Sei sulla pagina 1di 46

FEDERICO CRISTALLI

MATRICOLA: 785936

DINAMICHE DEI PROCESSI INTERTESTUALI E INTERMEDIALI

PSYCHO. VARIAZIONI SUL TEMA DI UN TESTO PLURALE CHE HA


CAMBIATO IL MONDO DEL THRILLER

1. Plainfield, 1957. La genesi dell’universo testuale di Psycho


È noto come il film di Hitchcock che ha riscritto completamente il modo di fare cinema sia tratto da un
romanzo, allora poco noto, di un tale Robert Bloch. Ma né il film, come molti credono, né lo stesso
romanzo, tuttavia, rappresentano la genesi del personaggio di Norman Bates, vero epicentro narrativo
dell’universo testuale di Psycho. Gli orrori messi per iscritto da Bloch e portati sullo schermo da
Hitchcock, come spesso capita nella storia della letteratura e del cinema, traggono ispirazione da fatti
realmente accaduti, i quali possono rivelare talvolta come il mondo reale sia ancor più ricco del mondo
finzionale di segreti raccapriccianti e personaggi in grado di dar voce e corpo alle più recondite
perversioni e psicosi dell’essere umano.
Questo percorso di analisi intertestuale e intermediale ha inizio a Plainfield, rude e operoso villaggio
rurale del Wisconsin che, oggi come allora, conta meno di mille abitanti. Nel novembre del 1957 il viso
ghignante di un rozzo cinquantunenne proprietario di una fattoria, tale Ed Gein, finisce su tutti i
giornali locali e nazionali, entrando di diritto nell’olimpo dei serial killer più efferati e cruenti della storia
degli Stati Uniti d’America.
Le vicende di Ed Gein sono ormai divenute celebri. Nato nel 1906, ha vissuto come un eremita nella
fattoria di famiglia dalla sopraggiunta morte della madre nel 1945, la cui dipartita era stata preceduta da
quella del padre e da quella del fratello (probabilmente ucciso da Ed Gein, ma le autorità lo
dichiararono morto per asfissia). Gli stessi concittadini di Plainfield si erano resi conto delle stranezze di
Gein, che non mancava di blaterare a proposito di criminali e della sua ossessione per l’anatomia. Ma
nella sordida provincia rurale del Wisconsin la popolazione preferisce isolare Gein, senza dar peso alle
sue farneticazioni.
La polizia di Plainfield lo incastra il 16 novembre: Bernice Worden, madre del vicesceriffo, sparisce nel
nulla: il suo corpo viene trovato in un capanno della tetra fattoria di Gein, nudo, decapitato e appeso
per i calcagni, squartato come carne da macello. Ovviamente la Worden non è l’unica vittima del
“macellaio di Plainfield”. Ciò che le autorità trovarono in casa Gein fornì materiale sufficiente per la
letteratura e la cinematografia horror del cinquantennio successivo: ciotole realizzate con calotte
craniche, tappezzerie e arredi in pelle umana (fra cui un tamburo, e sembra essersene ricordato Bloch
nel primo capitolo del suo libro…), teste femminili utilizzate come soprammobili, femori come
lampade o gambe da tavolo. Veri e propri abiti e maschere furono minuziosamente lavorati e cuciti da
Gein con la pelle delle sue vittime. Solo una minima parte dei corpi utilizzati per questi scopi
apparteneva a persone da lui stesso uccise: molti corpi furono trafugati dal cimitero, e si vocifera che
egli provasse piacere sessuale dalla mutilazione dei corpi morti, in un macabro rituale in cui si fondono
Eros e Thanatos (chi conosce il film di Hitchcock sa quanto l’amore e la morte siano temi strettamente

