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©DeriveApprodi2012
per la traduzione italiana
I edizione: marzo 2 0 1 2
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Maurizio Lazzarato
La fabbrica
deiruomo indebitato
Saggio sulla condizione neoliberista
La svolta autoritaria
del neoliberismo
Il modello tedesco
II
pensioni a un mmi-job^ Una parte importante della
popolazione, il 21,7%, nel 2010 è assunta part-time.
L'istituto di statistica tedesco ha misurato l'aumen-
to della precarietà e delle forme che essa assume: tra il
1999 e il 2009, tutte le forme di lavoro atipico sono
crosciute almeno del 20%'. Le più colpite sono le fa-
tnigiic rnonoparentali (le donne) e gli anziani. Nella
cornice del pieno impiego precario, il tasso di disoccu-
pazione ufficiale esibito come un segno del «miracolo
economico tedesco» non significa granché! L'esercito
di workingpoors in continua espansione non è formato
unicamente da precari, ma anche da lavoratori con un
contratto a durata indeterminata. Nell'agosto 2010,
una relazione dell'istituto del lavoro dell'università di
Duisburg-Essen ha infatti stabilito che oltre 6,55 mi-
lioni di persone in Germania ricevono meno di 10 eu-
ro lordi all'ora, con un aumento di 2,26 milioni in die-
ci anni. Per la maggior parte sono vecchi disoccupati
che il sistema Hartz è riuscito ad «attivare»: quelli con
meno di 25 anni, gli stranieri e le donne (69% del to-
tale). D'altra parte, due milioni di occupati guadagna-
no meno di 6 euro all'ora nell'oltre-Reno, mentre nel-
l'ex Repubblica democratica tedesca sono in molti a ti-
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rare avanti con meno di quattro euro all'ora, cioè 720
euro al mese a tempo pieno. Risultato: i workingpoors
rappresentano il 20% degli occupati tedeschi.
Durante la crisi finanziaria, il governo è ricorso
massicciamente alla disoccupazione parziale, che
consente all'impresa di versare solo il 60% della nor-
male retribuzione e di pagare solo la metà delle contri-
buzioni sociali. Altro risultato della svolta iniziata da
Schròder; rispetto al Pil, dal 2002 la quota dei salari è
scesa del 5% oltre-Reno. I cambiamenti voluti dai
«rosso-verdi» sono significativi: dopo anni di prolife-
razione caotica e selvaggia della precarietà, di sotto-
impieghi e sotto-salari, era venuto il momento di in-
trodurre una regolazione e una razionalizzazione del-
la povertà e della precarietà, costituendo un «vero» e
«coerente» mercato del lavoro di «pezzenti», che spin-
gerà alla flessibilità e all'adeguamento alla ragione
economica anche i meglio occupati. È la popolazione
nel suo complesso - precari, working poors, lavoratori
qualificati - a diventare fluttuante, disponibile alla
flessibilità permanente. Le diverse componenti della
«forza lavoro» sociale sono ormai una semplice varia-
bile di aggiustamento della congiuntura economica.
Il programma «rosso-verde» si è guadagnato il no-
me che porta: «Agenda 2010»''; perché dieci anni do-
po la prima legge Hertz i risultati sono, fuor di meta-
fora, micidiali. In Germania, l'aspettativa di vita dei
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più poveri - di coloro che arrivano solo al 75% del red-
dito medio - diminuisce. Per le persone a basso reddi-
to, stando alle cifre ufficiali, è scesa da una media di
77,5 anni nel 2001 a 75,5 nel 2011. Nei Lànder dell'Est
di'l paese e ancora peggio: l'aspettativa media di vita è
scesa da 77,9 a 74,1 anni.
La Germania è il primo paese europeo a seguire gli
Stati Uniti sulla strada del progresso liberista. Ancora
due decenni di sforzi per «salvare il sistema pensioni-
stico» e la morte coinciderà con l'età della pensione. An-
che la guerra interna ha i suoi «bombardamenti chirur-
gici» mirati. Nell'ex Germania dell'Est l'aspettativa di vi-
ta arriva a 66 anni, appena un anno prima del diritto
alla pensione. Mors tua, vita mea! Ma poco importa: l'e-
conomia è sana, le «agenzie» danno giudizi positivi, i
creditori si abbuffano e l'aspettativa di vita della parte
più ricca della popolazione continuerà ad aumentare.
Serve una breve digressione su Peter Hartz, pro-
motore delle leggi sul regime di disoccupazione e del-
la riforma degli aiuti sociali; perché la sua condanna a
due anni di prigione con condizionale e al pagamento
di una multa di 576.000 euro è un esempio della «cor-
ruzione» consustanziale al modello neoliberista. Pe-
ter Hartz, ex responsabile delle risorse umane di Volk-
swagen e grande moralizzatore degli Anspruchdenker,
dei «profittatori del sistema», ha ammesso di aver ver-
sato a Klaus Volkert, sindacalista dell'IG Metall ed ex
presidente del consiglio di fabbrica del costruttore di
automobili tedesco, diverse mazzette, per pagare pro-
stitute e viaggi esotici. Klaus Volkert, inevce, è stato
portato in giudizio per incitamento all'abuso di fidu-
cia, esattamente come l'ex direttore del personale,
Klaus-Joachim Gebauer, accusato di complicità.
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Fare della povertà e della precarizzazione una va-
riabile strategica della flessibilità del mercato del lavo-
ro è quanto, dietro il ricatto del debito, sta avvenendo
in Italia, Portogallo, Grecia, Spagna, Inghilterra e Ir-
landa^ La Francia si è impegnata su questo terreno
con l'arrivo al potere di Sarkozy, anche se qui i risulta-
ti non sono così eclatanti come in Germania. Grazie
ancora una volta a un uomo di centro-sinistra, Martin
Hirsch, assunto dal presidente di destra in occasione
della sua apertura a «sinistra», in Francia verrà speri-
mentata la trasformazione dell'aiuto sociale (Reddito
minimo di inserimento - Rmi - , a 454 euro a persona)
in arma di produzione di working poors (Reddito di so-
lidarietà attiva - Rsa). È con le tecnologie di governo
dei poveri che si testano dispositivi di potere e di con-
trollo che in un secondo tempo verranno estesi all'in-
sieme della società, cosa che non sembra interessare
né la sinistra né i sindacati. Il Reddito di solidarietà at-
tiva comporta il superamento dei dualismi fordisti (di-
soccupazione/impiego, salario/ reddito, diritto del la-
voro/diritto all'assistenza sociale, legge/contratto) e
organizza la loro sovrapposizione e il loro concatena-
mento grazie alla figura del workingpoor. Fissa in ma-
niera stabile lo statuto di un lavoratore/assistito che
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L'esempio più recente di una riforma complessiva del mer-
cato del lavoro e degli strumenti di protezione sociale - pre-
scindendo dal percorso recentemente avviato dalla Spagna
- è offerto dagli interventi realizzati in Germania all'inizio
del decennio scorso quando il Paese era ritenuto il «malato
d'Europa», incapace di crescere e di superare l'urto della ri-
unificazione. Le riforme tedesche hanno interessato tutti
gli aspetti del mercato del lavoro e del Wdfare: migHora-
mento degli strumenti di istruzione professionalizzanti e
facilitazione del passaggio tra scuola e lavoro; sostegno alla
partecipazione al mercato del lavoro e all'occupazione, an-
che parziale, delle fasce più svantaggiate; rafforzamento del
legame tra il godimento di particolari trattamenti e l'effetti-
va azione di riqualificazione e di ricerca di lavoro; potenzia-
mento dell'attività dei centri per l'impiego; introduzione di
maggiore flessibilità, sia con nuove tipologie contrattuali
sia negli spazi della contrattazione tra impresa e lavoratore.
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Mario Draghi, non possiamo più permetterci di «pa-
gare la gente che non lavora».
A ogni cambiamento di fase economico-politica ri-
troviamo sempre lo Stato e la sua amministrazione al
comando delle operazioni. Proprio come ha favorito e
spinto le politiche neoliberiste del credito negli anni
Ottanta e Novanta, è allo Stato che spetta l'organizza-
zione della loro continuità nelle nuove forme autorita-
rie e repressive del rimborso del debito e della figura
dell'uomo indebitato. Cade così un'altra illusione della
sinistra, quella che oppone alla logica della proprietà
privata del mercato la logica di un «pubblico» statale.
Non c'è né autonomia del politico, né neutralità dello
Stato. Le sue amministrazioni agiscono in profondità
sull'economia, la «società» e le soggettività, come la
costruzione del mercato del lavoro dimostra in modo
paradigmatico.
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gli eccessi o perché i finanzieri fossero avidi (un'altra
illusione della «sinistra» regolatrice!). Tutto questo è
vero ma non coglie la natura della crisi attuale, che
non è cominciata con il disastro finanziario. Que-
sf ultima è piuttosto il risultato del fallimento del pro-
gramma neoliberista (fare dell'impresa il modello di
qualunque relazione sociale) e della resistenza che la
figura soggettiva da questi promossa (il capitale uma-
no e l'imprenditore di se stessi) ha incontrato. È que-
sta resistenza, anche se passiva, che ostacolando la
realizzazione del programma neoliberista ha trasfor-
mato il credito in debito. Se il credito e il denaro espri-
mono la loro comune natura di «debito», è perché
l'accumulazione è bloccata, è incapace di garantire
nuovi profitti e di produrre nuove forme di assogget-
tamento, non il contrario.
Tra il 200I e il 2004, negli Stati Uniti, la crescita
del 10% del Pil è stata possibile unicamente perché
misure di rilancio dell'attività hanno iniettato nell'eco-
nomia 15,5 punti di Pil: riduzione dell'imposizione di
2,5 punti del Pil, credito immobiliare passato da 450 a
960 miliardi (1300 prima della crisi del 2007), au-
mento delle spese pubbliche di 500 miliardi.
A cavallo del secolo, la Germania era nella stessa si-
tuazione. La crescita del Pil tedesco tra il 2000 e il
2006 è stata di 354 miliardi di euro. Ma se paragonata
ai numeri del debito nello stesso periodo (342 miliar-
di) , non è difficile constatare che il risultato reale è una
«crescita zero».
È stato il Giappone a entrare per primo - dopo l'e-
splosione della bolla immobiliare negli anni Novanta
(e la successiva esplosione del debito per rimettere in
sesto il sistema bancario) - in una «crescita zero» che
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volge ormai alla recessione. Meglio di altri paesi, il
Giappone rivela la natura della crisi contemporanea.
I.f ragioni dell'impasse del modello neoliberista non
vanno cercate unicamente nelle contraddizioni eco-
noniiclie, seppure molto reali, ma anche e soprattut-
to in ciò che Guattari chiama «crisi della produttività
di soggellivilà».
Il miracolo giapponese, che è stato capace di for-
giari' iitia forza lavoro collettiva e una forza sociale
«molto integrata al macchinismo» (Guattari), sembra
girare a vuoto, preso anch'esso, come tutti i paesi svi-
luppati, nelle maglie del debito e dei suoi modi di sog-
gettivazione. Il modello soggettivo «fordista» (impie-
go a vita, un tempo unicamente dedicato al lavoro, il
ruolo della famiglia e la sua divisione patriarcale dei
ruoli ecc.) è esaurito, e non si sa con cosa sostituirlo.
La crisi del debito non è una follia della speculazione,
ma il tentativo di mantenere in vita un capitalismo già
malato. Il «miracolo economico» tedesco è una rispo-
sta regressiva e autoritaria alle impasse che si erano già
manifestate prima del 2007. È per questa ragione che
la Germania e l'Europa sono così feroci e inflessibiH
con la Grecia. Non solo in nome del «I want my mo-
ney back» (quello dei creditori), ma anche e soprattut-
to perché la crisi finanziaria apre una nuova fase poli-
tica, nella quale il capitale non può più contare sulla
promessa di una futura ricchezza per tutti come negli
anni Ottanta. Non può più disporre degli specchietti
per le allodole della «libertà» e dell'«indipendenza»
del capitale umano, né di quelli della società dell'infor-
mazione o del capitalismo cognitivo. Per dirla come
Marx, può solo contare sull'estensione e l'approfondi-
mento del «plusvalore assoluto», ovvero un allunga-
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mento del tempo di lavoro, un incremento del lavoro
non retribuito e dei bassi salari, dei tagli ai servizi, del-
la precarizzazione delle condizioni di vita e di impie-
go, sulla diminuzione della speranza di vita. L'austeri-
tà, i sacrifici, la produzione della figura soggettiva del
debitore non rappresentano un brutto momento da
superare in vista di una «nuova crescita», ma tecnolo-
gie di potere, di cui solo l'autoritarismo, che non ha
più niente di «liberale», può garantirne la riproduzio-
ne. Il governo del pieno impiego precario e la tagliola
del saldo del debito richiedono l'integrazione nel siste-
ma politico democratico - che dagli anni Ottanta San-
ziona su altro che la rappresentanza - di interi blocchi
del programma delle estreme destre. La resistenza
passiva che non ha aderito al programma neoliberista
rappresenta la sola speranza di fiiggire alle «tecnolo-
gie di governo» dei «governi tecnici» del debito. Di
fronte alla fiera degli orrori dei piani di austerità im-
posti alla Grecia, c'è chi dovrebbe dirsi, in un modo o
nell'altro, de tefabula narraturl
È di te che si parla.
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Le illusioni economiche e politiche di questi ultimi
quarantanni cadono l'una dopo l'altra, rendendo le
politiche neoliberiste ancora piri brutali. La new eco-
nomy, la società dell'informazione, la società della co-
noscenza sono tutte solubili nell'economia del debito.
Nelle democrazie che hanno trionfato sul comunismo
pochissime persone (qualche funzionario dell'Fmi,
dell'Europa e della Banca centrale europea, insieme a
qualche politico) decidono per tutti secondo gli inte-
ressi di una minoranza. La grandissima maggioranza
degli europei viene tre volte deprivata dall'economia
del debito: deprivata del già debole potere politico con-
cesso dalla democrazia rappresentativa; deprivata di
una quota sempre maggiore della ricchezza che le lot-
te trascorse avevano strappato all'accumulazione capi-
talistica; ma soprattutto, deprivata del futuro, ovvero
del tempo, come decisione, scelta, come possibile.
La successione delle crisi finanziarie ha fatto vio-
lentemente emergere una figura soggettiva che era
già presente, ma che oggi ormai investe l'insieme del-
lo spazio pubblico: la figura deir«uomo indebitato».
Le realizzazioni individuali promesse dal neoliberi-
smo («tutti azionisti, tutti proprietari, tutti imprendi-
tori») ci spingono verso la condizione esistenziale di
quest'uomo indebitato, responsabile e colpevole del
suo stesso destino. Questo saggio vuole proporre una
genealogia e un'esplorazione della fabbrica economi-
ca e soggettiva dell'uomo indebitato.
Dopo la precedente crisi finanziaria, scoppiata in-
sieme alla bolla di internet, il capitalismo ha messo da
parte le narrazioni epiche elaborate intorno ai «perso-
naggi concettuali» dell'imprenditore, dei creativi, del
lavoratore indipendente «orgoglioso di essere il pa-
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drone di se stesso», i quali, nel perseguire unicamen-
te i loro privati interessi, lavorano per il bene di tutti.
L'investimento, la mobilitazione soggettiva e il lavoro
su di sé, predicati dal management fin dagli anni Ot-
tanta, si sono trasformati in un imperativo ad assume-
re su di sé i costi e i rischi della catastrofe economica e
finanziaria. La popolazione deve farsi carico di tutto
ciò che le imprese e lo Stato sociale «esternalizzano»
verso la società, dunque anzitutto del debito.
Per i padroni, i media, gli uomini politici e gli
esperti, le cause della situazione non sono da ricercare
nelle politiche monetarie e fiscali che scavano il deficit
- operando un massiccio trasferimento di ricchezza
verso i più ricchi e le imprese - , né nel susseguirsi del-
le crisi finanziarie che, dopo essere di fatto scomparse
durante i «gloriosi trenf anni», continuano a ripetersi
e a estorcere strabilianti somme di denaro alla popola-
zione, nel tentativo di evitare ciò che viene chiamato
«crisi sistemica». Per tutti costoro, colpiti da amnesia,
le vere cause di queste crisi incessanti risiederebbero
nelle eccessive pretese dei governati (in particolare di
quelli dell'Europa del Sud), che vogliono vivere come
«cicale», e nella corruzione delle classi dirigenti, che
in realtà hanno sempre svolto un ruolo nella divisione
internazionale del lavoro e del potere.
Il blocco di potere neoliberista non può e non vuo-
le «regolare» gli «eccessi» della finanza, perché il suo
programma politico è ancora quello rappresentato
dalle scelte e dalle decisioni che ci hanno portato al-
l'ultima crisi finanziaria. Con il ricatto del default del
debito sovrano, intende invece portare fino in fondo
questo programma, di cui fin dagli anni Settanta fan-
tastica la completa applicazione: ridurre i salari a un li-
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vello minimo, tagliare i servizi sociali per mettere il
Welfare al servizio dei nuovi «assistiti» (le imprese e i
ricchi) e privatizzare qualunque cosa.
Per analizzare non solo la finanza, ma anche l'eco-
nomia del debito, che la ingloba e la supera, nonché la
sua politica di assoggettamento, siamo privi di stru-
menti teorici, di concetti, di enunciati.
In questo libro intendiamo tornare all'analisi del
rapporto creditore-debitore compiuta dal Deleuze e
Guattari con L'anti-Edipo. Pubblicato nel 1972 - e anti-
cipando teoricamente lo spostamento che il Capitale
avrebbe successivamente operato - questo testo ci
consente, alla luce di una lettura della Genealogia della
morale di Nietzsche e della teoria marxiana della mo-
neta, di riattivare due ipotesi. Anzitutto, l'ipotesi se-
condo la quale il paradigma sociale non è dato dallo
scambio (economico e/o simbolico), ma dal credito.
Alla base della relazione sociale non c'è l'uguaglianza
(dello scambio), ma l'asimmetria del rapporto debi-
to/credito che precede, storicamente e teoricamente,
la relazione tra produzione e lavoro salariato. Poi, l'i-
potesi che vede nel debito un rapporto economico in-
dissociabile dalla produzione del soggetto debitore e
della sua «moralità». L'economia del debito riveste il
lavoro, nel senso classico del termine, di un «lavoro
sul sé», così da far fiinzionare in modo congiunto eco-
nomia ed «etica». Il concetto contemporaneo di «eco-
nomia» ricopre sia la produzione economica che la
produzione di soggettività. Le categorie classiche della
sequenza rivoluzionaria dei secoli XIX e XX - lavoro,
sociale e politica - vengono attraversate dal debito e in
larga parte da questo ridefìnite. Occorre dunque av-
venturarsi in territorio nemico e analizzare l'econo-
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mia del debito e della produzione dell'uomo indebita-
to, nel tentativo di costruire armi utili a combattere le
battaglie che si annunciano. Poiché la crisi, lungi dal
chiudersi, rischia di estendersi.
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La fabbrica dell'uomo indebitato
Il debito come fondamento del sociale
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di portare a termine il proprio programma di finanziamen-
to, garantendo così la continuità del servizio dei sussidi di
disoccupazione. Il io settembre 2010, l'ultima previsione di
equilibrio tecnico della cassa di disoccupazione in effetti ri-
velava una previsione di debito globale dell'Unedic vicina ai
13 miliardi di euro entro la fine del dicembre 2011.
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Anziché aumentare la contribuzione a carico del
datore di lavoro, l'Unedic - come qualunque impresa
che si rispetti - ha preso in prestito del denaro emet-
tendo obbligazioni sui mercati finanziari. Nel dicem-
bre 2009 ha preso in prestito 4 miliardi di euro, e altri
2 miliardi nel febbraio 2010. Le istituzioni finanziarie
si sono affrettate ad acquistare questi titoli e in poco
meno di un'ora era tutto venduto. Un simile entusia-
smo da parte degli investitori è facilmente spiegabile.
Le agenzie internazionali di rating (le stesse ad aver
espresso cattivi giudizi su Irlanda, Grecia, Portogallo e
Spagna, facendo subire un'impennata agli interessi sul
debito e imponendo politiche di rigore di bilancio; le
stesse ad aver indicato i «titoli spazzatura», causa prin-
cipale della crisi dei subprìme; le stesse ad aver fornito
giudizi favorevoli alle imprese condannate per malver-
sazione, come Enron; le stesse a non essersi accorte di
niente prima dell'arrivo dell'ultima crisi finanziaria)
hanno dato, come afferma il comunicato, dei «buoni
rating» e quindi delle «garanzie» agli investitori.
Così, per «salvare il sistema» di indennizzazione
dal «fallimento» (il ricatto è sempre lo stesso), occorre
introdurre in un'istituzione privata, ma «di interesse
pubblico» come l'Unedic, la logica finanziaria, con le
seguenti conseguenze:
I. Il tasso d'interesse applicato a questi 6 miliardi
di prestito è di circa il 3%, il che significa che le inden-
nità di disoccupazione diventano una nuova fonte di
profitto per le istituzioni finanziarie, i fondi pensione
e le banche. Se Mood/s abbassa il rating, come ha fat-
to recentemente per l'Irlanda, la Grecia 0 il Portogallo,
il tasso al quale l'Unedic prende in prestito il denaro
aumenta, e la finanza può così effettuare un prelievo
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ancora più alto sulle indennità dei disoccupati, cosa
che si traduce in una disponibilità di reddito inferiore
da distribuire in forma di sussidi.
2. I giudizi delle tre agenzie incomberanno sui ta-
voli di trattativa della convenzione per la copertura
della disoccupazione, che decidono della durata e del-
l'ammontare dei sussidi e che si svolgono ogni tre an-
ni. Per conservare buoni giudizi, sindacati e confmdu-
stria agiranno in funzione delle esigenze delle agen-
zie di rating e non di quelle dei disoccupati, poiché gli
interessi da pagare variano in funzione dei rating.
3. Attraverso il «potere di valutazione», le agenzie
di rating fanno il loro ingresso nella gestione del regi-
me di disoccupazione. La gestione paritaria dell'assi-
curazione contro la disoccupazione, garantita dai sin-
dacati dei lavoratori e dalla confìndustria, si apre agli
investitori privati che d'ora in avanti avranno diritto di
parola. La «valutazione» delle agenzie diventa un ele-
mento di valutazione generale dello «stato di salute»,
deir«efficacia» e della «produttività» del sistema di as-
sicurazione contro la disoccupazione. Durante la lotta
degli intermittenti e quella dei disoccupati nell'inver-
no 1997-1998, sia gli uni che gli altri avevano tentato
di scuotere il duopolio sindacato/confidustria per
aprire la gestione del sistema contro la disoccupazio-
ne alle categorie «precarie», rappresentate malissimo
dai sindacati, i quali pensavano e agivano come difen-
sori dei diritti dei salariati a tempo pieno. La rivendi-
cazione che voleva più democratica la gestione delle
casse di assicurazione non è mai andata in porto. In
compenso, i «capitalisti industriali», i capitalisti delle
assicurazioni e lo Stato hanno fatto entrare, con di-
screzione, i capitalisti finanziari.
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Non conosciamo tutte le condizioni del prestito
sottoscritto dall'Unedic. Ci limitiamo a sperare che i
tassi (il costo del prestito) siano meno «usurari» di
quelli firmati dagli enti locali che, non potendo ricor-
rere al Tesoro, devono a loro volta ricorrere ai mercati
finanziari. Il tasso di indebitamento delle regioni e
dei dipartimenti francesi dal 2001 è aumentato del
50%. Un caso tra tanti: il 9 febbraio 2011, il Consiglio
generale della Seine-Saint-Denis ha deciso di fare
causa a tre banche (Depfa, Calyon, Dexia) con le qua-
li aveva sottoscritto dei cosiddetti prestiti tossici, con
l'obiettivo di fare annullare i contratti. Il primo gen-
naio 2.011, il debito della Seine-Saint-Denis ammon-
tava a 952,7 milioni di euro ed era costituito per il
71,7% da prestiti strutturati, i cosiddetti prestiti tossi-
ci. Il dipartimento ha sottoscritto complessivamente
63 prestiti tossici. Questi stessi prodotti finanziari so-
no stati venduti a numerose comunità locali. Sono le-
gati a indici altamente volatili, che possono causare
forti aumenti dei tassi d'interesse pagati dalle colletti-
vità. «Il tasso iniziale, per tre anni, era dell'1,47%, a
fronte di un tasso attuale del 24,20%, il che rappre-
senta un sovraccosto di 1,5 milioni di euro l'anno, cioè
quasi il costo di un asilo nido», ha dichiarato alla
stampa un amministratore.
Quello che le contribuzioni per la disoccupazione
dei salariati e gli enti locali pagano ai creditori costitui-
sce soltanto una piccolissima parte del salasso che la
finanza internazionale esercita ogni anno sul reddito
della popolazione di una nazione.
