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Giuseppe Sorgi

SEGNI
PARTICOLARI

Astrologia, miti e sabotaggi in amore


Giuseppe Sorgi
Segni particolari. Astrologia, miti e sabotaggi in amore

© 2020 Giuseppe Sorgi


© 2020 Edizioni Tlon
Tutti i diritti riservati

Progetto grafico
Caterina Ferrante

Editing
Matteo Trevisani

Redazione
Maria Elena Marrocco

ISBN: 9788831498234
Introduzione
Patti chiari…

… amicizia lunga. Se vi aspettate un libro che vi guidi più o meno


ironicamente verso il segno giusto, non avventuratevi oltre: rimarreste assai
delusi.
Qui si tenterà l’esperimento opposto: si cercherà di comprendere
attraverso i segni zodiacali – e i loro rispettivi impulsi caratteriali – come e
perché fuggiamo dall’amore, evitandolo o distruggendolo. Non so voi, ma
ho l’impressione infatti che, se per un verso molti reclamano a gran voce il
desiderio di incontrare la persona “giusta” (quella con cui costruire un
rapporto appagante, duraturo, una storia che finalmente metta in scacco
delusioni e solitudine), dall’altro però negli stessi cuori alberghi lo spiccato
talento di sabotare l’amore. E questo con impareggiabile abilità. Un’abilità
direttamente proporzionale alla sequela di recriminazioni, nevrosi, lacrime,
sensi di colpa e accuse. Reiterando il tutto in un monologo che non presenta
alcuna evoluzione.
Allo stesso modo, quando si parla di relazioni nascenti, future o sperate,
l’accento viene posto quasi sempre su come deve essere l’altro, su cosa
cerchiamo nell’altro e su cosa all’altro chiediamo, così da annientare di per sé
il termine “relazione”, perché l’altro a priori non c’è. C’è soltanto il suo
fantasma. Un deleterio mix di proiezioni e aspettative le cui radici partono
da lontano, affondando nel tombino delle nostre peggiori fragilità e futilità.
Allora un dubbio si insinua: siamo davvero sicuri di sapere cosa cerchiamo
in una relazione, come e perché scegliamo quella persona? E soprattutto, è
sufficiente l’inflazionato e autoreferenziale verbo “amare” per giustificare
scelte tanto accorate nelle intenzioni, quanto nefaste nei fatti?
Se la risposta è no, allora occorre un pizzico di coraggio per osservare le
cose da un altro punto di vista. «Amare è dare ciò che non si ha, a qualcuno
che non lo vuole»,1 afferma il celebre psicologo francese Jacques Lacan. Lo
so, è una mazzata. Eppure, riflettendoci, è la formula matematica che spiega
innumerevoli, reiterati disastri. Non possiamo certo avventurarci qui in una
seduta lacaniana, sarebbe da ricovero (oltre che da querela), ma con un
pizzico di autocritica possiamo utilizzare l’astrologia come pretesto per
indagare dentro alcuni nostri comportamenti e rintracciare, una buona
volta, la nostra parte di responsabilità nella catastrofe amorosa.
Ammettiamolo: siamo infatti maestri indiscussi nell’usare in modo più o
meno consapevole strategie infallibili per scegliere il partner più devastante.
Distruggerci, rialzarci, non imparare un bel niente e fiduciosi ripetere il
copione. Perché? Già, perché? Perché ci fa comodo. Molto comodo. Non
odiatemi subito: avrete tutto il libro per farlo.
Capitolo 1
Cominciamo dalla a

Quando si parla di astrologia, uno degli argomenti che più stuzzica il


pubblico ad approcciarsi a tale derisa e sgualcita materia è proprio l’amore.
Chissà, forse perché anche l’amore risulta un po’ sgualcito e in sostanza
deriso? O forse perché l’astrologia, a mio avviso erroneamente inclusa
nell’esoterismo, finisce per rappresentare una sorta di refugium peccatorum
dove l’oroscopo assume le valenze di una magica sfera di cristallo pronta a
rivelare la persona giusta? Non è il caso di azzardare risposte.
Sta di fatto che documentarsi sulla compatibilità di quel segno con
quell’altro, appurarne il potenziale feeling erotico, sviscerarne i nessi e
connessi e via discorrendo con innumerevoli forbite definizioni tutte
derivanti dal buon vecchio m’attizza! resta il più gettonato e intellettuale
movente di approccio alla materia. Che poi tale approccio venga vissuto
seriamente o per gioco, anche qui non è dato sapere. Ma il fatto resta.
Inutile negare.
Perciò prima di proseguire c’è una domanda, una e una soltanto, da
scolpire netta sulla pagina per evitare pericolosi fraintendimenti: può
davvero l’astrologia aiutarci a incontrare l’amore? A costo di risultare
incoerente, la prima risposta è: no. Non si tratta semplicemente di una
provocazione, ma del più assoluto rifiuto di fomentare l’idea che l’astrologia
sia una miracolosa slot machine che, allineati quattro simboli e stilata una
classifica, precluda o dischiuda le porte della felicità. In questo caso noi
simpatizzanti dello Zodiaco cosa saremmo? Dei giocatori catatonici con
tendinite al braccio che abbassano la leva della slot affidandoci alla sorte?
Abbattetemi prima, per pietà.
L’astrologia non ha niente a che fare con la sorte. È pertinente invece a
un’altra opportunità, non soggetta al ghiribizzo della dea bendata: alla
volontà di conoscere il funzionamento di determinati meccanismi umani,
per comprendere meglio noi stessi e gli altri. Allora sì, in questo l’astrologia
può risultare illuminante e, di conseguenza, funzionale a godersi
pienamente le gioie dell’amore. Da una piccola certezza tuttavia ecco
scaturire un nuovo ingombrante interrogativo: la volontà di guardarsi
dentro e dirsi la verità c’è o no? Ognuno di noi vuole davvero conoscere se
stesso e «partorire se stesso», come diceva il buon vecchio Socrate, o
piuttosto preferisce restare chiuso nell’utero dei propri alibi, in ammollo in
lacrime e deliqui adolescenziali? Scusate, ma la risposta non è affatto
scontata e l’ottimismo in questi casi non premia affatto.
Alla luce della mia personale esperienza con Io Vergine, tu Pesci?,2
soprattutto nella sua versione teatrale, mi pare che, finché si giochi a mettere
il dito nella piaga del carattere altrui, allora tutto bene, applausi, risate e
gaudio liberatorio; non appena però vengono pizzicate le proprie magagne
caratteriali, nonché astrologico-sentimentali, le risate tacciono, le mani si
contraggono e su le barricate: «No, no. Io non sono così», oppure, «no,
perché io ho l’ascendente che mi salva!». Come no! Tutti con l’ascendente
salvifico?
Ricordo con particolare tenerezza una giovane coppia, decisamente sotto i
trenta, che alla fine di uno spettacolo mi chiese una dedica sulla copia del
mio libro. «Mi sono divertito moltissimo» disse lui con voce emozionata, «e
hai dipinto dei caratteri in modo perfetto. Purtroppo però col mio segno
non ci hai preso. Sono del Cancro e in quel che hai detto non mi ritrovo
affatto». Notai lo sguardo di lei decisamente contrariato. Ringraziai e chiesi
a chi dedicare il libro. «A Daniela» rispose il giovane. Istintivamente mi
rivolsi quindi alla ragazza chiedendole il segno. «No, non è per lei» si
affrettò allora a chiarire lui, e con una piccola ma eloquente pausa aggiunse:
«… È per mamma, stasera non è potuta venire». Ci fu un attimo di silenzio.
Guardai negli occhi la ragazza e lei con sguardo truce mi fece un cenno di
assenso con la testa, come a dire: “Sì, la situazione è questa”. Glissai e
firmai il libro senza indagare oltre.
Potrei raccontarne molte altre. A prima vista potrebbero sembrare bonarie
inconsapevolezze o semplici permalosità, tuttavia un pizzico di esperienza
rivela i sintomi di più complesse e ardite acrobazie. “Resistenze” le
chiamano gli psicanalisti. Il soggetto attua meccanismi di difesa e negazione,
coscienti e non, pur di rappresentare diversamente la propria realtà. «Non
voler sapere, per non prendersi la responsabilità di sapere», secondo la
definizione di una navigatissima psicanalista a cui ho chiesto consiglio in
materia. E se per capirci qualcosa di più sull’amore dovessimo prima
indagare dentro queste resistenze? Se fosse più opportuno tentare
innanzitutto di comprendere perché neghiamo così ostinatamente certi
lampanti aspetti del nostro carattere e quindi certe nostre dinamiche
amorose? Se insomma fosse giunto il momento di assumerci la
responsabilità di sapere?
A questo punto alcune lettrici e alcuni lettori, fra il perplesso, lo schifato e
il disorientato, si chiederanno magari con legittimo dubbio se qui si parlerà
di astrologia o di psicologia. E visto che, come diceva un mio professore del
liceo, non esistono domande cretine ma solo risposte idiote, ne tenterò una,
la più rapida, esaustiva e spero meno idiota possibile.
Capitolo 2
Astrologia e psicologia

Il connubio fra le due discipline suona tutt’oggi improponibile e irriverente,


fonte di infinito ribrezzo per molti psicologi e causa di orticarie nervose per
altrettanti astrologi. Eppure astrologia e psicologia non sono affatto distanti,
anzi, si potrebbe azzardare col definire l’una un’antica formulazione
dell’altra. Così scrisse Carl Gustav Jung a Sigmund Freud in una lettera
datata 12 giugno 1911:
Devo dire che nell’astrologia un giorno si potrà scoprire una grande parte della
conoscenza di modi intuitivi che è finita nel cielo. Sembra per esempio che i segni
zodiacali siano immagini caratteriali, cioè simboli della libido, che rappresentano le
caratteristiche libidiche tipiche.3

Di certo Freud non avrà gradito, avverso com’era a ogni divagazione poco
terrena. Così come non gradiscono tutti coloro che, oggi come allora,
reputano idiota l’idea che il nostro carattere venga in qualche modo
condizionato dal cielo sopra di noi. E hanno ragione, è un’idea idiota! La
scienza in questo ci giunge in aiuto. La meccanica quantistica per esempio
ha dimostrato l’esistenza di una rete di interazioni energetiche, detta
entanglement, che correla particelle subatomiche distanti fra loro anche
migliaia di chilometri; mentre il fisico e astronomo Lawrence Krauss, a
proposito delle sostanze di cui è composto anche il nostro organismo,
afferma:
La cosa sorprendente è che ogni atomo del tuo corpo viene da una stella che è
esplosa. E gli atomi nella tua mano sinistra vengono probabilmente da una stella
differente da quella corrispondente alla tua mano destra. È la cosa più poetica che
conosco della fisica: tu sei polvere di stelle.4

La mia personale convinzione è dunque che a condizionarci non è, e non


può essere, il cielo sopra di noi, semplicemente poiché «il cielo è dentro di
noi», per citare il celebre psicologo e astrologo André Barbault. Insomma
quel cielo sopra, sotto, dentro, fuori a quanto pare è qualcosa di molto
profondo, vicino e intimo. È un’energia che ci rappresenta e al tempo stesso
ci determina. Parlando d’astrologia però tutto tende a divenire
inevitabilmente poco scientifico e assai labile. Lo stesso Jung, nel corso del
suo intervento al convegno degli psichiatri svizzeri del 1934, affermò:
Come possa esistere un nesso tra i segni zodiacali e i pianeti da una parte e i
temperamenti individuali dall’altra, è una questione che si perde nelle nebbie del
più remoto passato e per la quale non esiste risposta.5

Si deve a Lisa Morpurgo, forse la più illuminante e pionieristica studiosa di


astrologia, una svolta epocale in materia. Alla fine del secolo scorso,
affrontando l’astrologia con rigoroso approccio analitico e unendo una
prospettiva umanistica al rigore delle risposte scientifiche, Lisa Morpurgo
giunse alla definizione dello Zodiaco come «un messaggio in codice la cui
lettura ci suggerisce progressivamente una serie di indicazioni legate sia ad
argomenti già esplorati dalla scienza, sia a campi di conoscenza finora
sfuggiti».6
Lo Zodiaco racconterebbe quindi a suo modo l’incastro fra noi e
l’universo. Resta però il problema di individuare come e perché tutto ciò
possa influenzare il carattere del singolo individuo. A tal proposito la
scrittrice e astrologa cremonese rintraccia nello Zodiaco dinamiche proprie
della biologia, e lo fa avvalendosi anche della psicanalisi, a cui riconosce il
merito di aver permesso all’astrologia di raggiungere “finezze
interpretative” altrimenti irraggiungibili.
È impensabile riassumere qui il contenuto dei suoi studi, ma è importante
sottolineare quanto questa lettura dell’astrologia sia del tutto diversa rispetto
a quella a cui da secoli siamo stati abituati.
Finché l’astronomia rimaneva l’unica scienza cui si pensasse di agganciare
l’astrologia, si poteva parlare nebulosamente di “influenza degli astri” senza
riuscire a giustificarla in termini accettabili. Ma non appena tendiamo la mano
verso la biologia, ecco che molte nubi cominciano a dileguarsi all’orizzonte. Non
tutte, certo, e le resistenze a compiere questo passo verso una direzione inconsueta
possono essere molte.7

Resistenze. Ecco che ci imbattiamo di nuovo in questo termine. Qui si tratta


di resistenze più ampie di quelle citate prima a proposito del singolo
individuo; hanno a che fare semmai con quel che Jung definisce “inconscio
collettivo”, toccando le corde di un vasto, sommerso e condiviso sentire. Il
valore psicologico tuttavia è il medesimo: la paura di sapere.
A questo punto però è bene chiarire nel modo più semplice possibile quale
sia, secondo questa prospettiva, il punto in cui astrologia, psicologia e
biologia convergono. Lisa Morpurgo risponde col termine
“condizionamento”. Dal punto di vista biologico non siamo forse condizionati
da innumerevoli e innegabili fattori, fra cui quelli genetici, ambientali,
alimentari, ecc.? E il nostro carattere non è forse condizionato da una serie di
fattori affettivi, economici e culturali? Ogni ingranaggio dello Zodiaco
descrive pertanto in chiave simbolica questi condizionamenti, mentre ogni
mappa astrale ci consegna un imprinting, quel nostro personale bouquet di
“pulsioni” (per usare un termine psicanalitico) a cui siamo chiamati
necessariamente a rispondere. Quale sia la risposta a tali condizionamenti,
l’uso che ne facciamo, come li indossiamo, in buona parte però spetta a noi.
Ecco che l’astrologia, da comoda e salottiera, diventa scomoda e
irriverente. Non giunge più, analgesica e addomesticata, a sedare le nostre
paure. Semmai ne indaga le cause e, invece di predire il futuro, osserva
spietata il passato per estrapolarne le conseguenze. Ma se dalla psicologia ci
si aspetta un tale ruolo, così come dalla biologia si pretende l’implacabile
osservazione al microscopio di ogni dettaglio, dall’astrologia un simile
approccio spiazza e infastidisce. Troppo caustico. “Condizionamento”, che
brutta parola poi! In merito alle faccende amorose è un vocabolo davvero
disdicevole e fuoriluogo.
L’amore per l’altro e dell’altro nasce libero, ci rende liberi e ci si nutre
d’amore in assoluta libertà. Già. La romantica tradizione vuole infatti che
dinanzi l’innamoramento ogni condizionamento svanisca. Il sentimento lo si
pretende scevro da queste sciocchezze. «Va’ dove ti porta il cuore!» Come
no! Ma il cuore sa dove va? E anche a voler riconoscere al cuore questa
consapevolezza, è sicuro che sia il cuore a guidare? Magari il povero cuore
vorrebbe anche, ma è imbrigliato da tanti di quei legacci! Così alla guida
non c’è lui, ma un cervello ingolfato da condizionamenti, snaturati, indotti,
repressi o astutamente sovradimensionati.
Basterebbe un po’ di buon senso. Senza scomodare astrologi, psicanalisti,
biologi, cosmologi, fisici, rabdomanti e non so chi altri, l’ipotesi che la scelta
del partner scaturisca dall’amore in modo del tutto incondizionato risulta
plausibile quanto l’esistenza di Babbo Natale. Certo, anche questa è una
tradizione dolce, rassicurante e poetica, e crederci da bimbi è decisamente
sano. Ma se a quarant’anni aspetti ancora un tizio panciuto che si cala dal
camino… be’, qualche problemino ce l’hai.
Riconoscere pertanto questi condizionamenti è un salto. Scrostarli di certo
è faticoso, nonché doloroso. Tuttavia sempre meglio che lasciare che ci
soffochino dentro sabbie mobili che tirano sempre più in basso. E poi, ben
inteso, non tutti i condizionamenti sono da buttar via: alcuni ci
appartengono, sono propri della nostra natura, della nostra identità. Ogni
segno zodiacale possiede i suoi e vanno sviluppati in modo costruttivo, non
ritorti contro noi stessi. Si tratta dunque di cimentarsi in un vero e proprio
inventario dei nostri limiti e delle nostre potenzialità: vizi e virtù, paure e
desideri, autentici o indotti, repressi o esasperati, innati o appiccicati
addosso dagli altri, dagli eventi o da noi stessi; e se lo spunto per una tale
operazione giunge dall’astrologia, ben venga. Una strada come un’altra per
fare un po’ di chiarezza e rinnovare il campionario.
L’approccio di questo libro pertanto – è bene ribadirlo – non sarà
“vediamo di quale segno potrebbe essere il mio partner ideale”, semmai
“vediamo come, attraverso il mio segno, e quindi i miei condizionamenti, io
eludo non solo il partner ideale, ma anche una relazione vagamente
serena!”. In sostanza quali meccanismi attuiamo con chirurgica precisione
per sabotare l’amore. Perché? La risposta è la stessa: perché ci fa comodo,
molto comodo.
Capitolo 3
Di che sabotaggio sei?

Volendo sviscerare nel modo più esaustivo possibile i “condizionamenti” a


cui ogni segno zodiacale è inevitabilmente costretto nello sviluppo della
propria personalità, non sono riuscito a sottrarmi alla necessità di
approfondire lo strettissimo legame fra astrologia e mitologia. A seguito di
ogni profilo zodiacale troverete quindi un paragrafo dedicato all’analisi del
mito corrispondente.
Storie, così distanti e al tempo stesso così vicine, così astratte eppure così
specifiche, che raccontano a modo loro quella stessa necessità psicologica,
quello stesso “condizionamento” da cui non si può sfuggire. La psicanalisi
difatti ha utilizzato il mito per spiegare determinati meccanismi, basti
pensare all’opera di Freud, in particolare al suo testo Totem e Tabù, oppure a
Jung e al suo Gli archetipi e l’inconscio collettivo. Non è certo il caso di lanciarsi
in una trattazione del mito nella storia della psicologia, tuttavia vale la pena
ricordare una fondamentale differenza: per Freud il mito è all’origine,
racconta la causa e ha una sua fissità passiva; per Jung invece, pur
giungendo da lontano, il mito è vivo, attivo, indossabile in modo individuale
e foriero di novità nell’inconscio. Una prospettiva ben diversa insomma,
riassunta dal celebre motto secondo il quale al viandante il freudiano chiede
“da dove vieni?”, mentre lo junghiano “dove vai?”.8
Con imbarazzante cupidigia e nauseante presunzione, in questo
pionieristico e pirotecnico libello risulta necessario osservare entrambe le
prospettive. Al sabotatore infatti non si può fare a meno di chiedere: “Da
dove vieni e dove fai di tutto per non andare?”. E proprio il mito ci aiuterà a
rispondere con maggiore chiarezza a queste fatidiche domande. Prima però
è opportuno ricordare che in astrologia il profilo caratteriale di un individuo
non è dato certo dal semplice segno, né tantomeno da due righe a riguardo,
ma da una complessa moltitudine di elementi, di cui l’ascendente è forse il
più popolare. L’insieme di questi elementi compone quella che viene
definita “mappa astrale”, una sorta di astrologica carta di identità, unica e
irripetibile per ognuno di noi.
È ovvio che qui non è possibile analizzare il singolo caso, si dovrà
semplificare e quindi generalizzare. Tuttavia anche il sabotaggio, essendo
frutto della complessità di un carattere, non può essere rintracciato e
identificato affidandosi soltanto alle pulsioni del segno solare. Pertanto per
trarre un minimo di utilità da questo libro (semmai ne abbia), di un profilo
bisogna conoscere almeno, e sottolineo almeno, oltre l’ascendente, il segno
in cui risiedono Venere e Luna; nonché, è sottinteso, il significato simbolico
in astrologia di Luna e Venere. Appurato ciò, per ottenere l’identikit di quel
personalissimo stile sabotante, è opportuno quindi leggere i contenuti di
tutti i segni coinvolti: solare, ascendente, Luna e Venere. Provando non ad
accostarli, bensì a sovrapporli.
Con un pizzico di sano distacco dovreste cercare di scorgere come i vari
elementi interagiscono fra loro. Dando vita a quell’unica, sola, irripetibile,
infallibile strategia messa a punto per devastare l’amore. Sembra una roba
complicatissima, ma non lo è affatto. L’unica difficoltà effettiva è la volontà
di vedere e quella in genere difetta sempre. Parlando d’amore, chi di noi
dinanzi l’evidenza più disarmante non ha avuto almeno una volta gli occhi
foderati di prosciutto, anzi direttamente oscurati da tranci di cotechino?! Ma
se l’amore è cieco, il sabotatore no. La sua arguzia strategica difatti è dotata
di una vista acutissima e si sviluppa in modo direttamente proporzionale a
sofisticati meccanismi di negazione: specchi deformanti, verità presunte,
paratie e cavilli minuziosi a cui il soggetto si aggrappa con le unghie e con i
denti pur di restare trincerato nella roccaforte delle proprie tanto deliranti
quanto infrangibili certezze. “Resistenze” si diceva poc’anzi. Ovvero, vale la
pena ribadirlo, il “non voler sapere per non prendersi la responsabilità di
sapere”.
Spreco aggiungo io. Sì, spreco. Di tempo, intelligenza, denaro e affettività.
Tutte risorse che potrebbero essere spese per apparecchiare giorni diversi,
non tutti perfetti, ma alcuni appaganti e fruttuosi. La vita ha già le sue
difficoltà e ci presenta inevitabilmente i suoi dispiaceri. Perché complicarla
ulteriormente? Perché laddove possibile non trarne gioia? Invece niente, via
a dilapidare amore, soldi ed energia dietro persone che non hanno nessuna
colpa, se non quella di essere perfette per alimentare il teatrino che ci è
funzionale e che pertanto non vogliamo smontato.
Sì, lo so: adesso cominciate a odiarmi davvero.
ARIETE

Il primo segno dello Zodiaco viene di solito dipinto come un individuo che
cavalca l’amore in modo schietto, ardito e per nulla parsimonioso. Una
sorta di impunito e solare Don Giovanni, oppure, al femminile, un’indomita
amazzone che mai cede alla presunta superiorità del maschio.
«È tutto amore! Chi a una sola è fedele, verso l’altre è crudele»,9 canta
Don Giovanni nella prima scena del secondo atto. Mentre l’Ariete Giacomo
Casanova nelle sue memorie dichiara: «L’amore è un divino fanciullo che
aborre la vergogna»;10 di contro Claudia Cardinale, esponente femminile
del segno, afferma: «Sono contenta di essere una donna, ma solo perché ho
capito che la donna è un essere forte, persino più dell’uomo. Talmente forte
da saper sopravvivere a dolori grandissimi, che nessun uomo potrà mai
capire fino in fondo, perché non fanno parte della sua storia e del suo
destino»11
Queste le tinte del segno. Queste le caratteristiche che moltissimi esponenti
dell’incipit dello Zodiaco fanno proprie e rivendicano per sé.
Peccato però che, osservando i percorsi sentimentali di certi Arieti, la
situazione appare ben diversa. Il piglio è lo stesso, lo smalto pure, ma
l’Ariete sabotatore sfrutta le caratteristiche del proprio segno per infliggersi
un clamoroso autogol. Così di libertino e indipendente non rimane un bel
niente, se non forse la capacità di ideare, attuare e portare a termine lo
sfacelo amoroso tutto da sé. Ah, in questo l’Ariete è leader indiscusso!
Siamo dinanzi a un segno maschile, fecondatore, incline al comando
militaresco nelle sue più basiche accezioni. Questo sia chiaro. Nello Zodiaco
simboleggia il Big Bang: un’espansione dirompente e soprattutto
autodeterminante, istintiva, fisica e immediata. Non a caso l’Ariete è il
bimbo dello Zodiaco, non potrebbe essere altrimenti, dal carattere volitivo e
capriccioso, ma dall’ideale tanto alto quanto ingenuo. Cosa che in amore si
traduce spesso in un curioso mix: un desiderio carnale, infantile e in un
certo senso mentale, teso a possedere ciò che non possiede e, al tempo
stesso, a inseguire un sogno indefinito di sentimento romantico.
Si potrebbe indugiare a lungo in definizioni tradizionali con una prosa più
o meno da manuale, ma in questa sede ci occupiamo del profilo del
sabotatore e, in quanto tale, l’Ariete è paragonabile a una sorta di
orangotango infoiato, pervaso da romantici slanci in stile Cyrano De
Bergerac. Immaginate uno scimmione che si percuote furioso (la furia
dell’Ariete è pericolosa e patologica) e poi di colpo declama poetico:
Chi amo? Su, rifletti, forza. A me è proibito il sogno di un amore con questo naso
al piede, che almen di un quarto d’ora ovunque mi precede. Allora per chi amo?
Ma questo va da sé. Amo, ma è inevitabile, la più bella che c’è.12

Così recita il protagonista del film Cyrano. Che Edmond Rostand, autore del
celebre romanzo, fosse Ariete sarà di certo una coincidenza.
In queste poche righe sono presenti due elementi che ci permettono di
comprendere i punti fermi dell’esser Ariete: il primo è il dichiaratissimo
complesso di inferiorità, tale da vedersi «proibito il sogno di un amore»; il
secondo è la tendenza a concepire la bellezza in modo assoluto. «La più
bella che c’è» non va letto in chiave soggettiva – e il testo non lascia dubbi in
proposito – ma si riferisce a quello standard di bellezza assoluta da cui
l’Ariete è ossessionato. In questo senso si può tranquillamente affermare che
l’Ariete è torturato dalla bellezza, strattonato fra l’ideale e la molteplicità
succosa del carnale.
Per dondolare su quest’altalena tuttavia ci vuole più che semplice
passionalità; serve un pizzico di autocritica, altrimenti si perde il controllo
dell’altalena e si fa un volo di quelli da finire frantumati a terra. «La mia
storia dimostra che siamo degli imbecilli quando cerchiamo fuori di noi le
cause dei nostri guai, perché sono tutte, direttamente o indirettamente, in
noi stessi»,13 afferma lo stesso Casanova. Ma da un soggetto sabotante non
si può pretendere tanta autocritica.
Pur di non confrontarsi con se stesso e con l’amore, e pur di preservare
intatto il suo dispotico status fanciullesco, l’Ariete sabotatore elabora allora
due strategie, precise e nette, nonché riconoscibili lontano un miglio: la
caccia e il vassallaggio. Sembrano due tattiche opposte, ma in realtà sono
facce della stessa arietina medaglia.
La prima tecnica, quella della caccia, consiste in un eterno safari amoroso,
in stile Don Giovanni. Una caccia irreale e al tempo stesso ideale e
allucinata, nel corso della quale il soggetto non si perde in semplici
avventurette o infatuazioni – anche se quelle non mancano mai –, ma in
autentici innamoramenti fulminanti e fulminati. Un continuo balzare di
grande amore in grande amore, tanto estenuante quanto propedeutico e
funzionale affinché l’Ariete illuda e si illuda di essere alla costante ricerca di
qualcosa di nobile e sublime. Una sorta di Santo Graal, che di volta in volta
giunge a illuminargli la vita come un lampo rivelatore.
Ma la luce del lampo dura un attimo, dopo giunge il fragore del tuono: nel
nostro caso lo schianto della testata che l’Ariete dà sul muro del suo
ennesimo, indicibile, immenso amore. Sbang! A questo punto il nostro
soggetto potrebbe fermarsi, e invece compie la scelta meno saggia e più
arietina possibile, ossia non arrendersi, accendersi, prendere la rincorsa e di
nuovo: sbang! Altrimenti che ariete sarebbe? Così insiste e insiste e sbang e
ancora sbang! In nome del suo cuore palpitante, del suo desiderio assoluto e
del suo sublime ardore. Sbang!
E più l’altro si nega, più in lui o in lei si accende la miccia. Se invece la
preda si concede o è disposta a mettersi in gioco in una relazione, et voilà, il
cielo si spegne e le saette svaniscono. L’astuzia di questo tipo di sabotaggio
non consiste quindi nella semplice smania di conquista, ma si fa assai più
sottile nel preferire colui o colei che indugia, rispetto a chi si nega (o si
concede) in modo schietto. D’altronde la rincorsa del frutto proibito, sfiorato
ma non gustato, sfidato ma non vinto, è di per sé più eccitante, più
adrenalinica e si addice in pieno alle corde dell’Ariete, che fra tutti i segni è
per eccellenza colui che desidera desiderare.
Il soggetto sabotante pertanto, meno consapevole ma in un certo senso più
furbo, traviserà il senso del desiderio, svilendolo ad alibi perfetto e
cristallizzandolo in un atteggiamento mentale pseudo-giovanile tale da
negare a se stesso ogni evoluzione. Peccato. Perché l’Ariete invece è intriso
di puro desiderio e autentico entusiasmo. «La vita non è un significato, ma
un desiderio»14 afferma Charlie Chaplin, Ariete . Ed è meraviglioso
desiderare la vita, piuttosto che desiderarne il sabotaggio.
Il titanico slancio di energie profuso dall’Ariete nell’erotico “safari”
sembrerebbe svanire nella seconda tecnica di sabotaggio: il vassallaggio.
Invece è presente più che mai! Il vassallaggio arietino prevede difatti la
scelta di un solo partner, o pseudo-tale, causa e sorgente di un’unica e
irripetibile fonte d’amore. Più che una persona la si potrebbe definire una
sorta di “entità”, fra l’astratto e il feudale, a cui l’Ariete obla da buon
vassallo la propria esistenza. L’entità in questione, tutt’altro che eletta, si
presenta per lo più come un soggetto mediocre. La classica mezza calzetta
che si spaccia per un dio in terra. Una sorta di idolo molliccio e vampiresco
al cui altare l’Ariete si inchina. Ovviamente l’Ariete con la flaccida entità
non concretizzerà mai una coppia gratificante e oggettiva, ci saranno
sempre difatti delle validissime motivazioni che impediranno l’evoluzione
della storia in qualcosa di più maturo: i figli di lui, il divorzio di lei, il mutuo
della casa, la suocera inferma, insomma, la solita roba fritta e rifritta in un
olio stantio e indigesto. E così il giochino del “safari” si ripropone condito
con una salsina diversa. Come si è detto infatti questa tattica in sostanza è
identica alla precedente. Lì il Santo Graal andava di volta in volta inseguito,
qui è stato trovato; in entrambi i casi comunque non viene mai realmente
vissuto.
L’incastro tuttavia è perfetto: per un verso la molliccia entità ha trovato il
fesso che gli regge il gioco e lo idolatra, permettendogli di realizzare i propri
comodi nonché il proprio mediocre e opportunistico standard affettivo;
dall’altro l’Ariete è riuscito anche stavolta a sottrarsi a ogni evoluzione, non
rinunciando così al solito fanciullo, ormai stagionato e grottesco, che è in
lui.
Quanto finora esposto in merito a questa seconda tecnica di sabotaggio
sembrerebbe non corrispondere a uno dei princìpi base dell’essere Ariete: la
congenita necessità di primeggiare. Tutto lascerebbe supporre che un Ariete
vassallo, prono ai piedi dell’entità, abbia accettato di scendere dal podio
delegando al partner il ruolo del leader. Ma qui bisogna avere uno sguardo
arguto, perché la furbizia arietina si fa tanto infantile quanto raffinata e
crudele. D’altronde, si sa, i bambini sanno essere spietati.
A un esame più attento infatti l’entità di cui sopra rivela delle
caratteristiche di natura economica, sociale, professionale o anche
semplicemente legate all’aspetto fisico, che in una convenzionale scala di
consenso borghese la collocano qualche gradino più giù dell’Ariete, il quale
potrà così guardarsi intorno e, più o meno consciamente, sentire appagata
la propria sete di leadership e prevaricazione (qualcosa di simile lo fa anche
il Leone). E se qualcuno con sincero affetto proverà a far notare all’Ariete
che l’entità venerata è la sua rovina, l’aggressività arietina si scaglierà allora
senza freni contro il malcapitato divulgatore di tali infamanti falsità.
Menzogne! Pronunciate, a detta dell’Ariete, soltanto per invidia e gelosia.
D’altronde l’Ariete sabotatore è specializzato nel fidarsi di parassiti
approfittatori e diffidare della gente in gamba. Fa parte della diffidenza
tipica del segno, in questo caso rigirata in modo nefasto. L’Ariete infatti, e
questo quasi mai viene sottolineato a dovere, è caratterizzato da una
profonda diffidenza verso il genere umano. Sarà pure socievole ed
estroverso, ma fino a un certo punto. Dentro cova un istinto antico.
Primitivo? Guerriero? Orango? Chissà. Comunque sia, l’altro è un
potenziale nemico, un predatore pronto a rubare la preda, qualcuno con cui
competere costantemente per garantirsi superiorità e sopravvivenza. Una
roba un po’ da caverne, ma così è. Tuttavia se l’Ariete sabotatore
rispolverasse l’autenticità di questo istinto, certamente brutale ma per altri
aspetti sano (nel senso di funzionale alla difesa della parte vitale di sé), allora
capirebbe che il suo vero nemico, in amore e non solo, per troppo tempo è
stato solo e soltanto se stesso.

M ’A
Mai non divenga un uom turpe felice,
né mai beato chi mi strugge il cuore! 15

Così recita un celebre verso della tragedia scritta da Euripide. Così Medea
dichiara la sua furia distruttiva. Una rabbia che nulla potrà fermare.
Medea infatti ucciderà Glauce, la donna per cui il marito Giasone l’ha
lasciata, ucciderà Creonte, padre di Glauce e, pur di distruggere
completamente l’uomo che ha amato, giungerà persino a trafiggere con la
spada i suoi stessi figli, quei due amatissimi figli avuti da Giasone. Tutto,
purché tutto venga distrutto. Senza alcun discernimento. Senza freno. In
una valanga distruttiva che non trova argini, finché Giasone stesso non si
toglierà la vita.16 Non farà lo stesso Medea però, devastata ma convinta del
suo operato.
Una storia terribile, che Euripide mette in scena così come la racconta il
mito. Si tratta tuttavia dell’epilogo di una vicenda ben più lunga e
complessa.
A tal proposito spesso in numerosi libri di astrologia ho trovato indicato,
come mito corrispondente al segno dell’Ariete, semplicemente la conquista
del vello d’oro a opera di Giasone. Vi confesso che per anni non riuscivo a
cogliere il nesso fra questa impresa e il primo segno dello Zodiaco. Sì,
d’accordo, il coraggio, l’ardimento, l’aureo ariete sbrilluccicante, eppure mi
è sempre parso troppo poco, troppo vacuo per tratteggiare il carattere
arietino. E vi confesso anche che, pur amando Medea di Euripide,
stupidissimo e cieco, ancora non mettevo insieme i pezzi. Il punto è che non
è possibile estrapolare soltanto una parte del mito, in questo caso quella
della conquista del manto d’oro. Perché le gesta di Giasone fanno parte di
una storia più ampia, hanno un movente e delle conseguenze e, soprattutto,
hanno origine in un carattere che sente, brama e agisce in un determinato
modo: da Ariete, appunto.
Se la mitologia racconta in fiaba quel che l’astrologia condensa in simboli,
bisogna ricordare allora che fu Medea ad aiutare Giasone in quell’impresa
altrimenti impossibile. E prima ancora, bisogna ricordare che il vello d’oro
fu emblema non di un singolo episodio, ma addirittura di una stirpe intera,
in cui follia, avidità e uccisioni dei figli costituiscono l’affettuoso filo
conduttore che unisce ben tre generazioni.
Ecco che, con buona pace degli Arieti più impazienti (praticamente tutti),
per comprendere il mito corrispondente a questo segno bisogna
inevitabilmente analizzare ogni passaggio della vicenda, cominciando dal
principio della storia. D’altronde, astrologicamente parlando, il principio è
l’Ariete. Pertanto vi chiedo un pizzico di attenzione, pazienza e riflessione.
Lo so, parole sconosciute all’Ariete.
Tutto comincia con Issione che chiede in sposa Dia, promettendo al padre
di lei preziosissimi doni. Sposata la fanciulla però, Issione non solo non
donò quanto promesso, ma uccise a tradimento il suocero facendolo
precipitare in una fossa di carboni ardenti. Eh, all’Ariete l’ardore piace! La
follia fu la punizione per quel delitto.
Zeus però ebbe pietà di Issione e gli concesse la grazia di rinsavire. Ma
quell’uomo era incapace di frenare la propria arroganza e le proprie brame
smodate, tanto da provare a violentare persino Era, moglie di Zeus! E allora
nessuna pietà. Il padre degli dèi creò Nefele, la dea delle nubi, che prese le
sembianze di Era e ingannò Issione. Quest’ultimo infatti la concupì e da
quell’unione nacquero i mostruosi centauri; quindi Zeus legò l’ingrato a una
ruota ardente e lo lanciò nel cielo. Nefele, infine, per volere di Era, fu data
in sposa al re Atamante. E così si conclude la prima arietina generazione.
Fin qui mi pare semplice.
Secondo tempo, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.
Dall’unione di Atamante e Nefele nacquero due figli, un maschio, Frisso, e
una femmina, Elle. Atamante tuttavia ben presto lasciò la moglie per
convolare a nuove nozze con un’altra donzella, carina, affettuosa, tanto
amorevole da convincerlo, per gelosia, a uccidere i figli del precedente
matrimonio. Nefele allora, per salvare Frisso ed Elle, li avvolse in una nuvola
e li pose in groppa a un ariete alato dal manto d’oro, dono di Ermes, per
fuggire lontano. Ma Elle cadde in mare e morì (da cui il nome del mare
Ellesponto). Soltanto Frisso si salvò e, giunto in Colchide, sacrificò l’ariete a
Zeus in segno di riconoscenza, appese il vello d’oro a una quercia del bosco
consacrato ad Ares, e sposò la figlia del re di quella regione. A custodia del
vello verranno posti quattro tori infuriati e un drago sputafuoco che non
dormiva mai. Nel frattempo Atamante e la dolce mogliettina furono puniti
dagli dèi con la pazzia, si suicidarono e trascinarono con sé i loro due figli.
Fine secondo round. Una boccata d’aria perché la storia si fa pesante.
Approfittando della pausa è opportuno sottolineare un simbolismo: Elle e
Frisso rappresentano la componente femminile e quella maschile della
psiche umana. Il femminile viene schiacciato, tanto da perdersi, e Frisso nel
salvarsi preserva soltanto se stesso: all’Ariete insomma resta soltanto
l’elemento maschile.
Terzo round. Dopo la tragica fine di Atamante, sul trono gli succedette
Esone, padre di Giasone, che però fu ingiustamente spodestato dal
fratellastro Pelia. Giasone quindi, una volta cresciuto, volle rivendicare la
legittimità del trono e si oppose allo ziastro, il quale, sapendo di avere torto
marcio, gli impose come condizione una sfida impossibile: riconquistare
quel famoso vello d’oro. Ed eccoci finalmente tornati a tempi, diciamo così,
più recenti, ovvero alla celebre impresa di Giasone. Il giovane infatti accettò
la sfida: con l’aiuto di Era venne costruita una nave di nome Argo e
Giasone, insieme ad alcuni illustri compagni, detti appunto “Argonauti” (fra
cui vale la pena ricordare Orfeo, Teseo, Castore e Polluce) salpò alla volta
della Colchide e del bosco sacro. Nel corso del viaggio l’equipaggio dovette
affrontare numerose e terribili prove ma, alla fine, il prezioso vello fu
conquistato. Magnifico! Peccato però che non fu né il valore di Giasone, né
quello dei suoi compagni a garantire il buon esito della vicenda, bensì
l’indispensabile aiuto di Medea: innamoratasi di Giasone, infatti, utilizzò le
sue arti magiche per immobilizzare i quattro tori, addormentare il drago e
tagliare in pezzi lo zio Pelia.
Senza Medea, insomma, Giasone il vello lo avrebbe conquistato sintetico,
altro che d’oro!
C’è poi un altro piccolo dettaglio, non proprio trascurabile: Medea era la
figlia del re della Colchide (la dinastia successiva, diretta discendenza di
Frisso. Tutto torna!) e, pur di aiutare Giasone, dovette agire contro il volere
del padre e di tutta la famiglia, pagando un prezzo altissimo. Ma nonostante
tutti gli sforzi compiuti e le vittorie conseguite, Giasone decise in ultimo di
non affrontare il figlio di Pelia e preferì piuttosto dirigersi a Corinto. Medea,
ormai sua inseparabile amata, lo seguì senza indugio. Qui i due si
stabilirono, si sposarono, nacquero due figli, vissero felici per alcuni anni,
finché… Giasone lasciò la famiglia per sposare la figlia del re di Corinto,
bella, giovane ed erede al trono. E a questo punto Medea s’incazza. Eccome
se s’incazza! Il resto già lo sapete.
Ecco che limitare il riferimento mitologico dell’Ariete alla semplice
conquista del vello d’oro è del tutto riduttivo e inaccettabile. Altro che
lanugine dorata! L’Ariete in queste tre generazioni è Issione, è Atamante ed
è Giasone. Tre uomini pervasi da pulsioni forti, incontentabili e, soprattutto,
incapaci di portare avanti un progetto: raggiunto lo scopo non c’è
costruzione. A guardarli bene sono lo stesso personaggio che tenta una
trasformazione, un’evoluzione puntualmente mancata. Sono insomma
sabotatori ! Di se stessi e di ciò che hanno ottenuto. «Giasone è uno dei
pochi eroi che non si compie»17 fa notare appunto Lidia Fassio. Follia e
morte sono conseguenza costante di una tal condotta.
Nefele, Elle e Medea rappresentano invece la componente psichica
femminile dell’Ariete. Quella parte femminile che l’Ariete tende ad
amputare, ma con cui deve necessariamente fare i conti, poiché una psiche
coniugata soltanto al maschile non regge. Non ce la fa. Come Giasone, che
non riesce nella sua impresa se non grazie a Medea. È Medea che mette
fuori gioco tutti gli elementi maschili avversi a Giasone: è insomma il
femminile ad affrontare quel maschile che il maschio Giasone non risolve.
In quanto simbolica espressione del femminile, Medea compie il tutto per
amore, attraverso la magia e lo spirito di sacrificio e dinanzi il banale,
sciocco e letale sabotaggio di Giasone, questo stesso femminile esplode.
Senza razionalità e senza margini di salvezza. Si scatena allora una furia
talmente potente da superare la distruzione di cui è capace Marte, pianeta
dominante il segno dell’Ariete.
L’agire di Medea, infatti, in quanto eros femminile, più che di un arietino,
fallico e marziano raptus di collera, assume tutte le caratteristiche di una
scorpionica, programmatica vendetta, dove l’erotismo collassa nella morte.
A tal proposito vale la pena ricordare che Ariete e Scorpione sono
entrambi dominati da Marte, ma con una valenza assai diversa: mentre
nell’Ariete il pianeta è, diciamo così, assoluto e solitario, foriero soltanto
delle sue caratteristiche maschili e per nulla sovrastrutturate, nello
Scorpione Marte è invece affiancato a Plutone e Mercurio. È guerra, abisso,
rappresentazione scenica e intelletto. Ecco perché Medea è così
scorpionesca. Ed ecco perché il destino che riserva per sé non è morire, ma
soffrire nella consapevolezza delle terribili colpe commesse. Colpe di cui si
strazia, ma non si pente.
Dopo tre generazioni, l’Ariete Giasone ha preferito ancora una volta
ascoltare soltanto quel puer che alberga nel suo ego. Pertanto la sua parte
femminile, Medea, alla fine lo ha massacrato.
In questa saga la mitologia descrive alla perfezione il carattere e le
dinamiche del sabotatore Ariete: un impulsivo insoddisfatto, fallico, privatosi
del suo femminile, specializzato nell’accendersi invano e nel non saper
godere di ciò che ha costruito. Più che dalla smania di conquista, l’Ariete
sabotatore è vittima allora di un’egocentrica infantilità sbilanciata al
maschile.
D’altronde in questo segno, come afferma Lisa Morpurgo,
Il sole è un sole neonato, fiero di possedere testicoli e pene, ma ancora
parzialmente ignaro della loro complessità, e dunque attratto soprattutto dal loro
valore totemico. Da qui la tendenza alla fallocrazia, a un virilismo o machismo
mentale.18