1
legati, come spiegato nei capitoli successivi). La necrofilia e il travestitismo di Ed Gein non sfuggono
all’attenzione di Robert Bloch, che ne farà i capisaldi per la costruzione del personaggio.
Come il personaggio letterario, Gein fu succube di una madre fanatica e aggressiva nel trasmettere al
figlio il concetto di una generale immoralità del mondo. A Ed e al fratello fu vietato qualunque tipo di
relazione con l’altro sesso, e lo stesso valeva per le pratiche di autoerotismo, per le quali Gein fu
severamente punito dalla madre. L’odio per le donne, che la madre etichettava come “sgualdrine”, per
l’alcolismo, furono alcune delle peculiarità di Augusta T. Lehrke (madre di Ed Gein) cui Bloch attinse
per tratteggiare la sinistra figura di Norma Bates, autoritaria e repressiva anche da morta.
Secondo le descrizioni, il giovane Gein da adolescente aveva una corporatura esile e un atteggiamento
timido ed effeminato. La fisionomia del serial killer in questione sembra essere stata ricalcata più da
Hitchcock che non da Bloch, e basti pensare alla corporatura e alle movenze di Anthony Perkins a tal
proposito. Ne consegue che altri testi successivi (a esclusione del remake di Gus Van Sant), come Psycho
IV (Psycho IV – The Beginning, 1990) e la serie TV Bates Motel (Id., 2013-2017) mantenendo il Perkins
hitchcockiano come termine di riferimento, descrivano un Norman Bates adolescente piuttosto alto e
femmineo, rachitico, goffo e impacciato nelle relazioni interpersonali.
La carriera scolastica di Gein fu mediocre, ma ciò non escludeva risultati molto buoni nella lettura, e
tale particolare è ripreso in qualche modo nel romanzo, in cui spesso si fa riferimento ai testi che
accompagnano le solitarie e deliranti giornate di Norman, e alle paure della “madre” che vede nella
crescita culturale del figlio una maturazione che lo porterebbe a essere uomo, e non più il suo succube
“figliolo”. Nel film di Hitchcock, Anthony Perkins viene colto solo una volta dalla cinepresa mentre
legge, ma pur senza indugiare su tale aspetto, la dialettica di Perkins e il suo vestiario ne fanno un
personaggio elegante per i parametri del contesto rurale in cui vive, ben lontano dal “macellaio di
Plainfield” e dalla sua controparte letteraria.
I continui cambiamenti di sesso di Norman Bates trovano spiegazione nella volontà di espiare la colpa
del matricidio riportando la madre simbolicamente in vita. Quali fossero le cause che fecero desiderare
a Gein il cambio di sesso non è ancora chiaro, ma lui stesso dichiarò di aver sentito tale impulso dopo
la morte della madre Augusta. Secondo una comune opinione, Ed aveva creato il suo “abito da donna”
per poter assomigliare alla madre, in un macabro rituale di travestitismo che era totalmente ignoto
anche allo stesso Bloch. La differenza consisteva nel fatto che gli “abiti” di Gein andavano ben oltre la
parrucca grigia e l’abito vintage che abbiamo visto indossare a Norman: il macellaio di Plainfield
indossava nientemeno che maschere di pelle umana e seni femminili per compiere il suo rituale.
Il nome di Ed Gein diventa popolare e conosciuto anche ai nostri giorni, a più di trent’anni dalla morte,
sopraggiunta nel 1984.
La biografia di Gein, le sue perversioni e i fattacci di Plainfield possono e devono essere presi come un
vero e proprio “testo” di partenza, un riferimento cruciale per lo studio di un intero filone letterario e
cinematografico. Limitandoci a quest’ultimo ambito, non è solo Psycho il testo di riferimento che ne trae
ispirazione, anche se va sottolineato come la pellicola di Hitchcock (il quale ha trasposto in ogni caso il
romanzo di Bloch, e non si è ispirato direttamente ai fatti) copra tuttora il ruolo di capostipite, nonché
di film più importante della lista.
Fra gli altri, Gein ha ispirato personaggi come il Leatherface di Non aprite quella porta (The Texas Chain
Saw Massacre, 1974); il Jame Gumb de Il silenzio degli innocenti (The silent of the lambs, 1991); l’Ezra Cobb di
Deranged – Il folle (Deranged, 1974) e il Bloody Face della serie TV American Horror Stories. Questi
personaggi sono ben lontani dalla fragilità e dalla compostezza del Norman Bates di Psycho, e
reintegrano il lato più stomachevole e cruento del travestitismo e degli omicidi di Gein, talvolta traendo
2
ispirazione da altri assassini seriali. La ricchezza di sfumature del nostro personaggio, gli sdoppiamenti
di personalità e la profondità della sua psiche ne fanno però il personaggio più complesso e a tutto
tondo della filmografia sul tema: non solo l’assassino psicopatico per eccellenza, ma qualcosa di più, un
essere umano con cui talvolta empatizziamo e per il quale, pur sentendoci un po’ colpevoli, ci
schieriamo.
Il ruolo fondamentale di Ed Gein per la genesi del thriller più famoso di sempre è testimoniata da
Hitchcock in persona – in realtà interpretato da Anthony Hopkins – nell’incipit del film biografico
Hitchcock (Id., 2012) di Sacha Gervasi, incentrato sul rapporto tra il regista e la moglie Alma Reville
durante la lavorazione di Psycho. L’opening scene ci proietta nel Wisconsin degli anni Quaranta e ci mostra i
due fratelli Gein intenti a spegnere un incendio scoppiato nella loro proprietà. Henry consiglia a Ed
(Michael Wincott) di andarsene dalla casa e farsi una vita lontano dalla madre, e per questo viene ucciso
con un colpo di pala da quest’ultimo, che raccontò alla polizia di come il fratello sia morto
accidentalmente di asfissia nel tentativo di spegnere il fuoco. Da qui il breve monologo di
Hitchcock/Hopkins, di cui citiamo la conclusione:

[…] se non gli avessero creduto, Ed Gein non avrebbe mai avuto l’opportunità di commettere
quegli efferati crimini per i quali è diventato molto famoso. E noi, naturalmente, non avremmo
avuto il nostro piccolo film.

2. Da Robert Bloch ad Alfred Hitchcock

I fatti di Plainfield colpirono fortemente lo scrittore, allora quarantenne e con una piccola manciata di
opere all’attivo. Com’è ora noto, la produzione letteraria di Bloch è in gran parte segnata dall’influsso di
Lovecraft – maestro della narrativa fantasy e horror – autore con cui lo stesso Bloch ebbe una fitta
corrispondenza epistolare.
Quando citiamo Psycho di Robert Bloch stiamo parlando di una narrativa di genere. Da un punto di vista
letterario il romanzo non è certo un capolavoro ma presenta un grande punto di merito: riesce a pescare
nel profondo le pulsioni represse dell’America rurale puritana, portando alla ribalta la facciata opposta
del sogno americano veicolato dai media durante la guerra fredda.
Psycho si inscrive però nel vasto insieme dei romanzi di genere la cui fama e notorietà è da attribuirsi
esclusivamente come conseguenza del successo enorme dell’adattamento cinematografico, il capolavoro
di Hitchcock, in questo caso.
Curiosamente, la prima edizione italiana del libro, edita da Garzanti, presenta un titolo alternativo: Il
passato che urla.1 In copertina leggiamo un’ulteriore frase promozionale: «Da questo libro un film di
Hitchcock», che fa quindi riferimento al nome di un regista di grande successo per favorire le vendite
del prodotto editoriale, ma non al film specifico, che nel 1959 (anno di pubblicazione della prima
edizione italiana) è in fase di lavorazione e non è pertanto entrato nell’immaginario collettivo. Già nella
copertina viene raffigurata la scena della doccia, disegnata a mano, in cui vediamo una donna bionda
(nonostante la Mary Crane del testo sia mora) terrorizzata alla vista di una mano che brandisce un
coltello. Dopo il successo del film, dal 1965 il libro viene rieditato col titolo originale.

