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AAVV - Il Tronti Di Operai e Capitale - Collettivo Le Gauche
AAVV - Il Tronti Di Operai e Capitale - Collettivo Le Gauche
Ritwittato da Collettivo Le
Gauche
Eddy Burback
@eddyburback
22 gen 2022
Ritwittato da Collettivo Le
Gauche
Neil Gaiman
@neilhimself
26 gen 2022
Tutti gli articoli Interviste Italia Politica internazionale Teoria Economia StoriaLe Gauche
Collettivo Analisi
@CLGauche
27 gen 2022
Collettivo Le Gauche
@CLGauche
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Indice CHIUDI
01 Introduzione
Introduzione
Gli anni Sessanta e Settanta furono gli anni della nascita della “Nuova Sinistra”, una fase
contraddistinta dall’emergere di dibattiti ed eterodossie marxiste che entravano in rotta di
collisione con i partiti comunisti dei rispettivi paesi. In questi vent’anni travagliati, emerse in
Italia un’esperienza teorico-politica estremamente innovativa: l’operaismo.
L’operaismo si sviluppò nelle lotte che hanno caratterizzato il nostro paese in quegli anni,
sfidando da sinistra l’egemonia del PCI sul movimento operaio italiano. Brevemente, è doveroso
ricordare che l’operaismo non nasce con Tronti ma dentro l’esperienza dei Quaderni Rossi di
Raniero Panzieri, esponente dell’ala sinistra del PSI. Nel 1964 una parte rilevante dei Quaderni
Rossi, tra cui Tronti, Toni Negri e Asor Rosa, si staccò per dare vita alla rivista Classe Operaia.
L’esperienza della rivista terminò nel 1967. Una parte di questi intellettuali seguì una strategia
entrista, tornando nel PCI (tra cui Tronti), altri esponenti dell’operaismo confluirono in
esperienze della sinistra extraparlamentare come Lotta Continua e Potere Operaio (tra cui Toni
Negri).
Lo scopo del testo è riflettere sul libro di Mario Tronti Operai e Capitale, uscito un anno prima
della fine dell’esperienza di Classe Operaia, nel 1966, e diventato un classico della Nuova Sinistra
e che condensa le tesi dell’operaismo degli anni ’60.
Un’altra tesi centrale era il non doversi più aspettare la rivoluzione nel leninista anello debole,
ma dove esisteva la classe operaia più forte. Il palcoscenico della rivoluzione era
necessariamente il capitalismo moderno. Questo significava un capitalismo fondato sul
plusvalore relativo. A ciò si aggiungeva l’innovazione più propriamente operaista della
definizione dell’organicità del capitalismo basata sull’intreccio sempre più profondo tra fabbrica
e società.
Se l’analisi marxiana del Capitale si è concentrata sulla dialettica del valore e del valore d’uso
della forza lavoro per completare la spiegazione “contabile” dello sfruttamento (per citare
Althusser), nel lavoro di Tronti la forza-lavoro viene pensata come merce e come soggetto. Cioè,
come soggetto e suo prodotto, sebbene nel capitalismo la cosa presentificata che esce dalla
produzione preceda il soggetto, proprio come nel Manifesto comunista il passato predomina sul
presente. Il soggetto sta dalla parte dell’antagonismo, è la sua personificazione soggettivizzata.
La forza lavoro è una fonte di valore e, per Tronti, non capitale. La ragione di fondo è che la
forza lavoro è il consumo della corporeità della figura del lavoratore, la radice dell’antagonismo.
La classe operaia si oppone alla macchina, o meglio al suo uso capitalistico, ma anche alla forza
lavoro come capitale variabile. La prospettiva della lotta dei lavoratori è impedire la
trasformazione della forza-lavoro in lavoro effettivo (cioè del suo valore d’uso). Da lì nasce lo
slogan operaista del rifiuto del lavoro. Tronti lo formula nel modo seguente, andando oltre: il
padrone fornisce il lavoro e il lavoratore il capitale.
La conclusione politica che ne deriva è che la classe operaia deve essere in grado di scoprire di
far parte del dispositivo complessivo del capitale per emergere come suo antagonista generale.
