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Tesi alternativa alle numero 5, 6 e 7

…alla fine c’era da salvare la terra


Beh, alla fine poi non è andata così male: c’era la terra, la terra da lasciare a chi sarebbe venuto
dopo, la terra su cui ricominciare, in mezzo a tutto quell’orrore. Insomma c’era da salvare la terra
e noi la terra l’abbiamo salvata.
Alcide Cervi.
Alla fine c’è sempre un pezzo di terra da salvare, c’è sempre un nucleo di valori, una comunità di
uomini e donne (la Sinistra Giovanile, per noi, e i Democratici di Sinistra), alla cui sopravvivenza
noi sottomettiamo i nostri destini individuali; non perché questi valori o questa comunità restino
immobili, intangibili, come nella vetrina di un museo; ma perché non vengano persi, non venga-
no disfatti; perché al di là delle nostre carriere personali, delle nostre vicende contingenti, dei no-
stri interessi immediati e delle nostre questioni private, quelli che verranno dopo potranno un
giorno trovare quelle cose da qualche parte, e da quelle cose ricominciare.
Noi siamo convinti che questo paese abbia ancora bisogno di un grande partito di sinistra. Non ci
si iscrive ad un partito solo perché ne si condividono i programmi ma perché lo si ritiene uno
strumento sufficiente a trasformare la società in un dato momento storico: per noi il Partito De-
mocratico, che nasce già sotto una pesante egemonia moderata, non può essere lo strumento in
grado di produrre oggi in Italia un cambiamento radicale.
Il cambiamento radicale è la nostra identità e le identità non si negoziano. I simboli, le forme pos-
sono anche trasformarsi; ma non le identità: chi sei, chi rappresenti, in che cosa credi.
Noi crediamo che il nuovo secolo abbia ancora bisogno di una forza che rappresenti gli ultimi, gli
oppressi contro gli oppressori; noi crediamo che il nuovo secolo abbia bisogno di una forza che
creda ancora nel primato dell’uomo sul profitto, una forza che creda ancora in un grande proget-
to di emancipazione dell’essere umano, in un grande progetto di liberazione dal bisogno.
Noi crediamo che quella forza si chiami ancora Socialismo.

UNA NUOVA CONFLITTUALITA’ TRA CRISI E BISOGNO DI PARTECIPAZIONE

Gli anni nei quali la nostra generazione è cresciuta politicamente sono stati anni complessi, anni
caratterizzati da spinte contrastanti eppure estremamente nette. Anni che hanno visto in tutto il
mondo occidentale, in Italia con le sue peculiarità, sgretolarsi inesorabilmente le vecchie forme
della partecipazione che erano state tipiche della politica del ‘900, soprattutto della sinistra, e il
venire avanti, seppur contrastato, di nuovi modelli di concepire l’agire collettivo e di rapportarsi
all’interesse generale.
Con la progressiva erosione del modello produttivo e sociale fordista nei paesi sviluppati, dagli
anni ottanta in poi, per la sinistra viene meno fondamentalmente un’idea di concepire la parteci-
pazione che ha come schema, ancora di più che come sostanza, il conflitto sociale tradizional-
mente inteso (“il conflitto di fabbrica” come terreno di accumulazione di forza che si esprimeva
nella partecipazione più o meno attiva ad un partito che rappresenta il tentativo di superare quel
modello di società che produce lo scontro). Vengono meno, dunque, tutte le implicazione pratiche
che questo schema aveva comportato: i partiti di massa, la nettezza della rappresentanza sociale
dei partiti stessi, la spettacolarizzazione del dibattito politico: tutti fenomeni che con le loro mani-
festazioni pratiche hanno caratterizzato buona parte della recente storia politica del nostro paese:
lo schianto della prima repubblica, tangentopoli (con l’annientamento di quei partiti che avevano
perso ormai ogni contatto con le forze della società che esprimevano interessi collettivi), il dilaga-
re del berlusconismo.
Eppure questi anni hanno visto contemporaneamente esprimersi nuove ed importanti forme di
partecipazione orientate nel senso, o meglio nello schema, di una nuova conflittualità che scaval-
ca la semplice componente di classe che aveva costituito la strategia dei socialismi europei nel no-
vecento.
Una nuova conflittualità, dunque, forse più complessa e articolata di quella che ha contribuito a
costruire democrazie progressive e partecipate nell’Europa nel secolo scorso. Una conflittualità
basata sulla contrapposizione tra un capitale sempre più internazionalizzato, svincolato da con-
trolli statali, e un lavoro che diventa sempre più parcellizzato, delocalizzato o delocalizzabile: una
conflittualità che riguarda insieme dunque sia i paesi ricchi che i rapporti Nord-Sud del mondo.
Una conflittualità tra le istanze di pace ed un sistema economico e politico che tenta tramite la
guerra di costruire e mantenere i suoi spazi. Una conflittualità tra la spinta ad uno sviluppo indi-
scriminato e insostenibile ed un approccio responsabile ai problemi ambientali. Una conflittualità
che si modella sulle forme di un lavoro avviato verso una precarizzazione che diventa sempre più
un tratto esistenziale dell’ individuo-cittadino-lavoratore. Una conflittualità che segue i confini
tra inclusione ed emarginazione tra gli spazi della cittadinanza e la città degli esclusi per dirla
con Deridda (migranti, tossicodipendenti, “poveri cronici”). Una conflittualità tra una produzio-
ne spesso arrogante e le ragioni di un consumo che prova a guadagnare spazi di criticità. Una
conflittualità che riguarda, ancora, la lotta di tutte le parti della società in un modo o nell’altro
svantaggiate: le donne in una società ancora troppo maschilista, i giovani in una società geronto-
cratica, gli omosessuali in una società che ancora troppo spesso non considera la libertà di orien-
tamento sessuale un diritto da tutelare attivamente.
Insomma, messe in crisi le forme di partecipazione del secolo precedente, alla Sinistra non resta
che guardare, per ricostruire se stessa, a questo nuovo pressante bisogno di partecipazione che
vede quel complesso, diversificato,ma non per questo eterogeneo, sistema di istanze di cui parla-
vamo prima come elemento catalizzatore.
Una nuova Sinistra dunque per una nuova conflittualità.