1 R. Bloch, (trad.) Il passato che urla, Garzanti, Milano 1959.

3
Nel celebre saggio di Stephen Rebello da cui è stato tratto il sopracitato film di Gervasi, vengono
riportate testualmente alcune dichiarazioni di Bloch sulla costruzione del personaggio principale di
Psycho, rielaborazione non troppo distante dal “macellaio di Plainfield”:

Nella mia testa il personaggio doveva assomigliare al Rod Steiger di allora, uno che viveva da solo –
quasi un eremita, con pochi amici. Come avrebbe scelto le sue vittime? Pensai di farne il gestore di
un motel perché questo avrebbe facilitato il contatto con sconosciuti. All’epoca non avevo capito
che il vero assassino era stato anche un profanatore di tombe. Per giunta affrontare questo tipo di
argomento sui giornali, per non dire nella narrativa gialla degli anni Cinquanta, non era considerata
proprio una prova di buona educazione.2

Ma quali sono i passaggi che hanno portato alla caratterizzazione di Norman Bates, al suo
sdoppiamento?
Bloch prosegue:

Il solo fatto che vivesse da solo e che uccidesse clienti di passaggio non bastava a giustificare che i
crimini non fossero scoperti. E se avesse commesso i delitti in uno stato di amnesia, sotto l’influsso
di un’altra personalità? Ma la personalità di chi? Alla fine degli anni Cinquanta le teorie di Freud
erano molto popolari […]. Il principale concetto di Freud era il complesso di Edipo, così,
basandomi sulla sua personalità invertita, pensai: “Diciamo che avesse una storia con sua madre”.
Supponiamo che mamma sia morta […] ma supponiamo anche che lui immagini che lei sia ancora
viva… La ragione delle sue amnesia era che lui diventava sua madre mentre commetteva i delitti.
Magari, quando nessuno lo sentiva, parlava con lei. Poi pensai: “Non sarebbe bello se in qualche
modo lei fosse effettivamente presente?”. Ed è a questo punto che mi venne l’idea che lui ne avesse
davvero conservato il corpo.3

Nel proseguo del saggio, Rebello riporta ulteriori citazioni di Bloch. Lo scrittore ebbe inizialmente l’idea
di raccontare la storia di Norman Bates con la voce in prima persona del protagonista, in modo da
conferire un ulteriore spinta freudiana alla letteratura di genere, in caso di successo. Ma la pista venne
abbandonata, e lo scrittore optò per un altro espediente, altrettanto incerto negli esiti: servirsi di più
punti di vista, fra cui quello di un eroina venuta da un’altra città che catalizzasse l’empatia dello
spettatore a causa dei suoi problemi personali, e quindi ucciderla a un terzo della storia. Le scelte del
momento e della modalità con cui Marion Crane viene eliminata dalla storia si sono rivelate fondamentali
per la scelta di Alfred Hitchcock di trarre un film dal libro.
La scena della doccia che il regista inglese ha reso memorabile al punto di poterla definire una sorta di
icona pop, nel romanzo di Bloch è trattata diversamente, ma comunica ugualmente il medesimo senso
di turbamento.

S’infilò prima nel vano della doccia. L’acqua era troppo calda, e dovette aprire un poco il rubinetto
dell’acqua fredda. Poi aprì al massimo entrambi i rubinetti e lasciò che quel piacevole scroscio la
inondasse. Il rumore era assordante e il locale cominciava a riempirsi di vapore. Per questo non
sentì la porta che si apriva, non notò lo scalpiccio. E da principio, quando il tendaggio della doccia

2 S. Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Il Castoro, Milano 1999, p. 24.

3 Ibidem.

4
si aprì, il vapore nascose il viso. Poi lo vide: un viso che spiava dal tendaggio, sospeso a mezz’aria
come una maschera. Una sciarpa nascondeva i capelli e gli occhi vitrei avevano una espressione
inumana […]. La pelle era coperta da uno strato di cipria bianchissima e sugli zigomi c’erano due
chiazze accese di rossetto. Non era una maschera. Era il viso di una vecchia pazza.
Mary fece per gridare, e allora il tendaggio si aprì ancora di più e comparve una mano che stringeva
un coltello da cucina. Fu il coltello a mozzarle, un momento dopo, il grido.
E la testa.4