Per Tronti e gli operaisti, è attraverso questo tipo di assorbimento del capitale che la classe
operaia può trasformarsi in un soggetto rivoluzionario contro l’ordine sociale attuale. Forse la
tesi non è del tutto nuova e potrebbe essere facilmente rintracciabile nel corpus marxiano.
Tuttavia, lo sguardo con cui l’operaismo ha affrontato questo problema ha portato nuove
prospettive di apertura teorica.
In termini generali, lo schema teorico operaista formulato in Operai e Capitale sottolinea che il
sovvertimento della società borghese è possibile solo dall’interno. Il centro di questa
sovversione è nelle fabbriche. Da lì deve essere costruito il potere dei lavoratori. Ma non è solo
dalla pratica quotidiana della lotta di classe in fabbrica che è possibile il processo rivoluzionario.
Il ruolo della teoria è fondamentale. Il lavoro teorico passa attraverso l’anticipazione dello
sviluppo oggettivo della società borghese e scommettendo sulle lotte dove la classe operaia è
più forte.
Un altro errore molto diffuso è pensare ai rapporti di produzione e alla lotta di classe come due
mondi assolutamente separati. Nelle formazioni sociali capitaliste l’antagonismo di classe
occupa una posizione centrale. Ma questo non perché le forze che si confrontano possano
essere intese come forze di classe, ma piuttosto perché sviluppano il conflitto sociale attraverso
forme che strutturano questa lotta e ne dirigono le dinamiche e la direzione. Le classi in lotta
definiscono e ridefiniscono la loro configurazione, soprattutto quelle subordinate, nello stesso
scenario di conflitto e nella matrice strutturante dei rapporti di produzione.
Per sviluppare questo compito teorico-programmatico è necessario partire dai concetti centrali
della critica marxiana dell’economia politica: valore, denaro, capitale e le loro articolazioni. Non
si può negare che Tronti in Operai e Capitale abbia tentato di farlo. Ma lo fece in maniera
immediata, in quanto corrispondeva al programma teorico-politico dell’operaismo. Qui le
categorie teoriche sono esposte per giocare senza mediazioni, come se fossero vere forze
sociali. Il punto di vista di Marx inizia utilizzando la categoria di classe sociale per configurare
un’identificazione concettuale e solo successivamente si riferisce a un soggetto reale che porta
una propria storia socio-politica, pratiche organizzative e forme di identità proprie. Ma non è
mai una categorizzazione assegnata a un’entità preesistente. In Operai e Capitale c’è
un’identificazione immediata tra categorie teoriche e classi sociali storicamente esistenti.
Questo non si trova solo nei passaggi più chiaramente teorici del libro, ma anche nelle analisi
situate più storicamente che possiamo trovare alla fine del libro.
Nella tradizione teorica operaista, la questione del partito è sempre stata una questione
controversa. La concezione delle classi e della lotta di classe condivisa dagli operaisti ha portato
a difficoltà nel cogliere alcuni aspetti della specificità della pratica politica. Diciamo alcuni
aspetti e non tutti poiché l’operaismo in quanto tale implica una prospettiva di confronto tra le
classi che è politica sin dal suo inizio. La difficoltà passa più attraverso una riflessione sulla
natura degli strumenti propriamente politici del confronto sociale.
La concezione che gli operaisti veniva dagli scontri che stavano attraversando la società e si è
riflessa in numerose proposte dei militanti di questa corrente sulla questione del partito. Ci
sono testi su questo argomento di Panzieri, Tronti, Negri e Libertini. Nelle loro pagine si
possono trovare interessanti elementi analitici sulle esperienze classiche del movimento
operaio. Il problema che portavano era la tesi che poneva il rapporto del partito politico operaio
con una certa fase del capitalismo. Tesi che, posta così, implica necessariamente un approccio
riduzionista mentre la questione del partito è un problema chiaramente politico che implica
un’azione comune tra un gruppo di persone e le strutture organizzative esistenti, una questione
che porta diversi nodi al pettine e che in quel contenitore (fragile o potente) cercano di stabilire
una relazione organica con classi sociali, corporazioni, burocrazie … nel perseguimento di un
progetto di società in cui dosare varie combinazioni tra interessi e ideali. In generale,
l’operaismo ha proceduto a realizzare un punto di vista sociologico in cui i partiti erano
traduzioni di strategie attuate ad hoc dalle classi sociali. In alcuni testi operaisti, le idee-forza
attorno ai partiti si riferivano alla composizione di classe, il che porta a chiavi di interpretazione
che rischiano di sfociare nell’economicismo.
