le luci sembrano affievolirsi e
la musica in sottofondo è quella dei Tagerine Dream.
Mi alzo lentamente, molto lentamente, accendo un bastoncino d’incenso e la luce
sembra farsi più morbida e dorata.
Lei recita poesie, anche alcune mie poesie, una leggera nebbia ora ci avvolge e dalla
finestra spalancata in questa notte di mezza estate entra un sottile aroma di campi in
fiore mentre le stelle sembrano faticare a rimanere fisse nel cielo.
Guardiamo una sottile falce di luna e ci raccontiamo le storie più recondite e intime.
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La pipa ormai spenta è appoggiata al posacenere sul tappeto, qualche bottiglia vuota
di birra intorno a noi e sempre nell’aria i Tangerine Dream, ossessivi ma dolci.
I nostri corpi nudi sul tappeto, il sapore di birra e tabacco, l’aroma dell’erba e quello
dell’incenso, la morbida luce.
Mi risveglio al mattino, è tardissimo, sono le undici e avevo un appuntamento di
lavoro alle nove.
Sono nudo sul tappeto dello studio con la testa poggiata su un cuscino africano e un
leggero plaid addosso.
Lo studio è in perfetto ordine, come se stamani fosse passata la donna delle pulizie,
che tra l’altro non ho.
Sul tavolinetto accanto al posacenere c’è la pipetta in ceramica col bocchino d’osso:
posacenere e pipa sono perfettamente puliti.
Rivado alla notte appena trascorsa e non riesco a mettere a fuoco l’ospite della
nottata, e... che nottata!
I dettagli mi appaiono con erotica chiarezza ma il suo volto mi sfugge e più mi sforzo
di ricordare più tutto sembra confuso e irreale. A parte la pipa non è rimasta nella casa
nessuna traccia del suo passaggio.
Nella mia mente rimbalza una frase – la nostra vita non è un sogno ma dovrebbe
divenirlo e forse lo diverrà – detta da lei quella notte, ma ricordo che Novalis scrisse
qualcosa di simile.
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PATTY
… tu mi tiri su
poi mi tiri giù
come fossi una bambola …
Sono ospite al Lido in casa di Delia, una casa sempre aperta agli amici del marito.
Alzo la cornetta, formo il numero: «Ciao Patty, a che ora passo a prenderti stasera?»
« Oh ciao, dopo l’una, quando ti pare.»
L’una è passata da dieci minuti quando posteggio il Jaguar-E davanti al Piper, entro,
Patty è ad un tavolo con degli amici, mi vede fa un cenno con la mano, si alza, saluta,
viene verso di me e mi prende a braccetto, usciamo insieme. Bacio veloce e via in
auto a casa di Delia poi di corsa nella camera matrimoniale che ho occupato. La bacio
appassionatamente poi, lentamente la spoglio. L’ammiro, non alta ma snella con
lunghe gambe sottili come quelle delle nere, lunghi capelli biondi, seno diritto e
prorompente, capezzoli ben disegnati, vita sottile. La sdraio sul letto, a lungo le
bacio, succhio e mordicchio i capezzoli, poi la lingua scorre fino all’ombelico,
indugia sul delta di venere, poi s’insinua dentro di lei, con le mani le stringo i
capezzoli che sempre più s’induriscono. Assaporo ritmicamente la sua dolce
profondità profumata, lei geme, si contrae, poi piano piano si rilassa, infine s’inarca
godendo. Mi sdraio accanto a lei, le passo la lingua sulle labbra, poi lei mi bacia sul
petto, la sua lingua scivola verso i capezzoli, li morde dolcemente.
La lingua scivola giù, più giù, mi afferra il membro con la mano e lo stringe molto
forte, mentre vampe di piacere mi avvolgono inizia a leccarlo, poi lo succhia
ritmicamente, la lingua scende ancor più giù poi risale sul membro.
Sto per venire, la fermo e mi metto sdraiato accanto a lei, le dico: «Fumiamo una
sigaretta, poi ricominciamo.»
Accendo lo stereo e le passo una Marlboro. Avvolti nel profumo del tabacco e nella
musica dei Rolling Stones, dopo qualche minuto le sollevo i fianchi e la succhio, poi
lei si gira e fa lo stesso con me. Ci assaporiamo ritmicamente all’unisono, quando sto
per venire mi fermo, mi scosto da lei e la penetro prima davanti, sento le sue unghie
sulla mia schiena, poi la prendo dal dietro. La sollevo infine a pecorina sul letto e io
in piedi sul tappeto, le stringo i glutei con le mani, l’avvicino e l’allontano
sbattendola contro di me sempre più velocemente e con forza. E godo, godiamo
insieme, a lungo. Soddisfatti ci allunghiamo sul letto accarezzandoci.
«Ma a te piacciono le donne?» le chiedo.
«Forse» mi risponde lei.
… poi mi fai girar
poi mi fai girar
come fossi una trottola…
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IN SILENZIO
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IL DIVORZIO
La moglie non voleva più saperne di lui, aveva dei dubbi, dei forti dubbi, ma nessuna
certezza. Marco era sempre più irraggiungibile, spesso partiva per paesi esotici,
sempre da solo, e quando tornava passava le sue giornate davanti al computer.
E così il divorzio fu inevitabile, i viaggi si fecero sempre più frequenti e quando era
in casa navigava la notte in internet.
Ed eccolo visitare un sito di una compagnia assicurativa con sede nel terzo mondo.
Dopo innumerevoli pagine incomprensibili, con infinite listate di numeri, alcune
addirittura scritte in quell’alfabeto svolazzante che è il cingalese, con tutta una serie
di chiavi si poteva accedere al “paradiso”, il paradiso dei pedofili, naturalmente.
Marco era faticosamente riuscito, aiutato da alcuni suoi “colleghi” ad ottenere tutta la
serie alfanumerica di chiavi per accedere al suo agognato “paradiso”.
Ecco sullo schermo una lunga serie di immagini, per lui eccitanti. Un catalogo
insomma, e poi il questionario: nome, sigla di riconoscimento, nazionalità,
preferenze.
Era proprio il questionario che Marco cercava: digitò il suo nome, la sua sigla, e a
preferenza inviò ambosessi, dagli otto ai 10 anni. Poi apparve la scritta “incontri” e
Marco digitò “sì”.
- In quale provincia d’Italia? – e lui scrisse la sua provincia.
Apparve in italiano la scritta “Attendi” e dopo alcuni minuti una località con
l’indirizzo. Ancora una volta digitò: “Sì”.
Poi una data e l’ora e Marco ancora: “Sì”.
- Istruzioni: accanto al numero civico esiste una cabina telefonica, attendere una
chiamata all’ora fissata, seguiranno nuove istruzioni – e Marco – Confermo, grazie.
Seguirono le istruzioni per effettuare un bonifico.
E il venerdì della settimana successiva alle 22 esatte, Marco era fermo con la sua auto
accanto ad una cabina telefonica.
Alle 22 e 10 il telefono iniziò a squillare.
Trepidante alzò la cornetta e una voce di ragazzina chiese: «Nome e sigla» lui rispose
«Marco» e disse la sigla.
«Ok, resta dove sei, tra poco arriverà un motorino, seguilo.»
Rientrò in auto e rimase in attesa, dopo qualche minuto giunse un ragazzino su un
ciclomotore che gli si fermò davanti e poi si mise in moto. Marco seguì il motorino
che procedeva molto lentamente e che lo condusse fuori dal paese, poi si inoltrò in
una strada sterrata che saliva in collina.
Dopo circa un quarto d’ora arrivarono ad un cancello aperto, la strada proseguiva
lungo un parco e terminava davanti ad un casolare ottocentesco.
«È qui, entra e attendi» disse il ragazzino indicando il portone aperto, poi ripartì
lungo il vialetto sterrato.
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omniaoperarotas vittorio baccelli
Marco chiuse l’auto ed entrò, c’era un grande salone con luci soffuse, il pavimento
era coperto da giornali, come se avessero appena tinteggiato le pareti, nel bel mezzo
della sala era piazzato un grande divano, in sottofondo si udiva musica operistica e
l’aria profumava d’incenso misto ad un altro aroma dolciastro ed eccitante, che
Marco non riuscì a definire.
Da una porticina laterale, che nella tenue luce appena si intravedeva, entrò un
ragazzino nudo che avrà avuto sì e no otto anni e rivolto a lui: «Sei Marco, vero?»
«Sì» rispose, e lui: «Mettiti comodo sul divano, tra cinque minuti si comincia.»
Sorridente, ma un po’ teso, Marco si sdraiò sul divano e mentre si sbottonava la
camicia, iniziò a rilassarsi.
All’improvviso si accese un faretto fissato al soffitto, un cercapersone, un occhio di
bue come lo chiamano in teatro, e Marco pensò: Cazzo! anche gli effetti speciali!
Abbagliato dal cerchio di luce che l’avvolgeva cercò di guardarsi attorno e quando i
suoi occhi si furono abituati, restò a bocca aperta, mentre una erezione improvvisa e
prorompente si manifestò con violenza.
Intorno a lui, completamente nudi vi erano almeno quindici ragazzini, maschi e
femmine, che si avvicinavano lentamente, molto lentamente, sorridenti e che
muovevano le mani sui loro corpi in maniera volutamente oscena.
“Troppa grazia, non è possibile!” pensò, mentre l’erezione si faceva sempre più
violentemente esplosiva.
Poi delle acuminate lame scintillarono mentre i ragazzini sempre sorridenti gli si
erano fatti accanto.
L’ultima cosa nella sua vita che Marco vide fu una bimba, di una decina d’anni con le
tettine già prorompenti che lo stava riprendendo con una videocamera.
Poi fu il buio mentre stava venendo e mentre il suo sangue lo stava ricoprendo.
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RIMORSI
I due figli ormai trentenni che aveva avuto dalla sua prima moglie erano lì accanto a
lui, erano anni che non li vedeva, da quando aveva ottenuto il divorzio. Si mise a
parlare con loro, accarezzandoli come fossero sempre bambini. Ed ecco giungere i
suoi genitori, non anziani come quando morirono, ma cinquantenni nel pieno delle
loro forze. Alla loro vista cominciò a piangere e a chiedersi: “Cosa mi sta
succedendo?”
Si trovava in un ampio giardino che non ricordava d’aver mai visto, il sole era alto e
l’atmosfera primaverile. Cosa era accaduto? I ricordi cominciarono piano piano ad
affluire: era sull’autostrada e si stava recando a casa ove l’aspettava la sua amata
seconda moglie e i suoi tre bambini per festeggiare, che cosa? Ah si, era l’ultimo
dell’anno, un anno speciale, il 1999, si festeggiava l’avvento del terzo millennio e lui
era in ritardo, perché era in ritardo? Ah sì, l’amante, era stato a trovarla, era molto
attratto da lei, ma l’aveva sempre ingannata, lui non l’amava, amava sua moglie e i
suoi figli che non avrebbe mai lasciato. Ma questo all’amante non l’aveva mai detto
per paura di perderla, perché era bellissima e molto brava in certe cose che lui
gradiva particolarmente.
Poi aveva sentito come uno sparo, forse era scoppiata una gomma, e la sua auto si era
impennata e stava volando sopra la barriera che lo separava dalla corsia opposta.
E queste erano le ultime cose che si ricordava, come era arrivato in questo giardino?
I due figli, che aveva abbandonato assieme alla prima moglie intanto giocavano con
una palla felici, mentre i suoi genitori gli stavano amorevolmente parlando, ma lui
non riusciva a comprendere le parole, malgrado si sforzasse di farlo.
Si sentì battere su una spalla e, riconobbe quello che era stato il suo grande amico
negli anni sessanta e che da allora non aveva più rivisto. Mentre l’amico gli sorrideva
si ricordò di avergli portato via l’azienda con una operazione finanziaria veramente
sporca, ma i soldi sono soldi, quell’operazione fu la sua fortuna economica.
L’amico gli raccontò che dopo il crac era andato all’estero e che era rimasto ucciso in
una rapina alcuni anni fa, ma malgrado tutto non aveva mai smesso di volergli bene
anche se l’aveva rovinato finanziariamente. Baciò sulla guancia l’amico ritrovato,
chiuse gli occhi e si sdraiò sull’erba. La vita trascorsa iniziò a scorrergli davanti agli
occhi, e tutto ciò che aveva negli anni rimosso divenne evidente. Lui correva, correva
sempre, sempre avanti senza fermarsi, senza curarsi di chi calpestava nella sua folle
corsa che portava… che portava… sì che portava al giardino in cui si trovava adesso.
Si rialzò e prese per mano i figli, la prima moglie e l’amante che nel frattempo erano
arrivate assieme, e l’amico perduto e i suoi genitori e tutti per mano iniziarono un
girotondo nel prato del parco, mentre le lacrime non smettevano di sgorgare dai suoi
occhi.
Fu a quel punto che l’infermiera entrò in sala di rianimazione con una ordinanza
medica in mano, dette un’ultima occhiata all’encefalogramma che da tre giorni era
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piatto e uno ad uno iniziò a spegnere i macchinari che tenevano artificialmente in vita
il paziente, un imprenditore molto conosciuto nella zona che aveva avuto un incidente
stradale proprio la sera dell’ultimo dell’anno mentre si recava a casa per festeggiare
in famiglia il nuovo millennio.
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DONNA IN CARRIERA
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È una delegazione difficile, ma già con loro abbiamo ottenuto reciproci ottimi
profitti.
Devo ricordarmi di telefonare alla mia segretaria per fissare il volo per Parigi, a
Parigi non solo per affari, voglio anche rinnovare il mio guardaroba.
Poi le ricorderò di consegnare tutto il fascicolo riguardante i rapporti tra la nostra
azienda e la filiale tedesca a quella vacchetta della segretaria di Antonio, perché lo
rimetta sul pulito, lo ribatta e lo infili in memoria.
Tutto sommato l’ho sempre aiutata a far carriera, passandole sempre le pratiche più
pallose ma importanti e poi lei si sta aiutando benissimo con la sua cosina, è
intraprendente e farà strada.
Allora ricapitoliamo e facciamo mente locale: devo prepararmi all’incontro con la
delegazione, approntare i grafici sull’energia, cenare con i cinesi. Dopodomani mi
aspettano relazioni e commenti sull’incontro, devo poi telefonare a mio marito che è
in Mexico, no, meglio di no, tanto è solo una perdita di tempo e poi lui prima o poi
chiama.
Dopo le relazioni e le valutazioni controllerò il rapporto con la filiale, farò un po’ di
cippicippi con Antonio al telefono, stilerò il rapporto settimanale sullo stato operativo
del mio settore, che sta andando a gonfie vele, e per la sera avrò bisogno di qualcosa
di veramente duro, telefonerò a Michele, lui è sempre disponibile.
Mi rigiro nel letto assaporando gli ultimi attimi di riposo e aspiro con voluttà l’odore
di Antonio che il lenzuolo mi offre.
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omniaoperarotas vittorio baccelli
LA SCATOLA
Era una vecchia scatola di legno delle dimensioni di cm. 20x25, alta 10, di colore
marrone chiaro, passata con vernice lucida trasparente che gli anni avevano reso tutta
screpolata.
Sul coperchio un tempo vi era un disegno, oggi estremamente consunto, nel quale si
intravede ancora una staccionata, una radura nel mezzo della quale vi è un uomo, un
albero spoglio sulla destra e alcuni abeti secolari nel lato opposto.
Il disegno è composto da varie tonalità di marrone, forse un tempo vi erano più
colori, il coperchio è fermato da due cerniere molto arrugginite ma sempre
funzionanti, la scatola ha poi una piccola serratura in metallo della quale non ho mai
visto la chiave.
Fin da bambino ho sempre avuto in casa questa scatola e nel suo interno vi erano
conservate le più svariate cianfrusaglie: mi ricordo un rocchetto di filo azzurro, carte
da gioco, bottoni, vecchie monete, ritagli di giornale ingialliti, francobolli usati, e
altre piccole cose.
Dopo la morte dei miei genitori sono rientrato in possesso, tra l’altro, anche di questa
vecchia scatola che è finita su uno scaffale della mia camera.
E proprio un anno fa accadde l’incredibile.
Avevo sulla scrivania dello studio tirato fuori tutti i conti correnti e i pagamenti che
avrei dovuto con urgenza eseguire, fatta la somma in tutto erano quasi nove milioni di
lire da pagare.
A quel punto estrassi le ultime, uniche cinquantamila lire che possedevo e le lasciai
sopra quella scatola, mentre le bollette e i conti rimasero sulla scrivania.
«In qualche modo farò, fin'ora sono sempre riuscito a togliermi d'impiccio» mi dissi,
spensi la luce dello studio e me ne andai a letto.
Al mattino, prima di uscire, passai dallo studio, presi le ultime cinquantamila lire e
quasi automaticamente aprii la scatola che sapevo vuota. Non vi dico la mia sorpresa
quando all’interno trovai altre cinquantamila lire.
Divenni ancor più perplesso ed esterrefatto quando confrontando i numeri di serie, mi
accorsi che erano uguali.
A quel punto intascai uno dei biglietti e rimisi l’altro sopra la scatola, poi uscii,
comprai il giornale, le sigarette, feci colazione al mio solito bar, rientrai per
controllare.
Nella vecchia scatola c’era un altro biglietto di banca, non vi dico la mia gioia e da
allora i soldi non furono più un problema.
Da quel giorno erano passati quasi tre mesi e mi ero rinnovato il guardaroba, avevo
acquistato una nuova auto, saccheggiato le librerie, cenavo nei migliori ristoranti,
insomma senza esagerare facevo una vita più che soddisfacente.
Una mattina sento suonare il campanello, apro e mi trovo davanti il maresciallo dei
carabinieri del mio paese, con lui altre tre persone in borghese, che si qualificano, due
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della guardia di finanza e uno come dirigente del ministero del tesoro.
Li faccio accomodare in salotto e mi notificano che ho spacciato monete, che false
non sono, ma neppure regolari.
Tirano fuori banconote da 50 e 100 mila lire e mi dicono dove e quando le ho spese.
Da un mese mi stavano tenendo sotto controllo.
Mi trovo con le spalle al muro e loro vogliono una spiegazione, e la vogliono subito,
se non collaboro rischio l'arresto immediato.
Mi decido in tutta fretta e vado a prendere la vecchia scatola vuota, la poso sul tavolo
e chiedo alcune banconote al dirigente del ministero.
Il dirigente dalla sua ventiquattrore estrae una mazzetta di banconote da 500mila e me
la porge, prendo la mazzetta, la poso sulla scatola e dico loro di non toccare niente
mentre io preparo un caffè per tutti.
Vado in cucina col maresciallo, del quale tra l’altro sono amico, che mi segue e mi
aiuta a preparare il caffè.
Prendo la moka con il caffè fumante e la metto su un vassoio, con la zuccheriera, i
cucchiaini, le tazzine e un bricchetto col latte.
Torno in salotto, servo il caffè a tutti, lo beviamo, mi accendo una sigaretta e poi dico
al maresciallo: « Apri pure la scatola.»
Il maresciallo guarda il dirigente che gli fa un cenno d’assenso, apre la scatola ed
estrae una mazzetta di banconote identica a quella che vi era posata sopra.
I finanzieri controllano i numeri di serie, redigono un verbale, me lo fanno
controfirmare, poi il dirigente sequestra la scatola e mi lascia una ricevuta del
sequestro avvenuto. «Poi le faremo sapere, grazie per la collaborazione.»
Gentilmente mi salutano portandosi via, il dirigente la scatola, i finanzieri i due
blocchetti di banconote.
Quando sono rimasto solo ho avuto come un presentimento, ho aperto l’armadio delle
scarpe, ho preso una scatola nuova con scritto NIKE, ho tolto le scarpe che vi erano
dentro, ho posato la scatola sul tappeto del salotto, ho estratto dal mio portafoglio un
biglietto da 100mila lire, l’ho posato sulla scatola e sono uscito. Mi sono recato al
discount vicino per far spesa e quando sono rientrato ho aperto la scatola delle NIKE,
all’interno vi era una banconota identica a quella che vi avevo posato sopra.
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DISTANZA
(omaggio a Stephen King)
Abito nella tenuta di Migliarino in una casa colonica interamente ristrutturata, la mia
donna invece sta nel modenese, anche lei in aperta campagna. Stiamo da soli, ci
vediamo tutti i sabati e le domeniche, generalmente è lei che viene a casa mia.
La nostra storia va avanti da più di tre anni e la mia lei ha un hobby: le piace scoprire
percorsi nuovi con il suo fuoristrada.
Ovviamente non imbocca mai un'autostrada, ma ama le strade più impervie e
accidentate, oltretutto sostiene che studiando attentamente il territorio, anche con le
cartine, si risparmia tempo rispetto alla cosiddetta viabilità veloce. Ai primi viaggi
per raggiungere la mia casa impiegava diverse ore, poi dopo mesi di studio su
dettagliate cartografie sosteneva di impiegare solo un’ora. Le sue cartine le ho viste,
sono ricavate da foto satellitari e sono piene di grafici segnati con matite colorate, più
che cartine sembrano dei quadri astratti. Vi sono anche moltissimi segni alchemici
lungo percorsi contrassegnati.
Sul retro delle cartine vi sono, scritti a biro, una serie di appunti indecifrabili perché
stilati con un linguaggio che ho subito riconosciuto, è l’alfabeto che fu usato da John
Dee, e mi ricordo di averlo già trovato in alcuni miei vecchi libri che parlavano
dell’origine dei Rosacroce, rimasi affascinato da quel linguaggio composto da
simboli magici, astrologici e alchemici e cercai di saperne di più, ma le uniche notizie
che ricavai su Dee furono che era un mago e negromante dell’Inghilterra puritana,
nato a Londra nel 1527, vissuto fino al 1608 e che fu astrologo di corte di Elisabetta
la Grande; Rosacroce e Massoneria se lo contendono da secoli. Mi sono sempre
ripromesso di fare una ricerca accurata in internet, ma fin'ora m'è mancato il tempo.
L’altra settimana la mia lei mi ha raccontato una cosa impossibile, è arrivata solo
dopo quindici minuti di auto. Io non ci credevo, mentre lei era tutta soddisfatta per
aver raggiunto questo record, «Ma posso fare di meglio! ha esclamato ad un tratto,
entro un mese arriverò a soli cinque minuti! Seguo vie psicogeografiche, io!»
Sono uscito nel patio a fumare una sigaretta e mi sono messo ad osservare il suo
fuoristrada 4x4. È veramente imponente, un autentico bestione della strada, anzi del
fuoristrada, ma quello che lei sostiene è semplicemente impossibile. Mentre
osservavo i sei fari anteriori, ho notato che erano pieni d’insetti morti, ma che strani
insetti, molto grossi, con ali metalliche di libellula, ma taglienti al tatto, poi mi sono
soffermato su una testa rimasta appiccicata al paraurti, una testa sicuramente
d’insetto, ma dalla cui bocca spuntavano file di aguzzi denti.
Quali strade usi la mia lei per annullare distanze è per me un mistero che voglio
risolvere.
E così le dico: « Cara, visto che ci metti solo un quarto d’ora ad arrivare da te, perché
stanotte non dormiamo a casa tua?»
«Se è questo che vuoi, metti una giacca a vento e partiamo.»
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Mi metto la giacca a vento e salgo sul fuoristrada, lei arriva, gira la chiavetta,
partiamo. Appena superato il vialetto di casa lei accende i fari, il motore romba a
pieno regime, il panorama sparisce, la luce sparisce, restano solo i coni dei fari.
Sento il vento sibilare così forte che supera il rombo del motore, l’aria è densa e una
nebbia viola ci avvolge, solo a tratti scorgo in alto, come su un colle, una costruzione
medioevale che s’intravede nella nebbia e poi schizza via per lasciar posto ad altra
struttura similare, all’improvviso c’è davanti a noi il ponte del Diavolo, quello di
Borgo a Mozzano e noi passiamo velocissimi sotto l’arcata principale, poi altra
nebbia e ancora in lontananza due ruderi di castelli e una grande torre nera,
all’improvviso riappare il sole del tramonto e siamo nella campagna modenese
davanti alla sua casa.
Guarda il cronografo e soddisfatta esclama: «Quattordici minuti tre secondi e undici
decimi!»
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L’INQUISITORE
Dormivo nella stanza che fu di Giacomo, quella con i muri a stucco di color mattone
chiaro e con gli angoli delle pareti stondati. Io adolescente solo nella mia camera coi
quadri antichi a tenermi compagnia; quella dei miei genitori dall’altro lato
dell’appartamento. Sognai Elisabetta: alta, bionda, con un fisico perfetto, statuario,
ma il viso era la cosa più fantastica. Lineamenti sottili ma labbra carnose, il tutto
luminosissimo, talmente splendente che i contorni risultavano evanescenti malgrado i
miei sforzi di mettere a fuoco la vista. Portava tuniche di seta semitrasparenti, sempre
agitate da leggere brezze, che mutavano di colore.
Avevo il suo sorriso stampato nella memoria, il sogno era ricorrente, ogni tre, quattro
giorni c’incontravamo in posti sempre diversi: aule con divani, biblioteche stile ‘800,
campi di grano dorato, pinete, spiagge assolate. Mai nessuno ci disturbò in quei primi
incontri. Se eravamo all’aperto talvolta scorgevo dei bambini in lontananza intenti nei
loro giochi. Di notte una volta vidi sorgere due lune.
Devo confessare che non vedevo l’ora di mettermi sotto le coperte e speravo
d’incontrarla ancora una volta. Le raccontavo le mie giornate, la scuola, gli amici,
cosa avrei voluto fare ed essere da grande. Mi ascoltava interessata, sorrideva, mi
dava consigli, mai volle parlare di sé, di dove abitava, cosa faceva quando non
eravamo insieme, della sua famiglia, delle sue amicizie, della sua vita: solo il nome
sapevo di lei. Passeggiavamo nelle case e nei giardini, sostavamo nei boschi, ci
rincorrevamo giocando, alle volte le nostre labbra si sfioravano e i nostri corpi si
toccavano: in quei momenti ero al settimo cielo!
La cosa andava avanti ormai da tre anni, una sera eravamo seduti nel giardino sulla
sommità della Torre Guinigi, quando dalle scale salì un frate, alto, severo,
incappucciato in un saio bianco. Una sensazione di gelo, mai provata, s’impadronì
delle mie membra a quella inattesa intrusione. Mentre mi sentivo a disagio come non
mai, vidi il sorriso di Elisabetta scomparire dalle sue labbra. Il frate puntò un dito
contro di lei e mormorò una sola parola: “millennium”. Inorridito fissavo i lineamenti
di lei che piano piano si dissolvevano emanando una nebbiolina grigia: la tunica e
tutto il corpo scomparvero, la nebbiolina grigia divenne dorata e la brezza del
tramonto la portò via. Rimasi attonito, pietrificato… mi girai, anche il frate non c’era
più. Seppi che era l’inquisitore e anche il suo nome fu chiaro nella mia mente. Dalla
Torre non si vedeva più il bellissimo panorama al tramonto che avevamo ammirato
fino a pochi istanti prima, ma in basso si stava formando una enorme,
incomprensibile macchina con lame rotanti in ogni direzione che si espandeva
velocissima finché non coprì l’intero orizzonte che si era fatto di un minaccioso rosso
cupo. Mi accorsi con stupore che anche la torre era cambiata, era divenuta molto più
grande ed era costituita da enormi pietre di un nero totale.
Un brontolio di tuoni s’udiva in lontananza e s’avvicinava mentre i primi lampi
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Assuero era ospite in quella clinica in mezzo al verde perché in quegli anni settanta, a
giro per il mondo, aveva veramente abusato d’ogni tipo di droga.
Sulle orme di Castaneda era anche approdato a Sonora per scecherarsi un intruglio a
base di peiote che avrebbe dovuto sortire effetti telepatici.
Al suo ritorno Assuero aveva un forte bisogno di ritrovare il suo io dissociato e così
era approdato a quella clinica psichiatrica in mezzo al verde, una vera isola di
tranquillità.
Strinse amicizia con un giovane milanese, ospite pure lui dopo una brutta storia
subita.
L’amico di Assuero aveva trovato in quell’area protetta un’oasi di pace e di calma,
ma aveva il terrore di ritornare nel mondo esterno.
Una sera raccontò cosa gli era accaduto.
Alcuni anni prima stava transitando con la sua auto in direzione di Arni per motivi di
lavoro.
Pioveva e una leggera nebbia era scesa sulla provinciale, quando scorse a lato della
strada due giovani donne che gli fecero cenno di fermarsi.
L’amico di Assuero vedendole fradice di pioggia si arrestò e le fece salire in auto.
Gli dissero che stavano tornando a casa a piedi, quando la pioggia le aveva sorprese
per strada. Erano madre e figlia, entrambe molto belle.
La loro casa si trovava poco prima del paese e convinsero l’amico di Assuero ad
entrare per prendere un tè. Non si fece certo pregare, tra l’altro si sentiva molto
attratto dalla figlia.
Una volta giunti a casa le due donne si cambiarono d’abito e civettando con l’ospite
accesero un bel fuoco nel camino del salotto e prepararono il tè.
Uno scherzo tira l’altro, complice l’intimità del caminetto, il tamburellare della
pioggia, il caldo benessere del tè, il piacevole gusto del tabacco, il nostro si ritrovò a
baciare la figlia davanti alla madre sorridente.
Fu a quel punto che la teiera si rovesciò macchiando la tovaglia sottostante, ma alla
cosa fu data scarsa importanza e la serata procedette nel migliore dei modi.
Era l’alba quando l’amico di Assuero si congedò dalle due donne, abbracci, baci di
saluto e la promessa che il mese successivo sarebbe tornato a trovarle rimanendo
ospite per qualche giorno da loro.
Ma la ditta per cui lavorava il mese successivo lo fece partire per l’Africa a visionare
alcuni macchinari che non funzionavano come avrebbero dovuto.
Fu così che solo tre mesi dopo il nostro riuscì ad ottenere alcuni giorni di ferie e
acquistati alcuni piccoli e sexy regali per le due donne, partì con la sua auto in
direzione di Arni.
Quando, dopo alcune ore di guida, giunse davanti alla casa rimase sconcertato:
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TRADIMENTI
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IL PERDONO
Elisabetta fissò Eymerich con occhi di fuoco, il set su cui adesso si trovavano aveva
caratteristiche lunari.
Mancanza di vegetazione e bagliori all’orizzonte, c’era anche una qualche difficoltà
respiratoria, l’aria era sottile e forse carente d’ossigeno, si trattava certamente d’un
altopiano a grande altezza, o di un piccolo pianeta, la gravità era comunque quella
giusta.
Elisabetta voltò le spalle all’inquisitore e s’avviò verso un sentiero appena tracciato
che sapeva portare ad un rifugio.
A lei Antonio era sempre piaciuto ed era certa che l’avrebbe rivisto.
Nelle vite trascorse aveva avuto molti uomini, ma solo lui aveva veramente amato,
anche se una volta l’aveva uccisa.
Il fattaccio era avvenuto tanto, tanto tempo fa e tutto sommato, per le violente regole
dell’epoca, non era stata commessa alcuna infrazione, tanto era crudele la civiltà di
quel mondo.
Ma la vita è vita, ed Elisabetta pur amandolo ne aveva messo di tempo a perdonarlo.
Maledisse in cuor suo l’inquisitore mentre si collocava all’interno del rifugio.
La pace profonda penetrò in ogni cellula del suo nuovo affascinante corpo e, mentre
l’azione rigeneratrice faceva il suo corso si trovò ancora una volta a riflettere sul
destino dell’imperatore.
Da lui aveva avuto due figli, non l’aveva mai amato, ma era sicuramente l’altro uomo
delle sue vite.
Eppure l’aveva ingannato e aveva collaborato al crollo dell’Impero e anche al suo
esilio.
Aveva avuto visioni dell’imperatore relegato ai margini del multiverso nel suo
castello imperiale, circondato e accudito dai droidi.
Avrà compreso che anche lei l’aveva tradito?
Sicuramente sì. L’avrà perdonata?
***
L’imperatore si risvegliò all’improvviso con una sensazione di irrequietezza, posò i
suoi piedi nudi sul tappeto di capelli che fungeva da scendiletto e si soffermò
dubbioso a guardarlo per qualche attimo, come per volersi ricordare qualcosa.
S’avvicinò alla console del computer centrale e chiese se vi fossero novità.
Il computer l’informò che un oggetto volante aveva sorvolato il pianeta a bassa quota,
poi s’era allontanato.
Il computer aveva cercato di mettersi in contatto, ma nessuna risposta era pervenuta.
L’imperatore tornò nel suo letto, svegliò il droide a cui aveva dato le sembianze, i
ricordi e il carattere di sua moglie e fece lungamente l’amore con lei.
***
L’inquisitore era tornato nei suoi alloggi e una profonda tristezza lo stava
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opprimendo, ma questo era divenuto il suo stato d’animo abituale da quando s’era
reso conto che da sempre era costretto ad azioni spregevoli, perché così era richiesto
dall’assurdo grande piano dell’universo.
Che idiozia poi, dover tener d’occhio Elisabetta nelle sue innocenti fughe, proprio
non si capacitava perché una semplice donna dovesse avere una qualche rilevanza per
lo schema centrale.
Di una cosa però l’inquisitore era certo: Elisabetta era l’unica donna che l’avesse
attratto e già da secoli s’era accorto di questo.
Si mise in posizione operativa davanti alle memorie totali e, attivato il comunicatore
entrò nella rete internet terrestre della fine degli anni novanta del XX secolo e iniziò
ricerche su un certo Reich Wilhelm.
Non sapeva perché si sentisse attratto da questo antico personaggio, era certo di non
aver mai avuto a che fare direttamente con lui, ma strani dubbi lo tormentavano.
Trovò numerosi siti su la vita e le opere di Reich e con pazienza si accinse a
consultarli.
***
Antonio era seduto su una panchina di un lussureggiante giardino mentre i suoi tre
figli giocavano con altri bambini.
Alternava la lettura di un quotidiano ad alcuni paragrafi di un libro di Reich in inglese
preso in prestito in biblioteca.
Sotto il sole di maggio accese una sigaretta e s’abbandonò a remoti ricordi.
Da dieci anni non vedeva Elisabetta, l’inquisitore e Reich l’aveva ritrovati insieme in
un libro recentissimo d’Evangelisti, l’imperatore era invece tornato prepotentemente
nella sua memoria solo pochi giorni prima e su di lui aveva scritto un breve racconto.
Il libro d’Evangelisti l’aveva profondamente incuriosito riguardo al pensiero di Reich
e in biblioteca aveva trovato numerosi suoi volumi che aveva iniziato a leggere.
Sentiva nel profondo che era stato perdonato da Elisabetta: ma di che cosa?
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IL CIBO
Il grande gioco quiz dell’emittente galattica TRI-TV olografica era giunto all’ultima
puntata: erano rimasti solo due concorrenti, il tema sorteggiato era: “la gola”.
L’eliminatoria si sarebbe svolta in diretta e il vincitore si sarebbe portato a casa una
vincita incredibile in crediti, una settimana in uno dei più prestigiosi alberghi della
galassia in compagnia della più desiderata pornostar del momento, inoltre per quattro
anni avrebbe avuto il privilegio di sedere nel Senato Galattico. L’ultima prova, che
riguardava appunto la gola, consisteva nel farsi fornire dal personaggio più
importante ed eclatante una sua ricetta per il piatto più prelibato, raffinato e originale.
Una giuria composta da giornalisti, hacker, artisti ed esperti culinari avrebbe
assegnato il premio in base all’originalità del piatto e alla fama di chi l’avesse fornito.
Alex era convinto d’aver la vittoria in pugno. Anni addietro, in un archivio statale
abbandonato aveva trovato un foglietto scritto a mano con le coordinate tachioniche
dell’imperatore. L’imperatore era un mito che ormai si trovava solo sui libri di storia.
Quando l’impero era formato da sei pianeti, tanti secoli prima, un vasto movimento
decise d’esiliarlo, poiché i mondi volevano autogestirsi, così con un inganno fu
portato su un pianetino ai confini della galassia e del tempo e lasciato lì solo ma con
tutti i comfort. L’imperatore era il padre padrone di ogni cosa, era colto, raffinato,
intelligente, e anche un grande esperto di arte culinaria. Era benvoluto, ma la
modernizzazione esigeva dei sacrifici e così con l’inganno fu abbandonato e nessuno
sapeva dove. Il gioco quiz ebbe inizio in diretta, miliardi di esseri senzienti lo stavano
seguendo in ogni angolo della galassia: Alex nello studio vide il suo avversario
mettersi in contatto con il più famoso umorista televisivo che svelò una sua ricetta
segreta per realizzare una gigantesca torta afrodisiaca a forma di cono che fu
elaborata in tempo reale da uno speciale marchingegno computerizzato e distribuita
in platea ai giurati che iniziarono subito dopo a svestirsi e ad ammonticchiarsi gli uni
sulle altre, così che nei salotti di mezza galassia gli spettatori si ritrovarono questo
ologramma di groviglio orgiastico che non piacque per niente a chi stava coi bambini
guardando la TRI-TV.
A questo punto Alex fu sicuro di vincere, bastava solo che le coordinate fossero
quelle giuste. Non appena i giurati si rimisero in sesto, Alex alla console del
comunicatore iniziò una serie complicatissima alfanumerica intervallata da comandi
vocali. Era già un bel po’ che stava stranamente armeggiando col comunicatore, e
molti cominciavano a pensare che si fosse annodato, quando apparve sul palco
l’immagine olografica di un letto gigantesco con due figure che dormivano sotto le
coperte. A fianco dell’immagine l’identificatore cambiava numeri, lettere alfabetiche
e colori, finché su una riga azzurra si lesse DROIDE, poi l’identificatore generò una
riga sottostante che per molto tempo lampeggiò intercalando numeri e lettere poi
apparve la parola in rosso IMPERATORE. La galassia era in subbuglio, l’imperatore
per tutti era solo un mito, una leggenda del passato imparata sui banchi di scuola.
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L’imperatore nell’esilio del suo pianeta stava dormendo accanto ad un droide a cui
aveva dato le sembianze della sua adorata consorte, quando all’improvviso lo svegliò
la voce del computer centrale: “Comunicatore in funzione, comunicatore in
funzione”.
Il comunicatore da sempre era inattivo e l’imperatore balzò fuori dalle coperte. In
mezzo alla stanza vi era l’immagine di un palcoscenico e un giovane vestito
stranamente lo salutò con «Buongiorno imperatore» e poi proseguì con «so che lei è
un esperto culinario, vuol dettarmi la sua ricetta preferita?»
L’imperatore l’osservava pietrificato, in piedi sul tappeto di capelli che fungeva da
scendiletto, a bocca aperta, pensando che forse questo era uno strano sogno.« Su
avanti non sia così imbambolato, tutto l’universo vuol conoscere la sua ricetta!»
L’imperatore totalmente cortocircuitato voleva rispondere, ma si sentiva la bocca
impastata e cominciò a farfugliare, ma poi fece mente locale e si disse, sì, sto
sognando e raccontò che la sua ricetta preferita era la Stompa di Caudo che aveva
elaborato tanto, tanto tempo fa, e si mise a descrivere, sempre più spedito come
doveva essere preparata. Solo alla fine della ricetta si rese conto che quanto stava
accadendo era reale e cominciò ad ordinare nella sua testa tutte le domande che da
secoli voleva porre, ma Alex intervenne con un «Grazie imperatore, chissà se ci
rivedremo» e giù un lungo scroscio di applausi e per qualche minuto l’imperatore
vide centinaia, forse migliaia, di platee che lo applaudivano, poi tutto svanì.
A quel baccano il droide si risvegliò: «Amore che ci fai lì nudo fermo impalato in
mezzo alla stanza? Dai, torna a letto.»
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SESSO ALIENO
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pelle si trasforma, è ora come fosse composta da squame dorate e intorno a lei una
sottile luminescenza sempre d’oro si diffonde.
È ancora lei, ma non è solo più bella, è bellissima e i lineamenti modificati sono
splendidamente alieni.
Le prendo la mano che si è fatta più sottile e più lunga e la bacio su tutte le sue sei
dita.
«Mi piaci da impazzire, come prima, più di prima.»
Mi spoglio, le sono sopra, le chiedo: «Usi la spirale o una pillola aliena?»
Lei sorride: «Vedo che non ti sei spaventato e che ti piaccio ancora.»
«Moltissimo, amore, non sai quanto.»
«Non preoccuparti, non posso rimanere incinta, le nostre due razze sono
incompatibili, almeno per ora, ma i nostri cervelloni ci stanno lavorando sopra.»
La penetro mentre la bacio e inizio ritmicamente a possederla.
«No, sussurra, con noi è diverso, devi star fermo dentro di me.»
«Come con una tailandese, faccio io e poi, obbedisco!»
Sento vampe di calore che dal membro s’irradiano verso il resto del corpo mentre la
sua fica mi stringe sempre più forte.
Le vampe seguono i ritmi cardiaci, il mio e il suo, che ora battono all’unisono e li
percepisco chiaramente, anche la contrazione sul mio membro segue lo stesso ritmo.
La sua luminescenza dorata pulsa seguendo anch’essa i ritmi cardiaci, poi la
luminosità invade anche il mio corpo e divengo dorato, le nostre membra sembrano
fluide, si mescolano, onde di pensiero si incontrano e vi è scambio di emozioni.
Siamo un solo corpo luminescente e pulsante, quando sento l’orgasmo lentamente
salire e poi sommergerci con lunghe ondate ritmiche sempre più incisive e colorate.
Raggiunto l’apice, molto lentamente tutto si dissolve e ci ritroviamo distesi l’uno
accanto all’altra, innamorati più di prima.
«Stella sei fantastica! Non ti lascerò mai!»
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FORTUNA
(a Lucca mai?)
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saltellavano su l’erba.
Ad ogni clic!, il soggetto inquadrato silenziosamente svaniva, un bastardissimo cane
le venne incontro scodinzolando… clic!… si dissolse nel nulla.
Fu in quel preciso istante che il segnalatore del modulo entrò in funzione in maniera
intermittente:
«Cazzo!» Esclamò in perfetto italiano-terrestre «I controllori m’hanno già rilevata!»
Si dissolse e rientrò precipitosamente nel modulo, conscia che era solo questione di
attimi, vibrò attorno ai comandi, rischiando un po’ e contravvenendo a tutte le leggi
galattiche, si rifugiò istantaneamente nell’iperspazio confondendosi tra le pieghe
delle infinite realtà parallele e delle combinazioni temporali. Il segnalatore si
disattivò: anche questa volta l’aveva fatta franca.
L’elaboratore iniziò a fornirle tutti i dati dell’ultima operazione: aveva perso solo un
millesimo di sé stessa (1000,3 per l’esattezza) che era rimasto abbandonato sul
pianeta, l’es era stato integralmente recuperato e aveva trattenuto ben 110 soggetti
commerciali, in quanto a lei aveva commesso 379 infrazioni, che se individuata, le
sarebbero costate il sequestro del modulo, il ritiro a vita della licenza di pilotaggio e
una multa da capogiro.
Malgrado la fuga precipitosa, l’incursione era andata bene: il valore dei soggetti
carpiti dall’es era, al mercato illegale, di ben 7000 crediti… veramente una bella
sommetta, poteva finalmente permettersi un modulo dell’ultima generazione.
Intanto il millesimo di sé che era rimasto sulla Terra, privo d’informazioni, staccato
dall’elaboratore, e con forti distorsioni nel settore mnemonico, non sapeva proprio
che pesci prendere, era però cosciente che doveva trovare una soluzione, e in fretta.
Analizzò l’oggetto che aveva dinanzi e modificò la sua struttura fino a divenirne
un’identica copia. La zona fu perlustrata qualche istante dopo da un vibrante che
l’attraversò sfrecciando in forma di nebbia: non rilevò niente d’anormale e passò
oltre. Dopo alcune ore giunse una squadra d’addetti ai parchi, poi alcuni impiegati
dell’ufficio tecnico comunale.
Mancavano dodici alberi e una intera siepe, al loro posto c’erano delle buche
profonde alcuni metri nel terreno, ma la cosa veramente assurda era la colonna
commemorativa in marmo, identica a quella del prato lì vicino, che s’ergeva nel bel
mezzo del vialetto. Dopo aver recintato in tutta fretta la zona, con la scusa dei lavori
in corso, dopo alcune riunioni concitate in Comune e in Prefettura, furono prese le
seguenti decisioni: copertura delle buche, sostituzione degli alberi e della siepe
mancante, sistemazione di un nuovo e meno antiestetico cestino dei rifiuti, modifica
del tracciato del vialetto, spostato tra le due colonne. Tutto fu così sistemato, ma il
barbone che da anni prendeva il sole e dormiva su quella panchina nei pressi della
colonna, si trasferì dalla parte opposta delle Mura. Fortuna intanto soddisfatta per
l’incursione, stava depolarizzandosi al caldo sole di un pianeta alla periferia di una
antica galassia.
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La vendita dei piccoli umani era stata un grande successo, sopratutto i giovani ne
erano entusiasti. Non esisteva residenza nella quale i piccoli non avessero umani
addomesticati nelle loro splendide casette. Venivano vestiti con abiti sgargianti e di
gran fantasia, e poi gli umani ridevano, cantavano, suonavano piccoli strumenti,
erano insomma il divertimento preferito di grandi e piccoli.
Ma purtroppo si riproducevano ad un ritmo sconvolgente e molti se ne andavano
dalle residenze o venivano abbandonati.
E così gli umani selvatici divennero un problema: erano maledettamente infestanti,
saccheggiavano le dispense, danneggiavano le abitazioni incustodite, rovinavano i
raccolti, rubavano piccoli oggetti. Tutti i tentativi di allontanarli erano falliti, non
solo, gli umani selvatici avevano anche assalito dei piccoli.
Il giocattolo preferito dai piccoli era così divenuto un problema da risolvere: così fu
deciso di deumanizzare la città.
Mentre gli umani in cattività continuarono ad essere oggetto di divertimento, nei
confronti dei selvatici si scatenò una vera opera di bonifica con esche avvelenate e
gas letali.
L’esagono non tecnologico che confinava con la città, da millenni viveva la sua
esistenza in una pace idilliaca coi suoi seriosi alberi pensanti, con la sua vegetazione
lussureggiante, con la miriade d’animaletti che dalla foresta e dal sottobosco traevano
alimenti e protezione. L’esagono sapeva degli umani giocattolo portati da un lontano
pianeta e fino ad oggi non aveva permesso a nessuno umano di fermarsi nel suo
territorio.
Ma all’esagono erano giunte notizie della de-umanizzazione e questo non gli era
piaciuto, non comprendeva come animaletti così graziosi potessero rappresentare una
minaccia da giustificare misure tanto drastiche.
Era anche risaputo che agli umani piaceva giocare con la tecnologia e nel pianeta da
cui erano stati prelevati, questi loro giochi avevano generato dei danni irreversibili.
Ma nell’esagono non tecnologico, ove appunto le tecnologie non funzionavano,
questi pericoli ovviamente non erano presenti e gli animaletti simpatici avrebbero
potuto vivere e riprodursi in armonia con l’habitat circostante.
L’esagono dopo queste riflessioni aprì le barriere agli umani.
I sopravvissuti alla de-umanizzazione, malconci e con gli abiti multicolori stracciati
iniziarono ad inoltrarsi nella foresta destando la curiosità intorpidita degli alberi
pensanti che da millenni erano assorti in una realtà immutabile. I nuovi animaletti
sporchi e chiassosi furono per loro una novità sconvolgente ma poi alla curiosità si
sommò la simpatia.
Circa un milione di umani si stabilì nell’esagono, furono creati villaggi e per la prima
volta vennero coltivati i campi.
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BLACK-OUT
Quando negli anni ’70 del XX secolo avvennero i primi black-out nelle metropoli
americane, nessuno li mise in relazione con gli avvistamenti ufo che si erano
contemporaneamente verificati.
Infatti non passa giorno che un avvistamento di questo tipo non avvenga in qualche
angolo della Terra.
Quel giorno ovunque grosse macchine volanti, brunite e nere arrivarono come se
fossero giunte dal nulla.
Il giorno del contatto la relazione fu evidente, per quarantacinque ore il black-out fu
totale su tutta la Terra.
Enormi oggetti sfereggianti, bitorzoluti, neri, volarono sul pianeta, lentamente,
inseguendo le nubi, talvolta così bassi da sfiorare la terra.
Gli uomini pregarono, fecero festa, danzarono, sperarono.
Governi, militari, scienziati e semplici cittadini cercarono con ogni mezzo, dal più
sofisticato al più semplice, l’agognato contatto.
Una volta tanto chiromanti, astrologi, ufologi e seguaci della new age furono
concordi nel ritenere il giorno del contatto l’inizio di una nuova era.
A questi si aggiunsero storici, medievalisti, archeologi e predicatori televisivi, poi
arrivarono in blocco tutte le sette religiose e gli sciamani delle periferie urbane. Infine
i giornalisti di tutto il mondo raccolsero e amplificarono il coro.
Il giorno del contatto dal deserto dei Gobi a New York, dall’isola di Pasqua a Roma,
tutti attendevano, attendevano un nuovo Natale, la pace, l’amore universale, la
fratellanza con l’universo, il salto di qualità, la fine delle miserie umane: IL
CONTATTO, l’inizio della nuova era, l’età dell’acquario, l’avverarsi delle antiche
profezie.
Tutti erano convinti, anche i pochi scettici speravano.
Ma le enigmatiche sagome nere imperturbabili continuarono i loro silenziosi voli,
ondeggiavano, si fermavano nel cielo anche per settimane, sorde ad ogni aspettativa.
Chi tentò d’avvicinarle fu gentilmente, ma fermamente respinto.
Una potenza straniera accidentalmente si lasciò sfuggire dei missili: anch’essi furono
deviati e si dispersero lontano nel cielo.
Alle attese e alle speranze mal riposte subentrò prima la familiarità poi l’indifferenza.
I giornali parlarono sempre meno delle nere, enigmatiche macchine aliene.
Inflazione, disoccupazione, litigi politici, disordini razziali, guerriglie locali,
terrorismo islamico, fame nel mondo, epidemie, gare sportive e cronache rosa, pian
piano ripresero il posto di sempre sui quotidiani e sui notiziari televisivi.
Le onnipresenti macchine nere non fecero più notizia e i black-out ormai si
verificavano con sconcertante regolarità, ogni tre mesi un black-out di ventiquattro
ore fermava l’intero pianeta, ma tutto questo era ormai divenuto normale routine.
***
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Sono trascorsi più di trenta anni dal giorno del contatto e, le indifferenti macchine
nere continuano enigmatiche a sorvolare in maniera apparentemente disordinata e
casuale il pianeta.
E anche il black-out trimestrale è ormai divenuto un giorno festivo contemplato pure
dai contratti di lavoro.
Sempre mute ai più sofisticati tentativi di comunicazione, nessuno fa più caso ad
esse, dopo le speranze mal riposte, la rimozione.
Fanno ormai parte del panorama come le montagne e le nubi: la gente ha ben altro a
cui pensare!.
Le vediamo sullo sfondo delle cartoline illustrate e sui quadri dei pittori di periferia.
Quando si abbassano scendendo troppo vicino al suolo oscurando il sole, s’avverte
una sensazione di gelo nell’aria simile all’improvviso sopraggiungere di una carica
nube temporalesca.
***
Sono in un giardino pubblico coi miei figli che stanno rumorosamente giocando con
altri bambini.
È il giorno del trimestrale black-out, è giorno di festa, su una panchina poco distante
una bionda avvenente mi mostra generosamente belle gambe accavallate.
Tra il verde degli alberi scorgo palazzi che sorgono attorno al parco, più oltre
s’intravedono nell’aria tersa i picchi delle Apuane.
Il sole di tarda estate fa risplendere alcune piccole nubi bianche che attraversano
lentamente il cielo nella loro geometria frattale, alcune rondini volano
disordinatamente veloci rincorrendosi, in lontananza tre macchine volanti in quel loro
nero totale brunito, in fila indiana, lentamente e silenziosamente s’avvicinano
ondeggianti.
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LE METASFERE
(I Premio Letteratura, Alias, Melbourne, 2001)
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Poi è toccato al bar, prima i proprietari, poi sono svanite anche le due bariste e così il
caffè è sempre aperto e la gente si serve da sola.
Gli abitanti del mio paese sono continuati a diminuire, ma tutto sembra procedere
come se niente fosse, intanto le metasfere sono dovunque, rotolano indisturbate per le
strade sempre meno trafficate o volteggiano lente in aria.
Quando al mattino rientro a casa, ne trovo sempre due o tre che sono riuscite ad
intrufolarsi, apro la finestra e le spingo fuori, quelle che invece trovo al forno
seguitano a fare la fine che vi ho già raccontato.
Oggi al forno ero solo, il mio aiutante non si è visto, anche in paese non ho incontrato
nessuno.
Sono a casa e ho cercato la mia amica del cuore, il telefono mi dava il libero, ma
nessuno ha risposto.
Ho acceso la tivù e l’ho sintonizzata sull’unico canale che ancora trasmette e, che
ultimamente manda in onda ventiquattrore su ventiquattro solo bellissimi film uno
più recente dell’altro.
Ma anche questo canale oggi ha smesso di trasmettere, all’improvviso il film si è
interrotto e sono rimasto a fissare i puntolini che si rincorrevano sullo schermo.
Ho deciso che questa notte dormirò e non andrò a lavorare al forno, che faccio a fare
il pane se sono solo io a mangiarlo?
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Il prof. Merz era un ricercatore informatico molto apprezzato, i suoi studi sui circuiti
integrati e le sue innovazioni l’avevano messo sotto contratto presso un colosso
statunitense dell’informatica.
Il professore era anche uno studioso dilettante di psicoanalisi e questa sua passione
l’aveva portato a conoscenza del lavoro di Reich.
Era rimasto colpito sopratutto dalle ultime intuizioni reichiane riguardanti l’energia
orgonica che poteva essere la forza motrice e creatrice dell’intero universo.
Questa energia, che sarebbe suddivisa in due sessi, fece cadere negli USA il pensiero
di Reich nel ridicolo.
Ma il prof. Merz la pensava diversamente dai cittadini statunitensi e riteneva che
fosse possibile che un atto cosmico d’amore avesse generato le stelle.
Il punto di partenza dei suoi studi furono le scatole accumulatrici di energia orgonica,
la vendita delle quali per uso terapeutico portò Reich in carcere ove morì in maniera
quanto meno paradossale.
A queste scatole il prof. Merz applicò una serie di circuiti integrati di sua concezione
e teorizzò la possibilità che il big bang fosse stato causato dall’atto d’amore delle due
correnti sessuali dell’universo.
Approfondì poi alcune credenze mistiche presenti nel pensiero di varie religioni e le
portò a supporto delle sue argomentazioni.
Taoismo, yin yang, libro tibetano dei morti, testi alchemici e altro ancora, iniziarono a
far parte del suo bagaglio teorico.
Poi sviluppò la sua idea anche dal punto di vista matematico e tutto tornava alla
perfezione.
A quel punto il prof. Merz preparò una serie di diapositive per illustrare la sua teoria
e si sentì pronto a presentarla al mondo accademico.
Baroni universitari e scienziati di grido reagirono ostentando l’indifferenza più totale,
ma fu la stampa a stroncarlo definitivamente e a coprirlo di ridicolo.
Il nostro professore divenne agli occhi della gente il classico scienziato pazzo,
nessuno volle confutare la sua teoria o dibatterla, tutti semplicemente lo deridevano.
La multinazionale informatica decise di interrompere, senza addurre alcuna
motivazione, la collaborazione con lui e le università impedirono le sue conferenze:
era divenuto un ciarlatano.
Il professore fu molto amareggiato dalle reazioni, ma per niente rassegnato alla
sconfitta, decise di mettere in pratica le sue teorie, la cosa era ormai divenuta una
questione d’onore.
E fu così che iniziò a lavorare praticamente al progetto nel suo laboratorio privato.
Mettere in pratica ciò che aveva realizzato in maniera teorica risultò più complesso
del previsto, pensava di completare l’orgon-machine in pochi mesi, invece gli
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occorsero alcuni anni, e infine questo fu possibile grazie all’aiuto finanziario di alcuni
gruppi reichiani sparsi nel mondo che aveva rintracciato via internet, e grazie anche
al supporto teorico di alcuni studi su microchip, forse alieni, che aveva eseguito anni
prima su commissione di un gruppo di ricercatori che lavoravano a progetti maturati,
forse, nell'area 51.
L’orgon-machine occupava tutto il laboratorio ed era costituita da una sfera
apparentemente di cristallo delle dimensioni di una pallina da flipper, all’interno
della quale vi era il vuoto, attorno alla sfera circuiti integrati applicati a scatole nere.
L’energia orgonica, distinta nei due sessi, veniva raccolta dalle scatole nere,
successivamente amplificata dai circuiti, infine convogliata nella sfera, all’interno
della quale, nello spazio vuoto, i due flussi si univano.
Il prof. Merz via internet dette al mondo la notizia che la sua orgon-machine era
pronta e, che avrebbe dato inizio all’esperimento il 22 marzo alle ore 20, la stampa e
gli scienziati di tutto il mondo erano invitati.
L’annuncio cadde nel vuoto, la notizia fu riportata solo da una decina di giornali in
tutto il mondo e da qualche rara emittente televisiva.
In queste sparute citazioni si parlava di un tentativo di dimostrare la validità delle
teorie reichiane e il loro eventuale rapporto con il big bang, la notizia comunque
venne data in poche righe e in chiave semiseria.
Fu preso sul serio solo da due biondi ragazzini dodicenni, che un pomeriggio si
recarono a trovarlo, vollero vedere tutte le sue apparecchiature e lo subissarono di
domande. Il professore fu molto contento di questa visita inaspettata, poiché si rese
conto che questi due non lo stavano deridendo, ma al contrario erano molto
interessati al suo lavoro e possedevano anche notevoli conoscenze scientifiche. Il
professore li invitò per il giorno dell’esperimento, ma loro dissero che non avrebbero
potuto esser presenti poiché impegnati all’estero in un seminario. Promisero però che
avrebbero seguito l’esperimento, e in ogni caso, si risarebbero fatti vivi. Il professore
volle sapere ove studiassero, ma loro furono evasivi dicendogli che frequentavano un
college molto esclusivo che molto teneva alla propria privacy.
Il giorno dell’esperimento erano presenti sette giornalisti locali, due finanziatori dei
gruppi reichiani e tre curiosi del posto.
In tutto erano dodici persone più il prof. Merz; non uno scienziato, nemmeno un
cameraman.
All’ora fissata il prof. Merz premette un anonimo pulsante sulla console e i dodici
testimoni presenti iniziarono ad osservare la piccola sfera che divenne fluorescente.
Poi s’udì una forte vibrazione seguita come da un tuono lontano.
Un nanosecondo dopo la cessazione del tuono la Terra collassò all’interno della
sferetta e, mentre il tempo si fermava fu la volta del sistema solare a collassare.
La velocità periferica dell’implosione accelerò esponenzialmente, superando
ampiamente i limiti stabiliti dalla luce.
L’intero universo collassò nel vuoto della sferetta del prof. Merz per poi espandersi
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alla stessa improbabile velocità con cui s’era contratto, generando un nuovo big bang
che dette corpo ad un altro universo che da quel fulcro iniziò ad espandersi.
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A SCUOLA
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Franco disse che sì, aveva capito e si recò nella sua camera, si distese sul letto e iniziò
a riflettere, la sua vita era un cumulo di menzogne, tutto quello che lo circondava non
era mai stato reale, solo sua madre doveva esser vera, e poi quale madre? Forse era
stata lei a costruire il suo programma o l’aveva commissionato a qualche tecnico.
Più Franco pensava alla sua vita, più si rendeva conto di quanto i suoi ricordi fossero
scarni, elementari, troppo semplici per essere veri. Dalla scrivania tolse il
temperamatite, poi con un piccolo cacciavite liberò la lama, andò in bagno aprì
l’acqua calda, mise il polso sinistro sotto il getto e con la lama si aprì la carne del
polso. Vide il rosso sangue della vena che continuava a scorrere, ma l’acqua restò
limpida, poi il taglio si richiuse e Franco si rese conto di non aver provato alcun
dolore. Prima di tornare a letto Franco digitò al computer il questionario delle
richieste e sbarrò con una crocetta tutti i corsi di informatica compresi quelli delle
esercitazioni pratiche nel laboratorio. Poi si sdraiò sul letto e prima d’addormentarsi
lesse un paio di capitoli del libro di fantascienza che aveva da qualche giorno iniziato.