Per quanto l’atto della decapitazione di Marion sarebbe probabilmente stato uno shock anche nel film,
va detto che nel libro la violenza è concentrata in un unico gesto, il quale visivamente sarebbe stato
meno efficace (oltre che più cruento per certi versi). La violenza del film, in questo senso, è più efferata
perché, oltre a sorprendere lo spettatore, si dilunga per diversi secondi in cui Marion si agita all’interno
del vano doccia, urla, alcune coltellate vanno a vuoto, e tutto questo tiene con il fiato sospeso lo
spettatore terrorizzato, inorridito e scioccato, ma allo stesso tempo estasiato dal capolavoro registico di
Hitchcock. Il senso di vulnerabilità estrema di una persona nuda, apparentemente sola in uno spazio
ristretto e chiuso, che subisce un’intrusione inaspettata e violenta, è uno shock di sicuro effetto sia sul
lettore che sullo spettatore cinematografico.
La casa editrice Simon & Schuster fece uscire Psycho nell’estate del 1959. Nel libro il Midwest di
Plainfield diventa Fairvale, una monotona provincia della California, e Ed Gein assume le fattezze del
tozzo Norman Bates, un uomo di mezza età grasso, occhialuto, succube della madre e i cui attacchi di
follia sono scatenati da un eccessivo abuso di alcool e pornografia. Come sottolinea, ancora una volta,
Stephen Rebello, la bravura di Bloch sta tutta nell’aver sottoposto il genere gotico a un aggiornamento
in chiave freudiana e sessuale, il che riesce a dare una nuova vitalità e un sapore contemporaneo e
psicanalitico a elementi già visti nella narrativa di genere, quali la casa abbandonata, la notte piovosa e la
vecchia pazza.5
Nonostante le proteste della critica nei confronti del romanzo, ovviamente a causa dei temi scabrosi
trattati, va detto che Bloch è stato in grado di forzare la mano sui tratti psicanalitici, allentando al tempo
stesso la morsa dagli elementi più cruenti della vicenda di Gein. Lo scrittore scoprì solo in seguito che
Gein era solito indossare la pelle e i seni della madre – di cui aveva conservato la camera da letto intatta
–, che era soggetto a frequenti amnesie riguardanti i suoi crimini, e che oltre a essere un assassino era
pure necrofilo e cannibale.
Ma veniamo al film.
Nonostante il successo già acquisito a livello internazionale da Hitchcock a partire dagli anni Quaranta,
Psycho rimane il suo titolo più celebre. La fama acquisita dalla pellicola e la conseguente tendenza di
associare il nome del regista a quello di Psycho, genera un’idea fuorviante nei riguardi della sua autorialità:
l’aggettivo “hitchcockiano” nell’opinione comune sembra rimandare a qualcosa che terrorizza e
provoca uno shock violento. Chi conosce il cinema di Hitchcock sa bene che il regista ha seguito un
percorso totalmente differente: un intreccio fra suspense e melodramma, stemperato dal suo inimitabile
understatement. La sintesi perfetta di queste sue peculiarità è rappresentata dall’ultimo film che Hitchcock
gira prima di mettere in cantiere il suo capolavoro del 1960, ossia Intrigo internazionale (North by northwest,

4
R. Bloch, Psycho, Bompiani, Milano 2015.

5 Ivi, p. 28.

5
1959). Dopo l’enorme successo di critica e pubblico, Hitchcock ha bisogno di qualcosa di diverso ed è a
questo punto che scopre per caso il romanzo di Bloch, un mistery intriso di psicopatologia e sessualità
deviante.
Hitchcock era eccitato dall’idea di manipolare lo spettatore facendogli credere che il film raccontasse le
disavventure di un’impiegata che ruba 40.000 dollari per amore, per poi scioccarlo con la sua morte a
un terzo del film.
Lo script di Joseph Stefano presenta alcune notevoli diversità rispetto al romanzo, sia a livello narrativo
che per quanto concerne la caratterizzazione dei personaggi.6 Anthony Perkins conferisce a Bates una
grazia femminea, una nevrotica timidezza e un ghigno diabolico che ne fanno un character a sé stante:
nell’immaginario comune Norman Bates è inscindibile dalle fattezze di Perkins. Come sostiene
giustamente Massimo Zanichelli in uno studio su Psycho e le sue filiazioni cinematografiche, la logorrea
del Norman di Bloch aiuta il dialogo a due voci nel romanzo, mentre la dipendenza da alcol favorisce le
sue trasformazioni: Hitchcock elimina questi due aspetti centrali banali (l’alcol come causa di
sdoppiamento e violenza) e poco funzionali (la parlantina di Norman avrebbe dato un ritmo diverso al
film).7
Per quale motivo la scelta ricade su un attore dalla bella presenza come Perkins?
Il cinema di Hitchcock, come già ricordato, è caratterizzato da sottili sfumature di giallo e melodramma.
Prendendo come esempio i titoli cronologicamente più vicini a Psycho, basti pensare alla tensione
sessuale che intercorre fra i componenti di coppie celebri quali James Stewart/Grace Kelly in La finestra
sul cortile, James Stewart/Kim Novak ne La donna che visse due volte, Cary Grant/Eva Marie Saint in Intrigo
internazionale, per fare alcuni esempi. La bionda di turno in grado di calamitare il desiderio sessuale
dell’uomo comune afflitto dai propri limiti o da cause esterne. Chi non avrebbe pensato, durante la
scena dell’incontro tra Anthony Perkins e Janet Leigh, che la bionda di turno sarebbe stata in grado di
dare una svolta alla vita del giovane uomo, sino ad ora limitata dalla dipendenza materna? Tuttalpiù si
sarebbe potuto immaginare che Bates avrebbe aiutato Marion a nascondersi, diventando suo complice.
Ma quale che sia il proseguo narrativo che lo spettatore si figura, nessuno avrebbe mai pensato che la
protagonista bionda di un film di Hitchcock potesse essere uccisa così brutalmente da un ragazzo
apparentemente fragile e buono. Altre variazioni significative riguardanti i personaggi e la loro
caratterizzazione rispetto al romanzo si registrano nei casi di Mary Crane, che diventa Marion e passa
dal moro al canonico biondo platino delle star hitchcockiane, nonché del detective Milton Arbogast,
che nel romanzo è alto, magro, abbronzato e con gli occhi azzurri, agli antipodi dall’attore che lo
interpreta nell’adattamento cinematografico (Martin Balsam). Il cambiamento di nome della
protagonista è dovuto al fatto che nell’elenco telefonico di Phoenix fossero presenti due donne
chiamate Mary Crane, ma la scelta ricaduta su Marion acquisisce un significato simbolico ulteriore: i
nomi di Norman e Marion sono così quasi speculari e molto simili, alludono così al passaggio di
testimone che si verifica con l’uscita di scena della protagonista. Anche il nome della madre di Norman
acquisisce un significato importante. Il nome Norma è infatti contenuto in quello del figlio, che la
contiene anche a livello psicologico.