In Francia, il pagamento degli interessi del debito
di Stato ammontava nel 2007 a oltre 50 miliardi di
euro. Quesf onere è al secondo posto del bilancio del-
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lo Stato francese, dopo quello dell'Istruzione e prima
di quello della Difesa. Ogni anno assorbe la quasi to-
talità dell'imposta sul reddito". L'aumento del debito
dello Stato è uno dei principali risultati delle politiche
neoliberiste che, dalla metà degli anni Settanta, per-
seguono l'obiettivo di trasformare la struttura del fi-
nanziamento delle spese dello Stato sociale. Da que-
sto punto di vista, la legge più importante adottata da
tutti i governi e inscritta in diversi trattati europei è il
divieto di finanziare il debito sociale attraverso la
Banca centrale. Gli enti locali, come tutti i servizi so-
ciali del Welfare, non possono più essere finanziati at-
traverso l'emissione di moneta da parte della Banca
centrale, ma devono ricorrere ai «mercati finanzia-
ri». Ciò che chiamiamo «indipendenza dalla Banca
centrale», tradotto in linguaggio corrente, significa
piuttosto dipendenza dai mercati, poiché questa leg-
ge stabilisce l'obbligo di ricorrere ai creditori privati e
alle condizioni dettate dai proprietari di titoli, di azio-
ni e di obbligazioni. Prima di questa legge, lo Stato
poteva finanziarsi presso la Banca centrale senza pa-
gare interessi, rimborsando il debito in funzione del-
le proprie entrate. È stato calcolato che la somma ag-
giornata di tutti gh interessi del debito pagati dal
1974 (data in cui è stato introdotto in Francia l'obbli-
go, per lo Stato, di finanziarsi sui mercati) rappresen-
ta quasi 1200 miliardi di euro, su 1641 miliardi del to-
2. Il rimborso della quota capitale del debito, che fa parte del servizio del
debito, rappresenta per lo Stato circa 80 miliardi di euro, cioè la somma
di tutte le altre entrate fiscali dirette (imposta sulle società, imposta sui
capitali, ecc.). In totale, il servizio del debito dello Stato rappresenta 118
miliardi di euro, che corrisponde al totale delle risorse fiscali dirette, 0
pressoché alla totalità dell'Iva (circa 130 miliardi di euro).
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tale del debito pubblico. Gli interessi del debito rap-
presentano la misura del furto che i mercati operano
sulla popolazione da quaranf anni a questa parte.
La «cattura» del valore avviene anche nei confronti
delle imprese. Le politiche neoliberiste le hanno tra-
sformate in semplici attività finanziarie, ed esse «ver-
sano più ai loro azionisti di quanto non ricevano da lo-
ro in fondi»'.
Il consumo, che nei paesi industrializzati costitui-
sce la quota maggior del Pil (negli Stati Uniti rag-
giunge il 70%), è un'altra importantissima fonte di
«rendita» per i creditori. Negli Stati Uniti, le spese
più importanti di una famiglia (l'acquisto di una casa,
l'acquisto e la manutenzione di una macchina e le
spese per gli studi) si fanno a credito. Ma il consumo
dipende dal debito anche per l'acquisto di beni cor-
renti, per lo più pagati con carta di credito. Negli Stati
Uniti e nel Regno Unito, l'indice di indebitamento
delle famiglie rispetto al loro reddito disponibile è ri-
spettivamente del 120% e del 140%. La crisi dei sub-
prime ha dimostrato che all'interno delle grandi mas-
se di crediti cartolarizzati (i debiti trasformati in titoli
negoziabili in borsa), accanto al settore immobiliare,
ai crediti auto e ai prestiti studenteschi, troviamo le
carte di credito.
Attraverso il consumo, senza saperlo intratteniamo
un rapporto quotidiano con l'economia del debito. Por-
tiamo con noi la relazione creditore-debitore, in tasca e
nel portafogli, inscritta nel microchip della nostra carta
di credito. Quel piccolo «quadrato» di plastica nascon-
37
de due operazioni che hanno l'aria insignificante, ma
le cui implicazioni sono di grande rilievo: l'apertura au-
tomatica di una relazione di credito che instaura un de-
bito permanente. La carta di credito è il modo piìi sem-
plice per trasformare il suo possessore in debitore per-
manente, neir«uomo indebitato» a vita''.
38
carta, appropriarsi del lavoro e della ricchezza altrui»®.
Ciò che i media chiamano «speculazione» costituisce
una macchina di cattura o di predazione del plusvalo-
re a servizio dell'accumulazione capitalistica attuale,
all'interno della quale è impossibile distinguere la
rendita dal profitto. Il processo di cambiamento delle
fiinzioni di direzione della produzione e di proprietà
del capitale, che ha cominciato a svilupparsi all'epoca
di Marx, è oggi del tutto compiuto. Il «capitalista real-
mente attivo» si trasforma, come diceva già Marx, in
«un semplice dirigente e amministratore di capitale»
e «i proprietari di capitali» in capitalisti finanziari o in
redditieri. La finanza, le banche, gli investitori istitu-
zionali non sono semplici speculatori, ma i (rappre-
sentanti dei) «proprietari» del capitale, mentre quelli
che un tempo erano i «capitalisti industriali», gli im-
prenditori che rischiavano i loro capitali propri, sono
ridotti a essere semplici «fianzionari» («salariati» o re-
tribuiti con azioni) della valorizzazione finanziaria.
È allora necessario togliere alla rendita qualunque
connotazione morale, poiché l'eutanasia del redditie-
re, la sua esclusione dall'economia - diversamente da-
gli auspici di Keynes, che ne aveva fatto la parola d'or-
dine della ristrutturazione del capitalismo dopo la cri-
si del '29 - significherebbe l'eutanasia non della
«speculazione», ma semplicemente del capitalismo.
Significherebbe l'eutanasia della proprietà privata e
del patrimonio, i due pilastri politici dell'economia
neoliberista. Del resto, è l'insieme dell'accumulazione
capitalistica contemporanea a essere assimilabile a
una rendita. Il mercato immobiliare, il continuo au-
6. !bid., p. 442.
39
mento dei prezzi di acquisto degli immobili e del co-
sto degli affìtti, costituisce una rendita (e che rendita,
specialmente negli Stati Uniti!), allo stesso modo di
quella che si paga alla proprietà intellettuale ogni volta
che si acquista un prodotto coperto da diritti d'autore.
Ma non per questo dobbiamo fossilizzarci su una
semplice posizione di denuncia.
Ridurre la finanza alla sua funzione speculativa si-
gnifica trascurarne il ruolo politico di rappresentante
del «capitale sociale» (Marx), che i capitalisti indu-
striali non riescono e non possono assumere, e la fun-
zione di «capitalista collettivo» (Lenin), che si esercita,
attraverso tecnologie di governo, sulla società nel suo
insieme. Ciò significa, allo stesso tempo, trascurare la
sua funzione «produttiva», la sua capacità di generare
profitti. Il peso delle società finanziarie, assicurative e
immobiliari sul totale dei profitti delle imprese degli
Stati Uniti negli anni Ottanta ha quasi raggiunto e ne-
gli anni Novanta ha superato quello delle imprese del
settore manifatturiero. In Inghilterra, rappresenta il
primo settore dell'economia.
Peraltro, è impossibile separare la finanza dalla
produzione, poiché è parte integrante di tutti i settori
di attività. La finanza, l'industria e i servizi lavorano in
simbiosi.
40
riodo storico nel quale la finanza è consustanziale a tutta la
produzione stessa di beni e servizi'.
41
stione di debiti privati e pubblici, quindi di gestione
della relazione creditore-debitore grazie alle tecniche
di cartolarizzazione. Di conseguenza, piuttosto che di
finanza preferiamo parlare di «debito» e di «interes-
se». Qui, non analizzeremo «la finanza», i suoi mec-
canismi interni, la logica che presiede alle scelte dei
traders ecc., analizzeremo piuttosto la relazione tra
creditore e debitore. Cioè, contrariamente a ciò che
predicano tutto il santo giorno gli economisti, i gior-
nalisti e gli «esperti», la finanza non è un eccesso di
speculazione che bisognerebbe regolare, una semplice
funzionalità capitalistica che garantisce l'investimen-
to; non rappresenta nemmeno un'espressione dell'a-
vidità e della cupidigia della «natura umana» che biso-
gnerebbe ragionevolmente controllare, bensì una rela-
zione di potere. Il debito è la finanza dal punto di vista
dei debitori che devono rimborsarlo. L'interesse è la fi-
nanza dal punto di vista dei creditori, proprietari di ti-
toli che gli garantiscono di godere del debito.
Economia del debito sembra essere un'espressione
politicamente più appropriata di finanza o di econo-
mia finanziaria o persino di capitalismo finanziario,
poiché comprendiamo immediatamente di cosa si
tratta: del debito che greci, irlandesi, portoghesi, in-
glesi, islandesi non vogliono pagare e contro il quale
scendono in piazza da mesi; del debito che legittima
l'aumento dei costi delle tasse universitarie inglesi e
che a Londra scatena violenti scontri; del debito che
giustifica il taglio di 800 euro a famiglia, sempre in
Inghilterra, per riassestare conti pubblici messi sotto
sopra dalla crisi finanziaria; del debito che giustifica la
controriforma delle pensioni in Francia; del debito
che determina i tagli all'educazione in Italia e contro i
42
quali insorgono gli studenti romani; del debito che ta-
glia i servizi sociali, i finanziamenti alla cultura, gli as-
segni di disoccupazione, i minimali sociali in Francia
e, con il nuovo patto di stabilità, in Europa.
Una volta stabilito che le crisi attuali non sono la
conseguenza di una divaricazione tra finanza e produ-
zione, tra la cosiddetta economia «virtuale» e l'econo-
mia «reale», ma che esprimono una relazione di pote-
re tra creditori e debitori, dobbiamo focalizzarci sul-
l'influenza crescente del debito sulle politiche
neoliberiste.
43
bito) sono più che raddoppiati, passando dal 9% al
20%, mentre nel periodo precedente erano stati in
media negativi. «Questi tassi elevati hanno creato di
sana pianta degli indebitamenti comulativi degli Stati
(debito pubblico) o dei paesi (debito estero). Le classi
agiate costruiscono così un dispositivo di polarizza-
zione estrema dalle proporzioni gigantesche tra credi-
tori e debitori»'", che va a tutto vantaggio dei creditori.
L'impossibilità di mediare il debito sociale (cioè il
debito dello Stato sociale) attraverso dispositivi mone-
tari (ricorso del Tesoro alla Banca centrale) costringe
allo sviluppo dei mercati finanziari, sviluppo che è an-
cora una volta organizzato, sollecitato e imposto, pas-
so dopo passo, dallo Stato - in Francia lo si è fatto, per
lo più, sotto i governi socialisti.
È dunque attraverso la gestione dei debiti degli Sta-
ti, creati da quanto accaduto del 1979, che i mercati fi-
nanziari si sono strutturati e organizzati. Gli Stati non
si sono limitati a liberalizzare i mercati finanziari, ma
hanno accompagnato l'organizzazione e la struttura-
zione del loro fìjnzionamento.
44
Le politiche monetarie, le politiche di deflazione
salariale (blocco dei salari), le politiche dello Stato so-
ciale (riduzione delle spese sociali) e le politiche fi-
scali (trasferimenti verso le imprese e gli strati più
ricchi della popolazione di diversi punti del Pil in tut-
ti i paesi industrializzati) convergono verso la crea-
zione di enormi debiti pubblici e privati.
La riduzione del debito, oggi all'ordine del giorno
in tutti i paesi, non è in contraddizione con la sua
creazione, poiché si tratta della continuazione e del-
l'ampliamento del programma politico neoliberista.
Da una parte si tratta di riprendere, attraverso politi-
che di austerità, il controllo sul «sociale» e sulle spese
sociali del Welfare, cioè sui redditi, sul tempo (della
pensione, delle ferie, ecc.) e sui servizi sociali che so-
no stati strappati dalle lotte all'accumulazione capita-
listica. È una posta in gioco chiaramente enunciata
dal programma della confidustria francese, «La ri-
fondazione sociale», la cui direzione è passata, alla fi-
ne del secolo scorso, dalle mani degli industriali della
metallurgia a quelle di assicuratori e finanzieri. De-
nis Kessler, che ne è l'ideologo, all'epoca del suo lan-
cio nel 1999, affermava che occorre reintrodurre «l'e-
sigenza economica dentro un sociale che, a volte, ha
troppa tendenza a giocare con la propria emancipa-
zione o persino a volerla dominare»". Dall'altra parte,
si tratta di perseguire e approfondire il processo di
privatizzazione dei servizi dello Stato sociale, cioè la
loro trasformazione in terreno di accumulazione e di
profitto per le imprese private. Queste ultime devono
45
«reinternalizzare» la protezione sociale che avevano
esternalizzato durante il Fordismo, «delegandola» al-
lo Stato (gli assicuratori nella fattispecie, testa di pon-
te della nuova direzione della confìdustria francese,
ritengono di esser stati «derubati» nel 1945). I piani
di austerità imposti dall'Fmi e dall'Europa alla Grecia
e al Portogallo hanno come parametro guida quello di
«nuove privatizzazioni». Un sindacalista greco, a
proposito delle misure imposte dall'Fmi e dall'Euro-
pa, fa notare che si tratta di una «svendita» bella e
buona piuttosto che di un piano di «salvataggio».
L'economia del debito è dunque vettore di un capi-
talismo nel quale il risparmio dei lavoratori salariati e
della popolazione - i fondi pensionistici, l'assicurazio-
ne-malattia, i servizi sociali «gestiti dentro un univer-
so di concorrenza»'' - tornebbe a essere una funzione
d'impresa. Nel 1999, Denis Kessler stimava in 2600
miliardi di franchi, ovvero il 150% del bilancio dello
Stato, il bottino rappresentato per le imprese dalle
spese sociali. La privatizzazione dei meccanismi di as-
sicurazione sociale, l'individualizzazione della politi-
ca sociale e la volontà di fare della protezione sociale
una funzione d'impresa sono i fondamenti dell'eco-
nomia del debito.
L'ultima crisi finanziaria è stata colta, da parte del
blocco di potere dell'economia del debito, come l'occa-
sione per approfondire ed estendere la logica delle po-
litiche neoliberiste.
46
Il debito, vettore di uno specifico rapporto di potere
47
controllo della soggettività (una forma particolare di
homo oeconomicus, «l'uomo indebitato»). La relazione
creditore-debitore si sovrappone alle relazioni capita-
k'-lavoro, Stato sociale-utente, impresa-consumatore
e le attraversa trasformando gli utenti, i lavoratori e i
lonsunialori in «debitori».
Il debito secerne una «morale» propria, insieme di-
versa e complementare a quella del «lavoro». La coppia
«sforzo-ricompensa» dell'ideologia del lavoro viene ri-
vestita dalla morale della promessa (di onorare il pro-
prio debito) e dell'errore (di averlo contratto). Come ri-
corda Nietzsche, il concetto di «Schuld» (errore, col-
pa), concetto fondamentale della morale, risale al
concetto materiale di «Schulden» (debiti). La «morale»
del debito induce una moralizzazione tanto del disoc-
cupato, deir«assistito», dell'utente dello Stato sociale
quanto di intere popolazioni. La campagna stampa te-
desca contro i parassiti e i nullafacenti greci testimonia
la violenza della colpevolizzazione intrinseca all'econo-
mia del debito. I media, i politici, gli economisti, quan-
do parlano del debito, hanno un solo messaggio da tra-
smettere: «siete colpevoli». I greci indorano la pillola al
sole mentre i protestanti tedeschi sgobbano per il bene
dell'Europa e dell'umanità sotto un cielo uggioso.
Il potere del debito si rappresenta come se non si
esercitasse né tramite repressione, né tramite ideolo
già: il debitore è «libero», ma le sue azioni, i suoi com
portamenti devono svolgersi nei limiti definiti dal de
bito che ha contratto. Ciò vale sia per l'individuo che
per una popolazione o un gruppo sociale. Siete liberi
nella misura in cui assumete lo stile di vita (consumo,
lavoro, spese sociali, imposte, ecc.) compatibile con il
rimborso. L'uso di tecniche per educare gli individui a
4«
vivere col debito inizia prestissimo, ancor prima del-
l'ingresso nel mercato del lavoro"'. Il potere del credi-
tore sul debitore assomiglia molto all'ultima defini-
zione che dà del potere Foucault: un'azione su un'altra
azione, azione che mantiene «libero» colui sul quale
si esercita il potere. Il potere del debito vi lascia liberi,
e vi incita e spinge ad agire affinché possiate onorare i
vostri debiti (anche se, come l'Fmi, ha una tendenza a
uccidere i «debitori» con l'imposizione di politiche
economiche che favoriscono la «recessione»).
Il neoliberismo governa attraverso una moltepli-
cità di rapporti di potere: creditore-debitore, capitale-
lavoro, Welfare-utente, consumatore-impresa ecc. Ma
il debito è un rapporto di potere universale, poiché
tutti vi sono inclusi: persino coloro che sono troppo
poveri per avere accesso al credito devono pagare de-
gli interessi a dei creditori attraverso il rimborso del
debito pubblico; persino i paesi che sono troppo po-
veri per dotarsi di uno Stato sociale devono rimborsa-
re i loro debiti.
i6. Negli Stati Uniti l'8o% degli studenti che portano a termine un ma-
ster in giurisprudenza accumula un debito di 77.000 dollari, se hanno
frequentato una scuola privata, e di 50.000, se si tratta di un'università
pubblica. Secondo uno studio dell'Association of American Medicai Col-
leges, l'indebitamento medio degli studenti che completano una scuola
di specializzazione in medicina è di 1 4 0 . 0 0 0 dollari. Una studentessa
che ha finito con successo un master in giurisprudenza dichiara a un
quotidiano italiano: «Credo che non riuscirò a rimborsare i debiti con-
tratti per pagare i miei studi, ci sono giorni in cui penso che quando mo-
rirò, avrò ancora da pagare le rate mensili per l'università. Oggi ho un pia-
no di rimborso scaglionato su 27 anni e mezzo, ma è troppo ambizioso
perché il tasso è variabile e riesco soltanto a pagare [...]. Faccio molta at-
tenzione alle mie spese, annoto ogni spesa su u n quaderno, il caffè o il bi-
glietto dell'autobus [...]. Tutto deve essere programmato [...]. Ciò che mi
preoccupa di più è che non riesco a risparmiare e il mio debito è sempre
lì e mi terrorizza», «la Repubblica», 4 agosto 2008.
49
La relazione creditore-debitore riguarda la popola-
zione attuale nel suo complesso, ma anche quella fu-
tura. Gli economisti ci dicono che ogni neonato fran-
cese nasce già con 22.000 euro di debito. Non è più il
peccato originale che ci è trasmesso alla nascita, ma il
debito delle generazioni precedenti. L'«uomo indebi-
talo» è sottoposto a un rapporto di potere creditore-de-
bitorc che l'accompagna nell'arco di tutta la sua vita,
dalla nascita alla morte. Se una volta eravamo indebi-
tati con la comunità, gli dèi, gli antenati, ormai è con il
«dio» Capitale.
Ci mancano gli strumenti teorici per analizzare
tutta la portata del rapporto di potere tra creditore e de-
bitore e le diverse funzioni che il debito ricopre. Il con-
cetto di speculazione corrisponde solo a una parte del
funzionamento del debito e impedisce di vederne le
funzioni produttive, distributive, di cattura e di mo-
dellamento della soggettività.
Per questo vogliamo tornare al pensiero di Deleuze
e Guattari che sono sempre stati fedeli, rendendola
operativa dentro il capitalismo contemporaneo, all'ar-
gomentazione della seconda dissertazione della Ge-
nealogia della morale: «Nel credito - e non già nello
scambio - Nietzsche scorge l'archetipo dell'organizza-
zione sociale»'^. Occorre sottolineare, una volta per
tutte, che da quest'affermazione non dobbiamo de-
durre la scomparsa o l'inesistenza dello scambio, ma
semplicemente che esso funziona a partire da una lo-
gica che non è sempre quella dell'uguaglianza ma del-
lo squilibrio, del differenziale di potenza.
17. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia e altri testi, trad. it. di F. Polidori, Ei-
naudi, Torino 2 0 0 2 , pp. 202-203. questo libro, del 1963, già si parla di
debito e delle sue ricadute sulla soggettività.
50
Vedere nel debito l'archetipo del rapporto sociale
significa due cose. Da un lato, far cominciare l'econo-
mia e la società con un'asimmetria di potenza, e non
con uno scambio commerciale che implica e presup-
pone l'uguaglianza, introdurre differenze di potere tra
gruppi sociali e dare una nuova definizione di mone-
ta, poiché questa si manifesta immediatamente come
comando, come un potere di distruzione/creazione
sull'economia e la società. Dall'altro, far cominciare
tutto col debito significa rendere l'economia imme-
diatamente soggettiva, poiché il debito è un rapporto
economico che, per realizzarsi, implica un modella-
mento e un controllo della soggettività, così che il «la-
voro» sia indissociabile da un «lavoro su di sé». Nel
corso di questo saggio verificheremo, grazie al debito,
una verità che riguarda tutta la storia del capitalismo:
ciò che definiamo come «economia» sarebbe sempli-
cemente impossibile senza la produzione e il control-
lo della soggettività e delle sue forme di vita.
I due autori deli anti-Edipo, dove la teoria del debito
è per la prima volta ampliamente sviluppata e utilizza-
ta, resteranno allo stesso modo sempre fedeli anche a
Marx, e soprattutto alla sua teoria della moneta.
In un'intervista del 1988, nel periodo di pieno svi-
luppo neoliberista, Deleuze sottolinea l'importanza di
ritornare alla concezione marxista della moneta: «È il
denaro che regna al di là, è esso che comunica, e quel-
lo che attualmente ci manca non è una critica del mar-
xismo, ma una moderna teoria del denaro che sia al-
l'altezza di quella di Marx e la porti avanti»'^ Deleuze e
51
Guattari interpreteranno la teoria marxiana, da un la-
Io, ;i partire dalla relazione tra creditore e debitore e,
dall'a11 ro, a partire dall'univocità del concetto di produ-
zione: la produzione della soggettività, delle forme di
vita, delle modalità di esistenza, non rimanda alla so-
vraslnilliira, tna la parte dell'infrastuttura «economi-
ca». inoltre, nell'economia contemporanea, la produ-
/.iotie di soggettività si rivela essere la prima e la più
importante l'orma di produzione, «merce» che rientra
nella produzione di tutte le altre merci.
Per ciò che riguarda la moneta, essi affermano che
non deriva dallo scambio, dalla semplice circolazione,
della merce; non costituisce neppure il segno o la rap-
presentazione del lavoro, ma esprime un'asimmetria
di forze, un potere di prescrivere e imporre modalità di
sfruttamento, di dominio, di assoggettamenti futuri.
La moneta è, innanzitutto, moneta-debito, creata ex ni-
hilo, che non ha nessun equivalente materiale se non
in una potenza di distruzione/creazione dei rapporti
sociali e, soprattutto, dei modi di soggettivazione.
Questa deviazione teorica ci sembra essenziale
per poter comprendere più avanti come la relazione
creditore-debitore modelli l'insieme dei rapporti so-
ciali nelle economie neoliberiste. Non si tratta qui di
proporre una nuova teoria totalizzante del neoliberi-
smo, ma di porre le basi sulle quali potremo in un se-
condo tempo poggiarci per rileggere le trasformazio-
ni attuali subite dalle nostre società attraverso l'eco-
nomia del debito.
La genealogia del debito e del debitore
Il rapporto creditore-debitore
come base del rapporto sociale
53
raneo sembra essere incarnata dair«uomo indebita-
to». Questa figura, già esistente - dato che ha rappre-
sentato il fulcro della strategia neoliberista - ha ormai
investito l'insieme dello spazio pubblico. Nelle società
neoliberiste il complesso dei ruoli assegnati dalla divi-
sione sociale del lavoro («consumatore», «utente»,
«lavoratore», «imprenditore di se stesso», «disoccu-
pato», «turista» ecc.) è attraversato dalla figura sogget-
tiva dcir«uomo indebitato», trasformando questi ruo-
li in consumatore indebitato, in utente indebitato e,
infine, come nel caso della Grecia, in cittadino indebi-
tato. Quando non è il debito individuale, è il debito
pubblico a pesare, letteralmente, sulla vita di ognuno,
perché ognuno deve farsene carico.