CRISI E RIASSETTO DELLA SINISTRA: UN ANALISI CHE PARTE DAI PROBLEMI

Arrivati a questo punto del discorso risulta chiaro come l’analisi fin qui svolta presuppone
un’opinione assai netta sullo stato della crisi della sinistra a livello mondiale. Negli ultimi trenta
anni, viene meno quello che era stato il paradigma dell’azione strategica delle varie famiglie so-
cialiste, per lo meno dalla fine del XIX secolo: incentrate per dirla con Marco Revelli “sulla coppia
conflitto sociale/stato nazionale (il conflitto di fabbrica come terreno di accumulazione di forza
da spendere politicamente, grazie all’azione del partito, nella conquista e nell’uso dell’apparato
statale in funzione di correzione sia delle disuguaglianze che dell’anarchia propria del mercato)”.
1. Il primo problema, forse il più complesso, riguarda l’erosione della base sociale, dei socia-
lismi europei: possiamo individuare nell’azione della sinistra europea due concetti del
termine classe: il primo potrebbe essere inteso come il gruppo d’individui che si pone nella
stessa maniera nei confronti dei vari fattori produttivi; il secondo è più sfumato sul piano
concettuale ma più pregnante sul piano ideologico: ovvero il concetto di classe come vei-
colo di costruzione del consenso: si potrebbe, quindi, definire come l’idea che i gruppi so-
ciali hanno del loro rapporto con i fattori economici. La sinistra europea ha imposto la
propria egemonia politica dalla fine della guerra alla fine degli anni settanta nella misura
in cui è riuscita a costruire un’alleanza di interessi progressisti dei vari gruppi sociali reali
nel quadro di una forte contrapposizione ideologica tra la borghesia e la classe operaia
(come da seconda definizione). Oggi l’egemonia politica della sinistra va ad infrangersi sul
nuovo ideologismo neoliberale, che cela dietro di sé un gruppo di interessi questa volta re-
gressivi; e cioè l’idea di onnicomprensività della classe media. Siamo tutti classe media,
ormai. Dunque esistono modelli di sviluppo neutri, risposte politiche adatte a tutti, che
fanno l’interesse di tutti i gruppi, il libero dispiegarsi delle forze del mercato avvantaggerà
ognuno, i meccanismi redistributivi sono ormai obsoleti, e così via…E’ chiaro come questa
ideologia celi il convergere di forze sociali interessate all’ampliamento dei margini della
disuguaglianza.
2. La seconda questione riguarda la crisi dello Stato-Nazione, semplificando molto: fino a
quando l’orizzonte del mercato delle materie prime, dei capitali, del lavoro aveva dimen-
sioni prevalentemente nazionali, le istituzioni statali erano sufficienti a governare
l’economia: oggi che i sistemi di allocazione delle risorse assumono una dimensione globa-
le diminuisce la possibilità dei soggetti politicamente rappresentativi di controllare i mer-
cati, viene erosa la sovranità statale, mancano livelli istituzionali adeguati a permettere
che la politica controlli l’economia. Il capitale globale può spostare e modulare la produ-
zione ad esempio e secondo dei regimi fiscali, le legislazioni lavoristiche e livelli minimi
salariali dei vari paesi. C’è di più, quindi, la divaricazione tra potere degli Stati e potenza
delle multinazionali, per dirla con Wallerstin, parte delle circostanze per la quale è la stes-
sa economia a dettar legge sulla politica e non viceversa.

Scomposto il quadro strategico nel quale era stata per decenni abituata ad orientare la propria a-
zione politica, la sinistra stenta a dare delle risposte, inchiodata com’è, anch’essa, nella schiac-
ciante superiorità ideologica del neoliberismo.