Una peculiarità a cui i sabotatori e le sabotatrici del segno (quelle amazzoni


del capitolo precedente) non intendono affatto rinunciare. Rinunciarvi
vorrebbe dire crescere, dando respiro innanzitutto alla parte femminile di
sé.
Peccato. Se Giasone si fosse “accontentato” di Medea, se l’avesse “accolta”
in sé, allora si sarebbe compiuto come eroe.
TORO

Immaginare il Toro come un sabotatore risulta quasi impossibile. È infatti il


segno predisposto di per sé al sano e naturale godimento dei piaceri,
rivolgendosi alla vita per lo più con slancio semplice e genuino. “Epicureo”
lo si potrebbe definire e, in quanto tale, è un soggetto del tutto refrattario ad
ansia e stress. Che gaudio!
Questa immunità, così antitetica al logorio a cui per lo più siamo ormai
abituati, scaturisce secondo alcuni dall’innato buon senso del Toro, secondo
altri dalla sua istintiva concretezza, mentre a detta di amici e parenti si
tratta di un’orticante emanazione d’atavica pigrizia e ottusità. Chissà.
“Massimo rendimento col minimo sforzo”, questo è il motto del Toro. Da
non confondersi tuttavia con l’indolente inconcludenza tipica di altri segni.
Il Toro difatti è un soggetto per lo più operoso, ma il risultato di cotanta
operosità verrà sempre conseguito attraverso un oculato risparmio
energetico, nonché economico e tempistico, affinché tutto giovi e nulla
sottragga alle attività che per lui conferiscono autentico senso alla giornata:
mangiare, dormire e copulare. Più volte e abbondantemente nell’arco delle
ventiquattro ore. Sulle dinamiche di questo suggestivo bioritmo mi soffermo
ampiamente nelle serate a teatro.
Ma qui il nodo da sciogliere è un altro: come può una creatura simile
diventare un sabotatore? Com’è possibile che un soggetto di tal fatta rinunci
al paradiso della basicità per complicarsi la vita con un sabotaggio? Perché?
Sono questi gli interrogativi a cui bisogna trovare risposta. Per farlo è
necessario però mettere da parte quella goliardia tipica del segno, con cui il
Toro impana un po’ tutto così da camuffare persino le fettine più rancide, e
analizzare la faccenda con estrema calma, compiendo magari qualche
piccolo passo indietro. Anzi, più che un piccolo passo, direi proprio una
regressione.
Freud definisce “orale” la prima fase dello sviluppo psicosessuale. Essa
comprende i primi diciotto mesi di vita dell’individuo ed è la fase connessa
alla suzione del latte materno durante la quale la bocca è lo strumento
primo di conoscenza, ma ancor più di sopravvivenza. Il nutrimento assume
quindi un valore assoluto. E lo fa in modo duplice: come indispensabile
fonte di apporto energetico e, al tempo stesso, come primo elemento
affettivo di relazione con la madre. Si tratta quindi del primo assoluto
elemento di “godimento”, per usare la terminologia freudiana, poiché fonte
di piacere nel totale soddisfacimento dei bisogni del neonato. Così il
nutrimento è amore e l’amore è nutrimento, nel significato più letterale
della frase. Di conseguenza in questa prima fase dello sviluppo il piacere
sessuale è legato prevalentemente all’eccitamento della cavità orale e delle
labbra – come postula Freud.
L’olfatto invece, fra i cinque sensi, è quello a cui durante la suzione il
neonato si affida per “sentire”, percepire e quindi conoscere il mondo
circostante. Premesso ciò, e con buona pace di Freud che detestava
l’astrologia, si potrebbe quindi definire senza indugi il Toro un segno
“orale”. L’importanza attribuita al cibo, il nutrimento inteso come
fondamentale espressione di affetto, la spiccata predisposizione olfattiva,
ebbene sì, sono tutti elementi tipicamente taurini. Come se non bastasse, o
magari si tratta di una futile coincidenza, per l’astrologia è proprio la bocca
la parte del corpo corrispondente al segno del Toro e come tale, in puro stile
freudiano, resta fonte di massimo godimento anche in età adulta. Il piacere,
così come il sentimento, infatti per questi soggetti deve prima essere
“assaporato”, poi introitato e quindi metabolizzato, affinché possa essere
vissuto. “Incarnato” sarebbe più opportuno dire. Infatti per un Toro i
sentimenti si fanno “carne” della propria “carne”. Nobile principio, finché
l’altro però non viene asfissiato, o meglio, masticato.
A questo punto non bisogna esser navigati psicanalisti per cominciare a
intravedere qualcosa e intuire che il percorso del sabotaggio taurino scorre
su binari simili a quelli di certi disturbi dell’alimentazione, disturbi di cui
non a caso il Toro sabotatore spesso soffre. Intossicarsi col cibo, rifiutarlo o
comunque utilizzarlo in modo inverso al suo sano valore nutritivo nasconde
sempre qualcosa di autodistruttivo (tuttavia è necessario un bravo
professionista, non certo un cazzeggiatore astrologico, per rintracciare la
causa di tali problematiche). In un certo senso si potrebbe quindi affermare
che il Toro sabotatore applichi gli stessi meccanismi distruttivi tipici dei
disturbi alimentari alla propria sfera affettiva, divorando l’altro o
privandosene in modo ottuso e restrittivo.
In chiave meramente astrologica, e pertanto iperforfettaria visto il
contesto, è nel rapporto con la famiglia d’origine che va ricercata la causa di
questo meccanismo autopunitivo. Che strano. Curioso quanto questo segno,
in apparenza semplice e palese, ci riporti ad argomentare invece su di un
piano costantemente psicanalitico. Più o meno consciamente, infatti, ci
ritroviamo dinanzi a delle problematiche del tutto emotive e per nulla
pratiche; dei nodi nella sensibilità infantile così stranamente simili a quelli
del Cancro: ciò che nel figlio Cancro è strazio per quella tenerezza negata,
nel Toro è rivendicazione della promessa non mantenuta; e la prima
promessa che mai si pensa possa essere elusa, non c’è niente da fare, è
sempre quella di un genitore e del nutrimento d’amore che da questi ci si
aspetta. Il Toro sabotatore pretenderà allora con ottusa caparbietà quel
nutrimento affettivo di cui è stato o si è sentito privato. E lo farà con una
tenacia devastante, lenta e inesorabile, con vicende estenuanti connesse a
qualcosa di materico, probabilmente beni, proprietà, eredità e altri vari ed
eventuali ganci materiali.
In apparenza sembrerà un tentativo per risanare una frattura con la
famiglia, per risolvere e concludere una faccenda in modo corretto, ma di
conclusivo e risolutivo non ci sarà un bel niente: come si è detto prima, il
bandolo della matassa è tutto emotivo. Si tratta insomma di una gigantesca
richiesta d’affetto, impanata alla maniera del Toro, verbalizzata poco e
male. D’altronde il Toro, da buon segno di Terra, non parla dei propri
sentimenti.
Gira e rigira tutto riporta all’oralità taurina; difatti la bocca, ovvero il cavo
orale, comprende anche le corde vocali. Ecco che per questo segno la
promessa è importante anche perché è parola data, consegnata, parola
espressa, densa di significato e non giocata come per i Gemelli. Insomma
nel Toro persino la parola diventa carnale, poiché è il frutto della propria
voce che si fa corpo e rende concreti i sentimenti. Un Toro infatti
difficilmente parlerà a vanvera; forse troppo, talvolta in stile martello
pneumatico, ma raramente a vanvera. La parola in questo caso è legge.
C’è un altro elemento infine che entra in gioco in questo sabotaggio
taurino; qualcosa che fra le righe o palesemente è già affiorato più volte,
ovvero la necessità del Toro di mettere, diciamo così, paletti. Già, un paletto
qui e un paletto là. In questo senso amo definire infatti il Toro un soggetto
“perimetrale”: adora delimitare, circoscrivere, tracciare perimetri. Si tratta a
mio avviso di una diretta applicazione del suo senso pratico, mirato a
essenzializzare il fatto o la spicciola cosa in sé, ma anche di quel
condizionamento zodiacale che vuole il Toro un aggregatore di materia.
Qualcosa di simile a ciò che la Vergine fa catalogando e conservando; nel
nostro caso il Toro lo fa perimetrando.
Naturalmente vi sono magnifiche espressioni di questa inclinazione, basti
pensare al Toro Kant e alle sue categorie. Il Toro sabotante ahimè costruisce
recinti per sguazzarci dentro e, quel che peggio, per richiudervi gli altri. La
possessività tipica del segno, priva di quelle gelosie piromani tanto care ai
segni di fuoco, si palesa infatti in modo apparentemente più pacato, direi
solido: niente scenate, solo paletti.
Ecco che il soggetto sabotante, come sempre accade, ritorce contro di sé la
virtù che potrebbe salvarlo.
Invece di circoscrivere quell’incomprensione affettiva e farne un fatto,
delimitandola appunto, il Toro sabotatore finisce per rinchiudere se stesso
nel recinto di quell’affettività negata. Ancora peggio, trattiene in quello
stesso recinto la causa (o la proiezione della causa) di quella promessa
d’affetto negata. Allo stesso modo invece di mandare giù il boccone amaro
una volta e per tutte, il Toro sabotante mastica e rimastica quel boccone
nella sua bocca. Così il domani, vero, concreto, genuino, carnoso e succoso
non arriva mai. Se soltanto dentro quella dura capoccia taurina facesse
breccia un fatto, pratico e semplice: «Non si recinge l’aria»19 come scrisse
Gianni Bella, cantautore siciliano che è però del segno dei Pesci. E allora
come si può disinnescare questo sabotaggio? Come è possibile rompere il
recinto? Aggregando e accorpando il meglio di sé, non come un perimetro,
ma come solide fondamenta su cui costruire quella concretezza desiderata;
dando nome e cognome a quel che è successo, senza rancore però,
altrimenti il boccone amaro torna su.
Nessuno dice che sia facile. Tuttavia è una scelta.
Ogni segno zodiacale possiede nel suo punto debole il suo punto di forza,
e viceversa, così nessuno più del Toro può riuscire a osservare finalmente in
modo concreto e oggettivo fatti che, fosse solo in nome del taurino
risparmio energetico, non ha più senso rendere attuali. La vita così può
tornare a essere una bella tavola imbandita e, se qualcuno non ha voluto
partecipare, pazienza, si è escluso da sé, perché un buon Toro lo aveva
invitato.

I T
Con martellante ostinazione tipica del segno, i due aggettivi su cui bisogna
insistere per comprendere il Toro e il suo eventuale sabotaggio sono: “orale”
e “perimetrale”. Si tratta di due peculiarità strettamente connesse l’una
all’altra, quasi fossero la doppia elica di un astrologico che impone a
questo segno un condizionamento ben preciso: «Fissare i valori di ciò che si
forma e si sviluppa»,20 per usare la definizione di Barbault.
Condizionamento che ovviamente il soggetto sabotante attua in modo
distruttivo.
Sul perché il Toro sia da definire psicologicamente “orale”, con tutte le
implicazioni annesse e connesse, spero di essere stato sufficientemente
esaustivo nel paragrafo precedente; in merito alla sua natura “perimetrale”
invece, reputo necessario un approfondimento, in quanto tale definizione
non solo rischia di risultare arbitraria, ma soprattutto apparentemente
antitetica allo stile di un sabotatore il cui gusto, in sintesi estrema, è quello di
masticare all’infinito un boccone amaro.
Come mai un soggetto che adora mettere “paletti” a cose, fatti e persone,
non riesce a piazzarne uno, netto e preciso, come limite a quella tal
situazione? Come mai l’indole perimetrale taurina in questo caso viene
meno? Il punto è che non viene meno affatto, anzi, il Toro sabotatore forgia
paletti a più non posso, ma li utilizza non per “fissare valori”, bensì per
costruire un labirinto dentro cui chiudersi e che di continuo maneggia pur
di non trovare mai la via d’uscita. Più delimitato e fissato di così!
Mi rendo conto che, espressa in questi termini, resta una teoria troppo
soggettiva e astratta, e l’astrazione e la soggettività il Toro le annusa come
pietanze poco appetibili. Per fortuna a rendere il tutto più attendibile e
gustoso giunge in nostro soccorso la mitologia, la quale in questo caso si
esprime con una chiarezza a dir poco disarmante: il mito associato al segno
è infatti quello del celebre Minotauro, ovvero la mostruosa creatura dal
corpo umano e dalla testa taurina che, rinchiusa nel labirinto di Creta, si
nutriva di carne umana. Eloquente, sintetico e mitologicamente
inoppugnabile! Tuttavia non si può certo liquidare così la faccenda perché,
come sempre accade nei racconti mitologici, il singolo fatto fa parte di una
storia più complessa, in cui le azioni dei protagonisti danno un senso preciso
al divenire degli eventi. Perciò anche il nostro Minotauro ha una sua origine
e una sua fine, un prima e un dopo. Ed è lì che bisogna indagare con
maggiore accuratezza, perché in quel prima e in quel dopo c’è tutto il
significato che il simbolo mitologico riassume. Non solo, ma prima e dopo
sono anche le due direzione su cui ogni sabotatore non gradisce
l’attenzione dell’osservatore, più che mai il sabotante Toro, che nella sua
apparente placidità quotidiana annega il passato e confonde il futuro.
Euripide racconta, tramandando a sua volta un ancor più antico mito
cretese, di una bellissima fanciulla di nome Europa, figlia del re greco
Agenore, della quale Zeus si innamorò. È risaputo che il padre degli dèi non
conosceva limitazioni erotiche: quel che desiderava prendeva, e così fece
con Europa. Tuttavia, per non spaventarla, mentre la donzella passeggiava
all’alba su una spiaggia, decise di avvicinarsi a lei assumendo le fattezze di
un possente, placido, toro bianco. Europa allora prima accarezzò il
bell’animale, poi gli montò sulle spalle, quindi lo cavalcò aggrappandosi alle
sue candide corna. Inutile indugiare sul perché una tizia sana di mente
passeggi all’alba su una spiaggia, veda un toro bianco, gli salti addosso e lo
monti tenendolo per le corna. Sta di fatto che Europa questo fece.
A quel punto però il divino bove con la fanciulla in groppa attraversò il
mare a divina velocità e giunse in un lampo sull’isola di Creta. Lì il padre
degli dèi riprese le sue sembianze. Dinanzi cotanta possanza Europa si
innamorò all’istante e, per nulla intimorita o turbata, pare nemmeno
spettinata dal viaggio, con rinnovato slancio continuò a montare, cioè a
cavalcare, insomma avete capito, a intrattenersi divinamente con Zeus.
Dietro questa romantica vicenda il mito cela il principio femminile
fecondato dal principio maschile, la Luna rapita al mattino dal Toro solare.
Ma cosa c’entra il Toro col Sole fecondante? Non è quello un simbolo
astrologicamente connesso all’Ariete? La mitologia straparla come una
decrepita svagonata? Niente affatto.
Scavando infatti nel passato più remoto di questo segno dello Zodiaco ci si
imbatte in una sorpresa mozzafiato: qualche millennio fa il Toro era l’incipit
dello Zodiaco. Ebbene sì. Più o meno dal 4380 a.C. al 2220 a.C. l’equinozio
di primavera cadeva infatti nella porzione di cielo occupata dalla
costellazione del Toro. Fu soltanto dopo il 2220 a.C. che il Sole
dell’equinozio primaverile prese a sorgere in una “nuova” costellazione,
ovvero l’Ariete. Prima di allora il Toro apriva lo Zodiaco. A tal proposito è
doveroso ricordare che proprio lo spostamento degli equinozi è il dato
scientifico più usato da molti razionalisti a prova dell’assoluta infondatezza
dell’astrologia. Eppure lo Zodiaco regge. Tuttavia qui l’elemento centrale è
un altro: il pio bove era l’inizio del tutto. Nell’antico Egitto infatti Osiride
viene raffigurato come un Toro, mentre in Mesopotamia il Toro rappresenta
il Sole fecondante e al tempo stesso la matrice, l’utero del cosmo. La
mitologia insomma è sempre infallibile.
Ma tornando a Europa, come proseguì la sua vicenda amorosa? A
dispetto dei mal pensanti, quella con Zeus non fu affatto un’avventura, anzi
dalla loro unione nacquero tre figli, Sarpedonte, Radamante e Minosse. Per
dar loro un padre terreno, Zeus ebbe cura di dare in sposa Europa al re di
Creta, Asterio. Alla morte di Asterio furono Radamante e Minosse a
contendersi il regno; Minosse sostenne però di essere lui il prescelto e
pertanto chiese agli dèi un segno in tal senso. La richiesta fu esaudita:
Poseidone fece emergere dal mare uno splendido toro bianco, a condizione
che venisse poi sacrificato in suo onore. Il nuovo re di Creta però, che del
caratterino del Toro tanto incarna, pensò bene di tenere per sé quel
meraviglioso toro e di sacrificarne al dio un altro meno particolare. La
punizione di Poseidone fu sopraffina.
Minosse ebbe sì un regno fiorente, ma nell’amata moglie Pasifae
lentamente proruppe un qual certo pruritino per quel bianco toro, tanto che
la regina si concesse all’animale. Vizio di famiglia, come la suocera
insomma. Ma stavolta la progenie fu mostruosa: da Pasifae nacque infatti
una creatura dalla testa taurina e dal corpo umano, il Minotauro, che si
cibava soltanto di esseri umani vivi.
Con la pratica strafottenza tipica del segno, Minosse non si scompose
alquanto; decise che gli ateniesi, su cui aveva riportato un’importante
vittoria, avrebbero provveduto a donare ogni anno, come prezzo della
sconfitta, dodici fanciulli e dodici fanciulle da dare in pasto al mostro;
mostro che fu rinchiuso nel labirinto appositamente costruito nel palazzo
reale. Tutto a posto. “Massimo rendimento col minimo sforzo”, la solita
snervante filosofia del segno del Toro. E bisogna dire che per un po’ la cosa
funzionò, mentre il regno di Minosse proseguiva fiorente.
Ma il filo del ragionamento prima o poi abbatte ogni recinto. Teseo infatti,
figlio del re d’Atene, stanco del supplizio subito dalla sua città, decise di
recarsi a Creta per uccidere il Minotauro. E chi s’innamora di Teseo?
Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, la quale ebbe un’idea geniale: un filo!
Un semplice filo. Teseo ne portò con sé un estremo nel labirinto e Arianna
tenne l’altro fuori. Così il giovane uccise il Minotauro e, seguendo il filo,
riuscì a ritrovare la via d’uscita. I due innamorati allora fuggirono insieme e
da quel momento il regno di Minosse cominciò il suo inesorabile declino.
Da Europa ad Arianna, da Zeus a Teseo, passando per Pasifae, Minosse e
il Minotauro, la morale della “favoletta” mi pare eloquente. Ogni elemento
terreno, per quanto figlio del divino, deve rispettare sempre quel
sovraterreno da cui deriva; altrimenti una basica materialità, seppur
apparentemente florida, finisce per trasformare l’individuo in un mostro
antropofago recluso in un labirinto. Il Minotauro è pertanto il simbolo che
rappresenta e racchiude, in chiave distruttiva, l’elemento “orale” e quello
“perimetrale”.
A onor del vero il corso degli eventi non finisce qui.
Anche Teseo, infatti, eroe dalle mille imprese, verrà schiacciato
dall’ottusità taurina. La storia è bellissima e chi vorrà approfondirla non ne
resterà deluso. Tuttavia qui sono costretto a ridurla all’osso: Teseo
abbandona Arianna prima ancora di arrivare ad Atene, sposa Melanippe,
da cui ebbe un figlio, Ippolito; diviene re, ma resta vedovo, quindi in
seconde nozze sposa Fedra, sorella di Arianna, un matrimonio di
convenienza ordito da Minosse e dallo stesso Teseo. Ma Fedra è di ben altra
pasta rispetto alla sorella, presto infatti si incapriccerà di Ippolito e, vistasi
malamente rifiutata, per vendicarsi accusa il figliastro di averla sedotta.
Teseo le crede (perché Fedra dovrebbe mentire?) e chiede a Poseidone di
punire il figlio. Il dio accoglie la richiesta e ancora una volta farà emergere
dalle onde un toro bianco, il quale ucciderà Ippolito, non prima però di far
comprendere a Teseo che il figlio era innocente. Lo strazio è infinito. Teseo
presto morirà e così terminerà il suo regno.
Labirinti familiari, labirinti della mente, promesse disattese,
perseguimento ottuso di un ragionamento basico, inchiodato al materiale,
privo di qualunque astrazione e pertanto di autentica libertà.
Se Teseo fosse ricorso ancora una volta al filo, sarebbe uscito salvo da un
altro labirinto. Ma l’idea del filo fu di Arianna, non sua. Probabilmente
Teseo aveva forza per le sue imprese, non il buon senso e la fantasia per
pensare a un sottile, semplicissimo filo. Forse è sempre così. Dal di dentro
nessuno di noi è in grado di trovare da solo l’uscita; ci vuole l’aiuto saggio e
amorevole di qualcuno che da fuori regga il cordoncino di eventi che
sembrano schiaccianti e prioritari, quando invece la via d’uscita è lì che ci
aspetta. Forse la vera eroina di tutta questa storia fu Arianna, che gli dèi
raccolsero dove era stata abbandonata da Teseo e innalzarono ai massimi
onori del cielo. Forse il Toro dovrebbe ascoltare il suo lato venusiano. Ma il
Toro sabotante purtroppo è chiuso in mastodontiche certezze. Speriamo che
il solletico di questi forse stuzzichi in lui quel sano appetito di vita per cui è
celebre nello Zodiaco.
GEMELLI

Se l’Ariete è il bambino dello Zodiaco, il Gemelli è il ragazzino. Una sorta


di adolescente apparentemente spensierato che della giovinezza spera di
poter succhiare soltanto il nettare benevolo, quando invece, suo malgrado, il
Gemelli incarna il lacerante conflitto specifico dell’adolescenza:
l’ineluttabile scontro con la realtà.
Un conflitto la cui posta in gioco è altissima poiché, annessa e connessa, vi
è la pressante responsabilità di elaborare la propria personalità e di
diventare se stessi. Per essere più specifici, il celebre psicanalista Erik
Erikson, ovviamente Gemelli, individua nel superamento della tensione fra
«identità e diffusione dell’identità» la sfida più ardua dell’adolescenza. Nel
nostro caso la medesima definizione «superamento della tensione fra
identità e diffusione dell’identità»21 potrebbe esser l’esatta definizione della
sfida esistenziale di ogni Gemelli. Andando quindi ben oltre una singola fase
della vita.
Ma come ogni autentica sfida anche questa necessita della consapevolezza
di affrontarla, nonché di un pizzico, almeno un pizzico di introspezione.
Responsabilità? Consapevolezza? Introspezione? Per il Gemelli sabotatore
sono parole da escludere da ogni vocabolario. I problemi esistono per
eluderli. È questo il primo comandamento, la regola somma (sacra per ogni
esponente del segno, figuriamoci per l’esemplare sabotante). Tuttavia se non
ti assumi la responsabilità di diventare te stesso, non avrai una tua propria
identità e il superamento di cui sopra non avverrà mai.
Dopo una premessa tanto articolata, eccoci insomma dinanzi a un
sabotaggio dal movente poco sofisticato. Abbiamo a che fare infatti con un
soggetto che semplicemente non vuole diventare adulto. Tutto qui.
Attenzione, nulla a che vedere con l’eterno figlio Cancro, né con l’infantile,
entusiastica dittatura arietina. Qui siamo dinanzi a un puer che vuol fare
quello che gli pare, quando gli pare, nel modo più adolescenziale possibile.
In questo senso il Gemelli, da buon segno della comunicazione e del vivere
sociale, ci riporta a una problematica tipica dei nostri giorni, ovvero quella
degli eterni adolescenti. “I ragazzi”, così una mia gemellissima conoscente
definisce orgogliosa la sua cerchia di amicizie, ovvero un gruppo di ultra
cinquantenni pluridivorziati. Eloquente. Da una parte abbiamo così gli
autentici adolescenti, per età, ormoni, problematiche, sensibilità e fragilità,
dall’altra degli adulti che preferiscono rendersi ridicoli mixando
l’andropausa o la menopausa a una raccapricciante pubertà. Tuttavia qui si
rischia di divagare, facendo così il gioco del Gemelli sabotante. Meglio
quindi restringere il campo all’analisi della sfera prettamente sentimentale.
«L’amore ti mette le ali per segarti le gambe, perciò alla fine si rivela un
bidone»,22 afferma la gemellina scrittrice Fred Vargas. Più che legittimo. Il
punto è che ci sono esponenti del segno che indossano questo principio con
intelligenza e coerenza, costruendoci sopra una vita affettiva spesso più
appagante e stabile di quanto si possa supporre; altri invece non ci riescono
perché deficitari forse dell’acume e dell’onestà intellettuale necessari per un
tale stile di vita.
Proprio fra questi pullulano i Gemelli sabotatori, che tanto lamentano la
sfortuna della loro vita privata. Ma il “privato” di questi soggetti in concreto
è per lo più inesistente, caratterizzato da teatrini sentimentali in stile
commedia dell’equivoco con cui credono di poter prendere in giro se stessi e
gli altri. Soprattutto gli altri. Perché per ogni Gemelli gli altri sono la misura
delle realtà e il consenso degli altri è direttamente proporzionale al consenso
di sé.
Di conseguenza tanto più il soggetto in questione sarà immaturo, quanto
più il suo adolescenziale stile di vita sarà proiettato ed esasperato nel sociale.
Per dirla in chiave psicanalitica alla maniera di Erikson, identità e diffusione
dell’identità resteranno irrisolte. Non a caso un Gemelli di tal fatta lo
ritroviamo moltiplicarsi sui social, poiché per lui il virtuale nulla toglie al
reale, anzi la vita reale è tale solo se viene veicolata attraverso il virtuale.
Telefono, tablet, non sono più dunque semplici strumenti, ma protesi di
sé. Estensioni (o proiezioni) del proprio ego, se non addirittura l’autentica
memoria di questo tipo di gemellare personalità. Soltanto la verità non
verrà mai verbalizzata o espressa in alcun modo. Perché semplicemente non
c’è. Volatilizzata nel momento in cui affiora. D’altronde nasconderla
implicherebbe una seppur minima presa di coscienza che necessariamente
presupporrebbe un briciolo di responsabilità. Quindi niente, via come l’aria
fritta!
Se il movente fin qui esposto non brilla per originalità, bisogna tuttavia
riconoscere a certi Gemelli delle modalità di sabotaggio a dir poco
sorprendenti.
Innanzitutto per la maestria delle acrobazie fisiche e di conseguenza
verbali di cui sono capaci. Questo tipo di soggetti ha infatti il dono
dell’ubiquità. Incredibile ma vero. Possono essere ovunque, e in ogni dove
negheranno. La bugia d’altronde è un’arte ricamata con esperienza e
talento innato. Anzi, come ribadisco spesso, in questo caso non si tratta di
volgare menzogna, perché con l’ingenuo credo della sua stagionata pubertà
il nostro sabotatore incarna la balla, la fa sua, rendendola viva e autentica.
Ed ecco che certi lacrimevoli discorsi del Gemelli sabotatore riguardo la
propria disastrosa situazione sentimentale suonano come l’avvincente
arringa di un avvocato difensore che, dinanzi la corte, chiede alla giuria
assoluzione per sé, mentre il cliente può anche andare al patibolo.
Ovviamente più il sabotatore sarà intellettualmente dotato e più ne verrà
fuori uno spettacolo suggestivo, di un certo pregio; ma quando purtroppo si
tratta di un azzeccagarbugli qualunque, il sabotaggio risulterà patetico,
grossolano e ricco di evidenti contraddizioni (evidenti a tutti fuorché al
Gemelli).
Fin qui abbiamo appurato movente e modalità del caso; resta però un
ultimo tassello da collocare al suo posto: in cosa consiste in sé e per sé
l’azione sabotante del Gemelli.
Anche qui, mi dispiace, niente fantascientifiche evoluzioni, semmai il
fatterello più vecchio del mondo: le corna. Non appena infatti il nostro
Gemelli avverte la solidità della relazione, con tutto il peso specifico dei vari
annessi e connessi, scatta in automatico l’infatuazione per qualcun altro.
Beninteso però, nulla a che vedere con le volubili bramosie di un carattere
passionale. Qui abbiamo a che fare con lo svolazzante gioco dei flirt. Perché
il Gemelli questo fa, flirta sempre. All’altare o fra le lenzuola, a un funerale
o alle poste. Qualunque rapporto nella sua mente resta sempre e comunque
un flirt. Per definizione leggero e disimpegnato. Cosicché il Gemelli ne può
avere vari contemporaneamente senza dover renderne conto a nessuno. A
tal proposito è il caso di aprire una parentesi sfiziosa: se il Gemelli in genere
tende ad assumere l’atteggiamento di chi si è fatto da sé e deve poco o
niente agli altri, il sabotante disconosce del tutto i suoi debiti, sia materiali
che morali. Infatti disconosce l’autentica gratitudine. Prende e vola via.
Peccato che poi si schianta al suolo.
E lì comincia il lamento vittimistico con amici e parenti, se non addirittura
con gli ex. Un lamento che può risultare fra i più pesanti e insopportabili
dello Zodiaco. Oh che vita sentimentale sfortunata! La sfortuna. La
maledetta sfortuna che perseguita il povero Gemelli sabotatore! Come dargli
torto, da eterno giocatore solo di sfortuna sa parlare. D’altronde la dea
bendata è un ottimo alibi, decisamente deresponsabilizzante. Ma se sul
tavolo verde della vita si è di certo più o meno fortunati nella distribuzione
delle carte, sul come giocarle è responsabilità di ognuno di noi.
Insomma nel caso del Gemelli sabotante abbiamo a che fare con una
leggerezza che, priva dell’identità e della consapevolezza necessaria per
essere autentica leggerezza, decade in banale, nevrotica, inconcludente
superficialità; pur tuttavia la medesima superficialità nasconde meccanismi
complessi che purtroppo non le consentono di essere beatamente svampita.
Una roba contorta, lo so, come d’altronde contorti sono molti Gemelli.
Ricordiamoci infatti che si tratta di un segno estremamente cerebrale.
A questo punto però è doveroso affrontare un altro tipo di Gemelli
sabotante. O meglio una variante, poiché la matrice psicologica è la stessa;
soltanto più sensibile e inevitabilmente drammatica. Partendo dal medesimo
presupposto adolescenziale, che con tutte le sue contraddizioni è la
caratteristica del segno, in questo secondo caso risulta determinante la
necessità di ottenere un consenso sociale; pesa maggiormente quella parte
del Gemelli che ha bisogno di piacere agli altri. Perché gli altri sono il
mondo e soltanto nel mondo si vive. Per cui al mondo bisogna piacere per
essere accettati.
«Le peggiori mancanze le ho fatte a me stessa quando ho permesso che mi
facessero sentire sbagliata solo perché non ero “giusta” per loro» è una frase
attribuita a Marylin Monroe, Gemelli. Impossibile riassumere qui la
drammatica esistenza della diva, drammatica fin dalla sua primissima
infanzia, ma sono convinto che chiunque voglia cogliere il senso della
personalità di certi Gemelli dovrebbe conoscere la vita di questa donna, nel
corso della quale ritrovo sintetizzate ed esasperate tutte le caratteristiche
dell’arguto, sensibile, vulnerabile adolescente dello Zodiaco.
Nella duplicità e nel tragico conflitto fra la mora Norma Jeane, vero nome
dell’attrice, e la bionda Marylin vi è tutta l’intensità del segno. La sorridente
bionda svampita infatti era tutto fuorché bionda, sorridente e svampita. Sul
suo diario scrive: «Il personaggio di Marylin è una sorta di mostro, di
Frankenstein. L’ho creato e ora sono costretta a interpretarlo ed è strano
essere vittima della propria creazione».23
Marylin fu amata, ammirata, desiderata. Norma, no. Probabilmente fu
questo il motivo che spinse a trentasei anni l’attrice al suicidio; o forse,
nell’ipotesi a mio avviso plausibile che sia stata uccisa in conseguenza di fatti
derivanti dalla relazione col presidente Kennedy, a segnarne la fine fu
l’adolescenziale inconsapevolezza di quanto il potere sa essere spietato.
Equilibrio fra identità e diffusione dell’identità, torniamo al punto di
partenza. Se un Gemelli riesce a gestire, con fatica certo, questo suo
meccanismo, allora ogni sabotaggio verrà disinnescato. Sia che provenga da
se stesso o dal mondo esterno. Che ogni Gemelli allora incarni pure la
meravigliosa adolescenza che rappresenta nello Zodiaco, assumendosene
però la responsabilità della consapevolezza. Così da mantenere gli slanci e
la curiosità di un ragazzo uniti all’esperienza di un uomo e, anche se avanti
negli anni, poter affermare: «So bene ciò che non voglio essere, ma devo
ancora scoprire cosa voglio diventare»24 come scrive il Gemelli premio
Nobel Orhan Pamuk.