Per un lungo periodo, ho ritenuto che questa impli-
cazione soggettiva derivasse principalmente dai cam-
biamenti avvenuti all'interno dell'organizzazione del
lavoro. Oggi vorrei sfumare questa affermazione con
l'aiuto di un'ipotesi complementare: è il debito e il rap-
porto creditore-debitore a costituire il paradigma sog-
gettivo del capitalismo contemporaneo, dove il «lavo-
ro» è al tempo stesso un «lavoro su di sé», dove l'attività
economica e l'attività etico-politica della produzione
del soggetto vanno di pari passo. È il debito a tracciare,
addomesticare, fabbricare, modulare e modellare la
soggettività. Di quale soggettività si tratta? Attraverso
quale macchinazione il debito fabbrica il soggetto?
A questo proposito, Nietzsche aveva già detto l'es-
senziale. Nella seconda dissertazione della Genealogia
della morale, in un solo colpo mette fuori gioco l'insie-
me delle scienze sociali: la costituzione della società e
l'educazione dell'uomo («disciplinare con l'educazio-
ne la bestia da preda uomo così da farne un animale
54
mansuefatto e civilizzato, un animale domestico»') non
risultano né dallo scambio economico (contrariamen-
te alla tesi avanzata da tutta la tradizione dell'econo-
mia politica, dai fìsiocratici a Marx, passando per
Adam Smith), né dallo scambio simbolico (al contra-
rio dalle tradizioni teoriche antropologiche e psicana-
litiche), ma dal rapporto tra creditore e debitore.
Nietzsche fa del credito il paradigma della relazione
sociale, scartandone ogni spiegazione «all'inglese»,
ossia basata sullo scambio o l'interesse.
Cos'è il credito/il debito nel suo significato più im-
mediato.^ Una promessa di pagamento. Cos'è un titolo
finanziario, un'azione o un'obbligazione? La promessa
di un valore futuro. «Promessa», «valore» e «futuro»
sono anche le parole chiave della seconda dissertazione
di Nietzsche. Per Nietzsche, il «più antico e originario
rapporto tra persone che esista» è il rapporto tra credi-
tore e debitore.'È in questo rapporto che «per la prima
volta si misurò persona a persona»^ Di conseguenza,
l'errore della comunità o della società è stato innanzi-
tutto quello di generare un uomo capace di promettere,
un uomo in grado di rispondere di se all'interno della re-
lazione creditore-debitore, ossia in grado di onorare il
proprio debito. Fabbricare un uomo capace di mante-
nere una promessa significa costruirgli una memoria,
munirlo di un'interiorità, di una coscienza che possa
opporsi all'oblio. È all'interno di questa sfera di obbliga-
zioni del debito che cominciano a fabbricarsi la memo-
ria, la soggettività e la coscienza.
55
Deleuze e Guattari, commentando questi passaggi
della Genealogia della morale, fanno notare che l'uomo
si costituisce tramite la rimozione della memoria bio-
cosmica e tramite la costituzione della memoria delle
parole, attraverso le quali formuliamo la promessa'.
Ma se la promessa implica una memoria della parola e
della volontà, non è sufficiente fare una promessa per
essere svincolati dal debito. La seconda dissertazione è
una straordinaria demistificazione del funzionamento
di ciò che la filosofia analitica chiama il «performati-
vo». Il performativo della promessa, se da un lato rea-
lizza l'atto di promettere invece di limitarsi a descriver-
lo, dall'altro non costituisce di per sé il rimborso del de-
bito. La promessa è senz'altro un «atto di parola», ma
l'umanità ha prodotto una molteplicità di metodi, l'uno
più «spaventoso e sinistro» dell'altro, per garantire che
il performativo non resti una semplice parola, un flatus
vocis. Il performativo della promessa implica e presup-
pone una «mnemotecnica» della crudeltà e una mne-
motecnica del dolore che, come la macchina della colo-
nia penale di Kafka, scrivono la promessa di rimborso
direttamente sul corpo. «Si incide a fuoco qualcosa af-
finché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa
di dolorare resta nella memoria»''.
Allo stesso modo, la «fiducia» - parola magica di
tutte le crisi finanziarie, ripetuta come un incantesi-
mo da tutti i servitori dell'economia del debito (giorna-
listi, economisti, uomini politici, esperti) - non è ga-
rantita dalla semplice enunciazione; necessita di ga-
ranzie corporee e incorporee.
56
Per infondere fiducia nella sua promessa di restituzione,
per dare una garanzia della serietà e santità della sua pro-
messa, per imporre, in se stesso, alla propria coscienza la
restituzione come dovere e obbligazione, il debitore dà in
pegno, in forza del contratto, al creditore, per il caso che
non paghi, qualcosa d'altro che ancora «possiede», su cui
ha ancora potere, per esempio il proprio corpo o la propria
donna o la propria libertà o anche la propria vita (oppure,
stando a determinati presupposti religiosi, persino la sua
beatitudine, la salvezza della sua anima, e infine, forse, an-
che la pace nel sepolcro)^
5-Ivi, p. 52-
6. Ivi, pp. 46-47
7. Ivi, p. 47.
57
economico - ha la particolarità che, per potersi dispie-
gare, richiede un lavoro etico-politico di costituzione
del soggetto. E il capitalismo contemporaneo sembra
aver scoperto da solo le tecniche nietzschiane per la co-
struzione di un uomo capace di promettere: il lavoro è
al tempo stesso un lavoro su se stesso, un automartirio,
un'azione su se stessi. Il debito implica un processo di
soggettivazione che segna allo stesso tempo il «corpo»
e lo «spirito». Osserviamo che, partendo dalla lettura di
Nietzsche, Foucault, Deleuze e Guattari, tutti questi
autori formulano un concetto non-economista dell'e-
conomia (la produzione economica implica la produ-
zione e il controllo della soggettività e delle sue forme
di vita, l'economia presuppone una «eticità dei costu-
mi», il desiderio di far parte deir«infrastruttura»).
«L'uomo si caratterizzava come» l'«animale ap-
prezzante di sé». Ma l'origine della misura, della valu-
tazione, della comparazione, del calcolo e della conta-
bilità (tutte funzioni relative alla moneta) non è da ri-
cercare dentro lo scambio economico © il lavoro, ma
nel debito. In effetti, l'equivalenza e la misura non si
forgiano nello scambio, m a nel calcolo delle garanzie
di rimborso del debito:
8. Ivi, p. 52.
58
Anche qui, l'economia sembra divenire nietz-
schiana: la sua misura non è più solamente oggettiva
(l'orario di lavoro), ma anche soggettiva, in quanto
fondata su dispositivi di valutazione; da qui il potere
economico dell'opinione pubblica all'interno delle
nostre società.
Il concetto di debito ha, inoltre, conseguenze sui
paradigmi sociopolitici di comprensione e di genealo-
gia dei rapporti sociali e delle istituzioni. L'asimmetria
di potere che lo costituisce ci libera della «fantastiche-
ria» che attribuiva la nascita dello Stato e della società
a un contratto (o, nella versione contemporanea, a una
convenzione): «Colui che può comandare che cosa
mai ha a che fare con contratti!»®. Ci libera anche da
un'interpretazione del processo di costituzione della
società come passaggio dallo stato di natura alla socie-
tà e al politico. I processi di costituzione della società
non si realizzano tramite cambiamenti progressivi,
tramite consenso, convenzioni o rap|)resentanza, ma
tramite «frattura», «salto», «costrizione». È solo in se-
guito a fratture, salti e costrizioni che si stabiliscono
nuovi contratti e nuove convenzioni.
Se avessimo bisogno di un'ulteriore conferma di
questo stato di cose, basterebbe guardare, anche con
occhio pigro, a come si è imposto il neoliberismo. Si-
curamente non tramite contratti o convenzioni, ma
attraverso effrazione, violenza e usurpazione. L'accu-
mulazione originaria del capitale è sempre contempo-
ranea al suo sviluppo, non ne costituisce una fase sto-
rica, ma una contemporaneità sempre rinnovata.
9. Ivi, p. 76.
59
Il tempo del debito come possibile, scelta, decisione
60
lunque imprevedibile «divergenza» dei comporta-
menti del debitore che l'avvenire può celare.
Alla luce dell'economia del debito neoliberista, la
seconda dissertazione della Genealogia della morale si
tinge così di una nuova attualità: il debito non è solo
un dispositivo economico, è anche una tecnologia se-
curitaria di governo volta a ridurre l'incertezza dei
comportamenti dei governati. Educando i governati a
«promettere» (a onorare il proprio debito), il capitali-
smo dispone anticipatamente «del (loro) futuro» dato
che le obbligazioni del debito permettono di prevede-
re, calcolare, misurare e stabilire equivalenze tra i
comportamenti attuali e quelli futuri. Sono gli effetti
di potere del debito sulla soggettività (colpevolezza e
responsabilità) a consentire al capitalismo di gettare
un ponte tra il presente e il futuro.
L'economia del debito è un'economia del tempo e
della soggettivazione secondo un'accezione specifica.
In effetti, il neoliberismo è un'economia proiettata'ver-
so il futuro, dato che la finanza è una promessa di ric-
chezza futura e, di conseguenza, non commensurabile
alla ricchezza attuale. Inutile gridare allo scandalo, per-
ché non c'è corrispondenza tra «presente» e «futuro»
dell'economia! Ciò che conta è la pretesa della finanza a
voler ridurre ciò che sarà a ciò che è, ovvero ridurre il fu-
turo e i suoi possibili alle relazioni di potere attuali. In
quesf ottica, tutta l'ingegneria finanziaria ha solo una fi-
nalità: disporre anticipatamente del futuro, oggettivan-
dolo. Questa oggettivazione è di tutf altra natura rispet-
to a quella dell'orario di lavoro; oggettivare il tempo, dis-
porne anticipatamente, significa subordinare alla
riproduzione dei rapporti di potere capitalistici qualun-
que possibilità di scelta e di decisione racchiusa dall'av-
5i
venire. Così il debito si appropria non solo del tempo di
lavoro attuale dei salariati e della popolazione nel suo
insieme, ma esercita un diritto di prelazione anche sul
tempo non cronologico, sul futuro di ognuno e sull'av-
venire della società nel suo complesso. La strana sensa-
zione di vivere in una società senza tempo, senza possi-
bilità, senza una rottura immaginabile, trova nel debito
la propria principale spiegazione.
La relazione tra tempo e debito, cioè tra il prestito
di denaro e l'appropriazione del tempo da parte di co-
lui che dà in prestito, è nota da secoh. Se, nel Medioe-
vo, la distinzione tra usura e interesse non era molto
chiara - dato che la prima era considerata semplice-
mente un eccesso della seconda (ah! la saggezza degli
antichi!) - , c'era, di contro, un'idea molto precisa su
dove portasse il «furto» di colui che dava in prestito
denaro e in cosa consistesse la sua colpa: vendeva tem-
po, qualcosa che non gli apparteneva e di cui l'unico
proprietario era Dio. «Cosa vende in effetti l'usuraio,
se non il tempo che intercorre tra il momento in cui
presta e quello in cui viene rimborsato con l'interesse?
Ma il tempo non appartiene che a Dio. Ladro di tempo,
l'usuraio è un ladro del patrimonio di Dio»".
Per Marx, l'importanza storica del prestito usuraio
(una «denominazione arcaica dell'interesse») risiede
nel fatto che, contrariamente alla ricchezza consuma-
trice, esso rappresenta un processo generatore assi-
milabile a (e precursore di) quello del capitale, cioè del
denaro che produce denaro. Un manoscritto del XIII
secolo, citato da Jacques le Goff, sintetizza bene sia
62
quesf ultimo punto che il tipo di tempo di cui il presta-
tore di denaro si appropria: del tempo della vita e non
solo del tempo di lavoro.
63
esorbitanti messe in moto dalla finanza e destinate a ri-
produrre i rapporti di potere capitalistici, sembrano es-
sere bloccati; semplicemente perché il debito neutra-
lizza il tempo, il tempo come creazione di nuove possi-
bilità, cioè materia prima di tutti i cambiamenti
politici, sociali o estetici. È questa materia prima a eser-
citare e organizzare il potere di distruzione/creazione,
il potere di scelta e quello di decisione.
64
gnitivo si sbaglino quando considerano la «conoscen-
za» la fonte della valorizzazione e dello sfruttamento.
Non è una novità il fatto che la scienza, l'abilità, le in-
novazioni tecnologiche e organizzative rappresentino
le forze produttive - Marx l'aveva già affermato alla
metà del XIX secolo; ma la presunta economia della
conoscenza non rappresenta la totalità dei rapporti di
classe che la teoria del capitalismo cognitivo le attri-
buisce. Essa non è altro che un dispositivo, un tipo di
attività, un'articolazione dei rapporti di potere che af-
fianca una molteplicità di altre attività e di altri rappor-
ti di potere, sui quali non esercita alcuna egemonia. Al
contrario, essa deve sottomettersi agli imperativi del-
l'economia del debito (tagli selvaggi agli investimenti
«cognitivi», alla cultura, alla formazione, ai servizi
ecc.). Senz'altro, non è partendo dalla conoscenza che
si gioca il destino della lotta di classe, né sul versante
del capitale né su quello dei «governati».
In effetti, ciò che è richiesto e che attraversa tanto l'e-
conomia quanto la società contemporanea non è la co-
noscenza, ma l'imperativo di diventare «soggetto» eco-
nomico («capitale umano», «imprenditore di sé») - im-
perativo che interessa allo stesso modo il disoccupato e
l'utente dei servizi pubblici, il consumatore, il più
«umile» dei lavoratori, il più povero o il «migrante».
Nell'economia del debito, divenire capitale umano o
imprenditore di se stessi significa assumersi i costi e i
rischi di un'economia flessibile e finanziarizzata; costi
e rischi che sono ben lungi dall'essere soltanto quelli
dell'innovazione, perché sono anche e soprattutto quel-
li della precarietà, della povertà, della disoccupazione,
dei servizi sanitari ormai insufficienti, della carenza di
alloggi ecc. «Fare di se stessi un'impresa» (Foucault) si-
65
gnifìca farsi carico della povertà, della disoccupazione,
della precarietà, del reddito minimo sociale, degli sti-
pendi bassi, dei tagli alle pensioni ecc., quasi fossero
«risorse» e «investimenti» dell'individuo, da gestire co-
me un capitale, il «proprio» capitale. È ormai flagrante
che i concetti di imprenditore di se stesso e di capitale
umano devono essere interpretati partendo dal rappor-
to creditore-debitore, cioè dal rapporto di potere più ge-
nerale e deterritorializzato attraverso il quale il blocco
di potere neoliberista governa la lotta di classe.
Dentro la crisi, il «sovrappiù» che il capitalismo
sollecita e cattura - in qualunque ambito - è ìassun-
zione su se stessi dei costi e dei rischi esternalizzati dal-
lo Stato e dalle imprese, e non la conoscenza. I diffe-
renziali di produttività non derivano principalmente
dal «sapere» o dall'informazione, ma dalla presa in ca-
rico soggettiva di questi costi e di questi rischi, che sia
nella produzione della conoscenza, nell'attività dell'u-
tente o in qualunque altro tipo di attività. È questa
«soggettivazione», sommata al lavoro nel senso clas-
sico del termine, a far crescere la produttività - per
parlare come gli economisti del capitale. La figura sog-
gettiva di questa presa in carico è quella del debitore
affetto da senso di colpa, cattiva coscienza e responsa-
bilità, che perde, man mano che affonda dentro la cri-
si, le proprie velleità imprenditoriali e i canti epici che
gli albori del neoliberismo avevano inneggiato alla
gloria dell'innovazione e della conoscenza.
Mentre si preoccupano poco di investire in una più
che improbabile «società della conoscenza» - da sem-
pre annunciata e mai realizzata - i capitalisti sono, in
compenso, rigidamente inflessibili nell'imporre ai go-
vernati di farsi carico di tutti i rischi e di tutti i disastri
66
economici da loro stessi creati. Dentro la crisi del de-
bito sovrano, non c'è in alcun modo in gioco la cono-
scenza, il capitalismo cognitivo, la creatività o il capi-
talismo culturale; eppure, è proprio questo il terreno
che il capitale ha scelto per portare avanti la propria
lotta di classe. Per questo l'economia del debito si ca-
ratterizza per una duplice espansione dello sfrutta-
mento della soggettività: estensiva (perché non ri-
guarda solo l'occupazione nel settore industriale e in
quello dei servizi, ma ogni attività e condizione) e in-
tensiva (perché riguarda il rapporto a sé, nella forma
di un'imprenditoria di sé - all'origine sia del «proprio»
capitale che della propria cattiva gestione - il cui para-
digma è il «disoccupato»).
L'economia del debito invade anche il terreno del po-
litico, utilizzando e sfruttando i processi di costituzione
«etico-politica» per trasformare ogni individuo in sog-
getto economico indebitato. Queste trasformazioni del
capitalismo, che toccano la vita e la soggettività, non
sembrano sfiorare minimamente le teorie politiche di
Rancière e di Badiou. Perché occuparsi di economia del
debito, di sfruttamento del «lavoro su di sé» e di appro-
priazione/espropriazione del tempo (come occasione,
scelta, decisione), quando il processo di soggettivazio-
ne politica è ritenuto svolgersi sempre allo stesso modo
- fosse all'interno delle città greche o nell'Impero roma-
no (la rivolta degli schiavi), nella Rivoluzione francese,
nella Comune di Parigi o nella Rivoluzione russa - , ov-
vero a partire dalla questione universale dell'uguaglian-
za? Sarebbe una perdita di tempo occuparsi di trasfor-
mazioni del capitalismo, visto che non possiamo de-
durre la rivoluzione dall'«economia»! Per Rancière e
Badiou, la politica è indipendente dair«economia»
67
semplicemente perché l'immagine che hanno di que-
st'ultima e del capitalismo in generale è quella, carica-
turale, veicolata dagli economisti stessi. Contrariamen-
te a ciò che enunciano queste teorie rivoluzionarie, de-
mocratiche 0 semplicemente economiche, la forza del
capitalismo risiede nella propria capacità di articolare,
sotto diversi aspetti, r«economia» (e la comunicazione,
il consumo, il Welfare ecc.) alla produzione di soggetti-
vità. Dire, come Badiou e Rancière, che la soggettiva-
zione politica non è deducibile dall'economia è comple-
tamente diverso dal porsi domande sulla loro articola-
zione paradossale. Il primo caso traduce l'illusione di
una politica «pura», dato che la soggettivazione, artico-
lata al niente, non raggiungerà mai una consistenza ne-
cessaria per esistere; il secondo inaugura al contrario
dei cantieri di sperimentazione e di costruzione politi-
ca, poiché la soggettivazione deve, per resistere e raffor-
zarsi, operare una rottura, rìattraversando e riconfigu-
rando l'economico, il sociale, il politico, ecc.
I due Marx
14. K. Marx, Estratti dal libro di James Mill, «EUmens d'economie politique»,
in K. Marx, F. Engels, Opere Complete, a cura di Nicolao Merker, Editori
Riuniti, Roma 1976, voi. IH, pp. 229-248 [anche in trad. it. a cura di M.
Tronti, Appunti su James Mill, in K. Marx, Scrìtti inediti di economia politi-
ca, Editori Riuniti, Roma 1963].
68
molti punti di vista, Marx descrive un rapporto di credi-
to molto differente da quello analizzato nel III libro del
Capitale. In quest'ultimo, che è in realtà un accosta-
mento di appunti più o meno redatti, il credito è sem-
plicemente una delle tre forme che può assumere il ca-
pitale (finanziaria, industriale e commerciale) e la rela-
zione creditore/debitore è vista come una questione
tra capitalisti. Al contrario, in Estratti dal libro di James
Mill, è il «povero» a essere il debitore, ed è sul povero
che il creditore fa vertere un giudizio «morale», per va-
lutarne la solvibilità. Ciò che viene misurato come ga-
ranzia di rimborso sono le «virtù sociali», le «capacità
sociali», la «carne e il sangue», la «moralità» e r«esi-
stenza» stessa del povero. Queste pagine di gioventù
arricchiscono la costruzione del personaggio concet-
tuale dell'«uomo indebitato», che abbiamo iniziato a
delineare grazie all'aiuto prezioso di Nietzsche.
Per Marx, la relazione creditore-debitore è al tempo
stesso diversa e complementare rispetto alla relazione
capitale-lavoro. Se prescindiamo dal contenuto della
relazione tra creditore e debitore (il denaro), costatia-
mo che il credito sfrutta e sollecita non tanto il lavoro,
ma l'azione etica e il lavoro di costituzione di sé a un livello
al tempo stesso individuale e collettivo. Ciò che viene in-
terpellato attraverso il rapporto di credito è la moralità
del debitore, il suo modo di vivere (il suo «ethos») e non
le sue capacità fìsiche e intellettuali, come nel lavoro
(materiale o immateriale poco importa). L'importanza
dell'economia del debito risiede nel fatto che essa si ap-
propria e sfrutta non solo il tempo cronologico del lavo-
ro, ma anche Yazione, il tempo non cronologico, il tem-
po in quanto scelta, decisione, scommessa su ciò che
succederà e sulle forze (fiducia, desiderio, coraggio.
69
ecc.) che rendono possibile la scelta, la decisione, l'agi-
re. Lasciamo la parola a qualche pagina di Estratti dal li-
bro di James Mill, datate 1844:
70
qualcosa la cui realizzazione è sottoposta alla variabile
del tempo - e per arrischiarsi nell'ignoto, l'imprevedi-
bile e l'incerto, occorrono altre forze rispetto a quelle
investite nel lavoro: la fiducia negli altri, in se stessi e
nel mondo. La relazione creditore-debitore non rap-
presenta nienf altro che r«illusione» della fine della
subordinazione dell'uomo alla produzione «del valo-
re» economico e la sua elevazione alla «produzione di
valori» fondati sulla comunità e sui sentimenti più no-
bili del cuore umano (la fiducia, il desiderio, la ricono-
scenza dell'altro ecc.) - e non più sul lavoro salariato, il
mercato e la merce. Con il credito, ci dice Marx, l'alie-
nazione è completa, poiché ciò che è sfruttato è il lavo-
ro etico di costituzione di sé e della comunità.
La fiducia, condizione dell'agire, si trasforma in dif-
fidenza di tutti nei confronti di tutti e si materializza in
seguito in richiesta di «sicurezza». La circolazione di
debiti privati è una circolazione di interessi egoistici e
individuali. Presuppone, dietro l'apparenza di ricono-
scenza dell'altro, una diffidenza preliminare, poiché
l'altro è u n rivale, un concorrente e/o u n debitore.
71
vedere con la fiducia in nuove possibilità di vita e quin-
di in una forza generosa nei confironti di se stessi, de-
gli altri e del mondo. Al contrario, si limita a essere
una fiducia nella solvibilità e fa, di quesf ultima, il con-
tenuto e la misura della relazione etica. I concetti
«morali» di buono e cattivo, di fiducia e diffidenza, so-
no tradotti in solvibilità e insolvibilità. Le categorie
«morali», attraverso le quali «misuriamo» l'uomo e la
sua azione, sono una misura della ragione economica
(del debito). Dunque, nel capitalismo la solvibilità è la
misura della «moralità» dell'uomo.
E anche nel caso in cui «un ricco concede un credi-
to a un povero» - cosa che, alla sua epoca, costituiva
un'eccezione e non la regola - Marx osserva:
72
capitale può appropriarsi delle forze sociali ed esisten-
ziali del povero, e non solo delle sue capacità fìsiche e
intellettuali esercitate dentro il lavoro.
73
umana, la morale umana è diventata essa stessa sia un artico-
lo di commercio, sia un materiale in cui esiste il denaro. Non
più moneta e carta, ma la mia propria esistenza personale, la
mia carne ed il mio sangue, la mia virtù ed il mio valore so-
ciali sono la materia, il corpo dello spirito del denaro. Il credi-
to strappa il valore del denaro non più dal denaro stesso, ma
dalla carne umana e dal cuore umano [pp. 233-234].
74
usuraio del capitale finanziario è indissociabile dal suo
molo funzionale: «Una banca rappresenta da un lato la
concentrazione del capitale monetario, cioè di coloro
che danno a prestito, d'altro lato la concentrazione di
quelli che prendono a prestito»''. In secondo luogo, no-
nostante esso assuma diverse forme (commerciale, in-
dustriale, monetario, finanziario), esiste un solo capita-
le e un solo processo di valorizzazione. Già all'epoca di
Marx era assurdo separare uri«economia reale» da una
presunta «economia finanziaria». È la formula del capi-
tale finanziario, ovvero il denaro che si autovalorizza (A-
A') a rappresentare pienamente la logica del capitale.
Per gli occidentali, in maggioranza cristiani, non do-
vrebbe essere difficile seguire il ragionamento di Marx
secondo cui il valore si presenta come «una sostanza
motrice di se stessa», per la quale il capitale industriale,
commerciale e finanziario sono anch'esse forme a ser-
vizio del suo «automovimento». Come in teologia la
Santa Trinità si distingue nel Padre, nel Figlio e nello
Spirito Santo, il capitale si distìngue in tre forme diffe-
renti (industriale, commerciale e finanziario).