USCIRE DAL ‘900, USCIRCI DA SINISTRA

E’ chiaro ora come la Sinistra abbia il dovere di cambiare la sua strategia di fondo se vuole nel
prossimo secolo ricostruire la propria egemonia politica. Sia chiaro: non si tratta di misurare la
validità delle risposte politiche solo con il metro dei successi elettorali. Esisteranno sempre nel pa-
norama politico delle democrazie occidentali delle forze che si differenzieranno dalle destre per
una maggior attenzione alle questioni della giustizia sociale, in alcuni casi potranno anche rag-
giungere posizioni di governo; e tuttavia l’identità della Sinistra non si sostanzierà nel suo essere
altro polo rispetto alla destra, nella sua cultura o nei valori più o meno spiccati a cui si ispirerà
nel fare politica ma nel dimostrarsi capace di introdurre cambiamenti radicali nella realtà; la Si-
nistra potrà anche vincere le elezioni ma non per questo sarà automaticamente in grado di pro-
durre grandi cambiamenti.
Affrancarsi dall’egemonia neoliberista è dunque il primo obiettivo per la Sinistra in Europa; la
questione sarà dunque dare una risposta a quei problemi che ponevamo nel paragrafo preceden-
te.
1. Come costruire una nuova rappresentanza sociale? Di quali interessi collettivi farsi portatori?
Su cosa ricostruire i meccanismi partecipativi che hanno reso ricca e progressiva la democra-
zia del ‘900? I discorsi sono indissolubilmente legati: non esistono risposte politiche che siano
nell’interesse di tutti, né è possibile una reale rappresentanza degli interessi collettivi senza
che i gruppi sociali che in questi interessi si riconoscono partecipino, direttamente tramite i
partiti o indirettamente tramite associazioni o sindacati, all’elaborazione e alla promozione
della proposta politica che a quegli interessi si riferisce.
Superati gli schemi del ‘900, occorre riflettere su una nuova partecipazione e quindi una di-
versa rappresentanza modellata sullo schema di quella “nuova conflittualità” di cui parlava-
mo prima. Partendo dalla centralità del lavoro, nel suo atteggiarsi all’interno del sistema mon-
do e del suo atteggiarsi in casa nostra; partendo dalla centralità della cittadinanza come veico-
lo di estensione dei diritti; partendo dalla centralità del tema della pace e dei diritti civili. Rap-
presentare le istanze e incontrare la partecipazione, dunque, del lavoratore dipendente e del
precario come soggetti di conflitto, del consumatore come soggetto del conflitto, di tutti gli e-
sclusi, delle donne, dei giovani, degli studenti, degli omosessuali come soggetti del conflitto.
2. Dare risposte globali alla questione dell’incapienza dell’economia nei confronti della politica;
in altri termini cioè ripensare ad un nuovo internazionalismo che riesca a costruire organismi
sovranazionali con dimensioni tali da rendere nuovamente la politica uno strumento in grado
di governare l’economia; in questo senso non possiamo non rilevare come uno dei più grandi
fallimenti della Sinistra in Europa in questi ultimi due decenni sia stato quello di non essere
riuscita a costruire un’Unione Europea che fosse soluzione al problema di quello che Tony
Blair chiama impossibilità del keynesismo in un paese solo, un’Europa che non avesse più co-
me fulcro concettuale la tutela del mercato comune ma la difesa dei suoi cittadini.(In questo
senso il prodotto della Convenzione Europea appare paradigmatico di quella sconfitta cultura-
le.) Non costruire un’Europa sovrana dai connotati fortemente sociali (dunque per forza di co-
se fortemente democratici) ha significato anche condannare i singoli sistemi sociali degli stati
membri.
Bisogna immaginare un nuovo internazionalismo che sia in grado di costruire assi strategici
con le forze progressiste dei paesi in via di sviluppo nell’ottica di una nuova partnership pla-
netaria tra gli Stati e le macroregioni del mondo come già più di un quarto di secolo fa indi-
cava Willi Brandt nel rapporto conclusivo della North-South Commission.
Bisogna immaginare un nuovo internazionalismo che crei le condizioni per una convivenza
pacifica, per l’estensione degli spazi della democrazia, dei diritti di libertà, dell’uguaglianza
sostanziale dei popoli e degli individui.
Noi siamo convinti che gli strumenti indispensabili per la costruzione di questi obiettivi siano
l’Internazionale Socialista ed il Partito Socialista Europeo, ma ci rendiamo conto che questi
soggetti non basteranno se non si sapranno aprire ad altre esperienze realmente progressiste a
livello soprattutto non partitico, se non sapranno cercare assi strategici con altre forze nei
luoghi della decisione politica (auspichiamo ad esempio una più ampia convergenza, anche
strategica, nel Parlamento di Strasburgo tra il PSE e il gruppo della Sinistra Europea).