IG G
Il mito corrispondente al segno dei Gemelli è inequivocabilmente quello dei
Dioscuri, ovvero Castore e Polluce, due celebri gemelli della mitologia.
Analizzando bene la parentela però, i due non sono proprio gemelli, lo
sono quasi, anzi a guardar meglio non sono nemmeno del tutto fratelli. Ed
ecco che già nella premessa le certezze diventano quasi certezze e i legami
quasi legami, consegnandoci un quid tipico del terzo segno dello Zodiaco. Si
narra che Leda, regina di Sparta e sposa felice di Tindaro, un giorno si
ritrovò attratta da un possente, immacolato cigno. Una fascinazione
incontenibile e per nulla platonica, tanto che Leda, dimentica di ogni regale
protocollo o seppur minimo freno inibitore, decise di concedersi seduta
stante al grosso pennuto. Una pazza? A sua discolpa va detto che dietro
quelle mentite spoglie si celava addirittura Zeus, il quale, quando si
incapricciava di qualcuno, era solito assumere le sembianze di un fantastico
animale e, agguantata la preda, svelava la sua identità soltanto prima di
consumare il fattaccio.
Resta però inspiegato in questo caso perché proprio il cigno; forse Zeus,
che tutto sapeva, era a conoscenza delle inclinazioni della regina per i
possenti, candidi pennuti? Chissà.
Pur nondimeno, da quel fugace e volatile amplesso, Leda rimase incinta.
Di Castore e Polluce, direte voi. Sì e no. Sarebbe troppo semplice e la
faccenda non mai è così semplice quando si ha a che fare col segno del
Gemelli. Leda infatti, che doveva essere di robusto appetito erotico, una
volta rientrata a casa, si abbandonò a un secondo amplesso col marito e
anche stavolta rimase incinta.
Com’è possibile, vi chiederete? Eh, con i Gemelli tutto è possibile!
Il mito racconta difatti che Leda portò avanti una duplice gravidanza, alla
fine della quale nacquero, non due, ma addirittura quattro gemelli, per
l’esattezza due immortali, figli di Zeus, e due mortali, figli di Tindaro:
rispettivamente Castore e Clitennestra, Elena e Polluce. Una gemellare
portentosa quaterna. O un doppio miracoloso ambo, fate voi.
A questo punto vi devo confessare che, a proposito del mito dei Dioscuri,
non ho mai capito perché poco o nulla vien riferito delle due sorelle,
quando non solo sono parte integrante del mito stesso, ma addirittura sua
rappresentazione femminile; inoltre le due fanciulle sono personaggi chiave
del gossip mitologico, ben più di Castore e Polluce, pertanto non si può
certo eludere la loro storia.
Clitennestra infatti, è nientemeno che la moglie dello spartano
Agamennone, re dell’Argolide ed eroe nella guerra contro Troia. Donna
seducente e drammatica, nel mito incarna il rancore e l’inganno. Al marito
infatti non perdona di aver sacrificato la loro unica figlia agli dèi pur di
sconfiggere i troiani; e quando costui torna vincitore a Sparta, lo accoglie
con un machiavellico discorso, così messo in scena da Eschilo:
Ma ora, mio caro, scendi da questo carro, senza posare a terra il tuo piede che ha
distrutto Troia. E voi ancelle, cui è stato assegnato il compito di coprire di drappi il
suolo su cui deve camminare, che aspettate? Subito si prepari un cammino coperto
di porpora, perché Giustizia lo conduca alla sua casa che non sperava più di
rivedere: il resto lo sistemerà una cura più invincibile del sonno, con l’aiuto divino,
come voluto dal Fato.25
Ah, la dialettica dei Gemelli!
Poco dopo nel palazzo risuonerà l’urlo di Agamennone colpito a morte.
Ucciso di sua mano lo sposo, Clitennestra quindi aggiungerà: «Delle molte
parole che prima per convenienza ho pronunciato, non mi vergognerò di
dire ora l’opposto: come si potrebbe altrimenti, nel preparare insidie a un
nemico che ha volto d’amico?».26 Mercuriale istrionismo tipico del segno. E
vi è dell’altro nella vicenda di Clitennestra: un primo marito finito non
meno tragicamente e un figliastro che la ucciderà. Impossibile però
approfondire (i Gemelli detestano questo verbo!), anche perché le vicende
della semidivina Elena non sono meno clamorose. Si tratta infatti, se ancora
non vi fosse sorto il sospetto, della celeberrima Elena di Troia. Ebbene sì.
Uno dei personaggi più eclatanti di tutta la mitologia. Bellissima, anzi “la
più bella donna del mondo”, ambita da tutti, leggiadra e incendiaria, tanto
da scatenare una guerra, e che guerra!
Elena infatti fu chiesta in sposa da moltissimi principi greci ma il prescelto
fu Menelao, re di Sparta e fratello di Agamennone. (Già, due sorelle
sposarono due fratelli. Che vi aspettavate? Quando si ha a che fare col
segno dei Gemelli la singola unità non esiste). Ma il bellissimo Paride, figlio
del re di Troia, la volle per sé ed Elena, vittima innocente della propria
bellezza, si lasciò sedurre, tanto da fuggire a Troia.
E con la sua fuga d’amore, la bella Elena scatenò niente di meno che la
famosissima e sanguinosa guerra fra gli achei e i troiani. Va ricordato però
un altro fatto, antecedente e di non poco peso nella vicenda, ovvero
l’altrettanto famosa mela d’oro lanciata da Eris, dea della discordia, a Era,
Afrodite e Atena, al motto di: «Per la più bella».
Ne scaturì un lieve alterco in conseguenza del quale le tre dee giunsero a
prendersi per i capelli e, per porre fine all’incresciosa contesa, Zeus decise
che ad assegnare la mela d’oro sarebbe stato il mortale Paride.
Esposta quindi la questione al ragazzo, ognuna delle dee promise al
giovane un dono e Afrodite gli garantì in moglie la donna più bella del
mondo, Elena. Paride allora, giudice per nulla corruttibile, assegnò il pomo
alla dea dell’amore. Insomma Elena poverina è innocente, in balia degli
eventi, portata da un vento più forte di lei, forse un tantino sprovveduta,
leggera magari. Comunque un giglio! Vi ricorda qualcuno?
La guerra si concluse con la totale distruzione di Troia e il ritorno di Elena
a Sparta dal marito Menelao. Non dimentichiamoci però che Sparta
conseguì tale vittoria grazie ad Agamennone, il quale accettò di immolare la
figlia agli dèi e poi morì ucciso da Clitennestra, a sua volta sgozzata dal
figliastro. Insomma, una strage!
A questo punto spero vi sia chiaro quanto risulti imprescindibile il ruolo
giocato dalle due sorelline e la necessità di raccontare le loro gesta a
proposito del segno dei Gemelli. Tuttavia in questa costante partita doppia
sono Castore e Polluce a risultare i più gettonati corrispondenti mitologici
del segno e un motivo c’è: vissero infatti inseparabili finché Castore non
morì in duello combattendo al fianco del fratello contro altri due gemelli.
Allora Polluce, straziato, implorò il padre Zeus di riportare in vita il mortale
quasi-gemello. Zeus ebbe pietà e acconsentì, a condizione però che i due
vivessero sei mesi sulla terra e sei mesi sull’Olimpo. Qui e là. Diciamo che la
storia è più sintetica, a lieto fine e pertanto si presta meglio a spazzare sotto
il tappeto le nefandezze del segno. Ma è proprio sotto il tappeto che bisogna
sbirciare per scoprire le tracce di un sabotaggio.
Nel caso dei Gemelli poi, il tutto è fatto sotto il naso, con l’aria sbarazzina
di una marachella o una truffa innocente. A tal proposito c’è un altro mito,
stavolta di matrice biblica, che racconta di due fratelli, Esaù e Giacobbe,
figli di Isacco e Rebecca. I due erano molto diversi: Esaù, il maggiore, era
d’aspetto virile, dedito alla lotta e alla caccia e già ammogliato – insomma,
per i tempi rappresentava il simbolo dell’uomo maturo e responsabile;
Giacobbe invece era l’opposto, del tutto imberbe anche se adulto, una sorta
di eterno fanciullo, cresciuto senza allontanarsi dal villaggio, sempre vicino
alla madre e alle altre donne. Per questo proprio Giacobbe divenne il
prediletto di Rebecca, la quale escogitò un piano affinché fosse lui, il
secondogenito, a diventare erede dei beni paterni.
Fin qui si potrebbe pensare che la storia sia quasi più pertinente al segno
del Cancro e al suo eterno complesso di Edipo, ma il movente del
sabotaggio cancerino è quello di restare figlio a vita per non essere adulto,
nel caso di Giacobbe c’è una sostanziale differenza: si tratta del raggiro di
un fanciullo verso il fratello maggiore (in cui si può leggere, in chiave
simbolica, la parte adulta di sé) perpetrato senza esserne nemmeno il diretto
artefice; subendo in un certo senso, come Elena.
Quando infatti il vecchio Isacco, ormai cieco, decise che era giunto il
momento di benedire Esaù e, come costume dei tempi, con la benedizione
affidargli i beni e la responsabilità della famiglia, Rebecca si rivolse a
Giacobbe e gli disse:
Ora, figlio mio, obbedisci al mio ordine: Va’ subito al gregge e prendimi di là due
bei capretti; io ne farò un piatto per tuo padre, secondo il suo gusto. Così tu lo
porterai a lui che ne mangerà, perché ti benedica prima della sua morte.27

E Giacobbe rispose: «Sai che mio fratello è peloso, mentre io ho la pelle


liscia. Forse mio padre toccandomi si accorgerà che mi prendo gioco di lui e
attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione». Rebecca
di contro: «Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu obbedisci
soltanto e vammi a prendere i capretti».28
Certi Gemelli guarda caso hanno sempre un parafulmine: persino
l’eventuale maledizione viene delegata!
Giacobbe comunque fece quello che gli aveva detto la madre. Questa
preparò il piatto preferito di Isacco, prese i vestiti migliori di Esaù, li diede al
figlio prediletto e «con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e le parti lisce
del collo».29 Al momento della benedizione Isacco però non riconobbe la
voce del figlio maggiore Esaù, allora con le ultime forze toccò il ragazzo e il
trucco funzionò! Giacobbe ottenne tutto.
Nella Bibbia si racconta anche di un altro raggiro avvenne per mezzo di
un piatto di lenticchie: dopo una battuta di caccia Esaù era talmente stanco
che, tornando a casa, disse scherzando al fratello che gli avrebbe ceduto la
primogenitura per il piatto di lenticchie che l’altro stava mangiando.
Giacobbe accettò e, al momento opportuno, prese lo scherzo molto sul
serio.
In entrambe le versioni comunque Giacobbe preferì fuggire dal villaggio
per paura che Esaù potesse vendicarsi. Insomma l’attempato fanciullo non
si assunse mai né le sue responsabilità, né tantomeno la conseguenza delle
sue azioni. Ma il volere divino ha disegni ben diversi per lui.
Dal momento della fuga difatti cominciano per Giacobbe anni difficili in
cui, suo malgrado, sarà costretto a temprarsi, così da affrontare e
raggiungere finalmente quella maturità sempre evitata.
Il rito iniziatico, che era riuscito a evitare in gioventù dandosi alla fuga, fu
consumato dopo vent’anni, quando l’angelo lo assale, proprio all’entrata della
Palestina, mentre stava per tornare a casa, sulla soglia della Terra Promessa.30
Scrive Iakov Levi. A Giacobbe l’angelo cambierà anche il nome (Gn 32:23-
33). Da quel momento infatti si chiamerà Israele. Sarà quindi il maturo
Giacobbe, ovvero Israele, a ricongiungersi al fratello Esaù, una volta tornato
a casa. Un altro nome. Un’altra identità. Per volere divino e in meglio, ma
resta pur sempre un gemellissimo finale!
Nella carrellata dei personaggi fin qui elencati torna sempre la non
accettazione della maturità e, di conseguenza, il rifiuto del sacrificio e delle
responsabilità. Dal cigno alla mela d’oro, dalla fuitina alla rapina in costume,
le conseguenze della leggerezza del segno si fanno gravi. Persino Clitennestra,
secondo la logica dei tempi, dinanzi una guerra atroce non ha il diritto di
sottrarsi, da regina e donna matura, al sacrificio della figlia per volere degli
dèi.
Nel mondo degli adulti ci sono oneri da rispettare. Per disinnescare questo
sabotaggio pertanto bisogna trasformasi nella versione più matura di sé: si
può aspettare l’angelo, oppure metterci un pizzico di buona volontà e
riunire le due simboliche metà dell’indole gemellina. La vita e il mito
insegnano che talvolta ci si può perfino sdoppiare, mantenendo la propria
integrità e quel pizzico di sana e divina leggerezza.
CANCRO

Sipario! Qui ci troviamo spettatori di una sorta di psicodramma di natura


apparentemente emotiva. E sottolineo apparentemente, un avverbio che
tornerà spesso nel corso della lettura.
Coloro i quali posseggono nella propria mappa astrale una massiccia dose
di cancerino, che sia palese nel segno solare oppure annidato altrove in
più celati aspetti, sono soggetti comunque vocati alla quotidiana
rappresentazione del proprio universo emozionale. In un modo particolare
però: esplicito, ma indiretto, plateale e al tempo stesso intimo, “riservato” e
passivo.
Detto così sembra quasi interessante, lasciando presagire una qual certa
sofisticata espressività creativa. E quella senz’altro non manca. Peccato però
che qui parliamo di sabotatori e con loro il talento va sprecato. Ecco che la
pièce, apparentemente densa di drammatici significati, in realtà si rivela tanto
inconcludente quanto lagnosa. I toni sono piatti, estesi fra il sentimentale, il
piagnucoloso e l’isterico esistenziale, e la trama quasi mai avvincente. I più
talentuosi esponenti del segno si adoperano per vivacizzare il polpettone
aggiungendo rocambolesche vicende in varie puntate, ma il succo resta
identico, estenuante e ripetitivo. Al centro del drammone infatti c’è soltanto
il Cancro, ciò per cui soffre, ciò per cui piange, ciò a cui aspira, i suoi sogni,
i suoi traumi e le sue ferite. Il tutto pervaso da una costante e tracimante
sindrome d’abbandono, che tutto allaga e di cui tutti devono farsi argini e
colpevoli. Insomma una lagna infinita. Devastante per sé e per gli altri.
Ma come mai allora ci cascano in tanti? Com’è possibile che il Cancro sia
uno dei sabotatori dello Zodiaco più difficili da sgamare? Perché nonostante
tutto l’interpretazione è convincente e tocca corde “facili”, mentre il
palcoscenico è apparentemente popolato da innumerevoli fatti, emozioni e
persone. Ma è tutto un trucco. Si tratta soltanto di proiezioni. A ben
guardare il palco è clamorosamente vuoto (nel suo immane egocentrismo il
Cancro mai lascerebbe ad altri la scena e le emozioni altrui sono funzionali
solo al sabotaggio). Si tratta quindi in sostanza di una forma ipertrofica di
egocentrismo emotivo? È tutta qui la verità? Acuendo ancor più lo sguardo
lo spettatore attento potrà scorgere qualcos’altro. In penombra, alle spalle
del protagonista, si erge una figura dalle proporzioni mastodontiche e dai
contorni indistinti: la mamma! Et voilà, lo psicodramma si rivela una vecchia
farsa.
Tanti pipponi e poi? Sotto sotto soltanto la ferrea volontà (qualità tipica
del Cancro) di non recidere il cordone ombelicale. Restare figlio a vita,
questo vuole il Cancro. E questo è l’unico movente di tutta la messa in
scena. Pertanto chiunque decida di frapporsi fra questo tipo di sabotatore e
il suo amniotico progetto verrà fatto fuori. Non subito però, non così
repentinamente da sortire sospetti. La vittima prescelta (la vera vittima e
non quella subdolamente interpretata dal Cancro) verrà prima intenerita,
poi impietosita, quindi lentamente avviluppata da un filo sottile, quasi
invisibile, secreto da misteriose ghiandole sentimentali e manipolatorie. A
questo punto, una volta immobilizzata, la poveretta verrà, prima
prosciugata della propria linfa vitale e poi, esanime, scaricata. Attenti però,
il Cancro non lascia mai! Affetto com’è da sindrome d’abbandono non è
capace di un atto così risolutivo – e rivelatore – ed ecco che la raffinatezza
del sabotaggio consiste nel farsi lasciare. Per tornare da Mamma?
Apparentemente. In realtà per non schiodarsi da quella condizione di figlio che
una vera e autentica relazione scardinerebbe. Sperate forse di poter far
capire tutto ciò a qualcuno di tal fatta? Lasciate ogni speranza o voi che
entrate.
Il più raffinato sabotaggio cancerino avviene inoltre lontano dalla
mamma, così da rendere invisibile la figura che svelerebbe il movente, e al
tempo stesso l’alibi, di tanta immobilità. Alibi, sì, perché, meglio ribadirlo, il
fine ultimo del Cancro sabotatore non è star vicino a mammina sempre e
comunque, amando (o odiando, dipende dai casi) a oltranza la figura
materna; dietro questo legame si cela qualcosa di assai più opportunistico,
ovvero la ferrea volontà di restare figlio. E qual è il modo migliore per
restare figlio? Non diventare genitore. Non avere figli. L’argomento è tosto,
ma inutile girarci in tondo. Quante donne cancro, affettuose e tenere col
mondo, empatiche e di sincera commozione verso chiunque, si rivelano
madri decisamente parsimoniose in tenerezze, per non dire fredde e
anaffettive. Così altrettanti padri, orsacchiotti con tutti fuorché coi figli. Un
caso eloquente è il Cancro Jean Jacques Rousseau, che tanto scrisse
sull’educazione del bambino, affermando fra l’altro «l’infanzia ha le sue
proprie maniere di vedere, pensare e sentire; nulla è più insensato che
pretendere di sostituirle con le nostre»,31 ma che tuttavia abbandonò
puntualmente i suoi cinque figli in orfanotrofio perché lui, sosteneva il
filosofo, non avrebbe avuto la possibilità di mantenerli.
Il punto è che un figlio ti pone necessariamente nella condizione di essere
innanzitutto genitore (o almeno così dovrebbe essere). Nessun Cancro
gradisce molto il fatto, il sabotatore lo aborre. Quelli più coerenti hanno
almeno l’accortezza di spingere il sabotaggio proprio nella direzione della
non procreazione; altri invece resteranno sempre prima figli e poi, forse,
genitori.
A parziale discolpa di ogni Cancro, sabotante e non, tuttavia va detto che
dietro ogni esponente del segno si cela sempre una madre nel migliore dei
casi dominante, nel peggiore antropofaga. La madre del Cancro
Giacomo Leopardi ne è un esempio. La religiosissima nobildonna Adelaide
Attici infatti non fu prodiga di dolcezza verso i figli, ma non solo. Fra le altre
sue amabili e materne caratteristiche, il poeta in una nota pagina dello
Zibaldone annovera: «Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e
vedendo i suoi figli brutti e deformi ne ringraziava Iddio, non per eroismo
ma di tutta voglia».32 Non sarà stato semplice per un ragazzo già segnato
dalla malattia dover accettare anche questo. Leopardi tuttavia, nonostante
l’esistenza non facile, portò a compimento il suo percorso esistenziale. Si
diede al massimo. Qualcuno obietterà che tentò il suicidio; tuttavia chi
conosce la vita del poeta sa che si trattò del tentativo di compiere un
consapevole atto risolutivo, non un sabotaggio. Il Cancro sabotatore infatti
non si uccide, non prende una decisione tanto conclusiva, semmai fa di tutto
per non vedere – e non far vedere – la realtà.
Edipo, il cui mito corrisponde a questo segno, una volta appreso che la
donna di cui è innamorato e sposo in realtà è sua madre, si acceca con la di
lei spilla. E vaga. Punto. Perché il Cancro sabotatore questo fa: vaga cieco in
preda a sentimenti di cui non vuol conoscere l’origine e la natura. Non sa
rescindere legami e non giunge alla maturità di “lasciare” perché non vuol
prendere coscienza dei fatti. Forse per l’infantile costante terrore di essere
“abbandonato” o forse perché la realtà è amara da accettare. Comunque sia
il risultato non cambia.
A questo punto non bisogna essere certo navigati psicanalisti per dedurre
che un soggetto simile non ambisce a una concreta emancipazione, né
tantomeno chiede per sé autentica indipendenza. Questo tipo di sabotatore
infatti presenta sempre uno stile di vita in cui permangono abitudini e
meccanismi propri della condizione di figlio. Soprattutto da un punto di
vista economico. Conosco personalmente numerosi soggetti Cancro che,
nonostante un reddito cospicuo e un’età avanzata, dipendono in qualche
contorto modo dalla madre. Ovviamente deve trattarsi di madri che
traggono gaudio da una simile situazione e che per prime non desiderano
una reale emancipazione dei figli. Torniamo quindi al punto di prima:
dietro ogni Cancro che si rispetti, sabotante e non, c’è sempre una madre
direi pesantuccia. Aggiungerei un tassello però, una specifica particolarità: si
tratta sempre di un tipo di madre che, pur non brillando per vocazione, per
nulla al mondo vorrà smettere di esercitare il suo potere materno. La stessa
Adelaide Attici, fredda, distaccata e rigida, tuttavia mai si sottrasse al ruolo
di madre. A lei bisognava chiedere il denaro per qualunque necessità e
sempre lei esaminava minuziosamente tutta la corrispondenza dei figli,
finché visse. Un angelo del focolare.
Ma in tutto ciò la figura paterna dov’è? Nelle abbozzate vicende familiari
dell’eterno figlio Cancro, il padre esiste? Tutti pensano immediatamente che
in questi casi abbiamo a che fare con padri assenti, deboli o comunque
schiacciati da donne titaniche. Purtroppo questa è solo una possibilità.
Un’altra è che si tratti di uomini altrettanto forti, le cui mogli rappresentano
un incastro perfetto. Oppure ancora, e forse la più frequente, si tratta
semplicemente di padri a cui fa comodo una donna così. In ogni caso si
tratterà comunque di matrimoni apparentemente infelici dove uno dei due
soffrirà pene indicibili. (La vita invece insegna che si tratta di coppie
indissolubili). Forse è proprio in circostanze simili che il Cancro sabotatore
elabora la propria confusione fra il ruolo di vittima e quella di carnefice.
Confusione che, da un punto di vista astrologico, gli si addice non poco!
Soltanto il desiderio, non la volontà, il puro desiderio di essere prima
individuo e dopo figlio può disinnescare il sabotaggio di un Cancro. Se ciò
finalmente accade – e non c’è persona alcuna che può far scattare questo
desiderio se non il Cancro stesso, da sé e per sé – a quel punto, piano piano,
la scena si andrà illuminando e il Cancro vedrà con occhi diversi ciò che
apparentemente sembrava insormontabile. Quella madre o quel padre saranno
finalmente persone, umane, con i loro errori, i loro pregi, le loro miserie, più
o meno sensibili e più o meno capaci di reagire ai fatti della vita. Se hanno
sbagliato, sabotare se stessi né li salva, né li condanna. Il desiderio del
Cancro diventa allora desiderio di vita e non di pietistica e masochistica
vendetta. Ed ecco finalmente affiorare nitido un elemento, fin dall’inizio fra
le righe e determinante in tutta la vicenda: il masochismo. Se non fosse un
masochista il Cancro sabotatore non godrebbe nel ruolo di vittima. Non
solo, non riuscirebbe nemmeno a controllare attraverso questo ruolo la
propria vita e quella altrui. Come afferma infatti lo psicanalista Emilio
Servadio:
Il masochista, contrariamente a quanto si crede, non è un individuo che si lascia
maltrattare ad libitum, cioè secondo i desideri e i capricci dell’altra persona. Il
masochista è sempre un regista, un programmatore di situazioni.33

Se il nostro regista vorrà quindi lasciarsi alle spalle lo psicodramma –


peraltro un po’ datato come genere – lo Zodiaco gli garantisce tutta la
volontà e la sensibilità necessaria per farlo. Di volontà e sensibilità infatti il
Cancro ne ha da vendere, tanta da potersi tranquillamente inventare una
vita nuova, la sua. E sul passato finalmente e con serenità poter dire:
«Sipario!».

L L L
In Mesopotamia la costellazione del Cancro era detta Allul che significa
“granchio”, ma talvolta il segno era rappresentato da una tartaruga marina.
In Egitto era uno scarabeo stercorario, simbolo del dio Khepri, che ogni
mattino spinge il dio Ra (il Sole) fuori dall’oltretomba. In Grecia il Cancro
era raffigurato dal granchio, dal gambero e da altri crostacei, ma anche dal
polipo. Il gambero e il granchio rappresentavano l’apparente rallentamento
del Sole quando, giunto al suo culmine nel solstizio d’estate, sembra tornare
indietro, e le giornate cominciano ad accorciarsi; mentre il polipo era il
simbolo della natura allo stato embrionale. Sul piano esoterico la
costellazione del Cancro simboleggia invece una delle Porte Zodiacali:
quella che le anime varcano prima di reincarnarsi. Davanti a questa Porta
esse bevono dalla Coppa dell’Oblio per dimenticare le vite precedenti.
Insomma ce n’è per tutti i gusti. Un ventaglio di cangianti manifestazioni,
così diverse eppure simili, unite infatti da un sottile, e nemmeno tanto, filo
conduttore che ai più maliziosi avrà già dettato certe assonanze col soggetto
in questione.
Tuttavia al segno del Cancro bisogna approcciarsi con la più rigorosa
essenzialità. Al polposo crostaceo sabotatore poi, il palcoscenico va lasciato
del tutto nudo, per evitare quel balugino di rifrazioni a cui il nostro
animaletto, qualunque sia la sua effige, mira per depistarci. Pertanto meglio
attenerci a un’analisi strettamente mitologica, e la mitologia pone in
correlazione con questo segno due miti: Edipo e Selene.
Affrontando già in Io Vergine, tu Pesci? il mito di Edipo, in questa sede ci
risparmieremo le gesta dell’eroe che, ignaro di aver sposato la madre, si
acceca con la spilla di lei e vaga non appena scopre l’accaduto (una
soluzione di cancerina, sconfinata concretezza!), e ci concentreremo invece
sull’altro mito corrispondete al segno: quello di Selene.
Il Cancro infatti è il segno governato, dominato, plasmato, obnubilato, e
chi più ne ha più ne metta, dalla Luna. L’eterea e pallida Luna. Ci si
aspetterebbe allora da parte della mitologia racconti delicati e sognanti.
Quando mai! Riguardo la signora del cielo, il mito narra storie tutt’altro che
romantiche, assai eloquenti, spesso inquietanti, a tratti raccapriccianti.
Proprio come il Cancro.
Comunque sia, giunti fin qui, molti di voi avranno tirato almeno un
sospiro di sollievo, rinfrancati dal fatto che, per una volta, a proposito di
questo segno si eviterà l’argomento “mamma”. Spiacente, ma tocca
deludervi. La Luna, sia per l’astrologia che per la mitologia, rappresenta
nientemeno che la Grande Madre. Eccola là! Non c’è che fare. Gira e rigira,
meglio rassegnarsi: dove c’è Cancro, c’è mamma. Quale però? Sì, perché
adesso la faccenda si complica e non poco.
In virtù della mutevolezza del suo aspetto, la Luna infatti nella tradizione
greco-romana viene identificata non con una, bensì con tre divinità, ognuna
corrispondente a una delle fasi lunari: crescente, piena e nuova. Selene è la
dea che incarna la Luna al massimo del suo splendore. Figlia di Tehia e
Iperione, Titani della luminosità, è simbolo di vita e fertilità, e deriva il suo
nome dal greco sélas (“splendore”) e méne (“misura”).34
Vale la pena ricordare che, prima della riforma imposta da Giulio Cesare
nel secolo a.C., il calendario era regolato sul ciclo lunare e difatti il termine
latino mensis (“mese”) deriva dalla stessa radice méne. Scusate, ma alle
rimembranze il Cancro ci tiene! Così come all’amore.
A tal proposito si narra che Selene si innamorò di un bellissimo e giovane
pastore di nome Endimione, e che ogni notte scendesse a contemplarlo
mentre egli giaceva addormentato. Secondo alcuni l’amore fu platonico, per
altri i due ebbero addirittura cinquanta figli, ma la mitica verità resta
imperscrutabile (come spesso accade col Cancro). Sta di fatto che Selene,
non accettando che il suo amato, platonico o meno, in quanto mortale
dovesse un giorno lasciarla, allora rivolse a Zeus lacrime e lamenti. E tanto
piange e si lamenta (mi astengo da ogni commento), finché ottiene che
Endimione viva immerso in un sonno eterno, ma dorma con gli occhi aperti
affinché possa così continuare a mirarla. Ma ci pensate al povero Endy?
Narcotizzato con gli occhi sgranati per guardare in eterno una pazza che ha
fatto tutto in nome dell’“amore”. Una roba tanto cancerina!
Raggiunto il suo culmine, la Luna diviene poi calante, fino a scomparire
apparentemente (ah, questo avverbio!) dal cielo per cinque giorni. Una volta
scomparsa, diviene Ecate. La Luna che regna negli Inferi, la Luna che esiste
e non si vede, l’oscura Luna simbolo della morte-utero dove tutto rifluisce
per rinascere. Madre misteriosa e potente, tanto da essere l’unica divinità,
oltre Zeus, a godere del privilegio di esercitare la propria potenza su terra,
cielo e mare.
A Ecate venivano attribuiti numerosi poteri, in particolare la protezione
dei bambini, delle maghe e delle abitazioni. Perciò veniva detta triforme,
raffigurata con tre teste e un corpo solo, o tre corpi congiunti, e al posto dei
capelli serpenti. Si credeva inoltre che volasse su di un carro trainato da cani
ululanti. A incontrarla insomma, romantica e argentea non doveva apparire.
Ma compiuto il suo corso, risorgerà nel cielo. Avremo allora la Luna
crescente incarnata da Artemide, figlia di Zeus e sorella gemella di Apollo,
che incarnava quindi il corrispettivo femminile del dio, il cui compito era
quello di far sorgere il Sole; e come Apollo dava vita e morte agli uomini, la
dea le donava alle donne. Ma mentre Apollo era dedito a ogni tipo di
scorribanda sessuale, Artemide invece era obbligata alla più ferrea castità.
Perché mai la poveretta dovesse essere interdetta dai piaceri dell’eros, non è
chiaro. Forse perché candida, pura, luna nascente. Chissà. Comunque,
niente. Vergine intatta.
Tuttavia la dea non era affatto d’indole ascetica, era semmai una selvaggia
cacciatrice, e così finì per desiderare perdutamente Orione, splendido
ragazzo dotato di ogni beltà e amante esperto, il quale si accompagnava
spesso ad Artemide nelle battute di caccia. Sarà forse una coincidenza che
Orione corrisponde al mito dello Scorpione? Non credo.
Sta di fatto che la povera Artemide, diafana e lunare, primitiva e vorace,
caccia oggi e caccia domani, finì giustamente per bramare di essere
profanata dal bell’Orione in un bosco, in una selva, persino in una palude a
lei sacra, basta che il giovane facesse di lei selvaggina! Ma Orione non lo
fece per rispetto, pare, alla divina castità della dea. Per consolarsi però il
possente ragazzo si intrattenne con tutte le di lei ancelle. La dea allora
s’arraggiò (verbo siciliano indicativo di una qual certa rabbia connessa
all’astinenza sessuale) e decise di vendicarsi scagliando contro Orione uno
scorpione il cui veleno lo uccise. Oppure, secondo un altro finale, fu Apollo
a uccidere Orione, ordendo un inganno e trafiggendolo con una freccia
scoccata dalla stessa Artemide.
Comunque sia, nemmeno questa luna nascente è poi così innocente e
candida. Eppure rappresenta la rinascita, simboleggiando il potenziale
femminile al suo albore, in tutta la gamma delle sue possibilità. E a
proposito di molteplici possibilità, avete notato quante a proposito del
Cancro? Quante “lune” dentro il nostro lunatico animaletto? Quanti
elementi a cui attingere per costruire un sabotaggio perfetto? Tutto in nome
di un femminile tanto recettivo, quanto dominante, indiretto e mutevole.
Se tutto ciò viene poi riportato sul piano della simbologia astrologica della
Madre, allora l’identità del Cancro la si ritroverà non tanto nelle scelte
compiute, o non compiute, ma nella percezione che l’individuo ha, o crede
di avere, della propria figura materna. Selene, Ecate o Artemide. O tutte e
tre? Lo psicodramma cancerino si conferma così del tutto basato
sull’identificazione del soggetto con la Grande Madre, quella che per un
verso lo ha generato e che per un altro egli genera dentro di sé, poiché
sostanza imprescindibile di sé.
Al Cancro sabotatore risulterà facile allora calarsi nei panni della vittima,
una povera creatura indifesa la cui argentea tenerezza è incompresa e
costantemente vessata. Peccato però che il mito di argentea tenerezza non
parla affatto. Così come non parla di un carattere mite e remissivo. In un
certo senso passivo, semmai. Ma decisamente dominante, come d’altronde
dominante è in astrologia il segno del Cancro.
Infine un’annotazione: nessuna delle nostre Lune ha figli. Forse Selene,
ma se nacquero lei non se ne curò. La Grande Madre insomma resta
tragicamente figlia.
Si potrebbe quindi concludere così il paragrafo dedicato al mito
corrispondente al segno del Cancro, eppure manca ancora un elemento,
implicito fra le righe, che invece va ben evidenziato. Si tratta di un
“dettaglio” di cui, a proposito di questo segno, si parla sempre con un certo
disagio e per taluni risulta addirittura oltraggioso. Mi riferisco al narcisismo
di cui il Cancro è portatore sano e di cui il Cancro sabotatore è intriso fino
al midollo. Non potrebbe essere altrimenti d’altronde: per inscenare uno
psicodramma di tal fatta bisogna essere non solo egocentrici, ma anche
narcisisti. Con implacabile ineluttabilità l’astrologia difatti associa alla
nostra triforme creatura, oltre a Edipo e la Luna, un terzo mito, quello di
Narciso.
Lo so, può sembrare un colpo basso, perché all’inizio avevo omesso
l’esistenza di un terzo mito. Ma certe cose vanno dette a tempo debito,
perché la verità resta sempre assai sgradevole.
Narciso era un giovane talmente bello che alla sua vista tutte le fanciulle e
ragazzi si innamoravano di lui. Ma egli, superbo e indifferente, non prestava
attenzione a nessuno. Di lui con particolare trasporto si innamorò la ninfa
Eco, la quale si logorò a tal punto per il dolore di essere rifiutata, e pure in
malo modo, che di lei persino le membra e le ossa lentamente si
consumarono, «finché si dissolse e sparve»35 come narra Ovidio in uno degli
episodi più belli de Le Metamorfosi. «Perciò in selve si cela e non si vede più
per i monti; pur da tutti è udita, ché in lei pur vive il suon della sua voce».36
Ma Afrodite punisce coloro che non cedono all’amore (che meraviglia!
Nei millenni successivi siamo stati condannati all’eros come peccato, per i
Greci invece era peccato il non amare) e, per la fredda arroganza di
Narciso, la dea dell’amore attuò un castigo esemplare: quando il giovane si
specchiò in una fonte rimase a tal punto folgorato dalla propria bellezza da
struggersi per il resto della vita nel non poter abbracciare e baciare l’amato
aspetto. «Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma! Che
fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare? Ciò che desidero
è in me: un tesoro che mi rende impotente».37 Ogni singola parola scolpisce
il lamento del Cancro sabotatore.
Ed ecco che grazie alla mitologia il profilo del nostro sabotatore è ormai
chiaro: un Edipo, Narciso, Lunare. Triforme. A questo punto, forse più che
in conclusione di ogni altro paragrafo, alcuni lettori – o le di loro mamme –
desidereranno annegarmi nel pozzo delle loro lacrime. Che Afrodite mi
aiuti!
LEONE

Riguardo l’argomento “amore”, il Leone è uno dei segni su cui si scatenano


le polemiche più infuocate.
D’altronde è un segno di Fuoco, quindi che la discussione s’infiammi ci
sta. Perché il Leone ama. Questo è lo slogan perorato dalla stragrande
maggioranza degli esponenti del segno. Ed è questo il mantra che buona
parte dei libri di astrologia consegnano al lettore e ripetono a oltranza. Il
Leone ama. Anzi Ama. Preferibilmente . Il fatto che lo stesso termine
indichi a Roma l’azienda municipale per la raccolta dei rifiuti è di per sé
eloquente sul fatto che le parole non fanno i sentimenti. Anzi, tanto più
sono maiuscole ed enfatizzate, quanto più è facile nasconderci dentro altra
roba. In questo caso meglio allora distinguere fra sentimenti e smanie di
potere, ardore e irascibilità, grandezza d’animo e megalomania,
districandoci fra ansie, competizioni e teatralità varie.
La suscettibilità di molti Leoni a questo punto risulterà già urtata oltre
misura. Determinati toni sono indigesti per il loro ego, e certi contenuti del
tutto inammissibili. Chi osa mettere in discussione le virtù del sentimento
leonino? Chi ne sminuisce l’ardore? Mi sembra quasi di sentire voci di
protesta uscire dalla pagina: «Il Leone è un segno generoso! Un segno che
ama. Ama completamente. Che dà tutto se stesso! Tutto e anche di più!».
Ecco, appunto, meno, meno… un po’ meno non guasta. Soprattutto nel
caso del Leone sabotatore.
Per affrontare questo sabotaggio e tentare di svelarne il meccanismo,
dobbiamo innanzitutto tenere ben presente che si tratta di un soggetto
incentrato su stesso e che a se stesso basta, ma non nel senso di “autonomo”,
semmai di “autoreferenziale”. Il meglio è tale perché proviene dal Leone,
tutto qui. Si tratta quindi di una personalità monolitica.
«Mantiene fino in fondo la propria identità, e la connota un immobilismo
di fondo che non ha bisogno di cercare fuori, nel mondo, le risposte che la
riguardano per evolvere ed essere felice»,38 per citare Marco Pesatori.
Abbiamo a che fare di conseguenza con un ego dalle proporzioni abnormi,
inimmaginabili per chi non lo possiede, intriso di tutte le controindicazioni e
i controsensi derivanti dalla sua mole, ma sempre pronto a scatenarsi per
difendere il presupposto primato del proprio amore.
Sembrerebbe una patologia (e in molti casi lo diventa), eppure questo
slancio, questo ardore o meglio ancora questo protagonismo cardiologico
che il Leone incarna, imponendo in nome dell’amore se stesso agli altri –
ma soltanto un po’, e poi non si tratta proprio di imposizione, è più che altro
una libera e autonoma autoproclamazione di potere in base a un’oggettiva e
ontologica superiorità di cui il soggetto in questione è convinto, tutto qui,
che sarà mai, suvvia! –, insomma, questa egopatia leonina presenta
indiscutibili fondamenta astrologiche.
Il Leone difatti è governato dal Sole. Questo è un fatto. È l’unico dei
dodici segni zodiacali governato non da un pianeta, bensì da una stella. La
stella attorno a cui ruotano i pianeti del nostro sistema, solare appunto, e i
cui raggi consentono la vita sulla Terra. In quest’ottica bisogna allora essere
più indulgenti nei confronti degli esponenti del segno, immedesimarsi nel
loro astrologico e averne una certa comprensione: come spiegare a una
creatura simile che non è il centro di tutto? Come fargli comprendere che
non è lui o lei quel Sole attorno a cui tutti, familiari, amici, colleghi,
conoscenti, condomini e passanti devono ruotare attorno per legge di
natura? Come rendergli accettabile il fatto che la sua presenza non irradia
raggi vitali per gli astanti? Impossibile.
Tuttavia proprio sul concetto di “irradiazione” è bene soffermarsi. Si
tratta infatti del sano condizionamento del segno, della sua funzione
principale. «Il Sole-Leone», scrive Lisa Morpurgo, «rappresenta l’integrità
dell’Io vitale, anzi, la sorgente stessa della vita equamente distribuita
sull’intero mondo vivente».39
L’astrologia coi suoi simbolismi parla chiaro, non pone a caso il Sole in
connessione col Leone. Ogni segno ha infatti un suo compito, e il ruolo che
la ruota zodiacale assegna al Leone è proprio quello di irradiare. Irradiare
da sé per gli altri. Energia, coraggio, amore. Purtroppo però la parola “altri”
certi Leoni la dimenticano, troppo concentrati sulla prima parte della frase.
Paradossalmente non la dimentica affatto il Leone sabotante, anzi la tiene
ben presente per il suo scopo. Su questo punto però tornerò più avanti,
meglio aver chiari alcuni aspetti prima di fare certe affermazioni. Al
momento è sufficiente consolidare un fatto: poiché irradiare è la funzione
specifica del Leone, proprio in essa il soggetto inciampa.
Come mai un carattere simile, una tale riserva di energia e vitalità può
incorrere nell’umano errore di sabotare la propria vita? Come può un sole
scegliere di brillare a metà o, peggio, implodere? Perché? Apparentemente
sembra impossibile. Invece è possibilissimo, con motivazioni assai semplici.
Il punto è uno: il Leone è di base un soggetto insicuro. Questa insicurezza
è intrinseca al ruolo di Sole irradiante, e al tempo stesso è la chiave della
sfida esistenziale che ogni Leone deve affrontare. Tuttavia dare dell’insicuro
a un Leone è come dire a un vegano che in realtà di notte si alza, va in
cucina e di nascosto mangia costolette di vitello e polletti ruspanti. Apriti
cielo! Quasi fosse una prova matematica delle reazioni caratteriali dettate
dallo Zodiaco, ogni Leone che si rispetti dinanzi un insulto simile scatta
come una molla. Il sabotante poi ha quasi delle convulsioni. Tutto, ma
insicuri mai! Invece sì, tanto.
Ed è logico: proprio a causa del bagaglio astrologico del Sole-Leone, di
quel naturale e sano condizionamento, ovvero quell’irradiare su cui tanto ho
insistito, è più che legittimo da parte del soggetto in questione il dubbio di
non essere abbastanza “radioso” da assolvere il compito. Il che, tradotto in
chiave emotiva, significa dubitare di non amare a sufficienza da meritare di
essere riamato. Un dubbio, ribadisco, legittimo e umano, che dilania fin
dalla prima infanzia l’Io di tutti coloro che posseggono una forte prevalenza
leonina nella propria mappa astrale. Pertanto il bimbo Leone, più degli altri,
valuterà ogni mancanza d’affetto come la conseguenza della propria
incapacità di produrre, comunicare e trasmettere (irradiare) amore.
Le conseguenze di un simile inespresso e fuorviato modo di percepire
l’amore sono le inevitabili basi del sabotaggio.
Riflettendoci però non è un fardello da poco dover affrontare l’innata
responsabilità di inondare di energia fatti e persone. Ci vuole forza, sì,
magnificenza e splendore, ma ci vuole anche equilibrio, discernimento,
estrema obiettività, con se stessi e con gli altri e, soprattutto, un gran senso
della misura.
Tutte caratteristiche che il Leone non ha, lo sappiamo bene. Ma può e
deve apprenderle. Il suo pacchetto astrologico lo prevede. Certo, deve
sforzarsi, e molto. D’altronde non può essere tutto innato, altrimenti ogni
Leone sarebbe una sorta di dio in terra (cosa che appunto molti Leoni si
credono). Ci vuole impegno e fatica. È comprensibile quindi che, se un
carattere simile non si evolve, scavando al meglio nella propria solarità,
rischia facilmente di scivolare nella banalità, sbrilluccicando come un
brillocco. Altro che Sole. Lisa Morpurgo scrive:
È indubbio che il quinto segno dello Zodiaco ha bisogno, molto più di altri, di un
tema natale di alto profilo affinché i nativi possano percorrere i sentieri
dell’esistenza con quella disinvoltura e con quelle perfette buone maniere (la politesse
des rois) che debbono necessariamente sorreggere il loro esibizionismo per evitargli
la caduta nel ridicolo.40

A questo punto il lettore potrebbe pensare che a proposito del sabotatore si


debba nettamente distinguere fra un Leone evoluto e uno involuto. Invece
no, troppo facile. Perché il Leone sabotante si trova nel bel mezzo della via.
E l’astutissima arma che gioca per sbarrarsi da solo il cammino è quella del
sacrificio.
Il sabotaggio amoroso del Leone è costruito interamente sul sacrificio,
d’altronde i problemi sono sempre il miglior alibi per restare immobili e non
essere felici. Ne Il quaderno di Maya la leonessa Isabella Allende scrive: «La
felicità è saponosa, scivola via tra le dita e invece ai problemi ci si può
attaccare, offrono un appiglio, sono ruvidi, duri».41 Così il Leone sabotatore
si sacrifica per amore. L’atto viene compiuto senza il vittimismo tipico di
altri segni, semmai con regale magnificenza. Ma resta pur sempre un
sabotaggio, perché finalizzato a mantenere il potere e congelare ogni
evoluzione.
È molto difficile intaccare questo schema e coglierne le innumerevoli
sfumature, ci vorrebbe un libro a sé, perché l’arte del sabotare attraverso il
sacrificio si avvale di quei valori considerati “pilastri della solidità familiare”.
Virtù integerrime che garantiscono alla famiglia di perdurare. Magnifico?
Dipende. Dipende dall’aria che tira in famiglia, e dipende dal perché e per
chi ti sacrifichi.
Il sacrificio del Leone sabotatore, come tutti i sabotatori, non è un atto
d’amore, ma di egocentrismo, utile soltanto a non confrontarsi con le
proprie insicurezza e a non fare quel salto in avanti che metterebbe in
discussione se stessi e molto altro. Primo fra tutti il concetto di “amore”.
Gli esempi potrebbero essere tanti, ci perderemmo. Ma la fenomenologia
a ben guardare è la stessa: mantenere il centro della scena. Se il prezzo da
pagare è quello di devastare e devastarsi, e sia. Verrà pagato a testa alta. Il
tutto condito con un’abbondante dose di quell’ardore innato di cui si
parlava all’inizio, quel temperamento focoso, esuberante e cinematografico.
Così dunque i vari pezzi del puzzle si incastrano in modo nefasto: l’innata
tendenza a irradiare porta inevitabilmente con sé infantile protagonismo e
umana insicurezza e, se il meccanismo si inceppa, quel bambino resterà
bambino, attribuendosi la colpa di non essere amato perché incapace di
amare a sufficienza; più si convincerà di questo, più giocherà al rialzo in
nome di un esibizionismo che alimenterà il bisogno di sacrificarsi per
qualcuno che non lo merita, da cui finirà per dipendere per gelosia e senso
di inadeguatezza, ergendosi a regale martire, e brillando infine per
l’annientamento di sé.
Il sabotaggio è compiuto. È chiaro che gli altri giocano un ruolo
determinante in questa faccenda. Torno così ad affrontare un punto che
avevo rinviato, ma non dimenticato. Se per certi Leoni gli altri si riducono a
semplice pubblico, una platea a cui sfoggiare le magnificenze leonine, per il
sabotatore parenti e amici sono invece attori della vicenda (ruoli minori,
ovviamente), indispensabili al buon esito del sabotaggio. Il sacrificio del
Leone sabotante difatti deve essere unanimemente riconosciuto, altrimenti
perde di efficacia. «Incredibile, quanto si sacrifica!»: è questa la frase che il
Leone sabotatore vuole sentire. Perché gonfia il suo ego e perché gli servono
testimoni per il suo alibi.
Prima di concludere, onde evitare equivoci e fraintendimenti dovuti alla
necessità di sintesi, è bene non confondere il Leone sabotatore con altri tipi
di Leone, più banali e con poca o scarsa possibilità di evoluzione. Mi
riferisco innanzitutto ai Leoni cialtroni, e la cialtroneria è proprio una delle
caratteristiche del Leone di basso profilo. Il cialtrone non sabota, millanta
semmai e, siccome non è in grado né ha voglia di mantenere, scappa. Poi
c’è il Leone superficiale, il brillocco di cui prima, a cui interessano solo trofei
da sfoggiare e ordini da imporre. Anche questo non è un sabotaggio, poiché
questo Leone in fondo ha la mediocre vita sentimentale che desidera (e che
merita).
Infine cosa consigliare per disinnescare questo genere di sabotaggio? Cosa
dire a un Sole per ricordargli di essere tale? Cosa dire a un re per ritrovare
la sua splendida maestà? Sinceramente, e non per falsa modestia o gioco di
parole, non sono “all’altezza”. Mi auguro qui e là di aver solleticato qualche
idea per riportare al presente la vita di un volenteroso Leone. Perché è
questo che ogni Leone sabotatore evita, non il futuro, ma il presente.
Come scrive in D’amore e ombre Allende: «Tendete solo al presente. Non
sciupate energia piangendo sul passato o sognando il domani. La nostalgia
consuma e annienta, è il vizio degli esiliati».42