Ma Marx va ben oltre. Benché definisca i capitali-
sti finanziari con ogni sorta di epiteto («banditi ono-
revoli!», «usurai» - e nonostante non esistano per lui
capitalisti buoni, gli industriali, e capitalisti cattivi, i
finanzieri e i banchieri), Marx ha la lucidità che man-
ca a quasi tutti i commentatori, in particolare a quelli
di sinistra. Già alla sua epoca, Marx definisce la posi-
zione specifica occupata dal capitale finanziario ri-
spetto al capitale industriale: da una parte esso rap-
15. K. Marx, Il capitale. Libro III, a cura di Maria Luisa Boggeri, Editori Ri-
uniti, Roma 1 9 8 9 , p. 477.
75
presenta il «comune» della classe capitalistica e, dal-
l'altra, il denaro concentrato nelle banche è denaro in
«potenza», diversamente dal capitale industriale che
è sempre attualizzato. Non rappresenta una ricchez-
za attuale m a una ricchezza futura, ovvero la possibi-
lità di scelta e di decisione sulla produzione e sui rap-
porti di potere a venire. Nella sua forma finanziaria, il
capitale accumulato nelle banche si presenta come
«capitale in generale», semplice astrazione, m a si
tratta di un'astrazione potente, poiché si manifesta
come «valore autonomo», «indipendente» dalla sua
attualizzazione in settori specifici; esiste come poten-
za «indifferenziata» capace di qualunque realizzazio-
ne. Si manifesta, dunque, in quanto potere di prescri-
zione e di anticipazione del valore futuro, in quanto
potere di distruzione e di creazione.
76
me «capitale comune» della classe di capitalisti: «Il ca-
pitale industriale che compare come capitale sostan-
zialmente comune di tutta la classe solo nel movimento
e nella concorrenza fra le diverse sfere, si manifesta
qui realmente, con tutto il suo peso, come tale, nella
domanda e nell'offerta di capitale»''. Il dispositivo ca-
pitalistico non si soggettivizza nel capitalista indu-
striale (quesf ultimo ha solo una funzione di gestione
e di direzione della produzione), m a nel capitalista fi-
nanziario (la cui possibilità, di decidere e di scegliere
in quanto proprietario, è deterritorializzata).
Diversamente delle molte forme del capitale indu-
striale, è al capitale finanziario che spetta la rappre-
sentazione degli interessi del «capitale sociale».
77
guenza del lavoro altrui. La possibilità di disporre del capi-
tale sociale che non gli appartiene gli permette di disporre
del lavoro sociale''.
78
stinguere il lavoro dall'agire, come faceva ancora Han-
nah Arendt. Con il credito, l'azione diventa un ele-
mento della dinamica economica, e perfino il suo
motore! Il capitalismo contemporaneo, attraverso la
soggettivazione implicita nel debito, integra l'azione
e le forze che rendono questo possibile. Non a caso il
debito sfrutta l'azione etica della costituzione sia della
comunità che dell'individuo, mobilitando le forze che
sono all'origine deir«esistenza morale, l'esistenza co-
munitaria». Tra tutte queste forze, dedicheremo par-
ticolare attenzione alla «fiducia», parola magica della
crisi in corso, che rappresenta un sintomo dello spo-
stamento delle frontiere dello sfruttamento capitali-
stico, al di là dell'uso inflazionato che ne fanno gli
economisti, i giornalisti e gli esperti.
Per ricostruire il concetto di azione e di fiducia, è
necessario fare una piccola digressione filosofica che
il lettore potrà anche saltare. L'interesse di questa di-
gressione risiede nel fatto che ci permette di capire
come e perché il capitahsmo faccia presa sull'azione,
ovvero sul tempo non cronologico e dunque sulla ca-
pacità di scegliere e di decidere ciò che è buono e ciò
che è cattivo. Secondo la teoria dell'agire del pragma-
tista americano William James, ogni volta che ci con-
frontiamo con un'alternativa reale, un'alternativa esi-
stenziale qualunque, poiché attualizza alcuni possi-
bili e ne annulla altri, come nel caso dei problemi
«morali», la scelta non dipende unicamente dall'in-
telletto, dalla «cognizione», dal sapere e dalla cono-
scenza"', tutf altro. Essa chiama in causa anzitutto «le
79
nostre tendenze attive», le nostre «forze più intime»,
la nostra «natura passionale», i nostri «impulsi più
cari», ovvero «l'intimo del cuore umano» di cui ci par-
la Marx e che James definisce come un insieme di for-
ze attive («la forza d'animo, la speranza, l'incanto,
l'ammirazione, l'ardore») e che sintetizza nel concet-
to di «desiderio».
La misura, la stima, la valutazione «di ciò che è be-
ne, o delle cose che sarebbe bene esistessero» non pos-
sono essere delegate alla speculazione filosofica, né al
sapere scientifico. «La scienza ci può dire ciò che esi-
ste; ma per confrontare i valori, sia di ciò che esiste, sia
di ciò che non esiste, non dobbiamo ricorrere alla
scienza, ma a quello che Pascal chiama il nostro cuo-
re»"^ La potenza del nostro agire e «il successo di un'a-
zione dipendono dall'energia impiegata nell'atto e l'e-
nergia a sua volta è subordinata all'intima certezza di
riuscire», cioè alla convinzione/fiducia in ciò che si fa,
alla convinzione/fiducia nel mondo e negli altri.
Dunque l'atto dipende dall'intensità della convin-
zione/fiducia e quesfultima dalle «tendenze attive»,
dalle emozioni e dagli impulsi più intimi del cuore
una sostituzione del paradigma della credenza col paradigma del sapere,
fatto che rappresenta un'alteriore buona ragione per dubitare della perti-
nenza del paradigma del «capitale cognitivo». Persino la scienza, forza
produttrice per eccellenza di questo paradigma, per esistere richiede al-
tro dalla conoscenza: «Una filosofia, una "fede" deve sempre preesistere,
affinché la scienza derivi da essa una direzione, un senso, un limite, un
metodo, un diritto all'esistenza. [...] È pur sempre una fede metafisica
quella su cui riposa la nostra fede nella scienza» (Nietzsche, Genealogia
della morale, cit., p. 146). È impossibile pensare alla «produzione» con-
temporanea come a una «produzione di conoscenze attraverso cono-
scenza». La produzione di qualcosa di nuovo, tanto a livello economico
quanto politico o soggettivo, richiede altro rispetto al «sapere».
22. W. James, La volontà di credere, trad. it. di P. Bairati, Rizzoli, Milano,
1984, p. 76.
80
umano. La convinzione/fiducia è definita da James co-
me una «disposizione ad agire». Il modo di intendere
la potenza dell'agire rimanda a un «metodo soggettivo,
il metodo della convinzione fondata sul desiderio».
Ma la convinzione/fiducia o disposizione ad agire
può definirsi in due modi diversi. In un caso è la con-
vinzione-abitudine e nell'altro è la convinzione-fidu-
cia (o fede) a provocare l'azione. Nel primo caso il
mondo è determinato, compiuto, tutto è già dato, co-
sicché la convinzione risiede nelle convinzioni già sta-
bilite. Nel secondo caso, quello che ci interessa, il
mondo è in divenire. È incompleto, indeterminato, e
quest'incompletezza e indeterminazione fanno ap-
pello al nostro potere di agire e quest'ultimo alla fidu-
cia. È questa seconda concezione della fiducia a essere
«mobilitata» e orientata dal credito (la forza del capita-
lismo non è soltanto negativa, essa risiede nella capa-
cità di orientare le passioni, i desideri e l'azione a pro-
prio vantaggio), poiché si tratta appunto di anticipare
un'azione futura il cui risultato non può essere garan-
tito anticipatamente. Il credito è un dispositivo di po-
tere che si esercita su possibili indeterminati, la cui at-
tualizzazione/realizzazione è sottoposta a un'incer-
tezza radicale e non probabilistica.
Il nostro mondo incerto, instabile e in divenire, è,
per utilizzare le parole di Walter Benjamin, un mondo
«povero» di esperienza, perché quest'ultima, come ri-
corda James, «è sempre in via di cambiamento». Ma è
proprio la povertà dell'esperienza (non sappiamo di co-
sa sia fatto l'avvenire) a mobilitare la fiducia (convin-
zione), il desiderio, l'intimo del cuore umano, necessa-
ri per rischiare in questo mondo privo di certezze.
Queste forze sono esaltate e acuite dall'indetermina-
8i
zione del futuro. Infatti, a cosa ci costringe la povertà di
esperienza? «A ricominciare di nuovo, a ricominciare
di nuovo», afferma Walter Benjamin. Il «barbaro»"',
che definisce sia in Benjamin che in James l'uomo con-
temporaneo, «non vede niente di durevole. Ma proprio
per questo vede dappertutto delle vie [...]. Poiché dap-
pertutto vede vie, egli stesso sta sempre a un incro-
cio»'"'. La fiducia trasforma la povertà di esperienza in
politica della «sperimentazione».
Come agire in questo mondo, come arrischiarsi in
un'azione il cui esito è incerto, visto che non sappia-
mo di cosa sarà fatto il futuro.^ Per agire in condizioni
di incertezza occorrono fiducia (fede) in se stessi, fi-
ducia nel mondo e fiducia negli altri. Occorre stringe-
re un tacito accordo con se stessi, con il mondo e con
gli altri per agire in un mondo in cui le «massime
quotidiane» non possono servire a dirigere l'azione.
L'agire rappresenta quindi un salto nell'ignoto, che il
«sapere» e la «conoscenza» non possono in alcun
modo aiutarci a oltrepassare. Il nostro scetticismo e
le nostre difficoltà politiche non sono cognitivi, ma
etici, poiché «si vive in avanti ma si pensa all'indie-
82
tro» dice James citando Kierkegaard. Vivere in avanti
significa «credere nel mondo e nelle nuove possibili-
tà di vita» che esso racchiude, aggiunge Deleuze. La
convinzione/fiducia è qui una forza che, gioiosa e fi-
duciosa, dà «un «potere generoso».
La fiducia è così la condizione di ogni atto di crea-
zione, che si tratti di creazione artistica, di creazione
etica o di creazione politica. Secondo James, l'uomo
contemporaneo dovrebbe trovarsi a proprio agio con
questo mondo «barbaro», poiché il suo potere d'azione
non si esercita sui «fatti grezzi», ma sui possibili, che
sono, secondo una definizione di Guattari, una «mate-
ria di scelta, materia di opzione» (è necessario sceglie-
re poiché si tratta di «possibili ambigui», di virtualità
che celano diverse alternative). Il fatto di essere nel
mondo con le nostre percezioni, le nostre sensazioni e
le nostre conoscenze, non è ancora sufficiente per agi-
re. Perché possa darsi potere di azione, occorre che il
possibile superi l'attuale («un po' di possibile sennò
soffoco», direbbe Kierkegaard), occorre che il mondo
contenga dell'indeterminato, un tempo aperto in dive-
nire, ovvero un «presente» che racchiuda biforcazioni
possibili e dunque possibilità di scelta, dei rischi esi-
stenziali. Sono queste possibilità e queste biforcazioni
imprevedibili che il debito si sforza di neutralizzare.
Il «barbaro» esige «dal mondo delle qualità con le
quali possano misurarsi le nostre emozioni e le nostre
tendenze attive». Il desiderio e la fiducia si esercitano
su un «presente vivo», ovvero sulla «zona plastica»
che è la «zona delle differenze individuali e delle mo-
difiche sociali che esse provocano»"'. Questa zona pla-
83
stica è «cinghia di trasmissione dell'incerto, il punto
d'incontro del passato e del futuro». Affinché il potere
di azione possa dispiegarsi, abbiamo bisogno di cre-
dere (avere fiducia) nel «presente vivo», il presente co-
me possibile, cioè nel mondo e nelle nuove possibilità
di vita che esso cela. La potenza di agire è subordinata
a un'affermazione esistenziale, a un «sì» che esprime
un autoposizionamento. Presuppone la speranza e la
fiducia che anticipano ciò che ancora non è dato, che
rende possibile l'impossibile.
Nel mondo «barbaro» la fiducia e la speranza (le
passioni, le emozioni, il desiderio) non determinano
tanto una presa di posizione, un partito preso rispetto
alle convinzioni esistenti, ma piuttosto uriautovalida-
zione di nuove convinzioni, di nuovi valori, di nuove
connessioni, di nuovi significati e di nuove forme di
vita. Al contrario, la paura e tutte le emozioni e le pas-
sioni tristi costituiscono una neutralizzazione della
potenza di agire'®.
26. Un esempio del modo in cui gli elementi soggettivi partecipano alla
determinazione della nostra potenza di azione e degli eventi del mondo ci
viene fornita da James a partire da una situazione banale (un salto perico-
loso durante una passeggiata in montagna). «Non avendo una tale espe-
rienza, non ho prove della mia capacità di portarla a termine con successo;
ma la speranza e la fiducia in me stesso mi assicurano che non fallirò il
bersaglio e consentono ai miei piedi di compire ciò che sarebbe stato im-
possibile senza la spinta di quelle emozioni soggettive. Ma supponete che,
al contrario, le emozioni di paura e di sfiducia abbiano il sopravvento; o an-
cora che avendo appena letto "Ethic of B e l i e f , sento che sarebbe disdice-
vole agire in base ad un'ipotesi non ancora dimostrata, - ragione per cui, a
quel punto, io esito tanto a lungo che alla fine, esaurito e tremante, caden-
do in un momento di disperazione totale, mi scivoli un piede e io cada nel-
l'abisso. [...] Esistono quindi casi nei quali la fede produce la propria verifica.
Credete, e avrete ragione, poiché vi salverete» (Ivi, p. 120). Ciò non signifi-
ca affatto che volere = potere, poiché la soggettività non fa altro che ag-
giungere qualcosa al mondo: l'interpretazione dei segni che lo riguarda-
no. «Supponete che guardando il vecchio mondo e vedendo quanto esso
84
La finanza è un terribile strumento di controllo del
tempo dell'azione, di neutralizzazione del possibile,
del «presente vivo», della «zona plastica di trasmissio-
ne dell'incerto», del «punto di incontro del passato e
del futuro». Chiude i possibili dentro una cornice de-
finita pur proiettandoli in un futuro. Il futuro è per es-
sa la semplice anticipazione del dominio e dello sfrut-
tamento presente. Ma se abbiamo superato la soglia
critica di incertezza sul futuro dei rapporti di sfrutta-
mento e di dominio, allora a crollare è un presente pri-
vo di possibili. La crisi è dunque crisi del tempo ed
emergenza di un tempo della creazione politica e so-
ciale, che la finanza può soltanto tentare di distrugge-
re. Siamo esattamente in questa situazione! La logica
del debito soffoca le nostre possibilità di azione!
sia pieno di miseria, vecchiaia, malvagità e dolore e quanto incerto sia il fu-
turo, si lasci andare alle conclusioni del pessimismo, coltivi in sé disgusto
e terrore, cessi di lottare e infine si suicidi. In tal modo aggiunge alla mas-
sa M di fenomeni mondani, indipendenti dalla sua soggettività, il comple-
mento soggettivo X, che trasforma la totalità in un quadro completamente
nero senza nessun raggio di bene che lo illumini» (Ivi, p, 124). «Non si di-
ca che X è una componente troppo infinitesimale per mutare il carattere
dell'immensa totalità nella quale è inclusa. Tutto dipende dal punto di vista
della preposizione filosofica in questione. Se dobbiamo definire l'universo
dal punto di vista della nostra sensibilità, il materiale critico del nostro giu-
dizio fa parte del regno animale considerato quantitativamente, insignifi-
cante quale esso è» (Ivi, p. 121).
85
debito ricompare a cavallo tra gli anni Sessanta e Set-
tanta, in quanto elemento di analisi del capitalismo
contemporaneo. Unendo la teoria nietzschiana del
credito all'interno delle società arcaiche alla teoria
marxiana della moneta all'interno del capitalismo,
tracciano una piccola storia del debito, che ci spinge a
una lettura non-economica dell'economia non basata
sullo scambio, ma su una relazione di potere asim-
metrica tra creditore e debitore. Una lettura non-eco-
nomica dell'economia significa che, da un lato, la pro-
duzione economica è inseparabile dalla produzione e
dal controllo della soggettività, nelle sue varie forme;
dall'altra, che la moneta - prima di rispondere a fun-
zioni economiche di misura, mezzo di scambio, pa-
gamento e tesaurizzazione - è espressione di un po-
tere di comando e di distribuzione delle caselle e dei
compiti dei governati.
Nei suoi corsi degli anni 1 9 7 1 , 1 9 7 2 e 1973, tenuti
all'università di Vincennes, Deleuze torna sulle con-
siderazioni sviluppate con Guattari neììanti-Edipo a
proposito della teoria marxiana della moneta'^ Rileg-
gendola a partire dall'asimmetria del rapporto di cre-
dito, cioè dell'economia del debito, gettano le basi per
la comprensione di una moneta nella quale le funzio-
ni economiche e politiche sono indistinguibili. In tal
modo, mettono a frutto la revisione del concetto di
«potere» fatta da Foucault - anch'esso stimolato dalla
rilettura di Nietzsche - , rendendola uno strumento
86
operativo per la comprensione della moneta: il capi-
tale è innanzitutto un potere di comando e di prescri-
zione, che si esercita attraverso il potere di distruzio-
ne/creazione della moneta.
L'anti-Edipo e questi corsi, scritti e pensati molto
prima dell'introduzione di politiche neoliberiste, ci
aiutano a comprendere perché il debito e la finanza -
lungi dal rappresentare patologie del capitalismo o l'a-
vidità e la cupidigia di poche persone - costituiscano
dei «dispositivi strategici» che orientano gli investi-
menti e determinano così le modalità di «distruzio-
ne» del vecchio ordine mondiale capitalistico e di
«creazione» di uno nuovo. I sistemi finanziari e ban-
cari sono al centro di una politica di distruzione/crea-
zione, all'interno della quale l'economico e il politico
si sovrappongono. Se vogliamo comprendere come
l'economia del debito in un secondo tempo riconfigu-
ri i poteri, occorre innanzitutto chiarire i legami tra
economico e politico.
Nei corsi di Deleuze, la critica si concentra sui dif-
ferenziali di potere espressi dalla moneta e di cui gli
economisti hanno difficoltà ad accorgersi. Il capitali-
smo dissimula oggettivamente il fatto che la moneta
abbia due funziori'alità fondamentalmente distinte:
quella del reddito e quella del capitale. Nel primo caso,
la moneta è un mezzo di pagamento (salario e reddi-
to) , che acquista una quantità di beni già disponibili -
imposti dalla produzione capitalistica - e si limita a
riprodurre i rapporti di potere e le modalità di assog-
gettamento fissati da tale produzione e a essa neces-
sari. Nel secondo caso, la moneta funziona come
struttura di finanziamento (moneta di credito e qua-
si-moneta della finanza), cioè ha la possibilità di sce-
87
gliere e di decidere le produzioni e le merci future e
quindi i rapporti di potere e di assoggettamento che
le sottendono. La moneta come capitale esercita un
diritto di prelazione sul futuro.
La moneta-reddito non fa che riprodurre rapporti
di potere, la divisione del lavoro e le assegnazioni a
funzioni e a ruoli prestabiliti. In quanto capitale, la
moneta ha invece la capacità di riconfìgurarli. È quan-
to accaduto, in modo esemplare, con l'arrivo del neoli-
berismo. La moneta-debito ha rappresentato l'arma
strategica di distruzione del Fordismo e di creazione
dei contorni di un nuovo ordine capitalistico mondia-
le'". Da qui in poi, la finanza/debito non è più una
semplice convenzione, una semplice funzionalità del-
l'economia reale, ma rappresenta il capitale sociale e il
«capitalista collettivo», il «comune» della classe dei
capitalisti, come già sapevano Marx e Lenin.
La posizione di Deleuze prolunga la teoria di Marx,
ripulendola di numerose ambiguità: impossibilità di
considerare un'economia mercantile in quanto tale,
poiché essa deriva dall'economia monetaria e dall'eco-
nomia del debito - che distribuiscono i poteri, gli as-
soggettamenti e le dominazioni - e, allo stesso tempo,
ne è subordinata; impossibilità di far derivare la mo-
neta dalla merce, ma persino dal lavoro, poiché la mo-
neta precede di diritto e di fatto precede il lavoro, la
merce e lo scambio. È questa a ordinarli, a comandar-
li, a organizzarne la distribuzione. Lasimmetria di po-
tere, i differenziali di potere che si esprimono nella
moneta-debito valgono per tutte le società: società ar-
89
una parte del suo funzionamento, mentre Lévi-Strauss
lo considera una conseguenza patologica del sistema.
Il debito infinito
31. Ibid.
90
che centralizzano e concentrano il potere «spirituale» -
il debito non può più essere estinto: al sistema di com-
binazioni finite e mutevoli («ti creo un blocco finito di
alleanze e di parentele») delle società arcaiche, si sosti-
tuisce un regime del debito infinito. Il cristianesimo «ci
ha firegato l'infinito», cosa che equivale a dire che siamo
in un regime sociale in cui non la si fa finita con niente,
in cui l'indebitamento è per la vita.
91
virtù del loro funzionamento «statale» - a differenza
delle società arcaiche - non era possibile rimborsarlo:
non era dunque possibile riequilibrare le differenze di
potere determinate dallo scambio, sempre disuguale.
Ma il debito restava ancora «esterno» all'individuo e al-
la sua coscienza. La specificità del cristianesimo consi-
ste nel fatto che ci colloca non solo dentro un regime
del debito, ma anche dentro un regime del «debito in-
teriorizzato». «Il dolore del debitore è interiorizzato, la
responsabilità del debito diventa un senso di colpa».
In questa piccola storia del debito a volo d'uccello,
Deleuze scandisce un altro passaggio fondamentale:
mentre il «debito interiorizzato» della religione cri-
stiana ha ancora una natura trascendente, nel capita-
lismo ha un'esistenza «immanente». Il capitalismo
reinventa a livello economico quell'infinito che il cri-
stianesimo introduce nella religione: il movimento
di capitale come automovimento del valore, del dena-
ro che genera denaro e che, grazie al debito, spinge
sempre più in là i propri limiti. Con il capitahsmo, la
valorizzazione capitalistica e il debito divengono pro-
cessi infiniti che si alimentano a vicenda. Marx insi-
ste sulla germinazione attraverso la quale il denaro
produce più denaro, tramite la quale il denaro si ma-
nifesta come automovimento che cresce su se stesso
e i cui limiti vengono continuamente superati. Il ca-
pitale ha dei limiti immanenti, ma che riesce a ripro-
durre su una scala sempre più estesa. Questo regime
dell'infinito è il regime di distruzione/creazione, che
si esprime innanzitutto nella e attraverso la creazio-
ne/distruzione della moneta.
Prima di arrivare al capitalismo propriamente det-
to, facciamo una digressione verso l'Antica Grecia e il
92
Medioevo, per verificare la continuità storica del rap-
porto debito-potere-misura che abbiamo ritrovato nel-
la Genealogia della morale. Nello stesso periodo in cui
viene scritto L'anti-Edipo, Michel Foucault sviluppa
una concezione della moneta che, come per Deleuze e
Guattari, si oppone all'interpretazione tradizionale
che la fa derivare da un'economia mercantile. La mo-
neta deriva direttamente dall'esercizio del potere sul
debito e sulla proprietà, e non dallo scambio di merci.
«La comparsa della moneta è legata alla formazione di
un nuovo tipo di potere, un potere che ha per ragion
d'essere quella di intervenire nel regime della proprie-
tà, nel gioco dei debiti e dei saldi»'''.
L'interpretazione dell'origine mercantile della mo-
neta, che la confina a funzioni di rappresentazione di
valori e di utilità all'interno dello scambio, «scambian-
do il segno per la cosa in sé, costituisce una sorta di ra-
dicale errore filosofico originale»". L'istituzione della
misura, di cui la moneta è un'espressione, non è di orì-
gine «economica». Nel corso del 1971, ritroviamo la
relazione misura-debito stabilita da Nietzsche, gran-
de ispiratore della teoria foucaultiana di potere:
34. M. Foucault, Lefons sur la volontéde savoir, Gallimard, Paris 2011, p. 132.
35. Ivi, p, 128.
36. Ibid.
93
Da questa complessità di rapporti di potere gli eco-
nomisti isolano il commercio, facendone, insieme al-
l'utilità, l'origine della società dell'uomo. Una specie di
tartuferia «inglese», direbbe Nietzsche.
Misura, valutazione e stima sono sempre una que-
stione di potere, prima di essere una questione econo-
mica. L'origine della stima, della valutazione, della mi-
sura, è al tempo stesso religiosa e politica: «Che sia ti-
ranno o legislatore, colui che detiene il potere è il
misuratore dello spazio politico: il misuratore di terre,
di cose, di ricchezza, di diritti, di potere e di uomini»".