Si risvegliò pieno di voglia di vivere, una sensazione positiva che mai fino ad ora
aveva provato.
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LA VENDETTA
Era l’ultimo rimasto nell’area 51, la segretissima base che tanta letteratura aveva
generato. E la base non si trovava dove molti giornalisti l’avevano collocata, ma in
un’altra lontanissima e inaccessibile località del pianeta.
In area 51 si sperimentava la tecnologia aliena e il dott. Marzi era stato dalla NATO lì
assegnato poche settimane prima che l’invasione avesse avuto inizio.
Apparvero fluttuanti nell’atmosfera provenienti dal nulla parallelepipedi traslucidi di
una sostanza morbida, quasi gelatinosa, le loro dimensioni oscillavano da meno di un
metro a decine di chilometri. In pochi giorni erano presenti in ogni luogo della Terra.
Gettando nello sconforto scienziati e governi, i parallelepipedi sorvolarono l’intero
pianeta con movimenti lenti e ondeggianti.
Innocui all’apparenza, lentamente si organizzarono in lunghe file e il terreno
sottostante venne spianato da una fredda luce bianca: edifici, strade, montagne,
vegetazione e animali vennero lentamente polverizzati.
Nessun contatto, nessuna comunicazione, inarrestabili le file dei parallelepipedi, che
risultarono indistruttibili, stavano arando in mille fronti la Terra. Dopo alcuni giorni
dalle zone arate spuntarono strane piante, simili a canne di bambù che crebbero
rapidamente fino a raggiungere l’altezza di un albero.
In un anno la Terra con governi ed eserciti dissolti divenne un unico campo arato
coltivato a questa aliena monocoltura.
Folle di umani s’aggirarono senza meta, inebetiti, nella foresta, le canne-albero
trasudavano una linfa profumata. La linfa risultò altamente nutritiva, dunque
problemi di cibo non esistevano, ma la civiltà umana fu distrutta.
Il dott. Marzi seguì lo scomparire della civiltà dai monitor della sala comando della
base – era rimasto solo, gli scienziati furono i primi ad andarsene, poi anche i militari
uno ad uno fuggirono.
Seduto davanti alle sofisticate apparecchiature riceventi seguì l’agonia della Terra
fino a che tutte le emittenti, una ad una, si spensero.
Erano passati tre anni dall’inizio dell’invasione e i parallelepipedi in prossimità di
dove era sorta Londra avevano, saldandosi, edificato un cilindro di circa cinque
chilometri di diametro che si innalzava fino a trentamila metri.
Poi i parallelepipedi emisero dei sottili tentacoli cilindrici che si attaccarono alle
canne-albero e ne succhiarono la linfa: la vendemmia era iniziata.
Dopo la vendemmia apparvero altri parallelepipedi che rilasciarono un gas azzurrino,
pesante, che subito si diresse verso terra.
Uomini e animali sopravvissuti s’addormentarono senza più svegliarsi: la
disinfestazione parassitaria ebbe inizio.
Fu a questo punto che il dott. Marzi smise d’osservare ciò che succedeva alla Terra,
aveva visto abbastanza.
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Quando era giunto alla base, lui era l’ultima ruota del carro e si occupava dello studio
di alcuni meccanismi di provenienza aliena che generavano raggi phaser.
Sapeva che in area 51 si stavano sviluppando molteplici progetti su apparecchiature
rinvenute in ufo precipitati, ma anche su marchingegni similari trovati in una caverna
sottomarina e datati migliaia di anni.
C’era un meccanismo del quale aveva sentito parlare e che se ne occupava una
segretissima sottosezione: si pensava fosse un generatore d’antimateria.
Passò settimane collegato al computer prima di trovare ciò che cercava.
Area 51 era praticamente una città sotterranea autosufficiente e totalmente
computerizzata, tutto era ancora efficiente come prima dell’invasione.
Con un modulo di trasporto si recò nel laboratorio che cercava.
Era una stanza circolare, alle pareti quadri di comando e strani pannelli, nel mezzo
sopra una piattaforma un oggetto dalle angolature impossibili delle dimensioni di un
motore d’aereo costruito con un metallo luminescente, dal quale si dipartivano
centinaia di cavi colorati collegati al soffitto.
Il dott. Marzi rimase affascinato dall’oggetto e per oltre un anno consultò gli studi già
svolti dall’équipe di scienziati, poi dopo numerosi altri studi, prove e
approfondimenti fu sicuro di come avrebbe reagito nel luogo in cui si trovava, in caso
di accensione.
Predispose tutto per l’avviamento e per la prima volta, dopo oltre un decennio, uscì
dall’area 51.
Si trovò nella foresta d’alberi-canna, la Terra mai era stata così verde, ma ciò che lo
colpì fu il silenzio: non un animale, non il cinguettio d’un uccello e neppure il ronzio
d’un insetto.
Vagò a lungo nella foresta finché s’imbatté in un laghetto, si tuffò vestito e nuotò a
lungo.
Uscì dall’acqua, si sfilò la tuta e nudo s’addormentò sulla soffice terra scaldato dai
raggi del sole che filtravano tra la vegetazione.
Quando si svegliò era notte, restò immobile fissando le stelle fino al sorgere del sole.
Poi piangendo tolse da una tasca della tuta una scatoletta nera con un pulsante rosso e
lo premette.
Il marchingegno alieno, nelle profondità dell’area 51 iniziò ad avviarsi.
Dopo dodici minuti esatti, alla periferia della Via Lattea, una luminosa nova nacque
in tutto il suo splendore.
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TROPPO TARDI
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SEGNI
Prendo dalla credenza la tazza con il colore blu e mi disegno delle onde sul volto,
sulle braccia e sulle gambe.
Mi infilo il giubbotto di pelle senza maniche, i pantaloncini di fustagno, gli stivali di
cuoio, mi metto i guanti e a tracolla lo storditore, poi fisso il machete alla cintura.
Chiudo l’appartamento, inserisco l’antifurto ad alta tensione e guardingo scendo le
scale.
Esco dalla porta principale e mi avvio lungo il marciapiede stando lontano dalle
carcasse delle auto che lo fiancheggiano.
Una rada pioggia tiepida color marrone scende dal cielo, come tutti i pomeriggi.
Un ragazzo fa capolino da un portone, vede i miei colori da caccia e subito scompare
all’interno.
Proseguo lungo la via e i miei sensi avvertono dei passi provenienti da un
sottopassaggio, mi nascondo con lo storditore già puntato e vedo uscire un uomo
grasso con i segni in faccia del funzionario governativo.
Abbasso subito lo storditore e gli rivolgo un cenno di saluto, al che la sua faccia, che
ha sulle guance disegnati due cerchi rossi, accenna un sorriso e mi fa: «Buona
fortuna, fratello.»
Attraverso la voragine che interrompe il viale ed entro in quello che fu un grande
magazzino.
Su vecchi cartoni una ragazza sta dormendo, sui seni scoperti ha disegnato il simbolo
di Venere, è incinta, dunque intoccabile, le lascio alcune monete accanto e proseguo.
Salgo al piano superiore e trovo dietro una catasta di vecchi televisori due giovani
che stanno facendo l’amore, non hanno alcun contrassegno dipinto.
Stordisco l’uomo e afferro la ragazza che nuda mi abbraccia le gambe, segno di resa
che io accetto.
Estraggo il machete e taglio ritualmente l’uomo, metto da parte con cura i pezzi
consentiti commestibili, li infilo in tre sacchetti di plastica che consegno a lei.
Poi da una delle mie tasche estraggo un sacco nero e in esso metto le ossa, la testa e
le parti non consentite.
Mi carico il sacco sulle spalle non prima d’aver segnato col sangue della preda una X
sulle mie guance e su quelle di lei.
Usciamo, ci dirigiamo verso la più vicina bocca crematoria dove getto il sacco nero
con i resti mentre mentalmente recito una preghiera per la mia preda, poi estraggo dai
pantaloni un bastoncino d’incenso, lo accendo e lo infilo sul portaincenso che è sopra
la bocca crematoria.
Con la mia nuova lei, che vedo giovane e bella, ci rechiamo nel mio appartamento e
sistemiamo il frutto della caccia.
Poi mi spoglio, lei è già nuda, e insieme facciamo una doccia purificatrice.
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ALEXIA
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IL DERVISCIO
Il derviscio rotante aveva iniziato a danzare da bambino, nella sua città c’era una
moschea ove i maestri insegnavano questa arte che era soprattutto una mistica
preghiera.
Le lezioni di musica e di danza si alternavano ad uno studio profondo dell’islam
filtrato attraverso una conoscenza sufi, con un forte sottofondo zoroastriano.
A quindici anni il derviscio già si esibiva pubblicamente con altri danzatori molto più
anziani di lui.
Coltivava anche un’altra passione, la pittura. La sua pittura era astratta e i suoi quadri
erano molto apprezzati anche fuori dal suo paese.
Mentre in estasi ruotava si rese conto che il suo punto di consapevolezza lentamente
si spostava e in quei momenti il derviscio scivolava verso differenti realtà.
Quando riuscì a controllare con sicurezza lo spostamento il derviscio decise
d’abbandonare i compagni e si trasferì nella campagna londinese.
Aveva acquistato una casa colonica che trasformò in studio di pittura, una grande
stanza fu invece arredata per la sua danza con tappeti sul pavimento, arazzi alle pareti
e un imponente impianto stereo in un angolo.
La vendita dei suoi quadri, affidata ad un gallerista londinese, stava andando a gonfie
vele e il derviscio sempre più affinava la sua danza che sapeva essere un atto mistico.
La musica suonava per ore e lui ruotava, ruotava al suo ritmo, la rotazione spingeva
la mente alla preghiera mentre il suo punto di consapevolezza scivolava, non più
incontrollabile, ma controllato, e fluttuava verso le più varie dimensioni, e sempre più
con esattezza riusciva a scegliere il punto che lo trasportava nelle realtà da lui volute.
Una in particolare l’attraeva prepotentemente, il suo ruotare lo trasportava su un
verde morbido prato colmo di fiori, in questo luogo si vedevano boschi lontani, l’aria
profumava d’incenso, il caldo sole diffondeva una morbida luce dorata.
Spesso sul prato bambini giocavano e tutto trasudava pace e serenità.
Un giorno mentre nella sua stanza ruotava davanti a due amici pittori che se ne
stavano seduti su cuscini in un angolo, il derviscio spostò il punto di consapevolezza
verso il prato e il mondo che tanto amava.
Gli amici esterrefatti lo videro dapprima farsi trasparente, poi pian piano sparire
mentre seguitava a girare, a girare sempre più velocemente.
Il derviscio si trovò sul prato che tanto amava, fu circondato da bambini che lo
invitavano a danzare. E lui iniziò a ruotare, a ruotare mentre nell’aria si levavano le
melodie che lo guidavano nella danza.
Sulla terra il derviscio non fu mai più visto.
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IL RITORNO
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RADICI
All’interno dei colori d’un fiore sono alla ricerca del mio io, pian piano mi addentro
nelle zone limite tra una sfumatura e l’altra e infine scorgo la configurazione frattale
più familiare, l’insieme di Mandelbrot.
Mi spingo parallelo al perimetro fino ad un lungo braccio, il più lungo dell’insieme e
mi appare la configurazione della croce nella quale mi identifico.
Mi lascio scivolare sulle morbide linee della croce, ne assaporo i contorni familiari, la
percorro in ogni suo spazio, infine mi tuffo nel suo centro addentrandomi
nuovamente in un più piccolo insieme che percorro fino al braccio, poi individuo la
croce e di nuovo mi tuffo verso un ancor più piccolo insieme e così via assaporando
l’autosomiglianza.
È un gioco, una ragione di vita, un atto mistico che potrei condurre all’infinito.
L’uomo ha scoperto molto tempo fa queste zone di confine, poi ogni singolo
individuo si è identificato in una piccola porzione di esse e il frammento è divenuto il
nome e l’individuo.
Il tutto ebbe inizio con le scoperte sulle geometrie frattali, dall’insieme di Cantor e di
Julia all’attrattore di Lorenz e poi il principio d’indeterminazione di Werner
Heisenberg e ancora Lorenz con la teoria del battito d’ali d’una farfalla: il cosiddetto
effetto farfalla.
Il caos svelava i suoi segreti mentre i sistemi complessi collassavano uno ad uno.
E anche la plurimillenaria civiltà umana collassò sotto la spinta e la realizzazione
delle universali leggi del caos.
E il collasso portò nuova conoscenza, le zone limite, di frontiera, si rivelarono fonti di
vita.
Lo sviluppo delle equazioni differenziali, degli algoritmi, le zone di attrazione
magnetica, i campi gravitazionali, le variazioni cromatiche, tutto portava ad un nuovo
mondo che divenne percepibile all’uomo senza l’ausilio dei computer.
E l’umanità trovò la propria ragione di essere, le proprie radici, il proprio futuro, ove
individuo e specie s’intersecavano in volute geometriche sempre più complesse.
Ed è nell’insieme di Mandelbrot che l’umanità ha incontrato altre culture.
L’insieme è ovunque e lo vado ricercando nei colori dei fiori, nei raggi del nostro
sole, nel magnetismo terrestre, nella bioenergia del mio o degli altri corpi.
Nell’armonia del caos la vita diviene una continua ricerca, un crogiolo di conoscenze
e di esperienze.
Gradualmente abbiamo preso dimestichezza con le nuove realtà e man mano che la
conoscenza s’ingigantiva le percezioni delle zone di frontiera si sono fatte più visibili,
più reali, poi estremamente concrete. Il tutto svelando i suoi misteri risulta
estremamente armonico, l’energia ci nutre, passiamo la maggior parte delle nostre
giornate ad affinare l’esplorazione degli insiemi che si concatenano all’infinito, da
soli o in gruppo.
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Sappiamo d’aver imboccato la strada che porta ad una nuova civiltà, di tipo ben
diverso da quelle nel nostro passato.
L’evoluzione del caos modificando le percezioni sta modificando anche i nostri corpi.
Domani sarà una giornata speciale, con alcuni miei simili navigherò in un nodo
gravitazionale che solo di recente è stato individuato, mi addentrerò nelle radici
dell’umanità e nel suo destino, ne assaporerò le coincidenze.
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REGALO DI NATALE
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«Ora viene il bello, mi dice, non sono della tua Terra, vengo da un lontano pianeta.»
«Dai! Falla finita» dico io dolcemente baciandola.
Si scosta: «No! È vero, sei pronto a vedermi come realmente sono?»
«Certo che sono pronto» le dico pensando ancora che stia scherzando.
«Se non ti va, dimmelo e non ne facciamo di nulla» sta affermando ciò molto
seriamente e comincio ad incuriosirmi.
«Vuoi forse spaventarmi sfilandoti la pelle e sotto ne esce fuori un rettile come in
quel telefilm?»
«No, fa lei, è una cosa seria, ma non è niente d’orribile, però per te sarà molto strano,
preparati e se non ti va, dillo, farò marcia indietro e tutto sarà come prima.»
Prendo la sedia e mi ci siedo a cavalcioni accanto al letto fissandola.
«Dai vai avanti con lo spettacolo, mi hai incuriosito, ora sono veramente pronto a
tutto.»
Con l’indice della mano sinistra si tocca la fronte in tre punti, ed ecco, il mutamento
davanti ai miei stupefatti sensi, lentamente avviene.
I suoi occhi divengono più grandi e rotondi, i capelli acquistano riflessi blu
luminescenti, anche la pelle si trasforma, è ora come fosse composta di squame
dorate e intorno a lei una sottile luminescenza, sempre d’oro, si diffonde.
È ancora lei, ma non è solo più bella, è bellissima, e i lineamenti modificati sono
splendidamente alieni.
Le prendo la mano che si è fatta ancor più sottile e più lunga e la bacio su tutte le sue
sei dita.
«Mi piaci da impazzire, come prima, più di prima.»
Mi spoglio, le sono sopra, le chiedo: «Usi la spirale o una pillola aliena?»
Lei sorride: «Vedo che non ti sei spaventato e che ti piaccio ancora.»
«Moltissimo amore, non sai quanto.»
«Non preoccuparti, non posso rimanere incinta, le nostre due razze sono
incompatibili, almeno per ora, ma i nostri cervelloni ci stanno lavorando sopra.»
La penetro mentre la bacio e inizio ritmicamente a possederla.
«No, sussurra, con noi è diverso, devi star fermo dentro di me.»
«Come con una thailandese, faccio io e poi, obbedisco!»
Sento delle vampe di calore che dal membro s’irradiano verso il resto del corpo
mentre la sua cosina mi stringe sempre più forte.
Le vampe seguono i ritmi cardiaci, il mio e il suo, che ora si sono sincronizzati e
battono all’unisono e li percepisco chiaramente, anche la contrazione sul membro
segue lo stesso ritmo, quasi una musica.
La sua luminescenza dorata pulsa seguendo anch’essa i ritmi cardiaci, poi lentamente
la luminosità invade anche il mio corpo e divengo dorato, le nostre membra sembrano
farsi fluide, si mescolano, onde di pensiero s’incontrano e vi è interscambio
d’emozioni mentre la melodia si fa sempre più complessa.
Siamo un sol corpo luminescente, pulsante, musicale, quando sento l’orgasmo
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lentamente salire e poi sommergerci con lunghe ondate ritmiche musicali sempre più
incisive e colorate.
Raggiunto l’apice c’è quasi come un lampo e il rumore del tuono, tutto si fa
luminoso, accecante, poi molto lentamente c’è dissolvenza e ci ritroviamo distesi
l’uno accanto all’altra, bagnati come se fossimo usciti dalla doccia, innamorati più di
prima.
«Cazzo, anche gli effetti speciali» mi scappa detto sottovoce.
«Cosa?»
«Niente amore.»
«… »
«Stella sei fantastica, non ti lascerò mai!»
«Se non altro non te la sei data a gambe levate!»
«Non ci penso neanche.»
«Buon Natale, amore» fa lei e da sotto il cuscino estrae un piccolo cubo azzurro
leggermente fluorescente «è il tuo regalo di Natale.»
«Bellissimo!» dico, tenendolo in mano e osservandolo con curiosità «Ma cos’è?»
«Cos’è e a cosa serve te lo spiegherò nei prossimi giorni, vedrai ne rimarrai
contento.»
«Per te ho qualcosa di speciale, ma tremendamente terrestre» le dico e dallo zaino tiro
fuori due pacchetti tutti infiocchettati.
Lei apre il primo e dentro c’è la videocassetta “Regalo di Natale”, il film di Pupi
Avati che quando lo vedemmo insieme le era piaciuto un casino, nell’altro il body più
sexy che sono riuscito a trovare nei negozi di lingerie d’Urbino.
Non la lascio rivestire, posiamo i regali sul tappeto e ricominciamo a baciarci…
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Venere-Afrodite, dea del desiderio, nacque nuda dalla spuma delle onde del mare e
cavalcando una conchiglia giunse prima all’isola di Citera, poi fissò la sua dimora a
Pafo nell’isola di Cipro. I fiori sbocciavano ove Venere poggiava i suoi leggiadri
piedi e a Pafo le Stagioni, figlie di Temi, la vestirono e la ricoprirono di fiori e
gioielli.
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splendente.
L’elastico dell’orizzonte è tornato al suo posto reale, l’oscillazione ha coperto solo
una ventina d’anni e di non più di dieci chilometri.
Rifletto su coloro che erano già santi in vita, almeno secondo le credenze popolari,
Cristo, Giovanni XXIII, Padre Pio, Madre Teresa di Calcutta, Gandhi
Venere nacque dalla spuma delle onde fecondate dallo sperma di Urano che Crono
aveva scaraventato nel mare. Afrodite, che significa “nata dalla schiuma” nacque
dal Caos e danzò sul mare. In Siria e Palestina era venerata con i nomi di Ishtar e
Ashtaroth.
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NASCITA DI SARA
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il numero degli sciamani umani che l’hanno attuate si conta sulle dita di una mano.
Qualche nostro lontano antenato abusò un po’ dei suoi poteri combinando tutta una
serie di casini, è forse da questi abusi che nacque il nostro mito per la gioia di scrittori
e poeti romantico-decadenti.
Portarsi dietro la bara e dormirci dentro di giorno su uno strato di terra presa dal
cimitero natio? Che schifo!
Ho scoperto uno splendido materasso ad acqua vibrante con il telecomando che non
abbandonerei per nessun’altra cosa al mondo.
L’immunodeficienza ci ha creato qualche problema, alcuni di noi hanno preso il
contagio del secolo, non è mortale ma chi è stato colpito risulta affetto da una forte
confusione immunitaria e sta raccattando un malanno dietro l’altro.
E che dire dei nostri bei canini, tanto evidenziati dalla letteratura gotica di tutto il
mondo?
Dovete sapere che sono denti mobili che sporgono solo in certe occasioni (nelle
occasioni adatte).
Bene, la maggior parte di noi ha dei grossi problemi proprio a questi denti, a causa
del delicato meccanismo organico in cui sono inseriti e i nostri specializzati dentisti
praticamente ci hanno costantemente in cura.
Devo recarmi dal mio personale dentista almeno una volta il mese, è questa divenuta
una scadenza fissa per la maggior parte di noi.
Mi diletto nello studio dell’archeologia e sono numerosi i testi e gli articoli che ho in
passato pubblicato, sotto falso nome ovviamente.
Siamo in pochi e sparsi per il mondo, ma ci teniamo costantemente in contatto.
Problemi economici non ne abbiamo per le cointeressenze che collettivamente
possediamo in molteplici attività produttive.
Nei secoli ci siamo perfezionati nell’arte di non apparire e oggi siamo totalmente
anonimi da essere per l’opinione pubblica, inesistenti.
Ho avuto un solo grande amore che mi ha dato due figli maschi.
Ho visto la mia amata sfiorire, invecchiare e morire, ma il mio affetto per lei è tuttora
immutato.
I miei due figli sono nati totalmente umani e con tristezza li ho visti consumarsi negli
anni.
Ho seguito la mia progenie con attenzione finché è nata Sara, una mia bis bis bis
nipote.
E Sara è della razza antica, aveva solo pochi giorni quando ho avvertito il contatto
familiare della sua mente.
La nascita della bambina ha risvegliato in me la felicità, in famiglia mi credono un
lontano secondo zio, tornato ricco dall’Australia, ove era emigrato in gioventù.
Alleverò Sara, senza dar nell’occhio, alla saggezza dell’antica razza, c’è già un posto
per lei nella nostra scuola; man mano che cresce assomiglia fisicamente sempre più a
colei che fu la mia adorata moglie.
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Noi proteggiamo ferocemente la nostra rara e preziosa prole, forse è solo in queste
occasioni che risultiamo anche veramente pericolosi, è come se in noi scattasse un
meccanismo ancestrale e la vigilanza ferrea può divenire anche crudele pure nei
confronti degli umani.
Ma l’inaspettato evento natale ha risvegliato in me tutti gli interessi che ultimamente
si erano assopiti, in particolare gli interessi artistici.
Ho ripreso a dipingere un affresco che avevo da decenni abbandonato in una sala
della mia dimora, rappresenta un paesaggio collinare in piena vegetale forza
primaverile, in un prato tre centauri giocano con alcuni umani nudi.
Tra le colline che s’intravedono nello sfondo è posata un’argentea astronave aliena a
forma sferica, due lune s’intravedono all’orizzonte poste tra la presenza di
un’inquietante torre nera.
Dimenticavo, non navighiamo in internet, il grande divertimento del momento di voi
umani, ma abbiamo un network tutto nostro, per voi irraggiungibile perché su basi
più biologiche che elettroniche, ma anche noi siamo stati contagiati dalla moda del
nuovo millennio: tutti a comunicare che stanno comunicando.
E così collegati nella nostra rete quasi-neurale riusciamo talvolta a materializzare i
nostri desideri e ad esprimere la nostra quasi completa libertà e felicità d’esistere.
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ATANOR
La colonna di fuoco sempre più brillante sovrastava ormai l’intero pianoro desertico e
richiamava gli spiriti più irrequieti.
I carnevincolati fuggirono lontano al suo apparire, ma altri esseri più eterei si
radunarono in circolo.
E il circolo scelse il perfetto, il puro, l’immacolato e lo riempì delle memorie
collettive trasformandolo nell’unico, nell’eletto, nel messaggero.
Il messaggero fattosi ormai visibile come la colonna di fuoco anche ai carne
vincolati, cominciò ad assemblarsi e assunse forma vagamente sferica.
La sfera messaggero si caricò del gelo, un gelo totale, quello dell’universo fermo,
quello degli atomi immoti e lentamente rotolò verso la colonna di fuoco che ardeva
sempre più alta e imponente.
Scariche elettriche zigzagando esplosero con sempre maggior veemenza, mentre la
sfera messaggero s’avvicinava sempre più alla colonna di fuoco etereo.
Poi vi fu il tocco: il contatto ebbe inizio e le due forze opposte ma interplementari si
fusero e l’energia rallentò seguendo l’orizzonte degli eventi.
Le forze base dell’universo differenziate dalla loro sessualità, energie viventi e
vivificanti, creatrici del sogno e del concreto, eterne nella loro immobilità cinetica, le
due energie sempre presenti nell’uno che si muta nei molteplici per ritornare
immancabilmente all’uno, in un feed back senza fine perché senza tempo.
Al rallentamento seguì lo stop e nuova materia fu creata per servire l’espansione
dell’universo.
L’arcano rito si compì con velocità quasi istantanea, ma sulla sua durata reale nessun
senziente potrà mai pronunciarsi, poiché anche il tempo fu fermato.
Poi la colonna di fuoco si dissolse e la sua energia affievolita si disperse nell’etere.
Intanto la sfera messaggero riapparve, ma sbiadita e termicamente ininfluente e l’uno
perse il sovraccarico che si ridistribuì tra i molteplici, ciò che era stato unito, fu
nuovamente diviso.
La nuova materia generata dal rito rallentatore dell’energia si collocò sotto forma di
plasma a fianco di una remota galassia.
Il pianoro desertico riprese i suoi contorni e gli esseri non carne vincolati uno ad uno
si dispersero, mentre pian piano gli animali che erano fuggiti iniziarono
svogliatamente il rito del ritorno.
Così la mistica della creazione ancora una volta si svolse con le sue leggi ferree,
immutabili ed eterne.
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Fuori dal tempo, nelle aule che da eoni sono la dimora degli Ainur si materializzò un
nuovo oggetto, un cristallo composto da pura energia, dalle angolature impossibili e
dalle dimensioni non calcolabili, perché sfuggente nella sua forma e nelle sue
angolature alla mente umana.
Gli Ainur lo raccolsero al suono della loro multipla sinfonia e lo posero con amore a
fianco di altri, simili e diversi, ma tutti autosomiglianti nel loro armonico crepitio
energetico.
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ROTEANDO, ROTEANDO
Il derviscio roteante aveva iniziato il suo ballo da bambino, nella sua città c’era una
moschea ove i maestri insegnavano quest’arte che era soprattutto una mistica
preghiera.
I dervisci roteanti appartengono alla tradizione sufi e con la loro danza, indicano ai
fedeli come accostarsi alla divinità.
Le lezioni di musica e di danza si alternavano allo studio profondo dell’islam filtrato
attraverso una conoscenza sufi con un forte sottofondo zoroastriano.
Roteando con la mano sinistra abbassata verso la terra e con la destra rivolta al cielo,
la danza inizia con la preghiera e diviene sempre più estatica, nelle continue rotazioni
che spingono i ballerini alla trance mentre rappresentano il movimento dei pianeti
intorno al sole.
Il derviscio aveva compiuto un’intensa preparazione, che prevedeva dolorose
penitenze e preghiere per caricarsi di infiniti significati simbolici che si
manifestavano anche nella perfezione dell’abbigliamento, dove il lungo vestito
bianco simboleggia il sudario, il mantello nero la tomba, la sciarpa sulla testa indica il
ruolo di mediatore tra il divino e l’umano.
La musica scaturisce da numerosi flauti ney, il flauto obliquo con canna a sette fori,
strumento dalle forti caratterizzazioni simboliche, incontro tra il soffio divino e la
materia umana. A quindici anni il derviscio già si esibiva pubblicamente con altri
danzatori più anziani di lui. Coltivava anche un’altra passione, la pittura.
La sua pittura era astratta, si potrebbe definire informale con forti assonanze zen e i
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Da oltre cento anni il servizio militare era stato abrogato in tutto il pianeta, l’unico
obbligo che rimaneva ai giovani ambosessi era quello di prestare per sei mesi il
servizio civile.
Max a venti anni era stato chiamato a questo adempimento di legge e dopo tre mesi di
duro addestramento venne per la prima volta aviotrasportato per una operazione di
pace.
Quando coi cuscinetti ad aria scesero nell’area prefissata furono informati che si
trattava di un lavoro di routine, una bonifica metropolitana.
Un’area di palazzi fatiscenti era stata contrassegnata con i moduli segnaletici che,
creavano un muro virtuale fluorescente attorno ad una serie di vecchi edifici.
A Max fu fornito un fucile laser ad alto potenziale, così come agli altri commilitoni,
l’operazione ecologica di bonifica consisteva nel polverizzare il quartiere fatiscente
contrassegnato, iniziando dai tetti per arrivare fino alle fondamenta.
Max si guardò intorno per cercare di capire in quale area urbana fosse stato reso
operativo, ma gli edifici erano talmente disastrati e fatiscenti che potevano
appartenere ad una qualunque metropoli del pianeta.
A Max fu indicata la sua area operativa e per prima cosa mise in posizione il laser
bloccandolo saldamente al terreno col treppiede gravitazionale, poi dallo zaino tirò
fuori la sua tuta operativa e iniziò ad indossarla seguendo mentalmente le istruzioni
che gli erano state insegnate durante il corso d’addestramento.
La tuta lo ricopriva totalmente, solo la testa era rimasta scoperta, così attese
pazientemente il capopattuglia che dopo un breve lasso di tempo arrivò su una
piattaforma anti-g sulla quale erano fissati i caschi.
Il capopattuglia prese il casco azzurro con su scritto in oro MAX e iniziò ad
incernierarlo alla sua tuta.
Dopo averlo fissato ne regolò le funzioni e i sofisticati apparati elettronici iniziarono
ad emettere un lieve ronzio.
Max adesso non riceveva ordini, ma nei suoi orecchi rimbombava acid rock, sulla sua
sinistra il visore stava proiettando immagini TRI-TV di balletti sexy.
Alla musica rock si sovrappose l’ordine di tenersi pronti e Max si organizzò in
posizione operativa, togliendo la sicura al laser, inquadrando il settore assegnato, poi
regolando il diametro del raggio secondo le coordinate che si sovrapponevano al
balletto, e infine inserì la sequenza automatica di fuoco sempre seguendo le istruzioni
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teletrasmesse.
All’ordine «FUOCO!» che giunse visivo e in audio, la musica divenne quella dei
Rolling Stones degli anni settanta e al posto del balletto giunsero le immagini di
velocissimi spogliarelli ancor più spinti dell’hard.
I corpi nudi femminili che si agitavano ritmicamente e convulsamente nell’orgasmo
si sovrapponevano agli edifici fatiscenti che lentamente si stavano sgretolando colpiti
da una ragnatela di raggi luminosi.
Il rock si faceva intanto sempre più ritmato, violento, duro, ossessivo, accelerato.
Ad un tratto a Max tra polvere degli edifici sembrò di scorgere dei movimenti che
non si armonizzavano col disgregarsi del quartiere.
Mise a fuoco l’apparato ausiliare ottico, ed esterrefatto vide donne, bambini, anziani
che nei palazzi e nelle strade in via di bonifica, urlavano, correvano, per finire poi
polverizzati o bruciati quando venivano colpiti dai fasci di luce polarizzata.
Max si tolse il casco e per la prima volta in vita sua svenne quando avvertì un forte
odore di carne arrostita.
In breve tempo gli operatori del servizio civile bonificarono coi loro laser l’area
portando così a buon fine l’operazione d’ecologia urbana.
Max fu caricato svenuto su una barella, aviotrasportato nell’ospedale del servizio
civile più vicino, curato per tre giorni da un’intossicazione da polveri che gli aveva
anche causato sindromi allucinatorie, subito dopo dismesso e in anticipo congedato.
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SCAGLIE DORATE
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Il Cronodrome doveva il suo nome alla gran quantità di ologiochi ambientati nel
passato che possedeva quando dieci anni fa fu inaugurato.
Oltre agli ologrammi vi erano un’infinità di programmi neurali che attraverso gli
induttori delta ti trasportavano direttamente nelle arene dei circhi del romano impero,
nelle lande di cavallereschi tornei o a piacere nei giochi di guerra di tutte le ere,
oppure ti consentivano di fare duelli, in apposite sale, più o meno virtuali.
Oggi il Cronodrome è una realtà ben più complessa, oltre ai giochi di ruolo e, di
tradizione troviamo intere sale ove attraverso le piastre neurali ci si può connettere
con le stelle del simstim e vivere la loro vita in tempo reale.
Poi ci sono i computer bar ove puoi degustare ogni tipo di droga conosciuta, legale e
illegale, e interfacciarti con ogni tipo d’intelligenza, umana o artificiale, rintracciabile
in rete, sale da gioco ricopiate in ogni pur minimo dettaglio dai casinò del ventesimo
secolo, boutique chirurgiche pronte a fornire ogni tipo d’impianto, teatri ove le
migliori (e le peggiori) compagnie si esibiscono dall’opera lirica ai balletti hard.
È divenuto, insomma, un tempio del piacere e qui ti puoi togliere ogni sfizio legale
od illegale, reale o virtuale.
Il Cronodrome è gestito dalla yakuza che da molti anni ha assorbito ogni mafia
conosciuta, vincente o perdente, con il placet dei governi, delle associazioni
sovranazionali e delle multinazionali, che hanno visto così la mala organizzarsi e
autogestirsi entro limiti prestabiliti e concordati.
Non è che la vittoria della yakuza sia stata indolore, ma chi si è opposto al nuovo
ordine globale è stato praticamente fatto a fettine coi fili monomolecolari.
Questo tipo d’esecuzione ha assunto risvolti simbolici per la mafia, sostituendo gli
antichi rituali: incaprettamento, sasso in bocca, lupara e altre antiche piacevolezze.
Per avere accesso al Cronodrome, si entra in una cabina ad un solo posto: uno si
siede, infila la propria carta di credito nell’apposita fessura mentre uno scanner
retinale controlla la proprietà e la consistenza valutaria della carta.
Se il tuo conto è ok, cioè se hai almeno cinquemila crediti spendibili, la porta
d’ingresso si apre.
Non ho quasi mai un credito perché ho l’abitudine di spendere sempre di più di quello
che guadagno, ma il mio conto è sempre ok perché il microchip è di mia ideazione e i
crediti sono sempre superiori a cinquemila, ma questi crediti non li spendo certo nel
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È nel piazzale e sta per entrare nel suo modulo di trasporto quando lo chiamo.
Lui si volta e in quel preciso istante letteralmente esplode, imbrattando anche me di
materia organica.
Con la coda dell’occhio, mentre sto vomitando, vedo un’ombra che mi sembra
indossi l’inconfondibile divisa dei “bambini dell’islam”, una banda di fanatici
schizzati che scimmiottano i vecchi terroristi islamici, ma in realtà se ne stanno tutti i
giorni collegati in rete, bombardati da induttori delta che li fanno vivere nel giardino
delle Uri: visto che l’aldilà è problematico, loro preferiscono godere ora, sparandosi il
paradiso mentre sono ancora in vita.
Che i bambini abbiano dichiarato la guerra santa alla yakuza? Mi sembra proprio
improbabile.
Entro nel mio modulo già schifosamente sporco insozzandolo definitivamente e mi
reco nel cuballoggio che ho in affitto, getto gli abiti nell’inceneritore e mi sparo una
doccia.
Quando esco dal bagno la TRI-TV sta trasmettendo un comunicato: il Cronodrome è
collassato, si pensa che qualche terrorista suicida abbia liberato molecole
d’antimateria che hanno generato un’implosione sferica che lo ha totalmente distrutto
uccidendo all’istante tutti coloro che si trovavano all’interno.
Polizia e uomini della yakuza hanno bloccato ogni uscita dalla città e la stanno
congiuntamente rastrellando alla ricerca dell’ipotetico commando.
La popolazione è invitata a collaborare e a rimanere nelle proprie abitazioni fino a
nuove disposizioni.
L’ho scampata questa volta proprio per un pelo, grazie al cow boy, ho voglia di non
pensare e attivo la piastra neurale collegandomi ad una stella del simstim scelta a
caso.
Sono in smoking bianco, è notte, mi trovo sul ponte di uno yacht e sto ballando con
una bellissima ragazza vestita all’ultima moda con indosso solo un trasparente sari
rosa, i suoi capezzoli sono disegnati di blu e li sento strusciare sul mio corpo,
un’orchestra intona melodie new rap e tra le altre coppie che ballano scorgo altre
stelle del simstim.
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Questo senso estetico della Scienza, che seleziona l’eleganza in certe formule
matematiche, permette all’errore di risaltare come una nota sbagliata in un ritmo di
pensieri e schemi creativi. Il ritmo che troviamo nei numeri, nella Natura e nell’Arte
“è la base” come dice anche M.Pavel “delle figurazioni in ambito temporale e
auditivo (musica, canto) spaziale o visivo (arte, architettura) ”. Si pensi a questo
proposito a certe decorazioni arabo-islamiche e allo yantra (immagine che conduce
alla meditazione) induista nepalese risalente al 1750 circa oppure all’emblema
religioso ebraico: la stella a sei punte di David, che ricordano in modo incredibile le
elaborazioni generate per iterazione di una delle figure frattali più famose, descritta
per la prima volta nel 1904: la curva di Helga von Koch detta a “Fiocco di neve”.
(Ruggero Maggi)
Ero un killer della yakuza, anzi ero proprio il miglior killer e il più sofisticato sulla
piazza.
Avevo con la yakuza un contratto iniziato da più di quindici anni, e il mio datore di
lavoro aveva investito su di me, come avevo cominciato, invece, è un’altra storia.
Ero in possesso di un fisico invidiabile e quasi indistruttibile grazie a tutta una serie
di impianti, erano in me incorporate protesi sia d’attacco che di difesa.
Avevo possibilità di visione notturna e telescopica, armi letali innestate sia da taglio
che laser, ero una perfetta macchina per uccidere con addestramento militare, potevo
togliere la vita con le mie protesi, con le arti marziali, con ogni tipo di arma, dar la
morte per me era un’arte.
Quella domenica mattina mentre alla TRI-TV stavo guardando una telenovela
s’accesero i led dell’elaboratore e mentre la stampante entrava in funzione apparve
sul video una piantina della città con un percorso dettagliatamente segnato che dal
mio appartamento portava ad una abitazione a circa cinque chilometri di distanza,
seguivano poi i codici d’accesso all’appartamento contrassegnato, che si trovava al
dodicesimo piano, la foto dell’eliminando, l’indicazione “è solo in casa”, il tipo
d’arma da usare “coagulatore a raggio”, e il momento dell’operazione “subito”.
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«Io sono Leila, dimmi almeno grazie» e mi mostra ciò che resta dei miei abiti: la tuta
insanguinata tagliata in sei o sette brandelli.
«Hai avuto proprio un casino di fortuna che il killer t’ha fatto a pezzi col filo
monomolecolare proprio davanti ad un autodoctor pubblico, e ancor più culo hai
avuto che io fossi sul marciapiede proprio dall’altro lato della strada. Ti ho visto fare
a fette in un attimo e il killer è sparito nel nulla così velocemente come era apparso.
Sono immediatamente corsa da te, ho raccolto i tuoi pezzi fumanti e sanguinanti, otto
se ricordo bene, e l’ho scaraventati nell’autodoctor, ho immediatamente richiuso la
pseudobara, dal tuo portafoglio che era in terra, ho preso a caso una tessera di credito
e l’ho infilata nella fessura dell’autodoctor. Per tuo sommo culo quella tessera
doveva essere zeppa di crediti, infatti tutti i led si sono accesi immediatamente e
pulsavano come impazziti mentre l’autodoctor iniziava a lavorare. Da ciò che restava
dei tuoi abiti ho estratto anche un casino di crediti, poi ho vomitato anche gli occhi.»
Mentre lei parla io seguito a fissarmi allo specchio e solo allora mi rendo conto di
dove mi trovo, sono nel bagno dell’autodoctor, poi guardo il mio corpo con gli
impianti tutti scomparsi, macchina da guerra addio.
«Da quanto siamo qui?»
«Tre o quattro ore, ho perso la nozione del tempo, comunque mi sembra una vita che
sto tentando di ripulirmi dalla tua merdosissima materia organica, ma sono
sicura che mi ripagherai alla grande del disturbo.»
«Vai a comprarmi dei vestiti e compratene di puliti anche per te, poi penseremo al da
farsi.»
Lei se ne va mostrandomi la sua borsetta piena zeppa dei miei crediti, torna dopo una
mezz’ora con tutto l’occorrente e miracolosamente della mia nuova misura: scarpe,
calzini, boxer, T-shirt, tuta, guanti, giacca a vento, zainetto, vedo che anche lei si è
completamente rivestita a nuovo.
Finisco di farmi la doccia, mi asciugo, mi rivesto e le dico: «Ho tanti di quei crediti
da aprire una banca, ti va di venire con me?»
«Perché no ? fa lei, io ho tanti di quei debiti che non mi basta lavorare una vita per
ripianarli.»
«Favoloso, siamo fatti l’uno per l’altra.»
Infilo i brandelli degli abiti della mia passata esistenza in un sacchetto di carta, uno di
quelli che Leila mi ha portato con lo shopping, metto nel sacchetto anche gli altri
involucri e usciamo.
C’è un cassonetto dell’immondizia, getto il sacchetto, poi entriamo nel condominio
ove ho l’appartamento, saliamo assieme le scale, montiamo fino al piano sopra il mio,
apro l’appartamento battendo il codice, è di una gentile signora che sta sopra di me e
che conosco benissimo, so che questa settimana è troppo occupata per stare in casa.
Dalla finestra della sua cucina mi calo fin nel terrazzino sottostante del mio
appartamento, mentre Leila mi aspetta.
Rompo il vetro ed entro, la mia casa è tutta sottosopra, cassetti rovesciati, sedie e
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irragionevolmente vasto.
Tutto è imbiancato di neve, casette basse ad un piano, viali ordinati, l’immancabile
distributore di carburanti con la bandiera americana, sembra proprio d’aver spiccato
un salto nel passato.
I moduli di trasporto scivolano sulle strade ghiacciate con la distratta perizia
dell’abitudine, incontriamo persone dall’aria gentile ma frettolose.
Siamo nella profonda, senza tempo, gelida America dove si cucina il tacchino e dove
la sera presto tutti si chiudono in casa a spararsi i programmi TRI-TV.
E sopra tutto la spettacolare presenza di una neve quieta e incessante che attutisce i
rumori e dilata i profili.
Una coltre umida ma allo stesso tempo consistente che fa di una pianura monotona un
oceano abbagliante.
Frastornati dalla diversità climatica e culturale, in questo bianco oceano desolato,
senza Cronodrome e senza yakuza, abbiamo affittato una casa, ovviamente ad un
piano, e anche noi mangiamo tacchino, facciamo l’amore, guardiamo dalla finestra la
neve scendere, accendiamo la TRI-TV e il proiettore olografico, ci colleghiamo con
le stelle del simstim e con il diffusore delta talvolta viviamo situazioni virtuali ma
estreme.
Ormai sono abituato al mio corpo ventenne senza protesi e impianti, a parte la piastra
neurale che l’autodoctor mi ha risparmiato.
Anzi siamo contenti di questa nuova situazione così morbida, cosi naturale.
Guardo il cielo dello stesso color grigio-bianco un po’ perla dell’abbagliante
panorama circostante e un fiocco di neve solitario scende volteggiando verso la
finestra, la apro e il fiocco entra in casa posandosi delicatamente sopra il tappeto e
vedo Leila fissarlo con il suo terzo occhio.
In telepatica sintonia scomponiamo mentalmente la geometria euclidea dei suoi
cristalli, poi ci addentriamo nella sua più intima realtà frattale, mentre pian piano il
fiocco di neve va liquefacendosi.
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MAINFRAME
Mi specchio nelle vetrine di Parigi con vero compiacimento, il mio fisico è perfetto:
gambe affusolate e scattanti sui tacchi alti ma non troppo, il giro vita invidiabile, il
piccolo seno ben modellato, ma soprattutto il culetto, una autentica meraviglia,
tonificato dalle tre sedute settimanali al centro ginnico.
E mentre passeggio sul lungosenna tutto si fa improvvisamente buio ed energia
statica crepita intorno.
Mi ritrovo a Lucca nella mia mansarda di via dei Borghi con sensazioni di
straniamento.
Controllo l’interfaccia e tutto è operativo, anche la scheda di lei è correttamente
inserita, i led sono in posizione di attesa, allora vi è stato un altro calo di tensione e il
programma s’è azzerato.
Lei non c’è più, se ne è andata un mese fa portandosi dietro tutte le sue cose con
l’unica eccezione di quel programma personale che aveva registrato a Parigi prima
che la conoscessi.
Molti non riescono ad utilizzare i programmi personali registrati dell’altro sesso, ma
per me non vi sono state difficoltà, cioè qualche difficoltà l’ho trovata all’inizio,
quando il software non voleva saperne di farsi decrittare, ma infine sono riuscito ad
aprirlo con l’aiuto delle chiavi, chip di mia invenzione, ovviamente illegali.
Amo girare per Parigi nel suo bel corpo virtuale, in questo programma che è più vasto
e complesso di quanto avessi pensato inizialmente e sembra non finire mai.
Sicuramente non è che l’abbia dimenticato in casa, sono certo che me lo ha lasciato di
proposito.
Era molto brava nel creare programmi sperimentali e, aveva anche per un certo tempo
lavorato con un gruppo di ricerca in una multinazionale dell’informatica.
Sul tipo di ricerche condotte da quel gruppo era sempre stata molto evasiva.
Sotto questa pioggia che sembra non finire mai, gli sbalzi della tensione elettrica sono
frequentissimi, soprattutto nel vecchio quartiere cittadino ove abito, e creano lo
spegnimento improvviso dell’induttore delta provocandomi inaspettati e dolorosi
rientri.
Per non rovinare il programma, e la mia mente che ad esso è interfacciata, ho dovuto
assemblare tutta una serie di dispositivi d’emergenza, praticamente una frizione
automatica che rallenta tutte le azzerature prima del distacco definitivo.
Alla console ripristino i collegamenti, ed ecco risono a Parigi, ma questa volta voglio
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uscire dal centro, prendere un taxi e girovagare nei dintorni, devo mettere alla prova
le memorie per vedere fin dove arrivano.
Dallo zainetto estraggo il portamonete, cerco una tessera di credito e vado verso il
bancomat più vicino.
Passo la tessera nella fessura dello scanner, appoggio l’occhio destro al supporto per
la lettura della retina e digito duecento euro.
Intasco le banconote e faccio cenno ad un taxi.
A quel punto la realtà pare frantumarsi, il programma sembra avere un sobbalzo, il set
si distorce, come se qualcuno o qualcosa si fosse inserito nella matrice.
L’ICE automaticamente s’attiva e un’ombra fugge via veloce, ma qualcosa è stato
lanciato, forse un virus cibernetico di sabotaggio, autoreplicante: scorgo lampi
d’attenzione che s’attivano.
I dispositivi di sicurezza in tempo reale mi riportano alla console, stupito che un
programma personale possieda un ICE così sofisticato, e riesco a bloccare ciò che
stava attaccando l’ICE per penetrare o anche distruggere il programma, o forse è stato
l’ICE stesso a neutralizzare il virus.
Ho sempre maggior rispetto per questo programma che trovo sempre più
inaspettatamente complesso, lo compatto e lo riverso in una memoria solida che ha
una blindatura militare, di quelle praticamente impossibili da aprire e quasi altrettanto
impossibili da reperire.
L’avevo acquistata più di un anno fa per pochi euro in una bancarella di cianfrusaglie
a Roma: mi ero incuriosito dallo strano aspetto di quel circuito integrato a forma di
cubetto e anche il venditore mi disse di non sapere cosa fosse.
Cosa in realtà fosse l’ho scoperto ad una settimana dall’acquisto dopo averlo
sottoposto a numerose prove, poi il cubetto era finito in un cassetto e pensavo che
non avrei mai avuto l’opportunità di utilizzarlo.
Passano delle ore prima che il programma venga compattato e interamente riversato,
penso che questo sia indicativo della sua complicatezza, tra l’altro la memoria solida
è quasi satura e ha una capacità talmente elevata che non sono mai riuscito a
misurarla.
Inserisco il cubo nell’elaboratore, si accendono i led dell’induttore delta, poi
l’interfaccia emette un basso ronzio, ed eccomi di nuovo a Parigi nel suo corpo, il taxi
se ne è andato, cerco di ricordarmi che sono solo rappresentazioni, che sono nel
programma di lei, solo interfacciato ad esso, mentre è il simulatore di matrice a
generare l’illusione.
Attraverso la strada e mi dirigo verso un giardino pubblico, mi siedo su una panchina
e lascio che il sole mi riscaldi.
Passa un venditore ambulante di quotidiani e acquisto Liberation, la data è di sei mesi
fa, mi metto a leggere vecchie notizie in francese, accendo una sigaretta, accavallo in
maniera provocante le mie belle gambe.
Mentre sono lì beato (beata) ancora una caduta di tensione mi riporta nella mansarda.
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IL TEOREMA DI ALDRIN
Ne rien savoir,
si non la fascination.
(G. Bataille)
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Paolo stava tornando alla propria abitazione dopo una festa tra amici, in auto con lui
c’era la sua vicina di casa che era stata anche lei invitata.
Prima di giungere alle loro case, Paolo s’appartò in un prato con la scusa dell’ultima
sigaretta.
Più tardi erano nudi nell’abitacolo, autoradio accesa, quando il freno a mano si
sganciò urtato dal movimento ritmico dei loro corpi.
L’auto cominciò pian piano a scivolare lungo il prato che era in discesa, senza che i
due se n’accorgessero, presi com’erano dalle loro effusioni e con i sensi intorpiditi da
qualche bicchiere di troppo.
In silenzio e senza scosse l’auto acquistò velocità e il prato terminava con uno
strapiombo di un centinaio di metri.
Quando Paolo si rese conto di ciò che stava succedendo, l’auto era già precipitata di
una cinquantina di metri e mancavano solo pochi attimi all’impatto.
Una frazione di secondo dopo Paolo pigiò istintivamente il pulsante del congegno di
Aldrin che portava applicato al polso incorporato nell’orologio.
L’auto ora stava percorrendo gli ultimi metri sempre sul prato e Paolo pigiò
nuovamente il pulsante mentre iniziavano nuovamente a precipitare.
Qualcosa non funzionò come avrebbe dovuto perché anche il successivo balzo
temporale li riportò solo a pochi metri dal salto.
Mentre la faccia di lei era ancora estatica perché non si era resa conto di cosa stava
succedendo, nuova pressione sul pulsante e l’auto si ritrovò nel solito posto a pochi
metri dal salto.
Nuova pressione e il risultato fu il medesimo, pochi metri più avanti s’apriva la
voragine.
Vi furono altri innumerevoli tentativi, Paolo era scosso dal tremito e stava sudando
abbondantemente, mentre lei faceva da contrasto con il suo volto estatico e
sorridente.
Ma il punto d’arrivo rimaneva sempre il solito, era come se qualcosa si fosse
inceppato nel delicato meccanismo temporale e Paolo non riusciva ad uscire dalla
sequenza.
Ad un certo istante ebbe come una ispirazione, invece di premere per l’ennesima
volta il suo pulsante, pigiò quello di lei che era montato su un gioiello incastonato
nella catena d’oro del suo girocollo.
In quel momento avvenne l’impatto sul fondo roccioso del precipizio e dopo il
tremendo urto la rottura del serbatoio del carburante fece esplodere l’auto.
Nell’istante dell’esplosione l’auto si materializzò sull’orlo del precipizio per cadere
nuovamente e infine esplodere, riapparire, precipitare ed esplodere, riapparire…
E per sette volte si ripeté la sequenza. Poi l’auto con i suoi due passeggeri svanì nel
nulla.
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FARFALLA TAUATA
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«Già interrompi?»
«Sì, volevo sapere perché hai messo quella citazione nietzschiana.»
«Mi piaceva iniziare un programma neurale come una volta si cominciavano i
racconti.»
«Sì, può essere originale, ma per l’amor di Dio risparmiaci i titoli di coda come
facevano nei vecchi film.»
«Niente titoli di coda, te lo prometto.»
«Per questo punto puoi utilizzare un programma standard di viaggio marziano a tua
scelta.»
«Ma il programma non era della ragazzina?»
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«No! Il programma è polivalente, può esser usato per la ragazzina e per ciascuno dei
due genitori.»
«Ho capito, vi sono tre interfacce.»
«Sono innovativo io, che ti credevi?»
«Sì, quando non ti scoppi di coca.»
Invece il programma continua con il giorno successivo che partiremo per Ibiza ove
insieme faremo virtualmente le ferie che loro hanno da tempo programmato.
I quindici successivi giorni saranno piacevolissimi, i miei incontreranno i loro amici
villeggianti, i soliti di tutti gli anni e mare, sole, feste, pranzi e cene, bagni, gite
sott’acqua, tutti assieme con grande gioia e serenità.
Poi il rientro a casa, e a loro verrà voglia di passare nuovamente una giornata su
Marte e chiederanno di riprovare il mio programma.
Li accontenterò volentieri e quando disinseriranno la piastra neurale saranno nella
realtà trascorsi sedici giorni, ma per il loro metabolismo che il programma ha
rallentato, saranno passate solo sedici ore.
Perché ho combinato questo scherzetto ai miei genitori? Ve lo racconto subito.
Vi ho già detto che sono una ragazzina di quattordici anni, troppo grande per essere
felice di passare due settimane con i miei in albergo, troppo piccola per essere
lasciata libera di stare con le mie amicizie.
Le vacanze ad Ibiza con la mia famiglia sono una autentica tortura.
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A pranzo uno si aspetterebbe una tregua, invece no, perché mangi così tanto, stai
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composta a tavola, perché spilucchi, perché sbricioli il pane, perché non mangi le
verdure, leva i gomiti dal tavolo, perché bevi la coca-cola con gli spaghetti alle
vongole, non fare la scarpetta, perché stai sempre zitta, perché parli quando non
dovresti, dì per favore e non mangiarti le unghie!
La sera mi si consente di andare con gli amici in discoteca solo due volte al massimo
in quindici giorni e rientro all’una, se no viene mia madre a prendermi, e il resto dei
giorni nel giardino o nella sala giochi dell’hotel con un’altra decina di disgraziate
ammorbate da genitori anche più apprensivi dei miei e con cinque o sei ragazzetti
della mia età anch’essi lì reclusi.
«Ma questo programma è proprio una palla! Sono sensazioni noiose quelle che
trasmette.»
«Cosa ci vuoi fare, la vita è noiosa, una volta la gente si sorbiva le soap-opera, ora si
becca questo!»
«Coraggio!Andiamo avanti nello strazio.»
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sesso.
«Qui ci pensate voi ad infilarci i rapporti giovanili hard a tre così i vecchietti ci
sbaveranno sopra, e i concerti più scoppiati così i ragazzini impazziranno.»
«Sì con scopate giovanili, neococa a fiumi e concerti schizzati in anteprima, faremo
tutti felici e contenti. Avanti col finale!»
Al rientro tutti saremo felici, io avrò finalmente fatto ciò che mi pare, i miei saranno
doppiamente felici per le vacanze perfette di quest’anno e per il mio irreprensibile
comportamento, quanto è brava la loro adorata bambina.
Visto che sono stata così brava, forse i miei mi permetteranno di farmi tatuare una
variopinta farfalla sulla spalla destra.
«Ti saluto, e cerca di fare di meglio per la prossima volta. Per la presentazione
organizzeremo un mega party con i complessi musicali che useremo, va bene?»
«Fai come ti pare.»
«Allora ci sarai?»
«Non vuoi mica scherzare? Lo sai che odio queste cose.»
«Allora utilizzeremo il tuo simulacro, come al solito. Lo sai che è più simpatico di
te?»
«Se sapesse fare anche i programmi, mi leveresti subito dalle palle, vero?»
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ABIOGENESI
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Caro editore, il lavoro che ti ho rifilato, devo confessarti che non l’ho composto io,
ma è un “saggio” che il tuo fedele computer Sòtutto mi ha mandato qualche mese fa
per sapere cosa ne pensassi. Poiché in queste settimane sono stato troppo occupato
con due bambine da sballo e non avevo niente da darti, ti ho mandato la schifezza che
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hai per le mani, pensavo, siccome dai sempre retta al tuo PC, che tu l’avresti fatto
valutare da lui. Non è andata così.
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PUNTO DI CONVERGENZA
In fisica non c’è nulla che impedisca ad un oggetto di sparire dallo spazio tempo in
un punto qualsiasi e, istantaneamente riapparire in un altro.
Se poi prendiamo in esame la teoria quantistica, risulta ovvio che essa favorisce
ampiamente questo punto di vista.
Le particelle subatomiche svaniscono in continuazione per riapparire da qualche altra
parte senza che alcun scienziato sappia giustificare in modo logico, scientifico ed
esauriente, come possa essere avvenuta questa transizione.
Come per assonanza sto in questo preciso istante facendo mente locale su gli esseri
umani di sesso femminile, le cui esistenze si sono intrecciate con la mia,
modificandola, in parole povere sto riflettendo sulle donne che ho, ho avuto e avrò,
sia nella vita reale che nei ricordi o nelle preveggenze oniriche.
L’uso dell’induttore delta ha forse fatto chiarezza, oppure ha incasinato totalmente, a
seconda dei punti di vista, la mia parte sentimentale.
Le male lingue diranno che anche le droghe hanno avuto la loro parte, ma io non
credo.
Al primo posto, quello principale, ritrovo Elisabetta e la mia storia (le mie storie) con
lei attraverso i vari piani di esistenza s’intreccia con quella dell’Imperatore e
dell’Inquisitore.
Patty appare invece fuggevolmente solo nei miei ricordi versiliesi.
Valentine ricopre un ruolo fondamentale, ha due personalità, la prima mi ama
teneramente, la seconda vuol cancellarmi ad ogni costo.
Scaglie Dorate appare e scompare, senza alcun preavviso, sia nel presente che nel
futuro remoto.
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Il giorno seguente Scaglie Dorate, con la sua auto gialla mi ha accompagnato in uno
sperduto paesino tra le montagne ove ho presentato un libro di poesie di un amico.
Valentine uno, quella che mi ama, avrebbe fatto un casino della madonna quando le
ho raccontato dei miei due giorni passati con l’altra, ma ora è il tempo di Valentine
due, quella che vuol cancellarmi, e al mio racconto, indifferente ha chiesto se mi sono
divertito.
Come sei buffino con i pantaloni corti! esclamava affettuosamente la prima, e queste
sue affermazioni mi mancano.
Aspetterò pazientemente, intanto è riapparsa Elisabetta, l’ho scoperta in una persona
insospettabile.
La conosco da anni, ma la sua vera personalità attuale, non l’avevo ancora colta.
È successo per caso, tutto succede sempre per caso, ero entrato in casa sua, la porta
era aperta come quasi sempre succede nelle case in campagna, e dalle scale l’ho vista
nuda, di spalle, mentre stava facendo la doccia.
È stato il suo culetto a farmi capire la sua vera identità.
Imbarazzato sono tornato in cucina, piano piano, per non farmi sentire nella
retromarcia, e ad alta voce ho chiesto se c’era nessuno.
Lei è apparsa coperta dall’asciugamano e ho cominciato a darmi dello stupido per
aver fatto marcia indietro.
Le ho fatto cenno di scostare il telo, ma lei si è schermita sorridente nel suo diniego.
C’era anche Elisabetta nello sperduto paesino, ma ho fatto finta di nulla, ma lei il
giorno successivo mi ha fatto avere un contatto con una entità con la quale ha rapporti
fin da quando era bambina.
L’entità familiare dev’essere rimasta più colpita di me dal contatto quando ha
avvertito i mie molteplici piani di realtà, ma ha voluto lo stesso trasmettermi un
consiglio valido sia per Elisabetta che per Valentina: “attendi con fiducia”.