DUE PAROLE SULLA QUESTIONE DEL COSIDDETTO PARTITO DEMOCRATICO

In Italia è in corso in questi anni un ampio e forse decisivo dibattito sul futuro della sinistra, di-
battito che si focalizza sulle prospettive della costruzione di un nuovo soggetto del centrosinistra,
di un nuovo partito (democratico, riformista, dell’Ulivo, gli appellativi sono stati mutevoli anche
se non sempre intercambiabili) che veda i Democratici di Sinistra e la Margherita come soggetti
fondatori.
Cercheremo qui di esaminare, senza pregiudizi ideologici, quali sono e in che termini reggono le
ragioni di coloro che danno un valore positivo a questo processo; cercheremo poi, di capire cosa
questo nuovo partito possa essere, nella consapevolezza che i grandi processi politici non sono li-
bri dei sogni. Insomma se vogliamo sgombrare il campo dagli ideologismi sul nuovo partito, ini-
ziamo da questo: cerchiamo di capire i fatti, non parliamo dei nostri desideri, ricordandoci sem-
pre che l’evento principale immediatamente a monte della nascita del futuribile partito sarebbe la
fusione tra i DS e la Margherita , un partito che, spero sia pacifico, si colloca più a destra di noi.
Affrontiamo ora alcuni degli argomenti posti a sostegno delle prospettive della costruzione del co-
siddetto Partito Democratico.

PRIMA TESI: bisogna costruire un soggetto politico che riconduca all’unitarietà d’azione i riformi-
sti cattolici, socialisti, laici che la storia del nostro paese ha visto per decenni svilupparsi in ma-
niera separata se non addirittura molto spesso conflittuale.
PRIMA ANTITESI: noi siamo nati politicamente in un mondo nel quale le ideologie politiche del
’900 già non erano più steccati invalicabili; e noi stessi lavorando nell’associazionismo e nei mo-
vimenti ci siamo trovati affianco realtà cattoliche che condividevano con noi valori, istanze pro-
grammatiche simili se non uguali alle nostre. Insomma la Bad Godesberg della sinistra italiana la
nostra generazione l’ha data sempre per già acquisita: la questione è un’altra: che l’identità delle
formazioni politiche si costruisce sulle istanze programmatiche, sui bisogni collettivi che si decide
di rappresentare molto più che sulle culture politiche. Sia chiaro, la Margherita è un alleato fon-
damentale, ma noi le culture politiche del novecento vogliamo superarle sulla base di quelle i-
stanze programmatiche, sui bisogni collettivi a cui parlano quelle nuove conflittualità di cui dice-
vamo prima, non vogliamo superarle attraverso la fusione con un partito ancora troppo timido
sulle questioni di politica estera o di politica sociale (per non toccare neanche l’argomento dei di-
ritti civili), un partito che ci è sembrato desideroso di rappresentare settori della Confindustria e
dell’episcopato più che altro. Insomma noi le culture politiche del novecento le abbiamo già supe-
rate ma con Alex Zanotelli non con Ciriaco De Mita.

SECONDA TESI: le primarie hanno visto una straordinaria affermazione della partecipazione at-
torno alla figura di Romano Prodi che incarnava la prospettiva dell’unità dei riformisti e alle ulti-
me elezioni politiche la lista dell’Ulivo ha avuto un risultato assolutamente soddisfacente soprat-
tutto tra gli under 25, superiore al risultato derivante dalla somma dei voti delle liste margherita e
DS al Senato. L’Italia chiede il Partito Democratico a gran voce.
SECONDA ANTITESI: le primarie hanno costituito uno straordinario momento di partecipazione
col quale gli italiani hanno espresso l’ultimo conato prima delle elezioni di aprile, contro un go-
verno, quello Berlusconi, che si era reso responsabile per cinque anni di una gestione svergognata
della cosa pubblica. Questa straordinaria partecipazione è stata però ripartita tra i vari candidati
in maniera proporzionale alle percentuali dei consensi che hanno preso all’elezioni di aprile i
partiti che quei candidati appoggiavano, un grande successo dunque, ma per tutta l’Unione. E an-
cora, i processi di spettacolarizzazione e di personalizzazione del dibattito politico e soprattutto
del momento elettorale canalizzano oggi il voto sui soggetti che nei due schieramenti si pongono
come interpreti più stringenti del bipolarismo: se non si vota per Berlusconi si vota per Prodi,
dunque se non si vota per Forza Italia si vota per l’Ulivo, questo è vero soprattutto in riferimento a
quei settori dell’elettorato più giovane dal punto di vista anagrafico che hanno sempre concepito
un sistema politico tendenzialmente bipolare e dell’alternanza. La questione però non ha una de-
clinazione unica: se è vero che il paese chiede al centrosinistra un partito a vocazione maggiorita-
ria, attore efficace del bipolarismo non è detto che questo partito sia l’Ulivo; questo è stato forse
l’errore principale della dirigenza dei Democratici di Sinistra, almeno dalla sconfitta di Occhetto
nel ’94 in poi: pensare che il PDS e poi i DS non potessero essere ontologicamente il partito di
centrosinistra cardine del bipolarismo e allora si è cercato sempre un soggetto altro sperando che
questo potesse essere la chiave del sistema: l’Ulivo di Prodi nel ’96, la cosa 2 nel ’99, il Partito
Democratico oggi.
Un’unica volta abbiamo pensato fosse opportuno scommettere su noi stessi, alle regionali del
2000, lo abbiamo fatto nel momento strategicamente peggiore, nel momento in cui il centrosini-
stra intero entrava in una delle fasi di crisi più profonda degli ultimi anni. In realtà quel grande
partito di massa, di sinistra, capace di governare la società italiana era davanti agli occhi di tutti,
ed erano il PDS prima e i DS poi!
In altre parole questo serve ancora all’Italia e questo noi difenderemo fino all’ultimo: un grande
partito di sinistra a vocazione maggioritaria che sappia da sinistra guidare le trasformazioni del
paese. L’eventuale realizzazione del Partito Democratico potrà esprimere prospettive allettanti,
probabilmente, solo in termini elettorali ma in realtà verrebbe votato non per quello che è real-
mente ma per quello che l’elettorato pensa che sia. Il PD non riuscirà ad esprimere una prospetti-
va di cambiamento radicale all’interno della società perché nato nel solco di un egemonia tutta
moderata; insomma il Partito Democratico potrà essere un valido soggetto dell’alternanza eletto-
rale ma non dell’alternativa politica.