6Lo sceneggiatore di Psycho in quel periodo svolgeva frequenti sedute con uno psicanalista di scuola freudiana. Di tale
immersione di Stefano nella psicanalisi risentono le implicazioni psicanalitiche del Norman Bates cinematografico.

7M. Zanichelli, Psyco e Psycho. Genesi, analisi e filiazioni del thriller più famoso della storia del cinema, Le Mani, Recco – Genova 2010,
p. 18

6
Da un punto di vista strutturale della narrazione, nei primi minuti del film cogliamo subito la differenza
con il romanzo di riferimento. Il film presenta una struttura lineare che fornisce un vantaggio a
Hitchcock: noi siamo presenti nella camera del motel, quando Marion evidenzia la sua tristezza per
l’impossibilità di iniziare subito una nuova vita con Sam; siamo presenti quando pensa per la prima
volta di rubarli e scappare dal suo amante; siamo presenti quando esce da lavoro con la busta, quando
prepara il bagaglio, quando incontra Lowery per strada. Essere immersi nel presente del racconto
amplifica la suspense e l’incertezza riguardo a ciò che potrebbe accadere di lì a poco: per esempio,
quando Lowery attraversa la strada e incrocia lo sguardo di Marion nell’abitacolo della macchina,
avrebbe potuto fermarsi e chiedere spiegazioni, complicando la fuga, e anche l’incontro col poliziotto è
una scena di notevole tensione di cui non possiamo prevedere gli sviluppi).
Il libro presenta una struttura temporale totalmente diversa, a incastro, con il frequente utilizzo di
flashback. Bloch ci introduce il personaggio di Mary in medias res mentre guida e si dirige da Fort Worth
(Phoenix, nel film di Hitchcock) a Fairvale e il lettore viene a conoscenza della sua storia e delle sue
turbe attraverso l’utilizzo dei flashback della protagonista. Scopriamo così che Sam Loomis è l’uomo che
lei ha conosciuto su una crociera e di cui si è innamorata, con il quale sta progettando un matrimonio
futuro, ma senza nessun accenno a incontri clandestini in alberghetti di periferia. Lo stesso furto dei
40.000 dollari a Tom Cassidy nello studio di Lowery ci viene narrato attraverso un flashback di Marion
mentre sfreccia inconsapevolmente verso la sua morte. Questo meccanismo ci consente comunque di
entrare a fondo nel privato della protagonista, ma la natura del mezzo cinematografico meglio si sposa
con la soluzione adottata da Hitchcock.
Il romanzo di Bloch si apre con un primo capitolo ambientato in casa Bates, mentre il secondo è
focalizzato su Mary e nel terzo avviene il congiungimento delle due parti al Bates motel. Già dal primo
capitolo cogliamo una netta differenza nella rappresentazione del dualismo madre/figlio, rispetto al
film. L’ingresso della madre nel romanzo suggerisce una presenza fisica e reale perché la prosa si
appoggia su esperienze fisiche e azioni, che sono poi giustificate a posteriori come esperienze
allucinatorie di Norman. Lo scambio di battute tra madre e figlio rafforza l’impressione di essere di
fronte a due persone distinte e reali. Secondo François Truffaut, Bloch ha ecceduto nel servirsi di
questa possibilità che gli offriva la parola scritta, ed esplicita il suo disaccordo nel libro-intervista a
Hitchcock:

Ho letto il romanzo da cui Psycho è stato tratto e l’ho trovato vergognosamente falso. Spesso ci sono
dei passaggi di questo tipo: «Norman andò a sedersi accanto alla sua vecchia madre e
incominciarono una conversazione». Questa convenzione narrativa mi urta molto. Il film è
raccontato con molta più lealtà.8

Il film relega solo a pochi momenti il dialogo fra le due parti, e non vediamo mai Norman e la madre
Norma insieme – a parte in una scena – e men che meno il volto di quest’ultima. La differenza è che
Hitchcock è impossibilitato a giocare sulla “dialettica” mentale dei personaggi così come fa Bloch, e
tutto ciò a causa della natura del mezzo. Nell’unico caso in cui vediamo figlio e madre insieme, ovvero
quando Norman decide di portarla in cantina e la prende in braccio, Hitchcock posiziona la m.d.p. in
verticale e a una distanza tale per cui lo spettatore non riesce a vedere il teschio della madre – né
riuscirebbe quindi a coglierne l’inesistente labiale – e allo stesso tempo è funzionale a mostrare madre e