La prima è affermare la necessità di tornare all’unità del confronto della classe operaia contro il
capitale. Il movimento operaio classico sviluppò due strategie: il sindacalismo, che si limitava
alla lotta meramente economica della classe operaia e portava necessariamente
all’opportunismo, e la rappresentanza puramente politica, che in un capitalismo moderno
diventava sempre più compatibile con una certa forma di democrazia politica, traducendosi
anch’essa in una forma di opportunismo legato alle istituzioni. Tronti postula una politica di
classe che unifichi entrambi i livelli della lotta di classe. Con questa tesi è difficile essere in
disaccordo poiché costituisce solo la traduzione in linguaggio teorico dei grandi fallimenti nella
storia del movimento operaio.
È nella seconda tesi di Tronti che appare una proposta esplicita di un profilo più definito e non
solo una descrizione del terreno, e forse un’approssimazione sul da farsi. Tronti in questo libro
afferma che: “La classe operaia ha una strategia spontanea dei propri movimenti e del proprio
sviluppo; e il partito deve solo rivelarla, esprimerla e organizzarla. Ma la classe stessa non
possiede da nessun punto di vista, né da quello della spontaneità, né da quello
dell’organizzazione, il momento vero e proprio della tattica.” Tronti dà rilevanza al momento
tattico della lotta di classe e suggerisce che le grandi sconfitte della classe operaia nei momenti
cruciali di una crisi rivoluzionaria furono dovute alla lettura errata del momento tattico, che è il
punto in cui l’esistenza del partito è cruciale.
A questo punto, è interessante confrontare questa lettura acuta con altri tipi di conclusioni più
comuni nella sinistra radicale, che è di attribuire il fallimento di una congiuntura di confronto
aperto tra le classi all’assenza di un partito rivoluzionario. Anzi, si potrebbe rilevare che Tronti
potrebbe coincidere, e di fatto coincide, con questa lettura poiché nel testo c’è una vigorosa
difesa della necessità del partito. Tuttavia, c’è una differenza che apre un mondo. Le correnti
che spiegano le sconfitte per assenza di un partito hanno solitamente una lettura che gli
attribuisce il possesso della strategia rivoluzionaria. Il Tronti di Operai e Capitale confina il
partito alla sfera della tattica, momento che spicca in modo superlativo nella sua
argomentazione ma che non è quello della strategia. La strategia è nelle mani della classe
operaia in quanto tale. Né si potrebbe dire che Tronti costruisca una teoria del partito
rivoluzionario. Nel suo libro fa sempre riferimento al partito dei lavoratori. E a una variante del
partito operaio che sembra riferirsi a un partito di tutta la classe, poiché, come abbiamo
sottolineato, il partito deve svelare, esprimere e organizzare la lotta contro il capitale incarnata
nella strategia operaia. Probabilmente la formulazione di Tronti in questo libro è l’approccio più
politico a cui è arrivato il sociologismo in chiave spontaneistica, che è stato un tratto distintivo
dell’operaismo nel corso della sua storia. Nonostante gli insistenti richiami di Tronti a Lenin, la
sua concezione del partito operaio e del suo rapporto con la classe operaia sembra più vicina a
quella di Rosa Luxemburg, che era anch’essa una sostenitrice del partito di tutta la classe e di
una definizione determinata di spontaneità operaia.