TERZA TESI: serve un partito più grande che consenta un maggiore sviluppo della partecipazione
e ridia alla politica quella centralità che oggi altre forme di potere usurpano. (Devo dipingere una
parete grande, ci vuole un pennello grande...)
TERZA ANTITESI: E’ indubbio che la solo la partecipazione dei cittadini riesca a ristabilire il pri-
mato della rappresentanza politica su altre forze della società, in primis le lobby e i potentati eco-
nomici: ma non sarà un partito semplicemente più grande a ricostruire meccanismi partecipativi,
e anzi già la fase di costruzione del Partito Democratico ci sembra tutto meno che un percorso
partecipato ma qualcosa di voluto più da gruppi finanziari ed editoriali che da folle di militanti. Il
processo di costruzione fino ad ora in corso, non solo non ha coinvolto nessuna fetta consistente
della società civile ma più che come reale evoluzione del panorama politico italiano, si pone come
una semplice sommatoria di due partiti che a livello elettorale sono statici da un numero consi-
stente di anni, non riuscendo più a convogliare e ad interpretare i bisogni dei cittadini ed il con-
senso in senso stretto. Continuando su questa strada il PD si realizzerà tramite un semplice accor-
do di vertice e i militanti e tutti coloro che richiedono di partecipare al processo evolutivo si tro-
veranno a dover accettare passivamente una soluzione a cui non hanno minimamente contribui-
to. Un partito, a differenza di una coalizione è il luogo dell’identità, logica prima ancora che poli-
tica, non della mediazione: e allora delle due l’una: o DS e Margherita hanno già una globale i-
dentità programmatica (probabilmente non lo crede nessuno) e allora il Partito Democratico è i-
nutile perché basta la coalizione; o DS e Margherita vivono una situazione di alterità programma-
tica, seppur conciliabile, e il Partito Democratico nasce bloccato da quelle contraddizioni che si
potrebbero risolvere molto più facilmente, ancora una volta, nel quadro di una coalizione.
La questione allora diventa un’altra: cosa si muove nella società italiana oggi che possa veramente
costruire un paese più libero, più equo socialmente, più giusto? La risposta l’abbiamo data nella
prima parte di questa tesi: e alle nuove conflittualità che la sinistra deve guardare per ricostruire
se stessa, e quella nuova conflittualità deve avere la forza di rappresentare. Il PD chiaramente non
guarda a quelle conflittualità, anzi nasce per dare soluzioni politiche che ci passino sopra; anzi il
PD nasce proprio sotto il marchio di quella egemonia moderata per la quale esistono risposte poli-
tiche che tengono dentro tutti: non si può pensare di rappresentare insieme il sindacato (ma poi
nemmeno tanto) e la Confindustria di Montezemolo e di Della Valle, l’episcopato e l’arcigay, i
grandi interessi collettivi e le clientele del notabilato.
Ma quale prospettiva di cambiamento radicale può offrire un partito che nasce afflitto da una ta-
ra così pesante? Non è di questo che ha bisogno oggi la sinistra.
La sinistra oggi deve guardare a quelle nuove conflittualità che sono il filo rosso di questo docu-
mento, noi crediamo che i DS se si sapranno opportunamente trasformare potranno essere il sog-
getto capace di rappresentare tutto questo; ma noi siamo pronti, se i DS ci costringeranno, conti-
nuando la loro corsa, a proseguire le nostre battaglie anche fuori dal nuovo partito, assieme a
quelle forze della sinistra, a quei partiti, a quelle associazioni e a quei cittadini che con noi vor-
ranno ricominciare da capo per ricostruire in Italia, nell’enorme vuoto politico lasciato a quel
punto dai DS, un nuovo partito della sinistra; ricostruire sulla base di una nuova prospettiva poli-
tico-strategica:
• rappresentare le parti deboli nei nuovi confitti
• costruire un nuovo internazionalismo

PARTECIPAZIONE GIOVANILE E STRUTTURE POSTDEMOCRATICHE.