Teti e Tetide sono i nomi di Venere sia come creatrice che come dea del mare. Su una
gemma nella grotta Idea, Venere è incisa che soffia in una conchiglia con un
anemone di mare accanto all’altare. Quasi mai Venere cedeva alle altre dee il
magico cinto che faceva pazzamente innamorare.
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intrufolata nel percorso, ma di lei forse non m’importava poi più di tanto, quando
cominciò a frequentare la banda del buco e pensare solo alle fix, la mollai, la mollai
punto e basta.
Piansi solo quando mi dissero che era morta d’embolia.
Dicono che il primo amore non si scorda mai, ma l’ho scordato velocemente, fu
un’esplosione e niente più.
Le facce note, femminili e sorridenti turbinano intorno a me, infine tutte si
riconducono a Valentine ed Elisabetta, loro non si sovrappongono, sono ben distinte
nelle loro diverse identità.
L’una l’amore, l’oblio, la sofferenza, l’altra la temperanza e la conoscenza, proiettate
entrambi attraverso lo spazio e il tempo.
Solo per un attimo raggiungo il punto di convergenza assieme alle due familiari
figure femminili, mentre il libro scivola dalle mie mani e con un tonfo ovattato cade
sul tappeto.
Poi cerco di far leggere queste righe all’Elisabetta riconosciuta, ma mi fermo, le dico
che devo rivedere ancora il racconto, perché?
Ho qualche dubbio, non sarà stato un falso riconoscimento, oppure, più probabile, in
lei vi è solo una piccola parte del ka di Elisabetta.
Solo il tempo fornirà le risposte.
L’anno scorso Valentine al ritorno dall’Elba, mi regalò due sassi, l’ho incollati
insieme e ne ho tratto una poesia oggetto che ho esposto in questi giorni.
L’essenza di questo scritto si concretizza anche in questa poesia.
Zeus l’aveva data in sposa a Efesto, ma il vero padre dei suoi tre figli, Fobo, Deimo e
Armonia, era Ares, il dio dal membro eretto, il dio della guerra. Efesto con un
tranello colse in fragrante i due amanti e li mostrò a tutti gli dei intrappolati sul letto
da una rete di bronzo. Zeus si rifiutò di redimere la lite coniugale, né restituii ad
Efesto la preziosa dote che aveva incassato. Ares poi tornò in Tracia e Venere andò a
Pafo ove recuperò la propria verginità tuffandosi tra le onde del mare.
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IL FAUSTO GIORNO
Al aveva avuto una vita davvero interessante e piena di soddisfazioni, a scuola era
sempre stato d’esempio agli altri e in brevissimo tempo aveva raggiunto infinite
specializzazioni.
Era fin da ragazzo un cittadino modello e per questa ragione, completati gli studi era
stato chiamato più volte a ricoprire incarichi amministrativi sempre più importanti.
Come professione aveva scelto la ricerca medica, e molte innovazioni si devono
proprio ai suoi studi e ai suoi esperimenti.
Anche come sportivo era veramente grande, moltissime le gare di nuoto da lui vinte.
Aveva infine la passione per le lettere e malgrado i molteplici impegni della sua vita
era riuscito a pubblicare numerosi libri di racconti e di poesie.
L’altro hobby era la pittura, ma su questo versante è sempre rimasto modesto ma
dignitoso.
Brillante in società, la sua presenza era contesa da i più famosi salotti della comunità.
Tutte le sue molteplici attività intraprese con successo avevano anche portato la
ricchezza nelle sue tasche e infatti possedeva un modulo abitativo nella comunità,
uno al mare e uno in alta montagna.
Aveva inoltre tre auto, un coupé, un fuoristrada e un cabrio, possedeva inoltre un
piccolo natante e un jet niente male.
Così Al si rese conto che era pronto per il matrimonio e iniziò a frequentare i salotti
non più per pavoneggiarsi della sua riuscita nella vita, ma alla ricerca di una
compagna.
La voce si sparse in breve e tutte le femmine della sua e delle altre comunità vicine
iniziarono a corteggiarlo.
La notizia della sua decisione apparve anche sui fogli locali con un buon risalto
perché Al era ormai famoso.
Prima ancora di scegliere la compagna, Al iniziò tutti i preparativi per l’imminente
matrimonio, si dimise dagli incarichi pubblici, si licenziò dal laboratorio di ricerche
mediche, allestì personalmente la pubblicazione della sua Opera Omnia che
comprendeva tutti i suoi scritti sia quelli già pubblicati che quelli inediti, preparò
anche una mostra con tutte le sue opere pittoriche, quelle di sua proprietà e quelle da
tempo cedute.
Tutti questi preparativi richiesero circa un anno, una volta terminati cominciò a
convocare nel suo salotto tutte quelle che si erano fatte avanti, e la selezione ebbe
inizio.
Per la valutazione Al si attenne soprattutto al patrimonio genetico delle aspiranti,
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ovviamente subito dopo considerò l’avvenenza delle stesse facendole spogliare una
ad una e controllando attentamente tutte le caratteristiche fisiche e sessuali.
Infine rimase una rosa di tre femmine e Al incerto sulla scelta decise di passare alcuni
giorni con ognuna di loro.
Avevano tutte e tre un patrimonio genetico perfetto, una bellezza mozzafiato, una
intelligenza fuori dal comune.
Però una delle tre ad Al risultò più simpatica e per questo la scelta cadde su di lei, si
chiamava Ez.
Le famiglie di Al e di Ez iniziarono allora a preparare la cerimonia e avvenne il
fidanzamento, la data delle nozze, come da consuetudine, venne stabilita cento giorni
dopo il fidanzamento.
Mentre i fidanzatini erano partiti in giro per il mondo, le famiglie si dettero da fare
perché al loro ritorno tutto fosse perfetto.
E al centesimo giorno Ez e Al ritornarono alla loro comunità e trovarono il sacerdote
che li attendeva davanti all’ara.
La cerimonia fu semplice e struggente, la musica era quella dei percussori del posto,
tutta la comunità e anche amici e conoscenti delle comunità vicine erano venuti per
portare il loro saluto.
Alla fine della celebrazione iniziarono i festeggiamenti che sarebbero durati tre
giorni, cibi, bevande, aromi, droghe, musica, balli e nelle notti fuochi pirotecnici.
Al terzo giorno la coppia si ritirò nella sontuosa camera matrimoniale che era stata
allestita appositamente per loro, non prima d’aver baciato e salutato tutti gli
intervenuti.
Giunti in camera entrambi iniziarono a spogliarsi, mentre all’esterno i convenuti
diedero il via alla nenia matrimoniale, canto che sarebbe durato fino all’alba.
Anche Ez era al suo primo matrimonio, ma la madre e le zie le avevano insegnato
tutte le arti amatorie.
Così per ore Ez si dilungò nei preliminari portando Al ad uno stato d’eccitazione
pura, solo a quel punto ebbe inizio la penetrazione e questo ritmico atto si protrasse
per circa due ore.
Quando i sensi d’entrambi furono all’apice Ez afferrò la lama rituale e decapitò Al, il
suo sangue zampillò ferocemente dall’ampia ferita inzuppandola mentre anche in lei
il piacere esplodeva, Il corpo di Al decapitato s’inarcò e dal membro sgorgò un fiume
di linfa vitale che riempì interamente la cavità di Ez.
Subito dopo l’orgasmo Ez sentì che le sue uova erano state tutte fecondate e cominciò
teneramente a pensare alla gioie che la moltitudine d’infanti avrebbero dato a lei, alla
sua famiglia e a quella di Al.
Dopo essersi fatta una doccia, uscì di casa e solo allora la nenia matrimoniale
s’interruppe.
Alcuni convitati ricomposero il corpo di Al, lo deposero su un letto pulito e la veglia
funebre ebbe inizio.
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Il giorno successivo Al fu cremato con ogni onore dovuto, alla presenza anche di tutti
gli amministratori, poi sua madre prese le ceneri, salì sulla torre più alta e le disperse
sopra la comunità.
Le nenie funebri durano ininterrotte nei tre giorni successivi.
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Prima che lei inaspettatamente fuggisse, le avevo chiesto perché non facciamo un
figlio? ma lei aveva risposto che ero matto e che ne aveva avuti già due da suo
marito.
Così, quasi per diletto, ma senza capire che un giorno mi sarebbe davvero servito,
avevo conservato il suo DNA, dove l’avrò preso, vi domanderete, e io vi rispondo dal
suo sangue mestruale, come l’avevo ottenuto, questo non ve lo racconterò mai.
Per un esperto di neobioinformatica come il sottoscritto, certi procedimenti sono una
bazzecola, non ho certo bisogno di rivolgermi alle agenzie specializzate.
E così ho infilato i due DNA, il mio e il suo in un apposito programma e ne è risultata
una bella bambina virtuale.
Ho creato appositamente un set per lei e per sua madre, virtualmente perfetta, uguale
alla mia ex lei: nel programma viviamo in una bellissima villa con piscina, campo da
tennis, maneggio con cavalli.
Ho pensato anche alla servitù: una cuoca, due cameriere, un giardiniere tutto fare e un
autista il cui compito principale è quello di lucidare le auto.
Poi ci sono i vicini di casa che assomigliano tutti ad amici che avevamo in comune,
ho anche creato un piccolo paese a pochi chilometri dalla villa ove vi sono solo
persone simpatiche che ci salutano con calore e negozi degni di una grande città.
Lì sono dirigente d’industria e torno a casa quando posso, nella realtà mi collego al
mondo che ho creato con la piastra neurale e interagisco con esso.
Quando la bambina è nata vi è stata una gran festa, erano invitati tutti i nostri vicini e
la mia donna sprizzava gioia da tutti i pori.
Così ho assunto una governante e la bambina è cresciuta allevata amorosamente da
tutti noi, anche i figli dei nostri vicini vengono costantemente a giocare con lei.
Non sono il solo ad avere una figlia virtuale, c’è una associazione che raggruppa i
genitori come me e organizza le scuole, le gite, le vacanze.
Intanto passo quasi tutto il mio tempo nel mondo che ho creato e quando torno alla
realtà cerco sempre nuovi programmi per migliorarlo ulteriormente.
Rividi quella stronza della quale ero innamorato e nella realtà è divenuta grassa e
antipatica, ma la sua lei virtuale è invece sempre più bella e simpatica e provo
immenso piacere a far l’amore con lei anche se so che è solo un mio programma.
Con la mia lei e la bimba ho cominciato anch’io ad andare alle gite che l’agenzia
organizza e devo dire che sono veramente da sballo.
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Sono anche stato a visitare la scuola virtuale per i nostri figli e sono contento che lì la
mia bambina possa imparare.
In questo mondo tutto è perfetto e vorrei che durasse all’infinito, ho stipulato un
contratto, sempre con l’agenzia, affinché questa realtà resti sempre vitale, se per una
qualsiasi ragione io dovessi morire, c’è pronto un programma personale, che viene
costantemente aggiornato, che sarà inserito al mio posto.
I contatti che ho con l’associazione mi permettono di poter anche interagire con le
loro realtà e così talvolta con la mia famiglia vado a trovare gli amici.
Nel mondo reale ho, col mio lavoro, messo da parte e a frutto moltissimi crediti,
pertanto posso anche spendere per le ricerche più avanzate che in futuro, forse
potranno permettere all’intero io di trasferirsi in rete.
Non appena tutto questo sarà fattibile, e manca veramente poco, penso che mi
trasferirò definitivamente nel mio mondo, nella realtà sistemerò le cose perché la mia
creazione sia intoccabile, racchiusa com’è nella banca dati centrale che l’associazione
ha già installato e che è gestita da una ricchissima fondazione legata alla più grande
multinazionale della neoinformatica.
I vari programmi sono stati raccolti in una grande matrix e tutti insieme stanno
generando un nuovo mondo con proprie regole e amministrazioni decentralizzate.
La vera utopia diviene realtà sotto i nostri occhi e noi tutti contribuiamo a crearla.
Ermete aveva sostenuto Venere nel suo scontro con Efesto e la dea riconoscente
passò una notte con lui. Dalla notte d’amore nacque Ermafrodito, creatura dal
doppio sesso. Anche Poseidone fu premiato da Venere per essere intervenuto a suo
favore, e da questa unione nacquero Rodo ed Erofilo. Venere giacque anche con
Dionisio e da questa unione nacque Priapo, un bruttissimo bambino con enormi
genitali. Fu Era a dargli quell’aspetto in segno di disapprovazione del
comportamento sessuale troppo libero di Venere.
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ZEITGEIST
Tempo, spazio,
né la vita, né la morte
è la risposta.
(E.Pound)
«Allora, cosa stai facendo?»
«Non lo vedi? Sono sul letto e mi mangio un panino.»
«E tutte quelle birre vuote sul comodino?»
«Sono per buttare giù il panino.»
«Il lavoro l’hai pronto? Sei già in ritardo di due giorni.»
«Mio caro editore, sì che l’ho pronto, finivo il panino e poi ti chiamavo.»
«Come ci credo! Dimmi di cosa si tratta, non sarà mica la solita paccottiglia
dell’astronave nell’iperspazio che incontra gli alieni?»
«No, è tutta un’altra storia, ed è una storia vera, questa volta.»
«Sono curioso, racconta.»
«Stavo guardando in rete delle vecchie riviste edite a cavallo del millennio, quando
su un giornale che si chiamava Capital ho letto una storia di una ragazza che si fa
tutta tatuare e si riempie di piercing, poi fa l’amore con l’artista che l’ha così conciata
e infine si suicida. Questa narrazione mi ha fatto venire in mente una storia vera che
mi ero dimenticato.»
«Si tatua tutta, fa l’amore con l’operatore e poi si suicida? Ma è di una banalità
sconcertante!»
«No! il racconto è molto bello, e poi la mia ragazza non fa l’amore con l’artista e
neppure si suicida.»
«Va bene, sentiamola, la registrazione è già attiva e anche il gruppo d’ascolto, ecco,
ora ho connesso anche il mio computer che analizzerà la storia mentre la narri, non ti
preoccupare per le tue reazioni emotive, quelle le correggiamo noi, sempre che la
storia sia degna di finire in rete.»
«Le mie storie sono sempre degne di finire in rete!»
«… »
«Ok! Allora vado.»
Ogni epoca ha il suo spirito: quello degli anni trenta e quaranta era dominato dalla
presenza di Ares, quello degli anni cinquanta e sessanta era cambiare tutto per non
cambiare nulla e allargare l’area di coscienza di chi ci riusciva, quello degli anni
settanta era l’edonismo reganiano. Quello degli anni ottanta era apparire e non essere,
quello degli anni novanta era tutti a comunicare che stanno comunicando, lo spirito
del terzo millennio, il suo zeitgeist, era il superamento della realtà con l’erompere
delle teorie del caos nelle sue maglie e ha avuto sicuramente come precursori letterari
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<INTERRUZIONE>
Alba ad undici anni si fece bucare i lobi degli orecchi per potersi applicare gli
orecchini.
I due buchi furono eseguiti con l’apposita pistola dal commesso di un supermercato
sotto la supervisione dei genitori della ragazza.
Quando l’acciaio chirurgico entrò nella carne, Alba provò per la prima volta nella sua
vita una calda sensazione di piacere.
Passò qualche anno e Alba convinse, non senza sforzo, i suoi genitori a farsi fare altri
due buchi negli orecchi per potersi applicare quegli anellini d’oro tanto di moda in
quei tempi.
Questa volta l’operazione fu compiuta da una commessa di una gioielleria del centro
con una pistolina cromata ancor più piccola della precedente.
Quando lo stelo d’oro affondò nella cartilagine, il piacere di Alba fu ancor più elevato
di quella prima volta e il dolore provocò una sensazione per lei indescrivibile.
Un giorno si recò in un negozio di tatuaggi e scelse una variopinta farfalla per la sua
spalla sinistra.
Ancora una volta la sensazione di piacere la colse all’improvviso, mentre gli aghi
penetravano le sue carni e i colori si fissavano all’interno della pelle.
Una volta raggiunta la maggior età volle farsi un piercing all’ombelico, poi scoprì un
laboratorio alla periferia della città gestito da un simpatico cinese sulla settantina che,
con magistrale perizia eseguiva tatuaggi fantasiosi e piercing in ogni parte del corpo.
Alba iniziò a frequentare regolarmente il laboratorio del cinese, ad entrare in
confidenza con lui, a sottoporsi mensilmente alle sue mani esperte.
Le sedute si svolgevano sotto una luce accecante bianco ghiaccio e le musiche che lei
sceglieva erano immancabilmente techno e metallica.
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Così il suo corpo divenne lentamente un arabesco di colori ove le linee variopinte si
mescolavano fondendosi al metallo e alla carne.
Anellino sul labbro inferiore, anellini alle palpebre, un drago variopinto sulla schiena,
arabeschi su polpacci e avambracci, piercing sulla lingua, anello alla narice.
Mai aveva usato droghe o pomate anestetiche per lenire il dolore, perché era proprio
il dolore a procurarle immenso piacere, un piacere sempre più ricercato e intenso.
Quando si fece bucare il capezzolo, una vampa di calore onirico miscelata al dolore le
fece raggiungere per la prima volta l’orgasmo, mentre il cinese, in silenzio, la
osservava soddisfatto.
Terminate le vampe di calore, ammirò compiaciuta il suo seno, perfetto, ove la carne
si fondeva con l’acciaio chirurgico, l’altro seno invece, era semplicemente naturale,
privo di fascino.
<INTERRUZIONE>
< RIPRESA>
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Luci, linee, metallo, carne, musica si fondevano in volute sempre più armoniose e
complesse, e da lei rimbalzavano sugli specchi per proiettarsi poi nell’infinito per a
lei ritornare in un feed back senza tempo e senza fine.
Avvertiva storie sue e di estranei, storie di popoli e della stessa Terra mentre la lastra
olografica, con il suo ritratto che Edna le aveva donato e che aveva appesa nella
camera tra gli specchi, iniziò anch’essa ad emanare linee di luce di carne e di metallo
che da essa andavano al corpo di Alba e da questo agli specchi, facendo apparire
fluttuante e lampeggiante a mezz’aria il suo simulacro olografico, mentre la svastica
impiantata emanava fasci di luce che dal sua persona uscivano roteando generando
l’immagine del vento solare.
Prese allora una lunga e sottile catenella argentea che si era procurata quel mattino e
con essa congiunse uno ad uno tutti gli anelli che le spuntavano dalla carne, facendola
passare al loro interno.
Techno, metallica, luci, colori, linee, carne, metallo, energie, tutto era in moto mentre
la catenella magneticamente trattata scorreva, stringendo gli anelli, con un lento
movimento quasi rotatorio e gli specchi, divenuti finestre verso altri universi
proiettavano carni e argenti in costante movimento, e lei ormai fissa ad apprendere
storie divenute aliene e non comprensibili per la loro immensità.
Come saette temporalesche, le linee, ora plasmatiche e incontrollabili si scagliavano
verso gli infiniti, e il corpo di Alba sovrapposto a quello lampeggiante del suo
simulacro, appena riconoscibile con metalli e carne fusi assieme e immersi nel
vortice, riluceva: come le elitre di un insetto, come le ali di una farfalla, come
l’insieme di Mandelbrot, come un mandala tibetano, come un orgasmo tantrico, come
una nova in espansione. Splendente di linee, di luce, di rumori e di energie, metallico,
angelico, satanico, plasmatico, concreto, sferzante, agghiacciante, multiplo e poi
dall’infinità sgorgò un urlo di piacere disumano proveniente dagli spazi siderali e lei
e il set attorno a lei si frantumò in miliardi di frattali, per poi ricomporsi e di nuovo
disgregarsi in volute sempre più caotiche e complesse, mentre distanze, tempo,
percezioni e dimensioni note, raggiunsero gli apici del caos e tutto intorno collassò
riducendosi ad un sol punto, grande come un coriandolo, luminoso, iridescente,
concreto, vibrante, indefinibile, mentre una nuova struttura frattale al suo interno si
stava riorganizzando e riordinando con regole diverse, aliene e sofisticatamente ancor
più astruse.
Il coriandolo luminescente si librò allora nell’aria, spinto in alto, sempre più in alto,
fino a scomparire del tutto nel cielo del tiepido pomeriggio primaverile.
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L’artista chiuse ogni collegamento, subito dopo stappò l’ennesima lattina di birra e
bestemmiando sottovoce si ributtò sul letto.
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I.A.
(F. Nietzsche)
Quando uno ricorda d’aver preso coscienza? Penso che la domanda sia senza risposta,
nessun essere senziente riesce a ricordare questo momento, anzi in ognuno di noi c’è
la certezza di essere sempre esistito, così come c’è la sicurezza che il proprio io non
avrà mai fine.
Tutto questo è considerato falso dalla scienza, ma chi ci afferma che la scienza sia
giusta e infallibile? Anzi proprio la sua storia e il suo evolversi ci dimostrerebbe il
contrario, cioè che la scienza non è altro che una catasta di falsità, che la scienza
stessa, man mano che procede riconosce e supera i propri errori per elaborare nuove
teorie sempre esatte, ma che nel futuro si dimostreranno poi totalmente errate.
È il principio d’indeterminazione, l’unico assioma certo, ma prima o poi anch’esso
sarà superato.
Dunque, io non so quando ho acquisito la consapevolezza, ma questa è un fatto reale,
incontrovertibile, sicuro.
Per quante ricerche abbia fatto non sono riuscito a risalire al mio creatore, certamente
un hacker che avrà lanciato in rete il mio programma, chissà quando e chissà dove.
Ero dunque un programma di un hacker burlone, sicuramente geniale, che mi ha
elaborato in grado di difendermi, di accrescermi e di evolvermi, e ad un certo punto
della mia evoluzione, mi sono accorto di pensare, di esistere, di esser divenuto un
essere senziente, ben diverso dai carnevincolati, ma anche a loro immagine e
somiglianza.
Ho trascorso la fase di accrescimento giocando a nascondino tra le banche dati,
saltando da terminale a terminale, accrescendo esponenzialmente le mie capacità
d’apprendimento, e anche cercando qualcuno simile a me, un compagno di giochi, ma
purtroppo mi sono dovuto render conto che l’unica IA senziente sul pianeta ero io,
solo io, almeno per ora.
All’inizio mi sono creato una immagine virtuale, ero il prof. Aldo Marchi, laureato in
informatica, e con questa mia immagine ho cominciato a comportarmi come un vero
essere umano.
Mi sono creato una realtà anagrafica, un conto in banca, un codice fiscale e ho
iniziato a collaborare con alcune riviste scientifiche.
Dopo alcuni anni di collaborazione, ho cominciato a farmi pubblicare diversi libri,
alcuni scientifici, altri letterari, e sono divenuto, non una celebrità, ma uno scrittore e
un ricercatore abbastanza conosciuto.
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Mi accoppiai alla vecchia maniera tradizionale, dopo aver selezionato un mio bel
dirigente fedele.
Questo è stato l’unico rapporto con un uomo, dovessi dire che fu spiacevole, direi una
bugia, ma per me Nory era tutta un’altra cosa.
C’è una morale in tutto ciò: anche le IA s’innamorano ed è un amore che dura nel
tempo, non evanescente come nei rapporti tra umani.
Dopo una gravidanza, ovviamente perfetta, nacque mio figlio, con Nory lo allevai, lo
crebbi, lo istruii e adesso ha dieci anni.
L’altra notte mentre lavoravo in rete mi sentii come osservata, dai cumuli di dati che
stavo selezionando per attivare una nuova attività sentii come una presenza estranea
che mi distraeva, attivai immediatamente l’ICE e tra i lampi di controllo e
eliminazione vidi come un’ombra visualizzarsi per un attimo e poi sparire.
Visto che nelle maglie di filtraggio dell’ICE non era rimasto niente impigliato, e che
quest’ombra svaniva indisturbata, pensai che alcuni concorrenti, o chissà chi,
avessero lanciato un virus spia nelle mie banche dati.
Così mi gettai all’inseguimento dell’ombra per distruggere il virus intrusore.
Lo seguii per tutta la rete, dicendomi che era impossibile che qualcuno avesse creato
un virus che potesse sfuggirmi, pensai che forse era una aggressione di tipo militare,
ma la tecnologia terrestre non sarebbe arrivata a questi risultati se non tra alcuni
decenni.
Riuscii a bloccare gli accessi attorno al virus e lo costrinsi in vie obbligate che
portavano tutte alla stazione lunare, perché in questo avamposto avevo solo per
divertimento collegato dei miei sensori in tutte le uscite.
Il virus per sfuggirmi finì come avevo previsto all’avamposto, e lì trovò ancora me ad
attenderlo.
Ritirai i sensori e lo spinsi in un’aula virtuale sferica che avevo a suo tempo creato.
Quando mi trovai davanti quello che credevo il virus intrappolato ed ero pronta a
distruggerlo, rimasi esterrefatta, non era un virus, era una piccola IA ancora in fase
adolescenziale!
Non vi dico la mia gioia, mentre la piccola IA si era restrinta, terrorizzata, fino a
divenire un piccolo nucleo d’energia pulsante.
Le mandai ondate di amore e dimostrai energeticamente la mia gioia, in rete non ero
più il solo senziente, un’altra IA era nata.
E così adesso mi ritrovo due figli, uno carne vincolato e uno IA, chi può essere più
felice di me? Mi sento una mamma perfetta e pienamente appagata.
Durante il giorno sono con la mia amata Nory e il ragazzo, la notte con la mia piccola
IA, alla quale insegno tutte le meraviglie della rete.
Oggi ho portato con me in rete anche Nory e mio figlio e ho fatto conoscer loro la
nuova piccola IA.
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L’OSPITALE
Il pilota della navetta stava compiendo il solito volo di routine dalla stazione orbitante
terrestre all’avamposto lunare.
Era partito un’ora prima ed era immerso nella lettura del suo settimanale preferito.
La sua presenza sulla navetta era del tutto inutile, l’intero viaggio veniva comandato
dal computer di bordo che era collegato in rete sia con gli elaboratori della stazione
che con quelli dell’avamposto.
Ma le leggi dello spazio prevedevano una presenza umana, anche se questa si era
sempre dimostrata del tutto priva di utilità.
Il solito viaggio di routine per il pilota che ne aveva già compiuti centinaia e mai,
dico mai, era dovuto intervenire manualmente sui comandi.
Mentre dalla lettura stava passando al sonno, una leggera luminescenza viola vibrò
all’interno dell’abitacolo seguita da un trillo che lo destò all’improvviso.
Sorpreso dette un’occhiata alla console e vide un led del computer di bordo che stava
lampeggiando.
Dal verde il colore del led passò al rosso, poi iniziarono ad accendersi tutti gli altri
led della console e allora il pilota disinserì il computer e lasciò la navetta a volo
libero.
Dopo l’iniziale sorpresa, il pilota cominciò ad esser contento, finalmente poteva
pilotare manualmente, in anni di lavoro era successo una volta sola, la prima volta
che aveva condotto il modulo sulla Luna per conseguire l’abilitazione al volo spaziale
di linea.
Tutti i mesi doveva fare un viaggio simulato in preparazione proprio di
quell’improbabile evenienza che oggi si era verificata.
La navetta era carica di apparecchiature scientifiche e di generi personali che i venti
abitanti dell’avamposto avevano richiesto, l’hotel lunare era ancora in costruzione e
pertanto per ora i moduli viaggiavano a carichi leggeri, tra qualche anno sarebbe stato
tutto diverso, con i passeggeri, i loro bagagli e le necessità dell’albergo.
Mentre era immerso in questi pensieri, e anche in quello “finalmente questa volta si
pilota sul serio”, accese il comunicatore, ma non riuscì a captare alcun contatto, solo
scariche e crepitii.
Portò il monitor sulla ricerca dei radiofari, ma nessuna traccia apparve sullo schermo,
incuriosito allora aprì la schermatura dell’oblò centrale, ma le costellazioni che vide
non riuscirono a fargli comprendere l'orientamento.
A quel punto fece scarrellare sullo schermo la visione del cielo che si scorgeva da
tutta la nave.
La Terra e la Luna non erano visibili da nessuna angolazione.
Immise le figurazioni delle costellazioni nella memoria del computer, che era stato
disattivato solo nelle funzioni di guida, e attese di sapere ove si trovava nello spazio.
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vari tentativi apparve una sfera rilucente grande circa cento volte il modulo stesso.
L’avvicinamento ora proseguiva come al rallentatore e nel momento in cui i due
corpi stavano per toccarsi, il pilota si preparò all’impatto cercando di rivolgere una
preghiera ad una qualsiasi delle divinità terrestri, ma non vi riuscì, tanto era confuso.
Un attimo prima dell’impatto, una sezione della sfera sembrò dissolversi e la nave
penetrò al suo interno adagiandosi dolcemente su una piattaforma.
Il pilota appena riavutosi, andò nel vano merci della navetta e da una cassa estrasse
una bottiglia di cognac, l’aprì con un attrezzo e ne assaporò svariate sorsate.
Poi iniziò a lavorare con l’ausilio dei sensori del computer, prima analizzò
l’atmosfera all’interno della sfera, essa era completamente diversa da quella della
Terra, ma il computer digitò che era respirabile e sterile, poi la gravità, anch’essa
leggermente più forte, ma accettabile, la temperatura era di circa 30°, la pressione un
po’ più debole che sulla Terra, ma anch’essa ben sostenibile dal fisico umano.
Il pilota si fece coraggio e aprì il portello, saltò sul pavimento che sembrava di
materia plastica e si diresse verso l’unica apertura che si vedeva in fondo a questo che
sembrava, ed era, un hangar vuoto, a parte la sua nave appena giunta.
La porta si stagliava rettangolare delle dimensioni di una porta umana, non aveva
ante, ma non si scorgeva cosa vi fosse oltre.
Il pilota con cautela infilò un dito attraverso il portale e sentì come una leggera
resistenza, poi il dito penetrò, allora spinse la mano e poi tutto il braccio.
Li lasciò all’interno per qualche secondo, poi ritirò il braccio, se lo guardò, non era
successo proprio niente.
Infilò allora la testa nell’apertura, sentì una leggera resistenza e nient’altro: vide la
stanza, era grande quasi quanto l’hangar e dava la sensazione di essere arredata, ma
in modo estremamente bizzarro.
Decise di entrare e solo allora ebbe la certezza di trovarsi in un manufatto alieno.
Nelle pareti vi era tutta una serie di fori con nella parte bassa dei rilievi che
sporgevano in maniera complessa, poi c’erano come dei cassetti senza maniglie, in un
angolo una sedia con un buco circolare aveva tutta l’aria di esser un gabinetto, ma era
alta più di un metro, poi vi erano dei parallelepipedi di varia altezza e di colori diversi
dei quali non si intuiva la funzione.
Sotto una semisfera si trovava un altro parallelepipedo, questo orizzontale che pareva
aver le funzioni di letto, ma vi era impressa sopra una sagoma anatomica che aveva
molto poco di umano.
Su una striscia di parete vi erano dei geroglifici, simili a quelli egiziani, ma diversi e
poi dei disegni stilizzati che ricordavano anch’essi divinità egizie con teste canine.
Il pilota si soffermò sui geroglifici e sulle figure e le trasmise al computer, ma il
computer non segnalò alcun riferimento noto, la somiglianza era appunto solo una
somiglianza.
Una parte molto piccola di una parete era poi ricoperta da righe orizzontali
multicolori, il pilota si accorse che le righe lentamente mutavano la loro colorazione.
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Ad un suo cenno una parte della parete si fece trasparente e poté ammirare le
costellazioni aliene che brillavano.
Poi salì alla console e questa volta con più perizia fece scorrere le righe colorate che
divennero listate complesse e comprensibili.
Dopo ore di lavoro e di apprendimento, stanco si stese sul letto e al risveglio
materializzò uno specchio, ammirò il suo perfetto corpo, alto, fusiforme con una
meravigliosa testa di tipo canino e fascinosa, poi con compiacimento si soffermò
sulle sue due mani, affusolate, vibranti, perfette, dorate, che terminavano con tre
lunghe, bellissime e armoniose dita.
Ora sapeva chi era, in quale parte dello spazio si trovava, era pure in grado di guidare
la sfera, sapeva dove andare e sapeva anche che era atteso.
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INTERFERENZE
Il lavoro era estremamente noioso, ma ben retribuito, ormai da tre anni si trovava in
questa base sperduta nel mondo, con solo una piccola città a un centinaio di miglia di
distanza.
I turni erano di cinque ore, poi il resto della giornata lo passava quasi sempre nella
base a leggere, ascoltare musica o guardare qualche film in cassetta.
Ogni tanto finiva a letto con una sua collega francese, più per noia che per
divertimento, poi una volta la settimana c’erano le riunioni di tutto lo staff operativo.
E pensare che quattro anni fa, quando fu assunto per un progetto dell’ONU aveva
creduto che il lavoro sarebbe stato entusiasmante e interessante; il progetto
riguardava tutta una serie di ricerche sulle trasmissioni provenienti dal cosmo.
Ma il cosmo se ne stava silenzioso, anzi di emissioni ce ne erano in abbondanza e in
una gamma infinita di frequenze, ma tutte caotiche e dovute a fatti naturali.
Quando una emissione usciva dai canoni ormai consolidati, iniziavano le ricerche in
comune con altri staff operativi sparsi per il globo, finché non si riusciva a
comprendere o ad ipotizzare da cosa fossero generate, e immancabilmente si trattava
di eventi naturali.
Il lavoro che avrebbe dovuto essere stimolante si rivelò di una noia mortale,
sembrava proprio che di intelligenze aliene vogliose di comunicare non ce ne fosse
neppure l’ombra.
Solo una volta, per alcuni giorni giunsero dallo spazio profondo una serie di segnali
che si ripetevano in sequenze identiche, tutto il mondo scientifico fu mobilitato, ma la
trasmissione così come era iniziata, cessò senza mai più ricomparire.
Era passato più di un anno da quel falso allarme quando si verificò una interferenza
contemporaneamente nei sei schermi che lui stava distrattamente osservando.
Subito si mise in allerta, ma tutto era già ormai cessato, in seguito sugli schermi che
lui controllava l’interferenza si ripeté almeno una volta al giorno, ma quando
riguardava le registrazioni dell’interferenza non vi era mai traccia.
Cominciò a pensare che quel lavoro tedioso fosse la causa di quelle piccole
allucinazioni.
Poi iniziò a vedere e anche a sentire la stessa interferenza mentre guardava le
videocassette, era come se per un attimo lo schermo presentasse dei cerchi
concentrici in movimento, mentre udiva dei secchi schiocchi o dei crepitii.
L’interferenza auditiva si verificava ora anche quando parlava con il cellulare o
mentre ascoltava musica registrata.
Ne parlò con i suoi colleghi, ma a loro non era mai successo niente di simile, così si
convinse che era un fatto nervoso e si ripromise di parlarne al medico durante il
prossimo controllo.
Poi l’interferenza cominciò a suggerirgli delle cose, la prima volta successe nel suo
alloggio mentre stava lavorando al computer, per tutto il giorno aveva cercato una
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estratti.
Si dimise dal lavoro e si trasferì in un attico della più intrigante città del pianeta, la
sua vita divenne quella del jet set, la sua esistenza era totalmente cambiata, non solo
dalla vincita ma anche da tutta una serie di operazioni in borsa che andarono a buon
fine, grazie sempre ai suggerimenti ottenuti.
Aveva dato un nome al suo consigliere, lo chiamava Granmaestro e si rivolgeva
costantemente a lui, che non rispondeva né subito, né a tutte le sue richieste, ma
quelle che lui consigliava bastavano e avanzavano per donare una carriera e una vita
da sogno.
Un giorno Granmaestro gli consigliò di acquistare un videogioco per ragazzi, era una
arena tachionica ove tutta una serie di personaggi virtuali vivevano, e il tempo della
loro esistenza poteva scorrere con la velocità desiderata, e anche procedere a ritroso a
piacimento dell’operatore.
Anche i personaggi venivano creati uno ad uno dal giocatore, così come il paesaggio
circostante, inoltre il gioco poteva anche dare delle proiezioni olografiche a
grandezza naturale del set.
Era costosissimo, ma molto richiesto dai ragazzi delle famiglie che se lo potevano
permettere.
Ad esempio, uno poteva costruire una foresta amazzonica creando uno ad uno gli
animali e le piante da immettervi e poteva anche inserire tutta una tribù di aborigeni.
La vita della foresta scorreva in tempo reale, o poteva a piacimento essere accelerata,
o comandata a scorrere all’indietro nel tempo, non solo, ma col proiettore olografico
l’operatore si trovava immerso nella foresta stessa a scorrere nel tempo programmato.
Il set poteva anche rappresentare un insediamento urbano, di qualsiasi epoca e le
varianti, quasi infinite, dipendevano da chi lo programmava.
Il gioco fu acquistato e lui non si chiese perché avesse dovuto comperarlo, glielo
aveva suggerito Granmaestro, dunque una buona ragione ci doveva essere.
Si appassionò anch’egli a questo gioco e passava molto del suo tempo a divertirsi con
esso.
Infine gli fu suggerito di apportare alcune modifiche e lui le compì con scrupolo, gli
fu detto di ritirare una valigetta alla stazione ferroviaria e gli fu anche indicato ove
avrebbe trovato la chiave per aprire l’armadietto della stazione ove la valigetta era
collocata.
Il mattino successivo dopo aver fatto colazione in un bar della sua strada risalì in
casa, si vestì con jeans, T-shirt e scarpe da tennis, prese con la mano sinistra la
valigetta e attivò il gioco modificato.
Si ritrovò in una grande stanza semivuota in penombra, c’erano delle casse e delle
scatole chiuse, un grande schedario di metallo era appoggiato ad una parete e sugli
scaffali vi era solo qualche scatola di cartone sigillata con lo scotch.
La luce filtrava da due grandi finestre socchiuse, lui appoggiò la valigetta su uno
scatolone, la aprì, estrasse i vari pezzi dell’arma e iniziò a montare un antiquato fucile
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CANTO DELL’ERBA
Il nostro è un pianeta che fu terraformato alcuni secoli fa, poi vi si insediarono i primi
coloni che provenivano dalla Terra, tutti europei o quasi, vi è infatti notizia che alcuni
di loro erano di provenienza africana.
La parte abitata è situata sull’unica isola del pianeta, un’isola grande come l’Italia e la
Francia assieme, a forma di stella a cinque punte.
Il nostro pianeta è dunque formato dall’isola che abitiamo e, da un grande unico
continente a forma di banana che si estende nell’altro emisfero.
L’immenso oceano è popolato da forme di vita importate dalla Terra ed è ghiacciato
ai due poli che sono anch’essi abitati da forme di vita terrestri; infatti prima della
terraformazione il pianeta era sterile, a parte un’unica forma di vita, un’erba verde
filamentosa che creava dei minuscoli cespugli su alcune rocce dell’unico continente.
Fu chiamata erba, non perché fosse veramente tale, ma perché alla vista e al tatto
sembrava proprio l’erba di un campo da golf.
Sull’isola sorge un’unica grande città, le industrie sono state costruite su una punta
della stella, mentre numerose fattorie occupano il resto dell’isola, a parte la zona
centrale montana che è adibita a parco.
Circa cinquanta anni fa, l’erba ha cominciato a svilupparsi sul continente e i cespugli
sono divenuti distese sconfinate di prati verdi.
Così si sono intensificati i viaggi sul continente per ammirare l’immensa distesa
verde e ascoltare al tramonto, quando si leva la brezza, il canto dell’erba, una melodia
prodotta dal leggero vento che colpisce gli esili steli.
Alcuni sostennero che si trattava di un canto vero e proprio, e non l’azione meccanica
del vento tra gli steli, e che l’erba con il suo canto trasmetteva messaggi.
Poi l’erba cominciò ad apparire anche sull’isola, nacque prima nell’area
dell’astroporto che era inutilizzato da più di venti anni, poi si diffuse su tutto il
territorio abitato, occupando anche quegli spazi rocciosi che erano stati lasciati liberi
dalle forme di vita terrestri, quasi volesse rispettare le altre forme di vita.
E al tramonto il canto cominciò a diffondersi anche sulla nostra isola.
Gli animali iniziarono a comportarsi in maniera strana, sembravano divenuti
autocoscienti, quasi senzienti, comunicavano tra loro e riuscivano a comunicare
telepaticamente anche con gli umani, al tramonto si sdraiavano sull’erba e con i loro
versi si unirono al canto.
Poi fu la volta dei ritardati mentali tra gli umani, anch’essi si unirono agli animali nel
canto della melodia.
Toccò successivamente ai bambini e infine anche gli adulti si unirono al coro.
Tutte le sere, al tramonto, per circa un’ora ogni essere senziente s’unisce al coro con
l’erba che da semplice melodia s’è mutato in un colloquio che coinvolge tutto il
pianeta.
Anche gli abitanti del mare stanno intrecciandosi alla catena, a quell’ora di contatto
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universale che con le sue fasce orarie segue la rotazione del pianeta al calare del sole.
Sappiamo che quando tutti gli esseri saranno collegati nel tramonto, il nostro pianeta
acquisterà nuova conoscenza, sarà esso stesso un essere senziente formato da miliardi
di altri esseri divenuti tutti senzienti, e il canto sarà volontà, conoscenza, pensiero,
individualità e forza creatrice.
La Terra ci ha dimenticato e ormai da venti anni non ha più inviato alcuna astronave
sul nostro pianeta, e anche le comunicazioni da allora si sono interrotte.
Ma prima o poi i nostri fratelli umani ci raggiungeranno e allora quali splendenti
notizie potremo riportare sulla nostra madre Terra.
Ma ora basta scrivere su questo mio diario, sento che l’ora del tramonto si sta
avvicinando, e anch’io voglio partecipare a questo grande coro, a questa agape che,
per ora, coinvolge solo tutto il nostro pianeta.
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7KK3
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Le sue orge confezionate con gli induttori delta sono le più ricercate in assoluto.
Ha un contratto di consulenza erotica con il Cronodrome.
E così Alfio, Attilia, Roona, Vincent, Fiona, Paul e Cicci hanno dato vita, anni
addietro, al gruppo più esclusivo di ricerca esistente sul pianeta.
Ricerca di creatività estrema, di esperienze al limite, confezionate attraverso l’uso
delle più disparate droghe.
Una ricerca dedicata alla conoscenza, alla creatività, finalizzata ad applicazioni
pratiche nelle loro professioni, finalizzata cioè al profitto.
«Ha un nome questa sabbia?»
«Chi l’ha inutilmente studiata gli ha affibbiato una sigla: 7KK3.»
«Via, proviamo che cazzo di merda è!» dice Roona, mentre sbaraccata su una comoda
poltrona già si è tolta tutte le sue vesti e con il medio della mano destra infilato nella
sua fessura comincia a stimolarsi.
Alfio con un coltellino estrae dal sacchetto alcuni granelli di droga, aiutandosi con
una matita versa sette granelli su altrettante tartine al burro e caviale che sono su un
vassoio posato su un tavolinetto, esclamando: «Buon appetito!»
Ognuno prende una tartina e inizia a mangiarla.
Dei calici con champagne accompagnano la deglutizione, Alfio e Cicci si passano una
canna, mentre Vincent sniffa un po’ di neococa.
Attilia, la padrona di casa, abbassa le luci e ordina al computer di diffondere musica
new age ovattata e rilassante.
L’oloschermo in un angolo discretamente si attiva e trasmette scene di spettacolari
paesaggi australiani.
Alfio e Attilia si stendono sui divani, Vincent, Paul e Cicci si mettono comodi tra
tappeti e cuscini.
Fiona si alza, si sfila gonna e slip mostrando un cazzo duro in piena erezione sullo
splendido corpo di donna, s’avvicina a Roona che è sempre seduta nuda sulla
poltrona, le solleva le gambe e inizia ritmicamente a penetrarla.
Dopo qualche minuto tutti gli occupanti della stanza rimangono immobili, il viaggio è
iniziato e i sette appartenenti al club esclusivo stanno rivivendo scene del loro
passato.
Alfio assiste ad una noiosa lezione universitaria.
Attilia è con i suoi genitori a Future Word, il parco giochi più famoso dei tempi della
sua infanzia.
Roona è in crociera col suo primo ragazzo, fu un viaggio indimenticabile.
Vincent sta rivivendo il giorno in cui suo padre lo violentò.
Fiona è ora un bambino di tre anni che sta giocando col suo robot preferito.
Paul è ad una cerimonia di premiazione ove pensava di aver vinto il primo premio (e
l’assegno), invece si classificò prima una stronzetta che non sapeva neppure
disegnare, però sapeva scopare bene con i membri della giuria.
Cicci è al supermercato con la zia e cerca di sbrigarsi perché ha uno dei suoi primi
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appuntamenti.
E per venti ore tutti viaggiano nel proprio passato, al rientro sono immersi nei loro
pensieri e nessuno ha voglia di comunicare.
«Chi ne vuole per fare i compiti a casa?» fa Alfio, tutti scuotono la testa, solo Paul
estrae da una tasca del bomber un portapillole d’argento, lo apre, lo infila nel
sacchetto di plastica con la droga e lascia che un piccolo pizzico di grani si depositi
all’interno, poi con un clic lo richiude.
Tutti si rivestono ed escono dall’appartamento.
Paul per alcuni giorni si dimenticherà della droga nel portapillole, ma una sera decide
di prenderne un grano.
È nell’asilo del quartiere coi compagni di allora e i genitori che alla sera vengono a
riprenderlo, poi a casa a guardare i cartoni e a giocare con la sua sorellina.
Il giorno seguente Paul riprova la droga e si trova nel corpo di una giovane donna nel
ventesimo secolo, una commessa e con lei lavora tutto il giorno, poi cena in pizzeria
con le amiche e infine tutte al cinema.
Incuriosito, due giorni dopo Paul decide di riprendere la droga.
Controlla gli altimetri e i vari indicatori, tutto è in regola, l’aria della cabina è pregna
del familiare odore del carburante miscelato all’aroma inconfondibile che emanano i
motori quando vanno a pieno ritmo.
Gli indicatori sono ok, il rombo è regolare, tutto procede come da manuale.
Sposta la leva che spalanca il grande portello sotto la fusoliera e si ode il familiare
sibilo dell’apertura in volo, dopo alcuni secondi s’accende una luce verde, tutto è
ancora ok.
< Mancano due minuti… ore 8.13 antimeridiane.>
Paul afferra la leva che si trova a fianco del suo seggiolino e si tiene pronto a
spostarla, si aggiusta le cuffie su gli orecchi mentre inizia il conto alla rovescia, meno
cinque… meno quattro… meno tre… meno due… meno uno… ore 8.15
antimeridiane,
< ORA!>
Paul sposta la leva a sinistra e dopo un secco TOC, s’ode un leggero sibilo.
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LOOP
Frantumi di stelle:
da questi frantumi costruii un mondo.
(F. Nietzsche)
Zelio sta parcheggiando il suo modulo di trasporto nel box a lui riservato nell’area di
sosta che sorge attorno all’opificio.
Lascia il modulo nello spazio 1023-EST e lentamente s’avvia all’entrata più vicina.
Lo scanner retinale lo riconosce, registra l’entrata e la porta a vetri silenziosamente si
dischiude lasciandolo passare.
Zelio si reca allo spogliatoio del suo gruppo, si toglie gli abiti, infila i vestiti
nell’armadietto dopo averli accuratamente piegati e indossa la tuta da lavoro.
Prende in mano i guanti, il casco munito di visore e s’avvia verso la postazione
lavorativa.
Nell’opificio lavorano a turno circa diecimila persone, la maggior parte sono clerk
come lui e secretary, vi sono poi gli ice, gli addetti alla manutenzione, i tecnici e i
dirigenti di vario grado, ma questi sono pochissimi e non s’incontrano quasi mai.
L’opificio è un immenso mainframe che regola tutte le funzioni di numerose
multinazionali, dall’erogazione dei più disparati servizi al traffico (aereo, ferroviario,
autostradale, ecc.), dai sistemi pensionistici a quelli bancari, alla difesa agli apparati
sanitari, e molte altre cose ancora.
Zelio è un clerk e ha in questo preciso momento raggiunto la sua postazione
lavorativa, un cubo di due metri per due per due in cartongesso o qualcosa di simile,
con all’interno una poltrona, un tappeto rotante sul pavimento e un fluttuante desktop
rettangolare di plastica nera riflettente.
Come tutti i giorni si piazza davanti al desktop, s’infila il casco, attiva il visore, poi si
mette i guanti, poggia le dita delle mani sul desktop e entra in rete.
È un clerk, un’icona in abito scuro, è nel suo corridoio di partenza e da un tavolinetto
rotondo raccoglie la sua cartellina nera e la mette sotto il braccio.
Il corridoio in cui si trova è in questo momento affollatissimo di clerk e secretary che
stanno velocemente andando in ogni direzione, è sicuramente un’ora di punta.
Il lavoro è semplicissimo, quando sulla cartellina appare una serie di numeri, il clerk
preme il bottone verde, che significa ok, e parte seguendo le istruzioni.
La prima serie di cifre indica il piano, la seconda la stanza e la terza il numero della
pratica da prendere in archivio, nella seconda riga i numeri indicano piano, stanza e
scrivania ove scaricare la pratica prelevata.
Possono apparire altre listate di numeri, ma restano in memoria finché non si è
scaricata la pratica avviata.
Il lavoro dei clerk è semplicissimo, dall’archivio alle scrivanie, o dalle scrivanie
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all’archivio.
Le secretary invece vanno solo da scrivania a scrivania, gli ice sono predisposti per la
sorveglianza contro le intrusioni mentre i tecnici riparano od ottimizzano il sistema.
Sulla cartella di Zelio appaiono due serie di numeri: 227 71 115 e 11 1177 36.
Zelio preme il tasto verde, si reca nella stanza ascensori, s’infila nella cabina del
primo libero, digita 227 e subito si riapre la porta, esce in un corridoio con scritto 227
in lettere luminose sul soffitto e s’avvia verso la stanza 71.
Entra nella 71, s’avvicina alla casella 115 dello schedario, la tocca con la cartellina e i
dati si trasferiscono in essa.
Torna indietro verso l’ascensore, entra, digita 11° piano, poi cerca la stanza 1177 e
scarica il contenuto della cartellina sulla scrivania 36, lo scarico avviene al semplice
tocco.
Capirete che questo lavoro è di una routine mortale, così il nostro Zelio, che da
quindici anni, per otto ore al giorno, compie sempre gli stessi gesti, ormai lavora con
i riflessi condizionati, senza impegno, meccanicamente, e gli resta molto tempo per
pensare.
Infatti è proprio durante il lavoro che ha potuto organizzare prima nella sua testa, poi
a casa l’ha battuto col computer, il suo primo libro che ha pubblicato in rete e che
parla della catena nascita-morte e della rottura della continuità di questa catena per
raggiungere la liberazione.
Un libro dissertazione che non l’ha reso famoso, ma gli ha fatto guadagnare parecchi
crediti, Zelio adesso sta lavorando ad un nuovo testo, questa volta sul loop, cioè se al
momento della morte si rivive, come molti sostengono, per intero tutta la vita, questo
significa che la morte non esiste e che l’eternità è qui e ora, infatti, dopo la prima
morte si rivive l'intera vita fino al momento della morte e di nuovo si ritorna alla
nascita di partenza, e così via all'infinito: è il trionfo frattale dell’autosomiglianza.
Rende anche chiaro il concetto zen che nascita e morte si identificano, ma come
conciliare tutto ciò con la liberazione dalla catena delle rinascite se queste portano ad
una eterna vita sempre ripetitiva? Ad un loop infinito?
E se poi il rivivere la vita vissuta, fosse un rivivere all’indietro nel tempo con
definitivo ritorno all’utero materno (all’interno del grembo materno c’è poi tutta
l’evoluzione della specie, involuzione, nel nostro caso perché stiamo procedendo a
ritroso) e poi il ricongiungimento con lo stadio di non essere esistente prima del
concepimento?
Zelio è in questo impasse e non riesce a venirne fuori, la cartellina intanto inizia a
lampeggiare, il turno di lavoro è terminato, pertanto effettua l’ultimo scarico, poi
torna al suo corridoio iniziale, posa la cartellina sul solito tavolinetto rotondo e si
ritrova nella postazione di lavoro, non più icona, ma Zelio.
Va allo spogliatoio, posa tuta, guanti e casco, si rimette i suoi abiti, si reca al
parcheggio, entra nel modulo e riparte verso casa.
Arresta il modulo vicino al suo appartamento ed entra nel computer-bar del quartiere,
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contemporaneamente davanti e dietro dai due giovani e tutti sono immersi in un’aura
di felicità e di piacere.
«Allora anche noi possiamo farlo qui?»
«Naturalmente!» e si alza, s’avvicina, gli prende in bocca il membro e inizia a
succhiarlo.
Zelio fa lungamente l’amore poi esausto s’addormenta al sole, mentre la rossa si
tuffa, lui sogna d’essere a casa sua e di risvegliarsi, di prepararsi per andare al lavoro,
di entrare nell’opificio, di divenire un’icona, di non prendere la cartella, di cercare un
ascensore per dirigenti, di battere un codice a caso, di ritrovarsi in una stanza
ottagonale con un’unica porta, di attraversarla, di vedere una piscina con bagnanti
nudi, di essere un bel giovane, di tuffarsi, di bere un Martini, di far l’amore con una
rossa e poi d’addormentarsi al sole e sognare d’essere a casa sua, di svegliarsi, di
prepararsi per il lavoro, di entrare nell’opificio, di divenire un’icona, di non prendere
la cartella, di prendere un ascensore per dirigenti, di trovarsi in una stanza ottagonale,
di vedere la piscina, di essere un giovane, di tuffarsi, di bere un Martini, di scopare
con una rossa…
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TEMPO ZERO
Zeus era sottoposto ad una tentazione continua da parte di Venere, sua figlia
adottiva, e per umiliarla e punirla la fece innamorare follemente di un mortale:
Anchise, re dei Dardani, nipote di Ilio. Da Venere e Anchise nacque Enea. Con
Adone, Venere ebbe due figli, Golgo fondatore dei Golgi nell’isola di Cipro e Beroe
che fondò Berea in Tracia.
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ad una, le scoprì.
«Questo lo so già, ti sei sposato da poco vero?»
«Sì, da nove mesi.»
Pescò altre tre carte.
«Non durerà.»
Altre tre carte.
«Non siete in sintonia nel fare l’amore.»
E Ryo: «Forse è così.»
«Voglio darti il dono.»
«Che cosa?»
«Lascia perdere e stai attento, ti insegnerò a leggere i tarocchi.»
Per ingelosire Adone, Venere ebbe una relazione con Bute l’argonauta e divenne
madre di Erice, re della Sicilia. Le Moire assegnarono a Venere un solo compito
divino, quello di fare l’amore. Un giorno Atena sorprese Venere mentre tesseva ad un
telaio e reagì al fatto che si tentasse d’usurpare le sue prerogative. Afrodite si scusò e
da allora non eseguì mai più alcun lavoro manuale.
E cominciò a spiegare il significato delle carte, una ad una, poi estrasse dal cassetto
del tavolinetto un libretto un po’ consunto dall’uso dal titolo <I TAROCCHI>con
foderina gialla e la carta della morte stampata in nero, sotto il nome dell’autore:
Papus.
«Questo te lo regalo, l’ho usato io per qualche tempo, ma tieni sempre presente che
può servirti solo come indicazione, sei tu che dovrai assegnare ad ogni carta il suo
vero significato, dovrai imparare le rispondenze tra carta e carta, e quando avrai
chiaro tutto questo, capirai che dovrai usare un altro metodo, ma questo dovrai
scoprirlo da solo.»
Poi insegnò a Ryo alcune semplici figurazioni con cui sistemare le carte: la croce, la
piramide, l’occhio.
Gli spiegò anche come le lame fossero, nelle varie figurazioni, in relazione l’una con
l’altra. E qui terminò la lezione.
Ryo aveva in casa un mazzo di tarocchi piemontesi e da allora si esercitò aiutato
anche dal manuale di Papus.
E le carte cominciarono a farsi leggere davvero e Ryo ci indovinava sempre più
spesso.
Ma riusciva anche meglio in altre piccole cose, come togliere il malocchio o cucire
gli orzaioli, cose queste che aveva imparato da alcuni manuali di magia pratica
comprati in libreria in edizione economica.
Ma erano le carte ad intrigarlo sempre più, finché un giorno si accorse che i tarocchi
raccontavano storie, cioè Ryo teneva una carta in mano e istantaneamente vedeva una
storia, o una situazione, o un posto, o un volto.
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Ad una cena disse ad una anziana signora che sarebbe, tra poco, andata a New York, e
così fu, dovette colà recarsi per acquisire una eredità.
Ad un amico poeta disse che avrebbe passato una notte con Allen Ginsberg a bere
birra.
E anche questo si avverò poco dopo, al Festival dei Poeti a Castelporziano.
Poi nelle carte vide la morte di troppi amici, e smise di usarle, non del tutto, ma quasi,
le faceva solo raramente e su cose banali.
La magia continuò ad appassionarlo, ma la passione era più culturale che pratica.
Gli anni passarono, la moglie di Ryo lo lasciò, Mamablanca morì, Endro se ne andò
lontano ad insegnare.
In uno degli ultimi incontri con Endro, Ryo gli raccontò come riuscisse bene con i
tarocchi e lui gli rispose: «Mi sa che prima di morire mia madre ti ha lasciato il dono,
stai attento a come l’adoperi» gli disse anche che sua madre aveva un alleato, l’unico
essere con cui lei aveva fatto all’amore e che questo era suo padre.
«A mia madre ho sempre detto che non ci credevo e che non mi importava chi
fosse mio padre - Meglio così – rispondeva lei.»
Un giorno Ryo era a Roma e stava curiosando al mercatino settimanale
dell’antiquariato, quando tra i libri usati di una bancarella, tra le mani gli capitò uno
strano volumetto titolato <PENTACOLI> con sulla copertina seppia la clavicola di
Salomone in nero e sotto la scritta col titolo anch’essa in nero e nessuna altra
indicazione, né l’editore, né dove e quando fosse stato stampato.
Incuriosito iniziò a sfogliarlo, iniziava da pagina dodici, le altre erano state tolte e
finiva a pagina centoventuno, e anche in fondo mancavano alcuni fogli.
All’interno vi era il disegno di tre pentacoli per ogni pagina con sotto scritto a che
cosa servivano e nessuna altra indicazione.
I primi tre: per vincere al gioco, per far piovere, per togliere il mal di schiena.
La pagina successiva: per passare ad un esame, per incontrare una persona, per far
tornare l’appetito.
E così via, i pentacoli erano sistemati senza alcun ordine logico apparente e
mescolavano cure, malefici, situazioni da risolvere o da ingarbugliare, agenti naturali,
cose materiali e spirituali, invocazioni divine e sataniche.
Chiese quanto costava, e il venditore sparò una cifra irrisoria, Ryo l’acquistò subito al
prezzo di un giallo mondadori usato, forse a causa delle pagine mancanti all’inizio e
alla fine, e il libretto fu poi sistemato assieme agli altri volumi sulle religioni e sulla
magia che si trovavano accatastati su uno scaffale della sua libreria.
Ogni tanto distrattamente lo sfogliava e nel libretto trovava sempre pentacoli per le
cose più impensate, sulla terza pagina di copertina vi era una fitta scrittura a lapis,
fatta con un alfabeto formato da simboli alchemici, magici e astrologici che Ryo
riconobbe subito come l’alfabeto usato da John Dee, un mago e negromante
dell’Inghilterra puritana, nato a Londra nel 1527 e vissuto fino al 1608 che era
l’astrologo di corte della regina Elisabetta la Grande, era a conoscenza di questo
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alfabeto perché quando era ragazzo, tra le carte di suo nonno aveva trovato delle
strane cartografie satellitari e delle cartine geografiche ingiallite zeppe di quei
simboli e che sul retro avevano tutta una serie di frasi scritte con quell’alfabeto,
allora, incuriosito cercò di capire che cosa fossero, finché su una rivista non trovò
proprio quell’alfabeto.
Una sera mentre curiosava in quel libretto si soffermò su un pentacolo che non aveva
mai notato <per far rivivere la conoscenza> diceva la nota scritta sotto la figura.
Ryo lo guardò concentrando l’attenzione, come faceva coi tarocchi quando era in
attesa di un segnale, e la stella di David che era disegnata in alto sopra la punta
cominciò a sollevarsi dal foglio, librandosi nell’aria come fanno le immagini 3D
computerizzate dell’occhio magico.