8 F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 226.

7
figlio almeno una volta insieme, così da spegnere qualunque dubbio fosse eventualmente sorto nello
spettatore riguardo l’esistenza di una madre in carne e ossa. Inoltre, stilisticamente la ripresa è identica a
quella precedente dell’omicidio di Arbogast, per cui sembra giustificabile in quanto scelta stilistica e
formale di Hitchcock che nulla abbia a che vedere con la volontà di celare un segreto. La sequenza
dell’omicidio Arbogast è, per i motivi sopra spiegati, una di quelle che variano maggiormente dal
romanzo al film. Nel suo romanzo, Bloch descrive la scena dell’omicidio come se i personaggi
fisicamente presenti fossero davvero tre: il private eye, Norma e Norman. Ci vengono descritti gli attimi
che precedono l’omicidio, in cui la madre si trucca, passandosi il rossetto sulle labbra, e si infila l’abito.
Durante questi attimi Norman pare assistere alla scena inerme, vorrebbe fermare la madre ma qualcosa
gli impedisce di gridare e avvertire Arbogast. Prima che lui possa far qualcosa, la madre si avventa sul
detective con un rasoio. Anche in questo caso Bloch sfrutta la natura del mezzo, in cui sono assenti le
immagini, per depistare ancora di più lo spettatore. Hitchcock, sempre per le cause sopracitate relative
alla natura del mezzo cinematografico, non mostra gli attimi prima dell’accoltellamento, usando gli
strumenti a sua disposizione per continuare a illuderci che la madre esista.
Come sostiene Zanichelli, la versione cinematografica di Hitchcock è inimitabile anche perché utilizza
meccanismi più sottili per portare alla rivelazione finale lo spettatore senza farlo insospettire, dovendo
far fronte allo statuto dell’immagine. E benché il nucleo narrativo del film del 1960 sia interamente
contenuto nel romanzo, la regia di Hitchcock e l’ottimo lavoro di Joseph Stefano alla sceneggiatura
portano il film a un livello ineguagliabile, da non far sentire quella mancanza di dettagli e sfumature che
si attribuiscono generalmente alle trasposizioni cinematografiche in rapporto ai testi d’origine.9
Vediamo ora alcuni temi fondamentali dell’universo testuale di Psycho e come vengono affrontati da
Hitchcock.
Il primo di cui parlare è sicuramente il tema della dissociazione, introdotto sin dai titoli di testa ideati
dal designer Saul Bass, autore anche degli storyboard del film. Con il loro incedere incalzante e stilizzato,
nonché ansiogeno, grazie anche alla partitura di Bernard Herrmann con cui si aprono i titoli, ci viene
anticipato il tema chiave di Psycho. Anche il romanzo di Bloch presentava in copertina un logo il cui
lettering rimanda immediatamente all’idea di dissociazione: ideato da Tony Palladino, è divenuto celebre
ed è stato poi riutilizzato nella per la promozione del film e dei sequel, e in diverse edizioni del romanzo,
anche non statunitensi. La dialettica verticale/orizzontale ricorre in numerosi momenti del film: basti
citare l’opening scene in cui la posizione sdraiata di Marion contrasta con quella di Sam in piedi, e
l’orizzontalità del letto con la verticalità dell’impalcatura; o l’auto di Marion parcheggiata e il palo del
telefono, o ancora la verticalità della casa gotica in contrasto con l’orizzontalità del motel. La casa
gotica, la cui architettura è ricalcata sul celebre dipinto The house by the railroad (1925) di Edward Hopper,
immancabile punto di riferimento per numerosi cineasti statunitensi della Hollywood classica e non
solo, e importante spunto di riflessione sulla confluenza tra i diversi linguaggi espressivi.
La scena d’apertura ci introduce al secondo dei temi fondamentali di Psycho: il voyeurismo. Una ripresa a
volo di mosca ci conduce dalla panoramica iniziale sulla città di Phoenix all’interno della camera
d’albergo in cui Marion e Sam consumano la loro “pausa pranzo” (con qualche stacco e dissolvenza che
Hitchcock avrebbe voluto evitare). Questo è solo il primo di una serie di atti voyeuristici del film e, in
questo caso, il nostro desiderio di voyeurismo non è filtrato dallo sguardo di alcun personaggio, come
accadeva ne La finestra sul cortile, in cui il nostro sguardo coincideva con le soggettive di James Stewart.

9 M. Zanichelli, Op. cit., p. 28.

8
La bramosia voyeuristica dell’osservatore rimane però frustrata nel vedere Marion in reggiseno dopo
aver terminato di consumare il rapporto. La medesima “delusione” verrà provata anche durante la
scena in cui Norman spia Marion (e in cui lo spettatore si identifica con il carnefice, condividendone il
desiderio) e nella scena della doccia. In realtà il regista britannico avrebbe voluto mostrare di più in
quanto ad allusioni e nudità, ma ciò nonostante ebbe comunque problemi con l’autocensura presente
nei meccanismi produttivi negli anni in cui era in vigore il codice Hays. Ci penserà Gus Van Sant ad
approfondire quei temi che Hitchcock poté solo accennare e a soddisfare la libido voyeuristica degli
spettatori. Gran parte del pubblico cattolico e perbenista dell’epoca si indignò maggiormente per
l’inaccettabilità del rapporto immorale fra Marion e Sam, che non per la violenza della doccia e per le
azioni di Norman. In realtà lo script di Psycho va a toccare una serie di temi ben più sprezzanti del
perbenismo imperante nell’America di fine anni Cinquanta, rispetto a un semplice incontro sessuale al
di fuori del matrimonio, o di un reggiseno slacciato: Hollywood porta sul grande schermo, in grande
anticipo sui tempi, temi quali il travestitismo, l’incesto, la necrofilia, lo stupro. Il merito è però tutto di
Alfred Hitchcock, oltre che del soggetto di Bloch, e non certo dei colossi della Paramount che per il
progetto di Psycho non hanno voluto versare un dollaro. Ma tornando al voyeurismo, nella prima parte
del film (quella più ricca di connotazioni erotiche), non è solo quello dello spettatore che, filtrato dalla
m.d.p., ha la possibilità di tenere sempre gli occhi puntati su Marion, quando è nell’intimità di una
camera da letto, quando prepara la valigia o quando guida. Altre entità voyeuristiche sono quelle di
Cassidy, che indugia con lo sguardo su Marion e sembra desiderarla come lo spettatore, e il poliziotto
che la sveglia mentre dorme sul ciglio della strada.
Come è noto, i 40.000 dollari altro non sono se non un brillante MacGuffin inscenato da Hitchcock per
condurre gli spettatori su una “falsa pista” che fa di Marion la presunta protagonista di una serie di
peripezie da melodramma hitchcockiano. Durante la fuga, la m.d.p rimane inchiodata frontalmente sul
volto di Marion perché dobbiamo guardarla il più possibile, empatizzare con lei, schierarci dalla sua
parte, magari desiderarla, così da rendere il seguito del film ancora più scioccante.
La seconda falsa pista, oltre ai 40.000 dollari, risiede proprio nella scelta dell’attore a cui far interpretare
il ruolo del serial killer psicopatico: l’atteggiamento benevolo di Marion verso quest’uomo timido e
impacciato, premuroso, spinge lo spettatore a parteggiare per questo figliolo devoto alla madre, per
vedere come andrà a finire la sua relazione con Marion. Potrebbe infatti darsi che la fragilità di Norman
nasconda una profonda sensibilità in grado di attrarre Marion, se confrontata con il personaggio
apparentemente più piatto di Sam Loomis. Durante la loro conversazione in salotto, Norman rivela a
Marion la sua passione per la tassidermia. Questa attività del protagonista, nel romanzo, è accennata
solo verso il finale del libro, quando Lila Crane entra in cantina e dapprima si imbatte in uno scoiattolo
impagliato, quindi trova davanti a sé una serie di armamentari e sostanze utili a Norman per
imbalsamare gli animali e la madre. Hitchcock dà un’importanza maggiore alla tassidermia, da un punto
di vista anche simbolico, sottolineandola non solo attraverso le inquadrature sugli uccelli impagliati
appesi alle pareti, ma anche attraverso un breve dialogo. Hitchcock rivela a Truffaut i significati della
tassidermia su Norman:

Gli uccelli impagliati mi hanno molto interessato, come una specie di simbolo. Naturalmente,
Perkins si interessa degli uccelli impagliati perché ha lui stesso impagliato la madre. Ma c’è un
secondo significato, per esempio con il gufo; sono uccelli che appartengono al regno della notte,
sono delle sentinelle e questo significa il masochismo di Perkins. Conosce bene gli uccelli e sa di

9
essere guardato da loro. La sua colpevolezza si riflette nello sguardo di questi uccelli che lo
sorvegliano ed è perché ama la tassidermia che sua madre è piena di paglia.10

Per cui certamente lo sguardo degli uccelli impagliati è una metafora dello sguardo impietoso della
madre che Norman avverte su di sé come una forma di controllo per ogni sua azione. Si sente oppresso
da questo sguardo, di cui è completamente succube. Inoltre, gli uccelli contengono anche indizi sulla
sua impotenza: Norman, nel film di Hitchcock, non imbalsama altri animali. In questo caso è utile il
confronto tra la versione italiana, in cui Perkins è doppiato da Pino Locchi, con la controparte originale
in lingua inglese. Quest’ultima recita: «I think only birds look well stuffed because…well, because
they’re kind of…passive, to begin with». Il riferimento diretto alla passività degli uccelli viene annullato
nel doppiaggio italiano, in cui Locchi recita, sul labiale di Perkins: «Io credo che solo gli uccelli stiano
bene impagliati, perché…perché sono molto decorativi». La battuta originale, che negli Stati Uniti non è
mai andata incontro a problemi di censura, verrà reintegrata anche dal doppiaggio italiano solo nel 1998
con il remake di Gus Van Sant. Poi ovviamente la tassidermia, come il travestimento, non è che una
necessità per Norman. Egli deve replicare all’infinito quanto fatto alla madre per estinguere, o
quantomeno attenuare il suo senso di colpa che lo affligge costantemente. Gli uccelli sono parte
integrante di quella poetica dello sguardo che in Psycho riceve il suo trattamento più completo che in
qualunque altro film di Hitchcock. In questa dialettica del guardare/essere guardati, il film riesce a far
convergere ogni tipo di emozione, dalla curiosità al desiderio, dal compiacimento all’ansia, fino al
terrore.
Quando i due si congedano, Marion inizia a spogliarsi nell’interno della camera n.1 e Norman ne
approfitta per guardarla. È un ulteriore occasione in cui lo spettatore può identificarsi con la m.d.p – e
in questo caso con le soggettive di un personaggio voyeur – e possedere con lo sguardo Janet Leigh. Il
quadro che copre il buco nel muro attraverso cui Norman spia il suo oggetto del desiderio, è una
rappresentazione della scena veterotestamentaria di Susanna e i vecchioni (nel romanzo di Bloch c’era la
licenza di albergatore di Norman). Il soggetto rappresenta tanto la bramosia e il voyeurismo (i due
vecchi giudici che spiano il corpo nudo di Susanna mentre fa il bagno) quanto l’aggressione sessuale
(essi violentano Susanna), e prefigura da una parte il desiderio di Norman, dall’altra la violenza
perpetrata sotto la doccia pochi istanti dopo. La scena dello sguardo di Norman attraverso il buco nel
muro è anche la prima volta in cui all’interno del film il punto di vista diegetico si sposta da Marion a
Norman. La protagonista non domina più la scena, ma viene osservata per la prima volta in soggettiva
da un altro personaggio. Questo è il preannuncio di un passaggio imminente di testimone al comando
della narrazione, che nessuno potrebbe ancora prevedere. Il voyeurismo di Norman con il quale ci
identifichiamo mediante la soggettiva, è molto differente da quello pudico di James Stewart ne La
finestra sul cortile, e assume tinte scabrose e patologiche.
L’omicidio brutale della protagonista ci spiazza per tanti motivi, e oltre a quelli già menzionati se ne
inserisce un altro: Marion ha appena dichiarato a Norman la sua intenzione di tornare a Phoenix per
risolvere alcuni problemi, prima che sia troppo tardi. La storia raccontata dal giovane albergatore le ha
evidentemente fatto realizzare che i suoi problemi non sono poi così grandi in confronto a quelli del
suo interlocutore. Il getto della doccia appare come purificatore, come se il bianco accecante del bagno
e lo scroscio dell’acqua lavassero la sporcizia morale di Marion accumulata dopo il furto. Anche
l’espressione estasiata della Leigh sembra conferire alla doccia un significato simbolico di rinascita.
10 F. Truffaut, Op. cit., p. 232.