La scelta tra la posizione di Tronti che riduce la funzione del partito al momento tattico e la
posizione alternativa della maggior parte delle organizzazioni rivoluzionarie tradizionali che
pensano al partito come in possesso della strategia e della tattica è soddisfacente? Il solo fatto
di porre la domanda fa avanzare una posizione negativa. La seconda posizione incarna una parte
importante del conservatorismo teorico della maggioranza della sinistra radicale internazionale,
che si trascina in una crisi di stagnazione che dura da diversi decenni, nonostante la periodica
rinascita seguita da bruschi tracolli. Forse il più grande peso morto che questi gruppi e
organizzazioni si portano dietro è la loro adesione a una norma programmatica eccessivamente
ancorata nel XX secolo e che ha resistito alla formulazione di tesi sugli eventi centrali della fine
del XX secolo come la globalizzazione o l’implosione del socialismo reale. E affermo che la
maggior parte dei gruppi e delle organizzazioni della sinistra radicale non hanno fatto proprie
certi tesi perché non avrebbero potuto portarle avanti e continuare ad essere trotskisti o
stalinisti o qualsiasi altra denominazione emersa dai dilemmi del secolo scorso. L’uno esclude
l’altro.
L’idea di Tronti che esista una strategia dei lavoratori spontanea, che può essere osservata nelle
loro azioni, mobilitazioni, rivendicazioni, è del tutto ragionevole. Molto più discutibile è che
attraverso la strategia spontanea della classe operaia sia praticabile la trasformazione dei
rapporti di produzione capitalistici, poiché, con poche eccezioni, questa strategia consiste
nell’avanzare il più possibile nello scenario della società esistente.
La versione più frequente della strategia spontaneista dei lavoratori si cristallizza nel
sindacalismo, che, come ha formulato aspramente Lenin, è la politica dei lavoratori borghesi. Ha
come scopo vendere la forza lavoro sul mercato al prezzo più alto possibile. Si può allora
affermare che se la strategia operaia spontaneista di cui parla Tronti è un’ipotesi sensata, è
molto meno probabile che il ruolo delle organizzazioni rivoluzionarie si riduca alla risoluzione
del momento tattico.
La classe è solo strategia, Tronti rilancia, e questo si afferma in modo del tutto oggettivo.
Questo perché nella prospettiva operaista di Tronti la strategia è il rifiuto. Il rifiuto del lavoro,
pratica materialmente incorporata nella massa lavoratrice della società. La tattica è equivalente
all’organizzazione. Lì Tronti pone la mediazione del partito. Inoltre, la tattica modifica sempre la
strategia attraverso le modalità della sua implementazione. Qui le nozioni di tattica e strategia
sono sconvolte. Il che, ovviamente, è una discussione possibile ma rischia di produrre inutili
rumori concettuali, poiché il primato che Tronti attribuisce al momento tattico su quello
strategico modifica, senza rendersene conto, l’uso di queste nozioni presenti nelle opere di
Clausewitz e Lenin.
Il primato della tattica, in Operai e Capitale, è chiaramente espresso nell’enfasi di Tronti nel
modo in cui descrive come il partito viola la strategia dei lavoratori, il cui apice è Lenin che
afferma che l’assalto al Palazzo d’Inverno doveva essere fatto il 26 ottobre perché il 25 era
prematuro e il 27 troppo tardi La trasformazione tattica della strategia deve essere imposta
dall’esterno alla classe operaia. In qualche modo la strategia diventa una sorta di monarca
costituzionale della lotta di classe.
In questa proposta, lo sfondo è Lenin e quello che è senza dubbio il suo libro migliore, Che fare?
Tronti li riunisce in una serie di problemi, a partire da quella che chiama l’era progressista,
caratterizzata dalla coesistenza di violenza operaia e riformismo borghese ma in cui cominciano
a scomparire insurrezioni impreviste e si afferma la gestione politica del rapporto sociale
generale e della proprietà privata. Quest’era finisce intorno agli anni ’20, ma in un certo senso il
tipo di iniziativa capitalista che la contraddistingue è durata nel tempo, se seguiamo lo sviluppo
delle società occidentali avanzate.
Un effetto tipico di quel tempo è la separazione dell’economia dalla politica, evento con
protagonista Alfred Marshall. In parte ironicamente e in parte seriamente, Tronti descrive
Marshall come il nuovo Hegel della borghesia, colui che ricostruisce l’economia del capitale e la
eleva al rango di teoria. Una teoria che appare come la pura storia del capitale e cancella la
classe operaia e, soprattutto, le sue lotte.