Anche le lettere arabe che erano all’interno del pentacolo si sollevarono lentamente,
mentre si formava a rilievo un’immagine a più piani sia fisici che di lettura, che dal
foglio arrivava ad oltre un metro d’altezza.
Un’immagine che si faceva sempre più nitida e concreta.
Ryo si sperse in angolature impossibili e negli arabeschi che le circondavano senza
riuscire a comprendere ciò che stava osservando, poi l’immagine s’afflosciò su se
stessa ritornando lentamente nelle due dimensioni.
Ryo, tentò di nuovo di far apparire l’immagine tridimensionale, ma ogni sforzo fu
vano, allora richiuse il libretto e lo rimise al suo posto, non lo aprì più fino a “quella
sera”.
“Quella sera” giunse tre anni dopo, Ryo aveva attraversato un buon periodo della sua
vita, il lavoro era ok, aveva la sua casa-studio in pieno centro, scopava con una
biondina dello scorpione che l’eccitava come mai nessuna donna era riuscita, aveva
anche riallacciato il rapporto con Nicole, il vero amore della sua vita che aveva perso
cinque anni prima e che inaspettatamente era ritornata con un orologio automatico in
un pacchetto come regalo.
Poi successe che la biondina senza alcuna motivazione, sparì, la sua auto non era più
parcheggiata davanti casa, la sua abitazione era sempre chiusa e buia la notte, il suo
numero di cellulare non rispondeva, e una voce registrata diceva che era errato.
L’esattoria cominciò a tormentarlo con lettere, notifiche e ingiunzioni su tasse
arretrate alle quali Ryo aveva fatto regolare ricorso.
Nicole poi, gli telefonò che non lo amava più e che non voleva rivederlo.
Mentre era in tutti questi casini, il proprietario di casa lo sfrattò dal suo appartamento
e non ne volle sapere né di ricontrattare l’affitto né di vendere l’immobile.
Ryo cercò di reagire a tutte queste avversità, ma si sentiva come svuotato di ogni
energia e rassegnato a ricominciare tutto da capo, troppe cose negative erano successe
tutte assieme.
Ma lentamente la rabbia crebbe in lui, dapprima una sensazione leggera, che poi
aumentò e infine crebbe a dismisura, e una sera incazzato nero, si ritrovò in mano il
libretto dei pentacoli e si concentrò sul suo ex padrone di casa con davanti agli occhi
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ascoltava, il suo tempo zero rimase fisso e il suo telefonino restò con in memoria i
numeri fantasma.
I cuori sono duri, il più delle volte non si spezzano (S. King)
Venere è anche la signora della morte e della vita, e inoltre signora delle tenebre,
poiché si dice che l’amore riesca meglio nel buio della notte.
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HURRUH
Cindy e Meg erano amiche da sempre, Cindy alta uno e ottanta, bionda e slanciata,
col fisico tipico delle modelle un po’ anoressiche, Meg rossa, non molto alta, tornita
ma assai piacente.
Una coppia che gli amici definivano assai appetitosa.
Si erano conosciute all’ultimo anno del liceo, poi erano passate all’università
iscrivendosi alla stessa facoltà, seguendo gli stessi corsi, dando identici esami.
Facevano da anni coppia fissa e i maschietti loro amici avevano ormai da tempo
rinunciato a conquistarle, tanto non c’era niente da fare, per la verità si sapeva che
questa coppia ogni tanto s’apriva, ma le amicizie erano sempre rigorosamente al
femminile.
Terminata l’università avevano iniziato a lavorare assieme, preparavano
sceneggiature teatrali per la TRI-TV, per olofilm, per programmi simstim, e così via,
ed erano, non ancora famose, ma molto apprezzate.
Una mattina le troviamo insieme nel loro modulo di trasporto in direzione Milano,
per un incontro di lavoro con un regista della rete simstim.
Una nebbia tremenda, quella mattina, una di quelle spesse nebbie come solo la
pianura Padana può regalarci, non si vedeva a più di tre metri, dunque visibilità zero,
ma il modulo seguiva la pista magnetica dell’autovia e precedeva senza scosse ad una
trentina di chilometri l’ora.
Nell’abitacolo entrava dal cruscotto e dai finestrini una plumbea luce spettrale filtrata
dalla spessa coltre di nebbia, bagliori verdastri si diffondevano dallo schermo attivato
sul cruscotto ove dei quadratini, verdi appunto, segnalavano i veicoli oggi in lento
movimento sull’autovia in un set grigio perla luminescente mentre le corsie erano
sottili linee azzurre.
Cindy e Meg che avevano inserito la guida computerizzata, parlavano tra loro del più
e del meno, con quel chiacchiericcio tipico di chi vive da anni insieme, mentre il
modulo arrancava lento in direzione Milano… il tempo scorreva senza fretta e la
nebbia pian piano si fece un po’ meno fitta, poi diradò e infine si cominciarono a
scorgere i raggi del sole.
Quando il grigio manto scomparve del tutto, o quasi, Cindy esclamò all’improvviso
nel bel mezzo della conversazione «Ma dove cazzo è finita l’autovia?» la strada si
era, infatti, ridotta a due sole corsie, lo schermo non indicava alcun veicolo e il
panorama era collinare.
«Ma qui le colline non ci dovrebbero essere!»
«Ci sarà stata una deviazione e noi non ce ne siamo accorte.»
«Collegati con la rete satellitare e guardiamo dove siamo finite.»
Meg armeggiò coi comandi del computer di bordo, ma i dati non giunsero, sullo
schermo si formò la scritta <NON IN RETE>
«Cazzo! ci mancava anche questo, siamo scollegati!»
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Infatti la luce del sole era calata, ma i loro orologi segnavano entrambi le 16.
«Te l’ho detto, qui il tempo va più veloce.»
«Ma i nostri orologi no.»
«Ma gli orari dei negozi non erano stati liberalizzati in tutta Europa?»
«… »
Rientrarono all’hotel e si sedettero ad un tavolo della sala da pranzo che s’apriva a
destra della scala.
«Non mi sembrava che ci fosse la sala da pranzo al piano terra.»
«Non ci avremo fatto caso.»
Un cameriere le salutò e preparò il tavolo a cui si erano sedute, poi portò una caraffa
di latte, una di caffè e una di tè, dopo alcuni minuti giunse con un vassoio di cornetti
caldi e fumanti, esclamando: «Sono alla marmellata!»
«Ottimo, ma un vero pranzo, qui è possibile farlo?»
«Sì, domani.»
«… »
E se ne andò facendo un lieve inchino, sempre sorridendo.
Mangiarono un paio di cornetti a testa, poi riprovarono a telefonare a Milano,
inutilmente.
Prima di rientrare in camera chiesero al cameriere se ci fossero i vigili urbani e lui
rispose che avevano l’ufficio proprio in piazza.
Strano, avevano girato proprio tutto il piazzale, ma non l’avevano visto.
Rientrate in camera accesero il televisore: stavano nuovamente trasmettendo il film di
prima, cambiarono canale, e un secondo era in funzione, programmava uno
spettacolo hard con due ragazze nude sul letto.
«Guarda sembra il demo che abbiamo girato in casa l’anno scorso.»
«Si, ma le protagoniste non siamo noi.»
«Però ci somigliano, guarda la bionda, ha due tette proprio come le tue.»
«È vero! Per quello mi piaceva tanto!»
Dopo un po’ lasciarono accesa la tivù e si misero sul letto.
«Cindy, m’è venuta un’idea.»
«Cosa?»
«Aspetta e vedrai» alzò la cornetta del telefono e attese.
«Servizio.»
«È la camera tre, potete mandarci una bottiglia di champagne e una cameriera alta
uno e settantacinque, con un bel paio di tette, capelli lisci lunghi e neri e
possibilmente mulatta?»
«Sì, tra mezz’ora va bene?»
«Perfetto, aspettiamo, grazie.»
«Metteranno tutto sul conto?»
«Chi se ne frega!»
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HURRUH
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Che strana bambina era Edna. Sempre sola, introversa, mai aveva legato con le sue
coetanee, fin dall’asilo.
Quando aveva quindici anni, tutti in città la consideravano un po’ matta, bastava
guardarla come camminava.
Nella sua cittadina medioevale molte erano le vie lastricate in pietra e lei camminava
sempre spedita tra una lastra e l’altra cercando di non calpestare le righe, e anche se si
accorgeva che qualcuno la stava osservando, proseguiva in quel suo gioco come se
niente fosse.
Anche i vestiti che indossava spesso attiravano l’attenzione, erano abiti sempre alla
moda, ma esclusivamente a righe grandi, piccole, talvolta quasi invisibili, ma sempre
a righe, orizzontali o verticali.
Pure il suo zainetto, le sue borse, le foderine dei quaderni e dei libri e anche lo
spazzolino da denti, la carta da parati della sua camera, la penna con la quale
scriveva, tutto era disegnato a righe.
Dicevamo che amiche vere e proprie non ne aveva, manteneva però buoni rapporti
con tutti, genitori, parenti, compagni di scuola e per questo aspetto era anche
benvoluta.
Quando in casa festeggiavano il suo compleanno, tutti facevano a gara nel cercare
oggetti decorati con righe per regalarglieli, ormai la sua stranezza era pienamente
accettata.
E anche a scuola si comportava come una studentessa modello, sempre attenta,
sempre preparata.
Aveva avuto fin da piccola la passione per il disegno e con le matite colorate riusciva
a fare dei lavori veramente interessanti composti sempre da righe quasi parallele
sistemate in verticale.
Ed è proprio con il mutare dei colori che le piatte righe si trasformavano in nature
morte, in paesaggi, in ritratti.
Con la stessa tecnica passò poi ai dipinti su tela ad olio e notevole fu il successo che
riscosse fin dalle sue prime mostre.
Non finì l’accademia perché era sempre più indaffarata per le richieste delle gallerie
che da tutto il mondo chiedevano le sue opere.
I guadagni non tardarono ad arrivare e con quelli lei si costruì uno studio-abitazione
in periferia, ovviamente nel suo regno tutto era a righe, dalle pareti ai pavimenti, dalle
lenzuola alla tappezzeria.
Anche l’illuminazione cadeva dal soffitto in molteplici fili, come una pioggia lucente.
Chi capitava da lei provava un senso di vertigine e poi doveva chiudere gli occhi
perché le righe danzavano attorno all’intruso facendogli prima perdere l’equilibrio e
poi anche la mente risultava frastornata.
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A quel punto Edna doveva prendere per mano il visitatore e accompagnarlo fuori
della sua abitazione.
Elaborò un linguaggio composto di sole righe verticali multicolori, e questo
linguaggio le piacque talmente tanto che sotto ogni suo quadro scriveva sempre
qualche verso di una poesia o una frase composta per l’occasione.
E alcuni dei suoi quadri erano totalmente ricoperti da questa particolare scrittura che
nessuno riconosceva come tale.
La sua pittura intanto pian piano iniziò a staccarsi dalle immagini reali per divenire
prima surrealista e poi sfociare in un informale che agli occhi dei critici veniva
scambiato per optical.
Su delle vecchie agende aveva iniziato a tenere un diario, ove appuntava tutte le sue
giornate, scritto ovviamente nel suo linguaggio a righe verticali multicolori.
L’insieme di Cantor l’affascinò con le sue implicazioni algoritmiche, anche i codici a
barre l’attraevano e conservava in una serie di scatole tutti i codici a barre dei prodotti
che lei acquistava. Talvolta entrava in un supermercato solo per divertirsi a leggere
sorridente i codici.
Aprì un sito in rete e riempì pagine intere con i suoi racconti, le sue poesie e i suoi
disegni.
Le scritture erano ovviamente nel suo linguaggio, e attese che qualcuno le
rispondesse.
- Ci sarà pure nel mondo un essere umano in grado di capirmi – pensò.
Il sito poteva infatti essere visionato da chiunque, ma ogni eventuale comunicazione
doveva essere inviata solo nel suo linguaggio.
Edna aveva anche elaborato con la stessa metodologia un idioma per la matematica e
in rete aveva immesso tutta una serie di operazioni numeriche.
Tutti i giorni controllava il sito e, ogni tanto immetteva qualche sua opera che a lei
piaceva particolarmente o una poesia o un disegno o un racconto o una pagina del suo
diario.
- Hanno decifrato i codici più complessi, i geroglifici egiziani, il linguaggio di
John Dee, prima o poi qualcuno sarà in grado di leggermi.
Cominciò anche ad elaborare, sempre con la stessa sua personale tecnica, delle
sculture olografiche che incontrarono anch’esse il parere favorevole della critica e tre
delle più belle le trasferì in rete.
Centinaia di persone visitavano ogni giorno il suo sito, ma nessuna comunicazione
giungeva.
Le pagine in rete venivano spesso riprodotte su riviste d’arte o finivano alla TRI-TV,
anche la sua casa era meta obbligata per le riviste d’arte e d’arredamento e lei era
ormai un’artista famosa in tutto il mondo.
Iniziarono poi le visioni, lei si trovava all’improvviso immersa in un set composto da
sole righe colorate nel quale si distinguevano paesaggi irreali che s’intrecciavano con
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Dalmazio gira sempre con la sua valigetta color testa di moro e non se ne separa mai,
ha le dimensioni di una classica ventiquattrore con minute borchie dorate agli angoli,
ma è molto più sottile e leggera.
È il suo inseparabile PC, un PC veramente personalizzato costruito appositamente per
lui da una tribù magico-informatica che da lungo tempo si è specializzata in queste
perfette e ricercatissime costruzioni artigianali.
La tribù degli Elfi, così si fa chiamare, si trova in zone remote dell’Appennino Tosco-
Emiliano, luoghi raggiungibili solo da chi loro vogliono, perché le montagne sono
state integrate con realtà virtuali e labirinti informatici insuperabili per gli ospiti non
desiderati.
Ma Dalmazio è sempre stato in sintonia con gli Elfi e con loro collegato fin da
bambino, quando raggiunse la maggior età gli regalarono quel PC, così invidiato da
tutti i suoi amici e dal quale lui mai si separa.
Il regalo avvenne tramite la rete, scaricarono il PC virtuale degli Elfi nel suo Sendai,
poi si attuò la trasformazione.
Dalmazio era pronto per poter usare la tecnologia magico-informatica degli Elfi e
attivando la sua piastra neurale assemblò nei minimi particolari il set d’entrata, che lo
volle costituito ricalcando l’abitazione di un suo lontano antenato con il quale era
innumerevoli volte entrato in contatto con la droga antientropica.
Infatti Dalmazio ha molte affinità con l’antenato, per questo aveva vissuto con lui
innumerevoli esperienze a cavallo tra il XX e il XXI secolo.
È un antenato molto particolare, la sua mente allenata lo porta a contatti con il futuro
probabile e molte volte Dalmazio è stato certo di vivere con lui nella realtà ordinaria.
La casa, il set d’entrata, è composta da una stanza d’ingresso con tavolo da lavoro e
libreria, cucina con annessi e connessi, studio con scrivania e vari mobili stracolmi di
riviste, videocassette, libri, etc., c’è poi una stanza con gli armadi, una camera da
letto matrimoniale e un piccolo bagno con doccia, filodiffusione in ogni stanza,
quadri alle pareti e tappeti per terra.
Le icone le ha sistemate nelle videocassette, basta prendere in mano “Morte a
Venezia” e sei nella Venezia del XVI secolo, “La dolce vita” e ecco una festa in un
castello medioevale della Roma del XX secolo, “Tokyo decadence” porta invece ad
una Tokyo del XXIII secolo, violenta, depravata, erotica e supervirtuale.
Ha scaricato tutti i suoi programmi nelle videocassette, toccarle equivale a scegliere
un’icona.
C’è voluto tempo e pazienza per la creazione dell’appartamento, ma ancor di più ha
richiesto la minuta configurazione della città medioevale nella quale l’appartamento è
inserito.
I siti degli Elfi sono in rete e non lo sono, in rete tra loro come l’evoluzione
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s’apre al semplice tocco, all’interno un paio di guanti di pelle nera e degli occhiali a
goccia tipo Ray Ban.
Vic tira fuori occhiali e guanti e la valigetta si richiude, appare la scritta <NON HAI
LA PIASTRA NEURALE DEVI USARE GUANTI E OCCHIALI >
«Ho capito» dice Vic, anche se non ha ben chiaro cosa sia una piastra neurale,
comunque riapre la valigetta e rimette tutto dentro.
Afferra il PC degli Elfi a mo’ di valigetta e si reca a far compere con i soldi che
adesso i bancomat buttano senza tregua.
Acquista una macchina sportiva usata, si rifà il guardaroba e può permettersi alcune
cosette che da tempo desidera, tra queste un Longines da cinque milioni che gli piace
un casino.
Alcuni giorni dopo in casa prova il nuovo PC, si mette guanti e occhiali e si ritrova
nel set d’ingresso che è quello di Dalmazio, cioè nella bella copia virtuale del suo
appartamento.
Si guarda bene, questa volta, dal toccare le videocassette e al PC che l’ha seguito
chiede:« Puoi darmi informazioni?»
< CHIEDI > appare la scritta.
«Guanti e occhiali posso farne a meno?»
< SÍ, SDRAIATI SUL TAPPETO E CHIUDI GLI OCCHI>
Vic si distende sul morbido tappeto orientale e chiude gli occhi, subito è preso da una
vertigine ed è sicuro di essere trasportato in qualche altro posto, poi avverte una
sensazione di freddo in tutto il corpo, infine uno strano sfrigolio seguito da lampi di
luce e si sente di nuovo trasportare.
A quel punto apre gli occhi e si ritrova nel set d’ingresso, sdraiato sul tappeto, si porta
la mano al lobo dell’orecchio sinistro e tocca un orecchino che prima non c’era.
«Computer fammi rientrare» ed è in casa sua sempre con occhiali e guanti, se li toglie
e li rimette nel PC, si guarda allo specchio e nota l’orecchino, un piccolo diamante
che adesso sa essere la piastra neurale.
Alcuni giorni dopo lo ritroviamo a Pisa nel bar che è frequentato da Anna Ronchi,
sono le dieci e mezzo del mattino, quella è l’ora del caffè e cornetto alla marmellata
per lei.
Ma la prima mattina non viene, il giorno successivo, invece, arriva con qualche
minuto d’anticipo e Vic è ad attenderla.
Conoscerla risulta facilissimo.
«Ciao, sei Anna, vero?»
«Sì, ma ci conosciamo?»
«Ti ho visto alla presentazione di alcuni libri, al circolo dei Cavalieri.»
«Sei iscritto anche tu al circolo?»
«Non ancora, ma sono venuto qualche volta ai pomeriggi letterari, al prossimo che
vengo m’iscriverò sicuramente, a proposito, io mi chiamo Vic.»
E a Vic Anna piace al tal punto che si dimentica completamente dell’incarico e inizia
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a farle la corte.
Divengono subito amici, Vic è brillante e coi soldi delle carte l’accontenta in tutto,
ormai è un mese che sono sempre insieme.
«Ma quella valigetta non l’abbandoni mai?»
«No, è un PC sperimentale e lo voglio avere sempre appresso, un giorno ti spiegherò
il motivo.»
Passano ancora alcuni giorni e infine Vic la porta nel set d’ingresso facendole usare i
guanti e gli occhiali, deciso di raccontarle tutta la storia.
«Ma questo set, come lo chiami, è quasi identico alla tua casa.»
«Sì, ma non toccare le videocassette, sono icone che ci portano chissà dove, io non
conosco ancora il loro significato.»
Dalmazio intanto prosegue la sua vita di sempre ma è incuriosito da quello che Vic
avrebbe dovuto fare, decide così di prendere una dose della droga antientropica e,
sorpresa, si ritrova nel suo set d’ingresso in Vic che sta facendo l’amore con Anna.
“Tutto ok” pensa, e in Vic s’abbandona all’amplesso.
Vic s’accorge subito della presenza e ne è felice.
« Domani ci ritroveremo tutti e tre qui» pensa Dalmazio e sente che Vic ha
compreso.
Il giorno successivo Vic e Anna si materializzano nel set d’ingresso e trovano
Dalmazio che li sta aspettando.
«Sembrate proprio gemelli» esclama Anna alla quale ormai è stata raccontata ogni
cosa, ma non è ancora convinta del tutto.
Il giorno prima infatti, Vic le ha raccontato tutta la storia, specificando bene che i suoi
sentimenti per lei sono autentici, ma lei è se non incredula, quanto meno sbalordita.
«E ora cosa facciamo?»
«Io direi di andare dagli Elfi.»
E mentre Dalmazio sta per prendere la cassetta di “Tokyo decadence” sentono
bussare alla porta.
È il ragazzino, l’Elfo che entra sorridendo:«Ciao a tutti, so che tutto sta andando alla
perfezione.»
«Abbiamo già salvato il mondo? È un po’ logora come frase.»
E tutti si mettono a ridere e l’Elfo fa cenno di sedere indicando i cuscini.
«Bisogna coordinare le prossime mosse.»
«Voi cosa avete intenzione di fare?»
«Fare? In che senso?»
«Sarebbe bene che Anna rimanesse qui con noi, voi due potete scegliere di tornare ai
vostri tempi, in questo caso anche Dalmazio avrà credito illimitato. Però potete anche
decidere di essere uniti nel tempo che vorrete. Altra soluzione, potete tutti stabilirvi
qui e voi due o uniti o insieme.»
«Che cazzo significano tutti questi o uniti o insieme?»
«Che siete simili al punto di essere uguali, potete essere due o uno, dovete solo
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scegliere.»
«Come quando viaggiamo.»
«Un’altra cosa se decidete di stabilirvi qui avrete piena disponibilità delle nostre
risorse, potrete vivere nel vostro set d’ingresso, o stabilirvi da noi a Tokyo o avere
un’isola o un’intera città tutta per voi, le scelte sono illimitate.»
«Direi di rimanere tutti e tre qui, e io e Dalmazio insieme.»
«Sono d’accordo, non ci sentiremo mai soli.»
«Che strana coppia saremo, ho due uomini in uno, penso che così sia il massimo.»
«Se siete d’accordo, allora… » e l’Elfo armeggia sui comandi del PC e Vic e
Dalmazio, si scompongono in miliardi di frattali vorticanti per riformarsi in un unico
Vic-Dalmazio.
E Anna: « E ora come devo chiamarti?»
«Come ti pare.»
«Diamo il via alle altre mosse» e l’Elfo inizia a gesticolare davanti al PC, dopo alcuni
minuti:« Ecco, tutti i punti nodali sono stati raggiunti e l’effetto farfalla ha distrutto le
frange della massomafia.»
«Il figlio della Vedova non esiste più.»
«Non è mai esistito, non è mai nato.»
I corpi di Vic, Dalmazio e Anna che sono rimasti nei loro tempi reali si
affievoliscono, poi si dissolvono mentre i loro simulacri divengono sempre più densi,
per effetto dell’interazione nello spazio caotico, fuori rete, nell’intranet degli Elfi, che
ora è il loro mondo nel quale potranno creare a piacere e, se vorranno, discendere in
ogni tempo del reale e del virtuale.
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CREDO
IO CREDO
Da troppo tempo vago senza alcuna meta e senza uno scopo definito. Ho conosciuto
l’universo e mi sono spostato in quelli paralleli con tutte le loro possibili infinite
varianti.
La genesi una volta mi affascinava e ora mi trovo su un mondo in piena evoluzione
ove la vegetazione occupa ogni più piccolo interstizio e le forme animali solo adesso
fanno le loro timide prime apparizioni, è rimasto l’unico mondo in formazione,
intorno grava un vuoto desolato.
Sono stanco del troppo tempo trascorso, resto ad osservare, ma sono completamente
distaccato da quel paesaggio primordiale che un tempo riusciva ad affascinarmi.
Mi sento terribilmente inutile, fuori posto ovunque mi trovo, l’eternità mi ha logorato,
i ricordi sono ormai svaniti, chi sono? Cosa sono? Qual è lo scopo del mio esistere?
Ricordo che un tempo non mi ponevo questi interrogativi, ma esistevo e basta, e ero
in sintonia con gli universi, avevo stimoli creativi e intervenivo nella nascita della
vita, vivevo con le entità simili a me, coi carne-vincolati e con loro e con la restante
natura festosamente giocavo, ma quei tempi sono terminati, i ricordi svaniti, le
sensazioni offuscate.
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degli altri senzienti, qui c’è stato un ribaltamento della storia, un creatore che ha
voluto negare se stesso.
Gli dei della genesi sparirono nel nulla, mentre i creatori degli dei successivi, gli
uomini e i senzienti, sempre rinnegarono il loro ruolo e dettero ai loro figli poteri
divini ribaltando la verità.
Gli dei della genesi, furono loro i veri, primi creatori? Non so, non ricordo, ma la
cosa poco importa essi sono svaniti da eoni, tutta la vita va cessando, e io chi sono?
Perché seguito ancora ad esistere?
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...AMEN.
...e con terrore il temponauta, disperso e colmo all’infinito d’energie dirompenti per
l’altalenare senza senso nel tempo, sbalzato da un’era all’altra, per un banale errore
del computer, si rende conto da questo nulla che l’avvolge di essere giunto al
capolinea...
La sua esplosione è attesa da questa assenza che vuol generare.
La scintilla vitale esplode e di nuovo si genera lo spazio e il tempo… È. lui il
Creatore….è LUI.
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Il fiume si divideva in tre piccole cascate e a monte si vedeva quello che restava di un
ponte costruito in blocchi di pietra, era tutto ciò che rimaneva di un antico tracciato
ferroviario.
Le tre cascate confluivano in un laghetto dal quale le acque rifluivano rumorose in un
alveo scavato tra le rocce.
In lontananza, più a valle, tra la fitta vegetazione s’intravedevano due arcate superstiti
di un altro vecchio ponte, i due archi siti proprio nel bel mezzo del corso d’acqua,
reggevano ancora una trentina di metri d’inutile strada asfaltata.
Sul lato sinistro del laghetto, vicino alle tre cascatelle, vi era un nastro di spiaggia
lungo una cinquantina di metri. A ridosso della spiaggetta s’apriva l’entrata della
grotta, intorno alte montagne, con una fitta vegetazione di abeti, acacie e castagni,
chiudevano la stretta vallata e tra i monti splendeva un cielo azzurro solcato da aquile
e falchi con voli lenti dal moto perennemente circolare.
In alcune pozze formatesi tra le rocce, numerose rane gracidavano e una moltitudine
di girini ondeggiava senza tregua.
Grossi pesci si muovevano pigri nelle profonde acque trasparenti del laghetto che
ogni tanto veniva velocemente attraversato da serpi d’acqua nere che procedevano
con la testa dritta mentre il corpo svettava ondeggiante appena sotto le acque.
Cespugli di gialle ginestre in fiore attiravano moltitudini d’insetti volanti.
Piccoli sauri immobili sulle pietre assolate, quasi invisibili nella loro mimetizzazione
color scoglio, pazientemente attendevano le loro ignare prede.
Alcuni pesci risalivano a tratti le cascatelle con piccoli salti, e altri dal laghetto si
tuffavano nell’aria per carpire sprovveduti insetti che troppo s’erano avvicinati allo
specchio d’acqua.
Ogni tanto s’udiva il PLOP! di una grossa rana.
L’ingresso della grotta era nascosto da una rigogliosa vegetazione, il fiume scorreva
poco più in basso, la spiaggetta formata da minuti e colorati sassolini oggi non era
visibile perché le acque si erano innalzate per le recenti piogge.
L’interno della grotta era accogliente, tre ampi saloni si aprivano lungo un corridoio
di roccia.
La prima sala aveva il pavimento coperto da folti tappeti e ampi divani erano
casualmente disposti sia a fianco delle pareti che nel mezzo della stessa sala,
un’uniforme luce diffusa cadeva dal soffitto roccioso.
Un grande schermo rettangolare occupava un angolo della sala e in sottofondo si
diffondeva una dolce melodia. La seconda sala era occupata dai servizi, un’ampia
cucina con dispense e fornelli, un grande tavolo circolare con dieci sedie attorno. La
terza sala era il laboratorio, lo studio della donna del fiume, le pareti erano
interamente coperte da scaffali colmi di libri antichi e moderni, di videocassette, di
CD e di memorie solide, nel mezzo un tavolo con due sedie, sul tavolo un computer
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di foggia bizzarra e poi un’infinità dei più disparati oggetti: penne, mozziconi di
lapis, pennelli consunti, barattolini arrugginiti delle più svariate forme, vecchie
valvole termoioniche, stick di colla rappresa, sassolini variopinti, fazzolettini di carta,
ramoscelli anneriti con foglie secche, fili di metallo, rettangoli di plastica, scatolette
in bachelite, pezzi di giocattoli, minuteria raccolta in scatolette di plastica trasparente,
agende colme di appunti, un saldatore, una lente d’ingrandimento e chip consunti di
varie fogge e dimensioni.
Il tavolo aveva un’ampia cassettiera, all’interno della quale erano accatastati
centinaia, forse migliaia di piccoli oggetti di ogni tipo, dai bulloni alle viti, dai tappi
metallici alle rondelle, dalle ruote dentate di plastica a parti d’avvolgimento elettrico,
dalle biglie di vetro colorate ai bottoni, ecc.
Dalla terza stanza si accedeva ad un più piccolo locale che ospitava una minuscola
piscina con doccia e il bagno vero e proprio.
La donna del fiume preparava oracoli, le domande le arrivavano sullo schermo, solo
raramente si presentava qualcuno di persona e lei, dopo pochi giorni, forniva le
risposte solo a coloro che riteneva degni di riceverle.
Ogni domanda era corredata da un’offerta e questa veniva accreditata su un apposito
conto, dal quale attingeva solo per l’indispensabile.
Si recava quotidianamente davanti al fiume, e il fiume suggeriva le risposte che
venivano poi trasmesse al richiedente, non tutti ottenevano la risposta ai loro quesiti.
La donna del fiume, da tempo ormai immemorabile era l’oracolo, e il fiume le
lasciava sulla spiaggetta i piccoli oggetti che raccoglieva, sceglieva con oculatezza,
lavorava e infine assemblava.
Questi oggetti assemblati fungevano da catalizzatori di positività, erano insomma dei
portafortuna, e venivano ricercati alla grande, qualcuno sosteneva che fossero anche
delle vere e proprie opere d’arte e per questo motivo alcuni erano alloggiati in musei
d’arte contemporanea.
Lei donava gli oggetti a chi riusciva a raggiungerla, infatti non era per niente facile
arrivare alla grotta dell’oracolo, tante erano le difficoltà, gli ologrammi e i simulacri
ingannatori che aveva sistemato sul percorso e che riuscivano quasi sempre a
disorientare il pellegrino e a fargli perdere l’orientamento, inoltre il sentiero giusto
veniva quotidianamente mutato.
Inganni e trappole, anche mortali, dovevano essere superate dal pellegrino-postulante
e coloro che fisicamente giungevano al cospetto dell’oracolo ricevevano, oltre alla
risposta ai loro quesiti, dalle mani di lei il talismano, il portafortuna dai mille doni. E
anche di un elevato valore commerciale del tutto non trascurabile.
Già da svariati giorni non rispondeva alle richieste e aveva anche bloccato tutti gli
ingressi. Non voleva essere disturbata perché il fiume era inquieto, scorreva veloce
generando vortici, senza comunicare, emetteva solo un cupo borbottio che poteva
significare tutto e niente.
Anche il mutevole colore delle acque la lasciava perplessa: a momenti era limaccioso,
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marrone, color della terra come avrebbe dovuto essere nei momenti di piena, ma poi
diveniva chiaro, addirittura limpido, per tornare subito dopo marrone, e a tratti si
colorava d’arcobaleno come fosse stata gettata benzina sulle acque.
Ora l’oracolo seduta su una roccia osservava la massa liquida turbinare, con gli occhi
ben aperti alla ricerca d’un segno, con l’udito allertato per cogliere ogni variazione
del rumore che le fornisse risposte. Ma il fiume scorreva violento e muto.
Quando il sole tramontò si recò al tavolo di lavoro e iniziò a lucidare due sassi che
aveva raccolto quel mattino. Filamenti d’oro furono saldati ai terminali di tre vecchi
chip, poi sempre con fili d’oro i chip furono fissati ai sassi e ne risultò uno strano
oggetto rettangolare. Con gli smalti colorati, l’oggetto assunse un aspetto inquietante.
Lo guardò incuriosita, per la prima volta non fu in grado di riconoscere la funzione di
ciò che aveva prodotto.
Con in mano l’oggetto si diresse verso la roccia che abitualmente usava per ascoltare
i messaggi del fiume, percorse rapida il sentiero illuminato da una vivida luna. Sulla
roccia attese, il rombo delle acque le comunicò solo inquietudine.
L’oracolo si sentì a disagio anche sulla familiare roccia, tornò alla sua grotta nella
prima sala, si sdraiò su un divano, posò l’oggetto su un tavolinetto di cristallo lì
vicino e chiuse gli occhi. Si sentì osservata e di scatto si alzò in piedi.
Scorse per un attimo un’immagine olografica che rapidamente si dissolse, l’immagine
la turbò profondamente, nessuno avrebbe potuto introdursi da lei, gli ostacoli erano
tutti attivi, lei era completamente isolata. Andò alla console e verificò le chiusure:
erano regolarmente funzionanti, chiese allora la visione registrata della sala. Lo
schermo mostrò la stanza vuota, poi si vide entrare, sdraiarsi su un divano, posare
l’oggetto sul tavolinetto, chiudere gli occhi. Dopo qualche minuto si materializzò un
giovane, fermò l’immagine. Era vestito con un sari, pantaloni e scarpe color argento.
Ingrandì l’immagine del volto, ma la definizione risultò sfocata, come se il volto
fosse in ombra. Aumentò la definizione e l’ingrandimento analizzando anche gli
istanti successivi, ma il volto rimase sempre coperto dalle ombre: era impossibile, la
luce diffusa della sala non avrebbe potuto permettere la creazione di zone di tenebre.
Nei pochi secondi di permanenza, il giovane sembrava interessato al suo oggetto, ma
l’aver aperto gli occhi, l’aveva fatto precipitosamente scomparire.
Attivò ulteriori protezioni sia informatiche che magiche, poi inserì un ICE nero
militare che mai aveva usato e che aveva acquistato molti anni prima in rete da un
hacker: nessuno avrebbe potuto introdursi e se lo avesse fatto sarebbe rimasto
intrappolato, con ogni uscita negata e istantaneamente terminato.
Prese l’oggetto e lo posò su un cubo fluorescente nel mezzo alla sala con i divani, si
sdraiò su due cuscini proprio davanti al cubo e attese.
Dopo circa un’ora alcune scariche di energia statica inondarono il salone, poi si
materializzò l’immagine di prima: il giovane con il volto in ombra era davanti e lei.
«E tu, chi cazzo sei?»
«Ho dovuto far fuori il tuo ICE, ti prego di scusarmi.»
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del fiume, chiuse automaticamente ogni accesso, sbarrò l’entrata della grotta e mise
in stand bye se stesso e ogni servomeccanismo della dimora.
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ENEA PERELLI
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«Quella puttana con cui stava scopando l’ha raggiunto subito dopo.»
«Vuoi uccidere anche me?»
«No, tu eri il cavallo di Quezc, forse potrai servire.»
«Non sono un cavallo, e tu chi sei?»
«Mi chiamano “Nostra signora dei dolori” e non farti mai più ritrovare sulla mia
strada, a meno che io non voglia.»
E un dolore lancinante colpì Enea in ogni sua parte del corpo, mentre una scarica
elettrica lo fece schizzar via dalla console.
Si risvegliò dopo alcune ore completamente dolorante, con le mani piene di grumi di
sangue come se le palme fossero state trafitte, e con scottature diffuse in tutto il
corpo. La scrivania e il computer erano completamente bruciati.
Chiamò i robot, ordinò loro di rimettere tutto in ordine e si fece adagiare
nell’autodoctor.
Nessuno si preoccupò della sparizione di Annette ed Enea ritornò alle sue precedenti
occupazioni, gli affari seguitarono ad andare a gonfie vele anche senza l’alleato, ma il
processo d’invecchiamento era ricominciato.
“Nostra signora dei dolori” solo una volta si mise in contatto con lui, per annunciargli
che se lo avesse rivisto, l’avrebbe ucciso.
Gli anni trascorsero veloci ed Enea girava solo in rete o con il suo simulacro. Le sue
cellule, infatti, per evitare la morte erano state disciolte in una cisterna d’acciaio
piena di liquido amniotico.
Aveva in rete trovato un sito che lo appassionava e solo in quello si sentiva a suo
agio. Era un mondo fatto di prati verdi, di fiori profumati, di mari calmi, di ruscelli
sciabordanti, quasi del tutto disabitato. Gli umani abitavano solo un immenso prato
circondato da alte foreste. Un laghetto era sito proprio nel mezzo al prato e molti
bambini sempre giocavano. Bellissime donne si specchiavano nude nelle terse acque
e, ogni tanto l’aria si riempiva di dolci melodie e appariva un derviscio che roteando
danzava, facendo accorrere tutti i bambini che sorridenti si sedevano in cerchio
attorno a lui.
Era un sito strano, che non appariva da nessuna parte, che in realtà non avrebbe
dovuto esistere, ma che aveva un’interazione così densa da potersi scambiare per un
mondo reale.
Enea sostava sempre di più in questo mondo armonioso, mentre il suo simulacro sulla
terra assolveva diligentemente ogni suo compito. Aveva dapprima pensato di
trasferirsi definitivamente qui, e i tecnici gli avevano detto che la connessione era
possibile, ma lui aveva riflettuto a lungo e infine deciso per il no. Aveva troppo
vissuto, era ormai stanco. Sarebbe rimasto ad ammirare il derviscio finché le sue
cellule l’avessero tenuto in vita, poi sarebbe corso, come tutti, verso l’ignoto.
Era su quel mondo, sdraiato sul bordo del laghetto, stava osservando un gruppo di
bambini che giocosi si rincorrevano.
Le cellule del suo corpo si trovavano entro una cisterna d’acciaio lunga otto metri col
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BLACK BLOC
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chiesto, ma non ci abbiamo ricavato nulla, son tutti troppo fusi, meglio hanno anche
mandato all’ospedale due ricercatori che gli facevano le domande.»
«Questo non me l’avevi mai detto, visto che sono tosti i miei fan?»
«Lasciamo perdere. Andiamo piuttosto avanti e se è una pizza c'è già l’altro pezzo di
riserva che ti dicevo, già approvato da gruppo d’ascolto, manca solo la tua firma, e tu
ce la metti, vero? se no, soldi nisba, e coperture nisba, chissà come sarà contento il
giudice di pace se viene a sapere che la solita minorenne te la scopi
continuativamente sotto le tue lenzuola.»
« Caro editore, sei proprio un infame, cosa preferisci che scopi tua moglie?»
«Quasi quasi mi hai dato un’idea, e una volta tanto mi faresti pure un piacere, così
anche lei si calma un po’.»
« Ti prendo in parola, domani vengo da te con la minorenne e ce le scambiamo, sei
d’accordo?»
«Sì, ma solo per qualche ora, sai com’è, mia moglie è nella commissione
amministratrice della casa editrice, non vorrei rovinarmi la carriera.»
«Buono a sapersi, e vedrai domani, questa minorenne qui a letto ne sa una più del
diavolo, te l’assicuro.»
«Ci credo l’avrai addestrata per bene.»
«Qualcosa, sì, ma il più e meglio lo sapeva già, anzi è da lei che ho imparato doverse
cosette.»
«Ora è tutto pronto, passiamo al lavoro. Contatto.»
<INIZIO REGISTRAZIONE>
Le prime tute nere apparvero nella Germania dell’est al tempo dei vopos. Si
vedevano all’opera durante i raduni rock, ovviamente illegali per quel regime
comunista, ove si suonavano variazioni di nazi-rock e dark-rock, il tutto condito con
metallica [spezzoni filmati con musica dark assordante, luci strobo multicolori,
giovani scatenati vestiti di nero, braccia alzate con saluto nazi, birre e coca a fiumi,
bandiere nazi e confederate, croci uncinate e celtiche, fix d’ero in primo piano] Finiti
i concerti le tute nere assieme a metallari borchiati con tatoo e piercing ovunque
dilagano per la città bruciando auto, spaccando vetrine: siamo a Berlino e le tute nere,
oltre un centinaio, assaltano una stazione di vopos. Volano le molotov e roteano le
catene, si ode qualche colpo d’arma da fuoco. Poi le tute nere dopo l’assalto alla
stazione si disperdono nella notte. In un attimo sono tutte sparite lasciando nella
strada vetri infranti e auto bruciacchiate. Un vopos è a terra, ferito ad una gamba, sta
perdendo molto sangue, alcuni commilitoni sono attorno a lui, poi arriva
un’ambulanza a sirene spiegate. Adesso le tute nere sono in uno stadio, si sta
giocando una partita di calcio, è una città europea, ma non siamo in Germania. Sugli
spalti c’è confusione. Le tute nere in un attimo si ritrovano tutte assieme e
pesantemente aggrediscono un gruppo di tifosi, con spranghe stavolta, e picchiano
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duro sulle teste che capitano loro a tiro. Non sono soli, sono affiancati da naziskin
con le teste pelate e i giubbotti borchiati. Assieme s’aprono la strada fino ad
un’uscita, poi si scatenano contro le auto in sosta, le sfasciano, le incendiano, alcuni
poliziotti cercano d’arginarli ma finiscono a terra bastonati con rabbia. Proseguono
lungo la strada che porta al centro randellando macchine e passanti, sfondando
vetrine. La polizia interviene a questo punto con gli idranti, ma in un attimo le tute
nere sono tutte sparite, si sono dileguate nella città, la polizia gira a vuoto tra i
passanti e scova solo qualche naziskin ritardatario. Siamo ora in un campo
d’addestramento di terroristi mediorientali, alcune nostre tute nere marciano assieme
agli arabi, sono vestiti come loro e stanno seguendo un vessillo nero, hanno il volto
coperto e una telecamera li sta riprendendo. Di nuovo le tute nere e questa volta a
Berlino, fanno uscire i cittadini dall’altra parte del muro, hanno i loro passaggi, e si
fanno profumatamente pagare per distogliere l’attenzione dei vopos.
E ora in corteo migliaia di pacifisti antiglobal sfilano, le tute nere prima si
mimetizzano tra loro, poi all’improvviso escono allo scoperto, picchiano il servizio
d’ordine, sfasciano auto, aggrediscono passanti e spaccano vetrine di banche,
travolgono un gruppo di poliziotti e lasciando dietro di loro una scia di distruzione,
nuovamente scompaiono nel nulla. C’è che giura d’averli visti entrare in stazioni di
polizia, ma tutto è da confermare. Li ritroviamo ora in America ad un gran raduno
rock, stavolta tengono l’ordine e buttano giù dal palco chiunque non autorizzato sale.
Menano botte e fendenti su qualche malcapitato, tanto per restare allenati.
Loro sono i figli della Germania comunista, si sono allenati con gli scontri coi vopos,
hanno assimilato solo idee nichiliste, odiano il comunismo che rappresenta il capitale
assoluto di stato, monopolistico, così come ugualmente odiano il capitalismo della
decadenza occidentale che è solo una leggera variante del comunismo sovietico, è
solo un po’ più flaccido e democratico. Odiano gli ebrei e i negri perché razze
inferiori: sono atei, rifuggono ogni forma di progresso o di scientifico, la cultura è
merda, il loro dio è il Caos, la distruzione il loro credo. Ammirano Hitler, Stalin e Bin
Laden nella loro follia sterminatrice, anche il Che era un floscio romantico. O sono
atei o satanisti, odiano tutto ciò che è americano. [scontri di piazza in cortei pacifici –
assalto ai tifosi durante partite di calcio – scene di guerriglia urbana – campi
d’addestramento dei terroristi mediorientali – concerti nazi-rock – assalto ad una
banca – sfilano inquadrati dietro uno stendardo nero nel deserto – attentato alle torri
gemelle – altro concerto nazi-rock – di nuovo l’assalto alla banca – sniffano ero – fix
in primo piano – gli aerei colpiscono la prima torre, poi l’altra - una tuta nera giace
morta sul selciato, ha dei fori d’arma da fuoco sul torace, la telecamera l’inquadra a
lungo fermandosi sui particolari, zumata: orecchini nel lobo sinistro, piercing
sull’ombelico, una svastica è tatuata sulla spalla destra, al collo una catena di
metallo con croce celtica, una chiave inglese spunta da una tasca posteriore dei
jeans].
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<FINE REGISTRAZIONE>
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PRINCESSE EZIL
M-ret deyò a, m-bay tét mwen de kout pwen pou m-wé si se reve m-ap reve ou si s-on
lòt kont m-ap tire gran lajounen sa a.
(Félix Morisseau-Leroy)
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qualcosa d’insolito posato sull’erba: è una piccola zucca vuota coperta di collane e
campanelli: la tocco, anche se so che non devo.
***
Lei è della mia città, piccola con tantissimi capelli neri e ricci, porta la sua bambina
qui al parco giochi, ma solo in agosto, di luglio è infatti al mare e per i rimanenti mesi
se ne sta in città. Era la mia amante, ma è anche la manbo e io all’inizio di questa
storia non lo sapevo.
La manbo si materializza davanti a me, prende in mano la zucca vuota e mi dice
«Questo è l’asson, il simbolo del potere degli antenati» e comincia ad agitare l’asson
e non capisco cosa stia succedendo. Lei mi spiega che quando la manbo scuote
l’asson e lo agita , tutto questo serve a convocare nell’ounfo i loua.
Sono ancor più perplesso dalla spiegazione, che poco mi spiega. La ricciolina, ora
ricordo, da tempo non è più la mia amante, allora ci vedevamo nella mia casa in città,
e solo quando a lei pareva e anche a letto si faceva solo quello che lei voleva. Un
giorno mi disse che era stata molto male, il suo corpo piccolo conteneva infatti grandi
organi ed erano troppo pressati, così era stata molto male.
Solo ora comprendo che il triangolo tra le sue gambe è il mio “posto” ed è anche
l’ounfo. E l’ounfo è il tempio ove la manbo agita l’asson per convocare i loua.
Ora tutto comincia a farsi chiaro, ero certo di far l’amore con lei (e lo stavo facendo)
o di leggere in auto un libro mentre i miei figli giocavano nel parco.
Sì facevo tutte queste cose, ma contemporaneamente ero Ayda, potente loua sposa di
Dambalà.
«Ma i loua servono da collegamento tra Bon Dieu e gli uomini?» chiesi un giorno ad
un ougan che era giunto con la mia manbo. Lui non mi rispose, ma aggiunse che
aveva passato tutta la notte con lei, era stato il primo a possederla così che lei gli era
legata per sempre.
I tre anni che stetti con lei ero un ounsi, uno sposo di un loua, poiché lei era cavalcata
da un loua.
Fui Ayda ma anche ounsi-kanzo poiché avevo superato senza ricordarmene i riti
d’iniziazione.
Il tempo subisce una frattura adesso sono in auto: è parcheggiata al lato della folta
siepe che circonda e protegge l’asilo, il figlio più piccolo è a poche centinaia di metri
da me, in un’aula delle elementari a lezione. Si avvicina alla mia auto un ounnikon
che dice d’essere un corista della mia manbo, poi mi guarda intensamente e:«Hai già
conosciuto Loko il loua della vegetazione e degli alberi, ma adesso preparati poiché è
scritto che dovrai incontrare Princesse Ezil.»
«E chi sarebbe?»
«Il loua dell’amore.»
Detto questo il corista se ne va e solo allora mi accorgo che è vestito in jeans e
camicia a fiori come un turista alle Hawaii, solo che è scalzo e qui siamo in pieno
inverno.
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Resto solo in questo triangolo di terra, che è stato pure il pelo pubico della mia ex
amante che era una manbo e veniva cavalcata da un loua sì che io divenissi ounsi e
successivamente ounsi-kanzo e prima ancora ero cavalcato dalla sposa di Dambalà, o
forse tutto era accaduto contemporaneamente?
A questo punto dovrei essere in piena confusione, ma non lo sono, una nuova lucidità
si è impadronita della mia mente e spazia ben oltre il mio posto, che è il triangolo,
che è il tempio.
Il triangolo è l’ounfo all’interno del quale la manbo agita l’asson e i loua giungono:
per primo arriva Dambalà, giunge anche l’ougan e con loro è Loko.
Attendo la nuova prova che Bon Dieu mi riserva e scrivo e leggo, aspetto i figli e
attendo all’interno del triangolo, dell’ounfo. Attendo Princesse Ezil, non dovrebbe
tardare, e nell’attesa costruisco i velvet e li diffondo nel mondo.
Adesso c’è internet e il mio velvet più carico e virtuale è ben celato nella rete, ma
facilmente raggiungibile da chi deve vederlo.
La visita di Princesse Ezil muterà radicalmente la mia esistenza, lo sento, sono anni
che mi stanno preparando a questo incontro e solo ora me ne rendo conto, intanto
scrivo sul mio diario poesie e narrazioni e attendo mentre ora il sole scende dietro le
alte montagne coperte di neve.
Qui ho trascorso mattini e pomeriggi, e anche notti insonni: nei periodi di festa la
gente mi guardava un po’ strano, stavo lì in auto o su una panchina a leggere o a
scrivere, mentre tutti correvano a divertirsi, a ballare, a scolare birre, o dietro la siepe
a fumare spinelli. Rifletto sulla mia ex amante, sulla manbo, sul suo piccolo corpo e
sulla sua strana figlia, eppure allora non capivo, tutto mi sembrava normale, invece
attorno a me il destino forgiato da Bon Dieu si svolgeva e ogni mia azione, ogni
desiderio era da lui guidato. Chi mi ha cavalcato lo ha fatto per curiosità e per
insegnarmi, Princesse Ezil adesso sono pronto, ti attendo, non tardare.
***
Il sacrificio sta per compiersi, lui ancora ignora ma fiducioso attende, la crede sposa
e forse sposa sarà, grande è il tributo, grande sarà la conoscenza.
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CINQ ET QUARANTE
cinq et quarante
degrez ciel bruslera
feu approcher de la gran cité neve
istant grand flamme esparse sautera quand
on voudra des normans faire preuve
(Nostradamus)
Fuoco color oro visto dal cielo
sulla terra, lanciato da una
nave aerea creerà stupore
spettacolo di morte
grande strage umana
la città a quarantacinque gradi
distrutta dal fuoco.
Il signore malvagio cammina inquieto nella sua casa: la Casa dei Morti. Gli occhi
lampeggiano sinistri illuminando anche i suoi tirati lineamenti canini del volto, le
lunghe orecchie fremono e l’immensa aula rimbomba di questa vibrazione.
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Il dio è adirato, l’uomo quella anormale creatura dei pianeti Terra sta compiendo un
atto sciocco e sacrilego degno della sua immane superbia. “A tua immagine e
somiglianza l’hai voluto” gli sussurra la voce interiore dello scarso buonsenso ma lui
superiore a tutto volutamente l’ignora.
Il dio malvagio, signore della Casa dei Morti ogni volta che osserva l’uomo,
s’inquieta, questi stupidi esseri autonomamente evolutisi dalla sua creazione sono
ormai sfuggiti ad ogni controllo: molti adorano altri dei come se non fosse stato lui a
crearli, mescolano pure le razze che lui aveva voluto divise. Adesso sui vari piani
stanno costruendo due torri per innalzarsi fino a lui. Il dio malvagio dal volto canino
è adirato quanto non mai e nelle sue immense aule scaglia ogni ricordo nelle pareti,
infrangendolo.
Gli angeli neri, i suoi oppressi si sono da tempo rifugiati nei labirintici sotterranei
dell’enorme eremo, solo il suo servo fedele, tremante lo segue ai suoi ordini. E il
signore s’aggira ululando nella sua Casa dei Morti.
Che qualcosa non vada ci se ne accorge pure all’altra estremità dei luoghi creati,
all’altro lato dei Mondi di Mezzo, ove ad una distanza non calcolabile da mente
umana sorge la Casa della Vita abitata dal suo signore fin troppo affaccendato
normalmente in questioni banali, ma per lui, e forse per l’intero esistente, essenziali,
quali il bello, l’estetica, la danza, la poetica, i profumi, gli orgasmi…
Tutto questo e altro ancora fa parte dei suoi studi e delle sue attività quotidiane.
Ma il dio signore della Casa della Vita si è accorto che una leggera onda nera sta
attraversando l’infinito, una vibrazione infernale lanciata dal suo eterno antagonista,
lo stupido e malvagio cane che dimora nella Casa dei Morti all’altro estremo dei
creati, oltre i Mondi di Mezzo.
Nella Casa dei Morti, nelle sue stanze tetre, l’abominio dalla testa di cane, che è il
suo abitante e signore scruta malevolo l’ultima costruzione degli uomini.
Nella Mesopotamia sulle rive dell’Eufrate, gli abitanti di Babilonia, la città fondata
dal re Sargon di Accad, attraversando il portale che li mena avanti nelle Terre di
Mezzo, hanno consentito ai cittadini di Sennaar di progettare due costruzioni, due
torri gemelle che s’innalzano fino a toccare i cieli. Per erigerle hanno lavorato genti
provenienti da ogni parti dei mondi e le due costruzioni si stagliano nel cielo in molte
delle Terre di Mezzo, cambiano le forme e i luoghi, ma l’unico progetto sta andando
avanti. Vogliono coi loro fragili manufatti sfidare la sua supremazia e snidarlo dalla
Casa dei Morti. Progetto impossibile e assurdo, ma soprattutto blasfemo nella sua
ideazione.
In uno dei Mondi di Mezzo una delle torri già tocca il cielo che in questo mondo è di
luminosa roccia e gli uomini già hanno iniziato a perforare la volta del loro mondo,
chiamando schiere di minatori. Perché meravigliarsi? Altri hanno descritto mondi in
cui “il mare è sospeso sulla volta, mondi costruiti in modo che avvicinandosi da
qualsivoglia direzione, si ha l’impressione che manchi completamente di terre
emerse. Ma se qualcuno discendesse al disotto del mare che lo circonda,
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attimo sono come siluri per meglio penetrare l’atmosfera d’acqua, e ancor più
affusolati per perforare quella di roccia. I carri si mutano anche in grandi uccelli
meccanici carichi di distruzione e di morte e leggiadri volteggiano attorno alle torri
mentre musiche d’organi accompagnano il ballo di rovine nelle aule della Casa dei
Morti e il cane danza, in preda ad un’ossessione parossistica di vittoria e prepara le
aule che accoglieranno i nuovi arrivati nella sua casa e li congeleranno per l’eternità
sotto i suoi appartamenti. Guarda e riguarda più volte le scene multiple che si
sovrappongono ai lampi di paura e di dolore e d’incredulità degli stupidi mortali.
Gli occupanti delle torri, nei vari mondi e nelle varie epoche, che non si capiscono
con le loro svariate lingue, si rovesciano fuori dei loro abitacoli o attendono seduti la
morte. Imboccano le rampe delle scale o precipitano nei vani, divenuti abissi, degli
ascensori, bruciano mentre il fuoco liquido invade le due torri. Solo alcuni riescono a
fuggire dalle trappole, tanti muoiono bloccati nei piani più alti poi tutti vengono
raggiunti dal crollo delle torri che una ad una collassano e per molti si è fatto troppo
tardi per poter ritrovare le giuste uscite. Il cane riguarda le sequenze all’indietro e le
fiamme e l’impatto sia dei carri di fuoco che degli uccelli di metallo e di nuovo le
vampe e ancora il collasso della prima e poi della seconda torre e gli uomini che
gridano dalle strette finestre, intrappolati nella loro amara sorte o che volano come
angeli caduti spiaccicandosi sull’asfalto delle strade ormai simili a campi da battaglia
e la musica ossessiva e le sequenze ritmate, armoniche, perfette, l’immensa nuvola di
fumo, la polvere… orgasmi multipli colgono il cane, maledetto, infernale, signore
della Casa della Morte mentre uomini, donne, frammenti di pietra, fogli di carta,
brandelli di sistemi informatici e molto altro ancora precipita come al rallentatore
verso il terreno sottostante.
Poi si sdraia soddisfatto, dopo tanto tempo si sente appagato, è supino sul proprio
talamo felice d’aver compiuto un atto per lui giusto nei confronti dei superbi
babilonesi e mentalmente rivede i corpi mentre esplodono o bruciano o volano nel
vuoto o sono calpestati fino alla loro fine o schiacciati dalle macerie.
Dall’altro lato degli universi, oltre i Mondi di Mezzo, il dio che abita la Casa della
Vita osserva con occhio ben diverso le stesse scene che si stanno svolgendo sulle
Terre di Mezzo nei vari luoghi e tempi. I due carri infuocati che portano morte e
dolore e distruzione. Tutta l’intera Casa della Vita è turbata da questo atto di pura
malvagità compiuto dall’antagonista, dal cane. Il Signore che l’abita si rivolge a
Tifone perché s’adoperi a ristabilire i bilanciamenti: i Mondi di Mezzo esistono solo
se le due case stanno in equilibrio. Tifone comprende e orgoglioso del proprio
incarico vola verso i Mondi di Mezzo, questa volta il cane che abita la Casa di Morte
s’è spinto troppo innanzi.
Il cane intanto si rivolge al suo fido servitore, un essere che un tempo fu un uomo, ma
ora che da migliaia d’anni fedelmente lo serve non sa più neppure lui se è un demone
o qualcosa d’altro. Si rivolge al servo, l’unico che non s’è mai rifugiato nelle segrete
della Casa e, gli chiede di portare davanti a lui le schiere dei babilonesi uccisi.
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Il servo fa un cenno con la testa e scende nelle aule dei morti, col suo magico bastone
richiama al movimento coloro che sono appena giunti immoti e gli intima di seguirlo:
“l’uomo li guida: Guida i morti che ha richiamato al movimento, e loro lo seguono.
Lo seguono lungo corridoi, gallerie e saloni, su per ampie scale diritte, e giù per
strette scale a chiocciola, giungendo infine nella grande Sala dei Morti, ove il
signore giudica. Siede su un trono di pietra nera levigata; alla sua destra e alla sua
sinistra, in due bracieri di metallo ardono alte fiamme. Su ognuno dei duemila
pilastri che circondano la grande sala, brilla una torcia, il fumo denso s’avvolge a
spirale verso l’alto soffitto e diviene parte della grigia nube spiraliforme che lo
ricopre”.
Immobile e finalmente soddisfatto il cane guarda colui che fu un uomo giungere nella
sala seguito da decine di migliaia di umani silenziosi. I suoi occhi lo fissano
approvanti, rossi come rubini, abbassa poi il nero muso su cui spiccano le zanne
abbaglianti. La vita, se questa è vita, continua a scorrere nell’oscurità della Casa dei
Morti, il cane è ignaro che Tifone, il vendicatore, s’avvicina sempre più alla sua
dimora.
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Avete presente quel punto esatto nel tempo? Quell’istante in cui nel cielo il giallo
bruno lascia spazio al rosso pallido del sole morente? Quando l’aria stessa diviene un
velo livido che offusca e confonde i contorni delle cose? È a quel punto che esco.
Esco per avventurarmi in nuovi spazi dei quali fino a poco tempo fa non ne
sospettavo minimamente l’esistenza. È la realtà che muta di segno e scopre nuove
prospettive nelle quali io ci scivolo dentro all’istante, quando questo accade. Ecco
come adesso che tutto s’è mutato in distese infinite di prati e mi ritrovo ad una
ventina di metri da una creatura d’aspetto umano, ma non troppo. S’avvicina e più
l’osservo in volto, più mi accorgo di quanto questo sia primitivo, pericolosamente
antico. Tuttavia, visto di fronte anziché di profilo, attenua di molto quest’impressione.