L L
In merito all’indole del Leone, ho insistito non poco sulla necessità del segno
di forgiarsi affinché l’Io-Sole sia irradiazione di luminosa energia vitale, e
non acerbo (e talvolta rozzo) esercizio di forza o protagonistica celebrazione
di sé. I nativi del segno devono perciò temprarsi, evolvere, così da
strutturare una personalità di “alto profilo” tale da «sorreggere il loro
esibizionismo ed evitargli la caduta nel ridicolo». Una citazione che vale la
pena di ribadire. Ogni Leone pertanto è chiamato così a plasmare
innanzitutto la propria innata potenza, misurandosi con essa e con
l’inevitabile insicurezza che ne deriva.
Di questo parla appunto il mito corrispondente al segno, ovvero uno degli
eroi più celebri, un personaggio famosissimo, il cui nome evocava l’idea di
forza e valore a tal punto da essere usato nelle formule legali di giuramento
dell’antica Roma; e tutt’oggi quello stesso nome è ancora sinonimo di forza
invincibile, nel linguaggio comune come nella letteratura, così che persino il
più illustre detective del Novecento, Poirot, pur essendo piccolo di statura, di
nome fa Hercule. Ercole! L’Eroe tutto forza. Ma da dove scaturisce tanto
vigore? Un dono? Perché? E in che senso Ercole, come il Leone, è chiamato
a forgiarsi e confrontarsi col divino destino che fin dalla nascita lo vuole
contraddistinto da una forza senza eguali?
A queste domande la mitologia risponde in modo talmente esaustivo da
non lasciare margine ad alcun fraintendimento e così, tassello dopo tassello,
la vita di Ercole è di fatto il manifesto astrologico del segno del Leone.
Figlio di Zeus e della mortale Alcmena, Eracle, Ercole per i romani, era
un semidio, che prima ancora di nascere fu segnato a vita dalla piaga della
gelosia, nella fattispecie quella di Era, moglie del padre degli dèi. Zeus
infatti aveva comunicato agli dèi che quel giorno sarebbe nato un suo figlio,
prediletto a tal punto da affidargli il dominio su tutti i popoli confinanti.
Era, inviperita dall’ostentazione da parte del marito del frutto della sua
ennesima scappatella, ordì allora un inganno e, in quanto dea della fertilità
e delle nascite, riuscì a far sì che il dono voluto da Zeus per Ercole si
riversasse su un altro nascituro, Euristeo. Non solo, ma appena nacque
Ercole, quella notte stessa nella culla Era inviò due serpenti dagli occhi
infuocati per ucciderlo. Ah, la gelosia! Elemento imprescindibile
nell’esistenza del Leone.
Ercole tuttavia, seppur in fasce, riuscì a strozzare i due serpenti. Il padre
infatti gli aveva donato una forza senza eguali, per conquistarsi ciò che
desiderava e difendersi dalla gelosia di Era. Di elementi ce ne sono già
abbastanza. Ma se pensate che la vicenda è così riassunta nel prodigio di un
poppante forzuto vi sbagliate di grosso. Si tratta semmai soltanto della
premessa da cui si dipana l’esistenza del nostro eroe.
Ercole crebbe educato dai migliori maestri in svariate discipline, dalle
lettere al pugilato, dalla musica al tiro con l’arco, manifestando oltre alla
forza una vitalità eclettica. Ma dall’alba si vede il buon giorno e così, come
senza indugio il ragazzo aveva ucciso i due serpenti, con lo stesso caratterino
e la stessa prontezza accoppò il maestro di musica rompendogli in testa la
lira, per un castigo che l’insegnante gli aveva inflitto. Insomma a Ercole la
mosca al naso non si doveva posare, né alcuno si poteva permettere di
sovrastarlo. Vi ricorda qualcuno?
Alcmena quindi decise che al figlio era necessario apprendere la più
importante delle virtù, l’umiltà, e lo mandò pertanto a pascolare armenti
per parecchi anni in una regione lontana. Durante quel periodo Ercole
crebbe. «Bastava vederlo perché incutesse timore: alto quattro cubiti, dagli
occhi gli splendeva una luce di fuoco e non sbagliava mai la mira, né
quando traeva d’arco, né quando lanciava il giavellotto».43 Nello stesso
periodo si distinse in numerose prove, fra cui, la più importante e
significativa, l’uccisione di un leone che puntualmente devastava le mandrie.
Orgoglioso dell’impresa, il nostro eroe allora indossò la pelle del felino e ne
usò la testa come elmo, «sicché fu sempre visto di poi ricoperto della spoglia
leonina e armato di arco e di clava».44 Mi pare eloquente. Tuttavia il gesto
resta inequivocabilmente di stampo esibizionista e narcisista, in puro stile
Leone, ed Ercole, più che a un eroe adulto, così conciato potrebbe far
pensare a uno scenografico lottatore di wrestling.
La via per la maturità insomma era ancora lunga e per il figlio prediletto
di Zeus si era appena conclusa soltanto la prima parte della sua formazione:
i Leoni più impazienti ne saranno delusi – quelli più permalosi avranno già
scaraventato il libro –, ma la gelosia di Era covava spietata e persecutoria, e
il peggio doveva ancora arrivare.
Euristeo infatti, trovandosi nella condizione d’imporre ordini in nome del
potere letteralmente cadutogli dal cielo, da bravo burattino di Era, obbligò
Ercole ad affrontare non una, bensì dodici prove. Dodici sfide impossibili da
superare, le famose “dodici fatiche di Ercole”. In pegno la vita.
Non è il caso di enumerarle tutte. Lo so, così rischio di fomentare
l’indignazione dei pochi Leoni ancora miracolosamente dinanzi al libro, ma
ci vorrebbe un testo a parte e il lettore più interessato può sempre ripassarle
altrove, ulteriormente motivato dal fatto che alcuni studiosi di astrologia
riscontrano un nesso fra le dodici fatiche e i dodici segni zodiacali. Qui
l’attenzione sarà focalizzata sulla prima fatica compiuta da Ercole, quella
che gli permetterà di affrontare e concludere eroicamente anche le altre. E
guarda caso, di che narra la prima delle dodici imprese? Dell’uccisione di
un altro leone, quello di Nemea!
Nel racconto dell’impresa la mitologia rivela ancora una volta tutta la sua
saggezza, utilizzando un linguaggio simbolico di rara raffinatezza
psicanalitica. Un’altra favoletta, e dentro la chiave di volta.
Si narra infatti che a Nemea, città nei pressi di Corinto, un feroce leone
generato dal mostro Tifone, ribelle agli dèi, divorava persone e greggi. La
belva sembrava invulnerabile perché nessun’arma riusciva a scalfirla, e così
la città stava cadendo in rovina. Ercole partì quindi alla ricerca di quel leone
e, quando finalmente riuscì a scovarlo in un bosco vicino la città, scagliò
sull’animale tutte le sue frecce e con ognuna lo colpì in pieno, ma senza
causargli la seppur minima ferita; allora lo attaccò con la clava, ma anche
così non ottenne nulla. Anzi, il leone, ancora più inferocito, si lanciò su
Ercole. Ma a un passo da lui, la bestia balzò via come per farsi inseguire e
sparì nel nulla. Invano Ercole la cercò, finché non udì il suo ruggito lontano.
L’eroe seguì allora quel suono e scoprì che proveniva da una caverna.
Quell’antro, la tana del leone, aveva però due entrate. Ercole sbarrò allora
un ingresso con una catasta di legna, entrò dalla parte opposta e,
consapevole ormai che nessun’arma funzionava contro l’animale, si lanciò
su di esso in un paritario corpo a corpo. Il figlio di Zeus stava quasi per
soccombere, quando finalmente riuscì a sconfiggere il leone schiacciando il
plesso solare dell’animale col peso di tutta la propria persona. A quel punto
Ercole volle scuoiare la fiera, ma riuscì a farlo solo con gli artigli della belva
stessa. Infine ne indossò il manto, al posto del precedente, e tornò da
Euristeo.
Cara, vecchia mitologia! L’essere umano deve necessariamente uccidere la
parte più selvaggia e distruttiva di sé per poter diventare un eroe valente in
grado di affrontare le altre prove. L’uccisione del leone, rappresentazione
del sé inferiore del nostro Leone, avviene in una caverna con due entrate
perché spetta all’individuo, con la propria volontà, sbarrare la via di fuga e
affrontare se stesso. A mani nude. Senza armi. Dentro un antro, ovvero
dentro la propria coscienza o dentro la propria psiche. Indossare la pelle
della bestia vinta è infine il ritratto dell’Io che indossa la parte sconfitta di sé.
Non più ostentazione di vittoria, ma consapevolezza di evolutiva sconfitta.
Soltanto allora Ercole può tornare nel mondo esterno.
Più di così si può chiedere alla mitologia soltanto di incarnarsi in una
maestra paziente, chiamare a raccolta tutti gli esponenti del segno e far loro
una lezione con disegnini e cartoncini colorati.
C’è però un dettaglio che non mi va di lasciare sottinteso: Ercole sconfigge
il leone poggiando con tutto il proprio peso sul plesso solare dell’animale e il
segno del Leone è difatti governato dal Sole. È una ciliegina astrologica sulla
torta: bisogna affondare con tutta la propria persona sul quel preciso
condizionamento del segno, il Sole-Leone, affinché si evolva al meglio e non
degradi al peggio.
Jung, non a caso Leone, scrisse: «Un uomo che non è passato attraverso
l’inferno delle proprie passioni, non potrà mai superarle».45
Una dopo l’altra Ercole in seguito affrontò e superò tutte e dodici le prove.
Tuttavia, quando l’eroe tornò a Tebe, sperando finalmente di vivere
tranquillo con i genitori, la moglie e i figli, l’odio e la gelosia di Era
colpirono ancora, e stavolta senza scampo, scatenando la pazzia nell’anima
(non nella mente!) di Ercole.
Sì che questi, con gli occhi stravolti, muggendo come un toro inferocito, sentendo
accresciuta la sua forza, abbatté il palazzo e uccise la moglie e i figli che non
riconosceva più, mentre dalla bocca gli scendeva abbondante spuma. Poi cadde,
abbattuto da profondo torpore; quale strazio al suo risvegliarsi!46

Fu l’amico Teseo a salvarlo dal suicidio e a condurlo ad Atene. Lì Ercole


trovò conforto e lentamente tornò a vivere. Si risposò e si avventurò in
nuove imprese. Finché la seconda moglie, Deianira, gelosa di una giovane e
bella schiava, donò a Ercole un peplo regale intinto col sangue del centauro
Nesso, quale pozione contro l’infedeltà. Il sangue purtroppo si rivelò
velenoso e, non appena l’eroe indossò il manto, morì.
Dopo tante imprese e incredibili vicende, fu l’umana piccolezza di
Deianira a riuscire lì dove non aveva potuto il divino odio di Era, nonché
l’irriducibile voluttà di Ercole che alla schiava teneva tanto…
Per concludere, un’ultima finezza mitologica: Ercole, ovvero Eracle, vuol
dire “gloria di Era”. Sorpresi?
Fin dal principio l’indizio fondamentale era sotto i nostri occhi: l’eroe
maschile per eccellenza, il mito di forza e radiazione di energia, porta in sé
la glorificazione del femminile. Quel femminile divino che lo perseguita
perché non di lei figlio. Su questa considerazione, connessa all’Io Sole-
Leone incentrato a tal punto su di sé da non concepire altre connessioni, si
potrebbe imbastire un altro capitolo. Non è il caso.
Accontentiamoci di una conclusione inequivocabile: da qualsiasi punto si
voglia affrontare la faccenda, astrologica, mitologica, psicologica o con
semplice buon senso, leoni si nasce, è verissimo, ma è altrettanto vero che
Leoni si diventa.
VERGINE

Uno dei sani condizionamenti zodiacali della Vergine, nel senso di


naturalmente previsto dal bagaglio genetico del segno, è quello di preservare
la realtà circostante dalla consunzione.
Cose, fatti, persone, sentimenti devono essere accuditi per venire tutelati
dalla fine. Nobilissimo scopo, perseguito peraltro spesso con quell’estrema
operosità tipica del segno. Eppure natura vuole che tutto ciò che esiste abbia
un termine, che prima o poi sfiorisca, tramonti, trapassi, deceda…
insomma, muoia. E qui non c’è regola, logica, metodo, mocio o candeggina
– tanto cari alla Vergine – che possano ribaltare la situazione. Materiali o
immateriali, le cose della vita finiscono. Così è. Punto.
Sì, ma perché? E che cos’è la fine? E dopo, cosa c’è? La Vergine è
dilaniata da questi quesiti, eppure al tempo stesso non ama lanciarsi in
filosofiche o teologiche speculazioni, considerate nel migliore dei casi una
perdita di tempo. Gli astratti responsi non interessano alla Vergine, vuole
soluzioni pratiche e alla pratica si affida. Se lo Zodiaco le ha assegnato il
compito di tutelare ciò che esiste da qualsivoglia erosione, lei assolverà tale
compito con assoluto, quotidiano pragmatismo e con la cieca abnegazione
di chi non concepisce il contrario.
Ciononostante, per quanti sforzi e pulizie possa fare, la dissoluzione
organica resta perpetua e perenne. Non solo, ma è conclusione e al tempo
stesso origine di vita. Dove c’è vita, c’è morte; ma dove c’è fine, c’è inizio.
Bel paradosso! La fisica oggi ci insegna che nell’universo accanto alla
materia esistono addirittura l’antimateria, la materia oscura e l’energia
oscura; non sappiamo ancora esattamente cosa siano, ma stanno lì. Scrive il
fisico Alberto Casas:
Per farci un’idea della loro straordinaria importanza bisogna tener presente che
queste due misteriose sostanze costituiscono il 95% del contenuto dell’universo. Il
5% restante è costituito dalla materia ordinaria, di cui sono fatte le stelle, i pianeti,
il gas, la polvere cosmica… e anche noi. Fino a non molto tempo fa credevamo che
questa materia ordinaria fosse l’unica sostanza a costituire l’universo; ora sappiamo
che essa ne rappresenta solo una parte, e anche molto modesta.47

A suo modo lo Zodiaco ci racconta qualcosa di molto simile. A ognuno il


suo compito. Ma se alla Vergine spetta quello di accudire quel 5% di
materia ordinaria, proprio non ce la fa a concepire che ciò che oggi è,
domani non sarà. Si sforza di accettarlo, lo affronta, deve farlo e lo farà con
lo stoico pragmatismo che la contraddistingue, ma nel profondo per lei ogni
trasformazione è fine e ogni fine è morte, e la morte resta per lei un fatto
contro natura.
Assodato ciò, è chiaro che le conseguenze di questa lieve, lievissima,
contraddizione fra il sentire virgineo e il divenire della realtà risultano un
tantino ingombranti nella gestione del vivere quotidiano. Così per molti
esponenti del segno le abitudini diventano spesso un comandamento
inviolabile, un’ancora a cui aggrapparsi affinché ciò che è, immanente e
presente, risulti il più possibile immutabile. E nel caso della Vergine
sabotante? Uh! Il cambiamento assume tonalità che vanno dal fastidio, alla
bieca eresia, fino alla disgrazia assoluta: una tragedia insomma che incombe
dietro l’angolo pronta a scardinare e mutare l’ordine costituito.
Ma cosa accade nel momento in cui questo duttile ed elastico stile di vita
si ritrova a doversi confrontare con l’amore? Come funziona questo
carattere alle prese con l’eros e di conseguenza col thánatos implicito? Come
inizia una storia, la chiude o ne accetta la fine? Cosa succede insomma
quando il sano condizionamento virgineo teso a “preservare” si incastra con
altri meno sani condizionamenti, indotti, ingigantiti o repressi?
Accade che il sogno erotico di un soggetto simile – e per “erotico” intendo
“eros” in senso ampio, riferito a tutti gli aspetti della propria esistenza – non
può che essere uno e uno soltanto: la mummificazione!
Sembra una battuta tesa a sdrammatizzare, ma di comico non c’è proprio
nulla. C’è da piangere. Una Vergine sabotante gode all’idea di poter
imbalsamare realtà e sentimenti, essiccandoli da qualunque “liquido” in
eccesso e riducendoli quindi a quell’essenzialità apparentemente più
longeva. Chi li conosce sa che in un certo senso purtroppo riescono
nell’impresa. Ma nel caso del sabotante l’esigenza di sintesi e l’orrore per
l’imprevisto nascondono (mica tanto) la negazione di ogni spensieratezza,
perché la spensieratezza, come la leggerezza, non è duratura. Pragmatismo
ed efficienza, pertanto, risulteranno funzionali a evitare ogni elemento
inatteso, al fine di ottimizzare il processo di cristallizzazione della realtà.
Che gaudio! D’altronde, parliamo seriamente: se stiamo lì a cincischiarci, a
distrarci, e magari ci scappa una futilità, poi un’altra, un’altra qui e un’altra
là e trallallero trallalà, il morto si decompone e la fine sarà tanto evidente
quanto ineluttabile. Dopo per forza sopraggiungerà il cambiamento.
Cambiamento? Mai! All’opera allora, solerti a imbalsamare! Affinché una
concreta evoluzione non giunga mai e il morto, seppur morto, alberghi in
casa e nella mente. E così sia, nei secoli dei secoli. Amen.
È facile intuire che la vita sentimentale di una siffatta Vergine risulterà
pertanto ariosa quanto la tomba di Tutankhamon. Non fraintendete, non
per forza nel senso di stantia o poco frequentata; vi sono infatti Vergini
sabotanti di “facilissimi costumi”, ma sarà comunque un menàge
claustrofobico e ripetitivo, per niente vitale, perché volto al non-mutamento.
O meglio, al preservare. Chi? L’altro? L’amore? No, ormai dovrebbe essere
chiaro: se stessi. Il nocciolo è tutto qui: il sabotaggio della Vergine consiste
nel rivolgere verso se stessa, in modo distruttivo, quel sano condizionamento
che lo Zodiaco le assegna. Impegno e lacrime pur di non cambiare. Se poi
la vita che il soggetto conduce tutto sommato è comoda, voilà! Comfort
garantito e immobilità saranno le parole d’ordine: insomma fissità assoluta
ai propri binari, affinché nulla possa intaccarli.
Le sceneggiature di questo sabotaggio comunque sono tante, e le
soggettive impuntature del soggetto, nonché le specifiche corde pizzicate,
dipenderanno moltissimo dal suo ascendente, dalla Luna e da Venere –
ovviamente entrano in gioco ben altri elementi della mappa astrale ma,
come ho detto nelle prime pagine, devo essere brutalmente sintetico. Di
conseguenza la casistica degli esempi pratici presenta le situazioni più
disparate, perché la Vergine è molto più fantasiosa di quanto in genere si
creda: si va dal coniuge separato ma mai divorziato, al single che ha chiuso
con l’amore per le troppe delusioni, dal figlio devoto che deve provvedere ai
genitori anziani, al professionista oberato di lavoro, dall’amore decennale
verso qualcuno già impegnato, alla decennale incapacità di impegnarsi con
qualcuno, e via discorrendo.
I personaggi sono vari e ovviamente sovrapponibili. Il senso del dovere, la
serietà e la responsabilità saranno comunque i paroloni che fungono da
fondamenta del sabotaggio. Gli altri sono immaturi. Gli altri sono poco seri.
Gli altri non capiscono. Pertanto, in nome della serietà, della maturità e
della razionale comprensione, la Vergine sabotante si cristallizzerà in un
baco che mai diverrà crisalide. D’altronde le farfalle svolazzeranno pure, ma
hanno vita breve… meglio allora restare nel baco.
Ciliegine sulla torta: mania di controllo e complesso di inferiorità. Che
delizie! La prima è una diretta conseguenza della necessità di voler evitare
agenti esterni che possano sovvertire lo status quo, pertanto ogni situazione
deve essere costantemente sotto controllo e la Vergine, seduta davanti a
monitor più o meno metaforici, vigila affinché nessun intruso o novità possa
introdursi oltre certi limiti; la seconda invece è una caratteristica più
complessa da spiegare. Ha a che fare con un grande pregio della Vergine: la
sua umiltà. Purtroppo, come sempre nel caso del sabotante, questa virtù
viene svilita e ritorta contro.
Consentitemi un azzardo per spiegare il fatto, spero funzioni: se
astrologicamente nell’alveare del vivere sociale la Vergine è l’ape operaia, di
conseguenza le regine sono sempre le altre. Persino le Vergini più avvenenti,
al maschile o al femminile, in fondo si credono insignificanti. Pensano
sempre di passare inosservate o comunque sono convinte che lo sguardo
altrui non le osservi mai con l’ammirazione dovuta alle regine. Che
sciocchezze. Quanta semplice insicurezza dietro tante paranoie. Ammetterla
sarebbe un buon passo per cambiare atteggiamento. Ops, il verbo
impronunciabile. Cambiare. Come non detto. Ma non c’è due senza tre, e di
fatti il complesso di inferiorità, unito alla mania di controllo e all’orrore per
la fine, genera una terza delizia, ovvero quel tipico approccio di certe
Vergini verso le persone amate: «L’arte della vita consiste nel nascondere
alle persone più care la propria gioia di essere con loro, altrimenti si
perdono»,48 scrive Cesare Pavese, ovviamente Vergine, ne Il mestiere di vivere.
Amo Pavese, ma sinceramente non sono d’accordo. Preferisco pensare alla
Vergine Agatha Christie.
Quando nel 1926 le morì la madre e fu lasciata dal marito Archie Christie
per un’avvenente fanciulla, la scrittrice ebbe un crollo. La sua auto fu
ritrovata abbandonata sul ciglio di una strada e lei sparì per undici giorni.
La faccenda non fu mai chiarita, nemmeno nella sua autobiografia.
Qualche anno dopo, nel 1928, completamente sola partì per Istanbul
sull’Orient Express. Da quel viaggio scaturì il capolavoro della letteratura
che tutti conosciamo e anche il matrimonio con l’archeologo Max
Mallowan, tredici anni più giovane, incontrato per caso in Siria. Da buona
Vergine il cognome Christie venne “preservato” come nome d’arte,
d’altronde la scrittrice era già nota, ed era inoltre il cognome della figlia
Rosalind. Che senso avrebbe avuto eliminarlo? Poco pratico. Ma la vita
cambiò. Lady Mallowan ebbe un matrimonio felice che durò ben
quarantasei anni, fino alla sua morte, e a chi sottolineava la differenza d’età
fra i coniugi, lei rispondeva: «Un archeologo è il miglior marito che una
donna possa avere, più lei invecchia, più lui si interessa a lei».
Ironia. Ecco un treno su cui partire. Ed ecco cosa serve per sabotare il
sabotaggio della Vergine. Ognuno di noi ha il suo treno. Ci vuole soltanto la
volontà di saltarci su. L’alternativa per la Vergine sabotante è invece
persistere nel suo ruolo, uomo o donna che sia, di personcina compunta,
acuta e irremovibile, che preferisce soffrire e far soffrire pur di non
emanciparsi, perché emanciparsi vuol dire crescere, crescere vuol dire
cambiare e cambiare, inevitabilmente, accettare la fine. Logico, no? Eh, la
Vergine ci tiene alla logica, non la si poteva congedare diversamente. Ma
qualcosa da criticare lo troverà, ne sono certo: è tipico della Vergine cercare
il pelo nell’uovo. Figuriamoci cosa il soggetto sabotante non troverà fra
queste righe!

L I
Il mito corrispondente al segno della Vergine è quello di Demetra (Cerere
per i romani), una delle maggiori divinità greco-romane, inventrice e
protettrice dell’agricoltura.
Connessa quindi alla Terra e alla sua fertilità, a Demetra si devono quelle
messi che, seminate in precedenza, vengono poi raccolte e custodite. Così la
Vergine viene rappresentata da una composta e dignitosa fanciulla con delle
spighe in mano. Fin qui tutto bene. Solerzia, sobrietà, produttività e fertilità.
Questo è il significato più immediato, e anche il più sponsorizzato, che il
mito consegna all’astrologia. Ma non è tutto, anzi.
Se per un verso l’accezione del mito fin qui esposta trova piena
corrispondenza nella necessità del sesto segno di custodire cose, fatti,
persone e sentimenti preservandoli dalla dispersione e dalla fine (la
mummificazione a cui alludevo nel paragrafo precedente), per un altro la
stessa necessità nasconde ben altro, come racconta il mito di Demetra.
Prima di approfondire le vicende della dea, è opportuno ricordare però un
fatto fondamentale: per la Vergine il “granaio-cuore” deve essere solido,
stabile, pieno e ben custodito. Immutato e immutabile. Possibilmente
eterno. Tuttavia l’eternità della Vergine non ha nulla di ascetico, né di
mistico o di astratto: consiste semmai nel concreto e quotidiano lavorio
affinché tutto resti solido. Più è solido, più si avrà la garanzia che resterà
immutato. E qui cominciano i guai.
Non a caso nel descrivere il sabotaggio intessuto dalla Vergine ho insistito
non poco sul concetto di “morte”.
È questo il tabù che l’operosa Vergine tenta disperatamente (e
irrazionalmente, aggiungerei) di infrangere, ed è questo il nemico con cui,
più di ogni altro segno, la Vergine deve scendere a patti. Il mito racconta
tutto ciò in una lettura più approfondita; difatti, narra sì di una divinità a
cui si deve l’abbondanza o meno del raccolto, ma anche – e soprattutto – di
una madre che non accetta il terribile destino della sua unica, adorata figlia:
Persefone (Proserpina per i romani). E le due storie sono intimamente
connesse. Anzi, credo sia più corretto affermare siano la stessa, identica
storia.
Per comprendere a pieno tutte le sfumature della divina vicenda e tutte le
sue precise, simboliche implicazioni col carattere della Vergine è bene
cominciare dal principio.
Demetra è figlia di Crono e Rea. Chi sono? Una delle sei coppie di Titani,
forse la più importante. Crono (per i romani Saturno) è colui che secondo la
mitologia governò sul mondo in un tempo remotissimo, e il suo regno fu
talmente duraturo e florido da meritare l’appellativo di età dell’oro (da cui
aureus Saturnus). Rea è la “grande madre”, divinità della Terra nonché madre
di tutti gli dèi. Crono e Rea sono infatti anche genitori di Zeus. Ebbene sì,
avete capito bene: Demetra è sorella del re dell’Olimpo. Famigliola
decisamente potente, ma non priva di qualche lieve contrasto. Voci di
corridoio dicono infatti che Crono, appurato dal Fato che Zeus avrebbe
posto fine al suo duraturo regno, pur di non perdere il trono tentò di
divorare il figlio appena nato, ma fortunatamente Zeus fu salvato in extremis
da Rea con uno stratagemma. Per i dettagli più raccapriccianti si rimanda al
Capricorno, il cui leggiadro mito corrispondente è proprio quello di Crono.
Insomma da un punto di vista mitologico l’albero genealogico della
Vergine discende direttamente dal Tempo (chrónos, “tempo”) che non accetta
il divenire, e dalla Terra che, fecondata appunto dal Tempo, porta in
grembo ogni evoluzione. Questo il punto di partenza. Vi sembra foriero di
un qual certo contrasto? Nulla rispetto al seguito della vicenda. Demetra
infatti si unisce in amoroso amplesso al fratello Zeus (la Vergine alla famiglia
ci tiene) e da questa unione nasce Persefone. Una volta cresciuta, Demetra
desidera ovviamente per la figlia un matrimonio all’altezza. Come minimo
un dio! E così fu, ma Demetra non poteva immaginare che fra tutti gli dèi a
innamorarsi di Persefone sarebbe stato Ade, signore dell’oltretomba e che
questi, mentre la fanciulla raccoglieva fiori in un campo della Sicilia, vicino
Enna, la rapisse, la trascinasse negli Inferi e la sposasse. Tuttavia Persefone
pare non fosse proprio così restia al rapimento o comunque, una volta
conosciuto Ade, non se ne dispiacque. Trattasi di una sicula divina fuitina?
Chissà. Un fatto è certo e non lo si può omettere: anche Ade è figlio di
Crono e Rea. Lo so, sembra una roba ultramorbosa, tuttavia va letta in un
altro modo: nel simbolismo mitologico come dalla coppia Crono/Rea nasce
Zeus, così deve nascere Ade. Olimpo e Inferi. Non può essere altrimenti. E
Ade non può che scegliere per sua sposa la figlia di Zeus e Demetra. Nel
simbolo di casuale non c’è nulla. Proprio come il seguito della storia.
Demetra, scomparsa la figlia e ignara del rapimento, la cercò
disperatamente in ogni dove. Per anni errò in lungo e in largo e giurò che
non avrebbe mai più reso fertile il suolo finché non l’avesse ritrovata. Persino
Omero, nell’Inno a Demetra canta lo strazio di questa madre e della terra
sterile da cui nessuna gemma prendeva più vita. Fu Ermes, mosso a pietà,
ad aiutare Demetra nella disperata ricerca. Tuttavia, quando il dio alato
rintracciò Persefone, si trovò dinanzi a un bel problema: la fanciulla amava
Ade e non voleva tornare sulla Terra. E niente, fuitina fu! La questione
venne sottoposta a Zeus, che così decise: Persefone avrebbe trascorso il
periodo invernale, durante il quale la terra dorme e riposa, al fianco dello
sposo Ade, mentre il periodo della vegetazione e della maturazione delle
messi con Demetra nell’Olimpo. In questa “villeggiatura” di Persefone è
possibile scorgere la metafora della vegetazione, che d’inverno scompare e
in primavera germoglia. Ma qui il centro resta Demetra: proprio lei, la dea
della fertilità, deve accettare che la sua unica figlia non sia semplicemente
morta – cosa già di per sé dolorosa –, ma addirittura che sia divenuta
l’immortale regina degli Inferi. Sposa della morte. È tosta da digerire!
Così il mito ci conduce al centro esatto della personalità della Vergine:
l’accettazione della fine come imprescindibile causa di inizio, della morte
come necessaria componente della vita e del cambiamento – costante e
anche violento – necessario al perpetrarsi dell’esistenza. Da un punto di
vista astrologico è interessante notare il raffinato simbolismo che sia proprio
Ermes (ovvero Mercurio, il pianeta fortemente mentale che governa il segno
della Vergine) il mediatore di questa accettazione: soltanto l’intelligenza
infatti, operando con il buon senso, può far sì che l’orrore verso la morte e
verso la sofferenza della perdita non conduca a una sterile e sofferta fissità,
ma sia sempre il presupposto per una vita fertile.
D’altronde, dopo aver tanto insistito sull’“immobilità” di certe Vergini, è
bene ricordare che fra i segni di Terra la Vergine è invece quello Mobile, e i
segni mobili sono quelli che portano in sé il segno del cambiamento, la
coscienza della trasformazione di ciò che il loro elemento rappresenta.
C’è infine un ultimo aspetto nelle azioni di Demetra che merita
attenzione: Demetra sarà pure divina e visceralmente legata alla figlia, ma
come gran parte delle suocere Vergine, è decisamente invadente! Potrà
sembrare banale, la classica battutaccia sulla suocere, eppure
astrologicamente parlando si tratta di una caratteristica quasi costante del
segno. Suocere micidiali! Anche questa è una forma di sabotaggio molto
efficace nei confronti dei figli. Per fortuna Persefone si oppose almeno un
po’ e Zeus fu saggio, altrimenti la poveretta avrebbe trascorso la vita eterna
con la madre a seminare, arare, zappare e raccogliere spighe. Per lo meno
sei mesi l’anno si riuniva con l’amato Ade: negli Inferi, certo, ma per
Persefone sarà stato il paradiso!
BILANCIA

Come è possibile che il segno governato da Venere, di per sé predisposto


all’amore, operi un sabotaggio nei confronti della propria sfera
sentimentale? E perché? La faccenda è più complessa di quanto possa
sembrare, e mai come in questo caso dobbiamo fissare dei punti fermi e
procedere un passo alla volta, altrimenti la Bilancia sabotante girerà e
rigirerà le carte in tavola a suo uso e consumo.
Denis Diderot, Miguel de Cervantes, Caravaggio, Oscar Wilde, Friedrich
Nietzsche, Rita Hayworth e molti altri. Basta curiosare fra i nativi del segno
per rintracciare un comune denominatore, quel quid di cui l’astrologia parla
chiaro: la necessità di sublimare la forma in bellezza. Ovviamente il
procedimento avviene in modo diverso a seconda dei rispettivi ambiti, ma a
ben guardare il meccanismo di fondo è lo stesso: «Prendo in prestito dei
corpi e degli oggetti, li dipingo per ricordare a me stesso la magia
dell’equilibrio che regola l’universo tutto. In questa magia l’anima mia
risuona dell’Unico Suono che mi riporta a Dio», affermò Caravaggio;
Winston Churchill, Sagittario con una buona dose di Bilancia nel suo tema
natale, dal canto suo disse: «Il tatto è la capacità di dire a qualcuno di
andare all’inferno in un modo tale che non veda l’ora di farsi il viaggio».
Non tutti coloro che posseggono un sostanzioso bilancino sono però
Churchill o Caravaggio, e applicare un tale stile al vivere quotidiano non è
semplice né tantomeno alla portata di chiunque. Tuttavia la necessità di
purificare la forma da ogni imperfezione, drenarla, epurarne le scorie
affinché il bello rifulga come scopo utile, resta il condizionamento zodiacale
della Bilancia. Non a caso gli organi corrispondenti a questo segno sono i
reni. Eloquente!
Alla Bilancia non basta il già ambizioso desiderio di trasformare il sasso in
oro, deve necessariamente condividere prodotto e procedimento con
qualcun altro, altrimenti per lei tutto perde valore. Estetica e condivisione.
Condivisione ed estetica. Condivisione dell’estetica ed estetica della
condivisione. Sono queste le basi della personalità Bilancia. A ciò bisogna
aggiungere (pensavate fosse tutto?) quel bisogno di libertà che, da buon
segno d’Aria, pervade tutti i bilancini. Adesso è tutto.
Su queste fondamenta ogni Bilancia erge il suo personale tempio
all’amore. Se tali fondamenta però non sono corroborate da altro, è chiaro
che sotto gli urti della vita il monumento potrebbe crollare o, peggio, restare
precluso persino alla Bilancia stessa, poiché serrato a uso esclusivo di una
divinità bellissima e remota. Amore libero e indissolubile. Sovrumano,
altissimo, purissimo, bellissimo e… Scusate, ma una cosetta più terrena e
più normale, no? Magari imperfetta? Con qualche compromesso? La
Bilancia sabotante dice no. Anzi a parole prima dice sì, poi nei fatti viene
fuori la sua intransigenza e quindi no. Poi di nuovo sì, ma sotto cova il no.
Tuttavia non sa stare da sola, quindi di nuovo sì. Ma ha bisogno di libertà,
allora no. Poi sì, perché comunque sto frequentando un’altra persona, ma
no perché tu frequenti un’altra persona. Poi ancora sì perché tu hai detto no.
Poi no perché hai detto sì.
Eh, la Bilancia è fatta così: oscilla. Ma l’altalena fra il sì e il no è soltanto
un piccolo, microscopico granello di questa delirante spiaggia. Siamo
dinanzi a un soggetto che nel giro di venti minuti può affermare tutto e il
contrario di tutto, in nome di una costante manipolazione della realtà
effettuata attraverso la parola o i suoi derivati. Va da sé che è un segno
doppio che più doppio non si può. Governato da Venere, ma anche da
Saturno.
Bisogna partire da questi presupposti per comprendere come la Bilancia,
apparentemente leggera, possa rivelare tutta la sua pesantezza e cucirsi
addosso una colorata ma terribile armatura di solitudine.
A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che la povera Bilancia in fin
dei conti si dibatte fra i suoi innati condizionamenti, cercando di coniugare
il bisogno di libertà con la necessità di condividere le proprie emozioni
(tutte!), e cercando al tempo stesso di elevare il rapporto su di un piano
estetico; per lei infatti la bellezza è amore ideale e l’amore, in quanto ideale,
è perfetto e bellissimo. Obiezione più che legittima, ma non nel caso del
sabotatore. Lo sforzo di quest’ultimo difatti non è teso a raggiungere un
equilibrio, semmai a creare i presupposti per cui venga scardinato. Proprio
per questo la filosofia estetica di una Bilancia sabotatrice, pur sciorinando
qui e là discorsi sui colori e le cangianti diversità, finirà per assumere i toni
del peggior tipo di neoclassicismo: una sorta di perfezionismo stucchevole
che poco o nulla ha a che fare con la bellezza, né con la reale condivisione
dell’amore. Magari questa Bilancia potrebbe riflettere sul fatto che la
percezione è soggettiva e che, stando a quanto affermava Diderot, uno dei
padri dell’estetica, la bellezza e il senso estetico scaturiscono dal “rapporto”
fra l’oggetto artistico e chi lo percepisce con la propria individuale
sensibilità.
Parlando d’arte inoltre emerge un dettaglio non da poco: con la Bilancia,
sabotante e non, artista o no, qui o là salta sempre fuori un che di artefatto.
C’è un qualcosa di “truccato”. Non per forza in senso negativo, di falso, per
carità, quello dipende dalla singola persona, ma in senso prettamente
teatrale. Seppur con raffinatezza, la Bilancia finge e lo sa; utilizza gesti e
parole in modo leggero, ma costruito. Difatti quando vuole è maestra
nell’arte del dribblare, un verbo che applicato alla sfera sentimentale può
rivelarsi un vincente escamotage oppure, a seconda dell’uso, agevolare
pericolosamente il sabotaggio. Ecco che finalmente ci addentriamo nel vivo
della metodologia di questo etereo sgambetto: a differenza degli altri segni,
la Bilancia sabotante non eclissa l’amore dietro qualcos’altro.
Semplicemente lo evita. Come? I metodi in linea di massima sono tre, tutti
perfettamente coerenti col bilancino.
Il primo è di una semplicità geniale: rivolgere la propria attenzione su
partner già impegnati. Quale trucco meraviglioso per non vivere una storia
con le terrene conseguenze della coppia! Come ho già detto, ricordiamoci
che abbiamo a che fare con un segno d’Aria e pertanto i vincoli risultano un
tantino claustrofobici. Certo nella vita alcuni sono inevitabili, ma la coppia
non è fra questi. Quella si può evitare. Effettivamente struggersi per
qualcuno già impegnato, e soprattutto che mai e poi mai lascerà il partner, è
una trovata efficace, bisogna ammetterlo. Un amore bellissimo e ideale,
perché impossibile. A postilla di questa tattica bisogna precisarne una
variante puritana, in cui il partner non è impegnato con terzi, ma per vari
ed eventuali motivi resta nell’impossibile contingenza di formare una coppia
di fatto.
Il secondo metodo invece è maggiormente incentrato sulla struttura
estetico-filosofico della Bilancia. In questo caso di filosofico resta ben poco,
perché la spicciola estetica prenderà il sopravvento e la Bilancia giocherà la
carta del sentirsi esteticamente inadeguata. Attenzione però a non confondere
questo atteggiamento col narcisistico protagonismo del Leone e con la sua
conseguente ansia da prestazione. La Bilancia non vuole essere la migliore.
La Bilancia vuole essere bella. Perché l’amore è bello. Se non sei bella, non
puoi essere amata. Sembrerà futile come atteggiamento, ma per la Bilancia
è così. Il soggetto sabotante pertanto trasformerà i propri difetti fisici in
imperfezioni letali, complessi insormontabili, secondo quella spietata
intransigenza tipica del segno cui più volte si è fatto riferimento.
Ovviamente la nostra Bilancia potrà rivolgere l’affilata scure della bellezza
tanto su se stessa quanto sugli altri, in tal caso inadeguati saranno sempre gli
altri e più saranno validi, più saranno esteticamente inadatti. Il meccanismo
potrà scattare in modo alto, colto o più sempliciotto, fra parrucchiere,
palestra e abiti griffati, o persino esasperato con grottesche chirurgie
estetiche. Ma il succo è lo stesso: la bellezza è amore.
Infine il più apparentemente dinamico dei tre sistemi, dove infatti la
Bilancia si dà molto, moltissimo da fare, anche se in definitiva resterà
immobile, inchiodata volutamente al suo peggior difetto: l’indecisione. Qui
bisogna aprire una piccola parentesi. Il procedimento selettivo con cui la
Bilancia filtra la realtà al fine di sublimarla implica di per sé il concetto di
“scelta”. Questo va bene, questo no. Ogni scelta implica quindi l’esclusione
di un elemento a favore di un altro. Il sabotatore Bilancia invece non sceglie.
«La dea attraversata dalla visione del puro e del bello esita nella sospensione
eterea e astratta della rigorosa riflessione razionale»49 scrive Pesatori.
Ovviamente questa Bilancia affermerà di temporeggiare per valutare bene
la scelta d’amore, in nome di quell’esigenza di perfezione a lei tanto cara.
Ma la scelta d’amore non viene fatta, viene rimandata, la sospensione si protrae
finché all’improvviso la bellissima e misurata dea, perfetta, giusta, impeccabile,
perde totalmente se stessa, il proprio aplomb e anche la ragione.50

Soltanto lo sguardo acuto di Pesatori poteva cogliere questa sottigliezza


astrologica e psicologica. Nello specifico la citazione è tratta da Astrologia delle
donne, ma reputo sia assolutamente valida anche per i maschili esponenti del
segno.
Se invece la Bilancia sabotante è in coppia? Bisogna prendere in
considerazione anche questa ipotesi. È un segno più borghese di quanto
voglia lasciare intendere, per cui la coppia è comunque uno status symbol; poi
la Bilancia non sa stare da sola, quindi è molto probabile che abbia
concretizzato un matrimonio o una convivenza in tempi non sospetti, ed è
ancora più probabile che lo abbia fatto con la persona meno adatta nella
convinzione di trasformarla. Come si comporta allora la Bilancia che intende
sabotare il legame col partner? Si farà lasciare, esasperando il rapporto e
mettendo infine la dolce metà letteralmente alla porta. Se dopo la nostra
Bilancia ritrova il sorriso, evviva, avrà raggiunto libertà e consapevolezza; se
viceversa continua a tormentarsi e tormentare, allora è giunto il momento
di farsi qualche domanda concreta.
È interessante notare come in qualunque caso la Bilancia sabotante
opererà un’opportunistica scissione fra sesso e amore. «Amore e desiderio
sono due cose distinte: non tutto ciò che si ama si desidera, né tutto ciò che
si desidera si ama»51 affermò Cervantes. Si tratta di un’inclinazione tipica
del segno, diretta conseguenza della sua doppiezza e della sua necessità di
epurare; esasperarla è pericolosissimo.
Esaminate le modalità con cui la Bilancia attua il suo sabotaggio, resta da
appurare quale sia il movente. Cosa spinge il segno in assoluto più
bisognoso di condivisione a restare solo? La risposta più immediata
potrebbe essere il bisogno di libertà, quella stessa libertà insita in lei a cui si
è fatto già riferimento. E probabilmente in molti casi è così. Ma non basta,
non spiega gli altri aspetti della Bilancia. Se invece ci fosse a volte un
movente più drammatico, impalpabile, mentale e in fin dei conti
semplicissimo? Ancora più semplice del bisogno di libertà, intendo: la paura
della solitudine. Sarà pure un’affermazione delirante, ma quadra con tutto.
In questo senso la Bilancia sabotante è come se volesse esercitare la
solitudine per esorcizzarla. Come un trapezista, leggero e luccicante, che
compie un triplo salto mortale, così la Bilancia sabotante si allena alla
solitudine. Con metodo, efficienza, intransigenza e martellante leggerezza.
Qualcuno però, sotto, regge sempre la rete.
Giunti a questo punto è probabile che il sabotatore Bilancia osservi la
pagina con quello snobistico distacco che riserva per le brutture più ignobili,
emettendo un ferreo verdetto. D’altronde la Bilancia è in assoluto il segno
della giustizia, almeno così viene proposto in numerosi testi. Non concordo,
ma se così fosse vien da chiedere ai sabotanti esponenti del segno in nome di
quale giustizia hanno giustiziato la loro vita privata.