Iflussi barbarici
94
le differenti funzioni della moneta. L'economia mer-
cantile non ha alcuna autonomia, alcuna possibilità di
esistenza autonoma indipendentemente da un flusso
di potere, da una potenza di deterritorializzazione.
Dalla periferia dell'impero, i Vichinghi, con le loro
navi, e gli Ungheresi con i loro cavalli (flussi di mobili-
tà, flussi migratori, flussi nomadici, flussi guerrieri di
potenza superiore alla mobilità contadina) si scagliano
sull'Impero, saccheggiano villaggi, tombe e monasteri.
95
acquisire una potenza che non aveva nel caso dell'a-
gricoltura stanziale. Il potere di distruzione/creazio-
ne non è una proprietà del denaro in quanto tale: il
denaro deve essere trasformato in capitale, cioè in po-
tere di distruzione/creazione. Nel neoliberismo, il
dispositivo che compie questa trasformazione in po-
tere è quello della borsa, della finanza e del debito.
Iflussi capitalisti
39. Ibid.
96
le modalità di assoggettamento. La potenza della mo-
neta come struttura di finanziamento non deriva da
un potere d'acquisto maggiore, la forza di un capitali-
sta non dipende dal fatto che sia più ricco di un ope-
raio. Il suo «potere deriva dal fatto che manovra e de-
termina la direzione dei flussi di finanziamento»,
cioè dispone del tempo, in quanto decisione, scelta,
possibilità di sfruttare, di sottomettere, di comandare
e di dirigere altri uomini. La moneta in quanto potere
d'acquisto è, per Deleuze, ciò attraverso cui riterrito-
riaHzziamo e saldiamo i flussi di lavoro al consumo,
alla famiglia, all'impiego e all'assoggettamento (ope-
raio, professore, uomo, donna ecc.), che sono altret-
tante assegnazioni della divisione del lavoro. Dun-
que, la rivendicazione salariale può essere, come nel-
la maggior parte delle politiche sindacali, un modo
per accettare e riconoscere questi assoggettamenti e
queste relazioni di potere; ma la rivendicazione sala-
riale e il potere d'acquisto possono anche rappresen-
tare il punto di rottura di questa riterritorializzazio-
ne, il rifiuto di questi assoggettamenti, a condizione
che il flusso salariale sia espressione di un flusso di
altra natura, di altra potenza. Allo stesso modo in cui
il capitalista deve trasformare il denaro (mezzo di pa-
gamento) in capitale, il proletariato deve trasformare
i flussi di potere d'acquisto in flussi di soggettivazio-
ne autonoma e indipendente, in flussi di interruzio-
ne della politica del capitale, cioè in flussi al tempo
stesso di rifiuto e di fuga dalle funzioni e dagli assog-
gettamenti ai quali è costretto. Il capitale ha un con-
trollo sul flusso di potere d'acquisto degh operai,
principalmente perché è padrone di un flusso di fi-
nanziamento, cioè è padrone del tempo, delle scelte e
97
delle decisioni-»". La moneta in quanto capitale ha un
potere di distruzione/creazione di cui la moneta in
quanto potere d'acquisto non dispone*»'.
Il flusso di finanziamento, cioè il denaro in quanto
capitale, è un potere mutevole, un flusso creatore, un
insieme di «segni potenza», perché impegna l'avveni-
re, perché esprime una forza di prescrizione e costi-
tuisce un potere di distruzione/creazione che anticipa
ciò che ancora non c'è. I flussi di finanziamento sono
un potere deterritorializzato e deterritorializzante che
non arriva dopo l'economia, ma le è immanente. Ope-
rano sui possibili e sulle loro attualizzazioni.
La materia del denaro, in quanto capitale, è appun-
to il tempo, ma non tanto il tempo di lavoro, quanto il
40. G. Deleuze, Cours du 22 févrìer 1972: «Per quanto siate ricchi, per
quanto forte sia il vostro potere d'acquisto, il denaro in quanto potere
d'acquisto definisce u n insieme di segni impotenti che ricevono la loro
potenza solo dall'altro flusso, il flusso del finanziamento. E come il dena-
ro in quanto potere d'acquisto è regolato dalle regole dello scambio, l'altro
flusso è regolato da tutf altre leggi, ossia dalle leggi di creazione e di di-
struzione della moneta».
41. Un'altra buffa curiosità! Un documento della Banca dei regolamenti
internazionali (Bri), firmato da Claudio Borio e Piti Disyatat, rimprovera
alle maggiori autorità economiche americane di confondere la moneta-
reddito con la moneta-capitale. A partire da questa distinzione, criticano
la tesi della Federai Reserve, portata avanti principalmente da Bernanke,
secondo la quale le condizioni monetarie della crisi hanno la loro causa
principale nel denaro facile, in un «ingorgo globale del risparmio», a sua
volta prodotto dalle eccedenze di conto corrente accumulate dai paesi
emergenti (soprattutto la Cina) e ricollocate dagli Stati Uniti. La tesi del-
l'eccesso di risparmio, che esonera da qualunque responsabilità le ban-
che e le autorità monetarie europee e americane, si fonda sulla confusio-
ne tra la moneta come reddito e la moneta come capitale. «L'attenzione
non giustificata rivolta ai confi correnti è sintomo dell'incapacità di stabi-
lire una differenza sufficientemente chiara tra risparmio e finanziamen-
to», scrivono. Il primo è un reddito non consumato, mentre il secondo
rappresenta un capitale. «Gli investimenti, e le spese in senso generale,
richiedono un finanziamento, non dei risparmi».
98
tempo come possibilità di scelta, di decisione, di co-
mando, cioè il potere di distruzione/creazione delle
forme sociali di sfruttamento e assoggettamento. Al
contrario, il denaro in quanto mezzo di pagamento è
un «segno impotente», perché funziona solo come
strumento per acquistare merci già esistenti, stabilen-
do «una relazione biunivoca tra la moneta e una gam-
ma imposta di prodotti»''\
Nel potere d'acquisto, «il denaro rappresenta una
taglio-prelievo possibile su un flusso di consumo» da-
to (delle relazioni di potere date); nella struttura del fi-
nanziamento, il denaro funziona come una «possibi-
lità di taglio-stacco» che riarticola catene di valorizza-
zione e di accumulazione del capitale, riconfigura la
composizione della forza lavoro e della popolazione e
delinea nuove modalità di assoggettamento. La speci-
ficità del potere capitalistico non deriva da una sem-
plice accumulazione di potere d'acquisto, ma dalla ca-
pacità di riconfigurare i rapporti di potere e i processi
di soggettivazione'".
99
Occorre segnalare che, dentro le crisi, il risana-
mento dei disastri compiuti dalla moneta in quanto
capitale (moneta «virtuale», perché deve ancora rea-
lizzarsi) si fa con la moneta-reddito (salari e salari so-
ciali, moneta attuale).
Deleuze e Guattari, facendo derivare la moneta dal
debito e affermando la sua «natura» infinita - che si
combina all'infinito con la «produzione per la produ-
zione» - hanno ben presto, e per tutta la durata del lo-
ro lavoro, compreso una delle principali trasformazio-
ni del capitalismo contemporaneo. Questa breve sto-
ria del debito dovrebbe essere completata da una
breve storia dell'imposta, poiché le politiche neoliberi-
ste sono anche, e in modo indissolubile, politiche fi-
scali. Questa intuizione, che qui non possiamo appro-
fondire, viene sviluppata soprattutto in Millepiani.
100
Stato interminabile che subordina a sé tutte le alleanze pri-
mitive (problema del debito). Il creditore infinito, il credito
infinito ha sostituito i blocchi di debito mobili e finiti. C'è
sempre un monoteismo all'orizzonte del dispotismo: il de-
bito diventa debito d'esistenza, debito dell'esistenza dei sog-
getti stessi. Viene il momento in cui il creditore non ha an-
cora prestato mentre il debitore non cessa di rendere, poi-
ché rendere è un dovere, mentre prestare è una facoltà,
come nella canzone di Lewis Carroll, la lunga canzone del
debito infinito:
Un uomo può certo richiedere il dovuto, / ma quando si
tratta di prestito, / può allora scegliere / il tempo che più gli
aggrada".
IDI
voro». Ora che comprendiamo meglio come funziona
la relazione creditore-debitore, è arrivato il momento
di analizzare precisamente come trovi la propria collo-
cazione nell'economia neoliberista e come essa ricon-
figuri il campo politico e sociale.
I02
L'influenza del debito nel neoliberismo
103
potere disciplinare e il potere biopolitico a partire da-
gli anni Settanta?
Nella sua importante opera sul neoliberalismo, Na-
scita della biopolitica, Michel Foucault, senza tenere
conto di quanto aveva affermato nello stesso corso sul-
le funzioni della moneta nella Grecia antica, tralascia
di prendere in considerazione le funzioni della finan-
za, del debito e della moneta, a fronte del fatto che, dal-
la fine degli anni Settanta, costituiscono i dispositivi
strategici del governo neoliberista. L'economia del de-
bito interviene indistintamente su diverse zone geopo-
litiche (Sud-Est asiatico, Sud America, Europa) o popo-
lazioni nazionali (Argentina, Grecia, Irlanda, Spagna,
Portogallo, ecc.); diventa uno strumento di pressione
nella maggior parte dei conflitti sociali ed esercita il
proprio potere sugli individui (indebitamento delle fa-
miglie), incarnando così il punto di vista del «capitali-
sta collettivo». Al contrario, sia detto en passant, la me-
tarmorfosi del capitalismo e della moneta, avvenuta a
cavallo degli anni Settanta, non sfugge a Gilles Deleu-
ze, che riassume così il passaggio dal governo discipli-
nare al neoliberismo contemporaneo : «Il controllo è a
breve termine e a rapida rotazione, ma anche continuo
e illimitato, mentre la disciplina era di lunga durata, in-
finita e discontinua. Euomo non è più l'uomo rinchiu-
so, ma l'uomo indebitato»'.
Per Foucault, i neoliberali non intendono più ì ho-
mo oeoconomicus come il soggetto dello scambio e del
mercato, ma come un imprenditore (di sé). La descri-
zione foucaltiana delle tecnologie neoliberali, istituite
per trasformare il lavoratore in «capitale umano» che
104104 104104
deve garantire da sé la formazione, la crescita, l'accu-
mulazione, il miglioramento e la valorizzazione di
«sé» in quanto «capitale», è contemporaneamente im-
prescindibile e ingannevole. Certamente, il «lavorato-
re» non è più considerato unicamente come un sem-
plice fattore di produzione; non è più, per essere preci-
si, una forza lavoro, ma un capitale-competenza, una
«macchina-competenze», che va di pari passo con uno
«stile di vita, un modo di vivere»', una posizione mora-
le «imprenditoriale» che determina «un genere di rela-
zione dell'individuo con se stesso, con il tempo, con
l'ambiente, con il futuro, col gruppo, con la famiglia»'.
Tuttavia, l'ingiunzione a fare dell'individuo «una
sorta di impresa permanente e molteplice» avviene in
una cornice completamente diversa da quella descrit-
ta da Foucault : quella dell'economia del debito.
Infatti, il punto di vista di Nascita della biopolitica è
ancora quello degli ordoliberali tedeschi, per i quali
l'impresa e l'imprenditore industriali erano al centro
del progetto deir«economia sociale di mercato». Fou-
cault resta attaccato a questa versione «industriale»
del neoliberalismo del Dopoguerra, mentre nel corso
degli anni Settanta emergono e si affermano una logi-
ca di impresa, questa volta finanziarizzata, e un capi-
talismo il cui interesse collettivo è rappresentato dagli
imprenditori finanziari, che impongono un nuovo
«governo dei comportamenti» e una nuova individua-
lizzazione che non ha più molto a che vedere con le
105
politiche degli ordoliberali del Dopoguerra. Come
suggerisce Foucault, il governo neoliberale deve sem-
pre agire sulla società stessa, dentro la sua trama e il
suo spessore, tenendo conto e persino facendosi cari-
co dei processi sociali per fare spazio, all'interno dei
processi sociali, non solo alla concorrenza e all'impre-
sa, ma, caratteristica decisiva, anche e soprattutto al
debito e alla sua economia.
Gli ordoliberali auspicavano una politica economi-
ca e sociale il cui obiettivo principale fosse la «depro-
letarizzazione» della popolazione (costruzione di pic-
cole unità di produzione, aiuti all'accesso alla proprie-
tà, azionariato «popolare» ecc.). Quest'ultimo avrebbe
dovuto scongiurare il pericolo politico costituito dalle
grandi concentrazioni industriali, dove il proletariato
avrebbe potuto organizzarsi e diventare una forza po-
litica autonoma, come accadde tra la fine del XIX e l'i-
nizio del XX secolo. Gran parte di queste politiche di
«deproletarizzazione» passavano attraverso il Welfare
e attraverso una cogestione delle imprese che pre-
disponevano un reale trasferimento delle ricchezze
verso i salariati, così da coinvolgerli nella gestione ca-
pitalistica della società: «un salariato che è anche ca-
pitalista non è più un proletario»; questo indipenden-
temente dalla crescente «salarizzazione dell'econo-
mia». Con i neoliberisti contemporanei, la deproleta-
rizzazione fa un salto in avanti a parole («tutti prole-
tari, tutti imprenditori»), ma nei fatti si trasforma nel
suo contrario, soprattutto a causa della deflazione sa-
lariale e dei tagli al bilancio dello Stato sociale. In que-
sto modo, l'economia del debito organizza una preca-
rizzazione economica ed esistenziale che è il nome
nuovo di una realtà vecchia: la proletarizzazione, so-
io6
prattutto delle classi medie e dei lavoratori delle nuo-
ve professioni, di quella che un tempo era chiamata,
prima dell'esplosione della bolla, new economy.
Crediamo che l'economia del debito fornisca
un'immagine più nitida delle nuove incarnazioni sog-
gettive del capitale, sulle quali la popolazione nel suo
insieme viene sollecitata a modellarsi, immagine
molto diversa da quella ostentata dalla new economy
degli anni Ottanta e Novanta e dalla descrizione effet-
tuata dallo stesso Foucault.
Se l'azione neoliberista si regge contemporanea-
mente e indifferentemente sull'economia e sulla sog-
gettività, sul «lavoro» e sul «lavoro su di sé», riduce
quest'ultimo a un'ingiunzione a diventare il proprio
padrone, nel senso di «assumere su di sé» i costi e i ri-
schi che l'impresa e lo Stato esternalizzano nella socie-
tà. La promessa di ciò che il «lavoro su di sé» avrebbe
dovuto apportare al «lavoro» in termini di emancipa-
zione (godimento, realizzazione, riconoscimento, spe-
rimentazione di forme di vita, mobilità) si è ribaltata
nell'imperativo di farsi carico dei rischi e dei costi che
non vogliono assumersi né le imprese né lo Stato.
Bloccando i salari (con la deflazione salariale) e ridu-
cendo drasticamente le spese sociali, le politiche neoli-
beriste contemporanee producono un capitale umano
o un «imprenditore di sé» piìi o meno indebitato e più
0 meno povero, ma comunque ancora precario. Per la
maggior parte della popolazione, diventare imprendi-
tore di sé significa limitarsi alla gestione, secondo i cri-
teri dell'impresa e della concorrenza, della propria oc-
cupabilità, dei propri debiti, della diminuzione del pro-
prio salario e dei propri redditi, della riduzione dei
propri servizi sociali. Con il Reddito di solidarietà atti-
107
va (Rsa) di Martin Hirsch, dal povero si esige una com-
petenza «manageriale» per amministrare il «cumulo»
di «assistenza» e di lavoretti. Non serve allora creare la
propria piccola impresa individuale per essere impren-
ditori di se stessi, basta comportarsi come se lo fossi-
mo, adottandone la logica, i comportamenti, il modo di
relazionarsi al mondo, a se stessi e agli altri.
Dalla crisi finanziaria provocata dallo scoppio della
bolla Internet, il capitalismo ha abbandonato le pro-
prie narrazioni epiche costruite intorno alla libertà, al-
l'innovazione e alla creatività dell'imprenditore, alla
società della conoscenza ecc. La popolazione deve
semplicemente farsi carico di tutto ciò che la finanza,
le imprese e il Welfare «esternalizzano» sulla società,
punto e basta!
L'autonomia e la libertà, che l'attività imprendito-
riale avrebbe dovuto portare al «lavoro», in realtà si so-
no rivelate una dipendenza maggiore e più intensa,
non soltanto dalle istituzioni (impresa, Wdfare, finan-
za), ma anche da se stessi - «finalmente padroni!», po-
tremmo leggere su un depliant pubblicitario sullo sta-
tus di autoimprenditore. Indipendenza che possiamo
interpretare, con un po' di ironia, come la colonizza-
zione del superio freudiano da parte dell'economia,
poiché r«io-ideale» non deve più limitarsi a essere
l'autorità custode e garante della «morale» e dei valori
della società, ma anche è soprattutto il custode e il ga-
rante della produttività dell'individuo! Continuiamo a
ricadere nel binomio di economia ed etica, di lavoro e
lavoro su di sé. La feroce critica rivolta dall'anti-Edipo
alla psicanalisi freudiana e lacaniana può essere letta
come l'anticipazione dell'estensione della «cura» e del
transfert «analista/analizzato» alla gestione della for-
io8
za lavoro dentro l'impresa e alla popolazione dentro la
società. La moltiplicazione dell'intervento degli psico-
logi, dei sociologi e di altri esperti del «lavoro su di sé»,
lo sviluppo del coaching per i lavoratori delle fasce più
alte e del monitoraggio individuale obbligatorio per i
lavoratori poveri e i disoccupati, l'esplosione di tecno-
logie di «cura del sé» nella società sono i sintomi di
nuove forme di governo degli individui che passano
anche e soprattutto attraverso il modellamento della
soggettività.
Prima di immergersi nell'esplorazione di questo
modellamento della soggettività da parte dell'econo-
mia del debito, occorre soffermarsi ancora sulle tra-
sformazioni operate dall'economia del debito sull'or-
ganizzazione del potere e dell'economia a un livello
più generale dentro le nostre società contemporanee.
Queste trasformazioni ci consentiranno di capire in
cosa l'economia del debito abbia radicalmente trasfor-
mato le nostre possibilità di azione a un livello sia sog-
gettivo che collettivo.
109
Il potere sovrano
Ili
leanza che, in forma sistematica, non smette di attac-
care la logica del Wdfare e le sue spese sociali. Se esi-
ste, appunto, un conflitto, esso si colloca tra due con-
cezioni dello Stato e della politica monetaria e sociale
dello Stato, ma è da tempo che il blocco neoliberista
ha vinto e conserva una posizione egemonica all'in-
terno dell'economia, delle amministrazioni, dello
Stato, dei partiti politici, delle imprese e dei media.
Questo nuovo blocco di potere non sarebbe mai riu-
scito a emergere senza l'intervento dei poteri pubbli-
ci (senza l'intervento dei governi, tanto di destra che
di sinistra - in Francia sostanzialmente quello dei so-
cialisti - , degli Stati e delle banche centrali). E, come
dimostra l'ultima crisi finanziaria, è sempre lo Stato
(come «prestatore di ultima istanza») a consentire la
riproduzione di rapporti di potere capitalistici centra-
ti sul debito.
Contro le teorie del declino dello Stato-nazione e
per affermarne al contrario la vitalità, si è osservato
che il numero degli Stati-nazione è aumentato e non
diminuito con l'avvento del neoliberismo. Ma il pro-
blema non sta in questo, poiché ciò che è cambiato
sono le funzioni dello Stato-nazione, le sue modalità
di intervento e le sue finalità. Al contempo, è scon-
volgente vedere come le agenzie di rating, per conto
del blocco di potere finanziario, del quale rappresen-
tano un elemento strategico, siano quotidianamente
in grado di far fare giri di valzer a Stati e governi -
greco, irlandese, islandese, portoghese, italiano, spa-
gnolo (i sei governi saltati) e inglese, per parlare sol-
tanto della crisi finanziaria più vicina. Il potere sovra-
no degli Stati è seriamente messo a repentaglio dal-
l'intervento delle agenzie di rating, degli investitori
112
finanziari^ e delle istituzioni finanziarie quali ITmi.
Gli Stati europei si limitano ad applicare politiche
economiche e sociali dettate dai mercati (ovvero dal
blocco di potere economico-politico-fìnanziario) a
partire dal nuovo patto di stabilità europeo. Le elezio-
ni che si svolgono in questi paesi si fanno su pro-
grammi economici già dettati dai vincoli economici e
finanziari decisi all'esterno del territorio nazionale.
Il potere disciplinare
3
Così la finanza mette in atto un «governo» dell'im-
presa i cui principi generali sono i seguenti: «Primato
dell'azionista sul dirigente dell'impresa; subordina-
zione della gestione dell'impresa all'interesse dell'a-
zionista; in caso di conflitto di interesse, preponde-
ranza dell'interesse dell'azionista»''.
Decreta e impone all'impresa una nuova «misu-
ra» del valore che passa attraverso l'attuazione di nuo-
ve norme contabili internazionali, dette Ifrs (Interna-
tional Financial Reporting Standards), che sono state
elaborate nell'esclusivo interesse degli investitori e
degli azionisti e che sono state applicate a partire dal
primo gennaio 2 0 0 5 a tutte le imprese europee quo-
tate in borsa. Questa nuova contabilità deve permet-
tere di confrontare le performance finanziarie delle
imprese in qualunque momento e qualunque siano i
settori di attività.
114
ordinare le forme di valorizzazione, le procedure di
contabilità, i livelli salariali, l'organizzazione del lavo-
ro, i ritmi e la produttività al suo interno.
La contrattualizzazione delle «relazioni sociali» è
l'ennesima «innovazione» imposta dalla finanza.
Nelle imprese, innanzitutto, e da qualche anno anche
nei «servizi sociali», definisce un processo di indivi-
dualizzazione volto a neutralizzare le logiche «collet-
tive». Persino per il sussidio di disoccupazione o il
reddito minimo sociale, i beneficiari devono firmare
un «contratto individuale» per poter accedere al sus-
sidio. Così, l'impresa non è piii un luogo di conflitto
tra salariati e datori di lavoro e il servizio sociale non è
più luogo di esercizio di poteri fortemente asimme-
trici tra agenti che rappresentano l'amministrazione
e utenti (disoccupati, malati, beneficiari di un sussi-
dio). L'istituzione impresa o il servizio sociale è un in-
sieme di contratti individuali, che lega tra loro diversi
attori che, nel perseguimento del proprio interesse
individuale, sono alla pari.
Non c'è dunque contraddizione, ma convergenza,
tra ciò che chiamiamo ancora economia reale ed eco-
nomia virtuale. Gran parte dei redditi delle imprese è
costituita da redditi finanziari. Gli investimenti in
prodotti finanziari da parte di società non finanziarie
sono aumentati più rapidamente rispetto ai cosiddetti
investimenti produttivi in macchinari e forza lavoro.
La dipendenza delle imprese nei confronti dei redditi
finanziari continua ad aumentare. «Nella tendenza al-
la finanziarizzazione dell'economia non finanziaria, il
settore manufatturiero non è solo quantitativamente
predominante, ma è anche quello che fa da traino al
processo». Questo basta, afferma Christian Marazzi,
5
per lasciar cadere definitivamente la distinzione tra
economia reale ed economia finanziaria, proprio co-
me occorre smettere di identificare il capitalismo col
solo capitalismo industriale, sia dal punto di vista teo-
rico che storico.
Il potere biopolitico
ii6
in «debiti sociali», che le politiche neoliberiste tendo-
no a loro volta a trasformare in debiti privati, parallela-
mente alla trasformazione degli «aventi diritto» in
«debitori» presso le casse di assicurazione contro la
disoccupazione (per i disoccupati) e presso lo Stato
(per i beneficiari di minimi sociali e di sussidi).
La trasformazione dei diritti sociali in debiti e de-
gli utenti in debitori è la realizzazione dell'individua-
lismo patrimoniale che «ha per fondamento l'affer-
mazione di diritti individuali, dentro una concezione
di questi diritti del tutto finanziaria che li equipara a
dei titoli»®. L'utente trasformato in «debitore», diver-
samente da ciò che accade sui mercati finanziari, non
deve rimborsare con denaro contante, ma con com-
portamenti, atteggiamenti, modi di agire, progetti,
impegni soggettivi, tempo dedicato alla ricerca del la-
voro, tempo utilizzato per formarsi secondo i canoni
dettati dal mercato e dall'impresa. Il debito rimanda
direttamente a una disciplina di vita e a uno stile di vi-
ta che implicano un lavoro su di «sé», un negoziato
permanente con se stessi, una produzione di sogget-
tività specifica: quella dell'uomo indebitato. È proprio
in questo senso che possiamo affermare che il debito
riconfigura il potere biopolitico, implicando una pro-
duzione di soggettività propria all'uomo indebitato.