Dunque il XXI secolo si apre con l’emergere prepotente di nuove forme di partecipazione che in-
cidono in maniera determinante anche sul modo dei giovani di rapportarsi all’agire politico. Un
pezzo di giovani generazioni, forse non maggioritario ma sicuramente consistente, ha deciso in
forme e modi spesso non tradizionali di prendere coscienza di se, non solo come individuo-
consumatore, ma come membro di una comunità (quartiere, città, paese, Mondo) che può e deve
essere cambiato attraverso la partecipazione democratica. Una grossa parte dei nostri coetanei ha
deciso di vivere in prima linea le conflittualità del nuovo secolo; dietro di loro c’è una fetta sicu-
ramente maggioritaria della nostra generazione che di quelle conflittualità è parte più o meno at-
tiva, più o meno consapevole. A questa generazione non pacificata dobbiamo tornare a guardare;
a porci come strumento della sua partecipazione, come rappresentanti dei suoi interessi.
Questi sono oggi le sfide per un’organizzazione giovanile moderna e di sinistra, e ai problemi po-
sti da questa sfida dobbiamo essere in grado di dare risposte: quanta parte di queste nuove gene-
razioni sono state intercettate dalle organizzazioni partitiche? e quanta dai Democratici di Sini-
stra? Ci sono modi di strutturare la Sinistra Giovanile, di immaginare le sue pratiche politiche, più
efficaci di quelli che sta adottando la nostra organizzazione oggi, per far sì che le forze che era-
vamo riusciti in questi anni a coagulare non si disperdano, guardino altrove o peggio ancora non
si avviino verso un percorso di graduale disimpegno?
Purtroppo oggi assistiamo sempre più spesso, in Italia, e in Europa in generale, ad un progressivo
indebolirsi delle forme di partecipazione tradizionali (elemento che già si è analizzato altrove);
fenomeno che ora letto da un altro punto di vista, si potrebbe descrivere come tendenziale im-
permeabilizzazione dei partiti a forme di partecipazione nuove o al minimo sopravvissute al seco-
lo precedente. Crolla la partecipazione, crolla dunque anche la possibilità da parte dei rappresen-
tati di un controllo effettivo sui propri rappresentanti; si pretende invece sempre più di esprimere
una rappresentatività basata su rapporti non biunivoci (tu mi rappresenti – io partecipo, ti sele-
ziono, ti controllo): ecco dunque il ricorso massiccio ai sondaggi, all’appello populistico, all’idea
di un utilizzo, nella selezione della leadership, di un meccanismo di per se estremamente demo-
cratico come le primarie, a cui però non si vuol far seguire nessun ulteriore rapporto organico tra
votanti e dirigenza. I partiti che non riescono più ad essere luoghi di partecipazione democratica,
si aprono così all’influsso di centri di potere a loro esterni (le lobby, i potentati economici); agli
interessi collettivi si sostituiscono giocoforza blocchi di interessi individuali; ciò come portato ul-
timo, tuttavia di fondamentale importanza, provoca un annullamento del potere decisionale della
militanza in processi che appaiono sempre più eterodiretti e un deterioramento del dibattito e del-
la democrazia interna ai partiti. Il circolo vizioso si chiude con una cancrena che spinge sempre
più lontano dalle strutture partitiche le varie forme di partecipazione.
Nella questione della crisi dei sistemi di rappresentanza e di partecipazione -che molto spesso
purtroppo non risparmia neanche il nostro partito- si iscrive, per buona parte, anche la vicenda
del Partito Democratico, che nasce sulla base di un concetto di partecipazione che si immagina
leggera e flessibile (vedi ad esempio la grande enfasi sulle primarie) da un lato, e dall’altro lato
sull’idea di una rappresentanza di interessi in gioco che si vorrebbe neutra. Abbiamo visto come
un partito senza una partecipazione democratica forte e un spiccata rappresentanza sia poten-
zialmente eterodirigibile da centri di potere esterni ad esso. Vediamo tutti i giorni d’altra parte
quanto sia pesante il ruolo dei potentati economici nella fase di costruzione del Partito Democra-
tico.
Noi non rinunciamo a ricercare soluzioni complessive ai problemi qui aperti, soluzioni che se si è
fino ad ora condiviso questo documento dovrebbero essere abbastanza chiare: la costruzione coi
DS o fuori di un grande partito della sinistra che ricostruisca la rappresentanza e la partecipazio-
ne sulla base delle conflittualità del nuovo secolo; e tuttavia siamo convinti che a questo problema
ne si affianchi un altro su cui forse possiamo agire in maniera più incisiva, almeno per ora. La
questione diventa allora: come costruire un luogo, la Sinistra Giovanile per noi, in grado di inter-
cettare intanto quel bisogno di partecipazione che viene dalla nostra generazione?

SERVE ANCORA LA SINISTRA GIOVANILE.


A SINISTRA, CON AUTONOMIA.