L B
La scabrosa affermazione che il sabotaggio della Bilancia poggi su un
edonistico esercizio alla solitudine – come forma di esorcizzazione ed
estetica trasformazione della solitudine stessa – trova riscontro nei miti
corrispondenti al segno. Mi esprimo al plurale perché la nostra Bilancia, da
strepitoso segno doppio, non poteva certo esser racchiusa in un unico e
monolitico mito. Due infatti sono le vicende mitologiche inerenti ed
entrambe sono incentrate sul senso profondo del trasformismo e del
complementare; ma hanno anche a che fare con una lacerante solitudine.
Il primo mito narra del vate Tiresia, il quale un giorno, ben prima di
acquisire i suoi poteri divinatori, mentre camminava in un bosco, si imbatté
in due serpenti che si stavano accoppiando. Tale visione lo disgustò a tal
punto che non solo separò con un bastone i due animali, ma uccise anche la
femmina. Se Tiresia avesse dovuto motivare la sua reazione dinanzi a uno
psicanalista, qualcosina sarebbe saltata fuori. Perché mai la visione di due
animali che si accoppiano gli causò tanto ribrezzo? E perché proprio due
serpenti? E infine, perché giungere al gesto secco e spietato di uccidere la
femmina? Il bravo analista avrebbe condotto Tiresia alle dovute
associazioni. La mitologia fa molto di più: ha trasformato immediatamente
l’uomo in donna. Perciò per sette anni Tiresia dovette vivere in un corpo
femminile, sperimentandone la sessualità e provando il piacere di essere
amato dagli uomini. Un giorno però vide nuovamente due serpenti nell’atto
di accoppiarsi, e di nuovo col bastone li separò, ma stavolta uccise il
maschio. All’istante si trasformò in uomo. Zeus allora lo convocò
sull’Olimpo in qualità di giudice di un’aspra controversia: quale dei due
sessi prova maggiore godimento durante l’amplesso? Zeus sosteneva che
fossero le donne, sua moglie Era invece affermava che fossero gli uomini. In
virtù della sua esperienza, Tiresia asserì che se il piacere sessuale fosse
composto di dieci parti, alla donna ne sarebbero spettate tre volte tre,
all’uomo una sola. Era si adirò a tal punto per il fatto che il mortale aveva
svelato uno dei segreti della femminilità, che per punirlo lo privò della vista.
Il padre degli dèi invece, pur non potendo nulla contro la punizione inflitta
dalla consorte, attribuì a Tiresia il dono di vedere oltre e di vivere per sette
generazioni, così che egli potesse predire il futuro e del passato svelare quel
che fosse ignoto. Durante quel tempo, gli dèi non avrebbero potuto quindi
nascondere nulla al vate.
Impossibile analizzare tutti i riferimenti e le implicazioni di questo mito:
l’invidia di genere fra Era e Zeus, la definizione stessa di “identità sessuale”,
il successivo ruolo di Tiresia nella vicenda di Edipo. Significherebbe
analizzare uno dei temi più importanti di tutta la storia della psicanalisi. Per
non parlare del simbolismo del serpente! Dagli antichi Egizi a Freud, sul
bastone di Esculapio, simbolo della medicina, o sull’albero di mele del
peccato originale, il serpente lo ritroviamo in opposte accezioni.
Insomma, qui rischiamo di perderci in un oceano di parole, proprio come
vuole la Bilancia sabotatrice. Il dato essenziale del mito in questione è uno:
Tiresia attraverso la trasformazione accoglie l’Altro in sé. E questo lo rende
capace di vedere oltre. Pagando tuttavia il prezzo di una particolare
solitudine, quella di un uomo cieco, vecchissimo e conoscitore di ciò che gli
altri mortali disconoscono.
Il secondo mito correlato al segno della Bilancia è quello di Amore e
Psiche. Rappresentato nella celebre scultura del Canova esposta al Louvre e
negli affreschi di Raffaello a Villa Farnesina a Roma, il mito narra di tre
sorelle, una delle quali, Psiche appunto, talmente bella da essere adorata
come una Venere in Terra. La dea dell’amore però non gradì affatto una
tale commistione di ruoli e si adirò a tal punto da condannare Psiche a
divenire sposa di un orribile e brutale mostro, del quale aveva timore lo
stesso Zeus. Venere affidò quindi a suo figlio Eros il compito di rapire la
mortale nel sonno e condurla sul monte su cui si sarebbe compiuto il nuziale
sacrificio. Ma accadde un fatto inaspettato: non appena il dio alato vide
Psiche se ne innamorò e, disubbidendo alla madre, la condusse nella propria
dimora e la sposò. Tuttavia Eros, per celare l’intollerabile disobbedienza,
non rivelò la propria identità alla moglie, anzi le intimò severamente di non
osar mai mirare il suo aspetto. Egli infatti giaceva con Psiche di notte, nella più
assoluta oscurità, e al mattino scompariva prima che lei si destasse. Psiche
restò perciò convinta di esser sposata al mostro, anche se talmente appagata
da non desiderare affatto la fuga. Perché mai avrebbe dovuto? Durante il
giorno, nel magnifico palazzo stracolmo di tesori, la accudivano ancelle
immateriali, di cui ella udiva soltanto la voce, e la notte… la notte era
divina!
Trascorse il tempo e la storia avrebbe potuto proseguire così, se non fosse
che Psiche cominciò a soffrire di solitudine e pregò il marito di poter
ospitare di tanto in tanto le sorelle. Eros acconsentì, ma le due zitelle – forse
mitologiche antenate delle sorellastre di cenerentola – quando videro Psiche
ancor più bella, inspiegabilmente radiosa d’amore, accudita come una dea
in quel sontuoso palazzo, si inviperirono un tantino e, visita oggi e visita
domani, instillarono in lei il tarlo di non aver mai visto le sembianze del
marito. Simulando di esser preoccupate per il suo bene e per la sua
moralità, arrivarono al punto di insinuare che lo sposo non esistesse.
Pertanto Psiche, in parte istigata dalle sorelline, in parte impaziente ormai di
scoprire il mostruoso aspetto di colui che comunque l’appagava, una notte
accese una lampada a olio per vedere finalmente le sembianze del suo
sposo. Rimase a dir poco stupita quando vide la divina bellezza del corpo e
del volto che le giaceva accanto. E poi le candide ali, e ancora l’arco e le
frecce ai piedi del talamo nuziale. Ma una goccia d’olio cadde sulla spalla
del dio, svegliandolo. Eros a quel punto volò via e non tornò più.
Invano Psiche andò errando in cerca di lui, invano supplicò gli dèi; infine
si rivolse alla stessa Venere. Questa, più che mai ostile, le impose allora
quattro prove impossibili: da un gigantesco cumulo di sementi diversi
distinguerne ogni specie e farne di ognuna un mucchio; portarle un fiocco di
lana aurea proveniente da un gregge divino; dell’acqua salubre sgorgante da
una fonte custodita da draghi e infine un unguento di bellezza, lo stesso di
cui si serviva Proserpina negli Inferi. Inaspettatamente Psiche riuscì in tutte
le prove, anche se aiutata in modo sfacciato da altri: nel primo caso dalle
formiche, nel secondo da Pan, poi da Zeus e infine dalla voce, soltanto la
voce, dello stesso Eros. A questo punto Venere si impietosì e, con l’assenso di
tutti gli altri dèi, deliberò l’assunzione di Psiche nell’Olimpo e il
ricongiungimento con Eros.
Prima di effettuare un’analisi decorosa della vicenda, non riesco a
trattenermi da un’indecorosa, personale sintesi. Stiamo parlando di una
fanciulla che si ritrova sposata con Eros senza saperlo, felice e turbata di
giacere col mostro che mostro non è, in un palazzo dove sente le voci e,
siccome si sente sola, allora invita le sorelle e tanto chiacchiera con loro che
combina il danno. Quindi è costretta ad affrontare delle prove, che supera
perché le delega ad altri, e finalmente viene traslocata nell’Olimpo, dove si
riappacifica col divino marito e con la divina suocera. Più Bilancia di così!
Come se non bastasse vorrei che rileggeste il contenuto delle prove imposte
da Venere: di una futilità unica fra tutte le storie della mitologia! Quella
delle sementi però è sfiziosa, indicativa della schizzinosa selettività del segno.
Alla luce di un’analisi più ortodossa il dato saliente è che psyché in greco
antico vuol dire “anima”, intesa come “insieme di processi emotivi e
cognitivi”; per usare termini attuali: un’anima congiunta alla mente. Da qui
il termine “psicologia”. In sostanza il mito afferma l’impossibilità della
psiche umana di vedere l’amore. Può provarlo, accoglierlo, ma non può
pretendere di contemplarlo nella sua purezza: in quanto umana, l’anima
non è in grado di sostenere, o addirittura concepire, una tale visione. Nel
mito, infatti, a Psiche sarà concesso di rivedere lo sposo soltanto una volta
eletta sull’Olimpo, e quindi definitivamente sottratta alla sfera terrena. In
questa perdita, nella privazione della sua umanità, consiste la solitudine di
Psiche. Non è poco.
Traducendo il tutto in chiave astrologica, alla Bilancia corrisponde la
necessità di sublimare, quindi trasformare, il bello, ovvero l’amore, affinché
l’umana natura ne possa fruire. Vale la pena ricordare che il glifo di questo
segno è costituito da una linea orizzontale, simbolo della materia, sovrastato
da un tratto curvo, che rappresenta la sua sublimazione. Ecco che, come
sempre, mitologia e astrologia si incontrano rivelando il condizionamento
del tipo psicologico con una chiarezza disarmante.
Infine c’è un ultimo elemento, ribadito costantemente, che condensa
ulteriormente l’essenza della Bilancia e che unisce il mito di Tiresia a quello
di Eros e Psiche; un elemento densissimo di significato, tutto racchiuso in
una parola: sembianza. È questa la chiave di entrambi i miti ed è questa la
chiave astrologica della Bilancia. Sulla sembianza verte la trasformazione di
Tiresia, così come sulla sembianza è basata la storia di Eros e Psiche (la
bellezza di Psiche, il mostro da sposare per punizione e la bellezza di Eros
non mirabile da occhi mortali). E ancora sulla sembianza ogni Bilancia
costruisce la realizzazione di sé o il proprio sabotaggio.
È opportuno tuttavia sottolineare la vastità degli argomenti in ballo non
appena si parla di “sembianza”, strettamente correlata a “sembiante”.
Senza nemmeno accorgercene siamo già nell’universo dei significanti e dei
significati, del reale e dell’immaginario, della forma e del contenuto. Da
Platone in poi, passando per Dante, Schopenhauer, Cervantes e Lacan, tutti
i filosofi, gli artisti, gli psicanalisti, persino i teologi hanno dovuto
confrontarsi con queste poche lettere: sembianza. Approfondire in questa
sede è impossibile, la querela incombe. Ma quale carico dietro l’apparente
leggera Bilancia! Quale intima doppiezza, rintracciabile nei miti e
nell’astrologica dominanza del segno da parte di Venere e al tempo stesso di
Saturno.
Da qualunque punto di vista si voglia analizzare la faccenda, è comunque
curioso quanto salti fuori più che mai il sottile confine fra l’effettiva
realizzazione di sé e la sua simulazione. Basti pensare a Don Chisciotte e i
mulini a vento!
Quel processo di sublimazione e di trasformazione su cui tanto ho
insistito, nel caso del soggetto sabotante è un fine o un mezzo? Forse il più
astuto bilancino sabotatore allora non è colui o colei che si affeziona troppo
a una futile dimensione estetica, o che scambia i mulini per giganti, ma chi
fa della sublimazione l’alibi perfetto per non vivere. La mitologia così come
l’astrologia ci dicono che l’essenza della Bilancia è il processo di
trasformazione in sé. Non l’oggetto della trasformazione.
Mi rendo conto che il paragrafo ha preso una piega complessa. Non c’è
che fare, è sempre così quando si ha a che fare con la Bilancia. Per
concludere, a proposito dei miti corrispondenti al segno, è una gioia citarne
uno mio, personale, al tempo stesso di tanti. Un’artista a tutto tondo,
Loretta Goggi, Bilancia . A proposito di trasformazione nella sua
autobiografia scrive: «A volte si va avanti, a volte si torna indietro. È il
viaggio della vita, perennemente in sfida con me stessa, che mi ha fatto
diventare quella che sono… che ero… No, che sarò».52
SCORPIONE

Sono convinto che lo Scorpione abbia un rapporto molto particolare con la


morte; “privilegiato” oserei dire. Mi rendo conto che un simile incipit può
risultare inquietante, ma credo sia proprio dalla potenza della morte che
bisogna partire per comprendere gli aspetti essenziali del carattere di questo
segno. Tuttavia quando si parla di morte, si nomina uno dei più invalicabili
tabù della nostra società. La morte non può, anzi non deve esistere: ciò che
altrove o in altri tempi era naturale, per la cultura occidentale equivale a un
blocco psichico. Vita, vita e solo vita! Gli altri possono morire, noi no.
Grazie appunto a questa ipocrisia la morte è diventata un tabù. E tutto il
resto un business.
Ma quel che per altri è tabù, non lo è mai per uno Scorpione. Questo
segno possiede infatti un misterioso quid che lo predispone verso l’oscuro e il
proibito, consegnandogli un personalissimo passpartout per la trasgressione.
Non certo quella innocua e funzionale, abilmente proposta in offerta
speciale nei centri commerciali, ma una trasgressione autentica, quella nata
dall’acuta conoscenza delle regole per poi stravolgerne il gioco. Una
caratteristica decisamente scomoda, sgradita a tutti, a perbenisti e pseudo
alternativi, ma soprattutto a chi da trasgressioni e polemiche
preconfezionate trae profitto. Curioso quanto un autentico Scorpione sia
assente dal panorama politico contemporaneo!
Eppure il misterioso quid degli Scorpioni, non sempre è ben accetto dagli
Scorpioni stessi, i quali spesso (e invano) rifuggono le loro inclinazioni.
Nondimeno sono loro gli “sciamani” dello Zodiaco, inutile negarlo,
tantomeno accettarlo. Lo Scorpione è collegato infatti con l’imperscrutabile
semplicità delle più potenti forze della natura, e ha un accesso privilegiato a
ciò che per gli altri resta insondabile e inaccessibile. Per questo molti
esponenti del segno si imbattono in modo apparentemente casuale in
vicende forti, storie decisamente sopra la media, che altri non potrebbero
sopportare o decodificare.
«A distanza di quindici anni il ricordo di quella sera d’ottobre è nitido» mi
dice al telefono un mio amico quando acconsente a raccontarmi di nuovo
una vicenda accadutagli molti anni fa. Lui è uno Scorpione , poco
interessato ad astrologiche argomentazioni, e lo ringrazio doppiamente, sia
per la confidenza di allora, sia per avermi permesso oggi di riportare il tutto
in queste pagine. Credo sia eloquente di quanto finora ho tentato di esporvi.
Aveva cenato da un pezzo, a casa, quando al telefono la sua compagna,
oggi moglie e madre dei suoi figli, gli comunica di aver trovato un cane
malconcio e abbandonato; portarlo con sé è impossibile, perché nel piccolo
appartamento romano in cui convivono hanno già un gatto, ma un altro
passante si è offerto di adottare il cane. Tuttavia il signore in questione è in
motorino, lei a piedi; se il mio amico li avesse raggiunti in auto avrebbero
potuto trasportare il trovatello.
Così accadde e il destino mise in moto i suoi ingranaggi. Giunti a
destinazione, avendo in casa un altro cane, il tizio preferisce che l’incontro
col nuovo arrivato avvenga per strada, pertanto il mio amico accosta l’auto
in uno spiazzo poco distante per aspettarlo.
«Nel fare inversione i fari illuminarono l’interno di una vecchia station
wagon, una Volvo verde scuro. Allora si distinse nettamente qualcuno che
tentava di rianimare una figura esanime». Subito quel qualcuno uscì fuori
dall’auto per chiedere aiuto.
Era una ragazza. Tremava ed era chiaramente in uno stato allucinato. Mi avvicinai
all’auto e guardai dentro. Avvertì un odore forte: l’odore di una stanza abitata e da
troppo tempo chiusa. Capì che quell’auto era una casa. Vidi il corpo riverso
dell’altra donna, ancora viva ma incosciente. Era in overdose, disse la ragazza, e
tremando mi porse una siringa e una boccettina dall’etichetta sbiadita. Disse che
era Narcan, che andava iniettato subito in endovena, ma lei per il tremore non era
in grado. Mi rifiutai, mentre la mia fidanzata aveva già chiamato un’ambulanza.

Da quel momento i fatti succedettero rapidi, eppure scolpiti nelle mente del
mio amico con l’indelebile impronta tipica della memoria emotiva degli
Scorpioni. La sua fidanzata rimase indietro. Lui trascinò fuori dall’auto la
donna e la distese per terra.
Mi venne spontaneo parlarle e allora ne chiesi il nome alla ragazza. «Si chiama
Carmela», rispose. Cominciai a parlare a Carmela. Aveva gli occhi chiusi, il respiro
debole e degli spasmi. Con una mano le tenevo la testa sollevata, mentre la ragazza
insisteva perché le iniettassi il farmaco. Poco dopo sopraggiunse il tizio del cane e
anche una passante. Quest’ultima corse a prendere dell’acqua in un bar non
distante, mentre il tizio mi aiutò a reggere Carmela, ma quasi subito, all’ennesimo
spasmo della donna, si sentì male e dovette indietreggiare. Adagiai allora la testa di
Carmela al suolo, le tenevo la mano e continuavo a parlarle. A un tratto lei aprì gli
occhi, di un azzurro chiaro. Mi fissò e io le sorrisi per tranquillizzarla. Restammo
così, poi fece un respiro diverso, che io non seppi interpretare al momento, quindi
richiuse gli occhi. Qualche minuto dopo arrivò l’ambulanza. Mi accorsi allora che
la ragazza si era dileguata. Riferì quanto potevo agli infermieri mentre reggevo
ancora Carmela. Fu un’infermiera dai modi diciamo poco garbati che mi disse:
«Aho, ma non vedi che è morta?».
Ho passato giorni a chiedermi il motivo dell’accaduto. Di quell’incontro
avvenuto dopo una serie circostanze del tutto fortuite. Un fatto è certo: l’ultima
cosa che quella donna ha visto è stata il mio viso. In un certo senso l’ho
accompagnata nell’ultimo viaggio.

Carmela non aveva documenti con sé e la sua morte non fu reclamata da


nessuno. È stata sepolta al Verano dove il nome sulla lapide è inciso perché
è stato dichiarato dal mio amico alle autorità.
Sono andato a trovarla qualche mese dopo, e adesso sono certo che nel mio animo
alberga una piccola parte di lei. Ne ho avuto la certezza qualche anno fa, quando è
venuto a mancare mio padre. Seppure in circostanze del tutto diverse, io trovai la
forza, non so come e perché, di agire. E in quel frangente Carmela mi è stata
d’aiuto. Lei mi ha regalato la consapevolezza di una parte di me che non
conoscevo.

Scusate il tono vagamente drammatico ma, se ho insistito tanto sul tabù


della morte, è perché dove c’è thánatos c’è eros, l’altro tabù. E lo Scorpione ha
il compito oneroso di incarnare entrambi.
A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che il sesso di questi tempi
non è più certo un tabù. Dipende. Forse non l’atto sessuale in sé, ma il sesso
credo proprio di sì. Senza scomodare le vette della sociologia o della
psicologia, molti di noi hanno imparato a proprie spese quanto il desiderio
sessuale – seppur spalmato in ogni dove per venderci di tutto, chiacchierato
a più non posso e accessibile a profusione da siti e app – resta nei fatti un
segreto inconfessabile, mal gestito e male interpretato. In nome della
“normalità”. Per non parlare delle conseguenze della matrice maschilista
della nostra società, dove ad esempio tutt’oggi una donna dalle molte
esperienze è una puttana e un uomo invece è vissuto. Figurarsi quando si parla
dell’Eros nella sua interezza, come naturale forza inscindibile dalla morte.
Tabù? Di più!
Per fortuna l’astrologia ci ricorda che eros e thánatos sono due facce della
stessa medaglia. Anzi, nel caso dello Scorpione, di una monetina lanciata in
aria con la tipica strafottenza, arguta e tormentata, di tanti esponenti del
segno. E cosa uscirà? Se pensate che uno Scorpione si affidi alla sorte, vi
sbagliate di grosso. Nelle sue scelte di casuale c’è ben poco; per quel che
può, pianifica tutto, più o meno consciamente. Così come il suo sabotaggio,
che ha radici lontane ed è preparato con cura.
Detto ciò, nell’affrontare lo sgambetto che un esponente di questo segno
può tirare alla propria vita, bisogna innanzitutto tenere presente il fatto che
incarnare due dei più potenti tabù della nostra società rende lo Scorpione
“privilegiato”, se il tutto viene vissuto come un dono. Viceversa è una
maledizione. Comunque sia, per il mondo una colpa. Basta infatti
consultare un vocabolario per rendersi conto che il termine “proibito”,
conduce in modo lineare a precluso-vietato-negato-respinto-rifiutato-escluso. E tale
può sentirsi lo Scorpione. Spesso fin dalla primissima infanzia. Soprattutto
se in famiglia si respira quel tipico clima di facciata, tanto immacolato
quanto anaffettivo, coriaceo retaggio di una borghesia, tramontata per molti
aspetti, ma attualissima nella pochezza della sua ipocrisia, del suo
opportunismo e del suo secolare cattivo gusto. Così in famiglia, come in
società.
Ma se le sue colpe vanno punite, lo Scorpione non permetterà che siano
altri a farlo. Sarà lui stesso a punirsi. Basterà rivolgere al contrario la spinta
del desiderio e sarà desiderio di distruzione.
A questo punto è opportuno distinguere però fra uno Scorpione sabotante
e uno più semplicemente malevolo. Quest’ultimo utilizzerà le proprie armi
in modo crudele: magari finirà pure per danneggiare se stesso, ma il punto
di partenza è del tutto diverso, e presuppone di tirare acqua al proprio
mulino.
Il sabotante invece dalle pale del mulino vuol farsi torturare e poi
stritolare. Nonostante le apparenze, è sempre e solo se stesso infatti che lo
Scorpione sabotatore colpisce: gli altri semmai sono uno strumento e al
tempo stesso un bersaglio da centrare per annientare i propri affetti e quindi
il proprio essere. Contorto? Masochistico? Di più, molto di più. Se
aggiungete inoltre che il piano, come accennato prima, è sempre orchestrato
con estrema cura, allora finalmente avrete una vaga idea delle proporzioni e
delle dinamiche con cui un soggetto simile imbastisce il proprio sabotaggio.
Perché? Il movente è già saltato fuori, semplice e drammatico: l’innata
colpa di essere tabù conduce, come diretta conseguenza, al non sentirsi
amati. O meglio, in quanto indegni e mostruosi, al reputarsi immeritevoli
d’amore.
La dinamica del sabotaggio di contro è quasi sempre affidata al sesso. Non
in modo dichiarato, ovvio; nulla è mai esplicito nelle tattiche di uno
Scorpione. Eppure il nodo resta quello. D’altronde è la propria sessualità
che lo Scorpione vuole stroncare, perché attraverso la sessualità giunge
all’essenza di sé.
Purtroppo non è possibile scavare nella vita di un sabotante esponente del
segno al punto da portare alla luce la verità. Lo Scorpione non lo
permetterà mai. Soltanto a distanza di anni, quando la prospettiva
permetterà di osservare gli eventi, allora sarà possibile scorgere un disegno
semplicissimo, tramato con arte tanto sopraffina da averlo reso invisibile per
troppo tempo. Ho conosciuto Scorpioni che hanno utilizzato il cibo, in
eccesso o in difetto, per colpire la vitalità del proprio corpo e quindi la
propria fertilità; altri che si sono legati a partner in cura per gravi malattie
connesse agli organi genitali e che su quella patologia hanno fondato il
disastroso pilastro della loro relazione; altri ancora che di un amore casto,
perché proibito, hanno fatto l’unico drammatico riferimento della propria
esistenza; infine coloro che hanno semplicemente esasperato la sessualità,
attraverso una promiscuità fine a se stessa oppure un maniacale
puritanesimo. Insomma, tutto e il contrario di tutto, purché venga stroncato
il desiderio. Perché senza desiderio non sussiste rinascita. Delitto e castigo,
come spesso ribadisco, è l’eloquente titolo dello Scorpione Dostoevskij.
Come aiutarli? Mai come in questo caso soltanto lo Scorpione può
compiere il primo passo per disinnescare il proprio sabotaggio, tendendo la
mano al desiderio di una personale rivoluzione. «A dodici anni dipingevo
come Raffaello, ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un
bambino», disse Picasso, altro Scorpione. Se questo ribaltamento avviene, se
questo straordinario capovolgimento delle convenzioni sociali del giusto e
del bello si compie, lo Scorpione è salvo. E poiché è un meraviglioso
sovversivo, salverà tanti altri dalla crudeltà del virtuoso.
È ovvio che per un salto simile si debba passare attraverso il perdono:
perdono di sé, delle proprie autentiche o presunte inadeguatezze, ma anche
di chi quelle stesse inadeguatezze ha stigmatizzato, inculcato e coltivato. Un
doppio salto mortale insomma: due volte mortale perché stavolta consente
di rinascere.
Purtroppo a questo processo si oppone l’innata invidia emotiva, spesso
confusa per gelosia, presente nei nativi del segno. E qui si apre un ennesimo
cassetto segreto dello Scorpione: Lisa Morpurgo definisce questo segno
“luciferino”. Lucifero era l’angelo prediletto di Dio; da lux e fero, “portatore
di luce”. Ma l’angelo ebbe invidia di Dio e volle sabotarne il ruolo. Non gli
fu permesso e venne punito. Lo Scorpione in un certo senso elude persino
Dio e si punisce da sé; così l’invidia che prova, raramente di natura
materiale, è del tutto rivolta all’amore concesso ad altri e negato a sé. È
interessante notare quanti esponenti del segno hanno subito la predilezione
da parte dei genitori di un fratello o di una sorella, oppure sono stati posti in
secondo piano rispetto alla coppia.
Purtroppo non si può chiedere a uno Scorpione di dimenticare il torto
subito. La sua indelebile memoria emotiva gli gioca contro. Per di più la sua
indole in famiglia resta assai scomoda. Ma il vero perdono non credo
scaturisca da un’amnesia, né dal tempo che sbiadisce i ricordi. Nasce invece
dalla consapevolezza e dalla potenza rivoluzionaria dell’amore.
A proposito di questo segno si parla spesso, e ancor più spesso a
sproposito, del suo essere vendicativo. La più nobile vendetta allora
potrebbe essere la felicità.

B , , .
Nel tentare di districarci fra i meandri di un carattere simile – deflagrante
eppure sommerso, essenziale ma tortuoso, sessuoso, peccaminoso e mistico
al tempo stesso – la mitologia risulta uno strumento prezioso, non solo
perché efficace, ma anche perché alleggerisce il clima vagamente
drammatico che si crea sempre quando si parla dello Scorpione.
Non aspettatevi tuttavia una storiella semplice e leggiadra. Tutt’altro! Il
mito semmai col suo linguaggio immaginifico rende le cose più fruibili e,
condensando in sé vari aspetti, non tralascia quelli che un’analisi
strettamente astrologica pone inevitabilmente in ombra. Primo fra tutti, una
certa smodatezza tipica del segno. Sembra strano l’utilizzo di un termine
simile a proposito dello Scorpione, così misurato e calcolatore. Eppure, fra i
sensi e controsensi di questo segno, c’è anche questa peculiarità, soprattutto
nel caso del soggetto sabotante. E di smodatezza, ma non solo, parla infatti
il mito corrispondente al segno, ovvero Orione, la cui vicenda presenta
diverse varianti, tutte molto eloquenti.
Secondo la cultura ellenica Orione era un semidio, figlio di Poseidone e
della mortale Euriale, a sua volta figlia del re di Creta, Minosse (quello del
celebre labirinto per intenderci; d’altronde lo Scorpione non poteva non
avere nel suo albero genealogico che abissi e labirinti!). Bellissimo, dalla
corporatura colossale, di una bellezza talmente erotica che tutti, donne e
uomini, mortali e divini, subivano il suo fascino, Orione fu educato da
Atlante e, d’indole intrepida e acuta, ancora giovanissimo divenne un
provetto cacciatore, in senso tanto venatorio quanto erotico, cosicché la lista
delle sue gesta in entrambe le “discipline” fu presto lunghissima. Ma fu
proprio la sua eccessività a segnarne il destino.
Secondo una versione del mito, infatti, il giovane nel corso delle sue
battute di caccia, nelle quali spesso si accompagnava addirittura ad
Artemide, dea della caccia, fece un tale scempio di animali, sicuro di poter
sconfiggere persino le bestie più feroci, che Artemide stessa s’indignò. Perciò
con l’aiuto di Gea gli pose dinanzi un piccolo e apparentemente
insignificante aracnide: uno scorpione. Questo punse Orione e lo uccise.
Un’altra versione, decisamente più intrigante, si basa invece sui romantici
risvolti della vita privata del bellissimo semidio che, seppur avvezzo a ogni
tipo di erotica escursione, finì infatti per innamorarsi. Fu Merope a
conquistarlo – non posso non pensare alla dottoressa Merope Generosa, la
sessuologa ideata dal genio di Anna Marchesini, ovviamente Scorpione – e
poiché la fanciulla ricambiava in pieno il sentimento, Orione la chiese in
sposa. Il padre di lei però, in un primo tempo favorevole, a ridosso delle
nozze negò il suo consenso, in quanto anche lui carnalmente innamorato
della figlia. Orione allora, stravolto e ubriaco, entrò di notte nella stanza
dell’amata e la possedette. Ne seguì un lieve alterco col suocero, il quale per
vendetta strappò gli occhi a Orione, li gettò in mare e costrinse il giovane a
vagare cieco. Una storiella da niente, quel che si dice un “amoruccio
spensierato”. Se pensate però che la vicenda si concluda così vi sbagliate di
grosso: siamo soltanto all’inizio.
Dopo varie peregrinazioni Orione recuperò miracolosamente la vista
grazie all’amore della dea Eos, l’Aurora, che in seguito sposerà e che ogni
mattina arrossirà al pensiero delle loro notti d’amore. Ma a innamorarsi di
Orione infine sarà anche Artemide e con un ardore più bruciante, poiché lei
era anche dea della verginità, vocata alla castità. D’altronde era una dea,
non una santa! Era inevitabile che a forza di condividere col possente
giovane galoppate nei boschi, finisse per bramare di deporre arco e frecce,
imboscarsi e galoppare con lui in altro modo.
Purtroppo, come sempre accade, il troppo amore guasta, e così la
leggenda narra due tragici finali: il primo vuole che Apollo, fratello di
Artemide, temendo per l’illibata divinità della sorella, con un inganno fece sì
che una freccia scoccata per mano della dea stessa uccidesse Orione; il
secondo racconta invece che Orione si negò ad Artemide adducendo come
pretesto l’amore per la moglie Aurora ma, quando l’amante respinta scoprì
la tresca che il bel cacciatore aveva intrecciato con le Pleiadi (le ancelle di
Artemide!), per vendetta gli scagliò addosso uno scorpione che lo uccise.
Comunque sia, a memoria dei fatti, Orione fu posto in cielo sotto forma di
costellazione.
Amori torbidi ed eletti, passioni incontenibili e castità, vendette,
tradimenti, punizioni e autopunizioni. Sesso e morte. Qui e là cogliete forse
un qualche rimando col nostro Scorpione?
Secondo la versione romana, Orione invece fu concepito da tre divinità:
Giove, Nettuno e Mercurio.
Detta così la cosa suona strana; il problema è che spiegandola risulterà
ancora più strana. Pare infatti che i tre dèi fossero scesi sulla Terra travestiti
da vagabondi per controllare l’operato degli esseri umani. Sotto queste
mentite spoglie chiesero ospitalità a Ireo, un povero contadino che li accolse
nella sua casa e offrì loro tutto il possibile, compreso come pasto l’unico
vitello che possedeva. Gli dèi, commossi, prima di partire svelarono al
contadino la loro vera identità e gli chiesero quale fosse il suo più grande
desiderio. Ireo, rimasto da poco vedovo, rispose che aveva amato molto la
moglie e non desiderava altra donna, ma il suo grande rimpianto era quello
di non aver avuto da lei figli. Giove, Nettuno e Mercurio urinarono allora
sulla pelle di quel vitello precedentemente ucciso e ordinarono a Ireo di
sotterrare la curiosa commistione. Nove mesi dopo da quella pelle nacque
Orione.
I riferimenti psicanalitici si sprecano. Innanzitutto abbiamo a che fare con
un concepimento privo della figura femminile, mentre il femminile della
vicenda è rappresentato da un’amatissima moglie morta, come morto è il
vitello dalla cui pelle viene rigenerata la vita attraverso l’urina, il cui
simbolismo, sia da un punto di vista erotico che psicologico, meriterebbe
una trattazione a sé. Certo non è questa la sede adatta. Mi ha sorpreso
tuttavia che del mito non figuri nessuna analisi “ufficiale” da parte della
psicologia. Credevo si trattasse di una mia lacuna e che al pari di altri miti,
come ad esempio Edipo, anche quello di Orione fosse stato affrontato da
Freud o da un altro big del settore. Pare proprio di no. Mistero, in puro stile
Scorpione.
La storia si fa ancora più intrigante se pensiamo che, andando indietro nel
tempo, la porzione di cielo occupata dalla costellazione di Orione era
denominata dagli antichi Egizi Duat: il regno dei defunti governato da
Osiride, dio della morte e della rinascita – e si torna ancora al dualismo
della morte, che con l’Eros è fine e principio di tutto. Orione di contro è la
stella verso cui il faraone ascendeva percorrendo la Via Lattea. Anche i
Maya, gli Aztechi, i Cherokee e molte altre popolazioni, distanti fra loro
millenni e continenti, hanno identificato nella costellazione di Orione il
punto di origine e fine. Persino nella Bibbia si legge: «Ecco, il giorno del
Signore arriva implacabile […] Poiché le stelle del cielo e la costellazione di
Orione non daranno più la loro luce».53 Come mai questa costante? Ancora
una volta non è questo il luogo per trovare una risposta al quesito. Tuttavia
è doveroso ricordare studiosi quali l’archeologo Robert Cormack, esperto
della civiltà Maya, Stansbury Hagar, autorità indiscussa riguardo
l’astronomia peruviana, e l’ingegnere ed egittologo Robert Bauval, giunti
rispettivamente alla conclusione che la capitale Maya Quiché, la città azteca
di Teotihuacan e il complesso delle piramidi di Giza in Egitto
corrispondono alla raffigurazione della costellazione di Orione nella
posizione che essa occupava nel cielo al tempo della loro costruzione.
Insomma, per quel che ci riguarda, tutto del nostro Orione/Scorpione
rimanda costantemente a un “oltre” ben poco terreno e terrestre. È come se
l’astrologia attraverso questo segno ci volesse ricordare a suo modo che la
vita ha connessioni remote, mentre la morte è rinascita per mezzo del
desiderio. Nulla di teologico, puro erotismo: in quanto tale inconciliabile
con l’occidentale, positivista tabù della morte, nonché col concetto di
“peccato” di cui per secoli è stata intrisa, e forse lo è ancora, la nostra
società. Ne sa qualcosa Martin Lutero, guarda caso Scorpione, che operò la
sua rivoluzione religiosa partendo proprio dall’emancipazione del peccato e
dell’eros. «Lo spirito di tristezza viene dal diavolo, che ci invidia la gioia»,54
affermò. Anche se lo stesso Lutero ebbe poi una, diciamo così, svolta
puritana, incarnando ancora quel senso e controsenso tipico del segno.
Fra peccato e santità, ascesi e baratri, alla fine di questa immersione
nell’universo dello Scorpione mi vien da pensare quanti artisti (e nello
specifico quanti comici) vanta questo segno: nel panorama italiano basta
ricordare, oltre la già citata Marchesini, Monica Vitti, Carlo Verdone, Gigi
Proietti, Roberto Benigni, Luciana Littizzetto. Forse allora lo Scorpione, fra
tutti i segni, è l’unico a essere sempre e comunque un sabotatore: in senso
distruttivo nei confronti di se stesso, in senso costruttivo nei confronti della
società; nel primo caso attuerà un ragionato, viscerale, inarrestabile
tormento per negarsi ogni resurrezione; nel secondo un altrettanto
ragionato, viscerale, inarrestabile tormento per trasformare in carezze per
l’anima i chiodi di ogni croce. La comicità non fa forse questo?
SAGITTARIO