Dunque, riconfìgurando il potere sovrano, il pote-
re disciplinare e il potere biopolitico, l'economia del
debito ricopre contemporaneamente una funzione
politica, produttiva e distributiva.
117
La governamentalità neoliberista
alla prova del debito: egemonia o governo?
Cos'è il capitalismo?
ii8
ca, ma operativa, cioè costituisce una «politica» che dà
luogo a composizioni e unificazioni sempre parziali e
temporali. E, nel capitalismo, la «politica» è sempre
definita in relazione alle urgenze e agli imperativi del
conflitto di classe.
La necessità di reagire e di superare i rapporti di
forza cristallizzati a partire dal '68 ha portato alla co-
stituzione di un blocco di potere che ha agito, spesso a
tentoni, su diversi dispositivi di potere contempora-
neamente (privilegiando di volta in volta il mercato,
l'impresa o lo Stato). Ma la trama di fondo che tiene in-
sieme tali dispositivi è la relazione creditore-debitore,
che non ha avuto sempre lo stesso peso, né la stessa
funzione, ma che si è rivelata essere, pragmaticamen-
te, quella più utile ed efficace. La crisi del 2 0 0 7 ne ha
ulteriormente accresciuto l'utilità e l'efficacia agli oc-
chi del potere neoliberista, coniugando «estrazione
del plusvalore» e controllo della popolazione a un li-
vello di generalizzazione e di trasversalità che il capi-
talismo industriale non è in grado di garantire. La re-
lazione creditore-debitore è quella maggiormente in
grado di gestire la crisi della dinamica liberista, poiché
fa passare in primo piano la questione della proprietà.
Ma si tratta per questo di egemonia.^ Il concetto gram-
sciano di «egemonia» (egemonia del capitale finan-
ziario) sembra essere meno operazionale di quello,
foucaultiano, di «governamentalità».
Il capitalismo non è una struttura o un sistema: esso
si elabora, si trasforma, si organizza e si dota di proce-
dure più o meno adeguate, a seconda degli imperativi
dello sfruttamento e del dominio. Il potere del capitali-
smo, come il mondo che vuole dominare e fare pro-
prio, è sempre in corso. Il blocco di potere che si è com-
119
pattato attorno all'economia del debito è costituito da
relazioni di potere che sono al tempo stesso eteroge-
nee - perché rispondono a logiche differenti (lo Stato
con le sue funzioni regie e di controllo della popolazio-
ne attraverso lo Stato sociale; l'industria e la sua accu-
mulazione che passa per il lavoro; la finanza che pre-
tende di far a meno del lavoro; il politico che organizza
il consenso, ecc.) - e complementari - perché fanno
fronte allo stesso «nemico». Ciò che li unisce e li con-
solida o li separa e li indebolisce è lo svolgimento della
lotta di classe. La loro unità e i rapporti di forza interni
sono un processo politico di composizione che non è
presupposto, poiché risultato di una costruzione.
Per usare le parole di Lenin, la governamentalità
ha prodotto un capitalista collettivo che non si concen-
tra sulla finanza, ma opera trasversalmente dentro
l'impresa, l'amministrazione, i servizi, i partiti politi-
ci, i media e l'Università. Questa soggettivazione poli-
tica dota i capitalisti della stessa preparazione, della
stessa visione dell'economia e della società, dello stes-
so vocabolario, degli stessi metodi: insomma, della
stessa politica. Se la governamentalità neoliberista è
senza dubbio costruita intorno al debito - che ingloba
le altre relazioni di potere in modo sempre problema-
tico - occorre storicizzarne lo sviluppo, poiché, pas-
sando da una sequenza politica all'altra, si modifica.
Quella che Foucault descrive in Nascita della biopoliti-
ca non sembra più adatta a spiegarne l'operato a parti-
re dagli anni Novanta, poiché ciò che la governamen-
talità limiterà è appunto la produzione della libertà, di
cui Foucault fa la condizione del «liberalismo». La li-
bertà, nel liberalismo, è sempre e in primo luogo la li-
bertà della proprietà privata e dei proprietari. Quando
questi «diritti dell'uomo» vengono minacciati - dalla
crisi, dalla rivolta o da tutf altri fenomeni - per garan-
tire la loro perpetuazione occorrono regimi di gover-
namentalità diversi da quello liberale. Così, il proble-
ma di «governare il meno possibile» ha creato le con-
dizioni e ha poi lasciato il campo - come sempre nella
storia del capitalismo - a politiche molto più autorita-
rie. Leggendo Nascita della biopolitica, alla luce di ciò
che succede oggi, siamo colpiti da una certa ingenuità
politica, poiché la parabola che il «liberalismo» traccia
conduce sempre agli stessi risultati: crisi, restrizione
della democrazia e delle libertà «liberali» e attuazione
di regimi più o meno autoritari, a seconda dell'intensi-
tà della lotta di classe portata avanti per mantenere i
«privilegi» della proprietà privata.
Dunque, è sempre pragmaticamente e storica-
mente che occorre interrogarsi sulla funzione dei di-
versi rapporti di potere, domandandosi non cosa sia il
capitalismo, ma come funzioni a partire dalla lotta di
classe, di cui solo i grandi reazionari parlano con qual-
che pertinenza - come Warren Buffet, l'uomo di riferi-
mento della borsa americana.
121
della creatività e dell'arricchimento come negli anni
Ottanta e Novanta.
Nella sua genealogia e nel suo sviluppo, la crisi dei
subprìme mostra il funzionamento di un blocco di po-
tere, in cui l'economia «reale», la finanza e lo Stato co-
stituiscono gli ingranaggi di uno stesso dispositivo e
di uno stesso progetto politico, che abbiamo chiamato
economia del debito. Anche qui, l'economia «reale» e
la «speculazione» finanziaria sono indivisibili. Men-
tre l'economia «reale» impoverisce i governati in
quanto «salariati» (blocco dei salari, precarietà ecc.) e
in quanto detentori di diritti sociali (riduzione dei so-
stegni al reddito, diminuzione dei servizi pubblici, dei
sussidi di disoccupazione, delle borse di studio per gli
studenti, ecc.), la finanza promette di arricchirli con il
credito e l'azionariato. Nessun aumento di salari diret-
ti e indiretti (pensioni), ma crediti al consumo e spin-
ta alla rendita finanziaria (fondi pensione, assicura-
zioni private); nessun diritto all'alloggio, ma prestiti
immobiliari; nessun diritto alla scolarizzazione, ma
prestiti per pagare gli studi; nessuna garanzia sociale
contro i rischi (disoccupazione, sanità, pensione), ma
investimenti nelle assicurazioni individuali.
Il dipendente e l'utente della previdenza sociale de-
vono rispettivamente guadagnare e spendere il meno
possibile per ridurre il costo del lavoro e il costo della
previdenza sociale, mentre i consumatori devono
spendere il più possibile per smaltire la produzione.
Ma, nel capitalismo contemporaneo, il dipendente, l'u-
tente e il consumatore finale coincidono. Ed è la finan-
za a pretendere di risolvere questo paradosso. La cresci-
ta economica neoliberista determina differenziali di
reddito e di potere sempre più importanti, impoveren-
122
do i salariati, gli utenti e una parte della classe media,
mentre pretende, dall'altro lato, di arricchirli, con un
meccanismo molto ben esemplificato dai crediti sub-
prime: ridistribuire redditi senza intaccare i profitti, ri-
distribuire redditi riducendo le imposte (soprattutto ai
ricchi e alle imprese), ridistribuire redditi tagliando i
salari e le spese sociali. In questa condizione di defla-
zione salariale e di distnizione dello Stato sociale, per
arricchire tutti non resta altro che il ricorso al credito.
Come fiinziona questa politica.^ «Hai un salario basso,
non c'è problema! Indebitati per comprare una casa, il
suo valore aumenterà e diventerà la garanzia per altri
prestiti». Ma non appena aumentano i tassi di interes-
se, questo meccanismo di «distribuzione» dei redditi -
attraverso il debito e la finanza - crolla.
La logica del debito/credito è una logica politica di
governo delle classi sociali all'interno della globalizza-
zione. La gestione dei subprìme lo esprime in modo
paradigmatico.
123
L'economia americana è fondamentalmente un'e-
conomia del debito. La finanza non rappresenta prin-
cipalmente un fenomeno di speculazione, ma costi-
tuisce il motore della crescita e ne definisce la natura.
Il 30 giugno 2008, il debito aggregato degli Stati Uni-
ti - famiglie, imprese, banche e pubblica amministra-
zione - supera i 51.000 miliardi di dollari, a fronte di
un Pil di 14.000 miliardi di dollari. Negli ultimi otto
anni (gli anni di Bush), negli Stati Uniti, il debito me-
dio delle famiglie è aumentato del 22%; l'ammontare
dei prestiti non pagati è aumentato del 15%: il debito
degli studenti universitari è raddoppiato. L'insegna-
mento di uri «arte del vivere indebitati» è ormai parte
integrante dei programmi americani di educazione
nazionale.
L'aumento della domanda non si realizza più, in
sostanza, attraverso il debito pubblico, ma attraverso il
debito privato, scaricando i costi e i rischi sulle fami-
glie «indebitate». L'indebitamento degli ultimi anni
ha quindi fortemente contribuito allo sviluppo e all'e-
spansione della finanza e, del resto, è a partire del cre-
dito immobiliare che è scoppiata l'ultima crisi finan-
ziaria. In altri termini, come sostiene Christian Ma-
razzi, per sorreggere la domanda globale di beni e
servizi, si è passati dal deficit spending pubblico al defi-
cit spending privato. Il debito pubblico non è affatto
scomparso, soprattutto negli Stati Uniti, dove la leva
fiscale è estremamente insufficiente per equilibrare la
crescita delle spese pubbliche. Ciò nonostante, il so-
stegno alla domanda globale avviene attraverso i mer-
cati finanziari e le banche, come nel caso dei suhprìme.
La finanza è una macchina da guerra per la priva-
tizzazione, che trasforma i diritti sociali in crediti, in
124
assicurazioni individuali e in rendita (azionaria), e
quindi in proprietà individuale. Andate tutti dal vostro
banchiere, la finanza ha scovato le tecniche più sofisti-
cate per trasformarvi in proprietari e in consumatori a
carta di credito. A essere fallita non è la «speculazio-
ne», la presunta divaricazione tra finanza ed econo-
mia reale, ma la pretesa di arricchire tutti senza mette-
re mano al sistema della proprietà privata. All'interno
del capitalismo, la proprietà è lo scoglio di tutte le poli-
tiche: hic Rhodus, hic saltai A questo livello, la lotta di
classe si esprime nello scontro tra due modelli di «so-
cializzazione» della ricchezza: diritti per tutti e garan-
zie sociali versus crediti e assicurazioni individuali. A
crollare è il progetto politico di trasformare tutti in
«capitale umano» e imprenditori di se stessi. Con i
subprime, i capitalisti hanno creduto alla loro stessa
ideologia: trasformare chiunque in «proprietario», ivi
inclusi i «più poveri della working class e della classe
media». «Tutti proprietari!», annunciava il program-
ma elettorale di Sarkozy, mentre lo slogan originale di
Bush parlava di «società dei proprietari». Ciò che vie-
ne ratificato, al contrario, è la riconversione della mag-
gioranza della popolazione in debitori e di una mino-
ranza in redditieri. Il fallimento dell'individualismo
proprietario porta in primo piano l'economia del debi-
to e il risvolto meno felice della relazione creditore-de-
bitore, quella del rimborso.
L'economia del debito ha obiettivi fortemente politi-
ci: la neutralizzazione dei comportamenti collettivi
(garanzie sociale, solidarietà, cooperazione, diritti per
tutti) e della memoria storica delle lotte, delle azioni,
delle organizzazioni collettive dei «salariati» e dei
«proprietari». La crescita trainata dal credito (finanza)
125
pensa in questo modo di esorcizzare il conflitto. Con-
frontarsi a soggettività che considerano i sussidi, le
pensioni, la formazione ecc. come diritti collettivi ga-
rantiti dalle lotte non è la stessa cosa che governare
«debitori», piccoli proprietari, piccoli azionisti.
La crisi dei subprime non è quindi unicamente una
crisi finanziaria: segna anche il fallimento del pro-
gramma politico dell'individualismo proprietario e
patrimoniale. Questa crisi è prevalentemente simbo-
lica, poiché attiene alla rappresentazione per eccellen-
za della «proprietà individuale»: la casa. A breve ter-
mine, il fallimento delle politiche neoliberiste sarà
l'occasione, per il blocco di potere costituito dall'eco-
nomia del debito, di trarre vantaggio dalla situazione
di crisi in cui ha fatto sprofondare il mondo intero.
Chi pagherà le montagne di debiti accumulati per
salvare le banche e il sistema di potere dell'economia
del debito.^ Non c'è alcun dubbio sulla risposta del
blocco di potere neoliberista. Ma si tratta di una strate-
gia in cui gli apprendisti stregoni neoliberisti rischia-
no di non riuscire a controllare granché!
126
sono salvate le banche, nazionalizzandone le perdite.
L'iniezione monetaria da parte dello Stato nella socie-
tà - che in realtà, come abbiamo visto con Deleuze, è
un flusso di potere - ha tentato di ristabilire e riconso-
lidare il rapporto di forza tra creditori e debitori. Gli
Stati non hanno portato aiuto a una struttura funzio-
nale di finanziamento dell'economia reale, ma a un
dispositivo di dominio e di sfruttamento proprio del
capitalismo contemporaneo. E, non senza cinismo, i
costi della restaurazione di questa relazione di sfrutta-
mento e di dominazione si faranno pagare a coloro
che la subiscono.
Qui si apre una nuova sequenza politica, di cui è
impossibile anticipare le conseguenze. La volontà di
approfittare della crisi per portare a compimento il
programma neoliberista (riduzione dei salari a un li-
vello di sussistenza, riduzione delle spese sociali e tra-
sformazione dello Stato sociale, intensificazione delle
privatizzazioni) è per il Capitale un programma ri-
schioso, poiché indebolisce lo Stato - dispositivo cen-
trale del controllo politico e del modellamento della
soggettività - inasprendo la lotta di classe. Prestando
fede alla loro stessa retorica, secondo la quale il mer-
cato non ha bisogno dello Stato, le agenzie di rating
hanno aperto le ostilità, indicando su quale debito so-
vrano puntare (europeo innanzitutto!). Mettendo gli
Stati in condizioni di fallimento, permettono d'impor-
re ai paesi in deficit politiche salariali e sociali che la
governance neoliberista sognava dagli anni Settanta.
Poiché «non ci sono alternative», occorre dunque rim-
borsare dei creditori già arricchiti da quaranf anni di
predazione del debito pubblico. La Grecia - dopo che
nel 2 0 I 0 ha abbassato i salari, aumentato l'età pensio-
127
nabile, bloccato le pensioni, aumentato l'Iva - mette in
atto, su richiesta dell'Europa e dell'Fmi, un secondo
piano che, sommando austerità ad austerità, prevede
6 miliardi di euro di tagli nel 2011, 26 miliardi tra il
2 0 1 2 e il 2015, privatizzazioni (l'azienda elettrica, la
lotteria, il vecchio aeroporto di Atene, alcuni porti e
marine) equivalenti a 50 miliardi di euro, un aumento
settimanale del lavoro dei dipendenti statali di 2 ore e
mezza e la soppressione di 2 0 0 . 0 0 0 posti di lavoro
nel settore pubblico. Nel 2 0 1 0 , 1 2 0 . 0 0 0 negozi hanno
chiuso; nel 2011, è stata la volta di 6 0 0 0 ristoranti, a
fronte di una diminuzione dell'affluenza del 54%. Tut-
to ciò che vale qualcosa deve essere svenduto. Che le
entrate per lo Stato diminuiscano proporzionalmente
non sembra preoccupare l'Fmi e quel covo di neolibe-
risti che è l'Europa. La sola cosa che importa è che i
creditori (e soprattutto le banche tedesche e francesi,
che, detenendo alcuni titoli del debito greco, si ve-
dranno salvate una seconda volta dal denaro «pubbli-
co») vengano rimborsati. Per essere sicuri della buona
riuscita di tale programma, la vendita di tutti questi at-
tivi dovrà essere posta sotto sorveglianza, se non sotto
la responsabilità, di esperti stranieri. Con questo nuo-
vo piano di «aiuto», il debito della Grecia è passato dal
150 al 1 7 0 % del Pir°. I piani di salvataggio dell'Europa
128
e dell'Fmi stanno per far affondare anche l'Irlanda in
una recessione e in una disoccupazione di cui non si
vede l'uscita.
Un economista americano, John Coffee, in un'in-
tervista rilasciata il 9 lugho 2 0 1 1 a «La Stampa», quoti-
diano del gruppo Fiat, parlando del debito pubblico
italiano - oggetto di attacchi da parte dei mercati nei
primi giorni di luglio - svela cosa ci sia dietro il salva-
taggio della Grecia. A una domanda relativa alla situa-
zione del debito italiano, i cui titoli sono detenuti in
gran parte dalle «famiglie» italiane, quindi da piccoli e
piccolissimi risparmiatori, risponde:
In assoluto, è vero che il fatto che il debito sia nelle mani del-
le famiglie dà stabilità, ma siamo in una fase in cui la Grecia
rischia il fallimento e la Banca centrale europea vuole evi-
tarlo per salvare le banche francesi e tedesche, che ne subi-
rebbero le conseguenze. Se, al contrario, fosse stata l'Italia a
essere in fallimento, l'onere maggiore sarebbe toccato alle
famiglie e non alle banche europee. Questo può portare la
129
Bce ad aiutare prima la Grecia che l'Italia. I mercati lo sanno
bene e si comportano di conseguenza.
130
Ma è negli Stati Uniti, epicentro della crisi e culla
del neoliberismo, che le politiche neoconservatrici ri-
schiano di andare al fondo della propria logica, appro-
fittando della crisi finanziaria. Il democratico Obama
si vanta di aver negoziato il più importante taglio nelle
spese sociali mai realizzato negli Stati Uniti, come se si
dovesse andare orgogliosi di un nuovo New Deal, ma al
contrario. Nel novembre 2010, ha concluso un accordo
con il Congresso americano, ormai a maggioranza re-
pubblicana, per prolungare di due anni le riduzioni fi-
scali concesse da Bush alle fasce più ricche della popo-
lazione. La legge Obama-Bush, come è stata chiamata
negli Stati Uniti, estende la riduzione fiscale anche a
coloro che hanno un reddito superiore a 250.000 dol-
lari. Questi ricchi rappresentano solo il 5% della popo-
lazione, ma le loro imposte costituiscono oltre il 4 0 %
delle entrate fiscali relative all'imposta sui redditi. In
cambio di qualche spicciolo ai disoccupati, il regalo ai
ricchi è stato più che sostanzioso: intorno ai 315 miliar-
di di dollari in due anni. Per avere un'idea dell'ordine di
grandezza di questo regalo, occorre ricordare che, nel
2008, il sostegno dello Stato americano alla propria
economia ammontava a 800 miliardi di dollari in due
anni, il più consistente nella storia del paese. Ciò nono-
stante, i neoconservatori si sono dedicati con pazza
gioia alla drastica riduzione delle spese del Welfare in
differenti Stati della federazione, aspettando di impor-
re le stesse politiche allo Stato federale. In un'intervi-
sta, Arianna Huffmgton ricorda che queste politiche
sono attive in quarantacinque Stati dell'Unione". Nel
131
febbraio 2011, per tre giorni, migliaia di contestatori,
sindacalisti e democratici insieme, hanno manifestato
a Madison, capitale del Wisconsin, contro i progetti del
nuovo governatore, il repubblicano Scott Walker, che si
è fatto eleggere con la promessa di riassorbire i deficit
di bilancio pur riducendo le imposte. Il suo progetto
avrebbe dovuto consentire di risparmiare 300 milioni
di dollari (intorno ai 220 milioni di euro) nei successi-
vi due anni (il deficit di bilancio dello Stato è di 5,4 mi-
liardi). Il progetto di riduzione del debito prevedeva di
congelare parzialmente, per via legislativa, i salari dei
dipendenti pubblici, di ridurre le loro pensioni e altre
componenti della loro copertura sociale e di annullare
una serie di diritti sindacali, non ultimo degli obiettivi
dei politici dell'austerità in tutto il mondo.
I negoziati sul tetto del debito, tra democratici e
conservatori, assomigliano a una caricatura, purtrop-
po ben fatta, della lotta tra classi sociali in America. I
conservatori non vogliono toccare gli scandalosi van-
132
taggi fiscali concessi ai ricchi e alle imprese e vogliono
ottenere la riduzione del deficit con tagli selvaggi alle
spese sociali, cioè vogliono applicare al bilancio fede-
rale ciò che è già in atto negli Stati dell'Unione.
La Francia, a partire dall'inizio degli anni Duemila,
ha velocemente recuperato il ritardo sugli Stati Uniti
quanto alle politiche fiscali favorevoli ai ricchi (in par-
ticolare ai più ricchi tra i ricchi") e alle imprese. Il di-
battito che si è sviluppato in parallelo, nella primavera
del 2 0 I I , sui beneficiari di sussidi e sull'imposta sul
patrimonio, è l'ennesima versione, del tutto priva di
remore, della lotta di classe portata avanti dalle politi-
che fiscali e sociali: applicare una «doppia pena» ai
beneficiari di un Reddito minimo di solidarietà (400
euro al mese). In quanto colpevoli della loro situazio-
ne, costoro dovrebbero rispettare i «doveri» che gli
vengono imposti (obbligo di controllo individuale,
obbligo di accettare qualunque offerta ragionevole di
impiego dopo aver rifiutato due volte) e fornire, inol-
tre, lavoro gratuito, proprio mentre il governo france-
se stacca un assegno di vari miliardi di euro ai contri-
buenti dell'Isf (Imposta di solidarietà sul patrimonio),
riducendo quasi a un quarto l'imposta sul patrimonio
dei più ricchi (il tasso applicabile oltre i 17 milioni di
euro di patrimonio passerà dall'i,8 allo 0,5%!). Le nic-
chie fiscali, che costituiscono un ulteriore dispositivo
di «assistenza» ai ricchi, rappresentano tra i 60 e gli
133
8o miliardi di euro all'anno, e vengono offerte senza
alcuna contropartita, né in termini di doveri, né in ter-
mini di «lavoro socialmente utile». Miliardi di cui le
classi sociali più disagiate dovranno farsi carico.
Attraverso il debito sovrano, l'uomo indebitato ri-
schia di diventare la condizione economico-esisten-
ziale più diffusa al mondo. E allora, lo scacco subito
dalla governamentalità neoliberista al momento della
crisi dei subprime rischia di trasformarsi, a breve ter-
mine, in una vittoria a favore dell'economia generaliz-
zata del debito. È dunque necessario vedere come, at-
traverso la crisi del debito sovrano, la logica del debito
investa ciò che Foucault chiamava il «sociale».
134
morali. Lo Stato, anche quando ci riesce, non ripristi-
na la fiducia, ma la «sicurezza», della quale è l'unico a
poter garantire l'esercizio.
Il coordinamento dei debiti privati richiede ancora
l'intervento della trascendenza dello Stato. È il debito
sovrano e non il mercato, in ultima analisi, a garantire
e a rendere possibile la circolazione dei debiti privati.
Così, la privatizzazione della moneta sfocia necessa-
riamente su ciò che i liberali dicono di detestare, ovve-
ro l'intervento della potenza dello Stato. È ciò che la
crisi attuale rivela: l'emissione privata della moneta-
credito non può che fare appello all'intervento dello
Stato, visto che i debiti privati sono privi di un coordi-
namento immanente (l'autoregolazione del mercato).
È a questo punto che accade una cosa sorprendente,
che dà la misura della «follia» del capitalismo: il debi-
to sovrano è, a sua volta, oggetto e occasione di specu-
lazione da parte dei creditori e dei loro rappresentanti,
dediti a distruggere in modo sistematico la mano mol-
to visibile che li ha salvati. Non saremo noi a rimpian-
gere questa «follia» che in fondo mina uno dei fonda-
menti del controllo della popolazione, lo Stato-nazio-
ne e la sua amministrazione! Passando di crisi in crisi
finanziaria, entriamo in uno stato di crisi permanente
che poco sotto chiameremo «catastrofe», per indicare
la discontinuità con il concetto di crisi.