In questi anni tanto era stato fatto. La Sinistra Giovanile aveva conosciuto un ricambio tanto gene-
razionale quanto culturale. Nuove esperienze si erano avvicinate alla nostra organizzazione, le
avevano dato freschezza, modi originali di azione politica, uno sguardo più attento, vivace,
all’esterno e meno ossessionato dal confronto interno, inutile forse a volte dannoso, ai Democrati-
ci di Sinistra. Alcune realtà territoriali e l’organizzazione nel suo complesso, in alcuni casi, aveva-
no sperimentato pratiche politiche nuove, veramente diverse da quelle uscite ormai logore dalle
fasi politiche precedenti; ci si era aperti ad esperienze associative, immaginando un organizzazio-
ne a rete che sapesse affidare parte della sua azione ed elaborazione anche a nodi parzialmente
esterni, e in quei nodi eravamo riusciti a volte anche ad esercitare la nostra egemonia. La nostra
autonomia dal partito, faticosamente e solo in parte realizzata, aveva costruito un argine
all’interno dell’organizzazione al consolidarsi di pratiche e metodi che rendevano sterile il dibat-
tito nei Democratici di Sinistra. Quando questo era avvenuto, la nostra organizzazione si era ar-
ricchita, avevamo ampliato i nostri bagagli culturali e politici, avevamo assolto, per quello che ci
concerneva, a quel ruolo di contenitore di democrazia e partecipazione che le nuove generazioni
ci chiedono.
Negli ultimi anni questa scelta, che pure non eravamo riusciti a portare alle estreme conseguenze,
è stata prima progressivamente messa in dubbio, negletta, poi completamente espunta dal nostro
dibattito: il tema dell’autonomia aveva ora una nuova declinazione: non più autonomia dai DS,
ma autonomia nei DS: abbiamo deciso che il modo più efficace per stare in certi processi che si
andavano a sclerotizzare era adeguarsi ad essi: in breve più che guardare all’esterno il nostro di-
battito si è appiattito su quello, a volte scoraggiante, espresso dai Democratici di Sinistra.
Quando questo è successo abbiamo portato indietro la nostra organizzazione, abbiamo disfatto
quel tessuto connettivo di partecipazione democratica che pure aveva faticosamente costituito il
nerbo della Sinistra Giovanile, abbiamo subito in silenzio la diaspora progressiva di quelle forze
di innovazione, ci siamo di conseguenza ancora di più rivolti solo alle questioni interne al partito.
Ma a cosa serve tutto questo? Oggi serve una grande forza giovanile della sinistra che riesca ad
interpretare e a dare rappresentanza alle nuove conflittualità che lacerano questa generazione
non pacificata, a fare di queste conflittualità la spina dorsale di un partecipazione che purtroppo
per ora si può esprimere solo in un soggetto giovanile totalmente autonomo dai partiti. La solu-
zione non può essere quella di costruire i giovani dell’Ulivo: abbiamo visto come continuare le
scelte normalizzatrici nei contenuti moderati e nelle forme dell’agire politico ci abbia inchiodato a
perdere terreno sul piano della partecipazione e della rappresentanza.
Indipendentemente dallo sbocco possibile di DS e Margherita verso il Partito Democratico la Sini-
stra Giovanile deve sopravvivere come soggetto indipendente ed autonomo aperto a tutte le ra-
gazze e i ragazzi che si riconoscono nei valori della sinistra indipendentemente dalla tessera di
partito che hanno o non hanno in tasca: i modelli non mancano: gli IUSOS tedeschi sono un e-
sempio concreto ed efficace; e non mancano neanche gli appoggi a cui connetterci: quella miria-
de di soggetti terzi coi quali un questi anni abbiamo lavorato: dall’ARCI al sindacato, all’UDU,
all’UDS, a Libera, all’associazionismo più vario. Insomma invece di cercare di rincorrere i giovani
della Margherita, non sappiamo a quel punto al prezzo dell’accettazione di quali pratiche politi-
che, dovremmo guardare a quelle energie che abbiamo perso in questi anni o a cui non siamo
riusciti a parlare.

Noi crediamo che la sinistra giovanile riuscirà nei prossimi anni ad adempiere al suo compito: es-
sere ancora lo strumento di una generazione che si indigna davanti all’ingiustizia; da sinistra, con
autonomia noi dovremo costruire la partecipazione di quelle ragazze e di quei ragazzi. Alla fine
care compagne e cari compagni, al netto delle nostre carriere personali, delle nostre vicende con-
tingenti, dei nostri interessi immediati, delle nostre questioni private, potremmo dire anche noi
come Alcide Cervi a cui avevano ammazzato sette figli per difendere il podere: “Beh poi in fondo
non è andata male: c’era da salvare la terra, e noi la terra l’abbiamo salvata.”
IL MARGINE PRATICO DELLA SINISTRA GIOVANILE. QUALCHE PROPOSTA