Il conflitto che ogni Sagittario vive e deve affrontare è di natura prettamente


sessuale. Evitiamo pertanto di “menare il can per l’aia” e sradichiamo sul
nascere tutti i filosofici ragionamenti e le meticolose spiegazioni (Signore,
salvaci dalle spiegazioni del Sagittario!) con cui il centauro cercherà di
incantarci. Il nocciolo della questione è racchiuso in una parola: sesso. Puro
e semplice sesso. Tutto qui.
Nel caso specifico del Sagittario il conflitto consiste nel come scendere a
patti con la propria sessualità, o meglio come gestire l’animalesca pulsione
sessuale all’interno dell’umana, elevata natura. Un dilemma dal sapore etico
se vogliamo, dove l’aspetto psicologico entra in gioco nel pressante tentativo
da parte dell’individuo di rendere ragionevole ciò che ragionevole non è:
trovare senso e giustizia nell’eros. Qui si inceppa ogni Sagittario. Il
sabotante ci sguazza.
Siamo tutti d’accordo sul fatto che l’essere umano da una parte possiede
un quid che lo distingue dagli animali, dall’altra ha in sé anche una parte
istintiva. Su questo non c’è dubbio. Spero, poi non so, di questi tempi
abbiamo anche i terrapiattisti. Per certi versi quindi siamo basici e per altri
eletti. Carne e intelletto. Spirito e materia. Aspetti che si completano e
insieme cozzano; di conseguenza il quid di cui sopra si fa arduo da definire,
mentre la nostra sessualità si palesa come l’espressione più dirompente ed
evidente di una combinazione di forze contraddittorie.
Si tratta di una guerra antica e senza tregua, che vede schierate su di un
fronte le truppe alleate dell’attrazione fisica, del desiderio, del sesso come
piacere fine a se stesso e del godimento del corpo; dall’altro invece l’arsenale
delle sublimi virtù di cui si vuole a tutti i costi l’amore esponente e
rappresentate: l’etica, la morale, la fedeltà, il sublime e il trascendente per i
più metafisici. A un estremo insomma l’orgasmo da coito, all’altro l’Estasi di
Santa Teresa, passando per la sindrome di Stendhal. Eros ratio, per
ridurre la faccenda all’osso; e noi la corda fra i due estremi. Una corda tesa
che più tesa non si può. Come quella dell’arco del Sagittario.
Non si potrebbe trovare una via di mezzo? Un compromesso fra le due
parti? Certo che si può. Astrologicamente parlando il Sagittario rappresenta
proprio questa via di mezzo, conseguita in nome del “giusto” e del
“corretto”, termini tanto cari agli esponenti del segno. Peccato però che il
Sagittario la rappresenta, ma non la trova. Come è possibile? Semplice,
perché la incarna. Una metà animale, equina per l’esattezza, quella bassa
del corpo, incollata a una metà umana, quella superiore. Fra le due metà
però non c’è evoluzione né compromesso, semmai brutale unione. Due
entità in un unico, duplice, corpo: quello del centauro, la creatura che non a
caso l’astrologia ha scelto per rappresentare questo segno e con lui la
duplicità della natura umana, istintiva e intellettiva al tempo stesso. Se
l’unione fra le due parti, seppur difficile, verrà vissuta come un valore
aggiunto, allora sarà un dono; altrimenti diverrà un incessante rimorso.
«Penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già
commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione. La parte
superiore del corpo si china a guardare e giudicare l’altra parte e la trova
deforme. Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso»,55 scrive il
Sagittario Italo Svevo ne La coscienza di Zeno.
La tentazione di lanciarmi nell’analisi del personaggio di Zeno è forte. Mi
viene in mente la vicenda del matrimonio con Augusta dopo il rifiuto della
di lei sorella Ada. Ma non è questa la sede adatta. Il lettore curioso magari
potrebbe cogliere l’occasione per rispolverare o scoprire il celebre romanzo,
qui basta sottolineare quanto Zeno sia tormentato e immobilizzato da quel
rimorso prima citato.
Tuttavia nessuno ama sentirsi paragonare a Zeno Cosini. Figuriamoci i
Sagittari, così amanti dello spiegare e così poco predisposti a sentire la
spiegazione dei loro comportamenti. Non credo sia un caso infatti che Italo
Svevo apra il suo romanzo con un velato attacco alla psicanalisi. Eh, i
Sagittari! In cattedra devono stare soltanto loro.
Uso volutamente il plurale, perché col Sagittario ci troviamo dinanzi a
un’estrema sfaccettatura di soggetti dalle caratteristiche cangianti, mai
camaleontici, dotati tutti di un’apparente pacatezza di modi che rende
meno vistosa un’indole comunque passionale e impositiva, talvolta
dispotica. È un segno di Fuoco, mai dimenticarlo! E nell’ardore il conflitto
eros/ratio si infiamma ancora di più: impulso animalesco o trasposizione
ascetica del desiderio? Libidinosa carnalità o virtuosa comunione di spiriti?
Elezione o erezione? «Sesso o matrimonio?» direbbe Woody Allen, da buon
Sagittario. Più il dubbio resta inespresso, più avremo a che fare col profilo
del sabotatore.
A discolpa del Sagittario tuttavia bisogna ammettere che quando si parla
di erotismo siamo dinanzi a una questione annosa. Una cosuccia semplice
in apparenza, sulla quale però molte religioni, e non solo, hanno costruito la
monumentale mortificazione del corpo, con tutte le conseguenze annesse e
connesse: il sesso è peccato, il corpo è portatore di vizi, il godimento sessuale
è antitetico alla purezza dell’amore e via discorrendo lungo gli atavici,
infallibili binari dei sensi di colpa, dove diventar cieco se ti masturbi è la
minore delle conseguenze. A tal proposito mi viene in mente un Sagittario
di mia conoscenza che dichiarò di praticare il sesso, masturbazione inclusa,
solo se l’indomani poteva confessarsi. Può sembrare un caso esasperato,
invece credo sia un esempio eloquente delle problematiche del centauro.
Ovviamente non tutti giungono a questi estremi e non tutti i Sagittari sono
religiosi, anzi proprio fra gli esponenti del segno ne ritroviamo molti atei,
agnostici o comunque liberi pensatori. Tuttavia il Sagittario quando non
aderisce a una fede ufficiale, ne crea una tutta propria, con propri idoli,
propri rituali e un proprio “tempio”; cosicché, pur rifiutando ogni forma di
religiosa costrizione, il conflitto fra sacro e profano verrà comunque
perpetrato.
È interessante notare come qualcosa di simile accade anche ai soggetti
Bilancia; il lettore attento o chi ha che fare con una Bilancia lo avrà notato.
Entrambi i segni infatti sono tormentati dall’ideale e tentano di risolvere il
dissidio eros/ratio sublimando. Tuttavia Nella Bilancia la sublimazione è
finalizzata al bello, nel Sagittario al giusto. A questo punto ogni Sagittario
che si rispetti non potrà trattenersi dal puntualizzare che le cose stanno così
perché la giustizia è bella, mentre la Bilancia ribatterà che la bellezza è
giustizia; di contro uno Scorpione manderebbe tutti a fanculo utilizzando le
regole per stravolgere la realtà. Il punto è che lo Scorpione, se , è
ironico, il Sagittario (e spesso anche la Bilancia) no. Anzi, il Sagittario è forse
in assoluto il segno più permaloso dello Zodiaco. Non potrebbe essere
altrimenti per un soggetto dal piglio dittatoriale che vive da sempre con
l’innato rimorso della vergogna.
Ma dopo tutto ’sto pippone dal sapore un po’ didascalico, in puro stile
Sagittario, in cosa consiste nei fatti il sabotaggio che un centauro compie a
discapito della propria vita sentimentale? La risposta è semplice: troppo
sesso o troppo poco. Da una parte troveremo il Sagittario sabotatore che del
sesso sfrenato fa una bandiera e una missione, dall’altro quello che lo pratica
(se lo pratica) soltanto se avvalorato da un’alta tesi; il primo tenderà a
sostituire l’ideale con un’elevata attività sessuale, in modo da eludere le
responsabilità che l’ideale impone il secondo invece, attraverso l’alibi di
eletti principi, eviterà l’onerosa responsabilità di confrontarsi con la propria
sessualità. Ovviamente ci sono soggetti che alternano nella loro vita le due
eccelse tipologie. Fra i due opposti poi si apre un mondo di varianti, e
torniamo ai cangianti Sagittari!
È chiaro infatti che fra l’Estasi di Santa Teresa e Cicciolina (Sagittario) è
possibile ritrovare innumerevoli sfumature e altrettanti modi per sublimare
l’orgasmo: ad esempio i viaggi. I viaggi di certi Sagittari! Eppure, viaggiatori
o stanziali, pornodivi o pellegrini, sabotanti e non, del Sagittario il dato
costante resta una certa incompiutezza. «Non amo che le rose che non colsi.
Non amo che le cose che potevano essere e non sono state»56 scrive il
centauro Guido Gozzano. Mio suocero, in modo decisamente meno
poetico, da buona Vergine ha sempre definito una sua parente Sagittario
«Un cerchio che non chiude».
Si potrebbe continuare all’infinito, spiegando e rispiegando, adducendo
esempio dopo esempio, illustrando, chiarendo e non agendo: tipico del
sabotante in questione. Eppure il Sagittario è il segno della conoscenza, del
viaggio, della scoperta e dell’andare oltre. Com’è possibile che un carattere
simile si ritrovi compresso nell’angusto spazio del sabotaggio? Come mai la
necessità di spingersi oltre in amore non vince? Perché? Perché la duplicità
del segno, fonte di ribrezzo e di rimorso verso se stesso, non è solo un
fortissimo deterrente, ma è parte integrante di quell’oltre a cui il Sagittario
tende. L’oltre in questione infatti è strettamente connesso alla sessualità. È
magnifico come tutto ciò venga rappresentato nella raffigurazione del segno.
Il centauro, col suo corpo duplice, impugna un arco. La corda è tesa,
nell’atto di scoccare una freccia e la freccia punta in alto, lontano, oltre.
Oltre dove? Oltre cosa c’è? Oltre cos’è? Mi limito a ricordare che l’orgasmo
è definito anche la petite mort: andare oltre fa paura, è umano.
Da esploratore nato, il Sagittario dovrebbe ricordarsi però che può
tranquillamente ridisegnare nuove mappe e conoscere finalmente ciò che
finora ha sabotato. Basta accettare quel corpo tanto animale quanto
razionale, quel corpo che non è né una vergogna, né un peccato.
Ammettere i limiti della ragione e quelli dell’istinto, e al tempo stesso
goderne le risorse. C’è però un ultimo importantissimo dettaglio con cui il
Sagittario sabotante deve fare i conti: il suo scetticismo. È difatti uno dei
segni più scettici dello Zodiaco: se un individuo non vuol credere, non c’è
evidenza che basti.

S
Ho insistito più volte sul fatto che il Sagittario non solo è un segno doppio,
ma decisamente cangiante, e proprio le differenze fra un tipo e l’altro di
centauro sono le prove maggiormente addotte da scettici e sabotatori
esponenti del segno a dimostrazione della vacuità di quanto sostenuto
dall’astrologia.
La mitologia ci aiuterà a chiarire la faccenda. Tuttavia, prima di
addentrarci nel mito corrispondente al segno, a proposito della doppiezza
del Sagittario è opportuno evidenziare un dato imprescindibile: è l’unico
segno dello Zodiaco ad avere una corrispondenza astronomica non con una,
bensì con due costellazioni: quella del Centauro e quella del Sagittario
propriamente detta. La prima – perfettamente visibile dal nostro emisfero al
tempo degli antichi greci, mentre oggi, in conseguenza della precessione
degli equinozi, osservabile per intero dall’emisfero australe e soltanto in
parte dalle nostre latitudini – presenta l’intrigante peculiarità di contenere il
sistema stellare più vicino al Sole, l’ammasso globulare più luminoso della
volta celeste e la galassia attiva più vicina alla nostra.
La costellazione del Sagittario invece è composta a sua volta da due
regione: la Grande Nube del Sagittario e la Piccola Nube del Sagittario e
vanta il primato di comprendere dentro i suoi confini la zona più densa
della Via Lattea. Insomma, di univoco finora non c’è nulla. Nemmeno di
calmo e pacato considerando le prerogative astronomiche.
Per fortuna la mitologia giunge propizia a raccontare a suo modo la
curiosa corrispondenza fra i fatti celesti e quelli terreni, offrendoci due
leggende che racchiudono perfettamente l’intrinseca doppiezza del segno:
quella del centauro Chirone e quella del centauro Euritione. La vicenda di
Chirone, spesso più gettonata, viene associata alla prima costellazione; alla
seconda costellazione corrisponde invece l’altra storia, un tantino più
scomoda e per questo forse talvolta elusa, che narra della stirpe in sé dei
Centauri. Cominciare da quest’ultima pertanto credo sia più utile e
stuzzicante. Prima però, a costo di ripetermi, desidero esser certo che i fatti
vi siano ben chiari: alla costellazione del Centauro corrisponde il mito di
Chirone, mentre alla costellazione del Sagittario corrispondono Euritione e
la sua stirpe; al segno zodiacale del Sagittario di contro corrispondono
entrambe le costellazioni e i rispettivi miti. Questa è la fondamentale
premessa. Multiforme doppiezza!
Si narra che Issione, uomo brutale e smodato, a causa delle sue
nefandezze fu punito dagli dèi con la follia. Tuttavia Zeus ne ebbe pietà e
restituì al mortale il senno. Issione però non mutò affatto la sua indole
rozza, giungendo persino a tentare di concupire Era, moglie di Zeus. Il
padre degli dèi allora escogitò una punizione esemplare: volle che Nefele,
dea delle nuvole, assumesse le sembianze di Era per sedurre Issione; lo
sciocco cadde nell’inganno e Zeus, svelato il trucco, ordinò che l’ingrato
mortale venisse gettato nel Tartaro, legato a una ruota infuocata e quindi
scagliato nel cielo con la condanna di ruotare in eterno. Ma la punizione
non consistette solamente in questo: a memoria terrena dell’infamia del
bestiale Issione, dall’unione con Nefele, per volere di Zeus, fu generata una
creatura mostruosa, metà cavallo e metà uomo, il centauro Euritione
appunto. Questi, una volta cresciuto, si accoppiò con delle giumente e diede
così inizio alla stirpe dei Centauri.
Rinomata per la sua “signorilità”, l’animalesca casata fu protagonista di
numerosi raffinatissimi episodi, due dei quali hanno però una rilevanza
particolare (come d’altronde due sono le regioni di cui si compone la
costellazione del Sagittario). Il primo narra della rissa scoppiata al
matrimonio della figlia del re dei Lapiti. Euritione e famiglia, invitati alla
cerimonia nonostante qualche perplessità da parte del padre della sposa,
bevvero così tanto e parteciparono a tal punto alla gioia della festa, da
violentare alla fine gli ospiti, solo quelli giovani però. Come se non bastasse
Euritione tentò infine di rapire e violentare persino la sposa. Insomma gli
invitati perfetti per delle nozze da sogno! Chissà, forse lo sposo era Cancro e
aveva organizzato il tutto per tornare da mamma? O le consuocere erano
una Scorpione e l’altra Vergine e avevano tramato un piano per sabotare le
nozze? Non è il caso di approfondire queste mie deliranti ipotesi. Sta di fatto
che la rissa sfociò in una battaglia in piena regola, che si concluse con la
sconfitta dei Centauri. Della vicenda, nota col nome di Centauromachia, la più
famosa raffigurazione è quella del Partenone, di cui si possono ammirare
numerosi ampi frammenti presso il British Museum di Londra.
L’altra elegantissima perfomance è quella che vede invece protagonista il
centauro Nesso, il quale tentò di violentare Deianira, la seconda moglie di
Ercole. Colpito a morte dall’eroe, prima di morire per vendicarsi donò a
Deianira una tunica intrisa del proprio sangue, asserendo fosse una supplica
di perdono e che la veste, indossata da Ercole, lo avrebbe reso uno sposo
sempre fedele. Quando in seguito Deianira ebbe motivo di sospettare che il
marito la tradisse con una giovane e bella schiava, diede allora in dono a
Ercole la tunica; questi, non appena l’ebbe indossata, morì arso all’istante.
A parte la soavità dei modi e la lieve intemperanza sessuale tendente a una
qual certa propensione per la violenza carnale, a proposito di questi
centauri il lettore più accorto avrà notato anche un altro elemento: i due
episodi sopra citati sono strettamente connessi ad altri due celebri miti:
quello di Giasone (di cui la storia di Issione è il mitologico antefatto) e quello
di Ercole, non a caso corrispondenti rispettivamente al segno dell’Ariete e al
segno del Leone. La mitologia ci ricorda insomma che il Sagittario è un
segno di Fuoco, appartenente alla stessa astrologica famigliola dell’istintivo
(per usare un eufemismo) Ariete e dell’appena possessivo ed egocentrico (in
tono sempre eufemistico) Leone. Pertanto, con buona pace di molti Sagittari
caratterizzati da una specifica forma di intellettuale puzza al naso, in virtù
della quale prendono le distanze dai loro focosi parenti astrologici, fin qui di
intellettuale e chic il mito narra ben poco: i centauri sono esseri bramosi,
prepotenti e dalla smodata passionalità, che incarnano il peggio dell’essere
umano unito al peggio dell’animale.
C’è però un altro Sagittario, il centauro Chirone, del tutto differente e
senza parentela alcuna con Euritione e la sua stirpe. Chirone difatti è figlio
di Crono e della mortale Filira e, pertanto, fratellastro nientemeno che di
Zeus. A cosa deve allora la deformità del suo corpo? Al fatto che Crono, per
celare la propria identità alla fanciulla ed evitare la furia della moglie Rea,
assunse le sembianze di un possente stallone e così concupì Filira. Perché
quest’ultima abbia provato così tanta attrazione per un cavallo da unirsi a
lui sessualmente, resta un quesito arduo. Il mito di Ilona Staller potrebbe
illuminarci. Qui basta notare che l’aspetto di Chirone è comunque
conseguenza di una passione incontenibile e illecita. E difatti del suo corpo
Chirone ha vergogna, tanto da studiare le arti mediche nel tentativo di
guarire la propria deformità. Tentativo vano, però. In compenso Chirone
diventerà un medico così esperto da scoprire la panacea, erba guaritrice di
tutti i mali (tutti tranne il suo, che non è una malattia, ma una forma
d’essere); e soprattutto diverrà a tal punto saggio e incline all’insegnamento,
da annoverare fra i suoi discepoli addirittura Asclepio, dio della medicina e
figlio di Apollo, Dionisio e ovviamente Giasone ed Ercole.
I miti ancora una volta si intersecano. Fu proprio Ercole l’involontario
esecutore del compimento del destino del suo maestro. L’eroe infatti, reduce
dalla sua seconda fatica (l’uccisione del mostro dalle nove teste
simbolicamente connesso al segno dello Scorpione), colpì inavvertitamente
Chirone con una freccia sporca del sangue velenoso dell’Idra. Chirone però,
in quanto figlio di Crono, era immortale e il veleno, non potendolo
uccidere, agì su di lui con un continuo e insostenibile dolore, finché lo stesso
Chirone non chiese di spogliarsi dell’immortalità per porre fine alle sue
sofferenze. Zeus acconsentì. Non solo, ma in segno di rispetto verso il
fratellastro, volle trasformare Chirone nella costellazione del Centauro
affinché brillasse comunque di luce eterna. «Da allora Chirone incarna la
figura del guaritore ferito. Il saggio che conosce profondamente la natura
del dolore».57 Un ruolo così caro a tanti esponenti del segno! Alibi perfetto
di certi sabotatori. A monte di tutto, però, resta il sesso.
Laddove Chirone educa e forma, Euritione e famiglia brutalizzano senza
freni. Quel che il primo vive con vergogna, gli altri esternano impunemente.
Tuttavia, nonostante le origini diverse e le diverse modalità di vivere il
desiderio, quel corpo composto da due metà brutalmente congiunte è
comune a entrambi. Un’immagine simbolica, potente ed efficace, per
rappresentare l’erotismo umano: istinti e cerebralità in un unico essere.
Chirone potrà anche apparire – e per certi versi lo è – migliore degli altri
centauri, eppure il suo sforzo è tutto teso a reprimere e sublimare una
sessualità di cui ha vergogna e timore. Dato che si esenta dal confrontarsi
con essa, sarà il Fato a costringerlo. Lo Scorpione rappresenta infatti
l’ineluttabile potenza dell’eros e del thánatos, e la freccia è intrisa del suo
simbolico veleno. Così come l’altra freccia, quella che il Sagittario è sul
punto di scoccare, è rivolta nel cielo proprio verso la costellazione dello
Scorpione.
Resto incantato dall’eleganza e dalla precisione con cui la mitologia
racconta la dicotomia eros/ratio propria del Sagittario. E di conseguenza la
sua esasperata difficoltà di mediare fra razionale e istintuale. L’incanto si fa
in me assoluto stupore nel constatare come l’astrologia, quando e come non
si sa, abbia sintetizzato tutto ciò in un simbolo.
Avremo così il sabotatore che veste i panni di Euritione e quello che
predilige invece il ruolo di Chirone, o più ancora troveremo sabotanti
esponenti del segno in cui i due ruoli si alternano nel corso della vita o si
sovrappongono fra pubblico e privato. Eppure il succo è lo stesso. Perché il
Sagittario è uno. Duplice, multiforme, ma uno. E qualunque sia il suo stile
sabotante, implica l’esasperazione di una parte di sé, quella animale o
razionale, a discapito dell’altra. Non a caso fra gli esponenti del segno è
maggiormente avvertita la scissione fra sentimento e godimento sessuale.
Una condizione spesso stigmatizzata come tabù o farcita dei soliti efficaci
sensi di colpa, quando invece è abbastanza naturale. Certo non va
esasperata. Per fortuna il Sagittario così come incarna il problema,
impersona la soluzione.
Una mia amica ultraottantenne, ovviamente Sagittario, donna coltissima e
vissuta, resta una fervente sostenitrice di quanto i bordelli fossero la miglior
terapia per un buon matrimonio. E un’altra fantastica Sagittario, anche lei
vicina agli ottanta, una sera d’estate a cena a casa mia, quando riproverai il
mio cane perché le leccava una gamba, mi disse: «Lascialo stare, non fa
nulla. Sai da quanto un maschio non mi lecca le cosce?». Ci vogliono
coraggio e anni sulle spalle per sostenere certe tesi. Il Sagittario è in
grado di fare questo e altro. Così come può superare ogni sabotaggio
proprio per quel bisogno innato di andare oltre.
C’è un ultimo punto, implicito nel mito, che vale la pena sottolineare:
come si è detto, il Sagittario è un segno di Fuoco e casto o promiscuo,
mondano o monacale, troverà il modo di ricoprire il ruolo del leader. E lo
farà con la sottile peculiarità dettata dal condizionamento tipico del segno:
insegnare. Dietro cui si cela il comandare. Il Sagittario sabotante pertanto
attuerà la sua leadership in modo smaccatamente fallico: dove non ci sarà
sesso ci sarà allora esercizio di potere, danaro o, per i più astuti, sapere.
Magari soltanto nelle piccole cose domestiche, ma il fatto resta. Il solito
giochino della vittima che in realtà si rivela carnefice.
Ci sarebbero altri elementi da sviscerare, ad esempio il concetto di
“verità” e “legalità”, tanto cari agli esponenti del segno. Ma si rischia di
mettere troppa legna la fuoco e il fuoco del Sagittario è già ardente di suo.
Pertanto meglio concludere qui. Anche perché il Sagittario, oltre a essere il
più scettico, è forse il segno più permaloso dello Zodiaco. A questo punto
allora non oso immaginare le critiche e i commenti. E c’è di più. Sono certo
che alcuni di loro, fra una telefonata, un messaggio o una mail, troveranno il
modo di spiegarmi cosa ho sbagliato e perché. Il bello è che qualcuno avrà
pure ragione!
CAPRICORNO

I meccanismi che un Capricorno mette in atto per sabotare la propria vita


affettiva sono forse tra i più ardui da spiegare. Questo non perché le
dinamiche in ballo siano più complesse rispetto a quelle degli altri segni
(ognuno ha le sue e le mette in atto a modo proprio), quanto piuttosto per
alcuni aspetti della personalità del Capricorno male interpretati a monte:
primo fra tutti la sua introversione.
In tal caso, prima di affrontare le modalità e il movente del sabotaggio,
bisogna operare una rilettura di questo segno alla luce di una prospettiva
nuova, oserei dire “trasgressiva”, in conseguenza della quale la tanto
decantata introversione capricornina verrà fermamente messa in
discussione. Cosa?! Avete letto bene, tranquilli, non avete le traveggole.
Quindi il pesante, cerebrale, taciturno Capricorno non sarebbe un
introverso? Com’è possibile?! Il chiummo – come lo definisco in Io Vergine, tu
Pesci? – non è un introverso? Ebbene sì, sarà anche pesante, taciturno e
chiummuso, ma da un punto di vista psicologico il Capricorno non è
definibile come un soggetto introverso. Mi rendo conto che l’affermazione è
decisamente osé: va spiegata nel dettaglio, altrimenti risulta gratuita e
fuorviante. Ed ecco la difficoltà (nonché la pesantezza!) di cui sopra.
Scusate, col Capricorno vi aspettavate forse una roba leggera?
Innanzitutto è necessario definire l’esatto significato psicologico di
“introversione” ed “estroversione”, senza confonderlo con la comune ed
errata accezione di “socievole” o “non socievole”, “espansivo” o
“taciturno”. Un pizzico di esperienza e di buon senso ci insegna infatti che
una persona può essere estremamente socievole e parlar tanto senza dire
nulla di sé; così come può esternare molto senza tuttavia ricorrere a
scialorree emotive tese a subissare il malcapitato interlocutore. Introversione
ed estroversione non hanno nulla a che vedere con la timidezza, la
socievolezza o con la capacità comunicativa di un individuo. Secondo Jung
introverso ed estroverso sono semmai due tipi psicologici che si
differenziano per un radicale e opposto approccio col mondo: l’estroverso
pone fuori, esternamente a sé, la misura e la percezione della realtà – quindi
anche di se stesso; l’introverso pone invece nel suo mondo soggettivo i
parametri e l’essenza del mondo esterno. Scrive:
Le caratteristiche generali del tipo introverso sono le seguenti: egli si distingue
dall’estroverso perché non si orienta, come quest’ultimo, secondo l’oggetto e il dato
oggettivo, ma tiene conto soprattutto dei fattori soggettivi […]. La coscienza
introversa vede certo perfettamente le condizioni esteriori, ma dà la preponderanza
alle determinanti soggettive che essa crede più importanti […]. Mentre l’estroverso
si basa sempre di preferenza su ciò che gli viene dall’oggetto, l’introverso si
richiama alla costellazione che l’impressione esteriore fa nascere nel soggetto.58

È ovvio che la differenziazione fra i due tipi non è sempre così netta. Jung lo
ribadisce più volte: esistono delle sfumature, delle compensazioni nella
personalità di ogni individuo, ma a seconda di quale approccio tende a
prevalere avremo il tipo introverso o il tipo estroverso. E il Capricorno che
tipo è? Qui viene il bello! La sua natura di segno di Terra pone il senso della
realtà nel mondo oggettivo esterno. Esiste solo ciò che si vede e ciò che si
tocca con mano. La verità è reale ed è tale perché tangibile. Liz Green
scrive:
L’elemento terra è in correlazione con la funzione della sensazione e la funzione
della sensazione è la funzione della realtà. Il tipo terra non può accettare niente
che non sia sostenuto dalla testimonianza dei suoi sensi, d’altronde la sensazione dà
valore solo a ciò che può percepire.59

Nel caso del Capricorno ci troviamo quindi dinanzi a un approccio col


mondo esterno di tipo sensoriale e non razionale. C’è una bella differenza!
Sulla linea di questo ragionamento trovano una più logica collocazione due
aspetti caratteriali tipici del segno: il valore del “soldo” (non in chiave
meramente esibizionistica, ma perché la “roba” è indice tangibile di
possanza e solidità) e la grande, grandissima importanza attribuita al parere
altrui. Quanto conta il giudizio degli altri per un Capricorno! Quest’ultimo
aspetto viene spesso spacciato dagli esponenti del segno per orgoglio, decoro
e bla, bla, bla. Si tratta invece della borghese necessità tipica di un soggetto
«particolarmente attento a modellare il proprio comportamento sulle
appropriate aspettative sociali»,60 per usare le esatte parole di Liz Green.
Comincia a insinuarsi fra le righe un certo istrionismo e una qual certa
doppiezza. Insomma, il Capricorno è un estroverso che si spaccia per
introverso? Non proprio. Allora in fondo è davvero introverso? Nemmeno.
Mettiamola così: l’oggettività del Capricorno c’è, ma non è
sufficientemente oggettiva da riconoscere la soggettività dell’altro. Pertanto
l’altro verrà inevitabilmente schiacciato con capricornina soggettiva
(introversa) oggettività (estroversione sensoriale). Una cosuccia da niente,
contorta e pesante. È bene inoltre ricordare, in cotanta leggiadria, che col
termine “Altro” in psicologia non si indica semplicemente un’altra persona,
ma tutto ciò che è diverso da sé, compresa una certa parte di se stessi.
Quindi nella sua oggettività non sufficientemente oggettiva da riconoscere
la soggettività altrui, il Capricorno schiaccia anche se stesso. Un paradosso o
un doppio agghiacciante? L’astrologia raffigura il Capricorno come una
creatura mezza capra e mezza pesce, in merito alla sua doppiezza parla
chiaro. Tuttavia se l’immagine di un ovino per metà squamoso fa un po’
senso, grazie all’utilizzo di una terminologia junghiana la descrizione
potrebbe risultare più gradevole e suonerebbe più o meno così: un tipo
sensoriale estroverso combinato con un tipo pensiero introverso.
Decisamente più gradevole, ma il succo è lo stesso. Lisa Morpurgo sintetizza
il tutto definendo il Capricorno con un unico illuminante termine:
“retroverso”. Retroverso, sì! Ragionando sulla parte del corpo umano
corrispondente al Capricorno, ovvero la spina dorsale, Lisa Morpurgo ne Il
convitato di pietra scrive:
Vorrei fare qui un’osservazione curiosa, relativa alla posizione posteriore (dorsale
appunto) della colonna vertebrale, che volta le spalle, per cosi dire, a tutta la linea
direzionale dell’attività umana, protesa in avanti. Ciò corrisponde al tipico
carattere del Capricorno, abitualmente detto introverso, ma che meriterebbe
piuttosto la definizione di retroverso. La tendenza a isolarsi e la scarsa loquacità,
tanto frequenti nel Capricorno, non corrispondono a una meditazione interiore.
[…] La grande forza del Capricorno è l’indifferenza, che può configurarsi in
crudeltà spietata o in semplice assenteismo.61

Ecco affiorare come il Capricorno effettua il proprio sabotaggio: voltando le


spalle alla vita. Con implacabile, austera, monolitica rigidità il Capricorno
sabotante dà le spalle al futuro e a ogni sua espressione. Perché? Volete il
movente? Ricordiamoci il mito corrispondente a questo segno, quello di
Crono, un padre che divora i suoi figli per non essere detronizzato. Il
retroverso Capricorno rivolge pertanto il suo oggettivo sguardo al passato,
fissandosi su di esso, per schiacciare ogni elemento che possa sovvertirlo. Un
simile atteggiamento esistenziale deve necessariamente imporre a se stessi e
agli altri un’oggettiva (soggettivissima) realtà, altrimenti si crea uno squarcio
da cui il futuro entra. Ma il tempo scorre comunque, il futuro arriva
ugualmente e il Capricorno finisce schiacciato dal peso dei solidi macigni
con cui ha costruito, o meglio sabotato, la propria vita affettiva. Soltanto
certe Vergini e certi Tori possono condividere il gaudio di una logica
talmente illogica e godere, torturandosi, della solidità di una visuale
retroversa.
Seduto contromano sul veloce treno della vita, il Capricorno sabotante
attuerà performance sentimentali apparentemente diverse: da un’inesauribile
sequenza di amori (tutti uguali in sostanza), a un’opposta ossessione verso
un unico soggetto, oppure alla totale chiusura affettiva, magari tuffandosi a
capofitto nel lavoro. In mezzo può esserci di tutto: la capra squamosa
provvederà comunque a procurarsi un ottimo alibi, validissimo agli occhi
della società, per giustificare il proprio operato e quindi il sabotaggio. Aria
fritta. Pesantissima, plumbea aria fritta. Basta soffiare un po’ – forse più di
un po’ nel caso del Capricorno – e la verità salta fuori. Vagamente sgamato, il
sabotatore giocherà allora la carta della sua proverbiale proiezione
inconscia: «Gli altri sono indegni». Probabilmente sarà indegno anche
questo paragrafo.
Tuttavia è bene chiarire che reggersi sulla propria spina dorsale non
implica dare le spalle agli altri, né tanto meno alla vita. Tutt’altro! Così
come un approccio pratico al quotidiano non fa necessariamente della
fantasia una forza oscura e pericolosa. Ma l’eros (non il sesso) è intriso di
così tante fantasie… quante! Troppe e decisamente destabilizzanti.
D’altronde non potrebbe essere altrimenti, poiché eros e desiderio plasmano
il futuro. Allora meglio rinunciarci. Meglio rinunciare al desiderio autentico,
così da evitare il futuro, addossando agli altri la colpa di essere indegni.
Meglio scegliere qualcosa di più solido. Meglio morire schiacciati sotto il
proprio stesso peso. Meglio, molto meglio.
Che dire: condoglianze.
I P
Se puntualizzare la natura retroversa del Capricorno è fondamentale per
comprenderne alcuni aspetti del carattere, il mito corrispondente a questo
segno – quel mito già accennato e buttato lì come un sassolino – è invece
illuminante in merito al movente che spinge la nostra capra-pesce ad agire
in un determinato modo.
Le due cose, è chiaro, sono profondamente connesse: per alcuni in un
rapporto di causa effetto, per quel che mi riguarda invece l’indole retroversa
capricornina è una conseguenza del condizionamento astrologico del segno,
e il mito racconta a suo modo da dove quel condizionamento nasce.
Potere. Controllo. Tempo. Altri tre sassolini lanciati così. Più che sassolini,
macigni. Comunque sia per il momento lasciamoli lì, come un cartello,
saldamente agganciati a quanto detto finora. Sarà un quarto sassolino a
colpirli e mandarli tutti in buca con un colpo solo.
Prima però è necessaria un’ultima premessa. Come ricorda Vitali, «nella
mitologia ellenica, così in quella romana, gli dèi non sono creatori, ma
soltanto gli amministratori della Vita universale. Figli del Cielo e della
Terra, essi hanno trovato il mondo già fatto, e ne rappresentano soltanto le
diverse forze».62 Inoltre, come gli esseri umani, tutte le divinità sono
sottomesse al Fato, potenza implacabile e ineludibile.
Detto ciò possiamo addentrarci nel leggiadro mito corrispondente al
Capricorno, talmente soave da essere forse il più efferato di tutta la
mitologia greca; per farlo dobbiamo andare indietro, molto indietro nel
tempo. Ne siete stupiti? C’era da aspettarselo a proposito di un retroverso.
Prima di Zeus sul creato governavano i Titani e prima ancora Urano e
Gea, il Cielo e la Terra, dalla cui unione i Titani vennero generati. Urano
tuttavia, sapendo che uno dei suoi figli, per volere del Fato, lo avrebbe
ucciso e avrebbe preso il potere, obbligò Gea a rinchiuderli tutti dentro una
grotta via via che nascevano. Finché la Terra non decise di opporsi al suo
sposo. Non osando affrontarlo da sola però, chiese aiuto proprio ai suoi figli.
Ad accogliere la sua richiesta fu soltanto uno, l’ultimo nato, Crono. Il
Tempo. L’atto che ne seguì fu a dir poco freudiano: mentre Urano giaceva
con Gea, Crono tagliò i genitali del padre con una falce e liberò i fratelli.
Dal sangue caduto al suolo nacquero le Erinni, i Giganti e le Ninfe, che
dettero inizio a una stirpe mortale; dal membro reciso e gettato in mare
nacque invece Afrodite. Il tutto è simbolicamente riassunto nel glifo del
segno, con la potenza di sintesi tipica dell’astrologia: una linea curva, la
falce appunto, che sovrasta la croce simbolo della materia.
Ebbe così inizio l’era dei Titani. Crono sposò la sorella Rea e dai due
nacque la prima generazione degli dèi. Ma un figlio non amato, seppur
animato da propositi di giustizia, se non apprende un nuovo linguaggio
affettivo, finisce per riproporre l’unico che conosce. Difatti Crono, venuto a
conoscenza dall’oracolo di avere un destino simile a quello paterno, fece
fuori anche lui i propri figli, questa volta divorandoli non appena partoriti.
Ma il Fato è inesorabile. Nato Zeus, invece del neonato Rea diede in pasto
al suo sposo un sasso avvolto in fasce (ecco il quarto sassolino!) e condusse in
segreto il bimbo a Creta, dove fu nutrito dalla capra Amaltea (il cui nome
significa appunto “nutrice”). Una volta cresciuto, Zeus tornò sull’Olimpo,
affrontò il padre e lo sconfisse. Non lo uccise però. Lo costrinse piuttosto a
bere un emetico che gli fece vomitare dapprima il sasso e poi gli altri figli, gli
dèi Demetra, Estia, Era, Ade e Poseidone, quindi ordinò che venisse
incatenato e condotto in una terra lontana dove espiare le sue colpe.
Tuttavia il Fato aveva in serbo per Zeus un’ultima ma necessaria prova.
Sebbene il nuovo re non avesse ucciso Crono, l’ascesa degli dèi implicava il
definitivo tramonto dell’era dei Titani, pertanto Zeus doveva eliminare la
stirpe da cui discendeva. Gea non accettò il fatto e contro il nipote scagliò
Tifeo, mostro infernale dalle cento teste (il cui mito corrisponde al segno dei
Pesci), talmente potente da costringere gli dèi a fuggire dall’Olimpo. Per
salvarsi alcuni si rifugiarono in Egitto, altri si gettarono in mare
trasformandosi in pesci. A dar loro in tempo l’allarme fu il satiro Pan (in
quanto satiro, d’aspetto caprino), il quale però mutò in pesce soltanto la
parte posteriore del corpo, così da poter tornare sulla terra per aiutare Zeus.
Questi infatti, il solo a poter affrontare Tifeo, era ormai sul punto di essere
sopraffatto dal mostro. L’aiuto di Pan fu determinante, ma gli costò la vita.
Perciò in segno di riconoscenza Zeus pose l’amico in cielo sotto forma di
costellazione. Quella del Capricorno.
Siamo di fronte a una storia ampia tre generazioni. Fondamentalmente si
tratta di una saga di potere. Un potere enorme. Un potere che va difeso
attraverso il controllo, affinché il futuro venga estirpato al nascere. Un
potere tutto incentrato sulla figura del padre, che deve essere annientato
perché il figlio possa vivere. Tuttavia il ruolo del femminile in questa vicenda
è altrettanto determinante, un femminile complesso, al tempo stesso debole
e manipolatore, salvifico e distruttivo: quando infine anche Gea è sul punto
di perdere quel potere, per annientare l’emancipazione di Zeus non esita a
scatenare contro di lui l’inferno. Tale e quale al suo sposo. Una figura così
simile a tante mogli e tante madri, vittime finché non si rivelano carnefici.
Tutto per il potere.
Il glifo e la raffigurazione del segno rappresentano i due momenti cruciali
della nostra saga: la castrazione del padre e la salvezza attraverso la
trasformazione. A proposito della salvezza, non è un dettaglio da poco il
fatto che in questa vicenda essa giunga attraverso il sostegno donato da altri,
Amaltea e Pan, gli unici personaggi della saga esterni alla divina famiglia,
mortali e il cui aiuto a Zeus è del tutto disinteressato. Che gli altri, i diversi,
in astrologia siano proprio i Pesci è fantastico!
Tuttavia addentrarci adesso nella simbologia dei Pesci, che ci condurrebbe
dal Capricorno all’iconografia cristiana, rischia di essere troppo: invito i più
volenterosi a leggere il paragrafo pertinente. A proposito di trasformazione
qui infatti dobbiamo ancora affrontare l’ultima parte del mito: la
trasformazione di Crono. D’altronde il fatto che Zeus lo abbia risparmiato
non è un caso.
Dopo essere stato sconfitto, il Tempo venne condotto infatti in una regione
italica dove trascorse un lungo periodo di isolamento e dolore.
Successivamente cominciò a dedicarsi alla coltivazione della terra, tanto da
divenire pian piano un profondo conoscitore della natura e dei suoi ritmi.
Finché avvenne il cambiamento. Il Tempo fece pace col tempo. Ne accolse
il divenire. Ne comprese la fertilità, rinunciando al controllo e all’esercizio di
potere. Così Crono divenne Saturno, il re saggio che insegnò alle genti
italiche l’agricoltura e l’arte di costruire città. Il suo regno fu così florido da
coincidere secondo la cultura romana con la mitica Età dell’oro, durante la
quale tutti potevano godere dell’abbondanza dei frutti della terra e gli esseri
umani vivevano fra loro in armonia. Per i romani infatti Saturno è il dio
civilizzatore. A lui vennero consacrate le feste dette “Saturnali”, celebrate
dal 17 al 23 dicembre, durante le quali persino gli schiavi a Roma venivano
lasciati liberi.
Dall’omonima divinità prende nome il pianeta che domina il segno del
Capricorno, il secondo per grandezza dopo Giove nel nostro sistema solare.
Troppo spesso stigmatizzato come “negativo”, in astrologia Saturno è invece
il “grande signore del tempo”. La sua funzione nel tema natale è quella di
dare struttura all’Io, sul piano fisico, psicologico e morale. Non a caso le
parti del corpo a cui è posto in relazione sono appunto la colonna
vertebrale, le ossa e i processi di calcificazione. Spetta però all’individuo
ergersi sulla propria spina dorsale e progredire verso la propria
realizzazione, piuttosto che “calcificarsi” in uno sterile atteggiamento
retroverso.
Claire Santagostini definisce appunto Saturno come una forza che
costruisce l’essere umano mediante la rinuncia a ciò che è divenuto
insufficiente per fissarsi, invece, sull’essenziale necessario. Il problema si
pone quando di costruttivo rimane ben poco e la fissazione è tutta rivolta al
controllo, mentre il pensiero si fa ossessivo e contorto – caratteristica di tanti
Capricorno!
A proposito: ricordiamoci che l’ingresso del Sole in questo segno coincide
con il solstizio di inverno, la notte più lunga dell’anno, e difatti il celebrale
protagonista di questa lunga notte presenta paradossalmente una spiccata
predisposizione per l’astrazione onirica. Un dato che non è poi così strano
se si pensa che l’astrazione in astrologia è caratteristica dei Pesci. Nel caso
del Capricorno però gli ingredienti si combinano in modo del tutto
particolare, dando vita a un’attività cognitiva incline a un pensiero di tipo
onirico-astratto-ossessivo-noir. Una cosuccia da niente. Basti pensare a
Edgar Allan Poe, guarda caso esponente del segno. Qui tuttavia non
bisogna dimenticare che si parla di sabotaggio e l’obiettivo resta quello di
comprenderne il movente al fine di disinnescarlo.
Potere. Controllo. Tempo. Spero che adesso sia chiaro che peso abbiano
queste tre paroline nella struttura psichica di un Capricorno. Il sabotatore
retroverso le rivolge contro gli altri per proteggere il proprio status, finendo
poi per devastare se stesso. Il non sabotante accoglie invece la
trasformazione. Certo non è facile, né poco doloroso. Il mito ci parla anche
di un bambino non amato, rifiutato, che deve farsi carico di un compito
enorme. Scrive Manuela Caregnato:
E qui troviamo il tema dell’infanzia derubata, della precoce responsabilità che
spesso viene addossata ai bambini con forti valori Saturno (o Capricorno), che
spesso da piccoli sembrano già “ometti” o “donnine”, come se non potessero essere
accettati per ciò che sono, ma solo per ciò che fanno e sono in grado di
dimostrare.63