Così, nel fenomeno monetario e nel credito, ritro-
viamo anche le impasse del capitalismo descritte da
Foucault nella Nascita della biopolitica: per poter go-
vernare contemporaneamente l'eterogeneità dell'eco-
nomia e quella del politico occorre un terzo elemento,
un terzo piano di riferimento: il sociale. Il potere poli-
tico del sovrano, secondo Foucault, si esercita infatti
135
su un territorio (e su soggetti di diritto) che è abitato
anche dai soggetti economici che, anziché detenere
dei diritti, hanno interessi (economici). ìlhomo oecono-
micus è una figura eterogenea e non sovrapponibile al-
ìhomojurìdicus. L'uomo economico e il soggetto di di-
ritto danno luogo a due processi costitutivi radical-
mente eterogenei: ogni soggetto di diritto si integra
nella comunità politica con una dialettica di rinuncia,
poiché la costituzione politica presuppone che il sog-
getto giuridico trasferisca i propri diritti a qualcun al-
tro. L'uomo economico, al contrario, si integra nell'in-
sieme economico con una moltiplicazione spontanea
dei propri interessi, senza rinunciarvi. Al contrario, è
soltanto perseverando nel proprio interesse egoistico
che c'è soddisfazione dei bisogni di tutti. Secondo
Foucault, né la teoria giuridica, né la teoria economi-
ca, né la legge, né il mercato sono in grado di concilia-
re questa eterogeneità. Occorre un nuovo ambito, un
nuovo campo, un nuovo piano di riferimento che non
sarà né l'insieme dei soggetti di diritto né l'insieme dei
soggetti economici. Affinché la governabilità possa
conservare il proprio carattere globale e non si separi
in due branche (arte di governare economicamente e
arte di governare giuridicamente), il liberismo inven-
ta e sperimenta un insieme di tecniche di governo che
si esercitano su un nuovo piano di riferimento: la so-
cietà civile, la società o il sociale. La società sarà l'og-
getto di questa grande macchinazione che raggiunge-
rà il massimo sviluppo nel Welfare. Per poter governa-
re, occorre introdurre lo Stato sociale tra l'economia e
il sistema politico, occorre introdurre i diritti sociali
tra i diritti politici e gli interessi economici.
La società non è lo spazio in cui si producono una
136
certa distanza o una certa autonomia rispetto allo Sta-
to, ma il correlato delle tecniche di governo. La società
non è una realtà prima e immediata, ma qualcosa che
fa parte della moderna tecnologia del governo, che ne
è il prodotto.
La questione del debito si articola alla stessa manie-
ra. Tra il debito privato e il debito sovrano dello Stato,
occorre introdurre il «debito sociale» (lo Stato sociale),
un debito la cui gestione, attraverso ciò che Foucault
descrive come tecnologia di controllo «pastorale», per-
mette l'individuaUzzazione del governo dei comporta-
menti e la totalizzazione della regolazione delle popo-
lazioni. È così che possiamo collegare i processi di sog-
gettivazione che esamineremo agli aspetti più
macroeconomici dell'economia del debito, ed ecco per-
ché ci è sembrato necessario pensarli insieme. Colle-
garli è tanto più importante quanto il fallimento della
governamentalità neoliberista dimostrata dall'ultima
crisi economica e finanziaria non farà che accentuare
questa logica di investimento della sfera sociale da par-
te dell'economia del debito nelle nostre società.
In questo modo, al concatenamento tra mercato,
Stato e sociale, che definisce il governo della società in
Foucault, corrisponde il concatenamento di tre debiti
che definiscono il governo della moneta/debito: il de-
bito privato, il debito sovrano e il debito sociale (il de-
bito dello Stato sociale). Affinché la governamentalità
possa operare, occorre introdurre, tra le polarizzazio-
ni che il capitalismo instancabilmente riproduce (l'in-
dividualismo del mercato e il collettivismo dello Stato,
la libertà individuale e la libertà totalizzante dello Sta-
to), la gestione allo stesso tempo individualizzante e
totalizzante del debito sociale. Gli eventi accaduti da-
137
gli anni Novanta, e che hanno conosciuto una forte ac-
celerazione nel corso del primo decennio del nuovo
secolo, segnano una discontinuità rispetto alle affer-
mazioni di Foucault in Nascita della biopolitica. Nella
crisi, l'eterogeneità dell'homo oeconomicus e dell'homo
juridicus non è piìi garantita dal «sociale», ma dalla
produzione dell'homo debitor (l'uomo indebitato).
Per operare la conversione della produzione del so-
ciale nella produzione dell'uomo indebitato, occorre
operare una conversione dello Stato sociale, luogo pri-
vilegiato di questa produzione; cosa che il blocco di
potere costruito intorno alla politica del debito è impe-
gnato a fare da quaranfanni. Anche qui gli attrezzi
teorici da noi predisposti ci permettono di compren-
dere quello che implica la produzione dell'uomo inde-
bitato. Dall'ultima crisi finanziaria, viviamo in questo
senso una svolta decisiva. Le battaglie che un tempo si
svolgevano intorno al salario, oggi sembrano avere
luogo intorno al debito e soprattutto al debito pubbli-
co, che rappresenta una sorta di salario socializzato.
Infatti, le politiche neoliberiste di austerità si concen-
trano e passano fondamentalmente per la restrizione
di tutti i diritti sociali (pensione, sanità, disoccupazio-
ne ecc.) e per la riduzione dei servizi, degli impieghi
nel pubblico e dei salari dei funzionari, nella prospet-
tiva della costituzione dell'uomo indebitato.
La produzione del sociale da parte del Welfare ope-
rava contemporaneamente come strumento di con-
trollo sulla vita degli utenti e come viatico riformista di
redistribuzione del reddito e accesso a una molteplici-
tà di servizi e di diritti. Oggi che la strada riformista è
bloccata, resta solo il controllo attraverso la politica del
debito.
138
Da strumento di riformismo del capitale, il Welfare
diventa mezzo di istituzione di regimi totalitari. Lo Sta-
to sociale ha, in questo modo, cambiato completamen-
te funzione. In queste condizioni un New Dial è sem-
plicemente impossibile. Non si tratta affatto di equili-
brio economico, di imperativi economici, ma di una
politica di totalizzazione e di individualizzazione del
controllo autoritario dell'uomo indebitato. È questo
aspetto che spiega l'impossibilità di un ritorno al capi-
talismo riformista che da qui in avanti esploreremo.
139
cui sia Nietzsche che Marx descrivono l'importanza
nell'economia del debito, diventa una tecnologia di go-
verno - per classificare, gerarchizzare e dividere i go-
vernati - di innegabile efficacia in tutti gli ambiti: eco-
nomico, sociale, nonché in quello della formazione (e
soprattutto all'università). Se prima abbiamo analizza-
to l'azione del «debito oggettivo», il suo funzionamen-
to sistemico o macchinico, adesso si tratta di esamina-
re gli effetti del «debito soggettivo», del debito «esisten-
ziale» sui comportamenti dei governati.
Nel testo del 1844 "^he abbiamo commentato, Marx
aggiunge che il quadro affettivo nel quale si manifesta
la relazione tra creditore e debitore, sia nel settore pri-
vato che in quello pubblico, è quello dell'ipocrisia, del
cinismo e della diffidenza.
14. K. Marx, Estratti dal libro di James Mill, «Elémens d'économin politique»,
dt.,p.234.
140
Ritroveremo questa stessa cornice affettiva nello
Stato sociale contemporaneo. Con il neoliberismo, il
rapporto creditore-debitore ridefmisce il potere biopo-
litico, poiché lo Stato sociale non si limita ad interve-
nire sul piano «biologico» della popolazione (nascita,
morte, malattia, rischi ecc.), ma sollecita un lavoro eti-
co-politico su di sé, un'individualizzazione che rileva
contemporaneamente un misto di responsabilità, col-
pevolezza, ipocrisia e diffidenza. Quando i diritti so-
ciali (disoccupazione, sussidi, minimi sociali, sanità)
si trasformano in debito sociale e in debito privato, e
l'utente in un debitore che deve rimborsare attraverso
l'assunzione di comportamenti conformi, a cambiare
radicalmente, nel senso annunciato da Marx, è il fun-
zionamento delle relazioni soggettive tra le istituzioni
«creditrici» che distribuiscono i diritti e i «debitori»
che beneficiano dei sussidi o dei servizi.
Sebbene le tecniche mnemoniche messe in prati-
ca dal governo neoliberista non siano nella maggior
parte dei casi così atroci e sanguinarie come quelle
descritte da Nietzsche (supplizi, torture, mutilazio-
ne), il loro senso rimane comunque immutato: co-
struire una memoria, trascrivere sul corpo e sull'ani-
ma la «colpevolezza», la paura e la «cattiva coscien-
za» del soggetto economico individuale. Affinché
funzionino gli effetti di potere del debito sulla sogget-
tività dell'utente, occorre uscire dalla logica dei diritti
individuali e collettivi ed entrare nella logica dei cre-
diti (gli investimenti del capitale umano).
La comprensione di questo fenomeno mi è apparsa
in tutta la sua flagranza durante una serie di ricerche e
di attività militanti svolte nell'ambito del Coordina-
mento degli intermittenti e dei precari dell'ile de Fran-
141
ce (Cip)'^ Qui sotto sono trascritti alcuni commenti
provenienti dai laboratori di ricerca portati avanti insie-
me a intermittenti dello spettacolo e a destinatari di
sussidi, commenti che sintetizzano la fine dell'epoca
dei «diritti sociali». La trasformazione delle indennità
di disoccupazione in debito è un lungo processo nel
quale possiamo individuare alcuni passaggi che ricor-
rono aU'utilizzo di quelle che sappiamo essere tecnolo-
gie di produzione di un «soggetto» debitore. Infatti, i
diritti sono universali e automatici poiché riconosciuti
socialmente e politicamente, mentre il debito è conces-
so a partire da una valutazione della «moralità» e si
fonda sull'individuo e sul lavoro su di sé che egli deve
attivare e gestire. Il processo di individualizzazione,
che è una costante delle politiche sociali, viene ora
strutturato e informato dalla logica del debito. Ogni in-
dividuo è un caso a sé, che occorre analizzare con cura
poiché, come per le pratiche per ottenere un credito,
sono i progetti del debitore, il suo stile di vita, la sua
«solvibilità» a costituire la garanzia del rimborso del
debito sociale che ha contratto. Come per un credito
bancario, si concedono dei diritti sulla base di un fasci-
colo individuale, dopo un esame, dopo aver raccolto in-
formazioni sulla vita degli individui, sui loro compor-
tamenti, sui loro modi di vivere. L'individualizzazione
praticata dalle istituzioni creditrici (agenzie per l'im-
142
piego, cassa degli assegni familiari) introduce l'arbitrio
e la discrezionalità, poiché tutto viene indicizzato non
su norme generali e uguali per tutti, m a sull'idiosincra-
sia di ogni singola soggettività. U n intermittente de-
scrive il processo in corso in questo modo:
143
re di coloro che giudicano, dunque dell'economia. Ecco
alcuni estratti dei laboratori che abbiamo portato avan-
ti, nel quadro della ricerca, con i beneficiari del reddito
minimo d'inserimento (Rmi). L'oggetto dell'incontro
era il «monitoraggio individuale» (un colloquio mensi-
le col consigliere «che accompagna» il beneficiario del-
l'indennità di disoccupazione o di altri sussidi, che rap-
presenta l'aggiornamento di ciò che Michel Foucault
definiva «potere pastorale») inerente, per l'appunto, gli
stili di vita e i modi di essere dei beneficiari.
144
che crede alla propria individualità e che si fa garante
delle proprie azioni, del proprio modo di vivere (non
soltanto del suo lavoro) e che ne è responsabile. Le tec-
niche utilizzate nel monitoraggio individuale toccano
l'intimità, ciò che vi è di più soggettivo, spingono il be-
neficiario a farsi domande sulla propria vita, sui pro-
pri progetti e sulla loro validità. Lo Stato e le sue istitu-
zioni agiscono sulle soggettività, mobilitano 1'«intimo
del cuore», per orientarne i comportamenti.
145
pacità di «rimborso» che ogni volta viene misurata
singolarmente. Comporta sempre una valutazione
«morale» sulle azioni e i modi di vivere degli indivi-
dui. Il rimborso non sarà effettuato in denaro, ma at-
traverso gli sforzi costanti del debitore per massimiz-
zare la propria occupabilità, attivarsi nell'inserimento
del mercato del lavoro o nell'inserimento sociale, esse-
re disponibile e attivabile sul mercato del lavoro. Il
rimborso del debito corrisponde a una normalizzazio-
ne dei comportamenti e a una conformità alle norme
di vita decretate dall'istituzione. Questa relazione
«soggettiva» tra i funzionari e il beneficiario, di cui ab-
biamo seguito lo sviluppo nel controllo individuale,
anziché garantire il superamento del feticismo, rista-
bilendo il «rapporto dell'uomo con l'uomo» di cui par-
la Marx, si manifesta come l'origine e il colmo del cini-
smo e dell'ipocrisia nelle nostre società «finanziariz-
zate». Il cinismo e l'ipocrisia non sono contenuti
soltanto nelle relazioni tra banchieri e clienti, ma an-
che nelle relazioni tra Stato e utenti dei servizi sociali.
Allo stesso modo in cui il credito capovolge la fiducia
in diffidenza, il Wdfare sospetta che tutti gli utenti, so-
prattutto i più poveri, siano degli imbroglioni che vi-
vono a spese della società, approfittando dei sussidi
anziché lavorare. Nelle condizioni di diffidenza gene-
rahzzata instaurata dalle politiche neoliberiste, l'ipo-
crisia e il cinismo sono i contenuti della relazione so-
ciale. Allo stesso modo in cui, secondo Marx, il credito
sconfina nella vita privata di colui che lo domanda
«spiandolo», il Wdfare si introduce nella vita privata
degli individui per controllare l'esistenza degli utenti.
146
base di questa fiducia economica; il ponderare con sospetto
se il credito deve o non deve essere accordato; lo spiare i se-
greti della vita privata ecc. di chi chiede il credito; [...] Nel cre-
dito di Stato lo Stato ha in tutto e per tutto la medesima posi-
zione che sopra ha l'uomo... [...] Avendo il riconoscimento
morale di un uomo, come anche \afiducia nello Stato ecc. as-
sunto, nel sistema del credito, la forma del credito, si svela il
segreto che si cela nella menzogna del riconoscimento mo-
rale, si rivela l'immorale infamia di questa moralità, l'impo-
stura e l'egoismo di quella fiducia nello Stato, e si mostra
per quel che realmente è''.
17. K. Marx, Estratti dal libro di James Mill, «EUmens d'économie politique»,
dt.,pp. 234-235.
147
mo si suppone che provveda ai suoi bisogni, e dunque
i sussidi sono sospesi.
L'azione del debito non consiste solamente nella
manipolazione di enormi quantità di denaro, nei gio-
chi sofisticati delle politiche finanziarie e monetarie;
forma e configura anche le tecniche di controllo e di
produzione dell'esistenza degli utenti, senza le quali
l'economia non avrebbe presa sulla soggettività.
La valutazione e il debito
148
blica [...]. Il potere finanziario è un potere di influenza che
controlla i debitori, sottoponendoli a un giudizio certificato,
rendendoli oggetto di pubblicità all'interno della comunità
finanziaria [...]. In questa prospettiva, possiamo persino af-
fermare che si tratta di un potere di opinione'®.
149
ria, anche degenerata nel corporativismo, rappresen-
tava comunque un accenno di «democrazia sociale»
istituzionale. Da allora si è ossificata nella costrizione
di un monopolio sindacale, tanto degli imprenditori
che dei salariati, e, se è vero che essa si presta senza
vergogna al giudizio e alla valutazione della finanza,
continua a rifiutarsi di tenere conto dei principali in-
teressati (disoccupati, utenti, cittadini). Perché la va-
lutazione sociale sia democratica, devono emergere
istanze e dispositivi democratici altri rispetto a quelli
corporativistici del paritarismo sindacale, impreziosi-
ti dal potere finanziario.
L'aumento della valutazione è in realtà assimilabile
a una espropriazione e alla confisca del potere di agire.
Alla moltiplicazione delle tecnologie di management
concentrate sulla valutazione, corrisponde, appunto,
un restringimento dello spazio di calcolo, scelta e deci-
sione concesso ai lavoratori salariati, agli utenti e ai go-
vernati in genere. Il fenomeno è particolarmente evi-
dente in quelle professioni e in quei mestieri conside-
rati ancora oggi come un paradigma dell'autonomia,
dell'indipendenza e della libertà del lavoro non salaria-
to («essere padroni sé»). Così, un collettivo di piccoli al-
levatori/coltivatori («Faut pas pucer»'»), mobilitato
contro l'applicazione di pulci elettroniche alle loro
greggi, ha portato avanti una riflessione che chiarisce
ciò che abbiamo chiamato la fine della retorica dell'im-
prenditore di se stesso e del proprio capitale umano,
dominante negli anni Ottanta e Novanta. Se per lavoro
intendiamo la possibilità di valutare problemi e situa-
zioni e di fare delle scelte, e non solo un'attività di ese-
150
cuzione, l'allevatore/coltivatore - che dovxebbe rappre-
sentare il modello stesso del lavoro indipendente, auto-
nomo e libero - è sottomesso a vincoli che gli impedi-
scono di lavorare. Il controllo delle amministrazioni
nazionali ed europee, che si traduce nell'obbligo di ri-
spettare scrupolosamente un insieme di direttive, a cui
si aggiunge la sorveglianza esercitata da strumenti in-
formatici, trasforma il lavoratore indipendente, il pic-
colissimo imprenditore, in «assistito».
Le sovvenzioni europee della Politica agricola co-
munitaria (Pac) sono, in realtà, «debiti» concessi a
condizione che i «debitori», in qualunque settore di
attività, si attengano scrupolosamente a ciò che le am-
ministrazioni «creditrici» prescrivono; dove far pa-
scolare le greggi, in quale stagione, il numero di ani-
mali per ettaro ecc. Tutto deve essere riferito e giustifi-
cato (le date, il numero di capi di bestiame, le
vaccinazioni, le malattie degli animali). Ogni volta che
si verifica un problema, la decisione cala dall'alto e la
soluzione è imposta uniformemente a tutti. I pastori
non sono più in condizione di valutare i rischi e di fare
delle scelte, a partire dalle proprie competenze e abili-
tà. I loro gesti sono previsti in anticipo e standardizza-
ti, attraverso una modellizzazione informatica che li
rende controllabili. I comportamenti diventano auto-
matici e non contengono alcun «valore di calcolo», al-
cuna valutazione propria, ma riproducono calcoli e va-
lutazioni già codificate dall'amministrazione, alle
quali è obbligatorio attenersi.
La libertà e l'autonomia - che il lavoro con gli ani-
mali, nel bel mezzo della «natura», sembrava promet-
tere - si sono trasformate in una dipendenza genera-
lizzata nei confronti delle istituzioni di controllo della
151
produzione e della distribuzione dei redditi; dipenden-
za che definisce la condizione dell'uomo indebitato.
20.www.nanomonde.org/IMG/pdf/lettrefautpaspucer.pdf.
152
lo Stato. I pastori diventano le variabili «umane» di
processi socio-tecnologici e amministrativi che li su-
perano e li privano di qualunque influenza su ciò che
fanno. È impossibile «pensare», decidere e agire al di
fuori dei dispositivi di gestione contabile e informati-
ca e delle loro semiotiche (cifre statistiche, percentua-
li, tassi e discorsi).
Ai pastori viene sottratta la capacità di valutare e di
assumere rischi, gli viene impedito di mettersi alla pro-
va in situazioni impreviste, di problematizzarle e di in-
ventare soluzioni per uscirne. Devono limitarsi a se-
guire e a rispettare protocolli e procedure stabilite. Ciò
che ci espone ai rischi (della presunta «società del ri-
schio») non è la complessità dell'infrastruttura tecnico-
sociale-economica, ma il fatto che il processo di valuta-
zione e di decisione è sottratto a qualunque prova e ve-
rifica democratica ed è esercitato da minoranze
(finanziarie, economiche, politiche) che, proprio perla
loro posizione, sono profondamente «incompetenti».
L'investimento soggettivo, svincolato da ogni tensione
all'autonomia e all'indipendenza, si riduce all'obbligo
di farsi carico, individualmente, di tutti i rischi del me-
stiere e della congiuntura economica, eseguendo scru-
polosamente le direttive delle amministrazioni.
L'esaurimento della retorica del «capitale umano»
e dell'imprenditore di se stesso si è ulteriormente ac-
celerato dopo la crisi finanziaria del 2007, accentuan-
do la proletarizzazione degli strati sociali che non era-
no, fino a quel momento, salariati e la proletarizzazio-
ne delle nuove professioni nate con l'economia dei
servizi e della conoscenza (secondo le definizioni del-
la retorica capitalistica).
Nel neoliberalismo, contrariamente alle promesse
153
di libertà e di indipendenza, l'economia è amministrata
e controllata dallo Stato. La relazione tra pastori e am-
ministrazione e istituzioni di controllo è, come per gli
utenti dello Stato sociale, informata dal sospetto, dalla
diffidenza e dall'ipocrisia, poiché, al pari degli utenti
dei servizi sociali e dei beneficiari dei diversi diritti so-
ciali, essi sono potenzialmente degli imbroglioni.
Le privatizzazioni hanno istituito tecnologie di
management che concentrano e centralizzano la va-
lutazione all'interno delle direzioni delle grandi im-
prese (France Télécom, Renault ecc.) e delle ammini-
strazioni. Gli effetti di questa espropriazione sono,
per salariati e utenti, letteralmente mortali. I centri
per l'impiego e ciò che resta dello Stato sociale vor-
rebbero fare dei disoccupati, e più in generale degli
utenti, delle persone autonome, proprio mentre le
privano della possibilità di esercitare la loro persona-
le valutazione. In totale contraddizione con il senso
della parola «autonomia», si aumentano le restrizio-
ni, si moltiplicano i controlli, gli accompagnamenti, i
monitoraggi personaHzzati; disoccupati e beneficiari
dell'assistenza sociale sono convocati ogni mese, sol-
lecitati per posta, invitati a fare l'esperienza dell'inuti-
lità in stage di formazione. Per renderli più «liberi»,
attivi e dinamici, gli si impongono comportamenti,
linguaggi, semiotiche e procedure. Etimologicamen-
te, «autonomia» significa darsi una propria legge.
Nei centri per l'impiego o negli uffici delle casse so-
ciali, le leggi sono quelle del lavoro, della concorrenza
e del mercato. «Autonomia» significa poter produrre
la propria regola di riferimento. Nei centri per l'im-
piego, le regole di riferimento sono sempre il lavoro,
il mercato, la concorrenza.
154
Nelle istituzioni della società disciplinare (scuola,
esercito, fabbrica, prigione), vigeva l'obbligo alla passi-
vità; ormai, si suppone sia l'obbligo air«attività» a mo-
bilitare le soggettività. Ma si tratta di un'attività vuota,
poiché priva della possibilità di valutare, di scegliere e
di decidere. Diventare «capitale umano» ed essere im-
prenditore di se stesso sono nuove norme di occupabi-
lità. L'apice della sottrazione della possibilità di valuta-
re si è toccato quando si sono fatte scelte e prese deci-
sioni in occasione della messa in pratica dei piani di
austerità che riguardano tutti i paesi europei. I cittadini
sono stati esclusi dalla valutazione, dalla scelta e dalla
decisione a vantaggio degli esperti (finanzieri, ban-
chieri, uomini politici, funzionari dell'Emi), le cui azio-
ni e le cui teorie sono all'origine della crisi.
21. K. Marx, Estratti dal libro di James Mill, «Elémens d'economie politique»,
cit.,p.233.
155
porre - oltre alla promessa, la parola e la morale - il
funzionamento di «macchine» giuridiche e polizie-
sche (Marx) e di «macchine» mnemotecniche che la-
vorano e fabbricano il soggetto (Nietzsche). A partire
dal lavoro di Deleuze e Guattari, è possibile articolare
l'azione congiunta della «morale» e della parola, da
una parte, e delle macchine, dall'altra. La moneta/de-
bito implica la soggettività in due modi eterogenei e
complementari: r«assoggettamento sociale» compie
sul soggetto una presa molare, mobilitando la sua co-
scienza, la sua memoria, le sue rappresentazioni,
mentre r«assoggettamento macchinico» effettua una
presa molecolare, infrapersonale e preindividuale del-
la soggettività, che non passa né per la coscienza ri-
flessiva e le sue rappresentazioni, né per il «sé».
La moneta/debito funziona a partire dalla costitu-
zione di un soggetto giuridico, economico e morale (il
creditore e il debitore). Essa rappresenta un potente
vettore di assoggettamento sociale, un dispositivo di
produzione di soggettività individuali e collettive. I te-
deschi e i marchi tedeschi, o gli americani e il dollaro,
sono un buon esempio della forza di questo assogget-
tamento (e l'euro un buon esempio della sua debolez-
za). La moneta/debito cerca e fabbrica la fiducia degli
individui, rivolgendosi alla loro coscienza, alla loro
memoria e alle loro rappresentazioni. Diventando un
oggetto di identificazione, contribuisce fortemente a
istituirli come individui/cittadini della nazione.
Ma questa presa sull'individuo resterebbe «discor-
siva», ideologica, «morale», se non ci fosse una moda-
lità di implicazione molecolare e preindividuale della
soggettività, un asservimento macchinico, che non
passa né per la coscienza, né per la rappresentazione.