Quanto detto sopra trova riscontro forte nella vita quotidiana della Sinistra Giovanile. Seppur
convinti della necessarietà di iniettare nuova linfa nell’organizzazione, dissentiamo su quanto
questa dovrebbe assumere per rendersi più viva e forte. Ci pare infatti che la missione della SG
non sia quella di essere altro da sé, ma di trovare nuovi modi di fare politica, nuovi strumenti e
non nuove formule organizzative e identitarie. Una riflessione seria andrebbe fatta sulla nostra
capacità di riflettere e agire sul mondo delle giovani generazioni, implementando la capacità di
azione attraverso innovazioni metodologiche e tecniche. Di fatto, ciò che ci sfugge delle nuove
generazioni è il completo cambiamento di stili e di approcci di queste. Un lavoro approfondito
andrebbe fatto sui linguaggi, i trend e i mezzi che queste generazioni vivono con una facilità e-
strema mentre noi ci abbarbichiamo su vetusti schemi. Fin quando non avremo colto questo, ogni
nuovo “agglomerato” è solo una riproposizione di facciata dell’esistente. Dobbiamo , last but not
least, tornare a darci una missione alta del nostro vissuto, dirci a chiare lettere il “perché” noi esi-
stiamo. Non può essere certo unire i riformismi, formula tanto generica quanto vana. E’ piuttosto
il tornare ad essere (o finalmente diventare?) un’organizzazione capace di formulare senso e for-
mare opinione. L’incidenza della politica trova riscontro solamente nella capacità di trasformare
la realtà.
Ma la realtà che ogni giorno viviamo nei circoli, nelle sezioni e via via a salire è povera di stru-
menti che ne rendano possibile una gestione viva ed efficace. La domanda alla quale non possia-
mo più sfuggire è: che cosa lo portiamo a fare un ragazzo o una ragazza in sezione? E poi, è la
tessera uno strumento ancora valido?
Proviamo a fare qualche minima proposta.
Primo. Comunicazione non cultura. Se la prima è importante e ci trova parecchio “sbiaditi”, la se-
conda è fondamentale e ci vede praticamente muti. La sinistra giovanile deve darsi il compito alto
di tornare a produrre senso e opinione. Di documenti che non varcano la soglia di grigie mura, di
segretari che pontificano, di parole che non diventeranno mai fatti…non se ne può più! E’ pro-
blema di noi tutti il non riuscire a spendere quanto produciamo, non metterlo a disposizione del
mondo. Non ci pare che le giovani generazioni usino il linguaggio dei nostri elaborati o delle no-
stre riunioni. Dobbiamo aprire i nostri schemi di percettività ed elaborazione tarandoli sul tempo
e sui modi attuali. Siamo nella generazione del pensiero breve. Ci si muove in velocità e in super-
ficie, avendo come modello di relazione i links, non papelli e papiri! Questo è una prima serie di
strumenti di cui ci dobbiamo dotare: velocità, brevità, collegamenti. Per tornare a parlare la stessa
lingua dei nostri coetanei, e con la stessa lingua comunicare con loro. Produrre con questi rifles-
sione critica e conseguenti risposte. Non possiamo invitare le giovani generazioni per indottrinar-
le, dobbiamo invece fornire loro pratiche di senso che possano accompagnarli anche fuori
dall’organizzazione. La Sg deve candidarsi ad essere una “palestra mentale”, il luogo dove ci si in-
forma, cioè si prende forma. E si produce sostanza.
Secondo. In-formazione. Ovvio che per portare avanti quanto detto sopra l’organizzazione deve
essere trasformata. Non vogliamo essere una “riserva” dove, ogni tanto, il partito pesca (o coop-
ta?) fedelissimi. Sulla formazione la Sg deve edificarsi ed essere un laboratorio che dota chi parte-
cipa di una technè e dei modi per usarla e svilupparla. L’organizzazione non può limitarsi di
qualche evento formativo l’anno. Dobbiamo pensare ad un piano collettivo, diffuso e a disposizio-
ne di tutti i compagni. Lasciamo a chi sta con noi un quid in più nel proprio vissuto, non una tes-
sera in più in tasca.
Terzo. Non restare intrappolati nella rete. La struttura dell’organizzazione è rigida, a comparti
stagni. A parte la buona volontà e la capacità personale, i contatti tra di noi sono limitati ad un
piano “amicale”. Spesso non sappiamo cosa fanno i circoli più prossimi, figuriamoci gli altri re-
gionali! Costruire una rete significa mettere in comune le informazioni che creano sapere e cono-
scenza. Vogliamo un Sg fluida.
In conclusione. Crediamo che siano i nostri modi di approccio e di proposizioni che dobbiamo
cambiare, non i nostri mondi di riferimento. Crediamo nell’apertura, ma che tale sia. Una società
aperta non si costruisce aggregando “pezzettini” per cercare di farsi più ombra, ma rendendosi
ancora più liquidi e iniettandosi nei frammenti della società. Crediamo che la conoscenza non si
desidera, si cerca, si crea, si applica. Crediamo di avere a disposizione questo tempo e questa ter-
ra, e vogliamo sentirli e farli realmente nostri. Crediamo nei molti pensieri, sapendo quali portia-
mo noi e ricevendo quelli altrui. Crediamo con Enrico Berlinguer che anche questo mondo, que-
sto terribile e complicato mondo di oggi, possa essere conosciuto, capito e interpretato e messo al
servizio dell’umanità. Questa è la lotta e questi i nostri obiettivi. Abbiamo una storia di sinistra, e
da sinistra vogliamo continuare a costruire la storia e le storie. Le nostre.

Primi firmatari:
Antonio Pataffio
Arturo Scotto
Luigi Sica

La tesi è sottoscritta da 564 iscritti alla Sinistra giovanile

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