Il passo successivo di Tronti è quello di abbattere la classica versione marxista della storia del
movimento operaio, il cui attore centrale fin dalle sue origini è il Partito socialdemocratico
tedesco (SPD). Tronti inizia sottolineando la persistente correlazione tra lo sviluppo della SPD e
il regime bismarckiano. Senza Bismarck non ci sarebbe stata una SPD forte e allo stesso tempo
senza SPD non ci sarebbe stato un così forte sviluppo dell’industria tedesca. Non solo questo.
L’affermazione più dura di Tronti sulla storia della SPD e sulla sua centralità nella storia del
movimento operaio occidentale è quando afferma che grazie alla prodigiosa rete organizzativa
dalla SPD, la Germania è il Paese in cui è più difficile che scoppino le lotte dei lavoratori. Non
che queste non esistessero. Sono “sommerse dalle conseguenze organizzative che hanno
immediatamente causato”. Questa circostanza ha generato, secondo Tronti, uno sguardo falso in
chi cerca di capire il movimento operaio tedesco e l’SPD, da Franz Mehring in poi.
La socialdemocrazia tedesca, nella versione di Tronti, era il prodotto di una pratica quotidiana
conciliante (menscevica dice Tronti) che rimase unita a un’ideologia che difendeva i fini della
sovversione sociale. L’autore dice, un po’ di sfuggita ma è chiaro che è una tesi forte, che questa
combinazione ha determinato che la socialdemocrazia tedesca era, prima di tutto, un
formidabile fenomeno di organizzazione. Ma c’è ancora di più. Tronti pensa che questa fitta rete
organizzativa sia solidale con una grande mediocrità intellettuale, con la miseria teorica. L’SPD
credeva di avere la scienza dalla sua parte, ma la scienza era fuori di essa e contro la
socialdemocrazia. L’SPD ha alimentato una scolastica marxista che ha fatto perdere molto
tempo ai veri politici del movimento operaio, come Lenin. Nel frattempo la scienza del capitale
cresceva senza seria opposizione. Da qui possiamo rendere esplicito il contenuto più generale
dell’analisi storica dell’ultima parte di Operai e Capitale: questo panorama smentisce la
concezione che difendeva l’idea che il movimento operaio europeo partisse da condizioni
arretrate ma avesse derivazioni di tipo rivoluzionario, se paragonato al movimento operaio
statunitense.
Tronti difende la tesi secondo cui, a partire dal 1930, i lavoratori statunitensi svilupparono le
risposte più creative e avanzate. Quelle che hanno dimostrato che la frase di Marx, così
criticata, secondo cui il paese più sviluppato mostra il suo futuro al paese più arretrato ha un
forte contenuto di verità in aree importanti della realtà storica. Il comportamento della classe
operaia nordamericana non era l’eccezione alla regola, ma piuttosto mostra la politica dei
lavoratori adeguata a una società a capitalismo maturo.
Il processo politico che finisce per dominare questa confluenza è il New Deal di Roosvelt. Il
risultato a cui questo porta è che lo stato del capitale nordamericano apre le porte a un
moderno potere operaio che funge da contrappeso rispetto ad un potere padronale arretrato.
Tronti pone gli Stati Uniti come un esempio esplicativo del verificarsi di un nodo indissolubile
tra l’iniziativa del capitale e l’organizzazione avanzata dei lavoratori. Il capitale e il suo Stato in
alleanza con la classe operaia affrontarono con successo i singoli capitalisti. Tronti è lontano
dall’idealizzare questo processo socio-politico. Lo caratterizza come un passo pragmatico, quasi
cinico, di adattamento della macchina statale ai bisogni dello sviluppo capitalista.
Tuttavia, Tronti sostiene che i risultati del CIO negli Stati Uniti non sono stati raggiunti da
nessun partito di classe nel resto del mondo. Afferma persino che, a determinate condizioni, il
sindacalismo può agire come un partito politico. Accetta l’elemento pragmatico e adattivo
dell’ordine del capitale che il New Deal implica, ma vi trova i risultati dei lavoratori. Realizzazioni
che non si limitano alle conquiste materiali ma a quello che Tronti considera l’uso operaio
dell’organizzazione capitalistica del lavoro industriale. Questa ambiguità del processo della
classe operaia nordamericana, protagonista di quella che l’autore definisce la tradizione più
politica del movimento operaio, costituisce ciò che Tronti considera fatti problematici,
inadeguati a essere pensati dalla visione marxista ortodossa del problema del lavoro ma che
continuano ad esistere, sebbene i diversi marxismi non si occupino di affrontarli.