Tuttavia è vero anche che il Capricorno nel ruolo del “bravo bambino” ci
sguazza e il sabotante ci sciala, e dietro la maschera indossata per la società
si nascondono i gatti neri di Edgar Allan Poe.
A proposito di lamenti silenziati, mi viene in mente un episodio della vita
sentimentale di una mia cara amica Capricorno ascendente Vergine, la
quale pianse per giorni in una camera d’albergo con un cuscino in bocca
quando disse addio al suo compagno austriaco, che mesi prima si era
scoperto in Austria sposato con figli. Ad accompagnarla nel romantico
viaggio fu un’altra amica, Toro , la quale in una mitica telefonata mi
disse: «Ma perché venire fin qui per torturarsi? E perché piangere col
cuscino in bocca? Poi nemmeno ha voluto farci sesso. Con Lucas, non col
cuscino. Mah, almeno avrebbe ammortizzato il prezzo del biglietto!
Comunque stasera ho deciso che cucino le melanzane alla parmigiana, a lei
piacciono». L’esito della taurina parmigiana austriaca fu devastante, in ogni
senso. A pensarci bene anche un’altra mia carissima amica, lei invece
Vergine ascendente Capricorno, anni fa pianse per sei mesi con un cuscino
in bocca. In questo caso lei aveva lasciato lui perché non poteva seguirlo.
Dove, tutt’ora non è chiaro.
Non è facile accordarsi alle evoluzioni della vita. Non lo è per nessuno.
Ma è proprio di questo che parla il mito corrispondente al Capricorno, così
come in un tema natale Saturno parla fondamentalmente di ciò che è
irrisolto. Portarlo a galla non è mai una passeggiata, sono spesso i fatti più
dolorosi a imporci il confronto con noi stessi. Ma nonostante la durezza del
mito, questo non rende Saturno un infelice, semmai il saggio re dell’Età
dell’oro. Il sabotante di tutto ciò non vuol saperne. Preferisce opporsi al Fato
e rinchiudere i propri amori/figli, in una grotta o divorali, logorandosi (e
logorando gli altri) nel complesso più devastante: non avere su gli altri il
potere desiderato. D’altronde fu Giulio Andreotti, Capricorno ascendente
Capricorno, a dire: «Il potere logora chi non ce l’ha».64
Per cominciare a disinnescare questo sabotaggio basterebbe allora un
pizzico di umiltà. Non complessi, ma umiltà, assai diverso. Quella stessa
che, in nome del proverbiale orgoglio tipico del segno, molti Capricorno
disconoscono. Soltanto qualche granello di umiltà: se nemmeno i padri di
tutti gli dèi poterono sottrarsi all’evoluzione, potrà mai farlo un comune
mortale? È logico impegnare tutte le proprie forze per vivere retroversi? Il
Capricorno sabotante, granitico e austero, vi risponderà di sì.
ACQUARIO

La parola d’ordine dell’Acquario è “libertà”. Una constante ribadita in tutti


i libri di astrologia, nonché un vanto per gli esponenti del segno i quali,
senza retoriche ostentazioni, non mancano tuttavia di fregiarsi di questa
coccarda: liberté. Incarnata e difesa, sempre e comunque. Liberté, liberté, liberté!
Egalité e fraternité un po’ meno. Che l’Acquario difatti non gradisca legami
e situazioni che possano ridimensionare le sue possibilità e la sua libertà
d’azione non v’è dubbio alcuno; sulle pari opportunità concesse agli altri
invece i dubbi affiorano, eccome se affiorano! «Vivi e lascia vivere», afferma
l’Acquario. Sì, «finché il tuo vivere non implica una qualche restrizione del
mio, viceversa puoi morire». Questo non lo dice, ma lo attua. Egoismo?
Non esattamente.
Qui non abbiamo a che fare con un ego obeso che gode nell’anteporre e
imporre se stesso agli altri, tutt’altro. All’Acquario non interessa affatto il
volgare tiranneggiare. Per lui quel che conta sono le opportunità della vita,
piccole o grandi che siano, nonché la libertà di poterle coglierle senza avere
palle al piede che lo limitino; e chiunque, con le sue necessità, si frappone
fra l’Acquario e quelle opportunità diventa appunto una palla al piede.
“Opportunista” quindi è la definizione più consona. Strano però che
un’opportunista attui un sabotaggio contro la propria vita; sembra
improbabile. Anzi suona del tutto antitetico con la definizione stessa di
opportunismo. Eppure accade. Cosa mai può indurre allora un soggetto
simile a tirare uno sgambetto a se stesso?
Prima di ipotizzare una risposta è necessario a mio avviso insistere su un
aspetto dell’Acquario di cui si parla poco o nulla, ovvero la sua doppiezza.
Ebbene sì, l’Acquario è un segno clamorosamente doppio e lo è in un modo
del tutto particolare, poiché tale doppiezza riguarda il suo mondo onirico, le
sue fantasie e quindi le multiformi possibilità che volteggiano dentro quella
sua svampita testolina. Qualcuno potrebbe tuttavia obiettare che ciascuno
di noi vive uno sdoppiamento fra il mondo reale e quello onirico, pertanto è
naturale; nell’Acquario la questione assume però proporzioni abnormi, con
connotazioni assai peculiari, in conseguenza delle quali il sogno possiede già
in sé la valenza di incubo. Alice nel paese delle meraviglie dell’Acquario Lewis
Carroll è un esempio eloquente del fiabesco e raccapricciante universo a cui
alludo. Ma se in Io Vergine, tu Pesci? ho utilizzato Alice come paradigma per
comprendere l’Acquario, qui l’obiettivo specifico è indagare sul sabotaggio,
e allora forse è più opportuno approcciarsi alla doppiezza del segno da un
altro versante.
Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione
della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, il periodo della luce e il
periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione,
avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi.65

Scrive Charles Dickens, ovviamente Acquario, in Racconto di due città. È


questa la doppiezza dell’Acquario a cui mi riferisco: simultanea e opposta
possibilità di esistere o di negarsi l’esistenza. «Essere o non essere» dice
Amleto. Nell’Acquario le due cose non si escludono, convivono. Basta allora
propendere verso la negazione, ovvero annullare l’altra possibilità esposta da
Dickens, quella del «tutto dinanzi a noi», ed ecco che la leggerezza
scompare, lasciando il posto al «nulla dinanzi a noi».
Chiarito, o almeno spero, come sia possibile che l’opportunista cronico
dello Zodiaco possa anche lui inciampare nel sabotaggio, resta da appurare
il movente che spinge verso l’annullamento della propria libertà. Perché?
Qual è la causa dello sgambetto? “Il disagio della libertà”, potrebbe essere
una risposta interessante, nonché il titolo di un saggio dell’Acquario
Corrado Augias.
Nell’affrontare un argomento simile bisognerebbe prima però mettersi
d’accordo su che cos’è la libertà. Purtroppo da qualche millennio non ci
riusciamo, e non credo possa farlo io in queste pagine. Ognuno pertanto
scelga la sua definizione.
La libertà è una condizione nella quale un uomo può decidere in maniera
autonoma i propri comportamenti e le proprie azioni liberamente: questo
comporta avere dubbi, fare delle scelte, fare anche degli errori, e prendersi la
responsabilità delle proprie azioni. Non è una condizione semplice da gestire.66
Questo il pensiero dell’Acquario Vasco Rossi.
Alla parola “responsabilità” certi esponenti del segno scattano come una
molla, proprio come quando il dentista pizzica il punto dolente. Accade
spesso coi segni d’Aria. Ma come si può vivere liberamente senza prendersi
la responsabilità del proprio libero agire? È questo il punto. L’Acquario
sabotante elude il problema: in nome di quel preciso condizionamento del
segno che lo induce a non volere per sé catene di alcun tipo, non vuole
nemmeno la palla al piede della responsabilità della propria libertà. D’altra
parte è una responsabilità decisamente impegnativa!
Attenzione però, bisogna evitare un equivoco. Per quel che riguarda il mio
personalissimo parere l’Acquario sabotante non è colui che vive in modo
indiscriminato la propria libertà, il libertino sregolato che non sa valutare le
conseguenze del suo agire. L’autentico sabotatore Acquario è colui invece
che della libertà fa un alibi per non affrontare la conseguenza delle sue
responsabilità. La differenza è sottile, ma a mio avviso sostanziale. Un
esempio emblematico di questo tipo psicologico è il personaggio di Holly in
Colazione da Tiffany, sapientemente tratteggiato dalla penna di Truman
Capote, Bilancia ascendente Acquario. Ricordate cosa dice Holly al gatto?
Su, vieni qua, povero amore, povero amore senza nome… ma io penso che non ho
il diritto di dargli un nome… perché in fondo noi due non ci apparteniamo, è stato
un incontro casuale. E poi non voglio possedere niente, finché non avrò trovato un
posto che mi vada a genio… non so ancora dove sarà, ma so com’è.67

Mettiamola così: il sabotatore come sempre è assai più arguto del semplice
sprovveduto. Avverte ciò che potrebbe essere, perciò lo sabota. Nel caso
dell’Acquario usare la libertà come alibi per nascondere il “disagio della
libertà” è una roba sopraffina, un procedimento tutto mentale, così come
cerebrale è l’Acquario.
Sì, lo so, avete ragione. Il discorso si è fatto pesante. Succede sempre così
coi segni d’Aria, sabotanti o no: sembrano leggeri, allegri, impalpabili, e per
certi versi lo sono davvero, poi però la loro doppiezza rivela un’inquietante
cervellotica pesantezza. E più si tenta di analizzare il funzionamento di
questi zodiacali aquiloni, più ci si accorge che sono fatti in fibra di plutonio!
Con l’Acquario la questione poi è particolarmente sfuggente, e confesso che,
nonostante quel che ho scritto, ancora non mi sento soddisfatto. Mi sembra
di non aver acciuffato attraverso le parole il sofisticato, lieve, svampito,
micidiale meccanismo che spinge l’Acquario al sabotaggio della propria vita
affettiva.
Per fortuna giunge sempre in soccorso la letteratura.
Nel racconto Phyllis e Rosamond Virginia Woolf (Acquario) parla di due
sorelle della buona società inglese dei primi del Novecento. Le ragazze sono
in età da marito e la loro giornata, sotto la ferrea guida della madre Lady
Hibbert, è tutta incentrata nel trovare il miglior partito. Si tratta di un
regime claustrofobico. Rituali ben precisi regolano la preparazione a feste e
tè, mentre rigide valutazioni ne scandiscono lo svolgimento. L’amore come
movente è escluso. Tuttavia le ragazze sono felici. «Per sua misericordia il
Buon Dio ci ha rese idonee al nostro stato»68 afferma acutamente Phyllis.
Finché non si imbattono nelle sorelle Tristram, che abitano in un quartiere
di Londra meno altolocato dove «si poteva crescere come si voleva».69 Nel
salotto delle Tristram gli argomenti erano assai diversi da quelli a cui Phyllis
e Rosamond erano abituate e, tornando da una di queste riunioni, in Phyllis
si insinua un dubbio: «Che cosa voleva realmente? Per cosa era adatta? Per
criticare entrambi i mondi e sentire che nessuno dei due le dava quello di
cui aveva bisogno?».70 Virginia Woolf non risponde e conclude il suo
racconto riferendoci di Phyllis: «I suoi ultimi pensieri della sera sono stati
che era un vero sollievo che per l’indomani Lady Hibbert avesse disposto
per loro una giornata piena di impegni: quantomeno non avrebbero dovuto
pensare».71
Appurato il movente del nostro sabotatore, resta da tratteggiarne il modus
operandi. È possibile identificarne due: il primo dinamico o transitorio, e il
secondo statico o a lunga gittata. La versione dinamica vanta un ampio
ventaglio di campi d’applicazione: i viaggi, lo sport, il cucciolo trovato per
strada, quel raduno buddista, il circolo letterario del giovedì, il monaco
tibetano del venerdì, la lezione di pilates tantrico e molto altro. Si tratta di
impegni a breve raggio, ma la cui frequenza impegna il nostro Acquario così
da sfuggire, in nome della libertà, a una reale, matura e consapevole
indipendenza.
Nel secondo caso, ovvero nel sabotaggio statico, l’Acquario sceglie invece
un elemento fisso che funge da autentica palla al piede. A volte la catena
sarà costituita da una circostanza che costringerà il soggetto a una certa
immobilità, altre volte si tratterà proprio del partner, o pseudo tale, scelto ad
arte per chiudersi in una gabbia dentro cui lamentarsi per la smarrita
libertà. Con quest’ultima affermazione so bene di essermi guadagnato una
valanga di critiche. Per incrementarle ulteriormente aggiungo che il partner
in questione possiederà di certo almeno uno dei seguenti requisiti: 1) avrà
bisogno di “aiuto”; 2) abiterà a svariati chilometri di distanza 3) presenterà
una spiccata differenza d’età; 4) sarà benestante.
I primi due sono quelli più ricorrenti, d’altronde si sa che l’Acquario ha
una vocazione filantropica e viaggiatrice. Immolarsi per qualcuno è perciò
un’ottima opportunità per sabotare la propria vita, così come la distanza
evita l’evoluzione di un rapporto. Il terzo e il quarto requisito sono invece
connessi ad altre due caratteristiche del segno: venerazione della giovinezza
e snobismo radical chic. In merito al primo punto per l’Acquario infatti non
solo la giovinezza è bella, ma è tutto. La vecchiaia è brutta e non deve
esistere. Nulla a che vedere, ben inteso, con l’estetismo della Bilancia o col
narcisismo del Leone. Nel caso dell’Acquario la valutazione è ben diversa: la
giovinezza equivale al trionfo delle opportunità, la vecchiaia alla loro fine. Il
sabotatore sceglierà quindi partner troppo giovani o troppo agè, dipende dai
gusti.
Per quanto riguarda invece lo status sociale, è qualcosa a cui ogni
Acquario mira, seppur in modo new age. Perché l’Acquario crede davvero
nei suoi slogan: via inutili apparenze! Via borghesi tombe del pensiero! Vade
retro vile danaro, consumismo e banche che hanno distrutto il pianeta e
l’umanità! Eppure l’Acquario raramente sceglierà per sé come partner
l’autentico naturalista squattrinato o l’ecologista sinceramente in lotta col
mondo: resta pur sempre un principino, con uno snobismo intellettuale
tutto suo, in nome del quale gradirà tutte le deprecabili comodità del bel
mondo. L’Acquario sabotante a quelle comodità lo ritroveremo abbarbicato,
seppur con leggiadria.
Come sempre accade, una cosa tuttavia non esclude l’altra, né i
comportamenti sono mai così netti e così evidenti da poter esser rintracciati
in un colpo solo. Quasi sempre le carte si mischiano e si confondono. Il
sabotatore poi è assai furbo, e la bandiera della libertà è un alibi che
sventola bene.
Ancora una volta Colazione da Tiffany risulta il manifesto di questo tipo di
sabotaggio. Ed è il personaggio di Paul, quando nella scena finale si rivolge
a Holly, a riassumere tutto in un ritratto di assoluta precisione:
Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di
coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci
si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera
di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi
che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te
la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in
qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra,
finirai sempre per imbatterti in te stessa.72

Dopo questa tirata il film si conclude con l’happy ending necessario al grande
pubblico. Si tratta dell’unico, comprensibile torto che la pellicola fa al libro.
Il genio di Truman Capote infatti conclude diversamente le sue pagine.
Molti di voi avranno visto il film. Vi consiglio di rivederlo e poi leggere il
libro, breve e stupendo. Troverete tutto quello che qui ho tentato di
comunicarvi. Forse soltanto l’Acquario sabotante non si riconoscerà. Ma
questo fa parte della libertà di scegliere.

E à
«Perché un corvo è simile a una scrivania?»73 chiede il Cappellaio matto ad
Alice. Del celebre indovinello nemmeno il Cappellaio conosceva la risposta.
Così come non ne aveva idea lo stesso autore, Lewis Carroll, il quale però
dovette escogitarne una in seguito al successo del libro e alla pressante
richiesta dei lettori. Perciò nella prefazione dell’edizione del 1896 Carroll
scrisse:
Mi sono state chieste spiegazioni così spesso in merito al fatto che una risposta
all’indovinello del Cappellaio si può immaginare, che posso anche mettere per
iscritto qui quella che a me sembra essere una risposta appropriata: perché è in
grado di produrre note, anche se molto piatte, e non può essere mai messo al
contrario! A ogni modo, questo è un semplice ripensamento; l’indovinello fu
pensato per non avere soluzione.74

La proposta dall’autore poggia tutta sul gioco di parole, quasi intraducibile


in italiano, dei vocaboli inglesi notes e flat. Ma il dato più interessante sta nel
fatto che una soluzione non era prevista: l’indovinello sarebbe rimasto lì,
sospeso; gli altri hanno preteso una risposta, non l’Acquario Carroll.
Curioso come anche il mito corrispondente al segno presenti un
indovinello e anche questo di non facile interpretazione. Stavolta tuttavia la
soluzione era prevista e di vitale importanza.
«Uscite da questo Santuario e gettate dietro le vostre spalle le ossa della
grande madre» rispose l’oracolo di Temi, dea della giustizia,75 alla domanda
di Deucalione e Pirra. I due coniugi infatti erano gli unici superstiti del
diluvio che aveva cancellato la specie umana e, disperati, avevano
interpellato la dea. Udendo la risposta però erano rimasti alquanto
perplessi: come potevano gli dèi pretendere un atto così efferato? E poi della
madre di chi le ossa andavano gettate? Con la comicità tipica dei momenti
tragici, entrambi pensarono alla madre dell’altro, alla suocera insomma.
Tuttavia recuperare le ossa di chiunque dopo il diluvio universale non era
impresa facile. No, non era possibile. La dea evidentemente alludeva a
qualcos’altro. Ma a cosa? Pertanto Pirra e il marito si misero a riflettere per
comprendere la soluzione del rebus.
Con una pausa di stupita astrazione in puro stile Acquario, lasciamo
anche noi per il momento la vicenda in sospeso e facciamo un passo
indietro, così da poter comprendere come e perché i due sopravvissuti si
trovarono in quella curiosa situazione.
Zeus, disgustato dagli esseri umani, dediti a ogni vizio e dimentichi di ogni
rispetto verso le leggi terrene e divine, decise di porre fine alla loro esistenza.
Troppo deludenti quelle creature, le stesse che egli aveva concesso al Titano
Prometeo di forgiare a immagine degli dèi e a cui sempre Prometeo aveva
donato intelligenza, creatività, memoria e persino il fuoco sacro.
Quest’ultimo però a Zeus era parso un dono eccessivo e perciò lo aveva
sottratto agli esseri umani e nascosto, ma Prometeo, il cui nome significa
“colui che riflette prima”, con un atto deliberato e sprezzante rubò quel
fuoco e lo restituì ai mortali. Il gesto gli costò la terribile e celebre
punizione: incatenato a una rupe ai confini del mondo, un’aquila di giorno
gli divorava il fegato, che la notte ricresceva. Non c’è che fare, il re
dell’Olimpo nelle sue trovate è sempre fantasioso e diretto: ti rode il fegato
perché gli dèi sono superiori ai tuoi omuncoli? Bene, allora il fegato te lo
faccio rodere come Dio comanda!
Gli esseri umani invece furono puniti con i mali volati via dal vaso
scoperchiato da Pandora, fanciulla tanto bella quanto sventata,
appositamente creata da Zeus e data in sposa al gemello di Prometeo,
Epimeteo, ovvero “colui che riflette dopo”. Soltanto la Speranza rimase in
fondo a quel vaso, per consolare gli uomini da fatiche, malattie, passioni,
vecchiaia e morte ormai liberate. Ma la punizione non fu sufficiente. La
condotta degli esseri umani andò sempre più degradando, indegni delle
virtù comunque loro concesse. Perciò Zeus decise di eliminarli con un
diluvio che subissò tutta la Terra. Unici superstiti furono Deucalione, figlio
di Prometeo, e la moglie Pirra, figlia di Epimeteo. Ai coniugi, salvati per la
loro correttezza morale e devozione agli dèi, fu data la possibilità di
costruirsi un’arca con la quale, dopo nove giorni e nove notti, approdarono
sulla cima del monte Parnaso, unica terra rimasta emersa. I due superstiti
giunsero allora dinanzi al santuario di Temi e implorarono sgomenti
l’oracolo sul da farsi. Ancor più sgomenti ne udirono la risposta.
Seguendo un tipico meccanismo del segno, adempiuta la pausa di astratto
stupore, brilla un’idea, come un contatto elettrico: le ossa della grande
madre… «La grande madre è la Terra e le sue ossa sono le pietre, e a noi fu
ingiunto di gettar le pietre dietro le nostre spalle»76 così disse Deucalione
alla moglie e così fecero: si misero a camminare e, mentre andavano,
gettarono le pietre dietro di loro. «Fu vista allora una cosa mirabile: per
volontà degli dèi i sassi si trasformarono in uomini, e furon maschi quelli
scagliati da Deucalione, femmine quelli lanciati da Pirra».77 La Terra poi
generò di nuovo piante e animali.
Donne e uomini di una nuova era insomma. New age of Aquarius cantava il
celebre musical degli anni Settanta. Giusto qualche anno prima il mito
cantava lo stesso a suo modo. Non a caso il segno dell’Acquario è l’unico
rappresentato da una figura umana, indicando difatti quella sorta di
“umanesimo” a cui lo Zodiaco giunge.
Alcuni a questo punto potrebbero domandarsi quale sia esattamente la
parte del mito corrispondente al segno in questione; in certi libri troverete
l’episodio di Deucalione e Pirra e il compito loro assegnato, in altri invece il
mito di Prometeo, protettore degli esseri umani. Tuttavia nei testi di
mitologia, almeno quelli di una volta, le due storie sono inscindibili. Così
come a mio avviso lo sono da un punto di vista astrologico. Credo, ma qui
subentra la mia indole poco buonista, che sezionare il mito faccia soltanto
comodo: ne vien fuori fulgida la figura di Prometeo, che per amore
dell’essere umano si oppose eroicamente a Zeus, così come “santi in vita”
splendono Deucalione e Pirra. La mitologia però non conosce buonismi.
Prometeo, infatti, nello scontro fra Titani e dèi, si era schierato con questi
ultimi, intuendo il cambiamento. Opportunista? In segno di gratitudine
Zeus allora gli concesse di poter creare gli esseri umani impastando del
fango. Un giocattolo? Le domande sono faziose, lo ammetto, e le ritiro. È
certo però che Prometeo si fece prendere troppo la mano: diede alle sue
creature molto più di quanto gli era stato concesso, truffando persino Zeus,
il quale, dall’alto del suo essere, sapeva invece che agli umani non era
possibile eguagliare gli dèi. Di eroico allora c’è forse meno di quanto
sembri. Prometeo è volutamente dimentico del proprio ruolo e dei propri
limiti, con un ego dilatato da una smania tanto filantropica quanto nefasta.
Perciò agli occhi di Zeus, e di tutti gli dèi, quello di Prometeo fu un
sabotaggio a tutti gli effetti.
Deucalione e Pirra sono invece senza dubbio due innocenti, del tutto
inconsapevoli del motivo per cui vennero salvati. Talmente inconsapevoli da
non avere alcuna diretta responsabilità nella creazione della nuova stirpe.
Tento di spiegarmi meglio altrimenti rischio di somigliare al Cappellaio
matto: nel generare i nuovi esseri umani i due non compiono un atto
scaturito dalla propria creatività, frutto quindi di scelte e responsabilità
proprie, ma si limitano a eseguire quanto richiesto dagli dèi. Il gesto poi mi
pare eloquente: si lanciano le pietre alle spalle, proseguendo avanti.
Insomma non vi è alcun coinvolgimento con le creature che nascono per
prodigio. Vi sovviene forse qualcuno? Comunque sia, Deucalione e Pirra
non sono due sabotatori e quel distacco è conseguenza in un certo senso
dell’umiltà, virtù che invece Prometeo disconosce. Non solo, ma a ben
guardare gli esseri umani generati dal lancio delle pietre, non sono figli dei
due sopravvissuti, semmai fratelli, per cui un approccio paternalistico
sarebbe fuori luogo e in ciò si rispecchia in pieno la tendenza del segno a
porgersi agli altri all’insegna di una libera, distaccata fraternità e non di una
impositiva genitorialità.
Ogni eccesso è difetto però, e ogni ruolo ha degli oneri e delle distinte
sfumature. Inoltre non si può certo lasciarsi sempre tutto alle spalle in nome
della libertà. Che libertà è? Il mito infatti prosegue, ma confido nei lettori
più curiosi per documentarsi altrove. Qui dobbiamo ancora affrontare un
secondo mito.
L’Acquario difatti, in conseguenza della sua intrinseca e particolarissima
doppiezza, è posto in relazione a un’altra vicenda. Per la verità in virtù del
suo eclettismo sono svariati i miti che si vogliono accollare a questo segno,
fin troppi, ma il ruolo di “secondo mito ufficiale “è quello che riguarda
Ganimede, il coppiere degli dèi, una delle storie più sbarazzine, libertine,
trasgressive e impudenti di tutta la mitologia.
Ganimede infatti era un adolescente di rara bellezza (a quanto pare il più
bello che si fosse mai visto) e Zeus se ne innamorò. Ebbene sì, con grande
scandalo dei sostenitori del family day, siamo dinanzi una liaison omosessuale
del padre degli dèi. C’è pure la rima! Non solo, ma fra le innumerevoli
scorribande erotiche di Zeus, questa vanta altre due scabrose particolarità: è
quella il cui oggetto del desiderio presenta fra tutte l’età più giovane ed è la
sola che Zeus, eludendo le regole, porta avanti per sempre. E qui balzano
agli occhi, in riferimento al segno, due elementi fondamentali: l’incanto che
sull’Acquario esercita la giovinezza e quel suo garbato, elegante diniego
verso ogni conformismo.
Così, mentre il bel giovinetto pascolava da solo le sue greggi, Zeus si
trasformò in aquila, piombò su di lui ghermendolo con gli artigli e, regale,
alato e possente, lo condusse sull’Olimpo dove gli svelò il proprio amore e la
propria identità. A questo punto chiunque, seppur giovane e dalla mentalità
elastica, avrebbe manifestato un minimo di sorpresa, fosse solo per essere
stato rapito da un pennuto e trasportato sull’Olimpo; non Ganimede che, in
puro stile Acquario, rimase stupito quanto basta per accogliere felice le
novità cadutegli letteralmente dal cielo e concedersi liberamente al suo
divino amante. D’altronde certe opportunità vanno colte al volo, direbbe
ogni Acquario che si rispetti, e difatti così fecero entrambi, il vecchio
maialone e il giovine disinibito. Nessuno sull’Olimpo sospettò di
quell’amore consumato sotto gli occhi di tutti. Soltanto Era, la moglie di
Zeus, conoscendo la libido del marito, a un tratto cominciò a subodorare
qualcosa. Prima che il fatto venisse scoperto, Zeus allora provvide a rendere
imperituro quel suo amore clandestino. Legittimandolo? Quando mai!
Licenziò Ebe, colei che fino ad allora aveva il compito di versare il divino
nettare nelle coppe dei divini commensali, e insignì di questo ruolo
Ganimede, che da quel momento, e per sempre, divenne appunto il
coppiere degli dèi.
Con buona pace di alcuni esponenti del segno, la gettonata
interpretazione della figura dell’Acquario come il saggio che versa l’acqua
della conoscenza, non è quindi esatta. Almeno da un punto di vista
mitologico infatti non si tratta di acqua, ma del nettare degli dèi, il cui
significato simbolico ha sicuramente a che fare con la sapienza. Ma non si
può ridurlo a essa, significherebbe sottrarre al nettare tutte quelle
caratteristiche, quei profumi e quegli aromi, forse non esattamente in linea
col borghese concetto di virtù, eppure così cari agli dèi! Tant’è che il
“saggio” mescitore altri non è che il giovanissimo amante di Zeus.
Tuttavia a indignarsi saranno gli Acquari sabotanti, non quelli . Questi
ultimi non hanno bisogno di spacciare per moralistica filantropia la loro
schietta libertà. Allo stesso modo la mitologia ci consegna da una parte
Prometeo, apparentemente pervaso da chissà quali ideali, in realtà
sabotatore per eccellenza, e dall’altra Deucalione, Pirra e Ganimede che,
seppur in modo diverso, accolgono presente e futuro senza opposizione
alcuna e ne traggono il meglio.
Ciò non di meno il filo conduttore di entrambe le vicende è Zeus. È lui
che consente a Prometeo di creare gli esseri umani, che poi lo punisce per la
sua ipocrita scelleratezza, ma che decide di salvare due esponenti di quella
specie così deludente affinché sia concessa loro una nuova esistenza; così
come è sempre Zeus che, liberissimo nel proprio amare, instaurerà con
Ganimede un legame, malandrino, mai ufficiale, comunque eterno. L’acqua
di quell’anfora, se acqua deve essere, allora è forse simbolo della vita. E la
vita è assai più ricca, più contraddittoria, scabrosa e libera di qualunque
eminente conoscenza.
Infine una curiosità: la costellazione dell’Acquario di recente è stata
oggetto di una clamorosa scoperta. Un gruppo di ricercatori dell’Università
di Liegi, in Belgio, ha individuato al suo interno tre pianeti con dimensioni e
temperatura simili alla Terra. Chissà! Per gli Acquari magari sarà
un’ulteriore conferma delle innumerevoli, magnifiche possibilità di esistere;
per i sabotanti una meta più lontana per viaggi più lunghi e amori più
impossibili.
PESCI

Affrontare il sabotaggio dei Pesci è davvero un’impresa non indifferente.


Non voglio mettere le mani avanti per giustificare eventuali mie
inadeguatezze, tuttavia se porre ordine nel caos emotivo è già di per sé
arduo, quando il Caos vuole organizzarsi per sabotare se stesso diventa una
roba veramente delirante!
Avere a che fare con i Pesci significa innanzitutto rapportarsi con un segno
doppio. Questa doppiezza però è assai particolare, poiché non si riferisce
semplicemente a un altro, ma a un altro universo. Una cosetta da nulla, di
proporzioni cosmiche però: un Pesci è qui e l’altro là, distante milioni di
anni luce.
Nella spicciola vita quotidiana infatti molto spesso, quando si parla con un
esponente del segno, non sai mai se stai parlando con una persona in carne
e ossa oppure con una sorta di evanescente entità assente, in quanto
presente in qualche remota galassia. “Sognanti” li definiscono spesso, ma è
riduttivo e a mio avviso fuorviante. Non si tratta infatti di uno sdoppiarsi tra
realtà e sogno. A dirla tutta non si tratta nemmeno di uno sdoppiamento
che riguarda soltanto un secondo universo; è più opportuno affermare che la
doppiezza dei Pesci coinvolge tutti gli universi possibili, qualcosa di simile
alla moderna teoria delle stringhe. Perdersi quindi nel loro mondo, anzi nei
loro mondi, è facile. Pertanto bisogna essere estremamente essenziali e per
questo preferisco dar per scontato che il lettore sia già a conoscenza della
contraddittoria e perpetua marea emotiva che ogni Pesci incarna. «La sorte
di ognuno: l’instabilità»78 sintetizza lo scrittore Philip Roth, ovviamente
Pesci. Di contro Franco Battiato, nato il 23 marzo e Ariete per pochi gradi,
canta: «Cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai
cambiare idea sulle cose, sulla gente».79
Quel centro di gravita è proprio quello di cui abbiamo bisogno per
analizzare i Pesci e il loro sabotaggio. È necessario stabilire alcuni punti
fermi.
Il primo è già emerso ed è condensato nella parola “altro”, anzi Altro. Il
Pesci è se stesso soltanto se è Altro e infatti, una parte di sé è sempre altrove.
Queste due parole, Altro e altrove, ne implicano una terza: diverso. Diverso da
chi è qui e da chi è uno. La diversità, vissuta o rinnegata, è pertanto nel
dei Pesci. Altro, altrove e diverso.
Va da sé che per incarnare queste tre parole il soggetto in questione deve
per forza porsi in modo antitetico a qualsivoglia fissità. L’impulso a
mantenere un ordine costituito in nome di una verità unica e indiscutibile è
del tutto opposto al naturale condizionamento da cui il segno dei Pesci è
mosso. Non dimentichiamoci infatti che parliamo del dodicesimo segno,
dirimpettaio nella ruota zodiacale del sesto, la Vergine. Se quest’ultima
avverte l’irrefrenabile spinta a conservare lo stato delle cose per evitarne la
dissoluzione, i Pesci hanno il compito opposto, ovvero attuare la totale
dissoluzione.
A tal proposito non posso fare a meno di ricordare con tanta simpatia una
spettatrice che, durante una replica di “Io Vergine, tu Pesci?” a Milano, a un
tratto scoppiò in una risata che però non si capiva se fosse pianto. La
signora continuava inarrestabile a ridere, o a piangere, attirando la mia
attenzione e quella di tutto il pubblico. Quando finalmente si calmò, le
chiesi se poteva dirci cosa fosse successo e la signora meravigliosa rispose:
«Sono Pesci ascendente Vergine e stasera ho capito di essere
irrimediabilmente pazza».
Scusate, non devo divagare: per tenere il punto è opportuno precisare che
la dissoluzione dei Pesci, quell’evaporazione del Tutto che lo Zodiaco affida
all’ultimo segno, non va affatto confusa col concetto di “morte”
caratteristico dello Scorpione. Nel caso dello Scorpione siamo dinanzi alla
dicotomia eros/thánatos. Coi Pesci siamo oltre: «Nulla si crea e nulla si
distrugge» affermò Einstein riprendendo Antoine-Laurent de Lavoiser. Non
mi stanco mai di ricordare che soltanto un genio nato sotto il segno dei Pesci
poteva formulare la Teoria della relatività.
Perché mai però una creatura così intrisa di tutte le possibilità
dell’universo dovrebbe sabotare la propria vita e con essa la propria
magnifica diversità? Perché un soggetto nato per esser felice altrove dovrebbe
chiudersi nella gabbia immobile di un sabotaggio? Erich Fromm, anche lui
nato il 23 marzo, nel suo celebre saggio Fuga dalla libertà è stato il primo ad
affrontare in chiave psicoanalitica il disagio sociale scaturito dalla libertà.
«L’uomo d’oggi ha raggiunto la libertà, ma non riesce a usarla per
realizzare completamente se stesso, anzi, la libertà sembra averlo reso fragile
e impotente».80 La risposta agli interrogativi precedenti potrebbe essere
allora: per paura. Paura dell’immenso. Paura della libertà.
Giocando coi segni zodiacali ci siamo imbattuti in una problematica simile
a proposito dell’Acquario. Ma ciò che nel sabotaggio del segno d’Aria è
orrore verso le responsabilità, in quello dei Pesci è fuga dinanzi l’infinita
solitudine della libertà. Finché stai nel gregge, hanno già deciso per te; se
esci dal gregge tocca a te scegliere, sei solo, diverso dagli altri, con un abisso
dinanzi. Tuttavia il concetto di “responsabilità” entra lo stesso in gioco in
modo pressante, è inevitabile; i Pesci semmai lo connotano con sfumature
emotive: «Voglio rimandare ancora e ancora l’arrivo del giorno in cui mi
farò carico della responsabilità più grande: essere veramente felice»81 scrive
il pesciolino Tiziano Ferro.
Nel timore di divagare mi rendo conto che di questo sabotaggio, forse con
eccessiva sintesi, sono saltati fuori già movente e modalità, rispettivamente
paura e fuga. Eppure non si può liquidare così la faccenda. Parlando
d’amore è necessario approfondire un tantino, altrimenti il lettore resta
scontento e soprattutto non si rende giustizia alla tanto decantata sensibilità
dei Pesci, quella sensibilità che ha fatto guadagnare loro il soprannome di
“segno dell’amore”.
Purtroppo si tratta della stessa sensibilità in nome della quale i Pesci,
sabotanti e non, vincono su tutti nella capacità di scegliere il partner più
sbagliato. Non bisogna confondere infatti il delirio amoroso dei Pesci, di
tutti i Pesci, con il sabotaggio. Ogni Pesci che si rispetti piange e si distrugge
in nome dell’amore, innamorandosi almeno una volta nella vita (se va bene)
di soggetti improponibili che non hanno nemmeno una delle qualità che il
Pesci in loro vede e ama. Perché il Pesci in amore proietta, ma proietta alla
grande! Al punto che molto spesso la realtà effettiva di un rapporto non
viene percepita finché la situazione non diviene davvero insostenibile, e forse
nemmeno allora. Questa spiccata attitudine a proiettare sull’altro
caratteristiche che l’altro non possiede tuttavia non è una causa, ma a mio
avviso una conseguenza. È indicativa dell’aspetto forse più importante della
natura dei Pesci: questi soggetti in amore sono, diciamo così, autosufficienti.
Sembra un paradosso, lo so, ma osservandoli bene è così: da soli i Pesci
hanno già in sé tanto, sono allo stesso tempo questo e quello, e bastano a se
stessi più di quanto si possa immaginare. A tal proposito il Pesci Roth
sembra quasi formulare una confessione:
L’unica ossessione che vogliono tutti: l’amore. Cosa crede la gente, che basti
innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso
diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti
spezza. Tu sei intero, e poi ti apre in due.82

Eloquente. Forse non sarà il caso di Roth, tuttavia sono convinto che sia
proprio questa pseudocompletezza a consentire ai Pesci di proiettare a
oltranza sull’altro.
Qualcuno potrebbe obiettare allora che un soggetto simile potrebbe
innamorarsi di chiunque senza dare alcun valore alle caratteristiche
specifiche di quella persona: non è così, almeno non del tutto. È ovvio che ci
debbano essere delle peculiarità che facciano scattare la scintilla, ma se
l’altro non è strutturato in modo da prestarsi alla totale proiezione dei Pesci,
la scintilla finisce lì. Anzi, più che strutturato, a pensarci bene l’altro deve
essere sufficientemente de-strutturato, così da consentire al famigerato
incanto di compiersi.
C’è qualcosa nelle parole di Roth che coglie e rivela il punto debole di
questo ingranaggio. Roth parla di «platonica unione delle anime» e difatti
quasi tutti i Pesci tendono al platonico; e cosa c’è di meglio del platonico
affinché l’amore sia altrove, diverso, altro, anni luce lontano dall’immanenza
della realtà e dalle responsabilità che essa implica? Il sesso in questo caso
rompe l’incanto, svelandone l’inganno. Difatti lo stesso Roth afferma: «Per
quante cose tu sappia, per quante cose tu pensi, per quanto tu ordisca e
trami e architetti, non sei mai al di sopra del sesso».83 Il sesso insomma
strappa il velo dietro cui c’è la realtà. Parlando di velo e realtà a questo
punto non ce la faccio a non tirare in ballo Schopenhauer, Pesci anche lui. Il
grande filosofo, a suo buon cuore, astrologicamente ci aiuta più di chiunque
altro a comprendere cosa distingue un pesciolino sabotatore da un
pesciolino guizzante. Non è questione di pianti, deliri, proiezioni e follie
varie. No, c’entra il noumeno! Vi garantisco che non sto farneticando.
Schopenhauer distingue fra rappresentazione della realtà e noumeno: la
rappresentazione della realtà non coincide con la verità, il noumeno è invece il
fatto autentico che sta dietro la rappresentazione. A questo si accede
attraverso la volontà. Nel nostro caso, con buona pace di Schopenhauer, si
potrebbe dire quindi che mentre il Pesci folle, ma non sabotante, userà i
condizionamenti del suo segno per accedere al fatto oltre la
rappresentazione, il sabotante si limiterà alla rappresentazione. L’amore in
questo caso sarà quindi una rappresentazione fine a se stessa, felice o
infelice, fedele o infedele, assennata o scriteriata, ma del tutto fine a se
stessa. Una nebbia di sentimenti evaporati dentro cui è quasi impossibile
guardare e, semmai ci si riesce, si scopre che dentro non c’è nulla. Per
questo il sesso, o meglio l’eros, tanto desiderato e decantato a parole, sarà
invece il nemico numero uno, poiché elemento autentico e quindi
scardinante che, come già detto, riporta tutto sul piano della realtà.
In altre sedi ho indugiato sul fatto che questa tendenza al platonismo
spinge i Pesci a una forma cronica di infedeltà, desiderando sempre qualcun
altro, lontano, sognato, altrove. Ma molti soggetti non ne sono consapevoli e
comunque non è una caratteristica che di per sé rende un soggetto
sabotante. Come sempre il sabotatore è più acuto e consapevole, e in questo
segno è assai meno svampito di quanto lasci supporre. Cambiano i caratteri,
ma un punto fondamentale resta: il sabotatore deve avere la situazione sotto
controllo, altrimenti non può operare il proprio sabotaggio. Nel caso del
sabotatore Pesci quindi tutti gli eccessi emotivi del segno – collassi,
disperazioni, segnali d’amore cosmico, allucinazioni di gioia e mistici
vaneggiamenti vari – hanno un fondo di consapevolezza decisamente
maggiore rispetto alla sincera deriva emotiva in cui versano i non sabotanti.
Il Pesci sabotatore è un diverso che ha paura della propria diversità, e lo
sa; un insicuro consapevole della propria insicurezza, tanto da farne il punto
di forza del proprio sabotaggio.
Per concludere, rispetto agli undici profili precedentemente elencati,
questo squamoso sabotaggio presenta una peculiarità purtroppo accentuata:
mai come in questo caso gli altri possono essere del tutto calpestati. Parlo
soprattutto di eventuali figli o di chiunque si frapponga in modo realistico e
concreto, fosse pure con la sua semplice presenza, fra il Pesci sabotante e le
sue “emozioni”. Ovviamente questa mia affermazione sarà fonte di
massima indignazione. Ma ne resto convinto. Il Pesci sabotatore ignora del
tutto i reali bisogni dell’altro e, quando un qualche rimorso affiora, troverà il
modo di anestetizzarlo. Si tratta di un autogol clamoroso, come ogni
sabotaggio, ma d’altronde, senza cadere in facili slogan, è inevitabile che chi
ignora gli autentici bisogni altrui finisca per ignorare anche i propri. Sempre
per amore però!
Come poter disinnescare tutto ciò? Ah, non ne ho la più pallida idea.
Avevo anticipato all’inizio che non posso competere con il Caos che
organizza se stesso per sabotarsi. Qui ci vogliono Schopenhauer, Fromm,
Roth, Einstein e altri geni. Non io.
Tuttavia ripensandoci, grazie a queste menti, un antidoto è affiorato e vale
la pena ricordarlo: la volontà di andare al fatto. Di più non so. Mi spiace
soltanto che per ogni Pesci sabotante, veniamo privati di qualcuno che
potrebbe consegnare a noi comuni terrestri valide alternative sconosciute.