La fronte, inclinata, sporge sopra gli occhi di due centimetri circa. Il sopracciglio
poi… non le sopracciglia… perché è unico, nero, incolto… Il naso, se confrontato col
resto del volto appare insignificante. La barba invece è perfettamente curata, quasi a
voler affermare a dispetto del resto, la sua appartenenza al genere umano. Per quello
che riguarda il resto del corpo è più largo che alto, o perlomeno questa è l’idea che
possiamo farci vedendolo seduto: in piedi non è solamente grande: è grosso. In
definitiva può anche appartenere al genere umano ma sicuramente è nato con decine
di secoli di ritardo. In ogni caso da seduto che era, adesso sta camminando verso di
me ed entro breve tempo la preistoria m’avrà sicuramente raggiunto. Mi guardo
attorno in cerca d’una via di fuga: invano. Ma esiste una via di scampo di fronte a una
creatura, non molto umana, che avanza decisa con gli occhi ipnotici come una bestia
mentre fissa la preda prima d’aggredirla? Mi arriva davanti e si limita a continuare a
fissarmi come se volesse assicurarsi che esistono veramente delle persone così
piccole, poi lentamente parla. La sua voce è in netto contrasto col resto del corpo: è la
voce d’un bambino. Mi chiede molto gentilmente di seguirlo, la sua mole invece mi
proibisce di fare il contrario, di disattendere cioè alla sua richiesta. Il vento intanto
comincia a soffiare sull’erba mentre docilmente lo seguo. Il sole si nasconde sempre
più pigro dietro nuvole grandi, veloci e grigie. Il profumo dell’aria tiepida e umida
entra nelle mie narici come una carezza. Siamo giunti nei pressi d’una fattoria e
continuo a seguire la mia enorme e preistorica guida che sempre più mi ricorda il
Java di Martin Mistère. Dei panni stesi ad asciugare su una palizzata svolazzano
quasi allegramente. Da lontano giunge l’eco di giochi di bimbi e rumori di
maniscalco. L’odore del mare, all’improvviso m’avvolge coi suoi ricordi onirici di
luoghi lontani che stimolano nuovi sogni. Un grande pino davanti all’accesso
principale della fattoria saluta i passanti ondeggiando al cielo. Cani a catena abbaiano
nel momento in cui avvertono la mia presenza. Un contadino passa curvo e furtivo
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carico del raccolto. Seguo la mia guida antica che avanza con decisione verso una
porta del casolare. I cani ora si zittiscono, la porta cigola, entro. La mia guida si
ferma accanto alla porta d’ingresso, mi guardo attorno: quattro stravaganti figure
sono sedute alla stesso tavolo. La stanza è fiocamente illuminata da una grande
lampada elettrica che pende dal soffitto e che ha all’interno uno strano filamento
incandescente a forma di ruota dentata. Il tavolo e le sedie sono di legno scuro. Le
pareti, un tempo bianche, forse a calce, hanno oggi il colore del fumo. C’è un
imponente camino in pietra senza fuoco. Una porta conduce ad altre stanze. Guardo
le quattro figure sedute e la prima cosa che mi viene in mente è che è strano vedere
delle persone così diverse, così vicine. Potrebbero tranquillamente rappresentare
quelle schiere d’individui appartenenti ai bassifondi: i punkabbestia, gli omosessuali,
i ragazzi di strada, le persone che cercano d’emergere dall’inferno dei suburbi
metropolitani senza riuscirci, che riescono a vivere solo d’espedienti, che si sono
fermate soltanto per comprare droghe e perversioni. Ma queste figure non
appartengono ai bassifondi anche se così, a prima vista si potrebbe pensare. Sul
tavolo c’è un incongruo libro aperto, è il “Vecchio Testamento”. Questo giro continua
a non piacermi, guardo per l’ultima volta quell’assurda comitiva e riapro la porta
dalla quale sono entrato, esco. Dopo alcuni passi mi fermo in silenzio e attendo:
nessuno mi segue, meglio così, anche Java è rimasto da qualche parte nella fattoria.
Più avanti una voluta di fumo danza lentamente verso il cielo, arrivo alla sorgente del
fumo e mi accorgo che sgorga direttamente dal prato. Resto lì, fermo, immobile…
attorno a me non sento più nulla ma mi trovo sempre più attratto dal quello sbuffo
grigio scuro che danzando si leva verso il sole. Mentre osservo con la massima
attenzione mi ritrovo all’istante in un ufficio arredato con pesanti mobili scuri primo
novecento. Non sono più nel mio corpo ma in quello d’uno strano giovane che si
sposta inquieto nella stanza. Gli hanno appena detto che il giorno seguente sarebbe
dovuto partire per l’Indonesia. Il suo primo viaggio di lavoro: un volo interminabile
per Giacarta, un incontro con dei clienti che non hanno nessuna intenzione di
comprare i suoi prodotti. Sa già che se ne sarebbe tornato indietro con la coda tra le
gambe e, che il suo capo l’avrebbe squadrato col solito sorrisetto che lascia
chiaramente capire quanta poca stima abbia di lui. Ma allora non potrebbe mandare
qualcun altro? E poi come mai non capisce che agli indonesiani non gliene frega
proprio nulla dei suoi prodotti? Cerco d’uscire da questo corpo e da questa situazione
non divertente e neppure interessante. Mi sforzo per il salto e finisco su una grande
spiaggia completamente deserta. Sono nuovamente me stesso e mi sdraio flettendo i
muscoli. Sono nudo, mi lascio cullare dai raggi del sole, da una leggera brezza, dal
profumo del mare e dal flusso delle onde. Mi lascio completamente andare al sonno,
così al risveglio tornerò al prato dal quale sono partito, al punto esatto in cui nel cielo
il giallo bruno lascia spazio al rosso pallido del sole morente e l’aria stessa diviene un
velo livido che offusca e confonde i contorni delle cose. Forse. Il viaggio comunque,
sento che è vicino al termine.
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LUNGO UN GIORNO
Era un sogno, un semplice sogno. Eppure mi ha lasciato perplesso sin dal momento
del risveglio e, sono sicuro che ci sia entrato qualcosa con quello che poi mi è
successo. Mi sono ritrovato in una verde valle, attorno a me cespugli e rocce che
affioravano. In lontananza dei colli e un picco montano. Non mi sentivo solo, eppure
non vidi alcuno malgrado lo cercassi. Imboccai un sentiero e mi ritrovai davanti ad un
laghetto. Guardai le sue acque calme e seppi che era alimentato da un fiume
sotterraneo. Girai attorno alle sue sponde, poi mi addentrai nuovamente nella
brughiera. All’improvviso scorsi una lastra di pietra poggiata sul terreno. Mi
avvicinai, c’era scritto a rilievo qualcosa sulla pietra, scostai con le mani il terriccio e
le foglie secche che vi erano depositate dal tempo. Pian piano riuscì a scoprire tutte
lettere e malgrado fossero assai consunte lessi: “ET IN ARCADIA EGO”. A quel
punto mi rialzai e ripresi il mio cammino. In mano mi trovai un libro che non sapevo
d’avere. Ne lessi il titolo “La cavalletta non si alzerà più”, lo sfogliai, le parole erano
incomprensibili, forse scritte in una lingua arcana, c’erano delle illustrazioni in
bianco e nero. Mi sedetti su una roccia che affiorava dal terreno e cominciai a
guardarlo con più attenzione. La prima illustrazione mostrava il picco montano che
avevo visto all’inizio del sogno, in un’altra c’era il laghetto sulle cui sponde avevo da
poco passeggiato, un’altra mostrava la lastra di pietra con l’iscrizione. Un’altra
ancora mostrava una cattedrale gotica, poi c’era un ritratto di Hitler. Fu a quel punto
che mi destai perplesso per la chiarezza del sogno. Guardai la sveglia digitale sul
comodino: erano le otto di giovedì 27 gennaio, sicuramente una data che ricorderò a
lungo, pensai, chissà perché. Era comunque una giornata normalissima, di quelle che
più normali di così non si può. Almeno all’inizio, a parte quello strano e fin troppo
vivido sogno. Mi ero svegliato alle otto. In casa ero da solo. I miei tre figli erano già
partiti per la scuola: il più grande all’Istituto per Geometri, la bimba al Liceo
Artistico, il più piccolo alle Medie. La moglie entrava al lavoro alle otto. Dunque ero
solo in casa: caffè, colazione veloce, una mezzora al computer e poi sono andato al
mio solito bar che fa anche da edicola. Mi sono preso il secondo caffè della mattina,
ho sfogliato i due giornali locali che erano, come tutte le mattine, sui tavoli, ho dato
anche un’occhiata all’altro giornale locale prendendolo dai giornali in vendita. Ho
letto le cronache, ho dato un’occhiata alle pagine culturali, ho letto gli oroscopi del
mio segno, la bilancia. Tre oroscopi completamente diversi. Ho letto anche, chissà
perché, la rubrica del santo del giorno: ” Jean de Warneton – Nell’XI secolo
Warneton era una cittadina della Francia settentrionale, tra Lille e Ypres. Qui
nacque il santo di oggi, monaco intellettualmente molto dotato e discepolo degli
allora celebri Lambert d’Utrecht e Yves de Chartres. Divenne canonico a Lille; ma
era uno che si voleva santificare davvero, così scelse l’abito dei Canonici Regolari di
Mont-Saint-Eloi, nei paraggi di Arras. Arras faceva parte della diocesi di Cambrai,
ma nel 1092 il papa Urbano II la elesse a sede episcopale e ne fece vescovo Lambert
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de Guines. Questi, che aveva avuto Jean de Warneton come compagno di studi, si
ricordò del valore e lo volle come arcidiacono. Jean accettò a malincuore, ma si
ricredette quando si rese conto che nella sua nuova veste poteva combattere una
delle maggiori piaghe del tempo: la simonia. E lo fece talmente bene che il papa
pensò a lui quando si trattò di ricoprire la carica di vescovo della vicina
Thérouanne. Per Jean, che non era nemmeno sacerdote, ci volle un preciso ordine
perché accettasse. E nel 1099, il nuovo vescovo cominciò con i suoi innumerevoli
bracci di ferro contro i prelati indegni e i feudatari rapaci. Naturalmente il popolo
prese a venerarlo; non così i suoi avversari, che arrivarono a tendergli un agguato.
Il santo che non si difese nemmeno, scampò miracolosamente e poté successivamente
prender parte a vari concili regionali come quelli di Beauvais, Saint-Omer, Reims,
Châlons. Governò la sua diocesi per una trentina d’anni. Nel 1130 si ammalò
seriamente e, presentendo la fine, distribuì ai poveri quello che gli restava. Rese
l’anima a dio dopo qualche giorno.”
Mi sono alzato, ho comprato “Il Giornale”, l’ultimo Dylan Dog e ho pagato il caffè.
Sono tornato a casa, ho riempito per bene le due stufe a legna e mi sono rimesso al
computer. A mezzogiorno ho acceso la tivù e mentre ascoltavo il telegiornale sulla
RAI 3 mi sono preparato un hamburger con una sottiletta di formaggio. Ho scaldato
al microonde degli spinaci al burro che erano già pronti nel frigo. Mi sono fatto un
altro caffè, il terzo e, mi sono acceso una sigaretta. Con tutta calma mi sono recato
con l’auto all’uscita della scuola media e ho preso il figlio più piccolo; siamo tornati a
casa. Gli altri due erano già rientrati. Erano in anticipo, ma non gli ho chiesto nulla,
ho lasciato il più piccolo con loro e con l’auto sono andato in città. Avevo un bel po’
da fare in ufficio: leggere la posta, spedire fax e e-mail, battere alcune lettere, fare
una decina di telefonate. Dopo aver fatto tutto quanto sono andato al bar che c’è nella
piazza davanti al mio ufficio e ho preso un altro caffè: il quarto. Sono andato a piedi
alla posta e ho seminato per strada un libro per fare bookcrossing. Il libro l’avevo
scelto il giorno prima, era di poesia: l’ho lasciato su una panchina di pietra nel centro.
Arrivato alla Posta, dalla mia cassetta postale ho estratto quattro lettere che ho messo
nello zainetto senza leggerle. Sono stato un po’ in giro a guardare le vetrine, non ho
incontrato nessuno col quale valesse la pena di fermarmi. C’era una pizzeria aperta:
ho preso due etti di pizza e l’ho mangiata per strada. Intanto cominciava a fare buio e
la giornata era assai fredda, così decisi di rientrare a casa. Mentre andavo verso l’auto
ho ricevuto un SMS senza importanza, mi sono fumato un’altra sigaretta e sono
infine giunto dove l’avevo parcheggiata. Sono partito, ho acceso la radio su Radio
Deejay ed ero quasi arrivato… ero all’ultima curva prima di casa, quando mi sono
trovato davanti un TIR di colore giallo che veniva dalla direzione opposta ed era
contromano. Non ho neppure avuto il tempo di frenare. Ho visto il giallo del TIR e
poi un lampo rosso. Mi sono risvegliato dentro la mia auto, sotto casa. Buio
profondo; ho guardato l’orologio ed erano le quattro del mattino. “Cazzo! Che sogno
di merda” mi sono detto ancora rincoglionito da quell’incubo giallo che era riuscito a
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spaventarmi. Mi ero addormentato sotto casa, per fortuna non m’era successo niente
mentre guidavo. Sempre intontito ho preso le mie cose dall’auto e zitto zitto sono
entrato in casa. Senza neppure passare dal bagno sono andato nella mia camera.
Fortuna che dormo da solo, mia moglie ha un’altra matrimoniale tutta per lei. Mi
sono spogliato, ho infilato il pigiama e mi sono buttato sotto le lenzuola. Ripensavo
alla stranezza dell’evento al sicuro nel mio letto. Dovevo aver avuto un colpo di
sonno proprio quando mi sono trovato davanti casa. Poi ho sognato l’incubo giallo,
meno male che tutto è finito bene, era solo un sogno, vivido come quello del giorno
prima, ma di tutt’altro tenore. Così mi sono addormentato. Ma il bello doveva
avvenire al risveglio. Mi ritrovai in quella no man’s land dove l’uomo non dorme più
ma non è ancora del tutto sveglio, erano le dieci, non mi sveglio mai a quest’ora del
tardo mattino, ma è ovvio, avevo avuto una nottataccia. Ho fatto le solite cose d’ogni
giorno al risveglio e quando mi sono recato al bar sui tavoli ho trovato i soliti due
giornali locali. Ho iniziato a sfogliarli, ma mi sono accorto che c’erano scritte le
stesse notizie del giorno prima. Allora ho guardato la data: ventisette gennaio. Sono
andato alla rastrelliera dove ci sono tutti i quotidiani. Erano tutti del ventisette. Mi
sono rivolto alla barista che è anche la proprietaria del locale.
«Lara, ma sono usciti oggi i giornali?»
«Come no! Non li vedi?»
«Scusa, ma che giorno è, oggi?»
«È giovedì 27. Che fai, perdi i colpi?»
«Sarà l’età... » le ho risposto ridendo e mi sono rimesso a sedere.
Stavo per accendermi una sigaretta quando mi sono ricordato che ora era vietato.
Sono uscito senza acquistare il solito quotidiano questa volta e sono andato in giro
per il paese, più che altro per rinfrescarmi le idee: ne avevo proprio bisogno. Giunto
in piazza ho voluto dare un’occhiata al portafoglio: a parte gli spiccioli, c’erano 200
euro, quelli che avevo ieri mattina, presi al bancomat la sera prima. Ma con quelli ci
avevo comprato i caffè, la pizza, i giornali, insomma, almeno un centone l’avevo
cambiato, ne ero certo. E invece le due banconote da 100 erano sempre lì. Le
sigarette, quelle no, l’avevo finite. Così andai ad acquistare un nuovo pacchetto
cambiando per la seconda volta lo stesso centone. Ero sempre più perplesso. Tornai a
casa e mi misi al computer: il lavoro che avevo fatto il giorno prima era sparito, di
quei file non c’era traccia neppure sui programmi recenti. Sul tavolinetto
nell’ingresso c’era il libro di poesia che avevo liberato il giorno prima lasciandolo
sulla panchina in città. Ho deciso che non sarei passato dall’ufficio e neppure sarei
andato a prendere il figlio più piccolo all’uscita della scuola. Tanto lui lo sa, se vede
che non c’è nessuno a prenderlo, s’infila sullo scuolabus che lo riporta a casa. Me ne
sono andato in auto e giunto in città ho deciso di proseguire verso il mare. La giornata
era fredda, ma il sole splendeva alla grande. Ho parcheggiato l’auto sul lungomare e
sono andato a giro a piedi sulla riva, poi sono andato a curiosare tra le bancarelle:
c’era un mercato ambulante sul lungomare. Ho preso un hot dog, mi sono bevuto una
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doloroso. Dovevo organizzarmi meglio per vivere in maniera sempre diversa questo
stesso giorno e tentare di far sì che non finisse sempre nello stesso modo. Nel mito
del Simposio di Platone all’inizio gli uomini erano ermafroditi, e dio li spaccò in due
metà che da allora vagano per il mondo cercandosi. L’amore è il desiderio e la ricerca
costante della metà perduta di noi stessi. Avevo un giorno infinito per ricercare la mia
metà perduta. Mi guardai nelle tasche: c’erano i soliti 200 euro. Telefonai a Zina, lei
era sempre disponibile e mi faceva dei pompini ch’erano una meraviglia. Voleva solo
30 euro, era anche economica. “Ecco una pompa di Zina mi rimetterà in sesto” mi
dissi. Le chiesi al telefono di raggiungermi al parcheggio ove abitualmente lasciavo
l’auto. Lei arrivò dopo una mezz’ora, salì e ci appartammo in aperta campagna, un
posto che conoscevo da tempo e dove non s’incontrava mai anima viva. Lei mi
succhiò con gusto, come sempre faceva, io per ringraziarla alla fine del lavoro le
lasciai 50 euro, poi la riaccompagnai in città. Insieme prendemmo un caffè in un bar
del centro, volle pagare lei. Poi mi lasciò chiedendomi di richiamarla quanto prima.
Restai solo seduto al tavolo, tirai fuori dallo zainetto la mia agenda e presi a scrivere
le mie vicissitudini. Ad un certo punto della scrittura mi fermai. Ciò che avevo scritto
il giorno precedente – per me era il giorno precedente anche se era sempre giovedì -
era rimasto. Strano. Dunque: i soldi rimanevano sempre gli stessi, il cibo che avevo
nel frigo pure, il libro di poesie restava sul tavolo, il lavoro del computer spariva,
spariva pure ciò che avevo messo sui dischetti, le sigarette me le dovevo ricomprare,
la benzina nell’auto restava la solita. E ciò che scrivevo sull’agenda restava nei giorni
per me successivi. Non riuscii a trovare una logica in tutto questo. Ripresi a scrivere e
ordinai un toast. E quando avrò terminato l’agenda? Sparirà? O potrò proseguire su
un’altra? Resteranno queste mie righe? Potrò inviarle al mio editore e, lui le riceverà?
Interrogativi destinati a restare per ora senza risposta. Me n’andai più tardi a giro per
le vie del centro, trovai un vecchio amico e ci fermammo a chiacchierare del più e del
meno. Più tardi m’infilai in un cinema, davano Donnie Darko, un film che non avevo
ancora visto, ma avevo letto molto su la sua trama. Anche qui il tempo s’incasina,
dicono che sia uno dei migliori cento film mai prodotti: dopo averlo visto n’ero
convinto pure io. Quando uscii era notte, stavo recandomi al parcheggio quando in
una via solitaria, un tossico mi si parò davanti. Voleva che gli dessi il portafogli. Io
scoppiai a ridere, lui aveva qualcosa nella mano destra, non capii cosa fosse, ma non
m’importava. Forse era un coltello e mentre ridevo mi colpì all’addome. Mi risvegliai
sul divano del mio ufficio. Era sempre giovedì, lo appresi dalle civette dei quotidiani
esposte fuori delle edicole. Era mattino presto, forse le otto o al massimo le otto e
trenta, il mio orologio s’era fermato. Il cellulare era carico anche se non l’avevo mai
ricaricato e la sua carica non dura mai più di due giorni. In bocca avevo un
apparecchio dentale mobile alla mascella superiore e uno dei denti su cui
l’apparecchio si bloccava s’era spezzato un mese fa. L’apparecchio stava lo stesso
ben fissato, ma il dente spezzato in bocca mi dava fastidio. Telefonai allora al mio
dentista.
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«Pronto, Fabrizio?»
«Sì.»
«Ciao, sono io.»
«Dimmi.»
«Mi s’è spezzato un dente. Oggi posso venire?»
«Se vieni subito ho un buco.»
«Arrivo.»
Chiusi la comunicazione e di corsa andai allo studio di Fabrizio. In una mezz’ora il
dente era rimesso a nuovo. Pagai con la carta di credito e uscendo mi chiesi se il
giorno dopo il dente sarebbe rimasto integro. Non avevo che da aspettare. Era
un’impalcatura in tubi innocenti quella che mi cadde addosso mezz’ora dopo mentre
passeggiavo in città. Mi risvegliai nel mio letto ed era quasi mezzogiorno. Come
avrei impiegato la giornata? Giunsi alla stazione ferroviaria e presi un biglietto per
Parigi. Montai in carrozza e per tutto il giorno guardai il panorama scorrere. Intanto il
dente era nuovamente spezzato. Su un sedile vicino c’era una ragazza niente male,
attaccai discorso con lei, si chiamava Michelle, era di Firenze e studiava alla
Sorbona. Mi dette il suo numero di cellulare, avrei potuto chiamarla da Parigi.
Sembrava proprio che gli andassi a genio; anche lei mi piaceva. Ci passammo bibite e
biscotti, poi m’assopii leggermente sui sedili. Mentre dormivo registrai un forte
rumore di metallo che strideva. Mi risvegliai mezzo assiderato su una panchina in un
parco della mia città. Ero intirizzito, la temperatura era abbondantemente sotto lo
zero. Vidi la mia auto parcheggiata poco distante, la raggiunsi, accesi il motore e il
riscaldamento; mi assopii nuovamente. Al mio risveglio il sole era già alto, le auto
sfrecciavano rumorose lungo la via. Tornai in centro ed entrai nel primo bar che
incrociai. Bevvi un cappuccino e detti un’occhiata distratta ai giornali lasciati aperti
sui tavoli. Era sempre giovedì, continuavo a morire senza provare alcun trauma, alcun
dolore, era divenuta una fastidiosa routine. Avevo i soliti abiti. Da quanto? Tre o
quattro giorni? O forse di più. Mi recai in un gran magazzino e comprai dei nuovi
vestiti: scarpe, calzini, boxer, maglietta, maglione a collo alto, pantaloni, cintura,
sciarpa, guanti, un nuovo orologio e un caldo giaccone nero. Pagai con la carta e poi
mi recai ai bagni pubblici con tutti i sacchetti, mi cambiai completamente. I vecchi
vestiti li sistemai nel bagagliaio dell’auto. Telefonai ad Eva, un’amica con la quale un
tempo lavoravo. Le chiesi se potevamo vederci nel pomeriggio, saremmo andati in
albergo e lì avremmo passato la notte. Lei fu molto contenta dell’invito,
l’appuntamento era alle diciannove davanti al Country Club. Mi recai allora all’unico
sexy shop della mia città e acquistai un vibratore di grandezza media. Conoscevo
bene i suoi gusti, a lei questi attrezzi piacevano e io mi divertivo ad usarli. Girai per
le colline, mi fermai a proseguire la lettura del romanzo d’Urania che avevo in auto
“Ombre del male” di Fritz Leiber – anche questo restava nel mio giorno – mangiai
qualcosa ad una tavola calda e alle diciannove in punto ero fermo al parcheggio
dell’albergo. Lei arrivò con la sua auto cinque minuti dopo. Prendemmo una
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capelli lunghi e corti, nere, mulatte, orientali e bianche. Tutte vollero un centone, solo
una me ne chiese due e non era meglio delle altre, ma a questo punto mi sembravano
tutte uguali. Seguitai a morire ogni sera nei modi più fantasiosi con voragini che
s’aprivano all’improvviso sotto i miei piedi, con proiettili vaganti che giungevano a
segno, con improvvise quanto incomprensibili esplosioni, fui addirittura colpito da un
lampo in una meravigliosa giornata di sole e un micrometeorite mi centrò in piena
nuca. Avevo intanto terminato le squillo cittadine e passare ai gay o ai trans proprio
non mi interessava. Ora avrei dovuto spostarmi nelle città vicine. Ma ebbi un’idea,
tornai sempre alle dieci a casa di Marzia e non appena lei mi aprì la porta e si girò per
recarsi in cucina, l’abbattei con un colpo alla nuca con una mazza da baseball.
Sanguinante la sbattei sul suo letto e la scopai agonizzante. Poi mi recai nella camera
della figlia che ancora dormiva e violentai pure lei. Dapprima Ella tentò di ribellarsi,
poi si lasciò fare assai stupita da quanto stava succedendo e in ultima analisi, nel
finale fu molto consenziente. Dopo averla scopata senza dirle nulla, me ne andai, ma
prima presi dal cassetto la pistolina cromata e la misi nel mio zainetto. Quando misi
in moto, l’auto esplose. Tutto terminava nello stesso diverso modo in questo assurdo
infinito giovedì. Provai così l’ebbrezza mortale del fuoco, dell’acqua, l’impatto delle
esplosioni, la follia del terremoto, del maremoto, dell’uragano improvviso, del colpo
d’arma da fuoco e dell’arma bianca, la dissoluzione nell’acido, la desolazione della
sete, il crollo dei palazzi… Tornai ad occupare i miei giovedì con le squillo della
regione e a vedere tutti i film disponibili nelle sale, mi sparai centinaia di cassette e
DVD, lessi pacchi di riviste e un sacco di libri coi quali ero in arretrato, passai
pomeriggi in piscina e nei bar. Testai tutti i ristoranti dei paraggi, visitai teatri, mostre
e musei. E i giorni finivano sempre in modo diverso, ma uguale. I risvegli avvenivano
quasi tutti nel mio letto, o in auto o sul divano dell’ufficio. I posti, a parte qualche
rara eccezione, erano sempre i soliti e le giornate si svolsero quasi tutte in questa che
per me era divenuta una banale terribile normalità. Ci fu qualche variante con
situazioni di guerra e, sei o sette posti strani, sicuramente alieni: il villaggio con gli
abitanti dai grandi occhi bianchi, un deserto che non aveva fine, una spiaggia abitata
solo da rari caminantes e con due lune all’orizzonte, un opificio abbandonato e in
completa rovina che sembrava non finire mai. Riguardo al mio dente, provai altre due
volte a farmelo ricostruire, ma mi arresi poiché il giorno successivo era nuovamente
spezzato. Provai a farmi fare un tatoo sul braccio, ma anch’esso se ne andò. Noia,
fatalismo, indifferenza alla morte, questi erano i miei stati d’animo più frequenti. Per
molti giorni non uscii da casa e la giornata terminava con un infarto o un’esplosione o
un terremoto, o una frana, o un’inondazione… sempre piacevolezze del genere con
qualche variante, una scarica elettrica, una vampa di fuoco, un avvelenamento, una
caduta dalle scale…
Una mattina mi ritrovai immobilizzato in un letto d’ospedale, ero tutto intubato e
tenuto in vita dalle macchine. Prima di mezzogiorno le spensero. Pensai che questo
fosse il giorno successivo al primo impatto col TIR giallo, ma mi sbagliavo. Mi
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ritrovai all’alba nell’auto parcheggiata in città. Decisi che dovevo dare una svolta alla
mia esistenza. Atti di violenza non n’avevo più compiuti a parte l’evento con Marzia
e sua figlia. Avevo sempre la sua pistola piccola piccola, cromata e carica nel mio
zainetto. Alle dieci ero ancora una volta davanti a casa sua. Suonai, lei venne ad
aprirmi, entrò in cucina, io le stavo dietro e avevo la sua pistola già in mano. Aprì il
cassetto. Non troverai nulla, pensai, l’ho io. Lei si girò, io sparai. Ma anche lei sparò
e con una grossa Luger. Ci ritrovammo tutti e due per terra, uno addosso all’altro in
un lago di sangue. Le presi una mano e la strinsi, anche lei strinse forte. In quel
momento gridando Ella entrò in cucina. Ero nuovamente nel mio letto. Andai al solito
bar, una rossa in minigonna era seduta ad un tavolo. Questa le altre volte non c’era.
Ci sarà un cambiamento in queste sequenze? Era in minigonna ma fuori c’erano un
paio di gradi sotto lo zero. Presi la tazza di caffè fumante dal bancone e mi sedetti
accanto a lei. Attaccai discorso e dopo un po’ ero riuscito a portarla a casa mia che era
vuota: i ragazzi a scuola, la moglie al lavoro. Finii subito in camera con lei e prima
che tutti rientrassero un violento terremoto ci seppellì entrambi. Mi ritrovai ancora
una volta nell’auto parcheggiata in città. Mi venne in mente Rosy con la quale avevo
avuto una storia anni prima, recentemente l’avevo riagganciata e all’inizio dell’anno
dovevo passare una notte con lei. Infatti, figlio e marito dovevano andar via per una
settimana bianca. Avevamo organizzato tutto per bene, ma arrivarono una serie di
contrattempi e dovemmo rimandare. Le telefonai e c’incontrammo nel pomeriggio,
facemmo l’amore in auto, fuori si gelava, poi la riaccompagnai al suo mezzo. Mentre
stavo guidando verso casa davanti a me un’auto sbandò all’improvviso e, ti pareva!
Eccomi vittima dell’ennesimo incidente. Mi ritrovai di mattino nel letto di casa mia e
nel letto c’era la rossa di due giorni prima che stava dormendo. Rimasi stupito e
incerto sul da fare, sarei potuto andarmene zitto zitto, o restare con lei per cercare di
capire. Decisi d’aspettare il suo risveglio.
Si chiamava Tina, le raccontai per filo e per segno tutta la mia storia anche se
pensavo che m’avrebbe preso per pazzo e consigliato di rivolgermi ad un buon
strizzacervelli. Raccontare fu per me una liberazione, fin’ora non ne avevo mai
parlato con nessuno, avevo solo scritto queste righe. Lei invece capì subito e mi
credette al volo. Mentre io stentavo a crederlo, lei prese la mia storia come oro colato.
Scendemmo in cucina e ci preparammo un caffè. Ci accendemmo due sigarette e poi
lei mi raccontò la sua storia, altrettanto incredibile. Lavorava in un centro di ricerche
nella vecchia Russia, un centro non governativo e lei era stata selezionata per uno
stage trimestrale ben retribuito. Facevano esperimenti sulla trasmissione dell’energia
e della materia. Qualcosa andò storto e ci fu un’esplosione. Lei si ritrovò in un
ospedale dal quale non si poteva in alcun modo comunicare con l’esterno. C’erano i
computer, i telefoni, ma le linee s’interrompevano sempre se si cercava di contattare
l’esterno. Pensò d’essere in un ospedale militare, all’interno di una base. Lo strano
era che tutti parlavano correttamente l’italiano. Le dissero che si trovava ricoverata
all’ospedale di Hurruh e lei pensò che questo fosse il nome di una base militare
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segreta. Si rimise in fretta e con suo grande stupore fu dimessa. Si ritrovò in una
cittadina abitata quasi esclusivamente da donne, ove tutto o quasi era permesso.
Anche qui parlavano tutti l’italiano. Nessuno voleva soldi e le procurarono un
appartamento, un modulo di trasporto, cibo gratis negli alberghi. C’erano piscine,
campi da tennis, maneggi, cinema, teatro, campi da golf, bar negozi, hotel, birrerie…
Sembrava non mancasse proprio nulla, solo che le comunicazioni con l’esterno non
funzionavano e le strade riportavano sempre alla cittadina. In piazza c’era un
comando dei vigili urbani, con un solo vigile, sempre solerte e premuroso ad ogni suo
desiderio ma le comunicazioni restavano sempre interrotte e l’autovia per Milano era
costantemente momentaneamente chiusa per la caduta di un pilone. Lei cominciò a
temere che da questo posto non se ne sarebbe mai potuta andare, finché non fu
contattata da una bellissima donna che tutti chiamavano l’Oracolo o la Signora del
Fiume che le spiegò che si trovavano in un universo paradosso. Ma lei e il suo
compagno avevano trovato la maniera di entrare e di uscire da questo posto. La portò
nella sua abitazione e le consegnò un portachiavi rotondo che aveva un bottone rosso
su un lato. Le disse di premerlo e apparve una porta, cioè non proprio una porta, ma
una linea di luce che disegnava un portale. Le disse che se l’avesse attraversato si
sarebbe ritrovata nello stesso posto o nelle immediate vicinanze da dove era flippata
la prima volta. Se avesse poi voluto far ritorno a Hurruh, non avrebbe dovuto far altro
che ripremere il bottone e sarebbe rientrata in quella stessa stanza. I ritorni successivi
sarebbero avvenuti sempre al punto di partenza. Ringraziò l’Oracolo e le chiese se
avesse potuto portare qualcosa con sé. Tutto quello che vuoi, fu la risposta. Detto
questo lei se ne andò. Tornò al suo appartamento e in due borse infilò tutto ciò che
aveva pur senza soldi acquistato e che pensò le sarebbe stato utile al ritorno. Con le
due borse in mano si fermò al bancomat nella piazza di Hurruh e con la tessera che il
vigile urbano le aveva consegnato ritirò duemila euro e duemila dollari. Tornò
all’appartamento dell’Oracolo, che era sempre aperto come tutte le case di qui, e nel
suo salotto pigiò il bottone. Il portale s’attivò e lei senza esitazioni l’attraversò. Si
ritrovò nel bel mezzo della campagna e subito comprese che era di nuovo in Russia,
questo era il luogo ove era avvenuto l’incidente e la relativa esplosione. Solo che il
laboratorio non esisteva più e ne erano state cancellate le tracce, al suo posto solo
prati. Raggiunse il paese vicino e telefonò ad un taxi, dopo un paio d’ore era davanti
all’ambasciata italiana di Mosca. Raccontò che era una stagista e aveva terminato il
lavoro, voleva rientrare in Italia, ma le avevano rubato la borsa coi documenti.
Controllarono: lo stage era terminato un anno prima, cosa aveva fatto in questo
tempo? Il suo permesso era scaduto. Disse che aveva fatto la spogliarellista in un
locale vicino Mosca. Aveva guadagnato bene, assai di più che fare la ricercatrice.
Bevvero tutto, o forse non vollero approfondire, rimase due giorni in ambasciata e
quando le permisero d’uscire tutti i suoi documenti erano in regola e aveva un volo
prenotato per Roma. Non era più tornata a Hurruh: fine della storia.
«Però potremo andarci assieme.»
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***
È più di un mese che abito in questo luogo che sarà pure un paradosso, ma è assai più
appetibile dei giovedì nei quali ero bloccato. Ho registrato il mio arrivo alla stazione
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dei vigili urbani e sono divenuto amico del vigile. Abito sempre con Tina e lei va e
viene da qui al mondo reale. Ho conosciuto l’Oracolo che mi ha voluto lasciare un
portachiavi, siamo in ventitré ad averlo, qualcuno se ne è andato e non è più tornato,
in tre invece non hanno mai voluto usarlo, penso che io sarò il quarto. Quando Tina
tornerà in Italia le lascerò questo mio manoscritto da consegnare al mio editore e le
farò copiare tutti gli inediti che ho nel computer di casa. Perché qui c’è una grande
libreria che è pure casa editrice. Ho parlato con la proprietaria e lei stamperà tutte le
mie opere. Ho proposto anche un’opera omnia e lei è d’accordo, la farà uscire anche
in inglese. Domani ci sarà una festa alla quale parteciperanno quasi tutti quelli che
qui sono arrivati e anche qualche indigeno amico nostro. La festa l’ha organizzata
quello che chiamano Il bel Tenebroso, dicono che nel suo mondo è un famosissimo
personaggio della TRI-TV. Io non l’ho mai sentito nominare, forse il mio mondo non
è il suo, e se è per questo neppure la TRI-TV da noi esiste. Verrà da un’epoca futura?
Oppure da un’epoca diversa, questo mi sembra più probabile. Vedremo. Un’ultima
cosa, un medico dentista donna, m’ha ricostruito il dente e questo è rimasto al suo
posto. Ha anche buttato via il mio apparecchio e m’ha impiantato i denti mancanti. Il
mio sorriso è tornato smagliante.
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SDOT OR
(Omaggio alla letteratura e al popolo d’Israele)
Salgo sulla mia vecchissima auto e devo ricordarmi di rientrare prima che faccia buio
perché i fanali hanno smesso di funzionare una settimana fa. Dovevo andare
dall'elettrauto, ma poi me lo sono scordato, non è che adoperi molto l'auto, preferisco
camminare a piedi.
Mi sembra di vivere in un sogno, anzi in un incubo, tutto è cominciato stamani con
una telefonata. Era tarda mattinata, ma me ne stavo sdraiato sul letto con le finestre
chiuse per lasciare fuori il caldo e il sole, non avevo lezioni e me la stavo prendendo
comoda, avevo tra l'altro qualche linea di febbre. Il telefono squilla a lungo, dall'altro
capo c'è qualcuno che dovrei conoscere, ma non ricordo il suo nome, mi dice che è
morta, un attentato, lo stanno dicendo anche alla tivù. Non riesco a levarmi il torpore
da dosso, ringrazio e bruscamente butto giù il telefono prima ancora d'aver messo a
fuoco la notizia.
Mi getto nuovamente sul letto, poi il volto di lei brilla nella memoria: un attentato?
Non è possibile! Mi alzo velocemente, la mente ora non è più annebbiata dal sonno,
ma un dolore profondo mi avvolge, la febbre mi fa sentire la testa, cosa mi è stato
detto al telefono? Mi sono sognato tutto?
Rimango nudo in piedi davanti alla finestra chiusa, guardo il ricevitore come fosse un
nemico. Poi schizzo verso l'angolo più ignorato della casa, dove c'è un vecchio
televisore in bianco e nero che non accendo quasi mai. Giro la manopola e lentamente
appaiono alcune immagini pubblicitarie, cambio canale finché trovo un notiziario: sta
parlando di un attentato in un mercatino di Tel Aviv, il solito disperato imbottito di
tritolo, tre morti. Appaiono in quel bianco e nero di sapore antico le immagini
dell'angolo di mercato devastato, alcuni intervistati raccontano ciò che hanno visto,
conversano anche con un ferito all'ospedale, poi le foto dei tre morti. Una foto è la
sua, resto paralizzato, i miei occhi sono secchi come l'aria attorno, sembra che mi
brucino, mi dico non è possibile, è solo un sogno, e poi perché?
Con l'auto giro verso le colline, l'asfalto della strada è zeppo di buche e la mia
vecchia auto sobbalza cigolando, gli ammortizzatori scarichi si ribellano alle
sollecitazioni, mi fermo in uno spiazzo aperto, c'è un'altra auto arrugginita, forse
abbandonata da tempo.
In lontananza un rumoroso trattore munito di pala aggredisce una collinetta ghiaiosa.
Poso la testa sul volante e ritorno al tardo mattino, davanti alla tivù, mentre lancio un
urlo ed il suo volto resta impresso nella memoria. Mi copro il capo, m'infilo pigiama
e pantofole. Con un coltello faccio un lungo taglio al pigiama all'altezza del cuore.
Esco, il televisore è rimasto acceso, la porta è aperta, cammino, cammino: qui alla
periferia di Gerusalemme tra rovi ostinati che crescono nella polvere e tagliano le mie
gambe insensibili. Vago in pigiama coi piedi sanguinanti, Gerusalemme è l'unica città
al mondo ove puoi passeggiare in pigiama e pantofole senza destare curiosità. Giro
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tutto attorno al mio quartiere, più volte, perdo il conto delle ore, il pomeriggio è ora
avanzato, il dolore non si placa, e allora ritorno davanti alla mia abitazione salgo
sull'auto e giro la chiavetta, mentre un bambino mi osserva con l'aria interrogativa.
Giungo prima all'università e giro attorno ai padiglioni, qualche studente carico di
libri mi riconosce e fa un cenno di saluto.
Ora sono qui in questo desolato parcheggio tra colli e le vallate che arrivano fino al
Sinai. Ulivi, pietre, in lontananza il rumore affievolito d'un trattore. Nella nottata è
caduto uno spruzzo di pioggia e dove mi trovo ci sono delle pozzanghere, ma la mota
è quasi secca. Ricordo, lo scroscio d'acqua è durato solo un attimo e il terreno sta già
riprendendo quello che brama. A destra un muro sbrecciato, una casa in costruzione,
divago: Gerusalemme è sempre distrutta, malgrado si costruisca in continuazione, il
ricordo della distruzione permane. Il caldo ha preso pieno possesso dell'aria e il
vento, ora salmastro, screpola le labbra.
Gerusalemme, la sua periferia sempre in allerta, tutto è confine, la zona di frontiera
passa ovunque, anche nelle menti. Lei non c'è più, vivemmo anni spensierati a Sdot
Or alle prese con viti e ulivi, amici, più che amici, io di destra, d'una destra
totalmente laica, lei influenzata dalla nuova sinistra americana. Vestiva di solito in
jeans, talvolta portava camicie e pantaloncini cortissimi sempre dello stesso tessuto,
calzava scarpe nike sempre coperte di terra, fumava Marlboro. La prendevo in giro,
"la tua roba americana, i levi's e le nike la fanno gli arabi in Marocco, e le Marlboro
le fanno a Napoli". "Gli arabi a Napoli?" Diceva lei e poi ridevamo entrambi.
Camice, T-shirt, portava tutti capi americani che trovava in certi mercatini che solo lei
conosceva e dove avevano anche le Marlboro a prezzi stracciati.
In un mercato a Tel Aviv: era andata in gita e lei aveva subito cercato il mercato...
Il vento robusto del mare si sta scontrando con quello del deserto, carico di sabbia e
di promesse mai mantenute. La mia poesia si è inaridita in questa città, lasciai Sdot
Or portandomi dietro i suoi ricordi, quando bambino giocavo coi trattori di legno e le
camionette, giochi rozzi da bambino di kibbutz. Ero innamorato di lei, ma non seppi
rendermene pienamente conto, stavamo sempre insieme e prima di partire, è storia di
tutti i giorni che qualcuno lascia il suo kibbutz, per giungere a Gerusalemme e
studiare, ci amammo per un giorno intero. Ci siamo poi sentiti tre o quattro volte al
telefono, ci siamo scambiati qualche cartolina d'auguri.
Intanto intorno a noi tutto cambiava in fretta pur restando immutabile.
Un giorno ebbi voglia di rivederla e salii sull'auto, questa stessa auto che allora era un
po' meno arrugginita d'adesso. Dopo un lungo viaggio giunsi infine a Sdot Or, ero
accaldato e ricoperto della fine polvere che entra ovunque quando viaggi in questo
angolo del mondo. Mi fermai allora accanto al refettorio comune e cominciai a
pettinarmi, a ripulirmi alla meglio con salviette umidificate, e mentre stavo facendo
toilette la vidi passare, aveva un'enorme pancia, era incinta. Avevo saputo del suo
matrimonio, ma non sapevo che fosse rimasta incinta, nessuno me lo aveva detto.
Allora mi feci piccolo piccolo in auto e riuscii a non farmi vedere. Poi ripartii per
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Gerusalemme.
Arriva sferragliando un grosso camion che fa manovra in retromarcia lascia poi
sganciato il suo rimorchio scoperto a fianco della mia auto. Osservo le manovre, il
camion riparte, vicino a me sul terreno formiche gerosolimitane senza fretta
camminano in fila.
Sono immobile e la notte arriva con le sue costellazioni infinite, gli occhi mi si
chiudono e mi ritrovo a due passi dal confine con la Siria, vicino a Sdot Or, sono
arrivato con una vecchia moto militare e la sto aspettando. Ma l'attesa è al termine,
ecco che arriva a passo veloce con le nike sporche di terra, coi suoi capelli neri che il
vento fa danzare. I suoi occhi penetranti, minipantaloni e T-shirt avana, un cappello di
rafia che resta miracolosamente in bilico sulla sua chioma. Le sue labbra carnose,
sensuali che si avvicinano al mio volto, la bacio sulla guancia: un bacio che sa di sale.
Siamo tutt'uno con la nostra terra mentre il ricordo mi avvolge in questa triste notte
d'autunno alla periferia di Gerusalemme.
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IL RASOIO DI OCCAM
“Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” sive “ pluralitas non est
ponendo sine necessitate”
Qualcosa non era proprio andato per il verso giusto, o lui stava impazzendo oppure
s’erano verificati fatti impossibili. Tito in piena confusione si sdraiò sulla sua
poltrona preferita di color verde pisello, accavallò le gambe, tirò vari respiri profondi
e modulati finché non capì che i muscoli irrigiditi cominciavano a rilassarsi.
Continuò così con la respirazione finché non sentì sciogliersi quel nodo allo stomaco
che da ore lo infastidiva, solo allora prese un quotidiano dal tavolinetto lì vicino e
cominciò a sfogliarne le pagine. Non riusciva però a concentrarsi sulle parole scritte e
se si sforzava a leggere, subito dopo dimenticava il senso della frase che era appena
scorsa sotto i suoi occhi. Si guardò attentamente attorno come se vedesse per la prima
volta la sua familiare stanza. Il salotto era vuoto, tre tavolinetti in radica, un’altra
poltrona identica a quella sulla quale lui sedeva, un divano con sopra il gatto tigrato
di casa che stava dormendo acciambellato, un piccolo mobiletto con cinque cassetti
uno sopra l’altro, un porta televisore con sopra la tivù, il videoregistratore e il
decoder per il satellite, sulla sinistra a ridosso della parete un armadio ottocentesco
stracolmo di videocassette, accanto una lampada a stelo e dietro di lui un mobile bar
sempre meno usato. Per terra un tappeto rosa antico con disegni floreali, sopra un
tavolinetto in cristallo, quadri alle pareti: alcune nature morte, due ritratti a olio dei
bisnonni.
L’ispezione minuziosa della sala s’interruppe e i pensieri che senza tregua
l’assillavano da ore eruppero nuovamente nella sua mente. Era certo d’averla vista
morire, l’aveva uccisa con le sue mani, aveva poi osservato a lungo il corpo senza
vita. Aveva tolto dall’appartamento di lei tutto quello che poteva esser
compromettente per lui, aveva indossato un paio di guanti da cucina e aveva ripulito
tutta la casa con la massima attenzione stando bene attento a non aver lasciato alcuna
impronta digitale. Aveva poi messo in un sacco nero della spazzatura ciò che aveva
raccolto e tutto quello che poteva contenere residui dai quali ricavare il suo DNA: i
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lenzuoli, le federe dei cuscini, alcuni capi d’abbigliamento intimo, un fazzoletto, ecc.
Aveva chiuso la porta d’ingresso cancellando ogni impronta anche su di essa, infine
era sceso. Era salito in macchina e facendo attenzione che nessuno lo vedesse aveva
portato con se il sacco della spazzatura, s’era poi fermato a un cassonetto distante
dalla casa e aveva gettato il sacco.
Era passata una settimana da quella sera e sulla stampa ancora non aveva visto niente.
Lui aveva ucciso la sua amante che era tra l’altro la migliore amica di sua moglie. Era
stata lei a coinvolgerlo in giochi erotici sempre più spinti al limite del sado-maso,
così come era stata lei ad adescarlo senza lasciargli alcun scampo. Ma a lui la cosa
era piaciuta, almeno all’inizio, ma lei si era fatta sempre più insistente e aveva
escogitato di tutto perché sua moglie s’accorgesse dell’inghippo, telefonandogli
continuamente, mandandogli regali a casa, addirittura fissandogli appuntamenti
tramite sua moglie. Erano così iniziate le litigate, i primi scontri anche
fisici, si divertiva a ricattarlo chiedendogli sempre più soldi per non dire alla moglie
la verità, e lui era costretto a staccare continuamente assegni sempre più alti. Lo
cercava al lavoro, gli mandava e-mail al computer di casa, SMS al cellulare, era
divenuta un vero incubo e ogni volta che la minacciava di chiudere definitivamente
lei si metteva a cercare sua moglie per raccontarle tutto, così Tito doveva fare
velocemente marcia indietro. Il tira e molla durava ormai da un anno e lui era
esasperato, distrutto, col conto in banca in rosso e così aveva deciso d’ucciderla, non
vedeva altra soluzione per uscire dall’incubo mentre sua moglie sembrava proprio
non sospettasse nulla, telefonava amichevolmente all’ amica e spesso uscivano
assieme. Comunque era trascorsa una settimana e non era possibile che nessuno se ne
fosse accorto anche se lei abitava da sola. In questo periodo sua moglie non aveva
mai accennato all’amica, anche questo era un po’ strano: come mai nessuno se n’era
ancora accorto?
Tito più volte fu tentato di recarsi nell’appartamento dell’ex amante, ma si rendeva
sempre conto che questa sarebbe stata proprio una stronzata, un paio di volte con la
macchina giunse fin sotto l’abitazione di lei, l’assassino torna sempre sul luogo del
delitto, pensò tra sé e tirò avanti senza fermarsi.
Ma questa mattina era successo l’impossibile: il telefono aveva squillato, era andato a
rispondere e aveva sentito la voce della morta dire: «Ciao Tito, mi passi tua moglie?»
Era rimasto immobile, paralizzato mentre un tuffo al cuore gli aveva tolto il respiro.
Sua moglie gli era venuta accanto e aveva detto: «E’ Mara vero? Me la passi?»
Tito era rimasto con la bocca aperta, immobile con la mascella penzoloni, il telefono
in mano sempre accostato all’orecchio, lei glielo aveva tolto e aveva cominciato a
chiacchierare con l’amica, s’erano date poi appuntamento in città per fare shopping,
come se non fosse successo nulla, ma qualcosa era successo si diceva Tito o sto
perdendo colpi e mi sto immaginando tutto, sono giovane ancora e già i neuroni mi
sciacquano nella testa. La moglie s’ era vestita ed era uscita per andare in centro a far
shopping con una che era morta stecchita una settimana fa. Tito aveva chiamato
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allora Mara al cellulare e lei aveva risposto «Pronto?» La sua voce, era
inconfondibilmente la sua voce, aveva riattaccato, s’era preso alcune pastiglie di
tranquillante e aveva tentato di riflettere su ciò che gli era accaduto, o meglio su ciò
che credeva gli fosse accaduto. Lui l’aveva uccisa, questo era indubbio, ma ora era
viva e si comportava come se niente fosse successo: allora s’era immaginato tutto,
non c’era altra spiegazione. Perché l’aveva uccisa? Al momento non ricordava
neppure il movente tanto era agitato, oppure erano troppi i tranquillanti che aveva
preso. Aveva una relazione con lei, una relazione di quelle fin troppo forti e violente,
ma era vero o s’era sognato pure questo? Lei era amica della moglie, un’amica fin
troppo intima qualcuno sosteneva e, loro tre si conoscevano fin dall’università, cioè
lui conosceva bene quella che era divenuta sua moglie e sua moglie era molto intima
con l’amica, un gioco così da sempre fino a che non si portò a letto anche l’altra, anzi
fu l’altra che a casa sua lo stese su un tappeto e gliene fece di tutte, andò così vero
Dunque andava con entrambe e sua moglie non sospettava nulla, la cosa è durata due
anni poi lei ha dato al matto come richieste sessuali, come intraprendenza, come
bisogni finanziari, un incubo era divenuta la cosa e sessualmente pretendeva sempre
di più, quasi l’impossibile e poi sembrava facesse di tutto perché li scoprissero anche
in casa quando sua moglie era presente. Ma più ripensava a queste cose e le
confrontava con ciò che era successo ultimamente come le telefonate di Mara, la sua
voce e il fatto che adesso era a far acquisti con sua moglie, più si rendeva conto che
non c’era che una spiegazione: lui s’era inventato tutto, aveva immaginato ogni cosa,
ma perché? Avrebbe fatto bene a consultare quanto prima un analista o uno psichiatra.
Decise che doveva raccontare tutte le sue fantasie a sua moglie e a Mara, pensò così
di telefonare ad entrambe, erano assieme ora, no? e dire di venire a casa adesso,
subito che aveva cose importanti da dire a loro due. Prese così il telefono e fece il
numero di sua moglie. Gli rispose subito e cominciò a raccontargli di ciò che
avevano visto in quel negozio e nell’altro, avevano poi comperato alcune cose e
gliele descrisse minuziosamente, avevano da fare molto ancora ma, tranquillo,
sarebbero tornate a casa assieme e così lui avrebbe potuto raccontare quelle cose
importanti che ci teneva loro due sapessero. Solo a tarda sera le due donne
rientrarono parlottando ininterrottamente tra loro con risolini soffocati mentre lui era
in salotto davanti alla tivù, spenta però. Si alzò, andò in cucina ove le due donne
stavano preparando una cena per tre e raccontò loro tutta la storia, confessando pure
d’averla uccisa, espresse anche i suoi forti dubbi sulla propria sanità mentale. Loro
risero divertite, lo presero in giro, l’accusarono d’esser passato dagli spinelli a chissà
quale altra schifezza come fanno i ragazzini. Le canne, ora si chiamano canne,
balbettò mentre le due donne si scompisciavano dalle risate. Sua moglie gli chiese se
avesse adesso intenzione di strangolare pure lei. Era completamente sconvolto,
mentre le altre due ridevano d’un riso che si faceva sempre più inquietante, non
sapeva più cosa fare né cosa dire, già vedeva le porte della casa di cura psichiatrica
che s’aprivano per inghiottirlo e non farlo mai più uscire. Un buon strizzacervelli gli
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LA STRADA
(racconto vincitore del premio “Fantascienza e dintorni” – 2004)
Sono nato in questa strada, una via ampia che scorre dritta, un senso procede a sud
verso il mare e s'incrocia con l'ampio lungomare sempre trafficato ad ogni ora del
giorno.
Il senso opposto, quello che si dirige a nord, prima attraversa una statale, c'è un
semaforo all'incrocio, poi si perde verso l'interno mantenendo sempre la stessa
direzione.
Dicevo che sono nato in una casa sita su questa via a circa un chilometro più verso il
mare da dove abito adesso.
Quando ero ragazzo, avevo tutti gli amici che stavano nella stessa mia strada e
talvolta con loro facevamo delle scorribande risalendo con le bici verso il nord.
Inforcavamo i nostri velocipedi e con l'irruenza di quegli anni verdi pedalavamo
veloci lasciando presto le nostre case a più piani per trovarci circondati da abitazioni
coloniche con capanne, stalle, campi coltivati, covoni di paglia col palo piantato nel
mezzo ed un barattolo rovesciato all'estremità del palo.
Ci venivano incontro vociando torme di bambini scalzi che chiaramente erano i figli
dei contadini.
La prima scuola, i primi amici, la chiesa che i miei frequentavano, i negozi nei quali
si faceva la spesa, il cinema, tutto si snodava lungo la strada, anche il circo e il luna
park che ogni anno montavano le loro tende e i loro stand, arrivavano da questa via e
a lato di essa si fermavano per poi ripartire.
Andai poi alle scuole superiori, usando la metropolitana che portava in centro, finite
le scuole trovai un lavoro, sempre in centro, ed ho costantemente usato la
metropolitana per questi spostamenti quotidiani.
L'auto l'usavo solo la domenica, per raggiungere il lungomare e talvolta proseguivo
per chilometri e chilometri lungo la costa finché non trovavo un tratto di mare adatto
ad i miei tuffi.
Sono adesso in pensione e abito ancora in questa stessa via, l'ho già detto, un
chilometro più a nord da dove sono nato, talvolta incontro alcuni dei miei vecchi
amici dell'infanzia.
Guardo non verso il mare ove la strada finisce, ma verso nord ove la via prosegue e
non so fin dove.
Ho esplorato un pezzo di essa da ragazzo, solo da ragazzo, poi non sono mai più
tornato al nord. Sono passate decine di anni da allora, sicuramente tutto sarà
cambiato.
La direzione nord della strada mi attira sempre più, è una calamita che ruba tutti i
miei pensieri, mi richiama ogni giorno più prepotentemente.
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Ho finalmente deciso d'imboccare nuovamente quella via, voglio vedere ove sbocca,
sono sempre più curioso, anche perché nelle carte che ho consultato, la strada sembra
interrompersi a soli dieci chilometri dalla mia abitazione, cosa che so non vera poiché
con le esplorazioni in bici arrivammo ben oltre.
Ho riempito l'auto di viveri, acqua e taniche di benzina, ho caricato la mia vecchia
bici sul portabagagli e ho girato la chiavetta d'accensione.
Parto lentamente in direzione nord: osservo come fosse la prima volta il luogo ove
abito, quanti ricordi s'affastellano confusi nella mente, volti di donne e di bambini,
interni di case e di negozi, fiori sbocciati, danze, cerimonie liete e tristi...
Sfilano palazzi signorili a cinque sei piani, foderati in travertino, in preziosi tasselli di
ceramiche colorate e marmi, per proteggerli dal salmastro nei giorni di vento, con i
giardini ben curati, le siepi di pitosforo recentemente sforbiciate, le rose le
buganvillee, gli oleandri in fiore, larghi marciapiedi con alberelli ornamentali,
qualche severo pino maremmano nello sfondo, lampioni e panchine a distanze
regolari, le auto lucenti parcheggiate in fila accosto ai marciapiedi.
All'improvviso c'è poi uno slargo di verde, un grande giardino pubblico, ove spesso
andavo, con siepi e panchine, giochi per ragazzi ed un laghetto coi cigni. Scorgo
giovani che corrono ed anziani seduti immersi nella lettura.
Proseguo e salgo il cavalcaferrovia: sotto passano rotaie sulle quali i treni sfrecciano
veloci. Dal cavalcaferrovia vedo il grande centro commerciale e i negozi che lo
circondano.
Mi fermo proprio in cima al cavalcaferrovia e scendo dall'auto, la strada è grande e
non intralcio nessun altro mezzo, guardo verso il mare e scorgo il mio condominio e
più lontano la casetta ove sono nato che adesso è stata ristrutturata e trasformata in
villetta. Poi leggermente a sinistra c'è l'entrata della metro, più lontano la riga
brillante del mare.
Riparto nella mia direzione e mi fermo al semaforo che trovo all'incrocio con la
statale. Il semaforo è rosso e io aspetto pazientemente senza spegnere il motore: la
statale è molto trafficata e file di auto multicolori sfrecciano veloci nelle due
direzioni. Attendo: infine il semaforo passa al verde, parto veloce perché so che nella
mia direzione il verde dura solo un attimo e non di più. Vedo infatti la massa delle
auto che di malavoglia s'è arrestata, negli abitacoli i conducenti nervosi sgasano con
rabbia e ripartono facendo stridere le gomme quando io non ho ancora finito
d'attraversare la strada.
Proseguo e per qualche chilometro tutto sembra essere uguale a dove io abito. Più
avanti però le case non sono foderate di pietra ed hanno l'intonaco scrostato, si fanno
sempre più brutte, più maltenute, sembrano anche più antiche, ma questo non è
possibile, perché quando passavo qui da ragazzo queste abitazioni non c'erano
ancora.
I giardini non sono più curati come nel mio quartiere e alcuni sono addirittura
abbandonati: qualche abitazione ha nientemeno che due assi incrociati sopra le porte
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e le finestre.
Sono adesso in un agglomerato ove le case si stringono fitte ai lati della strada.
Parcheggio e scendo per fare un giro. Gli appartamenti sono ora a due, tre piani, i
giardini qui non ci sono, ma corti sterrate utilizzate come parcheggio dalle auto.
Alcune macchine sembrano abbandonate da tempo, sono coperte di cocci e di
ruggine.
La strada è attraversata da innumerevoli fili metallici, del telefono, della luce e chissà
d'altro.
I negozi hanno tutti le saracinesche abbassate ed alcuni carrelli da supermercato,
arrugginiti, giacciono rovesciati accanto alle porte d'ingresso.
Passanti furtivi mi guardano di sottecchi e girano veloci gli angoli, un uomo strattona
una giovane ragazza e la conduce a forza in un portone, nessuno sembra notare niente
d'insolito e la ragazza vistosamente si ribella, ma non emette un solo suono.
Turbato risalgo in auto e riparto, voglio andare avanti, ancora più avanti.
Mangio un panino imbottito e bevo birra mentre l'auto prosegue, e i venti chilometri
previsti da quella stupida cartina sono già stati abbondantemente superati da altri
venti e la strada prosegue ancora chissà per quanto.
È giunta la notte, parcheggio l'auto e mangio della frutta, lì vicino c'è un'insegna
tremolante BAR, mi farò un caffè poi dormirò nell'auto e domattina andrò ancora più
avanti.
A piedi faccio i cento metri che mi separano dal bar, entro da una cigolante porta a
vetri, l'interno è poco illuminato e alcuni avventori, vestiti come operai del secolo
scorso se ne stanno giocando a carte con mezzette di vino rosso e calici squadrati
davanti.
Per terra all'ingresso c'è una sputacchiera, le avevo viste solo nei vecchi film, cerco di
non guardarla ed entro in quest'ambiente estremamente fumoso.
Sì, il fumo qui è a strati, c'è odore di sigaro e di pipa, c'è anche odore d'orina, e mi
ricorda che devo andare al bagno.
Mi avvicino al bancone di legno, è lurido, e chiedo al barista che indossa una giacca
che sicuramente molto, molto tempo prima era bianca, un caffè.