La classe lavoratrice americana è “questo oscuro enigma, questa cosa sociale in sé che si sa che
esiste, ma non si può conoscere, questo è il punto di non ritorno per la ricerca”. Perché Tronti
sostiene l’esistenza di questo problema? Qui arriviamo a un punto problematico nell’indagine su
Operai e Capitale, che è la tesi trontiana secondo cui il movimento operaio in quanto tale stava
raggiungendo la fine di un’era. La formulazione che egli propone, che non diventa tesi, è: “Le
lotte operaie di oggi hanno bisogno di una nuova unità di misura, perché quella vecchia, la
nostra, non basta e non ci serve più”.
Tronti rileva che la classe operaia ha raggiunto una grande quota di potere nella società
capitalista, la cui espressione più chiara è la contrattazione collettiva del prezzo della forza
lavoro. Postula un piano piuttosto paradossale della guerra di classe: la contrattazione collettiva
esprime la vittoria in una battaglia della lotta di classe. Tuttavia, capisce anche che in una
visione a più lungo termine, suggerisce che la classe operaia debba fare un balzo in avanti nella
sua organizzazione per essere in grado di attestarsi al livello delle nuove lotte ed evitare la
sconfitta in un periodo di tempo indeterminato. Chi è in ritardo perde, dice Tronti.
Ciò che si può dedurre è che Tronti cominciava a rendersi conto che il programma di ricerca
operaista cominciava a mostrare i suoi limiti. Che non sempre si manifestano attraverso i suoi
problemi centrali ma generalmente attraverso elementi sintomatici. In quel senso, la classe
operaia nordamericana sembrava diventare un elemento promettente per rafforzare la tesi
operaista sull’esistenza di forme di potere operaio nella società capitalista, per finire per essere
un problema che ci costringeva ad andare in aree della realtà che erano fuori dalle coordinate
operaiste.
Tronti colloca lo scenario che vede approssimarsi la lotta di classe come quello del capitalismo
maturo (qui possiamo osservare una certa continuità con l’operaismo). Non è dichiarato
esplicitamente, ma questa diagnosi si oppone a una delle tesi iniziali e più importanti di Operai e
Capitale, che affermava che nel capitalismo maturo la società tendeva a identificarsi con la
fabbrica. Afferma, questo si esplicitamente, che l’indagine doveva proseguire a partire dalla
sensazione che stesse iniziando una nuova fase della lotta di classe e che fosse necessario poter
anticipare i suoi tratti dalla teoria.
Dopo Operai e Capitale, Tronti inizia ad orientare la sua ricerca verso l’autonomia del politico. In
altre parole, verso il rapporto di coinvolgimento e discordia tra sfera economica e sfera politica.
Tuttavia, la parte finale di questo libro non si traduce in una rottura con il programma operaista.
Era solo l’inizio di quella pausa. Ma era un principio la cui sequenza, una volta avviata, non
poteva essere interrotta. Tronti e alcuni suoi colleghi operaisti proseguiranno il loro cammino di
ricerca sulla centralità dei lavoratori all’interno del Partito Comunista Italiano. Sostenevano
quell’adesione in modo critico anche se, apparentemente, senza poter influenzare politicamente
il suo corso. Tronti criticò la sua auto-abolizione e le successive mutazioni in Pds, Ds e infine
Partito Democratico ma non si ritirò mai dall’organizzazione.