L’A
Con l’ultimo segno dello Zodiaco, ultimo per modo di dire poiché il cerchio
ricomincia, la mitologia sfoggia un colpo di scena da lasciar senza fiato. Chi
ha letto i paragrafi dedicati al Capricorno sarà vagamente preparato al
fatto, ma gli altri potrebbero restarne turbati. Sopratutto i pesciolini più
romantici e sognanti, che si aspettano dal mito una delicata e struggente
prova del loro sconfinato sentimento. Niente di più diverso purtroppo da
quello che la mitologia ci racconta.
A proposito del segno dei Pesci abbiamo a che fare infatti col mostro più
terribile con cui gli dèi si siano dovuti scontrare: Tifeo, tanto potente da far
tremare l’Olimpo. Si tratta di una creatura orribile, dalle dimensioni di una
montagna, con cento teste di serpente che gli si intorcinavano sulle spalle,
grandi ali di pipistrello e al posto delle gambe altre serpi. Da tutte queste
bocche uscivano talvolta suoni eterei e incantatori, altre volte latrati e
lamenti orribili. Non a caso il nome “Tifeo” deriva dal greco týfein, “fare
fumo”, in un’accezione che ha in sé qualcosa di stupefacente. Chiedo scusa
per le mie irriverenti incursioni, ma affidandomi all’esperienza dei lettori
(non Pesci!), trovate forse una metafora più adatta per descrivere certi
esponenti del segno?
La mostruosità di Tifeo è soltanto direttamente proporzionale al movente
del suo concepimento. Gea infatti lo mise al mondo con un fine ben preciso:
annientare Zeus. La vicenda è strettamente connessa col mito di Crono,
inerente al segno del Capricorno. Qui basta ricordare che Gea, sposa di
Urano e nonna di Zeus, quando quest’ultimo sconfisse il padre Crono, da
nonna tenera e affettuosa non esitò a unirsi a Tartaro, signore della regione
più profonda degli Inferi, per generare Tifeo, che avrebbe ucciso Zeus e
concesso a lei di esercitare ancora il suo potere.
Così però non andò: Zeus infatti sconfisse Tifeo, ma lo scontro fu terribile.
Il mostro infatti oltre all’aspetto spaventoso possedeva anche una furia
distruttiva senza pari, tanto da scuotere l’Olimpo e costringere tutti gli dèi
tranne Zeus alla fuga. Si narra che per sfuggire a Tifeo ogni divinità si
trasformò in un animale diverso; Afrodite e suo figlio, il piccolo Eros, furono
sul punto di essere catturati e per salvarsi si gettarono in acqua
trasformandosi in pesci. Prima però, per non perdersi, legarono le loro code
con una fune: affascinante riscontrare che la stella Alfa della costellazione
dei Pesci anticamente era chiamata Alrisha, che in arabo vuol dire “corda”.
A onor di cronaca il mito presenta numerose piccole varianti; secondo la
versione riportata da Ovidio nelle sue Metamorfosi, Afrodite ed Eros furono
salvati da due pesci che li soccorsero conducendoli in salvo, per taluni in
mare, per altri in un fiume.
Comunque sia il dato saliente è che Amore, nella sua duplice
personificazione Afrodite/Eros, fu sopraffatto a tal punto da Tifeo da
rischiare l’annientamento e si salvò soltanto perché, trasformandosi, fuggì.
Amore, morte, trasformazione, fuga, salvezza. Ritroviamo così concentrate
tutte le parole chiave di questo segno. La sequenza nella vita reale però non
è sempre quella esposta. Se difatti è del tutto legittimo affermare che la
fuga/trasformazione in conseguenza di un sentimento sia un dato frequente
nella vita dei Pesci, non si può certo dire altrettanto della salvezza. Spesso il
meccanismo viene invertito e, in nome di quell’amore “mostruoso”, la
trasformazione assume i toni dell’annullamento di sé, mentre la fuga muove
nella direzione opposta, verso il sentimento stupefacente e letale. Allora si va
dritti in bocca a Tifeo. E visto che il mostro di bocche ne ha cento, si può
ripetere l’esperienza a oltranza!
Attenzione tuttavia a non cadere nel facile, e comodo, errore di dividere i
buoni dai cattivi. Il condizionamento del segno, quel condizionamento dal
tratto tutto emotivo, sognante, potente e relativo, trova il suo corrispettivo in
Afrodite ed Eros quanto in Tifeo. Pertanto la mitica vicenda va considerata
in tutta la sua interezza, senza tralasciare, anteporre o sminuire nulla.
Bisogna tenere sempre presente il motivo del concepimento di Tifeo, il fatto
che tutti gli dèi fuggirono in tempo, mentre soltanto Afrodite ed Eros
indugiarono confusi; e infine il dato meno romantico, che Tifeo è
inequivocabilmente più forte di Amore.
Ognuno tragga le sue conclusioni, altrimenti ci perdiamo in analisi
soggettive che ci condurrebbero in pagine di un’altra realtà parallela.
Meglio evitare. D’altronde il sabotatore avrà già trovato la sua relativistica e
paracula (scusate, ma non c’è altro termine che renda) interpretazione:
trasformare per fuggire non è forse il suo talento?
Ma a proposito di squamosi trasformismi e fughe guizzanti, bisogna
ricordare anche che fu Pan, mutandosi per metà in pesce, a dare l’allarme e
consentire agli dèi di fuggire da Tifeo, per poi tornare sull’Olimpo e aiutare
Zeus a sconfiggere il mostro. Il simbolismo legato alla figura del pesce
ricorre nella sua accezione salvifica, e non soltanto nella mitologia greca.
Successivamente lo ritroviamo infatti persino nel cristianesimo, dove la
parola greca ichthys, “pesce”, diviene un codice: ΙΧΘΥΣ (la trascrizione
greca) è composta dalle iniziali Iησους Xριστος Θεου Υιος Σωτηρ che significa
letteralmente “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”; perciò i primi cristiani
al tempo delle persecuzioni utilizzavano l’immagine di un pesce stilizzato
come clandestino simbolo di riconoscimento delle chiese e delle case dei
fedeli. Con un balzo indietro nel tempo il pesce lo troviamo anche nel mito
dei sette sapienti, per metà umani e per metà pesci, che secondo i babilonesi
furono coloro che istruirono e instradarono il genere umano prima del
diluvio universale. Oannes era uno dei sette, descritto da Berosso nella sua
Storia di Babilonia del 276 a.C. come un misterioso essere anfibio apparso di
colpo, che «insegnò le lettere, le scienze, le arti e i cui insegnamenti erano
universali. Quando tramontava il sole, l’essere si tuffava in mare e attendeva
tutta la notte nelle profondità marine. Dopo di lui apparvero altri esseri
simili a Oannes».
Curioso come il tema delle creature anfibie, giunte in tempi remoti per
emancipare l’umanità, ricorra in numerosissime culture e, laddove non
compaia direttamente, ne ritroviamo tracce e varianti. Non per nulla è
materia di studio da parte di quei ricercatori, alcuni meno fantasiosi di
quanto si possa pensare, che affermano di un contatto fra civiltà aliene e
civiltà terrestri impresso nella notte dei tempi.
Attenzione però, qui si rischia davvero di perdere il filo divagando nel
cosmo. Quel che a noi interessa in questa sede terrestre è che, alla luce di
quanto esposto, il soggetto Pesci è inequivocabilmente definibile come
“alieno”. Tranquilli, non sono uscito di senno, non del tutto. Mi riferisco al
significo originale del termine e non a quello da noi attribuitogli in seguito:
“alieno” deriva alienus, che significa “altrui, di altri”, vocabolo latino
derivante a sua volta dal greco allόtrios, che vuol dire “forestiero, estraneo”,
ma anche “nemico”. Il soggetto Pesci è quindi alieno in quanto altro da sé; e
si potrebbe tranquillamente aggiungere anche forestiero, estraneo e nemico
di se stesso. Non è forse questa una definizione calzante di quell’amore
espresso dalle vicende di Afrodite, Eros e Tifeo? Il sentimento dei Pesci,
sabotanti o meno, non è forse alienato dalla realtà?
Se il soggetto promette bene, mettiamola così, quell’emotiva alienazione
sarà un risorsa preziosa, un ponte per andare oltre la mera realtà e scoprire
quindi altre realtà; se invece il soggetto rema contro, più drastico sarà il suo
sabotaggio e più la realtà verrà manipolata in modo da non trovare alcuna
alternativa e ristagnare in uno stato fumoso, delirante e del tutto
inconcludente.
A conferma di questa tesi, è imbarazzante l’ulteriore quantità di miti e
leggende che si potrebbero citare. Mitologia e astrologia riservano infatti al
segno dei Pesci numerose altre storie e non potrebbe essere altrimenti per un
segno doppio la cui doppiezza riguarda universi paralleli. Citarli tutti è
impossibile, ma vale la pena ricordarne qualcuno per puntualizzare, semmai
non fosse ancora chiaro, con chi abbiamo a che fare. Ad esempio il mito di
Cassiopea, una regina talmente “fumosa” da volere competere con gli dèi, e
perciò annientata da un mostro scagliatole contro da Poseidone. Questo
mito, qui sintetizzato in modo brutale, è quello utilizzato da André Barbault
per descrivere il carattere dei Pesci, «dove il tentativo di cambiare fisionomia
si rapporta a un impulso inconscio di non avere forma reale o meglio di
fuggire dalla realtà».84 Infine non si può omettere il mito di Orfeo, al quale
gli dèi concessero di attraversare gli Inferi e riportare in vita l’amata
Euridice, a una sola condizione: che mai si volgesse a guardare la fanciulla
prima di essere di nuovo sulla Terra, poiché l’interazione fra vivi e defunti
ha dei limiti invalicabili. Orfeo però, poco prima di giungere in salvo, si
voltò ed Euridice fu morta per sempre. Un sabotaggio esemplare! Si
potrebbe continuare, ma credo vi basti. Come sottolinea Liz Green a
proposito di questi e di altri miti o favole posti in relazione al segno dei
Pesci, il dato ricorrente consiste nell’incontro dell’essere con «un altro livello
di realtà». Spetta al soggetto decidere se connotare questo incontro in
chiave costruttiva o distruttiva, boicottandolo o favorendolo. Fra i due
estremi il ventaglio di possibilità è così ampio da risultare vertiginoso. Come
scrisse il Pesci Gabriel García Márquez in L’amore ai tempi del colera: «Lo
spaventò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere
limiti».85
Capitolo 4
Le gioie della famiglia

Nelle pagine precedenti ho tentato di declinare i vari tipi di sabotatore


inquadrando sempre il sabotaggio come auto-sabotaggio, ovvero come
un’azione compiuta dall’individuo per sbarrare da sé la propria vita affettiva
e arginare così una concreta evoluzione. È stata una scelta ben precisa,
spero abbastanza chiara fin dall’inizio, per evitare quei pietismi e quei
vittimismi tanto cari ai sabotatori e altrettanto funzionali a rappresentare
una loro “realtà” anni luce distante dalla verità dei fatti. Pertanto ho cercato
di porre sempre al centro la facoltà decisionale dell’individuo, nonché la sua
volontà sul come utilizzare i condizionamenti dettati dal proprio segno;
quegli stessi astrologici condizionamenti che indicano i limiti e al tempo
stesso il potenziale di un determinato carattere. In tal senso l’auto-
sabotaggio risulta quindi una scelta deliberata, compiuta in modo molto più
conscio di quanto il soggetto voglia far credere.
Prima di concludere però reputo doveroso affrontare anche quel tipo di
sabotaggio che giunge dall’esterno e che nostro malgrado ci condiziona
profondamente. Sarebbe ingiusto non farlo. «La pazienza della donne
incomincia a quell’età, quando nascono in famiglia quelle mezze ostilità»,
cantava Mia Martini. E finché sono “mezze”, ancora va bene. Spesso sono
molte di più, in conseguenza delle quali molti auto-sabotatori non fanno
altro che perpetrare il giochino ordito a monte da qualcun altro. Si tratta
ovviamente di qualcuno che ha il potere di agire su di noi, che dovrebbe
insegnarci cos’è l’affetto e cosa non lo è, aiutarci a tirar fuori i nostri talenti,
nonché la nostra identità, e a distinguere fin dal principio cos’è costruire e
cosa distruggere. E quel qualcuno innanzitutto sono i genitori. Che
ovviamente poi diventano suoceri! A seconda dei casi non mancano poi
fratelli, sorelle, cognati, zii, varie ed eventuali. Alcuni lavorano da solisti,
altri in squadra, comunque all’occorrenza tutti professionisti esperti nel
sabotare, in nome dell’“amore”, l’esistenza altrui. Insomma il dorato
frutteto della famiglia, nido d’ogni gioia, così dorato talvolta non è.
Sinceramente, ripensandoci, “talvolta” non mi sembra l’espressione più
adatta. Senza andar lontano gli esempi fioccano. E non mi riferisco ai casi
di cronaca nera (che tuttavia così rari e distanti purtroppo non sono mai),
ma a tutte quelle storie silenti e micidiali che scorrono apparentemente
innocue fra le pareti del quotidiano e finiscono per causare danni
irreversibili. È un argomento spinoso, lo so, e so anche che molti
concorderanno con me, mentre altri si sentiranno urtati. D’altronde la
famiglia è l’ultimo baluardo del “giusto” e del “sano”. Tuttavia, senza
entrare nel merito di cosa è giusto e cosa è sano, qui nessuno mette in
discussione il concetto (per me ampio) di famiglia, semmai quello di
“amore”. Fin dal primo rigo di questo atipico esperimento infatti è proprio
dentro la parola “amore” che, attraverso l’astrologia e non solo, ho tentato
di scavare per coglierne alibi e strumentalizzazioni. Gli stessi alibi e le stesse
strumentalizzazioni utilizzate in molte dinamiche familiari. Chiunque abbia
un pizzico di buon senso sa bene di cosa parlo. Se nega è perché ne ha tutto
l’interesse. E per quanto per alcuni possa risultare il culmine
dell’irriverenza, proprio l’astrologia può aiutarci a comprendere certi padri
e certe madri, nel loro rapporto di coppia e come individui; e di
conseguenza può aiutarci a spiegare il loro relazionarsi ai figli, individuando
a monte il seme del sabotaggio.
I segni di Terra ad esempio possono risultare genitori molto duri,
soprattutto quando il figlio presenta un’affettività più delicata, incline a una
certa tenerezza. Vergine, Toro e Capricorno infatti possono essere deficitari,
per non dire del tutto privi, di quel tocco carezzevole che in certi casi serve
più della disciplina. Il Capricorno in particolare è incline ad affettive
chiusure; sarà per il suo essere “retroverso” o per la sua cronica
incomunicabilità, per la sua innata vocazione al controllo oppure ancora
per quel sottile sadismo tipico del segno, comunque sia alcuni di loro non
tengono in alcun conto quella dolcezza e quella gioiosità vitali per la
maggior parte delle persone. Di conseguenza la felicità altrui,
apparentemente invidiata, in realtà verrà detestata (e sabotata) poiché
antitetica al controllo che il Capricorno esige esercitare sugli altri. Il lato
materico del segno non mancherà poi di giocare il suo ruolo: il danaro sarà
il pilastro dei rapporti familiari, mentre il patrimonio di errori e frustrazioni
del Capricorno, l’eredità a cui la discendenza dovrà soggiacere. Simile,
seppur diverso il Toro: beni materiali, cibo, concretezza e poi? Tanto il
Capricorno può scivolare nel ruolo di austero torturatore, quanto il Toro in
quello di un educatore poco attento ai reali bisogni psicologici ed effettivi.
Non parliamo poi della sensibilità riguardo alle attitudini artistiche! Certi
esponenti del segno sono specializzati nel non accorgersi del talento dei figli,
minimizzandolo con rara ottusità, così come minimizzano ogni loro disagio.
Insomma l’epicurea indole taurina, di per sé avulsa dal concetto di angoscia,
a volte scade in pura insensibilità, calpestando esigenze, fragilità e paure
altrui. La Vergine invece, con quella sua tipica difficoltà nel metabolizzare la
gioia, può risultare un tantino castrante; considerando le numerose coppie
Vergine/Toro e Vergine/Capricorno, bisognerebbe ascoltare le
testimonianze dei figli! La gioia in certi casi è pura eresia. Inoltre questo tipo
di Vergine tenderà a sfogare l’innato bisogno di controllo proprio sulla
famiglia e lo farà attraverso il tempo e il danaro, pertanto “quando” e
“quanto” saranno gli indiscutibili strumenti per assoggettare i ribelli;
carezze e tenerezze, mere svenevolezze. Infine, come il Capricorno, questa
Vergine gioca costantemente la carta dell’inadeguatezza altrui, nonché del
senso di colpa, instillando entrambi in modo metodico e spesso efficace. La
colpa maggiore della progenie sarà pertanto quella di crescere ed
emanciparsi. Un mio carissimo amico mi ha riferito di recente una frase di
sua nonna, una granitica Vergine che ha tenuto in scacco diverse
generazioni; la nonna, dinanzi al secondo matrimonio della figlia, al
matrimonio di un nipote e al trasferimento dell’altro perché vincitore di
concorso, ha sintetizzato quanto fin’ora espresso affermando sdegnata:
“Tanto ormai qui ognuno ha la sua vita”. Una colpa imperdonabile!
In un universo opposto gravitano invece i segni di Fuoco, il cui ego affetto
da gigantismo e incandescenza può schiacciare del tutto non solo i figli, ma
tutto il parentado e probabilmente anche il vicinato.
Fra coloro che più inneggiano all’importanza della famiglia, alla sacralità
del ruolo dei genitori, all’amore, al sacrificio di sé e via discorrendo con
tutta l’altisonante fanfara annessa e connessa, troviamo appunto alcuni
Leoni. D’altronde nella magniloquenza del loro ego non potevano che
ergersi a centro propulsivo della galassia familiare. E nei fatti lo sono, per la
devastazione di chi gli vive vicino. Un esempio eclatante fu Mussolini, che
non esitò condannare a morte il genero Galeazzo Ciano, distruggendo la
vita della figlia. Può sembrare un caso eccezionale, e certo lo è, ma sono
convinto che molti di noi conoscono svariate suocere e suoceri Leone che, in
nome della famiglia, tentano quotidianamente di sopprimere (in senso
figurato e non!) generi e nuore. D’altronde bisogna pur capirli. Per questi
esemplari è impensabile che sopraggiunga qualcun altro. Come può un
figlio amare un giorno un’altra persona, fondare una propria famiglia e
sottrarsi al potere di sua maestà? Chi può amare più e meglio del Leone?
Dopo tutti i sacrifici fatti per i sudditi-prole! A proposito di sacrificio vi è poi
un altro tipo di Leone, quello vittimistico, che per la famiglia si è immolato
(almeno così dice) e mai smetterà di ribadirlo per strumentalizzare gli altri.
È il suo modo di avere le luci addosso. In ogni caso i familiari tutti non sono
altro che attori secondari di quel filmone (quasi sempre una sorta di versione
scadente di “Via col vento”) interpretato a vita da questi Leoni. Ovviamente
nel ruolo di protagonisti. L’ansia invece un dolce nettare shakerato con le
prime poppate.
L’Ariete al contrario non dà tutta questa importanza al sacro ruolo
genitoriale, ponendo piuttosto la faccenda sul piano di una leadership, in
certi casi tanto infantile quanto militaresca. Alcuni Arieti pertanto
alterneranno coi figli parentesi di eccessivo cameratismo a repentine
esplosioni di intolleranza e irascibilità, se non addirittura violenza. Un
singolare cocktail di complicità, antagonismo, disinteresse e diffidenza; i figli
infatti, a seconda dei casi, saranno degli amici/giocattolo con cui
condividere passioni e scorribande, rivali con cui competere e persino
nemici da cui difendersi. Impossibile? Uh, al calduccio della famiglia tutto è
possibile! Virginia Oldoini ad esempio, l’arietina contessa di Castiglione,
celebre per la sua bellezza e per essere stata inviata dal cugino Cavour alla
corte di Napoleone per perorare l’alleanza franco-piemontese, dapprima
giocò col figlio Giorgio agghindandolo come una bambola e dopo lo
parcheggiò in un collegio e se ne disinteressò. Un giorno, giunse persino a
scrivere all’abate Maurette, padre spirituale del ragazzo: «Non posso passare
la mie giornate a leggere le lettere di quel ragazzo. Fate in modo che mi
scriva di meno». Di contro, dopo uno spettacolo di “Io Vergine, tu Pesci?”
ho conosciuto una giovane coppia tormentata dall’arietissimo padre di lui
che, in quanto ex giocatore di basket ritiratosi in seguito a degli infortuni,
aveva proiettato sul figlio tutte le sue ambizioni, instradandolo fin da piccolo
alla stessa carriera; il ragazzo, pur giocando in una buona squadra, mi disse
di voler lasciare quella professione, mai sentita sua, e desiderare con la
compagna una vita del tutto diversa. Il padre però non sentiva ragioni.
Immaginate il resto. Spero abbiano trovato la forza di sottrarsi a un simile
sabotaggio.
Infine il Sagittario. Qui la pesantezza è tutta di tipo dottrinale. L’idea che
il figlio possa non condividere le scelte ideologiche del genitore è un
concetto contemplato a parole, nei fatti mai. L’imposizione di un qual certo
“verbo” sarà un fatto prioritario, assoluto e dogmatico. Bisognerà vedere su
quale altare si celebrerà la funzione (nella logica di una famiglia ne esistono
tanti), ma di una celebrazione si tratterà, questo è certo. Officiata dal
Sagittario naturalmente, in nome del Sagittario. D’altro canto abbiamo a
che fare con un soggetto che, fra tanti virtuosi insegnamenti, potrebbe
filosoficamente rifuggire da ogni responsabilità: una valigia, un progetto e
via!
Ma la libertà si sa, è la bandiera dispiegata al vento dei segni d’aria. Che
poi al palo di quella bandiera le libertà altrui vengano appese e dimenticate,
è un effetto collaterale meno pubblicizzato.
La vaporosità dei Gemelli ad esempio può rivelarsi direttamente
proporzionale alla disattenzione nei confronti degli atri, soprattutto dei figli,
percepiti come fonte inesauribile di schiaccianti responsabilità. Inoltre
l’allegria spesa nel mondo esterno potrebbe tacere fra le mura domestiche e
la famiglia ritrovarsi così con un soggetto, tanto scintillante in società,
quanto taciturno, pignolo, pretenzioso e freddo in casa. La volontà poi di
approfondire il significato di certi segnali o comportamenti dei familiari
potrebbe essere pari a zero e così il desiderio di chi spera un guizzo
d’introspezione, puntualmente disatteso. Sui problemi si glissa; chi sente la
necessità di risolverli, faccia pure. Allo stesso modo molti figli di un genitore
Bilancia attendono invano di poter condividere emozioni e problemi che la
Bilancia non può comprendere, perché per lei non esistono; mentre si
preoccupa di impartire regole su temi che magari un figlio Scorpione o
Vergine reputa del tutto insulsi. L’effimero potrebbe essere la norma. E a
proposito di regole e disciplina, alcune Bilance riservano la cocente sorpresa
di un rigore domestico senza pari, associato ad altrettanta invadenza, il tutto
declinato in nome dei più alti valori. È il caso ad esempio della religiosissima
marchesa Adelaide Attici, madre di Giacomo Leopardi, già citata a
proposito del Cancro, la quale esigeva persino leggere la corrispondenza dei
figli, seppur adulti, sia in entrata che in uscita. Soltanto il primogenito Carlo
riuscì a salvarsi interrompendo presto i rapporti con la madre; Giacomo e
soprattutto la terzogenita Paolina ne subirono invece il peso schiacciante. A
Paolina difatti, anche lei Bilancia, fra le altre “gioie” la madre impose da
piccola capelli corti e abiti rigorosamente neri (secondo lo stile minimalista e
sacerdotale tanto caro ad alcuni esponenti del segno, nei quali la vocazione
all’effimero viene espressa attraverso la sua castrazione), così da ritrovarsi
affibbiata da bambina il soprannome di “Don Paolo”. Si può immaginare la
sofferenza della povera bimba. Sofferenza che fu la costante di tutta la vita
di Paolina, di fatto reclusa nella casa di Recanati. “Tomba per vivi”, la
definiva. E in una delle sue lettere (l’epistolario di Paolina è magnifico e
struggente) alle sorelle Brighenti di Modena scrive: “Fra gli altri motivi che
hanno disseccato in me le sorgenti dell’allegrezza e della vivacità, uno è il
vivere a Recanati, soggiorno abominevole e odiosissimo; un altro è poi avere
in Mamà una persona ultra rigorista.” Soltanto dopo la morte della
dispotica madre, avvenuta vent’anni dopo quella di Giacomo, Paolina poté
finalmente, all’età di 57 anni, conoscere quel mondo che le era stato
precluso. Altri si sarebbero arresi, in lei invece quella “fonte d’allegrezza”
non si spense. Morì assistita dalla cognata Teresa con la quale, seppur
distanti per anni, i rapporti furono sempre amabili.
Mi sono soffermato sulla figura di Paolina e di Adelaide, non solo perché
quest’ultima risulta un chiaro manifesto del rigore che si cela nel privato di
certi soggetti Bilancia, ma anche perché in questa storia salta fuori in modo
evidente un dato fondamentale per ogni analisi astrologica: lo stesso segno
può manifestare comportamenti apparentemente opposti, poiché il
medesimo condizionamento può essere elaborato, vissuto ed espresso dal
soggetto in modo opposto. Fra i due estremi vi sono tutte le declinazioni
possibili e su tutte vige l’animo della persona specifica.
Per concludere, l’Acquario: l’educatore per eccellenza! In nome della
libertà, della conoscenza e del rispetto dell’identità individuale. Peccato però
che questo genitore lo si può scoprire più attento all’ultima scoperta
scientifica o a un’alimentazione super biologica, che all’autentica presenza.
Algido ed elettrico, manderà magari i figli dodicenni all’estero in un campo
scuola, ma gli stessi non potranno guardare la televisione o mangiare della
sana, zozza nutella. Le problematiche legate alla sfera affettiva verranno poi
del tutto eluse, se non rinfacciate ai figli. Pertanto sarà anche un tipo
alternativo e di ampie vedute, ma nella sua ampiezza non comprende a
volte l’ardore di certi temperamenti che gli risultano cordialmente estranei.
Un esempio clamoroso di questo tipo di genitore fu l’Acquario Galileo
Galilei. Ebbe tre figli: Virginia e Livia Antonia da una prima lunga
relazione e Vincenzio da una seconda; in entrambi i casi con nessuna delle
due compagne giunse mai nemmeno a una convivenza. Liberissimo! Le due
figlie, infatti, ancora adolescenti furono liberamente costrette alla vita
monacale, insieme nello stesso monastero di S. Matteo, vicino Firenze, e se
Livia Antonia in qualche modo si adattò, Virginia ne soffrì al punto da
cadere in una profonda depressione; anche al terzogenito con altrettanta
libertà fu imposto il sacerdozio, ma il giovane si ribellò (essendo uomo ne
aveva qualche possibilità) e andò per la sua strada. Il dato più interessante
giunge però dall’epistolario di Livia Antonia, che per tutta la vita elemosinò
l’affetto del padre; a lui scrisse numerose lettere e di rado ottenne risposta.
Lo informò anche del costante peggioramento delle condizioni di Virginia,
pregandolo di non far trascorrere svariati mesi senza dare sue notizie.
Se la triade dei segni d’Aria riserva le problematiche di temperamenti non
propriamente emotivi, all’opposto i segni d’Acqua possono presentare gli
effetti collaterali di una natura troppo emotiva. Paure e timori
rappresentano il male minore. Il Cancro ad esempio, dipinto spesso come
un angioletto del focolare e così prodigo di tenerezze per i bimbi altrui, può
sconvolgere per la glacialità riservata alla propria prole. Alcuni esponenti del
segno, infatti, non accettando il fatto di dover dismettere i panni di eterni
figli, vedono nei propri un sorta di usurpatore, a cui per di più bisogna dare
attenzione! Scatterà una pura competizione, gelosie fra bambini, solo che
uno dei bimbi è cresciutello, patetico e grottesco. E va detto che il problema
si pone meno coi papà esponenti del segno, che più saranno edipici e più
eluderanno il mettere al mondo figli, che con le mammine granchiette.
Dalle chele affilate come mannaie! La declinazione al femminile dei
condizionamenti del segno si presta infatti all’amorevole ruolo della donna
che vuol essere moglie e madre perché ciò rappresenta il necessario
compimento della propria femminilità, mentre nei fatti di amorevole e
materno c’è ben poco. Inoltre bisogna ricordare che il Cancro, insieme al
Leone, è un segno dominante e proprio nel ruolo di moglie e di madre certe
donne Cancro esercitano al massimo la loro brama di potere. A tal
proposito un caso eclatante è quello di Rose Fitzgerald Kennedy, Cancro
cuspide Leone. Celebrata a suo tempo come madre esemplare e donna
filantropica, la centenaria matriarca della sfortunata e potente dinastia
risultò invece una donna algida e del tutto disinteressata ai figli, se non per i
giochi di potere a cui erano destinati. Eloquente la definizione che utilizzava
per la sua famiglia: my enterprise, “la mia azienda”. E se negli anni molto si è
saputo del suo glaciale rapporto con i figli più noti, soltanto in tempi
relativamente recenti è saltata fuori la verità sull’agghiacciante vicenda
subita dalla figlia Rosemary. Nata con un lieve deficit cognitivo, o forse
addirittura semplicemente dislessica, la ragazza crescendo non accettò
l’asfissiante protocollo impostole dai genitori e perciò, non giovando
all’epoca all’ascesa verso la Casa Bianca, nel 1941, il padre – pare
all’insaputa della madre – la sottopose all’età di 23 anni a un intervento di
lobotomia dal quale Rosemary non si riprese mai più. Visse in stato
vegetativo rinchiusa in un ospedale psichiatrico e morì nel 2005 in una
clinica privata. Dai diari da lei scritti prima dell’intervento emerge una
personalità intelligente e sensibile. Inoltre Rosemary era molto attraente e
pare che anche questo, stando alla testimonianza della segretaria della
madre, urtasse alquanto la cancerina/leonina mammina. Comunque sia,
ammesso che Rose Kennedy non sapesse nulla dell’intervento subito dalla
figlia, dal 1941 per oltre vent’anni non andò mai a trovarla.
Per alleggerire un po’ il clima, all’opposto, concluderei col Cancro
chioccia, per il quale amare vuol dire star sempre vicini, vicini! Millantando
ovviamente prodigali idee di emancipazione e indipendenza della prole. Ne
conosco uno che una volta mi disse: «È giusto che i figli a un certo punto
vadano per la propria strada. Prima è, meglio è. Mio figlio, il grande, ad
esempio, vive da solo da quando aveva 19 anni; il piccolo no, vive ancora
con noi». Il primo abitava nella dependance della villa in cui vivevano i
genitori, il “piccolo” all’epoca aveva 31 anni.
Coi Pesci invece è possibile ritrovarsi dinanzi a un’altalena di stati d’animo
tale da indurre la prole in lieve confusione. Si tratta di mamme radiose e
sempre in lacrime e di papà commossi e inesistenti. Purtroppo si tratta di
una dissenteria emotiva, simile a quello del Cancro, che in virtù del
sentimento rende tuttavia impossibile l’effettiva empatia con l’altro, mentre
crisi nervose e depressioni, costellate da psicofarmaci, varie ed eventuali,
potrebbero essere all’ordine del giorno. Un caso emblematico di genitore
Pesci fu Alessandro Manzoni. Incline a continui cedimenti nervosi, che lo
portarono a comportamenti e abitudini sui generis (di cui a mio avviso nessun
saggio letterario ha mai reso un ritratto tanto acuto e preciso quanto il Trio
Marchesini, Solenghi, Lopez nella mitica versione televisiva dei Promessi
Sposi), Manzoni visse dividendo il suo interesse in modo eclettico, da buon
Pesci, fra l’allevamento dei suoi adorati bachi da seta, la coltivazioni di gelsi
e le disavventure di Renzo e Lucia. Verso i figli dimostrò invece meno
trasporto. In particolare nei confronti di Matilde, ultima nata dal
matrimonio con Enrichetta Blondel. Rimasto vedovo, infatti, il buon
Manzoni si consolò presto con la contessa Teresa Borri, la quale però non
considerava in alcun conto la figliastra, né desiderava averla con sé; perciò
Matilde fu prima rinchiusa per sette anni in un convento e dopo spedita
dalla sorella Vittoria in Toscana. Invano la ragazza scrisse al padre
elemosinando la sua presenza e il cattolicissimo Alessandro non si mosse a
pietà nemmeno quando lei si ammalò di tubercolosi. Matilde morirà nel
1856 a soli 26 anni. Se soltanto sapesse quanto suo padre ha oppresso
generazioni di studenti (fra cui me) con le sue pagine intrise di sentimento e
misericordia! D’altronde, come capita con alcuni pesciolini, realtà e fantasia
scorrono ambivalenti e parallele, oleate da lacrime di ipocrisia.
Infine lo Scorpione. Da augurarsi che sia di quelli magnifici, silenziosi e
fulgidi, da restare scolpito come un mito nell’immaginario dei figli.
Altrimenti sarà un disastro di controllo, irascibilità, intolleranza e rivalità.
Punitivo, perché così punirà se stesso. I figli di questi Scorpioni pertanto si
troveranno dinanzi genitori talmente potenti e incomprensibili da restarne
annichiliti. Una mia cara amica, parlandole al telefono di questo paragrafo,
mi ha ricordato un episodio della sua infanzia. Aveva dieci anni e le avevano
regalato uno di quei mangiacassette a forma di scatola di scarpe, quelli degli
anni Settanta, con la parte superiore in cui si inseriva la cassetta e al bordo
di un lato i tasti. «Era di colore argento», mi dice «e per me era prezioso
perché avvicinandolo alla televisione potevo registrare tutta la musica che
mi piaceva». Un giorno, sono certa che fosse dopo pranzo, ero da sola nella
mia stanza, seduta a terra col mio mangiacassette, quando di colpo entrò
mia madre e lo pestò sotto i suoi piedi. Distruggendolo. Ricordo
perfettamente che rimasi di stucco e soltanto dopo salì la rabbia, che dovetti
ingoiare perché a casa mia era impensabile che potessi rispondere in alcun
modo. A questo punto del racconto la mia amica fa una pausa. Poi con un
guizzo di ironia nella voce, aggiunge: «Da grandi poi si deve perdonare».
Naturalmente la mamma in questione è Scorpione e naturalmente non è
stato l’unico affettuoso episodio rivolto alla figlia. D’altronde è proprio nello
stile di certi esponenti del segno l’atto di pestarsi sotto i piedi qualcuno o
qualcosa in assoluto silenzio, senza dare alcuna spiegazione, né prima, né
dopo. Dal di fuori sembrano dei folli, fra le mura domestiche invece potenti,
tanto potenti, e la paura rende impossibile sottrarsi al loro potere. Tuttavia è
opportuno precisare che accanto a un genitore stigmatizzato come
“terribile”, vi è sempre un partner complice o latitante. Come scrive
Monica Vitti nella sua autobiografia Sette sottane a proposito del difficilissimo
rapporto avuto coi genitori: «Crescendo impari che certo ci si deve
difendere dal carnefice, ma soprattutto dalla vittima».86
Nel concludere questo paragrafo, mi rendo conto che alcuni forse
avrebbero gradito un approfondimento maggiore, tuttavia reputo
impossibile (e di cattivo gusto) indagare oltre in dinamiche in cui l’astrologia
da sola a mio avviso non può bastare, per di più tenendo in considerazioni
le pulsioni di un segno in generale.
Altri invece reputeranno questo paragrafo troppo cupo. Non mi risulta
facile strappare un sorriso su certi argomenti; magari è possibile a teatro, ed
è decisamente nelle mie corde, dove quei personaggi li puoi mettere in scena
smontando l’apparato del loro ego e polverizzandolo in risate. Le ferite però
restano. Più o meno cicatrizzate. Bisogna farsi furbi però e con un po’ di
coraggio e ironia da quelle ferite cercare di stanare il resistente tarlo del
sabotaggio.
CONCLUSIONE

Quante volte a proposito dell’amour capita di sentire “vorrei incontrarlo, ma


non riesco”, oppure “vorrei lasciarlo, ma non posso”. Chi di noi non ha mai
pronunciato una di queste frasi? Io non sono certo fuori dal coro. Eppure,
col passare degli anni e forse a discapito di un certa ingenuità, affiora un
dubbio: vorrei ma non posso o potrei ma non voglio? Ti amo o sabo-tiamo?
Ognuno risponde come crede. Ammesso che voglia porgersi la domanda. In
ogni caso le conseguenze sono determinanti.
L’astrologico esperimento in questione spero perciò sia servito a questo: a
sollevare il dubbio. D’altronde “un buon dubbio è meglio di un’ipocrita
certezza”, diceva una mia professoressa che ricordo con affetto.
Qual è allora l’identikit del sabotatore che alberga in noi? Quali sono i
suoi connotati? Quali i suoi tratti distintivi? Insomma, nella sua carta
d’identità cosa apporre alla voce “segni particolari”? Si potrebbe azzardare
perturbante, prendendo in prestito il celebre aggettivo freudiano. Ma
l’aggettivo in questione è la traduzione di un vocabolo assai più complesso
della lingua tedesca con cui Freud intitola un suo saggio altrettanto
complesso, e poi Freud di astrologia non ne voleva proprio sapere, quindi
meglio evitare d’incasinarsi sul finale.
Il sabotatore è colui che trucca le carte affinché la partita, né persa né
vinta, lo esenti dal confrontarsi con le regole del gioco. Quali siano però le
leggi dell’amore non chiedetelo a me, ognuno ha le sue idee. «Indago, non
giudico», dice Hercule Poirot alla fine di Delitto in tre atti. E l’astrologia coi
suoi strumenti permette un’indagine a dir poco avvincente.
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G. Sorgi, Io Vergine, tu Pesci? I segni dell’amore, Salani, Firenze 2016.
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Ibidem.
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Ibidem.
Ibidem.
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Ibidem.
Ibidem.
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Ibidem.
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Ibidem.
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Ibidem.
Ibidem.
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Ibidem.
In altre versioni del mito a rispondere è invece Zeus.
Ovidio, op. cit.
Ibidem.
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