156
né per il soggetto. Nel funzionamento macchinico
della carta di credito, ad esempio, il rapporto «inter-
soggettivo» fondato sulla fiducia è progressivamente
frammentato «in operazioni sociotecnologiche e ri-
composto artificialmente nei giochi di scrittura della
rete monetaria»'^
Questo funzionamento macchinico non fa appello
al «soggetto». Quando utilizziamo un bancomat, ci è
richiesto di rispondere alle intimazioni della macchi-
na, che prescrive di «comporre il codice», di «selezio-
nare l'importo» o di «ritirare i biglietti». Queste opera-
zioni «non richiedono certo atti di virtuosismo intel-
lettuale - tutf altro, saremmo tentati di dire. Ciò che ci
viene richiesto è di reagire subito, di reagire veloce-
mente, di reagire senza sbagliare, altrimenti si rischia
di essere momentaneamente esclusi dal sistema»^'.
Qui, non c'è più il soggetto che agisce, ma il «dividua-
le» che junziona in modo «asservito» al dispositivo so-
ciotecnologico del circuito bancario. Ciò che il banco-
mat attiva non è l'individuo, ma il «dividuale». È De-
leuze a utilizzare questo concetto per dimostrare che,
negli asservimenti macchinici, «gli individui sono di-
ventati dei "dividuali", e le masse dei campioni, dati,
mercati o "banche"»"''.
La carta di credito è un dispositivo nel quale il divi-
duale funziona come un ingranaggio, un elemento
«umano» che si concatena agli elementi «non uma-
ni» della macchina sociotecnologica dei circuiti ban-
cari. L'assoggettamento sociale mobilita gli individui,
mentre l'asservimento macchinico attiva i «dividuali»
157
in quanto operatori, agenti, elementi o pezzi «umani»
della macchina sociotecnologica dell'economia del de-
bito. Così, il «soggetto» individuale scrive e firma gli
assegni, si impegna e impegna la propria parola, men-
tre il pagamento tramite carta bancaria, effettuato dal
dividuale
158
te, ai biglietti di treno o di aereo acquistati in rete, a
un parcheggio, a un computer, a un locale, a un conto
in banca, ecc.
Questa duplice «presa» sulla soggettività, questo
duplice modo di coinvolgerla e sfruttarla, è forse uno
dei contributi più importanti di Deleuze e Guattari
per la comprensione del capitalismo. Il pensiero criti-
co contemporaneo, prendendo in considerazione solo
l'assoggettamento, rischia di ritirarsi in una specie di
idealismo soggettivo estraneo alle macchine, ai mac-
chinismi, ai sistemi sociotecnologici, alle procedure,
ai dividuali. Una volta uscito dalla fabbrica, l'insegna-
mento di Marx sulla natura «macchinica» del capitali-
smo sembra essere andato perso. In queste teorie, le
macchine e gli asservimenti macchinici scompaiono,
quando invece invadono la nostra vita quotidiana, vi-
sto che parliamo, vediamo, pensiamo e viviamo assi-
stiti da ogni sorta di macchinismo. Anche il concetto
foucaultiano di governamentalità non prende in con-
siderazione gli asservimenti macchinici e il loro fun-
zionamento. Il governo fa presa sulle condotte, cioè
sui comportamenti, sulle azioni dei «soggetti» indivi-
duati, ma non sul funzionamento macchinico dei di-
viduali. La moneta/debito costituisce sicuramente
una tecnologia di governo dei comportamenti, ma
funziona anche e soprattutto come asservimento che
«governa» in modo «cibernetico» i dividuali, tramite
ricorrenze macchiniche efeedback. Nell'asservimento,
«c'è un processo di apprendimento di una gestualità
procedurale a carattere quasi automatico»^®.
Potremmo rivolgere la stessa critica alla sociologia
26. Ihid.
159
e alla filosofìa della norma, di cui Foucault è uno dei
più sottili espositori. L'assoggettamento sociale fìin-
ziona sulla base della norma, della regola, della legge,
ma l'asservimento, al contrario, conosce solo i proto-
colli tecnici, le procedure e i modi di utilizzo, semioti-
che insignificanti che non richiedono di agire, ma di
reagire. L'assoggettamento implica e sollecita il rap-
porto a sé, mette in gioco tecnologie del sé. L'asservi-
mento macchinico, invece, smonta contemporanea-
mente il sé, il soggetto e l'individuo. La norma, la rego-
la e la legge fanno presa sul soggetto, m a non sul
dividuale. Abbiamo insistito molto sull'assoggetta-
mento. In realtà, rappresenta solo una delle modalità
di produzione e di controllo della soggettività. La criti-
ca del neoliberalismo non può in alcun caso ignorare
gli asservimenti, poiché i macchinismi sono incom-
parabilmente più sviluppati che in epoca industriale.
Antiproduzione e antidemocrazia
i6o
ne - , allora comprenderemo quali soluzioni non sono
da considerare e quali sono le strategie disponibili per
fare fronte alla catastrofe contemporanea.
Nel capitalismo contemporaneo, la «produzione»
sembra indissociabile dalla «distruzione», poiché, co-
me suggerisce Ulrick Beck, «la paura proviene dalla
zona produttiva della società». I «progressi considere-
voli» della scienza producono simultaneamente una
potenza nucleare militare capace di distruggere sva-
riati pianeti della dimensione della Terra, il cui pro-
lungamento «civile» infetta l'ecosistema attraverso
temporalità che sfuggono all'umano e che ci fanno vi-
vere in uno stato di eccezione permanente; la produ-
zione industriale moltiplica la produzione dei beni di
consumo e contemporaneamente moltiplica l'inqui-
namento dell'acqua, dell'atmosfera e della Terra, sre-
golando il clima; la produttività agricola, nel nutrirci ci
avvelena; il capitalismo cognitivo distrugge il sistema
«pubblico» di formazione a ogni livello; il capitalismo
culturale produce un conformismo che non ha uguali
nella storia; la società dell'immagine neutralizza ogni
immaginazione, e così via.
Deleuze e Guattari chiamano questo funziona-
mento del capitalismo «antiproduzione» e lo defini-
scono come il segno di una discontinuità rispetto al
capitalismo, così come era stato descritto da Smith,
Marx o Weber. Infatti, Marx, proprio come gli econo-
misti classici, distingueva ciò che era produttivo (il la-
voro di un operaio impiegato da un capitalista) da ciò
che era improduttivo (il lavoro dei domestici, secondo
l'esempio fornito da Adam Smith, i quali, pur essendo
molto più numerosi degli operai, si limitano a consu-
mare e non a produrre nuove ricchezze). Questo è an-
i6i
Cora il punto di vista a partire dal quale critichiamo la
«finanza» in quanto improduttiva, al contrario
deir«industria» considerata come la fonte di ricchez-
za delle nazioni. Deleuze e Guattari ci dicono che que-
sta coppia produttivo/improduttivo non è più operati-
va. L'antiproduzione stabilisce una nuova divisione
della realtà dell'economia capitalistica che non ricopre
la distinzione produttivo/non produttivo, poiché si
sviluppa per l'appunto all'interno di ciò che Marx e l'e-
conomia politica classica definivano «produttivo».
L'antiproduzione (i domestici di Smith, l'esercito,
la polizia, le spese «improduttive» delle classi che vi-
vono di rendita) non si oppone più alla produzione,
non la limita né la firena. «L'effusione del capitale d'an-
tiproduzione caratterizza tutto il sistema capitalistico;
l'effusione capitalistica è quella dell'antiproduzione
nella produzione a tutti i livelli del processo»"'. Il XIX
secolo, Marx e marxisti inclusi, aveva ancora una con-
cezione «progressista» del capitalismo. Il fìituro del-
l'umanità dipendeva dallo sviluppo della «produzio-
ne» e dal «produttore». Se paragonato alla rendita, c'e-
ra un risvolto «rivoluzionario» del capitalismo, che
sarebbe bastato sviluppare, spingere all'estremo per
creare così le condizioni di un altro sistema politico e
sociale. La prima metà del XX secolo ha smentito que-
sto scenario e, dopo la Seconda guerra mondiale, l'in-
gresso in una nuova sequenza si è rivelato evidente.
Una volta stabilita e riconosciuta la presenza del-
l'antiproduzione nella produzione, il capitalismo per-
de qualunque carattere progressivo. Abbiamo qui
un'altra conferma di ciò che abbiamo affermato in
162
precedenza, partendo da alcune considerazioni di
Foucault: l'impossibilità del riformismo e di un nuovo
New Deal è inscritta nell'antiproduzione.
La crisi permanente nella quale viviamo dagli anni
Settanta è una delle manifestazioni dell'antiproduzio-
ne. Dopo lo scoppio della bolla finanziaria della new
economy, il versante dell'antiproduzione ha preso il so-
pravvento sul risvolto «produttivo» del capitalismo.
L'illusione «progressista» che la Silicon Valley, la net
economy, la new economy avevano suscitato negli ani-
mi più disponibili sembra lasciare il posto a ciò che Ul-
rick Beck chiama la potenza di «autodistruzione» del
capitalismo, il cui crollo finanziario del 2007 è solo
una manifestazione. I dispositivi di antiproduzione
non sono semplicemente inseparabili dal capitalismo,
ma gli sono soprattutto indispensabili. L'antiproduzio-
ne ha il compito di «introdurre la mancanza là ove ce
riè troppo»"**: la crescita (il «troppo») è una promessa di
felicità mai realizzata né realizzabile, poiché l'antipro-
duzione ha il compito di produrre la mancanza a qua-
lunque livello sia giunta la ricchezza di una nazione.
Il capitalismo non è soltanto un sistema che spinge
sempre più avanti i propri limiti, è anche un dispositivo
che riproduce all'infinito, indipendentemente dal livel-
lo di ricchezza raggiunto, condizioni di sfruttamento e
di dominio, ovvero di «mancanza». La crescita «debo-
le» degli ultimi trenf anni ha comunque raddoppiato il
Pil nei paesi del Nord, accentuando le ineguaglianze
sociali, economiche e politiche. D'altra parte, l'antìpro-
duzione contemporanea (l'antiproduzione della socie-
tà della conoscenza, del capitalismo culturale, del capi-
28. Ibid.
163
talismo cognitivo) non determina soltanto un impove-
rimento economico della gran parte della popolazione,
ma è anche una «catastrofe» soggettiva poiché, come
afferma con molta ironia L'anti-Edipo,
29. Ibid.
30. Ivi, p. 268.
164
La teoria dell'antiproduzione ha trovato, quindici
anni piìi tardi, nella sociologia della «società del ri-
schio» una versione edulcorata in cui perde completa-
mente le proprie connotazioni e la propria forza politi-
ca. Ulrik Beck, papa della società del rischio, effettua
una duplice operazione. Innanzitutto riconosce la
«potenza di autodistruzione del capitalismo trionfan-
te». La «produzione sociale delle ricchezze» è ormai
inseparabile dalla «produzione sociale di rischi». La
vecchia politica di distribuzione dei «beni» (redditi, la-
voro, previdenza sociale) della società industriale pro-
cede appaiata a una politica di distribuzione dei «ma-
li» (pericoli e rischi ecologici). «Coloro che oggi met-
tono in pericolo la nazione sono i garanti del diritto,
dell'ordine, della razionalità, della democrazia stes-
sa»''. Inoltre, non soltanto scagiona i «responsabili»
da qualunque responsabilità, ma fa dell'antiproduzio-
ne l'unica via di salvezza dell'umanità. Nel caso del nu-
cleare civile, ad esempio, le pratiche e le modalità di
mobilitazione del movimento antinucleare, ovvero le
modalità di pensiero e di azione collettiva, non potran-
no mai, a suo parere, costituire le condizioni di un
contropotere in grado di imporre un rovesciamento di
questa politica energetica. «In fin dei conti, se esiste
un contropotere nucleare, esso non è da cercare tra le
schiere di manifestanti che bloccano il trasporto di
combustibile. La punta di lancia dell'opposizione all'e-
nergia nucleare sta [...] nell'industria nucleare stes-
sa»'", poiché l'industria e le istituzioni avrebbero ac-
quisito una capacità di problematizzazione, di rifles-
165
sione, che gli consentirebbe di rovesciare, di corregge-
re, di adattare e migliorare la propria azione, dietro
l'impulso di cittadini illuminati a loro volta dalla rifles-
sività. La montagna della «seconda modernità» ha
partorito il topolino del potere che si trasforma in con-
tropotere, in autoriflessione, nella capacità di imprese
come Tepco, che gestiva la centrale di Fukushima, di
interrogarsi sulla propria strategia, di metterla in di-
scussione e modificarla. Allo stesso modo «la punta di
lancia di opposizione» alla politica del debito non può
essere altri che quel blocco di potere che ha provocato
la catastrofe finanziaria. Ma questa riflessività della
seconda modernità... è la dimostrazione che potrem-
mo passare tutta la vita ad aspettarla! Così, una volta
nazionalizzate le perdite, la «riflessività» che le ban-
che, gli investitori e le assicurazioni hanno adottato, è
la seguente: «Tutto deve continuare come prima!».
Al contrario della teoria consensuale della «società
del rischio», retorica del capitalismo contemporaneo,
l'unico modo per bloccare e rovesciare non i «rischi»
della finanziarizzazione, ma il potere distruttore del
debito (l'antiproduzione del capitalismo contempora-
neo che oggi si esprime con la politica di indebita-
mento) risiede nella capacità di azione e di pensiero
collettivo dei debitori. La «riflessività», proprio come
nelle società industriali, va imposta alle istituzioni e
alle strutture di governo attraverso una lotta che divida
la società, che rompa il consenso. Potremmo afferma-
re esattamente la stessa cosa delle politiche nucleari.
Il cambiamento dipenderà solo dalla forza del movi-
mento antinucleare, certamente non dalla «riflessivi-
tà» dell'industria nucleare e dei governanti. Sempre di
recente, in Italia e in Germania, la rinuncia al nuclea-
66
re è stata imposta contro la volontà dell'industria e dei
governanti. L'unica «riflessività» che l'industria nu-
cleare o il blocco di potere della finanza possono avere
è la seguente: come continuare fino alla catastrofe?
Che «tutto continui come prima» è la definizione di
catastrofe fornita da Walter Benjamin.
Il funzionamento del debito fa piazza pulita della
politica dalla «concertazione» tra cittadini, esperti e
controesperti, politici, imprenditori ecc. Cancella
d'un tratto la democrazia consensuale della «seconda
modernità» alla Beck, poiché lo scenario che si svolge
sotto i nostri occhi è del tutto diverso.
L'economia del debito non è caratterizzata soltanto
dall'antiproduzione, ma anche da quello che potrem-
mo chiamare antidemocrazia. Se usiamo la categoriz-
zazione dei regimi politici stabilita dai Greci, possia-
mo facilmente constatare che il credito non è il luogo
della «valutazione pubblica» in cui si esercita il potere
del popolo (democrazia). Al contrario, quarantanni di
politiche neoliberiste hanno neutralizzato le già debo-
li istituzioni rappresentative e la crisi ha consolidato
tutti i regimi politici che i Greci opponevano alla de-
mocrazia. Le scelte e le decisioni che riguardano inte-
re popolazioni vengono prese da un'oligarchia, da una
plutocrazia e da un'aristocrazia (il «governo dei mi-
gliori», rappresentato molto bene dalle agenzie di ra-
ting, che sono gli esperti migliori, esclusivamente nel-
la sensibilità che hanno nei confronti degli interessi
dei creditori). L'integrazione di questi tre regimi anti-
democratici sviluppa non la crescita ma la corruzione.
In certi paesi europei (Italia, Grecia, Spagna, Inghil-
terra), è più visibile che altrove, ma li riguarda tutti,
perché la corruzione, l'ipocrisia, la diffidenza non so-
167
no fenomeni di un mal governo, ma, come ricorda
Marx, una condizione strutturale della politica del de-
bito e del credito. Dietro il ricatto del fallimento degli
Stati si realizza così il più vecchio programma contro-
rivoluzionario, quello della Trilaterale (1973): il gover-
no dell'economia presuppone drastiche limitazioni al-
la democrazia e una riduzione, altrettanto drastica,
delle attese dei governati.
All'inizio di luglio 2011, il governo italiano aveva
presentato un piano di austerità di 87,7 miliardi di eu-
ro di tagli da realizzare entro il 2014, piano che nella
sua iniquità, al pari di quelli adottati da altri paesi eu-
ropei, lasciava margini di incertezza sul contenuto e
sull'arco temporale fissato per la sua attuazione. Sono
bastati due giorni di speculazione sui titoli del debito
sovrano italiano per accelerare la manovra. Il giorno
successivo alla vendita massiccia di titoli di Stato dete-
nuti dagli investitori, maggioranza e opposizione, die-
tro pressione dei «mercati», si sono affrettate a trovare
un accordo per approvare il piano. I governi e i parla-
menti sono semplici esecutori delle decisioni e delle
scadenze fissate altrove rispetto a quella che ancora
chiamiamo «sovranità» nazionale.
Il problema del liberalismo non è, come credeva
Foucault, quello di «governare il meno possibile», ma,
spinto dalle contraddizioni da lui stesso generate ed
esasperate, quello di ordinare e di stabilire il più possi-
bile con il «meno di democrazia possibile»; nel libera-
lismo, e nelle sue successive evoluzioni, non è que-
stione di concorrenza, ma di monopolio e di inedita
centralizzazione di potere e denaro. In quaranf anni,
il neoliberismo è diventato un'economia che, alla luce
di quanto accade con il debito sovrano, non può essere
168
altrimenti definita che come «economia del ricatto».
Allo stesso modo, la gestione delle «risorse umane»
dentro l'impresa e la funzione pubblica avviene all'in-
segna di un ricatto fondato sul lavoro e sulle delocaliz-
zazioni. I conflitti politici sulle pensioni e i diritti so-
ciali sono continuamente sovrastati da una stessa po-
litica del ricatto. È dunque del tutto coerente che
un'economia criminale si sviluppi parallelamente al
liberismo e ne costituisca insieme un fenomeno strut-
turale e un pilastro. Il ricatto è la forma di governo
«democratico» nel quale sfocia il neoliberismo.
169
Conclusione
171
stringe anche ad assumere una prospettiva diversa ri-
spetto a quella del lavoro e dell'occupazione, per poter
pensare a una politica all'altezza del Capitale in quan-
to «Creditore universale». Il debito supera le divisioni
tra occupazione e disoccupazione, tra attivi e inattivi,
tra produttivi e assistiti, tra precari e garantiti, divisio-
ni a partire dalle quali la sinistra ha costruito le pro-
prie categorie di pensiero e azione.
La figura dell'«uomo indebitato» è trasversale alla
società nel suo insieme e richiede nuove solidarietà e
cooperazioni. Inoltre, dobbiamo pensare alla trasver-
salità tra «natura e cultura», poiché il neoliberalismo
ha ulteriormente appesantito il debito che abbiamo
contratto nei confìronti del pianeta e di noi stessi in
quanto viventi.
Una delle condizioni indispensabili alla lotta di
classe è la reinvenzione di una «democrazia» che attra-
versi e riconfiguri ciò che persino le teorie più sofistica-
te continuano a pensare separatamente - la politica, il
sociale e l'economia - , visto che il debito le ha già inte-
grate all'interno di un dispositivo che le articola e le or-
ganizza. L'economia del debito sembra realizzare pie-
namente il modo di governo suggerito da Foucault.
Perché possa esercitarsi, deve ricorrere al controllo del
sociale e della popolazione trasformata in popolazione
indebitata, condizione indispensabile per essere in
grado di governare l'eterogeneità della politica e dell'e-
conomia, ma sotto un regime autoritario e non più «H-
berale». Se non è possibile ridurre la politica al potere,
se la politica non è semplicemente il calco positivo del
negativo della politica del debito, se non possiamo de-
durre una politica dall'economia (dal debito), comun-
que nel capitalismo non abbiamo mai visto nascere
172
un'azione politica se non dall'interno e contro la politi-
ca del Capitale. Dove scovare le ragioni del «torto» e le
condizioni del «litigio» se non a partire dai rapporti di
sfruttamento e di dominio attuali? Il negativo che il de-
bito disegna, definisce le condizioni storiche dalle qua-
li si allontana la lotta per inventare nuove forme di sog-
gettivazione e nuove possibilità di vita. Ma queste con-
dizioni sono, ogni volta, storiche, singolari, specifiche;
e oggi si annodano intorno al debito.
Il compito più importante consiste nell'immagina-
re e sperimentare modalità di lotta che abbiano l'effi-
cacia di blocco che aveva lo sciopero nella società in-
dustriale. Il livello di deterritorializzazione del co-
mando capitalistico ci costringe a questo. Le teste di
legno dei capitalisti e dei governanti riescono a sentire
solo il linguaggio della crisi o quello della lotta.
Se abbiamo delineato un percorso teorico e politi-
co intorno all'economia del debito, non è tanto per for-
nire una nuova teoria generale e globale del neolibera-
lismo, ma per fornire un punto di vista trasversale a
partire dal quale possano dispiegarsi le lotte.
La lotta contro l'economia del debito e soprattutto
contro il suo senso di colpa «morale», che non è altro
che una morale di paura, necessita anche di una speci-
fica conversione soggettiva. Nietzsche può darci anco-
ra qualche indicazione: «La compiuta e definitiva vitto-
ria dell'ateismo potrebbe affrancare l'umanità da tutto
questo suo sentirsi in debito verso il proprio principio,
la propria causa prima. Ateismo e una sorta di seconda
innocenza sono intrinsecamente connessi»'.
173
La ripresa della lotta di classe lì dove serve, ovvero
dove è più efficace, deve riconquistare, rispetto al de-
bito, questa «seconda innocenza». Una seconda inno-
cenza non più verso il debito divino, ma verso il debito
terrestre, il debito che pesa sui nostri portafogli e che
modula e formatta le nostre soggettività. Non si tratta
dunque semplicemente di annullare i debiti o di ri-
vendicare un default - quand'anche darebbe estrema-
mente utile - , ma di uscire dalla morale del debito e
dal discorso nel quale esso ci imprigiona.
Cercando di giustificarci rispetto al debito, abbiamo
perso tempo o abbiamo semplicemente perso. Qua-
lunque giustificazione già vi rende colpevoli! Occorre
conquistare questa seconda innocenza, liberarsi da
colpevolezza, dovere, cattiva coscienza e non rimbor-
sare un centesimo. Occorre battersi per la cancellazio-
ne del debito, il quale, ricordiamolo, non è un proble-
ma economico, ma un dispositivo di potere che non
soltanto ci impoverisce, ma ci porta alla catastrofe.
La catastrofe finanziaria è lungi dall'essere finita,
perché nessuna regolamentazione della finanza è
possibile. D'altra parte, le oligarchie, le plutocrazie e
gli «aristocratici» al potere non hanno programmi po-
litici di ricambio. Ciò che l'Fmi, l'Europa e la Banca
centrale europea ordinano, dietro ricatto dei «merca-
ti», sono ancora e sempre rimedi neoliberisti che non
fanno altro che aggravare la situazione. Col secondo
piano di austerità greco, e quand'anche le previsioni
delle agenzie di rating che scommettono sul fallimen-
to parziale del debito greco avessero buon esito, non
cambierebbero le conseguenze per i popoli europei.
Saranno comunque continui salassi. Il ricatto del de-
bito si abbatte su tutti gli europei come un destino ine-
174
luttabile. Non c'è altra possibilità se non rimborsare il
Grande Creditore! Le uniche istituzioni a essere usci-
te dall'ultimo fallimento finanziario sono le banche,
che continuano a fare profìtti e a distribuire dividendi
grazie alla nazionalizzazione delle perdite. Ma il pro-
blema è soltanto rimandato. A meno di non trovare un
debito non più sovrano ma cosmico, così da creare e
sfruttare una bolla finanziaria extraterrestre, non ve-
do come uscire da questa catastrofe continuando a im-
porre e ad applicare quegli stessi principi che l'hanno
causata. Il capitalismo funziona sempre in questo
modo: deterritorializzazione delirante e ipermoder-
na, che spinge i propri limiti sempre più in là, e riter-
ritorializzazione razzista, nazionalista, maschilista,
patriarcale e autoritaria, che tratteggia un modo di vi-
vere infame: «vivere e pensare come porci» - con tutto
il rispetto per i maiali - , un modo di vivere di cui l'Ita-
lia berlusconiana ha fatto una messa in scena di in-
comparabile volgarità.
In un'intervista alla televisione greca del 1 9 9 2 , Fe-
lix Guattari, beffardo e provocatore, anticipava gli
obiettivi mai resi pubblici dell'accanimento finanzia-
rio che incombe sui «piccoli» Stati europei:
NapoU, 15 luglio 2 0 1 1
175
Indice
Conclusione 171