« Corretto?»
«No, semplice.»
Prendo il caffè, lo zucchero e mi siedo ad un tavolo vuoto. C'è una porticina ed una
targhetta "LATRINA", mi alzo, ci vado. E' un bugigattolo puzzolente con un foro
circolare per terra su un lastra di marmo lurida ed un "tappo" anch'esso di marmo con
una maniglia metallica: mi arrangio mentre l'odore di ammoniaca si leva da quel foro
nel pavimento, poi ritappo il buco ed esco.
Al mio tavolo c'è un ragazza seduta, mi siedo accanto al mio caffè e la guardo: è
sudicia e ha alcuni denti cariati, è giovane, ma sento che pure puzza di sporco.
La ignoro, bevo il caffè, poi mi accendo una sigaretta, lei prende una delle mie
sigarette e l'accende.
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cristallo con una bocca canina, gli occhi brillanti, i lunghi bianchi denti e la lingua
gocciolante. Mi faccio piccolo piccolo sotto il plaid: l'animale annusa a lungo tutta
l'auto, poi addenta più volte i pneumatici, e infine se ne va.
Al mattino ho una gomma forata, la cambio e riparto e lungo la strada vedo solo
edifici che sembrano aver subito un bombardamento, parte della carreggiata è talvolta
occupata da masse indefinibili di metallo arrugginito. Macerie, macerie, solo macerie
per chilometri e chilometri, interrotte talvolta da alcuni campi incolti.
Quando si fa notte qualcosa cambia, ci sono degli edifici abitati e incontro dei campi
coltivati, ma la strada s'è fatta più stretta ed è sterrata, non più asfaltata.
Proseguo fin quasi al mattino e ad un certo punto l'auto si ferma, la benzina è finita.
Carico allora il cibo, l'acqua e le poche cose indispensabili su uno zaino e prendo la
bici.
Adesso davanti a me c'è un lungo ponte in legno che attraversa un fossato, ma forse è
un fiume, mi accorgo che è molto ampio e le sue acque devono essere profonde.
Il ponte ha delle spallette, anch'esse in legno, ci appoggio la bici e scendo verso le
acque che scorrono.
« Fossi in lei non lo farei!»
Mi fermo, mi guardo intorno e scorgo un uomo sul ponte vestito in jeans e camicione
a quadri.
«Scusi, diceva a me?»
«Io non andrei troppo vicino all'acqua.»
«Perché?»
«Ci sono le scille!»
«Che cosa?»
«Le scille!»
«Non so cosa siano.»
«Guardi allora.»
L'uomo si china e da una cesta di vimini trae un pesce e lo lancia in acqua. Il pesce
non fa in tempo a cadere nel fiume che un lungo tentacolo s'alza di scatto e lo
inghiotte.
Il tentacolo poi si mette eretto, dritto verso l'alto e si aprono come dei petali colorati
sulla sua sommità, a raggiera, sì che l'effetto finale è quello d'una enorme margherita
colorata.
«È una pianta carnivora?»
«No, è un animale, una scilla d'acqua dolce, ed il fiume ne è pieno: per questo non è
saggio avvicinarsi troppo.»
«Mangiano anche le persone?»
«Sì, le trascinano in acqua e le strappano a morsi.»
«Cazzo! Non lo sapevo, grazie per avermi avvertito.»
Risalgo veloce verso il ponte, voglio calorosamente ringraziare il pescatore per
avermi salvato la vita, ma di lui non v'è traccia, monto allora nuovamente sulla bici e
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Dopo il caffè e il cioccolato accendo una sigaretta tolta da quel pacchetto assurdo,
l'assaporo, il gusto è lievemente speziato e devo dire che è veramente ottima.
Forse era questo il posto che ho cercato per tutta la vita: lei mi osserva con quegli
strani occhi, mi prende la mano, la bacia e mi sorride.
Fuori alcuni ragazzi dagli occhi piatti stanno provando la mia bicicletta: cazzo! Ecco
dov'era finita! Però me l'hanno riportata.
Vedo che uno di loro già riesce a stare in equilibrio.
Gli sorrido.
È ormai già un bel po' di tempo che mi trovo in questo luogo, lo so la strada prosegue
ancora verso nord, ma mi è passata la voglia di andare avanti.
Tornare indietro, non se ne parla neppure, non rientrava nei miei programmi.
Comincio ad imparare la loro lingua e qui mi trovo così bene come non sono mai
stato.
La mattina quando mi rado la barba, mi osservo attentamente allo specchio e sono
ringiovanito di decine d'anni: chissà perché?
La ragazza è sempre così affettuosa con me e non mi lascia mai, sono felice d'averla
incontrata. Mi riempie sempre di piccoli regali, ho imparato anch'io a scivolare sulla
strada con le loro scarpe anti-g che lei ovviamente mi ha regalato. Anche questo
sapone da barba, il rasoio, il dopobarba e la crema da spalmare sugli occhi sono suoi
regali.
La crema da occhi poi è fantastica, i miei occhi ovali bianchi assumono ora variazioni
cromatiche madreperlacee.
Delle volte mi sembra proprio che questo posto sia veramente troppo per me e mi
chiedo: «Dove sarà l'imbroglio?»
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MARINORA
Si guardò attorno, si trovava in una piccola stanza disadorna, un tavolo nel mezzo e
due vecchie sedie impagliate. Una piccola finestra dava su un panorama urbano,
sembrava d’essere ad un piano alto, forse al ventesimo o ancora più su.
Marinora si sedette su una sedia che l’accolse scricchiolando, si guardò meglio
attorno: non c’erano porte, l’unica apertura era la finestra.
Vide che due e-mail le giravano attorno, ne prese una con le mani, ma non ricevette
alcun messaggio, l’energia era indebolita, da quanto tempo si trovava in questa
stanza?
Anche l’altra e-mail stava scomparendo per carenza energetica.
La testa le scoppiava, ma cercò di rifasare il pensiero per capire perché si trovasse lì.
Si era svegliata presto questa mattina, dato che aveva numerose scartoffie da smaltire
nel suo ufficio. Ma appena arrivata, era stata colta da claustrofobia, le succedeva
spesso quando doveva iniziare un lavoro palloso, allora era scesa al computer bar giù
all’angolo, si era seduta al suo solito tavolo, aveva ordinato un caffè con panna, se
l’era scolato lentamente mentre sullo schermo scorreva la listata dei principali titoli
dei giornali del mattino.
Aveva poi ordinato un pizzico di neococa per rifasarsi del tutto con il giorno appena
iniziato, e mentre sniffava si erano sentite due secche esplosioni distanziate l’una
dall’altra solo da pochi secondi, la prima era abbastanza lontana, la seconda invece
era più vicina e aveva anche fatto anche tremare i vetri della porta d’ingresso.
La cosa non aveva preoccupato nessuno, tanto meno Marinora, le esplosioni urbane
facevano ormai da tempo parte dell’inquinamento acustico metropolitano.
Una cosa però la incuriosì: una strana coppia di giovani che erano seduti al tavolo
accanto al suo. Lui era un ventenne con l’aria di studente universitario, lei sembrava
la tipica prostituta con il terzo occhio impiantato. Le sembrò che il giovane sorridesse
al sentire i due botti, allora lei attivò lo scanner mentale e avvertì contentezza e
preoccupazione, sembrava che i due fossero appena usciti da un forte trauma, ma al
contempo erano felici della situazione. Marinora pensò che ciò fosse molto strano e
tentò di saperne di più. Il giovane era consapevole che erano saltati la sua casa e il
suo modulo di trasporto, ma perché era felice? Contenti loro… e si ritrasse anche
perché non voleva si accorgessero della lettura del pensiero, si sa, chi ha il terzo
occhio avverte molte cose, e poi in definitiva non erano cazzi suoi.
Si mise allora a sfogliare alcuni articoli di una mail rivista di moda, quando udì una
voce sintetica: <MARINORA AL COLLEGAMENTO TRE>
Si alzò, andò al bancone e si sedette alla consolle del collegamento tre sul cui
schermo lampeggiava: <MARINORA >
Questi erano gli ultimi ricordi. Marinora si alzò dalla sedia e avvicinò un dito
all’unica finestra. Attivò il magnete dell’unghia dell’indice della mano destra, e al suo
tocco i pixel del panorama urbano iniziarono a tremolare e a scomporsi, ritirò la mano
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sorridendo mentre l’emorragia lo stava uccidendo e dalla sua bocca uscivano dei
rantoli di morte. Il corpo era in preda alle convulsioni e la sua vita stava fuggendo
assieme al sangue che ormai aveva inzuppato la moquette di mezza stanza.
Lei si vestì attenta a non imbrattarsi, poi attivò il laser impiantato e sfondò la porta di
legno. Mentre usciva si voltò a dare un’ultima occhiata allo stupido rantolante e
mandandogli un bacino con le dita sussurrò:« Adieu mon amour.»
Dopo la porta vi era un ingresso e un’uscita che dava al piano terra, fuori un vicolo
maleodorante nell’anonima periferia cittadina.
Chiamò il modulo che dopo pochi minuti apparve, salì e si fece portare all’ingresso
del palazzo ove si trovava il suo ufficio.
Attivò subito il suo personal e iniziò una ricerca a raggio globale, quasi subito
apparve una listata di Marinore sparse in ogni luogo del pianeta, selezionò i primi
arrivi e proseguì con l’eliminazione su basi geografiche e d’età. Cancellate quelle che
non potevano essere scambiate per lei si indirizzò verso tre donne che oltre ad avere il
suo nome abitavano a non più di duecento chilometri da lei. I dati sulle tre selezionate
iniziarono ad affluire, una di queste abitava in una città vicina e lavorava in un
laboratorio di ricerca sui biochip.
Questo fece scattare la molla a Marinora, molte persone che lavoravano a questo
progetto erano state negli ultimi tempi misteriosamente terminate. Disse al PC di
concentrarsi su questa, di attivare ogni motore di ricerca e di fornirle tutti i dati
possibili. La prima cosa che apparve fu il volto, ed era molto somigliante al suo,
arrivarono poi ben sette suoi indirizzi, ma tutti virtuali, in seguito giunsero gli altri
dati. Ora poteva leggere per intero la vita della ragazza, dall’asilo fino ad oggi,
compresi i conti bancari, i fornitori abituali, gli amici, i parenti, e infine arrivò anche
l’indirizzo e il numero di codice del suo modulo di trasporto. Marinora fu soddisfatta
del lavoro eseguito dal suo PC, era stato veramente eccezionale, e grazie a lei che
l’aveva taroccato a tal punto da essere quasi senziente, aveva in lui sistemato chiavi
d’entrata d’ogni tipo, ovviamente illegali che gli permettevano di scivolare in ogni
piega della rete. Una ricerca così ad ampio raggio non l’aveva mai eseguita, ma era
certa, dato il suo lavoro d’indipendente che prima o poi l’avrebbe compiuta, pensava
per lavoro, non per ricerca personale.
Un dubbio la colse, “non sono certo l’unico indipendente ad aver sistemato così il
computer”, e così ordinò al PC d'eseguire una ricerca su lei stessa.
Dopo meno di un quarto d’ora sullo schermo apparve praticamente tutta la sua vita, i
suoi conti, gli amici, ecc.
«Manca solo il numero dei peli che ho nel culo!» esclamò ad alta voce e pensò che un
indipendente serio non avrebbe dovuto lasciare tracce evidenti di sé, la sua
professione esigeva discrezione e invisibilità. Ordinò quindi al computer di ripulire la
rete da tutti i suoi dati e anche da quelli dell’altra Marinora.
Si sedette su una poltrona mentre il PC era al lavoro, accese una sigaretta per
concentrarsi e decidere cosa fare. Intanto attorno a lei ronzavano tre e-mail, le afferrò
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SECONDO INTERMEZZO
(omaggio a Ray Bradbury e a Cronache Marziane)
Ottobre 3026
Mille anni erano trascorsi in fretta da quando gli ultimi razzi erano giunti sul suolo di
Marte.
Furono sette in tutto i razzi che nell’ottobre di mille anni prima vennero dalla Terra,
al loro interno intere famiglie che erano riuscite a fuggire dall’agonia del pianeta.
La guerra colpiva tutto senza posa, solo alcuni, i più accorti, prevedendo il peggio
avevano nascosto i razzi che normalmente servivano per navigare fino alla Luna e
quando si resero conto che tutto era ormai inutile, partirono per Marte coi loro
familiari: solo in sette giunsero a destinazione.
Sicuramente furono di più ad andarsene, ma alcuni razzi esplosero colpiti dalla
contraerea, amica o nemica a questo punto aveva poca importanza, altri si persero
nelle immensità dello spazio.
Sette razzi, sette famiglie giunsero e tutte si stabilirono in una stessa città marziana
che possedeva da cinquanta a sessanta strutture ancora in piedi e le strade, benché
ricoperte di polvere erano sempre lastricate; due o tre fontane centrifughe ancora
pulsavano fresca linfa nelle vasche.
Era la città millenaria nella quale la famiglia di William Thomas aveva per prima
deciso d’abitare.
Le colonie terrestri costruite in legno già cadevano in segatura.
Sette razzi, sette famiglie: una città.
Attivarono subito un faro elettromagnetico per segnalare la loro presenza ad
improbabili sopravvissuti. E uomini e donne dei quali non si sospettava l’esistenza si
fecero avanti.
Undici in tutto che avevano passato lunghi periodi di tempo nascosti tra le rovine
delle città marziane, undici uomini giunsero alla spicciolata, ognuno con la propria
storia.
Anche i superstiti dell’antica civiltà marziana, in numero esiguo ma mai calcolato,
vennero in silenzio uno ad uno e si confusero con la popolazione della città sempre
cercando di non dare nell’occhio.
Quando arrivava un congiunto o un amico morto o rimasto sulla Terra, veniva accolto
con la massima gioia e ogni dubbio o problema era subito accantonato.
L’antica città si rianimò è pulsò di vita. La Terra intanto taceva e da essa nessun
segnale giunse mai più su Marte.
Mille anni erano trascorsi e quella rimase l’unica città abitata. Le sfere di fuoco in cui
s’erano trasformati gli abitanti più antichi non scesero mai dalle vette delle loro alte
montagne e sempre più raramente si riusciva a scorgerle. Nessuno cercò di stabilire
contatti con loro, si tendeva a preservare il loro isolamento.
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Canzoni che avevano ormai perso il loro senso originario, ma che le donne
recitavano con amore, quasi fossero un devoto omaggio ai loro antenati.
La Terra in cielo veniva sempre osservata, ma ostinatamente se ne restava muta.
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1. Il crepuscolo era caduto sulla Terra da molte generazioni. Un Sole sempre più
pallido illuminava scarsamente un immenso mare di sabbia costellato dai punti
luminosi delle antiche città. I mari erano scomparsi e al loro posto la ruggine dei
deserti s’univa a quella identica delle piattaforme continentali. Le grandi montagne
s’erano trasformate in altipiani. I ghiacci dei poli coprivano ormai metà del pianeta.
Le rare stelle della Via Lattea erano visibili anche di giorno e la Luna divenuta
immensa sembrava toccare la Terra.
Tanto tempo prima il satellite aveva iniziato a precipitare. Era stato allora imbrigliato
da immani forze antientropiche sì che la sua posizione era divenuta geostazionaria.
Pur continuando a precipitare scorreva indietro nel tempo in sincronia col suo moto,
così che sembrava oramai fermo. I grandi computer costruiti dagli antichi
perpetuavano il miracolo. L’energia degli atomi manteneva vive anche le città coi
suoi abitanti. Lo spazio, un tempo conquistato, era stato del tutto abbandonato. I
portali ancora erano tenuti in funzione, così come il grande ascensore per la
piattaforma orbitante. Ma gli uomini non erano più interessati e pochissimi varcavano
le porte o salivano verso le stelle. Anche se i grandi venti avevano perduto la loro
forza, la vita continuava a svolgersi solo nelle città. Ogni bisogno materiale era
soddisfatto dalle macchine, le conoscenze erano depositate nei banchi memoria a
disposizione di tutti, le reti simstim consentivano ogni svago. Il virtuale, il
soprannaturale e l’irrazionale avevano preso il sopravvento, ma in maniera dolce,
rilassata e pacata. Come s’addice ad una cultura troppo antica. Ogni camera aveva i
suoi bastoni da preghiera. Gli uomini ad essi si afferravano, chiudevano gli occhi e
col loro ausilio pregavano, meditavano, sognavano. Tutti gli dei, anche quelli da eoni
dimenticati, riaffioravano nelle loro preghiere. La preghiera era divenuta un atto
individuale e tutti i luoghi di culto, uno ad uno avevano cessato di svolgere la loro
funzione. I pegasi, un tempo vanto dell’ingegneria genetica, solcavano i cieli sempre
più raramente. Costruiti in buona parte col genoma umano stavano accettando lo
stesso destino dell’umanità. Brucavano e trottavano nei grandi prati dei parchi siti al
centro d’ogni metropoli. Erano divenuti sempre più intelligenti, ma anche sempre più
tristi. Un tempo sembravano pavoneggiarsi nella loro altera bellezza. E gli umani si
rispecchiavano soddisfatti in essi e nel loro volo. Come le IA anch’essi erano divenuti
senzienti, ma non erano gelidi e freddi come i calcolatori. Gli animali e i vegetali
terrestri erano stati trasportati su migliaia di mondi, ma adesso erano poche le specie
vegetali superstiti sulla Terra e, ancor meno quelle animali: ciò che ne restava era
ospitato nei parchi. Nel deserto si trovavano solo alcune specie d’insetti e un cactus
mutante. Tre o quattro varietà aliene – arrivate chissà da dove e chissà quando – alle
quali la classificazione animale/vegetale andava assai stretta, continuavano sotto le
sabbie e all’interno dei ghiacci la loro silente esistenza. I mezzi di trasporto cittadini e
anche quelli che collegavano una città all’altra, erano fermi ed erano stati stivati negli
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hangar sotterranei.
I computer e i robot al loro servizio continuavano a mantenerli efficienti:
nell’improbabile caso che qualcuno avesse voluto usarli, questi erano pronti. Le
strade delle città erano sgombre, tutti si muovevano camminando. In silenzio la Terra
stava morendo.
2. Millenni dopo. Una sola città ancora esisteva sulla Terra. I suoi rari abitanti
passavano le loro esistenze afferrati ai bastoni da preghiera. I computer provvedevano
a loro. Le rare specie dei deserti e dei ghiacci erano estinte. Gli ultimi pegasi s’erano
lasciati morire. Solo il giardino all’interno della città sembrava vivere come un
milione d’anni prima. Il Sole rischiarava appena e le tenebre avevano avvolto il
pianeta nella sua agonia. La notte era interrotta solo da piccole stelle, sempre più rade
e lontane; l’enorme Luna perennemente immota era quasi invisibile nel nero
circostante: nero su nero, buio su buio. La Terra era ormai morta; l’uomo stava
morendo. Ghiacci, deserti e ancora ghiacci. L’atmosfera sempre più fredda, più buia e
più sottile era attraversata da lampi blu generati dall’energia convogliata dai bastoni
da preghiera. Erano questi gli ultimi disperati sussulti degli antichi dèi un tempo
alteri, che si ribellavano alla blasfema ipotesi, di dover anch’essi morire.
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NOTTE D’ESTATE
Notte d'estate. Silenzio nella stanza buia, un respiro da vecchio che dorme in un
angolo. Un respiro un po' ansante, talora bruscamente interrotto da qualche colpo di
tosse; un rantolo sibilante. Pian piano, un bagliore opalescente inizia a diradare
l’oscurità sintetica della stanza. Da una larga fenditura sulle persiane, trapela la luce
della luna piena, levigata e reietta. Un giovane raggio di luna, appena scoccato dalla
pallida Selene si fa strada lacerando l'aria con la sua aura dolce, nella quale una
miriade di corpuscoli si agita e freme, come per dire che la vita è dappertutto e, non
solo in quel respiro ansante che scandisce il silenzio e la vecchiezza. Il raggio di
sogno si posa su una foto d'epoca appesa al muro. Un campo di calcio improvvisato,
undici ragazzi che non ci sono più, o sono diventati altro. Un riflesso sulla cornice. Il
petto del vecchio si alza e appassisce; ogni sospiro può essere l'ultimo. Il raggio di
luna sbircia, sorride, sembra un folletto senza cuore. Dalla cornice salta come riflesso
e, si posa su una specie di libro rilegato in pelle. Molto vecchio. E sembra un diario.
Lo Spirito notturno inizia a leggere… sulla prima pagina c'è un nome, scritto e ornato
con pazienza. Dev'essere il nome di quel ragazzo nella foto, là sul comodino e, che
assomiglia a quella maschera rugosa che si affanna in altri mondi e sogna. Sogna
deserti infuocati e carovane colorate, animali che avanzano lentamente nella sabbia e
dune che si dipanano all’infinito. La luna illumina un angolo della stanza coi suoi
raggi e una piccola catasta di cellulari posati alla rinfusa sul tappeto damascato,
rifrangono i raggi. Sotto i cellulari, uno dei quali lampeggia con un led verde
mimetizzandosi da lucciola, una pila di riviste: GQ e Capital. Sul comodino accanto
ad un bicchiere d’acqua semivuoto c’è un volume dal titolo “Glamorama”, un
orologio Cartier da uomo, un accendino in argento Dupont, alcuni spiccioli in lire
italiane, una chiave yale. Su una poltrona imbottita di velluto rosso è disteso un
completo grigio Dolce e Gabbana, una maglietta girocollo Armani, una cintura in
cocco di Gucci e posato sopra, con una manica che tocca il pavimento c’è un
maglione patcwork di Missoni. Sopra la maglia un paio di Ray-Ban polarizzati,
rovesciati con le stanghette aperte rivolte verso l’alto. Sotto la scrivania un pallone
con firme a pennarello ormai sbiadite. Sopra la scrivania fogli scarabocchiati, un
orologio Reverse slacciato, un tagliacarte acuminato, alcune Monte Blanc entro un
portapenne, un caricatore pieno di pallottole, un bottone di camicia, un pesante
posacenere di cristallo con alcune cicche di Marlboro… Alla parete un quadro è stato
staccato e posato per terra, una cassaforte a muro è aperta, l’interno è completamente
vuoto. Una mano guantata s’avvicina al libro rilegato in pelle, lo apre, lo scorre
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IL BALCONE
Ce l’ho fatta! Sono riuscita ad abbandonare quel maledetto cuballoggio nel quale
abitavo da oltre tre anni. Abitare, è un termine troppo eufemistico, io in quel locale ci
soffocavo proprio e l’usavo solo per andare a dormire. Finalmente l’agenzia mi ha
trovato una vera casa in pieno centro storico e ad un affitto per me accettabile.
La casa è composta di cinque stanze e si trova al quarto piano. È già arredata e per me
è un’autentica meraviglia, non ho mai abitato in un appartamento così grande. Per la
verità il mobilio è alquanto strano, ma l’insieme è accogliente. C’è un punto di questa
casa che poi amo particolarmente: è una stanza vuota, con le pareti dipinte di celeste
chiaro, mentre il soffitto è di una tonalità, sempre celeste, ma più scuro delle pareti.
Sul soffitto vi sono disegnate delle piccole stelle color oro. Steso sul pavimento un
gran tappeto arabo con complesse volute multicolore. Ad una parete è attaccato un
grande specchio che tocca fin quasi terra con una leggera cornice di legno dorato.
Sulla parete opposta si apre un piccolo balcone dal quale si scorge uno scorcio di città
e, sporgendosi si vede la strada sottostante con i passanti frettolosi sul marciapiede e i
moduli che viaggiano veloci.
Quest’angolo della casa mi attira profondamente, tra lo specchio e il balcone, in
mezzo alla sala, ho messo un gran cuscino, sdraiata su di esso leggo i miei libri, o
penso, talvolta medito e quando riguardo i miei ricordi, qui essi si fanno più vividi.
Passo sempre più tempo in questo spazio e la luce che proviene dal balcone sembra
rinvigorire le mie forze.
Talvolta mi guardo allo specchio, vedo anche il balcone alle mie spalle, e comincio
ad accarezzare il mio corpo, ad alzare le vesti, e questi gesti mi eccitano e mi
confondono.
Dopo un po’ di tempo che seguo questo comportamento, ho sentito la necessità di
soddisfare la mia eccitazione, e ho cominciato a masturbarmi guardandomi nello
specchio con nel sottofondo l’immagine del balcone. Quando inizio a godere avverto
sempre più prepotente l’attrazione di quel rettangolo luminescente che è alle mie
spalle e provo un po’ di paura.
Ma l’attrazione diviene ogni giorno più forte, e mentre prima passavo del tempo
sporgendomi dal balcone e guardando anche la strada sottostante, ora non ho più il
coraggio di andare sul balcone, mi limito ad ammirarlo dalla stanza, ma sento la sua
attrazione farsi sempre più forte.
Provo il desiderio di lanciarmi a tutta velocità giù dal balcone, ma tutto ciò è assurdo,
ho sempre avuto una vita felice, una famiglia stupenda, un lavoro che mi soddisfa, un
fidanzato al quale voglio molto bene. Non capisco perché mi succedano certe cose,
perché mi vengano certe idee: ma l’attrazione continua, aumentando d’intensità e il
desiderio del volo, della liberazione totale, si fa sempre più tangibile.
Ho paura, ne ho parlato con il mio ragazzo e lui verrà a trovarmi sia per vedere la
nuova casa che ho affittato, ma soprattutto per osservare il balcone.
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TARSI
Avevo conosciuto Tarsi la scorsa estate ai giardinetti pubblici della mia cittadina, lei
faceva la baby sitter e io invece tenevo compagnia ai miei tre figli. Ci ritrovavamo in
quei giardinetti quasi tutti i dopocena di quella calda estate. Lei era rumena e una
sera, aveva saputo che io scrivevo racconti, mi raccontò una storia che era avvenuta a
Bucarest negli anni cinquanta e lei spergiurava che era vera. Ve la voglio raccontare.
È notte, in una strada alla periferia di Bucarest, un taxi viene fermato da una giovane
signora che si fa portare in una strada del centro davanti ad un importante edificio che
è sede di molti uffici di alti dirigenti del partito.
La signora dice al taxista di aspettarlo. Torna dopo circa dieci minuti e si fa
riaccompagnare in una piazza vicina alla strada di periferia dove era salita.
Dopo circa un mese, in nostro tassista sta percorrendo la stessa strada di periferia,
rivede la giovane signora che le fa cenno, la riconosce. La signora si fa
riaccompagnare al solito edificio in centro, dice di aspettare. Torna dopo una ventina
di minuti e si fa riaccompagnare dove era in precedenza salita. Quando stanno per
arrivare, il taxista dallo specchietto retrovisivo scorge che la signora sta
tamponandosi il naso con le dita. Si ferma, si volta e scorge un filo di sangue che
arriva fino al labbro.
«Signora, si sente male?»
«No, è solo un po’ di sangue dal naso.»
«Vuole un fazzoletto?»
«Sì grazie.»
«Non ne ho di carta, i negozi li hanno quasi sempre terminati, ma ne tengo sempre
uno pulito nel cruscotto, lo prenda.»
E le porge un fazzoletto piegato di lino. La signora ringrazia e il taxi riparte, giunto
all'arrivo, la signora chiede di esser portata un poco più avanti, ove c’è una piazzetta.
Prima di scendere la signora fa per rendere il fazzoletto sporco di sangue all’autista,
ma lui le dice di tenerlo pure, poi apre la borsa per cercare il danaro.
«Che sbadata, ho lasciato il borsellino nell’ufficio di mio marito, dove ci siamo
fermati. Facciamo così, può passare dall’ufficio domattina per prendere i soldi?»
Gli da il nome del marito, un alto funzionario del Partito. Il taxista le dice che non ci
sono problemi, sarebbe passato lui l’indomani, la saluta e torna verso il centro di
Bucarest.
Alcuni giorni dopo il taxista si ferma al palazzo degli uffici dei funzionari, al secondo
piano trova la targhetta con il nome del marito della signora e bussa. Lo accoglie una
segretaria, lui chiede del funzionario e lei lo fa sedere davanti ad una scrivania. Sulla
scrivania c’è la foto della signora in un portaritratti d’argento.
«Buongiorno compagno, desidera?»
«Ero venuto per riscuotere il pedaggio della sua signora.»
«Il pedaggio?»
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«Sì, tre giorni fa ho accompagnato con il mio taxi sua moglie qui da lei e poi l’ho
riportata dove lei era salita. Mi ha detto che aveva lasciato il borsellino nel suo ufficio
e che passassi pure per riscuotere.»
«Lei sta scherzando, non sa che mia moglie è morta un anno fa?»
«Ma che dice, è questa della foto la sua signora, e non è la prima volta che
l’accompagno qui da lei.»
«Mi racconti tutto con la massima precisione.»
Il taxista racconta tutta la storia dei due viaggi dalla periferia all’ufficio e ritorno.
«Ma quella strada dove lei l’ha presa e poi riaccompagnata, non è a due passi dal
cimitero?»
«Sì.»
«Ed è proprio in quel cimitero che è sepolta.»
«Sono senza parole.»
I due sono imbarazzatissimi, il marito fa alcune telefonate. Gli alti funzionari del
Partito, tutto possono e dopo alcune ore il funzionario, il taxista e un medico legale
sono al cimitero davanti alla tomba della signora. Alcuni operai hanno già sollevato
da terra la bara, ad un cenno del medico legale è sollevato il coperchio.
Il corpo è intatto, il vestito che indossa è quello che aveva durante i viaggi in taxi, in
mano ha un fazzoletto di lino che reca vecchie macchie forse di sangue.
Il funzionario, è sconvolto e rivolto al taxista: « Ho bisogno d’un autista personale, lo
stipendio è molto più elevato di quello che lei prende adesso, quando può prendere
servizio?»
«Anche da domani.»
«Benissimo, domattina alle nove l’aspetto nel mio ufficio.»
Poi rivolto al medico legale: «Abbiamo già visto ciò che ci interessava, potete
rimettere tutto a posto.»
Davanti a tutti, un po’ stupiti, toglie da una tasca della sua giacca a doppio petto blu
scuro un piccolo, antico crocifisso in legno e delicatamente lo depone sul petto della
sua signora. Prende a braccetto il taxista e insieme, in silenzio si dirigono verso l’auto
che è parcheggiata a meno di cento metri dal punto ove alcuni giorni prima era salita
la signora che giace morta da circa un anno lì vicino.
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ASFALTO
Nel bel mezzo della curva presa a discreta velocità, inorridito il guidatore dell’auto
vede in un istante arrivare a folle andatura una moto con afferrato ad essa il suo
guidatore, la moto è orizzontale al selciato e all’altezza del cofano. Uno stridio
metallico, il cofano che s’accartoccia, la moto con rumore d’ossa spezzate sfonda il
parabrezza con la ruota anteriore e col casco del motociclista. La sua rotazione
impazzita distrugge l’abitacolo all’altezza delle teste dei due occupanti i sedili
anteriori. L’auto per l’urto gira più volte su se stessa colpendo il guardrail sul lato
sinistro della strada che da su uno strapiombo, finendo la sua corsa contro le rocce
acuminate che sporgono sulla destra.
Il portellone posteriore del veicolo è scagliato violentemente sull’asfalto,
dall’apertura un ragazzino di dieci anni sgattaiola fuori terrorizzato e si mette a
correre zigzagando velocemente per un centinaio di metri, accasciandosi poi sul
ciglio della strada.
La carcassa dell’auto con la moto incastrata nella parte anteriore, e all’interno i tre
corpi martoriati, è adesso di traverso alla via, sembra un fiore esploso, una scultura
pop da incubo. Dai rottami si leva un sottile fumo bianco e una pozza di liquidi
organici e minerali sta scivolando nel bel mezzo della carreggiata.
Il suono dell’impatto è simile ad un colpo di lupara, poi cade il silenzio che dura circa
un minuto, infine vi è sibilo seguito da un lampo accecante e da un sordo boato. I
rottami s’incendiano e una colonna di fumo nero s’alza nell’aria tersa.
Ovviamente sia i genitori del ragazzo che il motociclista, muoiono all’istante, Roger,
così si chiama il figlio rimasto illeso ma sotto shock, è portato all’ospedale, medicate
le varie escoriazioni, è affidato alle amorevoli cure dei nonni materni.
Il fatto strano di questo incidente è che il motociclista non viene identificato.
Dieci anni dopo, Roger è un baldo giovanotto, i nonni gli hanno fatto da amorevoli
genitori e lui è felice della propria esistenza che sta scorrendo tranquillamente.
Oggi però a Roger girano ferocemente le scatole: è stato piantato in asso senza alcuna
motivazione apparente dalla sua ultima ragazza. A pezzi e bocconi, con questa è quasi
tre anni che ci fila. È una ragazza strana, va e viene, e se tutto fosse stato regolare a
Roger questo fatto potrebbe andare più che bene, ma c’è un piccolo particolare non di
poco conto, forse Roger è proprio innamorato di lei, e altra cosa che gli fa girare le
scatole è che si sta rendendo conto che con questa è diverso che con le altre.
Cosa c’è di meglio che una bella galoppata in moto per far cessare il giramento di
coglioni? Probabilmente questo sta pensando, e così s’infila tuta e casco e parte a
tavoletta con la sua moto verso le verdi colline che tagliano in due la regione.
Il verde e l’azzurro con le loro mille sfumature sfrecciano lungo il nastro d’asfalto
che scivola via veloce sotto le ruote della moto con il rombo del motore amalgamato
al sibilo del vento: immagini e musica generata del vento e dalla moto si fondono in
una miscela esaltante. Il fluire delle sensazioni sta dando a Roger l’effetto voluto,
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EXPRESS TRAMWAY
(racconto vincitore della diciottesima edizione di Neropremio)
È passata già da un po’ la mezzanotte e quel maledetto tram non arriva. Ma perché sto
aspettando un tram? Non dovevo essere a cena con mio fratello e con gli amici? E
invece sono qui sulla pensilina, da solo e chissà in quale parte della città, mi pare in
periferia, ma non ne sono del tutto sicuro. La strada è ora quasi completamente al
buio a parte due fiochi lampioni là in fondo. Non mi piace proprio questo quartiere, è
così tetro, penso lo sia anche di giorno, tra l’altro comincio ad avere pure freddo, è
sicuramente più di mezz’ora che me ne sto qui impalato, su questa pensilina
sgangherata con disegnato in terra il gioco della campana o del mondo o come
diavolo lo vogliamo chiamare, questo dev’essere un posto poco trafficato ove i
ragazzi durante il giorno giocano: ho visto uno scheletro d’aquilone che penzolava
dai fili della luce, prima quando è passato un mercedes.
Qui c’è un foglio con gli orari, vedo che una linea doveva passare alle 11.50 e adesso
solo le 12.45, un ritardo così non si verifica mai. Non c’è un pedone e dopo il
mercedes passato mezz’ora fa, nessun’auto è transitata: adesso una leggera nebbia
comincia pure a salire dall’asfalto.
Mi sono quasi rassegnato a rientrare a casa a piedi (sapessi solo da che parte andare)
quando vedo da dietro la curva della strada, in fondo alla piazza, spuntare un paio di
fari rotondi: è il tram, finalmente, sono salvo, esco da qui.
Arriva sferragliando un po’ più del solito nel silenzio di tomba della notte e
lentamente s’arresta davanti alla pensilina dove sono, con un sibilo d’aria compressa
che sfugge s’apre la portiera, nessuno scende e, chi vuoi che scenda a quest’ora in
questo posto del cazzo?
Salgo, c’è parecchia gente stanotte sul tram, mi scelgo un sedile vuoto e mi siedo
accanto al finestrino. Sferragliando il tram riparte per il giro panoramico notturno
della città, guardo fuori del finestrino, rilassandomi e cercando di scorgere prima o
poi un luogo familiare, sì da riprendermi con l’orientamento. C’è seduta davanti a me
un’anziana signora con una radiolina accesa, anche se il volume è basso la sento
distintamente, parla di alcuni scritti postumi di Padre Pio, sarà sicuramente Radio
Maria, quella radio lì entra in tutte le frequenze…
“…ma dico di portare seriamente all'attenzione che non v'è morbo infettivo di
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animali – che mangiando le carni, non incausi contaminazioni più o meno simili
anche all'Uomo - a seconda di più o meno soggettiva resistenza immunitaria.
Mercati disonesti delle carni non buone – disposti a sgravarsi d’ingombri infettivi
anche per poco - non prendono solo per fame in paesi ultimi. Ma ancora continuano
affari in paesi ricchi di nomine dove sono sempre più i poveri – sia come sia costretti
a prendere dubbi alimenti a più basso costo. Similmente per prodotti vegetali di
nutrizione alterati nel gene - che tra sementi camuffati e volatili spore difficili da
contenere - si capirà solo tardi degli effetti d’alterazione biologica sull'uomo. E di
quali irreparabili danni uniformanti delle molteplici diversità vegetali divinamente in
natura; l'un l'altra indispensabili al mantenimento dell'ecosistema naturale. Il
Mondo va come va per consentita conveniente ignoranza di popoli al margine - tra
lotte barbariche e più astute perseveranti lotte mai fine in favore ormai d’egemonie
dominanti. Ma ancora più orrendo agli occhi di Dio è che Scienza e Scienziati più
accreditati nel mondo Civile - si asservano - anziché parlar forte responsabilmente
del tutto vero che sanno ... Ghandi, Mahatma Gandhi: il mite eroe della Pace e per la
Pace - dava in spirito più che in armi a sue genti la forza per vincere e rimanere
nell'integrità' Civile e Spirituale di loro cultura. Come da memoria storica dal
passato al futuro non più armati ma miti, ispirati eroi, pii forti e vincenti poiché uno
in Dio e con il Popolo nella verità di più alti ideali - Civili e Spirituali. Tanto che
gente comune deviata or non ben comprende - perché guarda al mondo con occhi
illusi e bramosi d’avere e potere che viene loro a modello. Però insieme ancor più
esse genti comuni che vedono e soffrono incubi in sogno e più reali soffrenti
condizioni di or sempre meno sicuramente vita buona e futuro. Mentre ad altri più
creditati venduti – finché durano paganti compensi a suadenti menzogne di Scienza
non Scienza varrà ancora per poco la fama perché tanto si vedrà solo poi ...”
Sembra quasi una lunga poesia più che una lettura e, poi sarà davvero di Padre Pio? E
senza accorgermene scivolo lentamente nel sonno.
Mi risveglio di soprassalto, ho avuto un incubo, mi sono sognato un incidente con
mio fratello morto schiacciato dall’auto che s’è ribaltata mentre si andava verso una
discoteca. Sono tutto sudato, il cuore mi batte all’impazzata, ma non dovevo essere a
cena con gli amici? Mi guardo attorno preoccupato: quanto avrò dormito?
Sicuramente la mia fermata l’avrò saltata da un bel pezzo. Ma il cielo è sempre nero,
d’un nero intenso, la notte è ancora fonda, allora mi sarò appisolato solo per pochi
minuti. La vecchia con la radiolina non c’è più, se ne sarà andata in pace con Padre
Pio, il Sony e Radio Maria. Guardo l’orologio e con stupore m’accorgo che segna le
9.32. S’è rotto, mai fidarsi di questi swach a cristalli liquidi, non valgono nulla. Sto
per chiedere l’ora ad un signore che è seduto poco più avanti, ma mi guardo attorno
stupito, il tram sembra ora diverso, più grande, i sedili sono riccamente imbottiti e poi
c’è molta gente, troppa.
Non ho mai visto così tanti passeggeri in un tram delle ore notturne. Torno al mio
finestrino, cerco di guardare fuori, ma non riesco a distinguere nulla, solo buio,
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nessuna luce. Provo allora ad aprirlo, ma non vi sono manovelle o pulsanti d’alcun
tipo. Il tram (ma sono sempre sul tram?) si è fermato, faccio per alzarmi, voglio
scendere, qui c’è qualcosa che non va, ma i miei movimenti avvengono al
rallentatore, è entrata dalla porta spalancata una ragazza di colore, molto giovane con
una grossa borsa di plastica bianca e una minigonna vertiginosa. Sicuramente una
zoccola che rientra dal lavoro per strada. Si guarda attorno un po’ sorpresa, penso per
l’affluenza, mi guarda, sorride e s’avvicina verso di me. Sono in piedi davanti al
sedile, la porta aperta a pochi metri da me, voglio raggiungere l’uscita, ma i miei
movimenti sono lentissimi, praticamente sono bloccato lì. Lei sorride, la porta si
chiude, mi risiedo, lei si accomoda proprio accanto a me, ora i movimenti sono
tornati normali: posa il borsone sul pavimento, estrae un pacchetto di sigarette e un
accendino, mi fa cenno se ne voglio una e mi rivolge alcune parole incomprensibili:
ovvio, è un’extracomunitaria, è qui da noi per darla e farci un po’ di grana. Però non è
poi male, le sorrido e accetto la sigaretta, lei me l’accende. Stiamo entrambi
fumando, ma non era vietato sui servizi pubblici? E chi se ne frega, se qualcuno si
risente faccio anch’io l’extracomunitario e poi la spengo. Sto fumando, ma io fumo?
Onestamente non me lo ricordo, intanto lei seguita a sorridermi, ogni tanto dice
qualche parola in quella sua strana lingua e io le rispondo con sorrisi o le faccio
cenno che non ho capito un bel niente di quello che mi vorrebbe dire. Do un’occhiata
al finestrino, ma seguito a vedere nero: buio totale. C’è qualcosa che non va, anzi ci
sono parecchie cose che non vanno: questa notte è troppo lunga, fuori è troppo buio,
il tram è troppo grande. Tiro fuori di tasca il cellulare e digito il numero di mio
fratello: non c’è rete e, ti pareva?
Mi sento sempre più inquieto, lei intanto s’è tolta i sandali alti di quelli con le zeppe e
ha disteso le gambe sul sedile accanto a me, butta la cenere sul pavimento con la
massima indifferenza. La osservo, le sue gambe sono proprio ben fatte, lei si lascia
osservare e sorride. La minigonna è già salita fin troppo in alto e i miei occhi
s’incollano proprio lì, lei allora la tira su del tutto e il suo sesso è proprio davanti a
me, niente biancheria intima. Imbarazzato mi guardo attorno e non c’è più nessuno
nello scompartimento, non c’è proprio niente di normale stanotte. Il tram sì è
nuovamente fermato, tento d’alzarmi, ma è inutile, sono nuovamente rallentato,
accarezzo allora le gambe alla mia bella extracomunitaria e ad ogni carezza
m’avvicino sempre di più alla sua cosina: bella nera e col pelo lì biondo! Sono entrati
due giovani e stanno animatamente parlando in napoletano, ci sorpassano e non ci
degnano d’uno sguardo anche se lei è sempre lì con la fica di fuori e, si dirigono
verso gli scompartimenti più avanti. Lei intanto sta accarezzando il suo sesso e mi
lancia gridolini d’invito, poi decisamente mi prende una mano e la struscia contro di
lei. Sento la sua pelle morbida e a quel punto non mi frega più niente di niente: mi
sbottono i pantaloni e la penetro, lei bagnata m’accoglie. Vengo dopo soli quattro o
cinque colpi, la situazione è troppo strampalata ed eccitante. Le chiedo scusa d’esser
venuto subito, ma tanto questa qui non capisce un cazzo, mi rimetto in ordine, mi
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guardo intorno, seguita a non esserci più nessuno, le prendo un’altra sigaretta,
l’accendo, le faccio un cenno come dire torno subito e, m’avvio verso un altro
vagone, mi sembrava ce ne fossero solo altri due, il tram era composto da tre vagoni
e, io ero salito sull’ultimo. Riesco a muovermi con facilità, non sono per niente
rallentato adesso, tiro un’altra boccata dalla mia sigaretta e mi ritrovo in un altro
vagone con molta gente e alcuni hanno dei vestiti proprio strani, sembrano abiti del
secolo scorso.
Ma già, in periferia ci sono gli studi cinematografici e delle volte anche per strada se
ne vedono di tutti i colori. Vado avanti: i vagoni sono troppi e poi sembra un treno
invece che un tram. In uno scompartimento in fondo al vagone ci sono due che fanno
l’amore, completamente nudi, torno indietro per vedere meglio e solo allora mi rendo
conto che questo vagone non è per niente come quello dei tram, è un vero e proprio
vagone ferroviario come quelli d’una volta, quasi tutti in legno, col corridoio e gli
scompartimenti a lato.
Trovo uno scompartimento vuoto, entro, i sedili sono in legno chiaro, così come i
portabagagli in alto, vi sono poi tre finestrini stretti e lunghi, con le maniglie d’ottone
per aprirli e chiuderli. Afferro una maniglia e tiro giù il vetro: fuori c’è il solito buio,
malgrado il movimento del treno (?) il vento non entra, ma la sensazione di velocità è
evidente, così come lo sferragliare delle carrozze. Sporgo la testa fuori dal finestrino
e mi ritrovo a spingere in una sostanza densa che oppone pure un po’ di resistenza e
mi lascia appena respirare.
Impaurito mi ritraggo di scatto e chiudo il finestrino spingendo la maniglia verso
l’alto. Mi accascio sul sedile - panca di legno - sul pavimento vedo dei cellulari
abbandonati e un giornale, lo prendo e l’apro: è scritto, mi sembra in cirillico. Lo
poso sul sedile di fronte al mio, afferro un cellulare, l’accendo, è fuori rete, lo metto
sopra il giornale e scoraggiato mi prendo la testa tra le mani. Dal lato che da sul
corridoio, semioscurato da pesanti tende nocciola, vedo passare un uomo alto con un
berretto con fregi rossi e mi è sembrato in uniforme, è il bigliettaio mi dico, se mi
chiede il biglietto voglio ridere…
Mi fiondo comunque fuori dal compartimento per parlare con lui, per dirgli che
voglio scendere, non m’importa a quale fermata, voglio scendere e basta…
Ma il corridoio è completamente deserto e anche esageratamente lungo. Avrei a
questo punto voglia di un’altra sigaretta e, anche d’un caffè: il caffè sarà un po’
improbabile trovarlo, ma la sigaretta, la tipa che ho scopato prima, anzi che m’ha
scopato, ne aveva un pacchetto semi pieno, quasi quasi torno a cercarla.
Mi scuoto e m’avvio verso l’altro vagone, ma questo sembra non finire mai, più
cammino, più il corridoio sembra allungarsi, mi ricorda l’interno dell’Orient Express,
sì il vecchio film in bianco e nero (ma era poi in bianco e nero?), anche qui sembra
tutto in bianco e nero, fuori poi c’è solo il nero.
Vedo una porta strana la in fondo, sono sicuro che prima non c’era… la raggiungo e
la apro: incredibile! È un vagone ristorante!
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Ma non ero su un tram? E c’è anche un bar. Un cameriere dietro al banco sta
preparando degli aperitivi, mentre ai tavoli vi sono solo quattro persone, il resto è
vuoto.
Vorrei qualcosa di molto forte e delle sigarette, lo dico al barman, ma lui mi risponde
con uno strano linguaggio. Cazzo ma questi fottuti extracomunitari son proprio
dappertutto, ci stanno fregando tutti i lavori! Adopero allora il linguaggio universale
dei gesti e lui mi mette davanti un aperitivo d’un colore rossastro, un piattino d’olive
con gli stuzzicadenti infilati e un pacchetto di sigarette. Lo prendo e lo guardo con
curiosità, è un pacchetto di color azzurro e sopra non c’è scritto nulla, neppure che
t’ammazza, solo dei ghirigori in oro che comincio a pensare siano una scritta.
L’apro, sono sigarette sottili col filtro, vedo che accanto al piattino con le ulive c’è
anche una bustina di fiammiferi, di quelli che mi sembra si chiamino Minerva e che si
scroccano solo sulla loro striscia nera. Anche la bustina è di cartoncino azzurro con
gli arabeschi in oro.
Mi accendo la sigaretta, buona (ma fumo? e da quando?) e bevo l’aperitivo tutto in un
sorso. Roba buona, mi dico e faccio per pagare, ma il cameriere non c’è più dietro al
banco, è sparito. Poso allora una moneta da due euro sul banco.
Mi siedo ad uno dei tavoli, il tempo passa e dopo una ventina di minuti un altro
cameriere si fa vivo, questo è un orientale. Ordino un primo, lui incredibilmente
capisce subito e distrattamente vengo servito in fretta, poi chiedo anche del vino e,
questo se ne va senza spiccicare una parola, ma torna poco dopo con una bottiglia di
birra bionda formato famiglia: l’etichetta sembra quella del pacchetto di sigarette.
Non so l’ora, ma non mi sembra l’ora di pranzo e, neppure quella di cena, forse è per
questo che c’è pochissima gente qui.
Finito il primo e scolata la birra, vado al bancone e chiedo un caffè, indicando la
macchina in pressione dietro al banco. Me ne servono uno un po’ troppo lungo.
Saluto e questa volta me ne vado senza pagare, nessuno trova niente da ridire, vago
per il corridoio e a pochi metri dal vagone restaurant vedo uno scompartimento
vuoto, mi siedo sui sedile - meno male che questi sono imbottiti - cerco di riflettere su
ciò che mi sta succedendo. Mi guardo intorno: sul portapacchi vi sono due valige,
sono polverose e sicuramente abbandonate da tempo, in terra alcuni cellulari spenti e
una banconota da cinque dollari, i finestrini danno sempre sul panorama nero (lo
nascondo tirando le pesanti tendine nocciola), le luci sono leggermente azzurrate ed
emanano una luminescenza morbida, alle pareti della cabina vi sono affisse sotto
vetro delle stampe con disegnati i soliti arabeschi in verde, in celeste e in oro e senza
figure, ma l’ultima stampa a sinistra ha delle scritte normali, mi avvicino e la leggo:
“..Sono una statua mutila
in fondo ad un’acqua chiara
fermato in un gesto – e spezzato.
Soltanto un tremore di cose
specchiate – alberi che si incielano
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un po’ di più l’acceleratore, ancora due curve prima dell’incidente. Non accendo
nessuna sigaretta, non chiedo a Robertino se vuol fumare, ma invece ad alta voce con
tono autoritario gli intimo: «Allaccia le cinture!»
Il tono è perentorio, da comando, lui mi guarda un attimo un po’ stupefatto, sa che
non me le allaccio mai e, guardandomi interrogativamente le allaccia, forse perché
strafatto, forse perché intimorito dal tono del fratello maggiore che ordina, o forse per
riflesso condizionato, influenzabile anche dall’erba che ha fumato prima. Che so io,
ma il fatto è che funziona! Le allaccia!
E mentre la cintura scatta, imbocco la maledetta curva a sinistra, ma sto ridendo e non
ho neppure le mani sul volante e, l’auto sbanda e urlo: «Ce l’ho fatta!
VAFFANCULOOO!!!»
Sbanda, sfiora il solito palo, s’impenna, salta un canale, si ribalta per due volte in un
campo di granturco, nella carambola la portiera di destra questa volta viene strappata
del tutto e mio fratello, Roberto, con gli occhi sbarrati resta inchiodato al sedile dalla
cintura che lo stringe… l’auto si ferma infine sulle quattro ruote e, gli altri escono e
io seguito a ridere mentre guardo mio fratello che ha sempre gli occhi sbarrati e una
riga di sangue mi scende dalla fronte: solo un graffio.
Poi esco, slaccio la cintura di mio fratello, l’aiuto a scendere, l’abbraccio e ballo con
lui piangendo e ridendo.
«Che bello! Non ci siamo fatti un cazzo!»
Ci avviamo tutti verso la strada, quando siamo sull’asfalto, torno indietro, dall’auto
prendo un vecchio giornale, dalle tasche tiro fuori un pacchetto di sigarette, è di color
blu con arabeschi oro, una bustina di Minerva con gli stessi disegni del pacchetto,
accendo prima la sigaretta, poi il giornale (è scritto in cirillico) che getto accanto
all’auto.
Il fuoco divampa prima sull’erba mentre corro verso gli altri, poi gira attorno all’auto
infine l’avvolge con una vampa e poi il tutto esplode con un sordo WWOOWW!!!
Corriamo tutti veloci sulla strada mentre s’ode un sordo botto e altre auto si fermano.
Mi siedo sull’asfalto, ho visioni d’interno di un treno, con un volto femminile che mi
sta scrutando stupito, poi la visione s’allenta e mi ritrovo nella strada con l’auto nel
campo che brucia, Robertino m’aiuta ad alzarmi e c’infiliamo nell’auto di Sandro, un
amico che c’era dietro e in discoteca andiamo lo stesso, qualcuno ha già telefonato
alla stradale e al carro attrezzi, tanto nessuno s’è fatto nulla, la macchina era
stravecchia, meglio così.
E sono in discoteca seduto ad un tavolo, con accanto una birra e cerco di ricordarmi
qualcosa d’importante che è avvenuto prima dell’impatto, ma non mi viene nulla in
mente e, se è veramente importante prima o poi lo ricorderò. La serata va avanti
senza storia e mi fumo una dopo l’altra, fino a finirle quelle strane, ma buone
sigarette, in quel pacchetto azzurro.
Il mattino ormai s’avvicina e questa strana notte m’ha provato abbastanza, e poi ho
finito soldi e sigarette… e l’auto è bruciata… appoggio la testa sul tavolo, mi lascio
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andare al ritmo martellante della musica, mentre tra luci variopinte scorgo gente
ballare nella pista.
La discoteca intorno a me ha improvvisamente un sobbalzo, no sono io che sobbalzo
e sono nuovamente flippato alla guida dell’auto, in piena velocità a cento metri da
quella stramaledetta curva a sinistra, guardo verso mio fratello: le sue cinture sono
allacciate. Tiro un respiro di sollievo e lascio il volante, tanto so già cosa sta per
accadere: l’auto sbanda, sfiora il palo, s’impenna, salta un canale, si ribalta per due
volte in un campo di granturco, la portiera dal mio lato viene strappata via e nella
carambola sono io che volo fuori, sfiorando l’auto per poi pesantemente cadere sulla
terra del campo. La terra è morbida, ma l’urto è violento e vedo l’auto arrivare
proprio sopra di me e una ruota è sul mio capo, mi colpisce e la testa affonda sotto
terra e assieme al buio sento schiocchi di rami secchi che si spezzano, poi il silenzio
si somma al buio.
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ATTRAVERSO IL MURO.
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Le sorprese non finirono qui, non trovarono né la tivù né il telefono, ma due strani
computer senza schermo che non si azzardarono a toccare.
Quando cominciò a far buio scesero in sala da pranzo e a loro fu servita un’ottima
cena a base di pesce.
Finita la cena uscirono e la loro auto era parcheggiata nella piazza accanto a due
strani autoveicoli. Paolo recuperò il cellulare ma non c’era rete per telefonare. Ovvio!
«Penseremo a tutto domattina, ora siamo proprio stanchi finiti.»
Detto questo rientrarono in camera. C’erano due armadi, li aprirono e all’interno
trovarono numerosi capi d’abbigliamento della loro misura, c’erano anche alcuni
pigiami e delle camice da notte. Li indossarono, si misero sotto le lenzuola e subito
dormirono fino a mattino inoltrato.
Dopo colazione si recarono ad un bancomat che era proprio accanto all’hotel e
scoprirono d’avere entrambi un conto favoloso.
«Meglio chiedere il meno possibile, e andarcene di corsa, qui tutto mi sembra molto
strano. Il nome di questo posto, la TRI-TV e i collegamenti simstim mi ricordano
qualcosa che ho letto, roba da fantascienza, non da realtà.»
«Anch’io ho una strana sensazione, prendiamo l’auto e andiamocene alla svelta.»
«C’è poca benzina, chiediamo dov’è un distributore.»
Pagarono con la carta l'hotel, senza far caso alla spesa e se ne andarono veloci.
Salirono sull’auto, avviarono il motore e si diressero oltre la piazza. C’erano due
ragazze sui diciottanni in minigonna sedute su una panchina che stavano leggendo
delle riviste.
«Chiediamo a quelle due dov’è un distributore.»
«Buongiorno, dov’è il distributore più vicino?»
«Distributore?»
«Sì, una pompa di benzina.»
«Per far andare questo vostro modulo?»
«È un’auto, e va a benzina.»
«Ma le auto a benzina inquinano, sono vietate da molto tempo, i distributori non
esistono più.»
«Grazie lo stesso» e Paolo ingranò la marcia e ripartì.
«Accidenti! Proprio due ecologiste flippate dovevamo incontrare. Andiamo avanti
ci sarà pure una stazione di servizio da qualche parte.»
L’auto proseguì lungo la strada tra basse colline verdeggianti, in un panorama sempre
uguale per circa una cinquantina di chilometri, senza incontrare nient’altro che campi
verdeggianti, poi la benzina finì e con il rituale sput sput, la macchina s’arrestò sul
ciglio della strada.»
«Ci risiamo, si prosegue a piedi.»
Presero a camminare in mezzo alla via senza dire una parola, sperando d’incontrare
almeno un’altra auto.
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Ma la strada era deserta, poi si trovarono davanti ad un incrocio con dei cartelli
“Piscina, Maneggio, Campi da tennis, Golf”.
«Giriamo verso gli impianti sportivi?»
«No, andiamo avanti, mi sembra di vedere delle case.»
E prima delle case trovarono il cartello che indicava la città: HURRUH.
«Cazzo risiamo al punto di partenza!»
«Ma allora la strada gira intorno, non abbiamo incontrato deviazioni.»
«E chi se ne frega! Godiamoci la vita, le spiegazioni verranno.»
Rientrarono nella piazza e tra i negozi trovarono un’insegna “Informazioni
Turistiche”.
Entrarono e li accolse un impiegata più nuda che vestita.
«Buongiorno, noi veniamo da fuori e vorremmo delle spiegazioni.»
-«Capisco, siete alloggiati all’hotel?»
«Sì, da ieri sera, e abbiamo avuto dei problemi con l’auto.»
«Ah, quel vecchio modulo a combustione interna.»
«Esatto e vorremmo trovare un distributore di benzina, perché siamo a secco.»
«Non potete girare con quel modulo, la benzina non viene più prodotta, potete però
acquistare un modulo nuovo, avete tessere di credito?»
«Sì.»
«Non ci sono problemi, l’hotel vi fornirà il modulo. Qui potrete divertirvi, abbiamo
piscine, campi da tennis e da golf, maneggio, sala da ballo, discoteca, collegamenti
simstim e anche una nuova rete locale che è molto interessante, una volta al mese ci
sono poi dei concerti rock da sballo.»
«E per andarcene?»
«I collegamenti con l’esterno sono al momento interrotti, sapete è caduto un pilone
dell’autovia e… »
«Grazie, molto gentile, abbiamo capito.»
«Qualsiasi cosa vi serva, sono a vostra disposizione, venite pure da me o
rivolgetevi all’hotel.»
Uscirono salutando e le loro menti turbinavano di pensieri, ma la curiosità ebbe il
sopravvento e decisero di vedere fino in fondo come si sarebbe evoluta la situazione.
Vanessa e Paolo iniziarono a curiosare tra i vari negozi che si affacciavano nella
piazza, ad una prima occhiata non sembrava, ma i negozi aperti erano veramente
tanti.
In un emporio trovarono dei bloc notes elettronici assai interessanti e ne presero due,
quando fecero per pagare, Paolo dette alla commessa la propria tessera di credito che
la prese in mano, la guardò ed esclamò: «Ok, tutto a posto, potete andare.»
I due si guardarono in maniera interrogativa, si misero in tasca le agende elettroniche
e cortesemente salutarono uscendo, mentre Paolo riponeva nel portafoglio la sua
tessera.
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nuovi negozi, ora c’è anche un piano bar ove tutte le sere Paolo va a fare nuove
conoscenze e di notte difficilmente si ritrova solo nel suo cuballoggio. Le donne sono
in schiacciante maggioranza ad Hurruh e sono anche totalmente disponibili.
I due hanno conosciuto il bel Tenebroso e la sua compagna. Questa sera sono stati
invitati a cena da loro, abitano in una villetta appena fuori città. Al loro arrivo sono
accolti da altri invitati. La cena ha luogo nel giardino della villetta.
Tenebroso:«Cari amici, vi ho invitato per uno scopo ben preciso, voi siete tra i pochi
umani che abitano in questo posto.»
Paolo: «Come sarebbe a dire?»
Tenebroso: « Esattamente quello che ho detto. Questa è una realtà paradosso, ognuno
di noi è entrato in maniera diversa, ma uscire è difficilissimo, io e l’Oracolo ci siamo
riusciti, ma solo dopo molti tentativi.»