Gli altri suoi colleghi operaisti persistettero in alcune delle posizioni più vicine all’operaismo,
continuando a militare in organizzazioni come Potere Operaio. Probabilmente la tesi della
fabbrica diffusa, esplicitata da Toni Negri, è stata formulata in contrasto con la tesi trontiana
sull’autonomia del politico. Questa tesi implicava una continuità ma anche la consapevolezza
che la situazione del modo di esistere e di agire della classe operaia cominciava a subire
cambiamenti decisivi. Negri era il più noto di questo settore dei militanti operaisti, che finiranno
per cambiare le loro coordinate di militanza e confluiranno nella cosiddetta Autonomia Operaia,
che ha avuto il suo periodo di massimo splendore negli anni Settanta e Ottanta. L’Autonomia
Operaia sviluppò le tesi operaiste ma cercò di adattarle a un mondo in cui la classe operaia
fordista stava cominciando a ridursi numericamente e che ebbe come effetto, non la sua
scomparsa, ma il suo spostamento dal centro della scena politica. Gli autonomi scelsero di
estendere la situazione della classe operaia alla maggioranza della società. Fatto criticato da
Tronti come una seria concessione alle tradizioni democratiche.
Il Tronti di Operai e Capitale mostra molte delle virtù della rilettura operaista del marxismo. Ciò
è visibile nelle sue prime tre parti in cui appare un marxismo soggettivista e materialista molto
originale e attaccato alla realtà del soggetto che cercava di indagare / interrogare. Allo stesso
tempo non si può non rilevare che sia nella parte di Operai e Capitale più attaccata all’operaismo
sia nella parte finale, più espressiva dell’inizio della sua crisi, la teoria sembrerebbe generare
varie astuzie della ragione in cui sembra non essere in grado di sfuggire al suo destino
trasformativo senza nemmeno provarci.
Una possibile ipotesi per riuscire a cogliere le ragioni per le quali Tronti e gli operaisti
produssero queste manipolazioni dialettiche è un certo fascino per il potere reale che il
soggetto fordista arrivò ad accumulare durante il trentennio glorioso, così lontano dalla classe
operaia dell’Ottocento che navigava tra il primitivismo artigianale e il miserabilismo
modickense. Certe idee espresse nel libro sulla continuità tra sindacati e partiti ci portano a
non riuscire a misurare quale fosse il limite che gli operaisti davano all’uso operaio delle istanze
sindacali, industriali o statali. Un’idea creativa e interessante quando non trova il suo limite può
portare a una deriva teorico-politica palesemente infondata e irragionevole. È il caso di questo
spirito operaio che riesce sempre a soffiare ovunque.
Operai e Capitale è anche un documento teorico che ha cercato di spiegare il potere che la
classe operaia aveva raggiunto nella società capitalista. E ha anche presentato il sospetto,
l’intuizione che questo elemento potrebbe cambiare negli anni a venire. La fase capitalista che
abbiamo vissuto per più di quarant’anni – e che per abitudine chiamiamo neoliberismo – ha
mostrato una doppia capacità. In primo luogo, è riuscito a sloggiare la classe operaia dalle
fortezze e dalle trincee che era riuscita a costruire nella società capitalista. Ma anche
decostruire le condizioni in cui la classe stessa si sosteneva e che erano la fonte del suo potere.
L’affermazione che la classe operaia non esiste più è tanto ridicola quanto la sua periodica
riaffermazione sostanzialista che la colloca in un senso cosistico come un materiale
permanentemente attestato della sua esistenza e che si venera. Significa ignorare le sue
frequenti fasi di ristrutturazione in ritardo rispetto allo sviluppo capitalista. Oggi assistiamo alla
sua più profonda riconfigurazione per mano del capitale. Saldamente insediata in Asia e
migrante dall’Africa, la sua attuale configurazione nelle società più avanzate d’Europa e degli
Stati Uniti e perché no dell’America Latina qual è? Si presenta sotto la maschera
dell’eterogeneità e della frammentazione, sebbene diversi frammenti di lavoratori siano sotto il
controllo dello stesso capitale.
Anche l’affermazione operaista secondo cui la classe operaia ha un destino rivoluzionario dal
quale non può sottrarsi ha mostrato i suoi profondi limiti. La classe operaia è stato un soggetto
ambiguo, protagonista di gesta notevoli ed eroiche nonché della massima sottomissione e
complicità con il sistema e i suoi valori. La questione del soggetto, della trasformazione sociale
e della possibilità di una società radicalmente diversa da quella capitalista esprime l’accumulo di
rovine che accompagna il percorso storico delle classi subalterne nonché l’insostenibilità delle
attuali condizioni di vita sociale.
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