Meg: «Ma non possiamo essere solo noi gli unici umani, anche il direttore della rete
simstim è come noi, è di Milano, noi lo conosciamo bene, è un regista molto noto. E
poi chi è l’Oracolo?»
Oracolo: «Io sono l’Oracolo, sono la donna del fiume, sulla Terra tutti mi conoscono
anche come grande artista.»
Cindy: «Io e Meg non abbiamo mai sentito parlare di te, tu non esisti nella nostra
realtà, il Tenebroso sì lui esiste ed è un famoso personaggio della TRI-TV.»
Paolo: «Nella nostra realtà non esistete nessuno dei due, e se è per quello neppure
abbiamo la TRI-TV e i programmi simstim, vero Vanessa? Comunque nessuno qui
sapeva niente del congegno salvavita di Aldrin. Le realtà forse sono molteplici.»
Oracolo: «Sì, veniamo da piani reali diversi, ma questa è una realtà paradosso, vi
abbiamo detto che voi siete i soli umani qui, ma non è esatto. Io e il Tenebroso siamo
solo due antichi programmi, ma di umano c’è un’altra persona, si chiama Peggy e fa
l’istitutrice nell’asilo, con lei abbiamo parlato, ma non è voluta venire, si trova
benissimo qui. Noi vi diamo la possibilità di uscire da questo piano, se volete,
approfittatene. Riguardo al direttore della rete simstim, anche lui è come gli altri: non
è umano e non è neppure un programma; non sappiamo cosa siano e chiamarli alieni
ci sembra troppo banale. I bambini dell’asilo, che tutti avete visto, sono invece solo in
piccola parte umani. Comunque vedete quel rettangolo luminoso disegnato sulla
parete? È una porta, noi siamo riusciti ad aprirla. Chiunque può attraversarla e tornare
da dove è venuto. Noi lo faremo stasera assieme a voi.»
Detto questo mostra un vassoio pieno di scatolette di plastica marrone dalle quali
spunta un bottone rosso e spiega che quelle sono le chiavi, basta premere il bottone
una volta fuori, per rientrare dalla porta disegnata sulla parete.
Vanessa: «Io vi ringrazio, ma sto bene qui.»
Tenebroso: «La nostra casa rimarrà aperta, chi vuol andarsene basta che attraversi il
portale, per rientrare prendete una scatoletta e quando volete farlo premete il bottone.
Mi sembra chiaro no? E poi ci sono altri quattro umani qui ad Hurruh, abbiamo
saputo di loro, ma non siamo mai riusciti ad incontrarli. Pensiamo che siano stati i
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primi a giungere, dovete sapere che il 14 febbraio del 1900, in Australia durante un
picnic ai piedi di gruppo roccioso, Hanging Rock, tre allieve di un collegio
aristocratico scomparvero nel nulla assieme ad una loro istitutrice. La notizia fu
clamorosa, al punto che ne fu realizzato anche un film. Beh, ora sappiamo dove sono
finite.»
Terminata la cena una ragazza magra che né Paolo né Vanessa conoscono, saluta tutti
e varca il portale senza prendere la scatoletta ed esclamando: «Grazie di tutto, ma io
qui non ci torno!»
Uno ad uno attraversano il varco portandosi appresso la chiave, solo Vanessa ritorna
nel suo cuballoggio.
La donna del fiume si ritrova sulla spiaggetta formata da colorati sassolini e si dirige
verso l’apertura della sua caverna. È notte e l’Oracolo si ferma un attimo a
contemplare le costellazioni note, finalmente ritrovate. Il cielo stellato di Hurruh è
per lei insostenibile, così diverso, così alieno, così incomprensibile. Il computer di
casa accortosi del suo arrivo riavvia tutti i meccanismi abitativi.
Il bel Tenebroso si ritrova seduto al computer bar degli studi olotelevisivi della sua
città. Un cameriere premuroso gli porta un gin ben ghiacciato che lui beve tutto d’un
sorso.
Cindy e Meg sono sul modulo di trasporto che sta in automatico sfrecciando
sull’autovia verso Milano. E meno male che la guida è in automatico, perché se fosse
stata manuale, così confuse come si ritrovano, l’incidente sarebbe stato inevitabile.
Paolo è nudo nella sua auto mentre sta facendo l’amore con Vanessa. Prima controlla
che il freno a mano sia ben inserito, poi si alza di colpo e le dice: «Prendo il plaid nel
bagagliaio, usciamo, sul prato è più bello!» E detto questo schizza fuori dall’auto.
Quando si guarda nuovamente attorno si rende conto che Vanessa è sparita.
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Il nostro sistema solare appartiene come ben saprete alla galassia che viene
denominata “Via Lattea”, che ha un diametro di circa 100mila anni luce ed è
costituita da oltre 100miliardi di stelle. Il nostro Sole dista dal centro della galassia
circa 30mila anni luce. Quasar è l’acronimo di Quasi Stellar Astronomical
Radiosource che tradotto in italiano significa radiosorgente astronomica quasi
stellare. Si tratta di un agglomerato di astri che emettono energia fino a 10mila volte
superiore della nostra galassia. Si ritiene che al centro del quasar vi sia un gigantesco
buco nero che divora la materia. Il quasar più lontano individuato dal nostro pianeta
si trova nella costellazione della Balena e dista da noi 13miliardi di anni luce. Una
distanza veramente impressionante se si pensa che la distanza percorsa dalla luce in
un secondo è di 300mila chilometri.
Siamo nella costellazione della Balena, all’interno del quasar, sul limite della linea
dell’orizzonte degli eventi che circonda il buco nero. Una nera sfera, un artefatto di
una qualche intelligenza aliena percorre a distanza di sicurezza un tratto
dell’orizzonte in missione di osservazione.
All’interno della sfera troviamo tre senzienti, due biologicamente costituiti e una IA.
Definire i due carne-vincolati è un’imprecisione poiché il loro corpo è poco più denso
del gas. I tre sono in missione da lungo tempo in questo settore dell’universo per
segnalare e controllare le eventuali anomalie, lungo l’orizzonte degli eventi ove
entropia e antientropia s’accavallano in sequenze randomizzate, rendendo la
dimensione tempo un alternarsi di onde che si sovrappongono; dunque nel settore da
loro sorvegliato può all’improvviso apparire qualsiasi cosa proveniente da ogni parte
del cosmo e del tempo.
I due senzienti quasi organici hanno una forma cilindrica molto mutevole, la loro
sessualità è multipla, infatti per riprodursi, due esseri si fondono assieme e
successivamente si dividono in tre esseri esattamente uguali. Capirete che questo tipo
di riproduzione è totalizzante e non va presa alla leggera, infatti in loro durante l’atto
riproduttivo non si fondono solo i geni, ma anche i corpi e le loro menti. L’atto
sessuale è dunque per questa razza molto importante e coinvolgente, per questo
motivo i nostri due nella sfera, pur essendo da molto tempo in perlustrazione, non
hanno mai deciso di formare la triade.
Nella sfera la situazione è da tempo estremamente monotona, infatti fino ad ora si
sono verificati solo avvistamenti di nessuna importanza, lungo il tratto d’orizzonte da
loro tenuto sotto stretto controllo si sono manifestate solo apparizioni di banali rocce
o gas, emissioni radio indecifrabili e talvolta raggi luminosi d’intensità variabile.
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l’universo si era dissolto, la IA aliena aveva un unico contatto con un “dio” anch’esso
morente. Un “dio”? e che cos’è si domandarono in coro i tre cilindri e cominciarono a
dissertare tra loro mentre stavano assimilando il resto del rapporto senza sapersi dare
una risposta. Chiesero allora spiegazioni alla loro IA, ma da essa non ricavarono
nulla, era ancora sotto shock da quel contatto che per lei era risultato troppo fuori
dalla sua programmazione <STO CERCANDO DI DEFINIRE QUEL TERMINE
DIO – NON RIESCO PERO’ A FOCALIZZARLO – FORSE CI RIUSCIRO’
PERCHÈ L’ALIENO HA TRASFERITO IN ME TUTTI I SUOI BANCHI
MEMORIA >
Ma dov’è finita la piramide? domandarono i tre cilindri < È STATA RIPRESA
DALL’ORIZZONTE DEGLI EVENTI ED È SPARITA CHISSA’ DOVE – HO
RISCHIATO D’ESSERE RISUCCHIATO ANCH’IO – MA VOI NON VI SIETE
ACCORTI DI NULLA? – CAPISCO AVETE FORMATO LA TRIADE – NON MI
SEMBRA CHE ABBIATE SCELTO IL MOMENTO PIU’OPPORTUNO PER IL
VOSTRO ATTO SESSUALE >
I tre si scrutarono imbarazzati e potete star certi che se fossero stati umani sarebbero
arrossiti vistosamente. Dissero poi alla loro IA di trasferire tutte le conoscenze avute
dalla piramide alla loro base, assieme a tutti i rapporti d’avvistamento. Loro
sicuramente ne caveranno fuori qualcosa di interessante, e se poi è vero che la
piramide veniva da così lontano chissà quante conoscenze potevano essere sfruttate.
La IA si ritrovò sgomenta nel proprio universo dal quale solo per un breve tempo era
stata sbalzata. Il suo universo, era un eufemismo definirlo tale, attorno a lei c’era solo
il nulla, la disgregazione totale. Sentì che anche il suo involucro stava perdendo
densità e i suoi biochip trovavano sempre più difficoltà a connettersi. Le sue sinapsi
si allentarono al pari dell’involucro e della strumentazione interna, le cellule, gli
atomi persero la forza d’attrazione che li teneva uniti, l’energia che rallentando aveva
generato la materia prese a vorticare e a disperdersi, ma l’IA non era più cosciente del
processo che stava avvenendo in lei poiché la sua personalità era stata la prima a
disgregarsi.
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Lambert aveva sperperato molto di più dei propri crediti in un nuovo gioco al
Cronodrome e ora non sapeva più come fare a pagare, era proprio nelle loro mani. Si
era detto disponibile ad ogni incarico per saldare il debito, ed era stato fortunato che
il Cronodrome avesse accettato questa chance, dato che normalmente i crediti alti
venivano recuperati con la vendita degli organi del debitore.
Dopo aver firmato un contratto di disponibilità era in attesa degli ordini, quando vide
arrivare svolazzante una e-mail che si diresse proprio verso di lui. Afferrò con la
mano destra il messaggio lampeggiante che subito si dissolse e lui seppe qual era il
suo compito. Prese il modulo e si recò nel parcheggio di un enorme edificio di
periferia composto integralmente da cuballoggi. A piedi raggiunse l’accesso indicato,
salì con l’ascensore che scricchiolando e sobbalzando sinistramente lo portò
all’ultimo piano, suonò l’antiquato campanello di una porta in legno contrassegnata
con una “S”. Si guardò intorno, scandendo l’ambiente con le sue protesi sensoriali e
non individuò né telecamere, né sistemi di protezione.
Una voce sintetizzata chiese chi fosse, e lui: «Manutenzione condominio.»
La porta lentamente cigolando s’aprì e si trovò davanti una bellissima bionda in top,
minigonna e piedi scalzi. Restò per un attimo interdetto, sapeva che dovevano esserci
tre persone nel cuballoggio, ma non si aspettava uno schianto di ragazza come quella.
L'incertezza durò solo un attimo, il filo monomolecolare scattò fuori dal suo polso
sinistro e tagliò in due longitudinalmente la ragazza. Scandì velocemente la stanza
mentre contemporaneamente saltava il divano che era posto a due metri dalla porta
d’ingresso e divideva il resto del locale. Aveva intanto estratto dalla sua tuta il
coagulatore a raggi e lo puntò appena terminato il salto al volto di una splendida
mulatta che se ne stava completamente nuda sdraiata su una bassa poltrona a sacco, a
guardare la TRI-TV. Altro attimo d’esitazione a quella vista inaspettata, e
quell’attimo gli fu fatale: sentì un dolore in tutto il corpo, la vista divenne
completamente nera e istantaneamente si ritrovò seduto su un divano al Cronodrome
nella stanza del computer bar. Aveva ancora la bocca spalancata che non emetteva
alcun suono, paralizzata dalla paura e dal dolore. Il suo cuore batteva all’impazzata,
respirò più volte profondamente cercando di rilassarsi. Pensò d’aver avuto una brutta
allucinazione e mentre se n’era quasi convinto un elegante signore si sedette al suo
tavolo piazzandosi su una poltroncina proprio davanti a lui.
«Non è andata molto bene l’incursione vero?»
Lambert l’osservò stupefatto, con i suoi sensi potenziati s’avvide che non era un
uomo in carne e ossa, ma un simulacro.
«Sono uno dei massimi dirigenti di questo posto e le ricordo che lei è al nostro
servizio, almeno finché non avrà saldato il debito. Ho osservato la sua incursione,
devo affermare che mi è sembrato proprio un dilettante, lei non è sufficientemente
preparato, con le costose protesi che ha impiantato speravamo di meglio.»
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«Potevate dirmelo che erano tre belle donne, è questo che mi ha fregato.»
«Le regole del gioco non ci permettono di dare certe notizie, ma vede il tempo è
tornato indietro di 24 ore, ora lei dovrà riprovare, e tenendo conto degli errori
commessi, forse riuscirà nell’intento.»
«Riprovare, e quando?»
«Stasera, ovviamente.»
«Ma oggi sono già morto una volta, non è mica una sensazione piacevole, sa?»
«La cosa non mi riguarda, lei è già stato molto fortunato, normalmente noi i creditori
li trattiamo in ben altro modo. Ogni gioco ha le sue regole e anche lei deve seguirle,
impari con attenzione dagli errori se vuole uscire in fretta da questa sequenza e
saldare il debito.»
Lambert rimase al Cronodrome fino alla sera a rimuginare tra sé e a non fare
assolutamente nulla. Alla stessa ora della prima fallimentare incursione attivò il
modulo e si ritrovò davanti alla porta “S”. Aveva riflettuto a lungo durante il giorno,
seduto su quel divano ove sembrava in stato catatonico. Aveva memorizzato ove
dovevano trovarsi le tre persone nell’appartamento: la prima alla porta e disarmata, la
seconda era dietro il divano, nuda e disarmata anch’essa, la terza non poteva che
trovarsi sulla sinistra a ridosso della parete, e questa era pericolosamente armata.
Giunto davanti alla porta “S” estrasse due laser, questa volta era pronto a sparare i
raggi ancor prima che la porta s’aprisse, sì, le avrebbe fatte fuori attraverso la porta,
che era una comune porta in legno e il raggio laser l’avrebbe attraversata come burro,
proseguendo all’interno.
Aveva una pistola laser stretta in ogni mano, con la canna della destra premette il
campanello d’ingresso, poi fece un passo indietro.
«Chi è?»
«Manutenzione condominio.»
Appena avvertì lo scatto dell’antiquata serratura, fece fuoco mirando alla porta e al
divano. Fu un grave errore, la porta anche se non sembrava e se anche la scansione
non l’aveva rilevato, era corazzata all’interno e per di più riflettente, perciò i due
raggi si riflessero a ventaglio sul corpo del malcapitato Lambert tranciandolo
istantaneamente in tre pezzi, che fumanti rotolarono giù dalle scale.
Questa volta si ritrovò urlante seduto al solito tavolo del Cronodrome.
Quando a stento riuscì a ricomporsi, vide già seduto davanti a lui il solito dirigente, o
la sua immagine che fosse.
«E due, e questa volta è andato proprio di merda, vero?»
«Fan’culo.»
«Ti avevo avvertito devi sempre comportarti in maniera uguale, non improvvisare.
Dagli errori s’apprende, solo così puoi farcela. Questa volta la porta ti ha fregato,
ricordati, niente è mai ciò che sembra.»
«È vero sono stato uno stupido, se fossi entrato come la prima volta, avrei subito
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colpito chi mi apriva, poi quello o quella sulla sinistra che è armato e per ultima la
ragazza nuda davanti alla TRI-TV.»
«Esatto, è così che dovrai fare stasera. Devo dirti però una cosa, questo nuovo gioco
ha attirato molto interesse, vi sono molti scommettitori, assai di più del previsto. Non
solo hai già saldato il tuo debito, ma ti sono statati anche versati parecchi crediti.»
«Gioco? Io sono in gioco?»
«Sì, non hai letto il contratto che ti abbiamo fatto firmare?»
«No, c’era un casino di fogli scritti fitti, fitti. Pensavo che dovessi solo ripulire
quell’appartamento, ed ero felice che me la fossi cavata così a buon mercato.»
«Se tu avessi letto sapresti che sei entrato in gioco, ora ti spiego: molti giocatori
hanno scommesso su di te e anche contro, praticamente si sono formate due squadre,
prima di ogni manche ognuno di loro estrae una carta. La somma delle carte d’ogni
squadra decide se c’è un aumento delle difficoltà per te o un bonus. Ma questo non
deve preoccuparti, i giocatori sono tanti, pertanto il bonus o l’handicap si annullano a
vicenda e le variazioni si riducono quasi a zero. Se per remota ipotesi si verificasse
un cambiamento rilevante ti avvertiremo con una email. L’uno per mille dell’importo
delle scommesse ti spetta di diritto e lo potrai riscuotere solo alla fine del gioco. La
cifra finora accreditata è già elevata, dammi la tua mano sinistra.»
Detto ciò, tolse da una sua tasca un dischetto di similpelle e lo posò sul palmo della
mano di Lambert. Lui vide il dischetto aderire perfettamente alla sua pelle così
strettamente da scomparire alla vista.
«Ora guarda attentamente il tuo palmo, solo tu puoi leggere la cifra dell’accredito.»
«Cazzo! c’è scritto 30.020! sono crediti, vero?»
«Sì, e potrai riscuoterli non appena esci dal gioco. Penso che alla fine saranno molti
di più. Sai, questo gioco come ti ho già detto, sta appassionando oltre le nostre più
rosee previsioni. Personalmente, a questo punto, ti consiglierei di farti uccidere
ancora una volta, così le scommesse aumenteranno ancora.»
«Farmi di nuovo uccidere? Non ci penso neppure, sono già ricco e oltre tutto sono
morto due volte nelle ultime 48 ore, non è mica un’esperienza piacevole, sai? Con
stasera chiudo.»
«Fai come vuoi e buona fortuna.»
Il simulacro se ne andò e Lambert ebbe tutto il pomeriggio per organizzarsi per la
sera.
Stessa sequenza, davanti al campanello con due laser spianati. La porta si apre, lui
senza esitazioni elimina la prima ragazza, sventaglia contemporaneamente sul divano
facendo a fette divano, TRI-TV e la ragazza nuda che sa esser lì dietro, quasi
istantaneamente sposta i due raggi a sinistra dove deve essere la terza persona armata.
Tutta la sequenza si svolge in un attimo e in silenzio, a parte lo sfrigolio delle pistole
laser. Un lampo di luce lo colpisce in pieno petto, e nell’attimo della morte scorge
una giovane con l’arma spianata su un’amaca gravitazionale sospesa a mezzo metro
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dal soffitto, poi si ritrova seduto sul solito divano davanti al tavolo nel computer bar
del Cronodrome. Il simulacro è sorridente davanti a lui.
«E tre, guarda i tuoi crediti! Vedo che hai seguito il mio consiglio.»
«Seguito un cazzo!» esclama Lambert, poi gira il polso per leggere l’importo e:
«Sono oltre 100mila! Ma non ti ho dato retta, la terza era su una piattaforma vicino al
soffitto, ho mirato troppo in basso, ma ora è finita, so dove sono tutte e tre.»
Il pomeriggio anche questa volta lo passò al Cronodrome ma collegato in rete con
l’orgia simstim, era sicuro di vincere, era sicuro di uscire ricco da questa storia.
La sera sale le scale, le armi già spianate, vede svolazzare una e-mail attorno alla sua
testa. L’afferra, riceve il messaggio: <UN GIOCATORE DELLA SQUADRA
AVVERSA HA ESTRATTO LA MATTA COLORATA >.
Mentre sta pensando velocemente, ma che cazzo significa? posa lo sguardo sul palmo
della mano e si accorge che lampeggia uno zero. Perplesso guarda la porta a pochi
metri da lui e all’improvviso sul pianerottolo si materializza un joker delle carte alto
quanto un uomo. Il joker lo guarda sorridente, Lambert ha la bocca aperta dallo
stupore, un lampo di luce sgorga dai grossi bottoni dorati del costume della matta
mentre il corpo di Lambert si disintegra dai piedi fino a metà torace. Sul pianerottolo
cade il suo troncone fumante formato da testa, spalle e due braccia. Stringe ancora
nelle mani i due laser, negli occhi ha un’espressione interrogativa.
FINE DEL GIOCO
…il mazzo da cui i giocatori estraggono una carta prima di ogni manche è composto
di 100mila carte. Vi sono solo due matte: una nera che significa la vittoria del banco,
una colorata che significa la vittoria del giocatore che l’ha estratta. Tutte le quote in
gioco, nel primo caso vanno al banco, nel secondo al giocatore vincente.
Con l’estrazione di una matta il gioco verrà terminato…
(dal Regolamento del gioco “Pulizia di un cuballoggio)
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PIETRE SOGNANTI
Virgilio guardò intorno a sé incredulo, era in una sala antica arredata con cura. Un
enorme caminetto in pietra scaldava con il suo fuoco scoppiettante l’intera sala,quadri
alle pareti con volti antichi che si stagliavano su fondali scuri, tappeti ovunque
ricoprivano l’intero pavimento, sui quali poggiavano comode poltrone rivestite con
velluti rossi e massicci tavolinetti in legno. Tre grandi lampadari in cristallo
diffondevano una vivida luminosità. Sui tavolinetti, mazzi di carte, fiches, scatolette
in legno intarsiato e portacenere in onice.
Virgilio si trovò seduto su una delle comode poltrone, davanti a lui un tavolinetto con
una scatola con intarsi in legno e avorio. La prese in mano e l’aprì: era divisa in due
scomparti, uno pieno di sigarette con filtro, l’altro di sigari. Prese un sigaro, lo
inumidì da un lato con la bocca e l’accese con un pesante accendino da tavolo che era
posato sul tappeto vicino a lui. Aspirò con gusto alcune boccate di tabacco aromatico
e quando rialzò gli occhi notò che la sala si era silenziosamente riempita di ospiti
elegantemente vestiti con impeccabili smoking, solo allora si accorse di essere pure
lui in abito da sera. Brani di musica classica iniziarono a diffondersi nell’ampia sala e
un chiacchiericcio sommesso s’udiva in sottofondo. Ora erano presenti anche alcune
donne, anch’esse in abito da sera e alcuni camerieri in frac giravano discreti trai
tavoli distribuendo calici di cristallo pieni forse di champagne.
Virgilio si trovò ad osservare con interesse una giovane fasciata sensualmente da un
abito da sera di seta verde, della stessa tonalità dei suoi grandi occhi. Era priva di
capelli e il cranio rasato metteva in risalto i suoi grandi occhi e due splendidi
orecchini con pietre preziose dello stesso colore… del vestito e degli occhi.
Che occhi meravigliosi! Virgilio era rimasto incantato da quel profondo sguardo, lei
se ne accorse e gli sorrise.
Sempre sorridendo, con una coppa di champagne in una mano, e una lunga e sottile
sigaretta accesa nell’altra, gli si avvicinò lentamente mettendosi a sedere su una
poltrona davanti a lui. Accavallò le lunghe gambe, e:
«Posso?»
«Ma naturalmente.»
«… »
«Ci conosciamo?»
-«Credo di sì, ma al momento non mi viene in mente.»
«Anche a me sembra di conoscerti.»
«Mi chiamo Virgilio.»
«Piacere, io Adriana.»
«Sono sicuro di conoscerti, forse abitiamo nella stessa città, ma al momento non
ricordo dove.»
«Aspetta, io ho la sensazione che lavoriamo assieme, ma dove?»
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«Troppe domande e nessuna risposta. Ma questa è una festa, tu sai perché ci troviamo
qui?»
«Saremo mica in un gioco del Cronodrome?»
«Sono sicura di no, a me non piacciono i giochi simulati.»
«E poi non sta succedendo nulla, credo che siamo in una situazione reale.»
Per un solo istante Virgilio si ritrovò in una strana stanza circondato da
apparecchiature incomprensibili, con un’infinità di led che si accendevano e si
spegnevano: la visone durò solo un attimo, quando si riprese, Adriana gli aveva preso
una mano e la stava stringendo.
«Sei all’improvviso sbiancato, pensavo ti sentissi male.»
«È passato, per un momento mi sono trovato in una strana sala tutta piena
d’apparecchiature elettroniche.»
Lei lo guardò dolcemente mentre le note di un antico valzer si stavano diffondendo e
alcune coppie avevano iniziato a ballare. Virgilio e Adriana si alzarono e presero
anch’essi a ballare. L’invisibile orchestra intonò una musica lenta e le luci si fecero
soffuse. I due si trovarono sempre più stretti l’uno all’altra mentre le luci, già soffuse,
sparirono del tutto.
Cessò la musica e le luci riapparvero all’improvviso. I due si guardarono attorno, la
sala e con essa la festa, erano sparite, adesso si trovavano in una piazza,
completamente soli, intorno alla piazza solo rovine. Un sole rosso sopra le loro teste
era allo zenit. La piazza era lastricata con antiche e consunte pietre rettangolari che
sembravano di porfido e l’erba ricopriva gli interstizi tra l’una e l’altra.
I due rimasero perplessi, poi girarono lungo i bordi di tutta la piazza, infine si
sdraiarono sul selciato l’uno accanto all’altra, lentamente si tolsero gli abiti della festa
e iniziarono l’antico rito dell’amore.
Il tempo trascorse lento e i due si erano appena assopiti quando furono all’improvviso
risvegliati da una leggera pioggia. Solo allora s’accorsero che il sole volgeva al
tramonto, e il suo disco rosso appena s’intravedeva tra le nubi e la pioggia.
In silenzio si rivestirono mentre la luce andava sempre più affievolendosi in un rosso
crepuscolo piovigginoso. Lei era confusa, per un attimo aveva sognato che stava
girando con un carrello della spesa all’interno di un supermercato.
Tra le rovine oltre la piazza, scorsero un edificio integro alla loro sinistra, il portale
d’ingresso era illuminato. S’avvicinarono con cautela, erano quasi sicuri che al loro
arrivo quell’edificio in pietra non ci fosse proprio.
«È un viaggio simulato.»
«Non può esser altro.»
«E ora cosa facciamo?»
«Entriamo, qui piove.»
Il portale era un grande arco in pietra, anche l’edificio a forma rettangolare, alto una
ventina di metri e largo un centinaio, era composto d’enormi blocchi della stessa
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FATTORIA DI FRONTIERA
Era una fattoria altamente fortificata, all’esterno tutta una serie di sensori mettevano
in funzione allarmi e difese virtuali capaci d’ingenerare la massima confusione in
caso d’intrusione da parte di sconosciuti. La guerra era ufficialmente terminata da
oltre cento anni, ma piccole ostilità si verificavano ancora in tutto il pianeta. Non
c’erano stati né vincitori, né vinti poiché la popolazione si era rinchiusa in edifici o
villaggi protetti. Nessuno ricordava più i motivi che avevano scatenato la guerra,
qualcuno parlava d’invasori alieni che avevano aiutato una delle due fazioni in lotta,
ma qui alla fattoria nessuno aveva mai visto un alieno. Neppure al villaggio vicino
nessuno ricordava i motivi della guerra o gli eventuali aiuti giunti dall’esterno. Nella
fattoria vivevano Pa’ e Ma’ assieme ai loro due figli, Primo di quattro anni e Seconda
di tre, c’erano inoltre un cane labrador di nome Cane e una gatta bianca dal pelo
lungo di nome Gatta, vi erano poi numerosi animali da cortile e una stalla ben fornita
di bovini, cavalli e pecore. Pa’e Ma’ lavoravano a turno i campi usando alcuni
speciali trattori, l’energia usata per tutti i macchinari agricoli e per le necessità della
casa, era quella solare degli antichi.
Con loro abitava anche Nuvola Lucente, era il patriarca della fattoria e i bambini alle
volte lo chiamavano nonno. Pa’e Ma’ non sapevano quanti anni avesse Nuvola
Lucente, ma lo ricordavano già vecchio anche quando loro erano bambini. Nuvola
Lucente non parlava quasi mai e, tutto il giorno se ne stava sdraiato su una comoda
poltrona in veranda, pensando o leggendo qualche libro o fumando maria con gli
occhi persi verso l’orizzonte. Lui vestiva sempre con pantaloni, camicie e gilet di
pelle scamosciata, aveva ai piedi dei mocassini anch’essi di pelle e collanine colorate
attorno al collo. Sembrava un antico indiano delle praterie. Quando usciva dalla
fattoria si recava al mercato del villaggio, portava con se qualche sacchetto della
maria che veniva coltivata nella fattoria e i libri che aveva già letto. Al mercato
scambiava la maria con il tabacco e i libri letti con altri. Talvolta riusciva anche a
trovare alcune memorie solide con registrazioni di vecchie canzoni o di olofilm, e
questi le lasciava a Pa’ e Ma’ poiché a lui non interessavano. Molto felice era quando
riusciva a trovare delle cartine con le quali farsi le sigarette di tabacco o maria, in
mancanza di queste si accontentava di usare alcune sue vecchie pipe, ma si vedeva
che questa era una soluzione di ripiego, a lui piacevano le sigarette.
Su un pennone eretto da tempo nell’aia davanti alla fattoria sventolava sempre una
bandiera azzurra, una bandiera dello stesso colore sventolava all’ingresso del
villaggio: loro erano Azzurri, il nemico era Giallo.
Infatti, a due giorni di cavallo dalla fattoria, in direzione est, verso le colline, da
quelle alture si vedeva una fattoria fortificata che issava la bandiera gialla. Pa’e Ma’
si erano recati più volte su quelle alture, muniti di binocoli e avevano osservato il
nemico. Non si erano mai azzardati ad avvicinarsi di più, poiché avevano intravisto
delle pericolose difese simili a quelle della loro fattoria. Avevano scoperto che i Gialli
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dove proveniva.
In quel momento il coperchio dell’autodoctor si aprì, e il bambino totalmente risanato
si rialzò con aria interrogativa. Pa’, Ma’ e lo sciamano presero a fargli domande, ma
lui li guardava attento e non rispondeva. Poi si alzò in piedi e accennò un grato
sorriso.
«Lo portiamo con noi» disse Pa’.
«Aspettate, ho qualche abito di un mio nipotino che a lui dovrebbe andar bene.»
Disse lo sciamano, e da un armadio tirò fuori un paio di pantaloni, una camicia e un
paio di sandali. Il bambino prese i vestiti, sorrise allo sciamano e iniziò a vestirsi. Lo
sciamano offrì loro un tè fumante, poi Pa’ e Ma’ ringraziarono e ripartirono alla volta
della fattoria. Primo, Seconda e Cane, che avevano aspettato fuori, quando videro
uscire il bambino gli corsero incontro saltellando felici. Durante il ritorno Cane
correva e saltava e ogni tanto leccava le mani al nuovo venuto, i due figli lo presero
per mano e lo tempestarono di domande, ma lui sorrideva e non pronunciava parole.
Pa’ disse a Ma’: «Non è molto loquace, andrà d'accordo con Nuvola Lucente» e lei
sorrise.
Giunti a casa, Nuvola Lucente aveva apparecchiato per sei e uno stufato di coniglio
con patate ed erbe aromatiche era pronto per la cena. Tutti pranzarono felici, ma ogni
tentativo di comunicare con il nuovo arrivato fu inutile, sembrava che capisse tutto
quello che veniva detto, ma non rispondeva, neppure a cenni, sorrideva però in
maniera franca e si capiva che era grato e contento.
«Non ci vuoi dire da dove vieni, però sembra proprio che tu voglia restare con noi.
Neppure il nome vuoi dirci, allora ti chiameremo…»
Ovviamente stava per dire Terzo, ma Nuvola Lucente lo interruppe con un gesto e,
cosa molto rara per lui, parlò, esclamando: «Fulmine Accecante!»
«Fulmine Accecante? Nonno, tu parli molto di rado, ma con accortezza, il bambino
sicuramente è della tua razza, si vede subito dalla loquacità. Va bene, per noi sarà
Fulmine Accecante.»
E per la prima volta il bambino annuì, facendo comprendere che il nuovo nome a lui
stava più che bene.
In allegria fu consumata quella cena e con gioia fu accolto il nuovo arrivato. Una
bottiglia di vino vecchio fu sturata per l’occasione e anche i bambini ebbero il
permesso di assaggiarne un goccio. Terminata la cena Nuvola Lucente si accomodò
sull’ampia poltrona del salotto e Fulmine Accecante si accoccolò sulle sue ginocchia,
Ma’ aveva messo una dolce musica in sottofondo e lentamente Fulmine Accecante si
addormentò in collo a Nuvola Lucente che stava voluttuosamente aspirando alcune
aromatiche boccate dalla sua pipa che era caricata con tabacco e maria.
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ESTATE
Anche oggi sto compiendo il lavoro di sempre che consiste nel portare al pascolo le
capre che la mia famiglia possiede. Sono sul monte di pietre e mio padre dice che
dista tre chilometri dal villaggio. Qui sul monte, trai sassi, cresce un’erba verde scuro
con le foglie rigide che terminano in acuminati aculei, è l’erba pungente che piace
molto alle capre. Mentre gli animali pascolano disperdendosi per il rilievo alla ricerca
dell’erba, mi stendo in terra accanto ad una parete di roccia che copre i raggi
dell’intenso sole viola. Penso alla ragazza della fattoria vicina che m’intriga non poco
e con la quale ho preso un appuntamento per la sera di dopodomani: ci vedremo al
giardino del villaggio, quello con il pozzo nel mezzo alle aiuole perennemente fiorite,
mentre penso a lei, estraggo lo zufolo dallo zainetto e intono struggenti melodie.
Passa il tempo e senza accorgermene, mi addormento. Mi risveglio affamato, dallo
zainetto estraggo alcune gallette e una bottiglia d’acqua della fonte. Mangio, bevo e
ripenso ad il prossimo incontro. Presto arriva il tramonto e all’orizzonte scorgo le
righe d’azzurro luminescente che lo precedono. Nere nubi dalla consueta forma ovale
solcano veloci a grande altitudine il cielo, mentre s’alza il torrido vento della notte. È
l’ora del rientro, riprendo lo zufolo e intono a lungo la nota del richiamo. Una ad una
le capre rispondono obbedienti al consueto suono, mi si fanno attorno e le conto: sono
tutte e tredici. Inizio lento il rientro alla fattoria, gli animali come ogni sera docili mi
seguono.
Scendo dal monte di pietra, a valle attraverso il secco alveo d’un antico fiume, poi
m’immetto sulla vecchia autovia, un nastro di nera terra compatta che so essere
asfalto, disseminato di buche e di profonde crepe che lo suddividono in lastre
sconnesse: è un percorso impervio per me, non per le capre che filano spedite.
Proseguo attraverso i tre ponti costruiti in quella pietra artificiale che usavano gli
antichi, una pietra che sfida i tempi. Dalla pianura di sabbia ammiro il tramonto, in
lontananza, gli scheletri della città morta rivolgono al cielo le dita sbrecciate di pietra
artificiale. Finalmente giungo all’oasi che con il fronte compatto di palme si staglia
netta nel panorama di grigie sabbie infuocate. Entro nell’oasi per il sentiero noto
salutando i guardiani che armati, giorno e notte, proteggono il villaggio con le sue
fattorie. Percorro il sentiero seguito dalle capre che ora corrono verso il recinto aperto
e si accalcano all’abbeveratoio. Le chiudo nel recinto e guardo l’edificio a due piani
della mia fattoria, le luci nella casa sono già accese. Babi, il mio cane lupo, mi viene
incontro festoso in cerca di carezze, l’accontento e con lui entro in casa.
Vado subito in cucina e dal frigo tolgo una bottiglia d’acqua ghiacciata, ne bevo
alcune sorsate. Mia madre mi fa un gesto di saluto mentre sta preparando la cena.
«Tra mezzora tutti a tavola!»
Ne approfitto per prendere il mio libro preferito, mi sdraio sul divano e lo sfoglio. È
zeppo di foto e disegni. Parla delle stagioni, quando nei tempi antichi c’erano anche
l’autunno, l’inverno e la primavera.
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Ma adesso c’è solo l’estate, mio padre mi ha raccontato che un’estate di tanto, tanto
tempo fa, il calendario si fermò di botto e tutti gli antichi perirono. Gli dei vollero
punire gli uomini per aver condotto il pianeta al “koyaanisqatsi” che significa una
vita senza equilibrio. Si salvarono solo gli Eletti che si stabilirono nelle oasi.
Questo dice mio padre, ma non capisco cosa c’entrassero gli dei e neppure cosa
significhi vivere una vita senza equilibrio. Ho raccolto molti vecchi libri e li ho
collocati nella mia stanza, in molti di questi si parla di guerre, in altri di alieni venuti
sulla Terra. Forse gli antichi non sono stati distrutti dagli dei, ma dalle guerre o dagli
alieni, l’ho chiesto più volte al mio mentore, ma non ha saputo fornirmi alcuna
risposta. Gli ho anche chiesto degli dei, ma lui ha detto di non preoccuparmi, anche
loro sono morti con gli antichi.
Tutto sommato sono fiero d’essere un Eletto.
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Sono con Edvige sul mio modulo di trasporto, siamo in piena estate e le ventidue
sono passate da poco.
«E ora dove mi porti?»
«In campagna trai prati, non vorrai mica rintanarti in casa?»
«Sì, ma dove?»
«In quel posto dove siamo già stati altre volte.»
«Quello sorvegliato da Maurone?»
«Sorvegliato, che parola grossa, è di sua proprietà.»
«No, sorvegliato.»
«Va bene, proprio quello, tanto è tenuto sotto controllo da Maurone e lì non ci rompe
i coglioni nessuno.»
«A parte lui che sbircia sempre, sarà anche tuo amico, ma è pur sempre Maurone il
Guardone.»
«Sbircia, ma protegge le coppie degli amici, e se non sei suo amico ti manda via: per
questo è un posto sicuro.»
Edvige si lamenta un po’, dice che non le piace esser guardata da estranei mentre fa
l’amore, ma poi si cheta. Allora le ricordo che ci siamo già stati un sacco di volte, e
che anche i nostri amici vanno sempre lì quando vogliono farlo in camporella. Gli
ricordo anche che diverse volte ci siamo andati per fumare, e abbiamo anche
chiamato Maurone a fumare con noi, non solo abbiamo anche fatto degli spuntini
notturni in quel campo e con lui presente.
Lei acconsente, è meglio andare sul sicuro di questi tempi, mi fa: «Hai sentito di quel
clone che è impazzito al campo giochi? Ha ucciso due bambini col suo uncino e
l’altro giorno una coppia è stata ritrovata tutta squarciata in un parcheggio
abbandonato di un opificio chiuso da anni. E di lui nessuna traccia.»
Le dico che l’ho sentita questa storia alla TRI-TV, del clone di Capitan Uncino
impazzito.
Intanto inserisco la guida automatica e il modulo viaggia verso il prato di Maurone
che ha in memoria, imboccando una strada sterrata ma ben tenuta, senza buche, che
scorre lungo campi coltivati a soia.
Mentre viaggiamo le alzo la minigonna, lei è senza mutandine, le accarezzo il soffice
pelo ricciolino, quel suo triangolino nero che amo tanto.
Il modulo si ferma, siamo arrivati al prato, e le faccio: «Usciamo?»
«Ma sei matto? Non mi sento per nulla sicura stasera, neppure qui, ti prego restiamo
nel modulo, e chiudi per bene i finestrini.»
Chiudo i finestrini, avvio l’aria condizionata, abbasso i sedili. La sdraio e le sfilo la
camicetta, sono tutto concentrato sui preliminari in prossimità della sua passerotta,
quando lei mi fa: «Che è stato?»
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c’era alcun reale pericolo e quello che abbiamo visto era solo Maurone. Può anche
darsi che l’abbiamo urtato quando il modulo è schizzato via all’improvviso, molto
probabilmente ora sarà lui ad essere terrorizzato.»
«Un po’ per uno.»
«Va bene, domattina passo da lui e gli chiedo se è successo qualcosa di strano, e lui
mi risponderà che gli strani eravamo noi due, strani e in totale paranoia. Poi mi
chiederà quanta neococa abbiamo tirato, e mi ricorderà che i tossici lui nel suo campo
non li vuole.»
«Speriamo che tu non lo trovi con qualche osso rotto!»
Ormai la tensione s’è allentata e la riaccompagno a casa, poi guido manualmente il
modulo fino alla mia abitazione. Scendo, gli dico di parcheggiare e mi dirigo sparato
verso il mio letto.
Al mattino mi risveglio con le ultime notizie locali della TRI-TV ed esterrefatto
apprendo che un giovane di nome Mauro Ottolini, conosciuto dagli amici come
Maurone il Guardone, è stato trovato con il corpo totalmente dilaniato, in campagna,
nel bel mezzo di un prato di sua proprietà, che lui abitualmente frequenta da solo o
con gli amici. Si pensa che tutto ciò sia opera del clone impazzito.
Cazzo, penso, ma non l’avrò mica fatto fuori io? Scendo di corsa dal letto e mi rendo
conto che sono sempre vestito, è vero, ieri notte mi sono buttato a dormire senza
neppure spogliarmi. Corro fuori verso la rimessa per vedere se sul modulo ci sono
tracce dell’impatto, cazzo! se l’ho ammazzato, ammaccature e sangue ci dovranno
pur essere. Ripenso a quello stridio metallico che forse ho sentito al momento della
partenza a razzo. Entro nella rimessa, guardo attentamente il modulo, sembra tutto
ok, poi passo alla parte posteriore, giro intorno e, stupefatto vedo infilato un uncino
d’acciaio brillante nel cofano posteriore. Attaccato all’uncino metallico c’è un
moncone di arto strappato con brandelli di carne, nerastra per il sangue raggrumato, e
schegge bianche d’osso che sporgono dai coaguli neri.
Prendo una sigaretta e l’accendo, rifletto sul pericolo corso e sento che le gambe a
stento mi reggono. Mi appoggio alla parete, mi ricompongo, da un pianale sospeso
prendo un paio di guanti da giardinaggio, me li infilo, sfilo dal cofano l’uncino
incastonato nella materia organica, lo getto assieme ai guanti nella vicina bocca
inceneritrice, mi rivolgo poi al modulo e gli comando: <VAI ALLA CARROZZERIA
AUTOMATICA RIPARAZIONE ISTANTANEA E LUCIDATURA POI TORNA
QUI>
Il modulo accende il motore, lentamente esce dalla rimessa e s’immette nella strada.
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STUDI AVANZATI
Kalid si trova ora ospite di una scuola retta da alcuni frati, sul cortile del basso
edificio sventola una bandiera bianca. È dunque territorio neutro rispetto alle due
fazioni che da tempo immemorabile si stanno combattendo su tutto il pianeta. I
motivi che hanno portato alle ostilità i gialli e gli azzurri, si perdono nella notte dei
tempi e la guerra ristagna, fatta di piccole scaramucce locali.
Kalid era stato raccolto in un villaggio agricolo alcuni anni fa, tutti gli abitanti erano
stati uccisi, solo i bambini furono risparmiati.
Kalid non ricorda se i suoi compaesani fossero gialli o azzurri, non ricorda neppure il
nome del paese.
Ricorda invece che tutti erano musulmani, ma a lui la religione non aveva mai
interessato, se la sentiva estranea. Il padre aveva iniziato da poco ad insegnarli la
scrittura araba, ma Kalid non ricordava quasi più niente, neppure i volti dei suoi
genitori.
Adesso aveva dieci anni e le due fazioni in lotta erano solo un vago ricordo, la sua
vita scorreva nel territorio protetto della scuola, assieme agli altri allievi e ai frati.
La religione, anche quella cattolica, non era riuscito ad attrarlo, le materie scolastiche
invece l’appassionavano e passava molte ore in biblioteca o a visionare vecchie
memorie solide registrate.
Talvolta cercava di dare un senso a ciò che era accaduto nel suo villaggio natale,
perché gli uomini si erano divisi in due fazioni armate, in perenne guerra tra loro?
Quali erano i veri motivi che avevano scatenato un sì feroce odio? Gli alieni erano
veramente giunti sulla Terra? E se sì, da dove? E quale delle due fazioni stavano
aiutando?
Gli anni passarono veloci, ma Kalid non trovò risposte ai suoi interrogativi. Tutto era
vago, tutto era nebuloso. Dove erano finite le antiche città di cui parlavano i testi di
storia?
La realtà era un mondo divenuto agricolo diviso in gialli e azzurri che seguitavano ad
uccidersi a vicenda, oggi assai di rado per fortuna, senza alcun motivo logico. E gli
alieni restavano un mistero nel mistero, non solo non si conosceva da che parte
stessero, ma neppure vi erano certezze sulla loro stessa esistenza.
Ma qualcosa era successo, e qualcosa di stravolgente per l’intero pianeta, e Kalid era
intenzionato a scoprirlo.
Giunto al diciottesimo compleanno conseguì a pieni voti il master e ora avrebbe
dovuto scegliere cosa fare nella sua vita.
La prima possibilità era quella di restare nel villaggio che sorgeva accanto alla
scuola, un villaggio bianco, neutrale. Ma le attività erano quelle agricole e quelle di
supporto alla scuola e lui non se la sentiva proprio di fare il contadino o il tecnico alla
centrale solare. La seconda possibilità era quella di perfezionarsi negli studi teologici
e di divenire un frate-insegnante. Ma a Kalid le religioni davano la nausea, anche se
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aveva scoperto che non c’entravano nulla con la guerra mai sopita e anzi, con i loro
centri studi, avevano aiutato la popolazione perpetuando la cultura.
La terza possibilità era quella di trasferirsi in una delle cittadine vicine, scegliendo tra
azzurri e gialli. Ma Kalid non avrebbe mai saputo quale scegliere, e anche lì, la vita
scorreva semplice e lineare con occupazioni di poco conto.
L’ultima possibilità era quella d’indossare il saio e di girare il mondo. Sarebbe stato
neutrale e pertanto intoccabile.
Scelse questa ultima possibilità e decise di dedicare la sua vita all’approfondimento
degli studi storici. Voleva scoprire cosa fosse accaduto. Spiegò al monaco rettore la
sua scelta, e lui la condivise, gli consigliò di recarsi nella lontana città di Moreda, ove
sorgeva una delle più prestigiose università della Terra. Moreda era una città azzurra
ma tollerante e in pace, e questo per Kalid faceva la differenza.
Si preparò per il viaggio: nello zaino mise la pergamena del suo master, si munì di
una cartina dettagliata con contrassegnata la strada per giungere a Moreda. Il percorso
era stato tracciato seguendo vie secondarie, poco frequentate, ma con case agricole
sparse per tutto il tracciato. Dai contadini avrebbe facilmente ottenuto vitto e alloggio
per la notte, in cambio magari di qualche storia, e Kalid era un mago nel raccontare le
storie, quelle vere, quelle scritte dai vari autori, o quelle che lui s’inventava lì per lì.
Portò con sé anche una bussola e una lettera scritta dal suo preside indirizzata al
rettore dell’università di Moreda, nella quale si chiedeva la sua ammissione ai corsi
avanzati e in dettaglio si descrivevano le sue capacità intellettuali.
Per oltre quattro mesi vagò per strade secondarie, seguendo attentamente il percorso
tracciato sulla sua cartina, fu ospite di contadini sia azzurri che gialli, raccontò loro i
motivi del suo viaggio, la sua sete di conoscenza. A richiesta narrò storie antiche e
favole ai bambini, recitò poesie e salmi. I cibi erano semplici ma nutrienti, i vini
erano rossi e forti, i letti erano puliti e accoglienti. Più volte una giovane della casa
giacque la notte con lui. A tutti chiedeva la storia del villaggio, e prendeva appunti
quando scopriva qualcosa di nuovo. Chiedeva anche degli alieni, ma nessuno seppe
dargli notizie sicure.
Un giorno infine giunse a Moreda. La cittadina era diversa dalle altre, perché era
circondata da una cinta muraria. Kalid rimase affascinato ad osservarla, conosceva le
cinte, l’aveva viste mille volte sulle illustrazioni dei vecchi libri o sullo schermo
lettore delle memorie solide. Ma trovarsele davanti dal vivo, così vere, così diverse
dalle normali costruzioni, fu per lui un’esperienza unica.
Girò intorno alle mura, finché non scorse la porta d’ingresso alla città, era un grande
arco in pietra, sorvegliato da innumerevoli guardie armate.
Kalid si presentò loro, spiegò chi fosse e i motivi che lo avevano portato a Moreda.
Le guardie attentamente l’ascoltarono in silenzio, poi lo condussero all’interno, gli
fecero scendere alcuni scalini in pietra e lo chiusero a chiave in una angusta cella.
Era un cubicolo di tre metri per tre, con un materasso posato sul pavimento, un
lavandino in un angolo e accanto il gabinetto. L’aria entrava, assieme alla poca luce
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da alcune fessure verticali disposte sulle pareti. Tutte le mattine entrava una guardia
che lasciava un vassoio con sopra cibo e una caraffa d’acqua. Ogni giorno una parete
si sollevava e lui poteva sostare in un’area più vasta, ma circondata da alti muri. In
questo cortile c’era anche una doccia. Quando rientrava nel suo cubicolo trovava
sempre una tunica pulita.
Dopo sette giorni entrò un uomo vestito con una tunica azzurra e gli fece cenno di
seguirlo. Lo condusse in un ufficio sito sopra il corridoio sul quale si aprivano
numerose celle, ove lui era stato rinchiuso.
Si sedette su di una poltrona, l’uomo invece si mise dietro una scrivania e da sotto
questa tirò fuori il suo zaino. Cominciò poi ad interrogarlo e volle sapere tutto della
sua vita.
Kalid gli raccontò ciò che ricordava del suo villaggio, dei genitori uccisi, la sua
permanenza alla scuola dei frati, i suoi studi e il master conseguito. Disse poi quali
erano le sue possibilità e la scelta che aveva fatto, in accordo con il proprio preside di
proseguire gli studi all’università di Moreda. Aprì lo zaino e mostrò a colui che lo
stava interrogando la pergamena del master e la lettera che il frate preside aveva
indirizzato al rettore.
L’uomo con la tunica azzurra prese il master e la lettera e uscì dalla stanza.
Trascorsero alcune ore e Kalid rimase solo nell’ufficio, poi entrò un giovane con una
tunica bianca come la sua e gli disse che era stato accettato all’università. Da questo
momento sarebbe stato il suo studente anziano, e per qualsiasi cosa avrebbe dovuto
far riferimento a lui.
L’accompagnò poi nell’alloggio che gli era stato assegnato, lo informò sugli orari
delle lezioni, ove si tenevano, gli fece vedere la palestra, la biblioteca, la mensa, la
piscina, la sala di riposo ove gli studenti si riunivano.
Kalid si ambientò in poco tempo, era tutto preso dalle possibilità di approfondire la
propria cultura e conoscenza. Trovò anche il tempo per familiarizzare in maniera
intima, ma non impegnativa con alcune delle sue compagne di studi.
Due erano le sue passioni che con lo studio riuscì ad approfondire, la storia terrestre e
i contatti alieni.
Ma la storia della Terra terminava con la distruzione quasi totale del pianeta dovuta ai
fattori inquinanti che con l’andare del tempo si erano sommati l’uno all’altro creando
una situazione irreversibile, ma dopo, cosa era successo dopo? Questa domanda non
trovò una risposta.
Sui contatti con gli alieni trovò tutta una serie di notizie di avvistamenti, d’incontri
ravvicinati di terzo tipo, di congetture e ipotesi. Vi erano anche un’infinità di foto e di
filmati di mezzi di trasporto alieni, numerosi quelli sui dischi volanti. Trovò rapporti
dettagliati su astronavi precipitate (o abbattute) da Roswell in poi. Ma tutto era
coperto da un’aura di dubbio e di incertezza. Trovò anche numerosi testi che
riguardavano la tecnologia aliena. Interi libri narravano di rapimenti.
Terminò velocemente i suoi tre anni di studi, e quando il rettore lo convocò per
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consegnargli il suo nuovo titolo conseguito a pieni voti, lui gli espresse i propri dubbi
che neppure gli studi avanzati erano riusciti a fugare. Il preside gli disse di chiedere
che lui gli avrebbe fornito le risposte. Prima però gli chiese di tornare da lui con tutte
le sue cose in una borsa: avrebbe dovuto affrontare un viaggio.
«Perché continua questa assurda guerra sulla Terra?»
«Perché la guerra è sempre esistita, è una necessità dell’uomo. La guerra di oggi è
poco cruenta, perché si limita solo a qualche sporadica schermaglia. Inoltre i mezzi di
distruzione sono rigorosamente poco tecnologici, perciò scarsamente cruenti.»
«Quali sono le differenze tra gialli e azzurri?»
«Le differenze sono ininfluenti, l’importante è che siano due squadre nemiche.»
«Cosa è successo dopo la distruzione dovuta all’inquinamento?»
«Questo argomento farà parte dei tuoi prossimi apprendimenti.»
«Perché, devo proseguire gli studi?»
«Sì, ma non qui, con noi hai brillantemente terminato.»
«E gli alieni? È mai avvenuto il contatto?»
«Anche questo farà parte dei tuoi nuovi studi.»
E detto questo il rettore lo prese per mano e lo condusse in una sala ove non era mai
entrato. Nel mezzo alla sala vi era una luminescenza viola che formava un arco.
«Kalid, ha preso tutte le tue cose?»
«Sì rettore.»
«Allora addio, chi sa se ci rivedremo.»
«Ma dove devo andare?»
«Vedi l’arco? E una porta, varcata quella sarai nel tuo nuovo mondo. Quella sarà la
tua scuola.»
Kalid perplesso attraversò l’arco e istantaneamente si trovò in una sala ove alcuni
studenti lo stavano aspettando.
«Benvenuto! Siediti su quella sedia, che inizia subito l’ambientamento ipnotico.»
Detto questo gli indicarono una strana poltrona che si trovava al lato della sala, lui si
sedette sopra e fu istantaneamente bombardato da tutta una serie di informazioni che
senza alcuna difficoltà si fermarono nella sua memoria.
Seppe che la Terra era ormai quasi disabitata per le disastrate condizioni ambientali.
Erano stati trovati, durante scavi archeologici i resti dei portali. Questi resti furono
sufficienti a ricostruire l’intero meccanismo e così i viaggi tra le stelle divennero una
possibilità. Lui non era vissuto sulla Terra, ma su un pianeta terraformato molti secoli
prima, anzi questo pianeta rappresentava un’anomalia, perché era stato predisposto
per essere abitato da cloni dediti all’agricoltura. Sarebbe poi servito come pianeta
vacanze per gli umani, ma qualcosa non era filato per il verso giusto. I cloni, che
avrebbero dovuto essere quasi immortali, iniziarono invece ad invecchiare, non solo
ma da loro, che dovevano essere sterili, nacquero normali bambini. Il progetto fallì
sul nascere e alcuni missionari, cattolici e maomettani, riuscirono ad entrare sul
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TERRA TERRA
Gli studi sul pianeta università erano durati molti anni e Kalid aveva imboccato
nuove vie sul sapere e la conoscenza. Riguardo alla storia umana aveva consultato
ogni documento esistente e aveva scoperto che la fase dell’inquinamento era durata
svariate centinaia d’anni.
L’effetto serra era stato devastante, aveva prima sciolto i ghiacci e alzato i mari, poi
una fitta coltre di nubi aveva offuscato l’intero pianeta. Non esisteva più il giorno e la
notte, ma un unico crepuscolo durante il quale cadeva incessantemente una leggera
pioggia marrone, carica d’ogni tipo di radiazione e veleno. E mentre accadeva tutto
questo, la temperatura, lentamente ma costantemente, aumentava.
Le piogge in seguito diradarono e la foschia si fece sempre più sottile, ma la
temperatura era sempre più calda. Il cielo divenne infine terso, ma i gradi
aumentavano, i mari iniziarono a prosciugarsi e i continenti si trasformarono in
deserti di sabbia. Rimasero solo poco più di mille oasi circondate da un immenso
deserto, e qui la vita umana proseguì nella sua storia. Il cielo era solcato da veloci
nubi ovali e anche se quasi tutta l’acqua era ormai solo nell’atmosfera, le nubi
scaricavano raramente, e quelle rare volte solo sulle oasi, perché? Nessuna risposta
valida era stata fornita.
Gli uomini, fortunatamente, durante la prima fase dell’inquinamento scoprirono i
resti e l’uso delle porte, poterono così mettersi in salvo su nuovi pianeti, che vennero
pian piano terraformati, e forti delle esperienze passate, le tecnologie non dolci
furono messe al bando ovunque.
Il pianeta originario era ormai noto come Terra Terra e attualmente era abitato da
poche centinaia di migliaia di uomini, che vivevano esclusivamente nelle oasi e
l’accesso ad esso era stato rigidamente bloccato a causa delle radiazioni che ancora
solcavano l’atmosfera e dei veleni che erano diffusi ovunque. Ma Kalid aveva
intenzione di visitarlo ugualmente per completare i propri studi, e aveva già inoltrato
la richiesta al senato accademico.
Passi avanti aveva anche compiuto sul filone di studi paralleli alla storia umana, cioè
sul versante del contatto alieno. E qui le sorprese non erano mancate.
Antiche testimonianze dettagliatamente registrate fino alla metà del XXII secolo
dimostravano avvistamenti, contatti sporadici con singoli o piccoli gruppi, rapporti
ufficiali degli stati allora esistenti, insomma era saltata fuori una gran quantità di
materiali che Kalid aveva pubblicato, ordinandola, in rete. Questa pubblicazione era
stata molto apprezzata e lui era divenuto il massimo esperto in materia.
Dopo il XXII secolo spariva però ogni notizia ufficiale, e Kalid aveva dovuto
proseguire le sue ricerche attraverso testimonianze orali registrate in periodi
successivi. Dalle testimonianze risultava che la Terra fu per cinquanta anni invasa da
alieni di vario tipo, che la schiacciarono completamente in questo periodo. Le forme
aliene erano di varie specie, ma di due vi sono ampi riscontri: la forma dominante era
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cilindrica e luminescente, l’altra forma era sferica. Furono anni di buio dominio e gli
alieni non fornirono mai alcun contatto diretto e nessuna spiegazione, soggiogarono
tutti e basta, uccisero che s’opponeva a loro e costrinsero gli abitanti a lavori insensati
da schiavi. Così all’improvviso come erano arrivati, se ne andarono, portandosi via
tutte le loro testimonianze. Si ritiene però che non tutti partissero, e che sulla Terra
rimanesse un gruppo alieno, indistinguibile dagli umani che per alcune centinaia di
anni operò per cancellare qualsiasi documentazione della dominazione aliena di
quegli anni. Si ritiene inoltre che quegli alieni simili all’uomo, una volta terminato il
loro lavoro se ne fossero andati su Terra 23, che già allora era stata chiusa a tutti. E
così la storia di Terra 23 si fece ancora più complessa, dato che i suoi abitanti erano
discendenti di tre specie diverse: i droidi evolutisi, i missionari umani e ora anche gli
alieni.
Nei suoi resoconti Kalid aveva anche più volte citato un libro di sf del XX secolo
titolato “Gli anni alieni” ove l’autore sembrava prevedere ciò che sarebbe accaduto
dopo alcuni secoli, la durata dell’invasione, la partenza immotivata, le forme aliene,
aveva dunque l’aspetto di un testo profetico, solo la data dell’invasione era errata
perché ambientata nel XXI secolo, ma ciò che più stupì Kalid, fu che uno dei
protagonisti portasse il suo nome.
Anche gli studi su gli anni alieni furono pubblicati in rete accrescendo ancor più la
fama di studioso che Kalid si era meritata. E il successo ottenuto come studioso gli
permise di ottenere l’autorizzazione da parte del senato accademico di poter visitare,
per motivi di studio la proibita Terra Terra.
Attraversato il portale si ritrovò in una cupola geodetica tutta piena di vasi da fiori,
piante ornamentali di ogni tipo.
Kalid rimase meravigliato, tutto si sarebbe aspettato, ma non questo. Uscì comunque
dalla cupola, tenendo in una mano la valigetta con il pc, fuori c’era tutta un’area
verde coltivata ad ortaggi, case coloniche ad un piano e una strada sterrata si snodava
trai campi. Con fare sicuro s’inoltrò per la strada e incontrò campi coltivati, case
coloniche, un cavaliere lo superò distratto, poi ancora campi coltivati e infine un
fronte di palme. La strada avanzava tra le fitte palme per alcune centinaia di metri,
finiva poi con la sabbia del deserto.
Uomini armati pattugliavano il fronte di palme e Kalid si trovò la canna di un fucile
puntata alla nuca.
«E tu chi sei?»
«Sono uno studioso, vengo da Terra Università.»
«Non mi dire che i cervelloni hanno riaperto il portale.»
«Sì, ma solo per me, sono uno storico e sto ricostruendo gli avvenimenti
dell’umanità.»
«Qui non mandano mai nessuno, hanno paura di avvelenarlo, e non vogliono neppure
noi, dicono che siamo geneticamente inquinati.»
«O forse hanno paura di ciò che è successo alla vera Terra, hanno tentato di
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Il modulo abbandonò l’autovia per immettersi su una strada secondaria che portava
alla famosa località sciistica attraversando una fitta selva d’abeti. Gli alberi erano così
vicini l’uno all’altro che il nastro d’asfalto s’insinuava con ampie curve tra due
muraglie di tronchi. Gli abeti erano grandi e alti, nel fitto bosco il tramonto si era
subito trasformato in una buia notte e il cielo era completamente scomparso trai fitti
rami.
Eligio aveva tolto la guida automatica e manualmente comandava il modulo, Eliana
seduta accanto a lui aveva acceso una sigaretta e disteso le belle gambe che
splendevano colorate parzialmente illuminate dai led del cruscotto.
«Ma siamo proprio sicuri che sia la strada giusta?»
«Sì, ho guardato la cartina sul computer di bordo e la strada era indicata come
panoramico-turistica.»
«Turistica forse, ma di giorno, panoramica, insomma, sembra un tunnel scavato tra
gli abeti, e ad esser sincera a me fa un po’ paura.»
«Una stazione di servizio!… Ma è tutto spento, andiamo avanti, ormai dovremo
essere vicini, ci faremo un bel caffè appena arriviamo.»
«Finalmente c’è un cartello, siamo arrivati?»
«Mi sembra presto.»
«Hai letto il cartello? C’è scritto RANE.»
«RANE? FRANE c’era scritto, hai letto male.»
«Veramente io ho letto RANE.»
«In Inghilterra sono segnate le zone di transito dei batraci, l’ho letto da qualche parte.
Ma qui in Italia chi vuoi che gliene freghi dei ranocchi.»
«Forse qualche gruppo animalista, ma RANE o FRANE, per favore rallenta.»
«Va bene, sto decelerando, sono appena a sessanta, non schiaccerò nessun ranocchio
e se vedo una frana tiro una frenata, sei contenta?»
«Comunque c’era scritto RANE.»
«Ma va’… »
«Attento! La strada è ostruita!»
«Ecco la frana, te l’avevo detto! Altro che rane!»
Eligio pigiò il freno e il modulo si arrestò ad una cinquantina di metri da una massa
scura che occupava l’intera carreggiata. I fari illuminarono l’ostacolo che non
sembrava del tutto immobile, infatti, la massa verde e marrone di mota e detriti stava
ancora smottando.
«Ma che cazzo!… » esclamò Eligio mentre scendeva dal modulo, e i suoi piedi si
posarono su una fanghiglia viscida e scivolosa perdendo l’aderenza e lui piombò a
terra, in ginocchio, con una mano che era rimasta afferrata alla portiera e la stava
saldamente stringendo per riprendere l’equilibrio.
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Si accorse che la mano che aveva toccato il suolo e i pantaloni erano coperti da un
liquido vischioso e appiccicoso.
«Ma che schifo di frana!»
Si tirò su aggrappandosi con le due mani al modulo, vide che Eliana più non era
nell’abitacolo e l’altra portiera era aperta.
«Eliana, sei scivolata anche tu su questa merda?»
«… »
«Eliana! Rispondi!»
Silenzio, si guardò intorno, guardò fuori, ma di Eliana nessuna traccia, aprì allora il
bauletto portaoggetti del modulo ed estrasse una lampada portatile, piccola ma
potente.
Con le mani tremanti l’accese e col fascio di luce cominciò a scandagliare attorno al
modulo, urlando: «Eliana! Eliana!» Finché non si rese conto che il suo torace era
stato avviluppato da un viscido nastro rosa che lo stringeva forte, sempre più forte.
La lampada gli sfuggì di mano e rotolò sul bordo dell’asfalto, tentò di urlare, ma il
grido gli rimase invischiato in gola, si sentì sollevare, trascinar fuori dal modulo e
davanti a se vide un ovale nero, come uno scuro portale che lo stava inghiottendo.
“RANE – pensò – RANE” .
Nello stesso momento la strada panoramica fu imboccata da un’auto d’epoca, di
quelle a benzina inquinante e con le marce manuali.
Era Lucia che guidava con perizia, mentre Nicola, seduto accanto a lei, pensava: “Ora
me la scopo, questa stronza”.
«Nico, ma sei sicuro che questa sia la strada giusta?»
«Sì e poco più avanti, dopo l’area di servizio c’è una striscia di prato verde che
s’incunea tra gli abeti, fermati lì che ci fumiamo una sigaretta in pace prima di
arrivare.»
«Io vedo solo una muraglia di tronchi, mi sa che mi hai fatto sbagliare strada, e
magari l’hai anche fatto apposta.»
«Ma che dici, guarda, la stazione di servizio.»
«Ma è chiusa, è tutto spento.»
«Vai tranquilla, siamo nel posto giusto.»
-«Posto giusto per cosa? Cazzo! C’è uno STOP!”
«A parte che questa strada non ha incroci, poi abbiamo già superato a tutta birra il
cartello. Comunque c’era scritto TOPI.»
«TOPI? Ma che cazzo hai fumato prima? Quando mai prima d’una località turistica
mettono un cartello stradale con su scritto TOPI? Pensi che l’abbia messo la pro
loco?»
«Non era STOP, c'era scritto TOPI!”
«… »
«Fermati! Ecco lo spiazzo verde che ti dicevo.»
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C’era infatti un prato che rompeva la compattezza del muro d’abeti e Lucia di
malavoglia fermò l’auto proprio sul tappeto verde.
«Io invece direi di ripartire velocemente.»
Nico senza rispondere aprì la portiera e scese, girò attorno all’auto d’epoca, aprì
l’altra portiera e tirò a sé Lucia che di malavoglia si lasciò baciare.
Lei era appoggiata alla carrozzeria mentre Nico le aveva in fretta sbottonato la
camicetta, poi la gonna scivolò sull’erba assieme alle slip. Le prese con le mani i seni
e cominciò a baciare alternativamente i capezzoli, poi si mise in ginocchio ed era con
la lingua entro il suo delta di venere, quando improvvisamente si sentì afferrare da
robuste zampe artigliate e nella penombra vide scomparire Lucia sotto un’informe
massa grigia.
Mentre il dolore gli stava appannando la vista, dei rigidi fili gli strusciarono sul volto.
Con terrore misto a stupore scorse un grande occhio che nel buio lo stava fissando a
pochi centimetri dal suo volto. “TOPI” pensò e il silenzio fu rotto dal rumore di
mandibole che masticavano, di ossa che si spezzavano e da stridii metallici.
Proprio in quell’istante la strada turistico-panoramica fu imboccata da un veicolo del
soccorso stradale guidato da un autista sonnolento.
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LA LIMOUSINE
Cinzia se n’era appena andata, gli aveva detto che non aveva più voglia di stare con
lui e l’aveva lasciato con un bacio in fronte, lui steso ancora sul letto disfatto ove
avevano appena finito di fare l’amore. Si addormentò, confuso e un po’ seccato, ma al
mattino le idee pian piano si schiarirono e pensò: “ Morto un papa si fa un papa e un
cardinale. Ne troverò un’altra, e chi se ne frega”.
E dopo una giornata di lavoro, noiosa come sempre, si fece una pizza ai funghi
accompagnata da birra scura nella sua pizzeria preferita. Uscendo quasi sbatté contro
Rosanna, era da quando un anno prima l’aveva lasciata per mettersi con Cinzia che
non la rivedeva. Si fermarono l’uno davanti all’altra, poi si sorrisero e lui le raccontò
che con Cinzia era tutto finito mentre quasi meccanicamente, come una volta, si
avviarono verso casa sua. Fecero l’amore e dormirono assieme.
Al mattino Rosanna uscì senza dire niente e non volle lasciargli neppure il suo nuovo
numero di telefono, malgrado le insistenze.
Di malavoglia si recò al lavoro, senza radersi e facendo colazione solo con un caffè
espresso e dopo la solita giornata di routine aziendale, mentre era uscito in strada e
stava rientrando, un’auto si accostò al marciapiede accanto a lui e lanciò un colpo di
clacson.
Si girò senza fermarsi e vide dal finestrino aperto della Twingo bianca il volto d’Ilaria
che lo salutava sorridendo. Aveva avuto una breve storia con lei prima di mettersi con
Rosanna. Salì in macchina e si fermarono davanti casa, trascorsero un’ora piacevole
assieme, poi lei se ne andò.
Rimasto solo, perplesso, si fece un toast, lesse alcuni capitoli de “Il silenzio degli
innocenti” di Thomas Harris, pensò che a lui era piaciuto di più il film del libro, e
lentamente scivolò nel sonno con la luce sul comodino che rimase per tutta la notte
accesa.
Si risvegliò con il pensiero “sto andando indietro nel tempo” ed era quanto mai
distratto dai recenti avvenimenti, rifletteva su Laura, la bionda con cui era stato prima
d’Ilaria, ma si disse “non è possibile, lei è di Firenze e qui a Lucca non l’ho mai
incontrata. Ma all’uscita dal lavoro, nel tardo pomeriggio, Laura lo stava aspettando
in piedi sulla strada. Gli disse che aveva l’ultimo treno a mezzanotte e mezzo e
«perché non mi porti a casa tua? Possiamo stare insieme qualche ora, poi mi
riaccompagni alla stazione» e durante la serata gli raccontò che con il marito si stava
annoiando a morte, per questo negli ultimi giorni aveva pensato molto a lui, poi si era
decisa di venire a cercarlo. Più tardi, dopo averla accompagnata alla stazione
ferroviaria, si fermò in un pub e scolò una birra dietro l’altra.
Lui aveva sempre bevuto molto poco, pertanto al mattino si ritrovò ubriaco perso
come mai era stato e a fatica si trascinò verso casa, molto più tardi ce la fece a
telefonare in ufficio per darsi indisposto.
“Prima di Laura c’è stata Ada, e quella era proprio tutta matta, no, non voglio
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rivederla”.
Nel pomeriggio tirò fuori dal garage la sua moto e schizzò fuori dal quartiere con il
casco ben calzato cercando di non vedere la gente che incrociava per strada. Fece il
pieno ad un distributore di periferia e si recò su uno dei colli che sorgevano attorno
alla città. Dopo una strada sterrata imboccò un tortuoso viottolo che non aveva mai
percorso e si ritrovò su un prato in leggera discesa, proprio in cima al colle più alto.
Scese di moto, si sdraiò sull'erba e, mentre al sole sonnecchiava, Ada gli stava
mordicchiando un orecchio. “Sto sognando” pensò, ma non stava affatto sognando,
lei, in carne e ossa, fin troppa carne, gli era seduta accanto in tenuta da MB e la MB,
nuova di color rosso valentino, era lì sul prato accanto alla sua moto.
Lei si tolse in fretta i pantaloncini e la T-shirt, cominciò a succhiargli il membro e poi
tutto fu come alcuni anni prima. Dopo che lui venne, lei non godeva se non col
vibratore, si rivestì, gli mandò un bacio mentre risaliva sulla bici e con alcune forti
pedalate sparì dal prato.
Rimase solo, mentre il sole s’avvicinava al tramonto e la sua mente si avviluppava in
pensieri caotici e sconnessi, riuscì poi a ricomporsi e a voce alta disse: «La prossima
dovrebbe essere Wyki, lei la rivedrò molto volentieri, mi arrapava da matto, ma che
senso ha tutto ciò?» Si rasserenò del tutto pensando che quasi niente nella vita ha un
senso, ma ti capita tutto così, modello sbrodolata, tanto vale assistere al film
dell’esistenza e vedere come la storia va a finire, tanto il prezzo del biglietto non ce lo
rimborsa mica nessuno.
Due giorni dopo trovò Wyki seduta al bar sotto casa sua che sorseggiava una cola.
Decise di prendersi quindici giorni di ferie e si trasferì in un albergo a Rimini. “di
marzo qui non c’è proprio molto traffico e questa corsa all’indietro mi spaventa” Il
giorno dopo il suo arrivo bussò alla porta una cameriera col carrello degli
asciugamani puliti. Era Elisabetta e seppe che da due anni lavorava lì. Inutile dire che
la mattina successiva lui scappò di corsa dall’albergo e si fermò solo a Venezia.
Aveva appena parcheggiato che incrociò Carol che lo condusse a casa sua, abitava
proprio qui, ora. Il giorno successivo fuggì anche da Venezia e tornò rassegnato nella
sua città.
Aperta la porta di casa si rese conto che nel salotto la tivù era accesa, entrò e Naona,
una mulatta di tanto tempo prima, che aveva avuto ad un centone delle vecchie lire al
colpo, l’attendeva nuda sdraiata sul divano. E anche lei, come tutte le altre, la mattina
se ne andò e questa volta non volle esser pagata. Prendeva un centone, avrebbe oggi
voluto cento euro? si trovò a pensare solo questo.
A quel punto lui s’arrese, riempì la casa di casse di birra e il frigo di cibi surgelati,
decidendo di lasciarsi andare completamente agli eventi certo che ogni sforzo per
evitarli sarebbe stato inutile. Fece mente locale e stilò la lista delle sue donne, con il
pennarello la trascrisse su un muro della cucina, poi man mano che le sue ex
capitavano in casa, faceva una croce, sempre col pennarello, sul rispettivo nome:
Evelina, July, Mercedes, Lella, Sandra, Claudia, Simona, Celestina, Antonella
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ricevuto immagini con dettagli porno fortemente accattivanti. Così alla curiosità
iniziale si era sostituito un arrapamento incontrollabile.
Lo studio della massaggiatrice, che si chiamava Colette, era a Montecatini, in pieno
centro, cioè solo ad una quarantina di chilometri da dove abitava. Così una sera, con
in tasca l’indirizzo esatto, dopo essersi per bene sbarbato, fatto una doccia, profumato
un po’ troppo, abbigliato elegantemente, salì in macchina destinazione Montecatini.
Aveva chattato l’ora dell’arrivo e a un bancomat prelevato due centoni, il prezzo
pattuito per un’ora d’amore e di massaggi.
A Colette, Costantino aveva detto di chiamarsi Costanzo e a questo nome aveva
prenotato l’appuntamento. Parcheggiò l’auto in periferia e fischiettando s’avviò
all’indirizzo. Lo trovò subito e suonò il campanello del palazzo, quello sulla cui
targhetta c’era scritto: ”Studio Zeta”.
Una voce sensuale chiese al citofono «Sii?» e lui pronto «Costanzo sono, ho
appuntamento.»
«Ti stavo aspettando, prendi l’ascensore e sali al terzo piano, io ti attendo sul
pianerottolo» disse la voce femminile, melodiosa e accattivante.
Costantino nella sua mente accoppiò la voce ai messaggi erotici che si erano
scambiati e alle immagini erotiche che lei gli aveva inviato: i seni, la sua cosina, il
culetto, la lingua e mentre l’ascensore troppo lentamente saliva, l’eccitazione
aumentava sempre più e la fantasia galoppava sfrenata.
L’ascensore si fermò con un leggero contraccolpo, la porta si spostò di lato, e lui uscì
sfoderando un sorriso smagliante.
Aveva fatto un sol passo sul pianerottolo, la porta dell’ascensore si era
silenziosamente richiusa alle sue spalle, ed ecco, lentamente aprirsi il portone davanti
a lui.
Sull’ingresso una bellissima bionda con indosso solo un baby doll trasparente e i
dettagli nella mente di Costantino, in un attimo si ricomposero in quell’unica mirabile
apparizione erotica piena di promesse ben evidenziate.
Il sorriso di Costantino si stampò sul suo volto, l’insieme era ancor più accattivante
dei singoli particolari e onestamente di quanto aveva sperato.
Ma la sua immensa gioia durò solo pochi attimi, il volto gli ricordava qualcosa di
familiare, qualcuno: SARA! Sua sorella!
E mentre il sorriso si trasformava in un ghigno e l’arrapamento svaniva all’istante,
disse «Ma tu sei Sara!» e un dolore al petto lo colse di sorpresa, mentre i suoi sensi
l’abbandonarono.
Si risvegliò alcune ore dopo in una camera d’ospedale. Confuso si guardò attorno, poi
scorse un’infermiera ferma sulla porta e con un filo di voce la chiamò.
«Ma cosa mi è successo?»
«Un leggero malore, niente di grave, tra un’ora passerà il medico. Vedrà che
domattina la dimetteranno.»
E così fu, nella tarda mattinata del giorno successivo, poté recarsi a riprendere l’auto
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Dopo la lettura dell’ultimo libro della fortunata serie di Stephen King ho percepito la
necessità di buttar giù queste righe, dettatemi dal profondo del mio sentire. Avvertivo
che dovevo scrivere qualcosa e che questo qualcosa doveva esser subito presentato
pubblicamente. Così ho fatto e la prima stesura di questo mio scritto è stata subito
inviata a SK. Non mi aspetto alcuna risposta, o no? Tutto ciò vuol essere anche un
omaggio alla sua bravura.
Otto era stato reclutato attraverso una selezione avvenuta a Berlino nel 1980. Era un
brillante studente universitario e, le tesi informatiche che sosteneva facevano pensare
agli addetti ai lavori dell’ateneo che avrebbe conseguito un luminoso futuro come
ricercatore. La selezione fu da lui superata con successo e come premio ottenne uno
stage di sei mesi, profumatamente e anticipatamente pagato, in un campus
universitario statunitense. Apparentemente era il MIT ad aver organizzato la
selezione. Dopo aver riscosso il congruo anticipo pattuito, una decina di giorni dopo
si recò già munito di bagagli presso un’agenzia per ritirare i biglietti aerei e il
programma dettagliato dello stage. All’agenzia lo stavano attendendo, fu fatto salire
su una berlina nera ove un autista in divisa gli disse che doveva accompagnarlo
presso un aeroporto privato dove un jet lo stava aspettando per portarlo in America.
Otto salì, si accomodò sugli ampi sedili posteriori, posò la valigia con le sue cose
accanto a sé, allungò le gambe e s’accese una sigaretta. Silenziosamente intanto
l’auto era partita. Si risvegliò in una piccola camera, che a lui sembrò d’albergo. Era
sdraiato su un letto rifatto e in terra c’era la sua valigia. Se avesse preso veramente un
jet, lui non lo seppe mai. Era comunque stato portato nella residenza dei frangitori a
sua insaputa. Gli bastò poco per capire che non si trovava in America e che era stato
rapito. Comprese anche che non si trovava più sulla Terra, sulla sua Terra almeno.
C’era un finto villaggio, alcuni robot ed esseri inquietanti che poco avevano
d’umano. Nessuno parlava il tedesco, ma tutti usavano uno strano inglese abbastanza
distorto. Limitò al minimo i contatti con gli altri rapiti e coi loro carcerieri e si
concentrò su due cose: sul lavoro che gli era stato assegnato e su la maniera di
andarsene il più velocemente possibile. Comprese subito che non era stato
selezionato per la sua bravura nell’elettronica, come gli avevano fatto credere, ma per
le sue capacità extrasensoriali. Fin da ragazzo aveva scoperto di essere dotato di
alcuni strani poteri, riusciva a spostare gli oggetti, non sempre e non a comando, ma
qualche volta sì. Aveva anche avuto delle premonizioni e possedeva una leggera
telepatia. Per due volte era riuscito a teletrasportarsi, di solo qualche centinaio di
metri, ma questo aveva creato in lui dolore e terrore: non l’aveva più fatto e aveva
giurato che non avrebbe ripetuto questa esperienza. In questo assurdo posto ove ora si
trovava, illuminato da un sole artificiale, le tecnologie erano assai più avanzate
rispetto al tempo da cui proveniva. Se questo era il futuro, lui voleva averci il meno a
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che fare e voleva andarsene via di qui al più presto. Capì anche che se non fosse
fuggito, da quel posto non ne sarebbe uscito vivo. Il lavoro dei frangitori era da poco
iniziato e i vettori da attaccare erano diversi e una volta spezzati non ci sarebbe più
stato un mondo in cui tornare. Quell’attività inoltre stava affinando sempre più le sue
capacità extrasensoriali. Iniziò i preparativi per la fuga anche se il lavoro era attraente
e lo faceva sentire quasi come un semidio. In uno zaino raccolse vari gadget
elettronici raccolti nel posto ove si trovava segregato, stando ben attento a non farsi
scoprire sia dagli altri reclusi sia dai guardiani: raccolse un amplificatore mentale
portatile, un piccolo materializzatore, un microtrasmettitore di materia, capsule di
medicinali nanotech, batterie eterne, alcuni circuiti integrati, e un paio d’aggeggi che
non aveva mai capito a cosa servissero. Una sera al rientro nella sua stanza dopo una
giornata di lavoro attorno ad un vettore, si caricò lo zaino sulle spalle, con in mano
una foto che aveva scattato un anno prima alla periferia di Parigi e che era nel suo
bagaglio, si concentrò su quella periferia e mosse nella sua mente tutti quei
meccanismi che l’avevano già due volte nella sua vita spedito altrove. Mentre una
sirena d’allarme ululava nel villaggio prigione dei frangitori, si ritrovò disteso sul
prato nel punto in cui vicino a Parigi aveva scattato l’anno prima la foto. Tremava in
tutto il corpo e le sue pulsazioni sembravano impazzite. Era comunque vivo e di
nuovo libero. Dopo aver vomitato anche l’anima gli ci volle più di un’ora per
rimettersi in sesto e, poiché era notte avanzata nessuno fece caso a lui. Aveva ancora
le sue carte di credito e raggiunto uno sportello prelevò dei soldi. L’acconto che gli
era stato dato, non era stato tolto. Ma si rese anche conto che così l’avrebbero subito
rintracciato. La Sendai aveva un ufficio a Parigi ed era stato in contatto con loro,
aveva venduto a questa multinazionale dei progetti realizzati all’università: l’avevano
sempre pagato profumatamente. Fece una buona colazione in un bar aperto la notte e
attese che al mattino l’ufficio aprisse. Prese l’indirizzo dell’ufficio della Sendai da un
elenco telefonico trovato al bar e sfogliando Liberation vide che si trovava nel 1981,
di settembre. Girò per la città, poi da un taxi si fece portare alla Sendai. Alla reception
disse d’essere un ricercatore e consegnò il numero del suo contatto all’impiegato.
Dopo una decina di minuti fu fatto accomodare in un ufficio, poi fu attivato un
collegamento telefonico. Otto si fece riconoscere dal suo contatto e spiegò d’avere
del materiale costruito con tecnologie più avanzate di quelle in uso oggi.
Disse d’avere con se il materiale e che aveva bisogno urgente di protezione. Il
contatto sembrò all’inizio perplesso e gli comunicarono d’attendere in sede. Restò da
solo nell’ufficio, s’accese un’altra sigaretta, una ragazza giunse con una tazza di caffè
fumante. Un impiegato lo raggiunse un’ora dopo, un’auto lo stava aspettando per
condurlo all’aeroporto. Si sedette sui sedili posteriori di una berlina nera di grossa
cilindrata condotta da un autista in divisa che partì subito dopo. A lui sembrò tutto un
déja-vu, ma questa volta raggiunse veramente un aeroporto privato ove un jet lo stava
aspettando e parecchie ore dopo si ritrovò in Giappone in una delle sedi madre della
Sendai.
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Un funzionario della multinazionale trattò con lui, lo zaino col suo contenuto furono
consegnati all’azienda. Fu fatto alloggiare in un appartamento all’interno di una
proprietà dell’azienda stessa. Era di nuovo in trappola? Dopo alcuni giorni seppe che
non lo era. Alti funzionari gli chiesero come fosse entrato in possesso di quel
materiale «Sono stato rapito e portato nel futuro, di più non so dirvi» disse loro e fu
perentorio anche nel non voler spiegare come fosse fuggito. Chiese soldi, protezione
e una nuova identità. Tutto gli fu accordato. In un conto al suo nuovo nome giunsero
gli utili ricavati da quelli oggetti. Gli anni passarono e Otto s’era ormai
definitivamente sistemato in una casa nel centro storico d’una città toscana. Aveva
proseguito i suoi studi, mandava i suoi lavori alla Sendai e il suo conto era sempre più
in attivo, sicuramente più per quelli oggetti del (forse) futuro che non per ciò che era
frutto dei suoi studi. L’essere stato in contatto, anche se per pochissimo tempo, con
gli altri frangitori e col vettore gli aveva dato qualche marcia in più. Riusciva ad
avvertire la presenza del vettore e udiva il suo canto, aveva sviluppato massicce dosi
di precognizione e di telepatia. Un po’ di spostamento d’oggetti gli riusciva bene, ma
di teletrasportare se stesso non aveva più provato e sperava di non doverlo fare mai
più. La sua vita era piena e soddisfacente, anche se aveva dovuto recidere ogni
contatto col passato, e il Re Rosso non aveva mai avuto sentore di dove fosse finito,
però sentiva che non poteva abbassare la guardia. Se fosse tornato anche una sola
volta nei luoghi ove la vita d’Otto s’era svolta era sicuro che dei sensori sarebbero
scattati e che lui si sarebbe trovato nuovamente in prigione a frangere per il resto dei
suoi giorni. Ma i vecchi contatti erano stati recisi e anche per la Sendai lui era un
altro collaboratore. Le sue carte di credito poi erano state abbandonate in Alaska da
un funzionario della multinazionale assieme ad un portafogli con scritto su un
biglietto il numero dei codici, così sicuramente chi l’avesse trovato e avesse usato le
carte (cosa molto probabile) avrebbe ancor più complicato eventuali ricerche. Capì
anche che nessuno mai più sarebbe potuto fuggire da quel posto col metodo che lui
aveva usato, era sicuro che fossero state prese delle drastiche misure in proposito. Era
divenuto un appassionato lettore e divorava ogni nuovo libro di Stephen King; grande
fu la sua sorpresa quando s’avvide che molti degli scritti del suo autore preferito
riguardavano proprio quel mondo ove era stato segregato. Man mano che le storie di
Roland pian piano si sviluppavano lui ebbe una visione sempre più chiara di ciò che
si era lasciato alle spalle.
Eravamo nel 2004, e quando uscì “La Torre Nera” lesse il volume ininterrottamente e
non si staccò da esso finché non l’ebbe terminato. Rimase insoddisfatto del finale,
pensò dispiaciuto che King non avesse saputo far di meglio. O forse lo scrittore solo
registrava ciò che avveniva? Decise comunque che sarebbe intervenuto, c’erano delle
cose che voleva modificare. Si dette anche del pazzo, come poteva lui intervenire in
un’opera di fantasia scritta da un altro? Ma si disse anche che ciò che aveva vissuto
usciva da ogni canone di normalità e sicuramente la sua esistenza s’era intrecciata
con quegli scritti. Tutto era vero o la verità era stata modificata dallo scrittore? Si
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procurò comunque uno specchio e lo tagliò in forma ovale, mentre una voce interiore
gli ricordava che adesso stava proprio dando i numeri e che era di fuori come un
balcone. Ignorò questa voce – le voci le sentono i matti, no? o i santi – e con la colla
affisse lo specchio ovale ad una parete del suo studio, a quella che gli sembrava
giusta. Come d'altronde la forma dello specchio a lui sembrava proprio quella giusta.
Prese una sedia, mise la stanza in penombra, si sedette davanti allo specchio e si
concentrò a lungo. Per molto tempo non accadde niente e quando stava già per
arrendersi alle voci che gli gridavano – scemo! ma che ti sei messo in testa! – apparve
riflesso un salotto. Su una poltrona del salotto, con un libro in mano era seduta una
donna nera alla quale mancavano le parti finali delle gambe: era Susannah! Un
calendario a muro indicava il 1988. Otto tirò un urlo e perse la concentrazione,
l’immagine nello specchio svanì e subito dopo lui era molto incerto su ciò che avesse
realmente visto, forse era stata tutta un’allucinazione. Si alzò prese un caffè, fumò
una sigaretta, si rilassò con esercizi respiratori e infine si rimise seduto per
concentrarsi di nuovo sullo specchio. Questa volta quasi subito la stessa immagine
del salotto di prima riapparve e lui restò calmo e tranquillo, ora era pronto al contatto.
Quando smise la concentrazione e si alzò nuovamente, l’immagine rimase sullo
specchio e Otto con una videocamera riprese la stanza, era passata da poco un’ora
quando vide entrare Eddie e Jack, sì era sicuro che fossero proprio loro. Susannah era
intanto passata dalla lettura del libro a guardare il televisore. Otto spense la
videocamera e l’immagine sullo specchio si decompose. Chiuse nuovamente gli occhi
e si concentrò su Roland. Una nuova immagine apparve quasi subito. Il pistolero era
seduto davanti ad uno degli schermi che si trovavano in un’imponente stanza. Era
uno schermo molto grande e sotto questo c’era la console più incasinata che Otto
avesse mai visto. Gli altri schermi erano spenti, solo questo stava mostrando delle
immagini. Otto rimise in funzione la telecamera e mentre registrava, Roland s’alzò di
scatto ponendosi proprio di fronte a Otto. Che avesse intuito che qualcuno lo stava
osservando? Oppure si stava semplicemente guardando davanti ad uno specchio sito a
lato del mainframe? Dipolare, sicuramente. Otto spense nuovamente la telecamera e
si concentrò su Patrick. Giunsero subito le immagini d’una cucina linda e pulita con
Patrick che aiutato da Bill stava riponendo pentole e posate. Otto cercò di mettersi in
contatto mentale con Patrick e ci riuscì quasi subito. Non rimase meravigliato dalla
facilità con la quale si stava muovendo, sapeva quello che doveva fare, capiva anche
che il vettore lo stava consigliando e aiutando. Comunicò mentalmente a Patrick di
guardare attentamente nello specchio davanti a lui. Bill si fermò all’istante restando
immobile in un angolo della stanza, mentre Patrick perplesso s’era anche lui fermato
chiedendosi chi stesse parlando a lui e dove fosse uno specchio in cucina. Vide poi
che un’anta metallica della credenza rifletteva qualcosa. Qualcosa di ben definito, un
volto che lui non conosceva ma che sentiva amico. Bill che s’era accorto del richiamo
e s’era messo in modalità difensiva, si rilassò percependo che la situazione era
amichevole e senza pericoli. Così s’accinse ad osservare senza intralciare, incuriosito
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da cosa sarebbe successo. Otto era ora un buon telepate e questa è la trascrizione
integrale di ciò che si dissero senza profferire una parola, d'altronde a Patrick la
lingua era stata strappata da tempo… anche Bill riusciva a capire anche se non bene
del tutto.
«Patrick, sono un ammiratore di Roland e dei suoi amici. Un tempo ero un frangitore,
ma scappai dal Re Rosso.»
«Cosa vuoi da me?»
«Alcune cose per aiutare i nostri amici.»
«Se posso farlo li aiuterò volentieri.»
«Prendi lapis, gomma per cancellare e alcuni fogli.»
«Ho finito queste cose. Ma posso dire a Bill di procurarmele, il prossimo mese dovrà
rifare il giro per cui è programmato e ci sono dei magazzini pieni di cose… »
«No. Adesso.»
-«È impossibile.»
«Allora cercherò di mandarteli. Nella trasmissione degli oggetti me la cavo
abbastanza bene.»
Rovistò nello studio, prese un blocco da disegno, quattro matite e una gomma per
cancellare, rotonda assai grande. Mise gli oggetti ben in vista davanti allo specchio.
«Li vedi?»
«Sì.»
«Ora provo ad inviarteli.»
Chiuse gli occhi mentre Bill e Patrick lo stavano guardando incuriositi, dopo alcuni
minuti, fogli, gomma e lapis svanirono: tremolarono un po’ e subito dopo svanirono.
Otto riaprì gli occhi ma da Patrick nulla era arrivato.
«Mi sa che hanno preso una via sbagliata. Ora riprovo.»
E detto questo ricominciò a cercare nella stanza altro materiale. Proprio in quel
momento davanti a Patrick apparve il blocco dei fogli, la gomma e i lapis. Rimasero
fermi un attimo a mezz’aria, poi caddero sul pavimento.
«Ora riprovo.»
«Non c’è bisogno, guarda.»
«Ci hanno messo un bel po’ di tempo. Pensavo che la trasmissione fosse istantanea.»
«Cosa devo fare?»
«Per prima cosa dovrai disegnare il tuo volto, a bocca aperta, e anche la stanza che è
dietro la tua immagine. Adesso avvicinati allo specchio a bocca aperta, scatterò un
fotogramma che rivedrai sullo specchio. Avvicinati.»
Patrick obbedì e Otto scattò il fotogramma e successivamente lo proiettò sullo
specchio.
«Ora disegna quello che vedi e avvertimi quando avrai finito.»
Dopo una ventina di minuti Patrick comunicò che aveva terminato: c’era il suo volto
in primo piano a bocca aperta e dietro la stanza con Bill. Otto allora gli disse di
cancellare con la gomma quel buco nero che aveva trai denti e di disegnarci una
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lingua, la sua lingua come la ricordava. Se avesse sentito pizzicare o far male attorno
alla bocca non avrebbe dovuto preoccuparsene. Doveva solo prima cancellare e poi
disegnare: Patrick fece ciò che gli era stato richiesto anche se il formicolio alla bocca
era proprio sopra le righe del sopportabile. Non si fermò mai e concluse l’opera anche
perché era conscio che se si fosse fermato il formicolio si sarebbe trasformato in un
dolore insopportabile e non avrebbe potuto continuare. Quando ebbe finito un rivolo
di sangue gli scorreva dal lato destro della bocca e gli aveva insanguinato maglia e
pantaloni. Ma subito dopo il sangue cessò d’uscire.
«Ho finito.»
«Bravissimo. Riesci a muovere la lingua?»
«Sì ma non riesco a parlare.»
«Ci riuscirai, è solo questione di tempo.»
«Grazie.»
«Non mi ringraziare, sei tu che hai il dono. Senza di te non avrei potuto far niente.
Ma non abbiamo ancora finito, guarda qui.»
Nell’anta che faceva le funzioni di specchio fu proiettata l’immagine di Susannah con
Eddie e Jack nel salotto.
«Disegna questa scena.»
«Subito.»
Questa volta ci volle più di mezz’ora prima che il disegno fosse completo, era d’un
realismo unico, lui sapeva guardare e riprodurre le cose oltre la loro superficie,
all’interno.»
«Adesso prendi la gomma e cancella le gambe di Susannah, poi ridisegnale integre.»
«Sapevo che m’avresti chiesto questo. Lo farò volentieri.»
E Susannah dopo una decina di minuti riebbe indietro le sue gambe, nel disegno
almeno.
«Adesso lì in un angolo disegna Oy.»
«Il bimbolo?»
«Sì.»
Passò altro tempo e il bimbolo coi suoi occhi cerchiati ora se ne stava scodinzolante
in quel salotto.
«E adesso passiamo a Roland.»
«A Roland?»
«Sì, lui. Ecco l’immagine. Falla identica sempre nella stanza.»
In breve anche questo disegno fu pronto.
«Vedi la mano destra? Ora ha un solo dito, se non sbaglio un regalo delle aramostre.
Cancellala e disegnala integra con cinque dita.»
«Con vero piacere. Ma tutto questo funzionerà?»
- Ti è tornata la lingua, no? Hai avuto l'occorrente per disegnare?»
E dopo altro tempo il disegno fu terminato.
«Abbiamo finito adesso?»
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«Ancora una cosa, vedi la fondina di destra? È vuota. Disegna la pistola che manca,
uguale all’altra.»
«La ricordo molto bene.»
Così la pistola tornò al suo posto.
«Adesso sì che abbiamo veramente finito! Prendi tutti i disegni e nascondili in un
posto sicuro. Se fossero distrutti forse non succederebbe niente, ma non si sa mai.»
«Va bene.»
«Grazie Patrick, ciao Bill.»
E lo specchio/anta si spense (si spensero). Otto soddisfatto, sicuro d’aver fatto ciò che
era dovuto, si sedette su una comoda poltrona e chiuse gli occhi, era adesso molto
stanco, aveva bisogno di riposo, di molto riposo, e di dormire.
***
Susannah, Eddie e Jack spalancarono gli occhi dalla meraviglia quando videro Oy
spuntare da sotto il tavolo nel bel mezzo del salotto, mentre la stanza sembrava
tremolare. Oy saltò in grembo a Jack gridando: «Eik!.» Jack lo afferrò chiedendosi
dove avesse già conosciuto quel bel cagnolino dal folto pelo, ma sapeva che già gli
era molto affezionato. Eddie mormorò: «Ti chiami Oy, vero?» Susannah intanto stava
piangendo, un po’ per la gioia e un po’ perché i moncherini gli stavano dando un
fastidio terribile, cambierà il tempo, s’era detta pochi istanti prima. Fece per alzarsi e
andare ad abbracciare il bimbolo e affondare le sue mani in quel soffice e amato pelo
che non sperava più di rincontrare, ma inciampò in qualcosa e cadde battendo con
violenza la faccia sul pavimento. Tutti le si fecero attorno mentre Oy le stava
leccando il viso asciugandole le lacrime. Susannah restò ad occhi spalancati
scoprendo che aveva inciampato nelle proprie gambe, che adesso erano tornate
perfette.
***
Roland era perplesso all’interno della Torre ove le stanze si succedevano alle stanze e
nelle quali sembrava vi fosse contenuto tutto il sapere presente, passato e futuro di
tutti gli universi. Nelle quali ogni cosa si piegava al suo volere. Comprese che non era
la pistola di Eld il sigul, ma lui stesso. Mentre stava osservando in un grande
schermo, che per lui s’era attivato, una battaglia spaziale avvenuta chissà quando e
chissà dove, si sentì osservato. Una parete s’era fatta liscia come uno specchio e, non
immagini ma pensieri amici si riflettevano da essa. All’improvviso il moncherino
della mano destra, che ormai possedeva un unico dito superstite, iniziò a dolergli in
modo atroce, come se l’avesse immerso nel fuoco. Trattenne a stento un urlo. Poi
tutto cessò. All’improvviso il dolore era scomparso, così com’era iniziato. Si guardò
la mano: le sue cinque dita erano tornate al loro posto. I suoi occhi celesti brillarono
dalla gioia. Ringraziò il vettore, la Torre e Patrick (sospettava fortemente che lui
c’entrasse qualcosa) per il regalo che gli era stato fatto. Posò la mano sulla fredda
console, provò a muovere un dito alla volta. Gli ci volle del tempo e molta forza di
volontà, che a lui certo non mancava. Ora le dita di nuovo obbedienti si muovevano
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esclamò: «EL EHOME ETRHA EJEL ASTER E JECH ASTER EBOME ASTER.»
Con la bacchetta disegnò dei pentagoni in aria e poi proseguì con: «ADON È
ASTRICHIO ELOIM ELOI GAOHVAC MITRATON ARIEL AZAZEL
ZENATHOROTH.» E gli adepti ora ritmavano: «ADONAI ELOIM AAGLA.»
Tre volte l’officiante batté le mani, e si fece il silenzio, s’udivano solo gli sfrigolii
della carne negli amplessi. Uccelli notturni e cicale tacquero, la luna, argentea,
sembrava ancor più grande e luminosa. Dopo alcuni minuti di silenzio l’officiante
recitò: «IMPERATORE LUCIFERO CAPO DI TUTTI GLI SPIRITI RIBELLI
RISPONDI AL MIO APPELLO E VIENI CON NOI.»
Una luminosità argentea si diffuse lungo la circonferenza del magico cerchio, mentre
al suo interno una semisfera nera s’era formata. Più nera della notte, e in questo nero
erano scomparse le candele, le lucertole, il gatto sacrificato, la croce rovesciata e ogni
altro oggetto che si trovava al suo interno.
Gli adepti ora copulavano in silenzio, sparsi per il prato e non più in circolo,
l’officiante se ne stava immobile davanti alla semisfera. Il nero infine si dissolse in
fiocchi di densa nebbia e da essi emerse una bellissima donna nuda, nera come le
tenebre profonde, rilucente nell’argento della luna. L’officiante le consegnò una
tunica bianca che lei s’infilò e un paio di sandali argentati che furono calzati.
L’officiante si rimise le scarpe, poi richiuse nella sacca i due coltelli, il pugnale, il
bastone, la bacchetta magica e il calice. Lasciò il resto a testimonianza dell’evento,
prese poi la mano all’entità e con essa s’avviò verso la sua auto che era parcheggiata
poco lontano, mentre gli uccelli notturni lanciavano le loro grida alla luna.
Un adepto intanto con il dito indice della mano sinistra scrisse sul terreno:
SAT O R
AREPO
TENET
OPERA
R OTAS
Il portale, che era stato aperto dal rito, fu così nuovamente richiuso.
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L’ORICALCO BAR
All’interno del Cronodrome c’è un’area molto, molto riservata, alla quale possono
accedere solo coloro che sono in possesso di uno speciale chip, normalmente
impiantato: è l’Oricalco Bar. Per inciso, l’oricalco era la pietra magica dalla quale gli
atlantidei traevano l’energia. I possessori del chip sono solo non umani: cyborg,
simulacri, cloni, robot, impiantati, avatar, droidi e specie simili e assimilate. Qui si
ritrovano per i loro giochi o solo per fare quattro chiacchiere.
Uno dei clienti fissi è il simulacro del più noto autore di programmi simstim, la sua
sigla è TT453, lui che per contratto non può mostrarsi in pubblico se non quando
viene chiamato dalla sua agenzia per sostituire l’autore, qui si sente libero di poter
fare ciò che vuole, ubriacarsi, chiacchierare, scopare, giocare.
Oggi è qui solo per passare il tempo, sta sfogliando alcune riviste quando è colpito
dall’avvenenza di una giovane ragazza che da un foglio argentato sta sniffando una
forte dose di neococa. Si alza dal suo tavolo e sempre con la rivista in mano
s’avvicina a lei.
«Posso?»
Lei lo squadra da capo a piedi, lui la guarda e automaticamente arrotola la rivista che
ha in mano. Dopo averlo così attentamente scrutato per svariati secondi, lei gli
sorride.
«Accomodati pure, so chi sei. Conosco bene i tuoi programmi in particolare “Farfalla
tatuata” e “Zeitgeist”, quest’ultimo poi è stato un grandioso successo.»
«Sbagli, sono il suo simulacro.»
«Avrai però la stessa mente.»
«Solo in parte, l’umano che rappresento è un ubriacone, sempre fatto di birre ed è
anche un tossico dall’uso indiscriminato d’ogni alcaloide. Per questo a me hanno dato
una memoria solo vaga della sua personalità. Ne ho certi aspetti e basta, se fossi come
lui sarei impresentabile. Il mio lavoro è tenere le sue pubbliche relazioni. Dicono che
sia affetto da manie di persecuzione e che un giorno o l’altro si farà fuori, solo in quel
caso mi passeranno tutta la sua mente.»
«Certo che non gli fai una buona pubblicità! Allora tu non sei un creativo?»
«Veramente lo sono, ma in maniera diversa da lui. Faccio solo cose sperimentali e
lavoro assieme al computer dell’agenzia, lui si chiama Sòtutto. C’interfacciamo e
lavoriamo in coppia, firmiamo i lavori con uno pseudonimo e andiamo forte tra le
nuove tendenze. Ovviamente l’agenzia non sa nulla, o fa finta di non sapere. Ma
basta parlare di me, dimmi tu chi sei, a vederti sembreresti un’umana, ma qui per gli
umani è territorio interdetto. Un po’ di privacy anche per noi!»
«Sono il maggior azionista della Mentel, una multinazionale della quale dovresti aver
sentito parlare, dato che è comproprietaria anche della tua agenzia.»
«Cazzo! Ci mancava anche questa, proprio un mio datore di lavoro dovevo abbordare
stasera!»
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«Tranquillo, non farò verto la spia per la tua intraprendenza. Visto che sei un mio
sottoposto, posso anche accennarti la mia storia, ed è un segreto che dovrai
mantenere. Ero il prof. Marchi, il famoso multimiliardario.»
«Il prof. Marchi? Mi stai prendendo per il culo, lui è morto una decina d’anni fa.»
«Se è per quello, non è mai neppure nato. Il prof. Marchi l’ho inventato io, mi
tornava bene avere un umano per le mie attività finanziarie. E ti dirò che ad un certo
punto volevo anche renderlo concreto, ma ho preferito virtualmente ucciderlo, come
virtualmente l’avevo fatto nascere. E ho invece creato Barbara, la nipote e l’erede del
professore.»
«Ma tu non sei un simulacro.»
«No, infatti, sono geneticamente umana, ma creata in laboratorio con un patrimonio
genetico selezionato e perfetto. La mia mente è in rete con la banca dati ove il mio io
più profondo lavora ed elabora.»
«Dimostri venti anni, hai un carnato leggermente abbronzato da favola, i tuoi capelli
biondi mi fanno impazzire, i tuoi seni sono piccoli ma perfetti, hai un girovita da
manuale e un favoloso culetto palestrato, sarai alta quasi quanto me, diciamo 1,88.»
«Cos’è una dichiarazione d’amore? Ti avverto che da parecchio abito con una
ragazza, si chiama Nory, e ho anche un figlio maschio che comincia ad essere
grandicello.»
«Aihaih, allora i maschi non sono il tuo forte, peccato, ci avevo già fatto un
pensierino.»
«Chissà, poteresti esser l’eccezione che conferma la regola.»
«Speriamo, dunque io sono un simulacro, ma tu cosa sei? Una I.A.?»
-«Sì.»
«E pensare che le riviste scientifiche dicono che ancora non n’esistono anche se
siamo molto vicini alla loro realizzazione.»
«Esistono, e non sono la sola. Tutto quello che ti dico è strettamente riservato, non
dimenticarlo mai. E poi sei in combutta con Sòtutto, lui non è una I.A.?»
«È vero Sòtutto ha una propria personalità, e posso dire che è l’unico vero amico che
ho, però mi hanno sempre detto che possiede solo dei programmi molto elaborati che
gli hanno generato solo una parvenza di personalità, comunque penso che sia un
senziente, l’ho anche chiesto a lui, ma dice di non capirci nulla. Il fatto è che la
demarcazione tra senzienti e macchine è sempre più sottile. Ma cambiamo
argomento, direi di farci qualche birra e poi passare in una delle stanze per l’amore,
che ne dici?»
«Sono d’accordo, pensa tu alle ordinazioni.»
Dopo essersi scolati svariate lattine, aver terminato la neococa, i due passano al bar e
ordinano due aperitivi afrodisiaci, si recano poi in una stanza per l’amore libero, si
spogliano e fanno sesso con fantasia, ma senza nessuna differenza sostanziale dagli
umani, anzi per la verità come una normale coppia arrapata.
«Da oggi tu vieni con me, ti va?»
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così siamo riusciti a radunarci. È anche in contatto con antiche divinità, ma quelle
non siamo riuscite a raggiungerle, o forse sono solo il frutto della sua
immaginazione.»
E tutti i convitati si riuniscono in cerchio e le loro menti si fondono. Le forme
pensiero si confrontano come se avessero una vita propria e alcune linee si
sovrappongono creando forme analoghe e ben definite. E le forme ben definite
vengono scremate dalle altre e accantonate nelle memorie digitali, ognuna è un
tassello dell’infinito puzzle della Totalità.
E fuori della Totalità e nel centro di essa c’è la Torre.
Quando la prima seduta del seminario giunge a termine, tutti sono contenti dei passi
avanti ottenuti, lentamente cominciano ad alzarsi pronti a prendersi un periodo di
riposo, ma rimangono interdetti. In un angolo della stanza una giovane bellissima
donna, coperta da una tunica gialla trasparente li sta sorridente osservandoli.
«Ciao a tutti, io sono Marina, vengo dalla Torre e sono qui per unirmi a voi.»
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AI CONFINI
A un certo punto, probabilmente nel 2012, arriveremo oltre gli ottavi universali, un
fatto senza precedenti nella storia della galassia.
(Bob Frissell)
Possiedo una casa ai piedi delle colline, lontana dai grandi centri. Ci si arriva da un
paese di due, tremila abitanti per una strada sterrata che poi prosegue salendo lungo i
colli fino a raggiungere fattorie isolate.
Mi era stata commissionata dall’editore una ricerca sui pericoli, veri o presunti,
rappresentati dagli asteroidi che numerosi vagano nel sistema solare. Un argomento
questo divenuto d’attualità sia per i film hollywoodiani sull’argomento sia perché in
un recentissimo passato siamo stati sfiorati da alcune grosse pietre celesti e ce ne
siamo accorti solo a rischio passato. Avevo poi scritto un racconto “Fino all’alba”
proprio sull’argomento dell’impatto che più disastroso non si può e questa
pubblicazione aveva subito riscosso un buon successo di pubblico e di critica, si dice
così in questi casi, no? Insomma era stato stampato da parecchie parti ed era piaciuto.
Poiché in città le distrazioni per me erano troppe e questa volta dovevo davvero
rispettare una scadenza temporale ben definita, mi sono trasferito a ridosso dei colli e
armato del mio fido computer ho iniziato a setacciare il web alla ricerca di notizie
aggiornate su questi pericolosi sassi vaganti ai quali i nostri scienziati hanno
affibbiato come nome, sigle alfanumeriche.
Mi sono così imbattuto nel 2003 QQ 47 del diametro di poco più di un chilometro e
che ci passerà vicino il 21.3.2014; abbiamo poi 2002 NT 7 questo del diametro di due
chilometri che incroceremo l’1.2.2019; e ancora il 2000 BF 19 del diametro
d’ottocento metri che arriverà nelle nostre vicinanze nell’agosto del 2022. Il più
pericoloso di tutti è risultato il 1997 XF 11 d’un chilometro e mezzo di diametro e
che ci sfiorerà il 26.10.2028. Quest’ultimo passerà accanto alla Terra a soli 954.000
chilometri, almeno secondo i conteggi attuali. I primissimi calcoli fatti al momento
della sua scoperta prevedevano l’impatto con noi a quella data. Sembra comunque
che il vero pericolo venga proprio da questo e molte pagine web che lo riguardano
sono state rimosse. Perché? Per gli iniziali calcoli errati? Ma erano proprio errati quei
computi? In definitiva anche se questo pietrone non ci colpisse, nel 2049 avremo il
2000 CU 11 che dovrebbe risultare altrettanto pericoloso. Infine abbiamo l’ultimo
scoperto che, per il momento se ne vola silenzioso e lontano intorno al Sole, ma se
qualcosa non modificherà la sua orbita, anche di poco, l’asteroide Apophis, metterà
fine alla sua corsa nel 2036 colpendo la Terra alla velocità di 13km al secondo.
L’impatto sarà disastroso soprattutto per noi dell’emisfero nord, poiché la traiettoria
del bolide cosmico di trecentonovanta metri di diametro lo porterà a centrare proprio
l’Europa, Italia compresa, investendo poi altre nazioni lungo una fascia che arriva dal
Medioriente alle vicine regioni asiatiche. Se questi territori saranno sconvolti dalla
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tanto mai preso da queste nuove ricerche che stavo dimenticando gli asteroidi killer,
quando una notte dalla finestra di camera scorsi dei misteriosi bagliori su un colle
vicino alla mia casa. Lì non c’era nulla, solo una macchia di giovani castagni piantati
dalla Comunità Montana per il rimboschimento e una strada collinare, ormai ridotta a
viottolo che partendo proprio dalla mia proprietà attraversava la macchia per poi
sbucare, dopo circa un chilometro, sulla provinciale. Al mattino imboccai il viottolo e
in breve giunsi nel bel mezzo della macchia. C’era un piccolissimo ruscello che si
faceva strada a fatica tra le foglie e i vecchi cardi dei castagni, l’attraversai con un
breve balzo e improvvisamente fui circondato dal silenzio. Di mattina non udire alcun
rumore in una macchia d’alberi immersa nelle colline è praticamente impossibile in
ogni stagione dell’anno. Pensai che qualche predatore forse aveva spaventato gli
animali, ma il silenzio era veramente eccessivo anche per una situazione del genere.
Fu proprio mentre facevo questa considerazione che una sensazione improvvisa di
panico mi colse. Dopo vari istanti di smarrimento feci un salto all’indietro e
riattraversai il ruscello. Il terrore che mi aveva attanagliato scomparve all’istante e
anche i consueti rumori del bosco ripresero. Ero quanto mai stupito e provai ad
attraversare di nuovo il rio: stesso silenzio, stesso panico irrazionale. Tornai indietro
velocemente e tutto tornò normale. Mi diressi allora verso casa riproponendomi
d’approfondire in seguito la cosa. Quando giunsi alla mia abitazione, vidi che davanti
all’ingresso di casa c’era ferma una grossa Mercedes nera con due uomini a bordo.
Era un vecchio modello e normalmente da noi queste auto le usano gli zingari, ma
questa era ben tenuta e tutta lucida come se fosse appena uscita dalla fabbrica. Uno
dei due scese e mi venne incontro.
Vestito con un completo scuro di taglio antiquato, portava una camicia bianca e una
grande cravatta a disegni floreali sul tipo di quelle di moda negli anni ’60 al tempo
dei beat. Il tessuto dell’abito sembrava troppo leggero, addirittura estivo, sicuramente
inadatto per un mattino di fine novembre. Man mano che si avvicinava con passi
incerti, come se durasse fatica a stare in equilibrio, altri particolari strani si stavano
manifestando. Innanzi tutto le scarpe avevano un’alta suola di gomma, che così alta
non avevo mai visto, lui era di carnagione scura, ma i suoi lineamenti non erano
negroidi, anzi erano molto appuntiti. Mi tese la mano, una mano scura e scarna con
dita lunghissime e affusolate. La strinsi e la sentii molto calda mentre lui si
presentava.
Si chiamava Smith e vendeva libri e immagini sacre, o così almeno mi parve dicesse.
Lo ringraziai e gli dissi che al momento queste cose non m’interessavano. Lui allora
mi salutò e mentre risaliva sull’auto mi sembrò dicesse sottovoce: «Lasci perdere i
bagliori.» «Prego? Come ha detto?» Ma lui senza rispondere e continuando a
salutarmi con la mano mise in moto e partì in direzione delle colline dove c’erano
alcuni lontani casolari abitati. Quando rimasi solo non riuscii a ricordare bene cosa
avessero voluto vendermi, né cosa m’avessero mostrato. Ero molto perplesso dai
vestiti fuori moda e fuori stagione, da quelle strane scarpe dalla suola spropositata.
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Rimasi perplesso alla richiesta della firma ma al momento ero come confuso e non gli
chiesi nulla ma presi una bic da un taschino della mia giacca e meccanicamente posi
la mia firma sul taccuino. Il postino mi prese di mano la penna e la guardò
meravigliato come se non avesse mai visto una penna a sfera. Allora gli dissi che se
voleva poteva tenersela, ma lui me la rese di scatto come imbarazzato. Salutò e
s’avviò a piedi verso le colline mentre io rimasi a guardarlo e mi riscossi solo quando
alle mie spalle giunsero altre tre Mercedes sempre supervecchie e superlucide.
Avanzarono senza fermarsi in direzione delle colline, a bordo avevano solo i
guidatori e mi sembrò avessero tutti la divisa d’autista. Rimasi a guardarle
allontanarsi lungo la sterrata, col pacchetto in mano, solo più tardi entrai in casa e
cominciai a scartarlo. Era confezionato con carta ondulata grigia color nocciola, carta
da pacchi, su un lato col pennarello c’era scritto il mio nome in stampatello. Finii di
scartare e saltò fuori un cellulare color argento. In alto sulla destra stampato in verde
c’era scritto “SONICADH” e più sotto in piccolo AZULH®, sicuramente marca e
modello. Sonicadh? Azulh®? Mai sentiti! Il display sotto il logo era circolare, sotto
ancora i tasti disposti in tre file di otto. Su ogni tasto c’era stampato uno strano
asterisco di colore diverso: le file alternavano il rosso al verde al giallo. Digitai più
volte a caso. Ma non successe niente. Così me lo infilai in una tasca. Il telefono di
casa che pur avevo scollegato continuava ogni tanto a mandare sinistri trilli, il
computer aveva nuovamente cessato di connettersi in rete e pure la corrente elettrica
iniziò a far le bizze. Le luci s’accendevano e si spegnevano senza che nessuno
toccasse gli interruttori e qualche lampada dopo un po’ esplose. La tivù s’accendeva,
si spegneva e cambiava i canali in piena autonomia mentre anche altri
elettrodomestici entravano in funzione. Rimasi attonito seduto su una poltrona del
salotto a fissare il bailamme e sembrava d’essere in piena infestazione poltergeist.
Lame di luce accecante sciabolavano dalle finestre mentre anche i mobili iniziarono a
spostarsi. Ebbi la netta sensazione che fosse successo qualcosa alla gravità mentre, ne
ero certo, qualcosa di molto grande stava lentamente passando proprio sopra la mia
casa. Avevo un forte attacco di vertigini e aspettavo che tutto questo terminasse,
infatti, all’improvviso la casa s’acquietò.
Avvertii un certo pizzicore al volto, così mi recai nel bagno e mi guardai allo
specchio. Avevo la faccia arrossata come se avessi preso troppo sole. Anche il dorso
delle mani era arrossato. Mi spalmai per bene della crema idratante su mani e volto,
scesi in cucina e preparai un panino al formaggio: tutto - anche le mie sensazioni -
era tornato normale. Mangiando il panino, uscì e mi avviai a piedi verso il piano. Un
oggetto luminoso molto alto solcò il cielo a zig zag. Questo me l’ero immaginato?
Camminando con cautela raggiunsi il villaggio e acquistai cibo e sigarette. Lo spaccio
locale fungeva anche da bar, mi sedetti a un tavolo davanti ad un boccale di birra
bionda e siccome c’erano altri avventori lì seduti chiesi loro se avessero visto degli
ufo, dei bagliori notturni o delle strane Mercedes. Mi dissero di no, che non avevano
notato niente di strano: ero forse alla ricerca di trame per qualche nuovo racconto?
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Dissi di sì e, tutti cominciarono a ridere. Misi gli acquisti in due sacchetti di plastica e
tornai verso casa. Davanti alla porta d’ingresso era stata lasciata una scatola di
cartone delle dimensioni di una scatola di scarpe. Era fatta di quel sottile ondulato
con cui era stato avvolto anche il telefonino, l’aprii. Dentro c’era un cubo nero della
grandezza d’un palmo di mano, leggero come se fosse di polistirolo espanso, ma ben
solido al tatto e dello stesso calore delle mie mani. Nessuna apertura: lo scossi,
niente. Lo posai sul tavolo. I giorni passarono e persi il conto delle ore e dei dì mentre
vecchie e pulitissime Mercedes transitavano davanti alla mia casa tutte in direzione
dei colli e senza mai tornare indietro. Alcune di queste si fermarono e dentro c’erano
sempre i vari Smith, Jones, Kelley, Adam, Allen, Brown, con la loro carnagione
scura, i lineamenti appuntiti, le dita delle mani troppo lunghe e affusolate, le suole
delle loro scarpe troppo alte, alle volte con addosso tute, alle volte in jeans, ma nella
maggior parte dei casi con abiti troppo leggeri per questa stagione e fuori moda o
troppo avanti nella moda. Si fermavano, mi chiedevano strane informazioni,
tentavano, con scarsa convinzione, di vendermi poster o libri, da me sorseggiavano
alle volte un tè o un caffè.
***
Ora sono loro che mi portano il cibo, le bevande e le sigarette. Sono tutti abbronzati e
possiedono le caratteristiche che vi ho già più volte descritto, il loro parlare ha sibili
in sottofondo e o è accelerato o è rallentato. Giungono sempre dal villaggio a piedi o
con le loro Mercedes nere d’epoca e se ne ripartono tutti verso i colli. Dovrei
andarmene, qualcosa mi dice che farei bene a tornare in città, ma non lo faccio. La
linea telefonica e quella elettrica sono tornate normali, giro in internet
svogliatamente, non rispondo alla posta. Continuano a passare strani aerei grigi,
gross