10
La doccia è invece il momento in cui si passa dall’Eros, dal desiderio dello spettatore – ancora una volta
inappagato – attratto dalla sensualità del corpo nudo di Marion, al Thanatos, rappresentato dal sangue,
dalla sporcizia e dalla morte. Il montaggio frenetico di Hitchcock e l’urlo di Janet Leigh conferiscono
alla shower scene lo statuto di icona del cinema, rivisitata, omaggiata, citata, parodiata e plagiata in mille
forme. Spettacolare il movimento spiralico della m.d.p. attorno all’occhio di Marion che richiama i titoli
di testa de La donna che visse due volte, anch’essi ideati da Saul Bass. L’effetto sorpresa di questa sequenza
e la sua violenza provocano sufficiente turbamento nel pubblico da non rendere necessario il ripetersi
di un tale orrore. L’unica morte che succede a quella di Marion è quella dell’investigatore Arbogast, che
per quanto crudele, non sortisce gli stessi effetti, è più prevedibile e resa in maniera meno violenta dalla
regia. La sorpresa e lo shock della scena della doccia divengono un punto di riferimento per la successiva
produzione horror e thriller, tanto che anche ai nostri giorni i film dell’orrore non possono prescindere
dal concetto di shock: lo spettatore desidera sussultare sulla poltrona del cinema quando va a vedere un
film di questo tipo, e Psycho si può dire abbia aperto la strada a questo tipo di scenari.
Sempre riguardo alla shower scene, va detto che essa non sarebbe la stessa senza la partitura per archi
composta da Bernard Herrmann. In un primo momento Hitchcock insisteva per montare la scena con
rumori diegetici di coltello, urla, acqua che scorre, ma quando ascoltò la geniale colonna sonora per
violini e violoncello del suo fidato compositore, ne fu entusiasta e fece sottoscrivere un contratto
notevolmente lucroso al compositore. Anche la partitura è diventata iconica, ed è a oggi soggetta a una
grande quantità di citazioni nel cinema e nella cultura popolare, accompagnata alle immagini della
doccia o anche come richiamo autonomo.
Dopo la morte di Marion, un dolly ci riporta dal bagno all’interno della stanza, e la m.d.p. si focalizza
una volta in più sul giornale piegato in cui sono nascosti i 40.000 dollari (cui ne andrebbero sottratti ora
700 che Marion ha dovuto spendere per cambiare automezzo). A questo punto lo spettatore si chiede
come incideranno sulla storia i soldi, ora che la ragazza è morta. Ma anche in questo caso Hitchcock
gioca con il pubblico, sfruttando il mezzo cinematografico, e crea una falsa pista ulteriore: i soldi non
incideranno per niente sul proseguo della storia, perché andranno a fondo nella palude insieme
all’automobile e al cadavere di Marion. Lo stesso Arbogast, inviato da una compagnia di assicurazioni
per risolvere l’intreccio, segue una pista sbagliata: va alla ricerca di 40.000 dollari e di una ladra che non
ci sono più. Il fulcro della storia a questo punto della narrazione, è un altro, e questo lo spettatore lo sa,
dopo aver visto i soldi sprofondare nell’acqua torbida della palude.
Ritorna in scena Sam Loomis, mentre è intento a scrivere una lettera a Marion dal retro del suo negozio
di ferramenta, e nello stesso istante entra in scena la sorella di Marion, Lila Crane (Vera Miles), che sino
a quel momento era stata menzionata solo una volta nella scena d’apertura. La Lila di Hitchcock è un
personaggio meno sfrontato e combattivo rispetto all’alter-ego letterario, ma anche nel film si dimostra
più determinata nel prendere decisioni risolutive rispetto all’attendista Sam, la cui caratterizzazione pare
ricalcare quella del personaggio del libro. Ma a entrambi Hitchcock concede molto meno spazio e li
relega al ruolo marginale di vettori narrativi. Sam e Lila sono infatti i personaggi più piatti e
spersonalizzati del film, quasi imbalsamati e utili a portare avanti la narrazione come protagonisti in
scene che sono solo di raccordo. Nel penultimo capitolo del romanzo di Bloch, lo scrittore ci fa intuire
che sia nato un amore fra i due, e che l’Eros sia rinato dalle ceneri del Thanatos, colmando il vuoto
lasciato da Marion. Nell’adattamento cinematografico, Hitchcock non lascia spazio a questo happy ending
da melodramma e ciò conferma la volontà di assegnare loro due ruoli totalmente subalterni. L’unione
fra i due la farà intuire Van Sant nel remake, ma soprattutto verrà esplicitata nel sequel Psycho II.

11
Grazie alla determinazione di Lila, contrapposta all’immobilismo dello sceriffo Chambers e di Sam, si
scopre l’orrore. Norman viene quindi smascherato e condotto alla centrale di polizia, in cui assistiamo
al monologo del dottor Richmond che ci illustra il caso patologico in questione. La sua personalità è
ormai quasi sostituita del tutto da quella della madre. Psycho racconta la storia di un figlio succube della
madre e la cui devozione ha ormai oltrepassato i limiti della follia. Colpevole di essersi macchiato del
più atroce dei crimini, il matricidio, tenta di espiare le proprie colpe trasformandosi nell’oggetto del
proprio amore per restituirgli la vita e uccide quando il suo precario equilibrio psicologico e sessuale
viene messo in pericolo, quando sente che qualcuno può spezzare quel solido legame esclusivo tra lui e
la madre. Nell’epilogo del film abbiamo effettivamente l’impressione che Norma sia tornata a tutti gli
effetti, come se il corpo di Norman altro non fosse che un’estensione temporanea funzionale a
restituire vita alla madre. Questa scena chiude idealmente il cerchio con la scena d’apertura, in cui lo
spettatore si faceva voyeur senza l’intermediazione di alcun personaggio. Lo spettatore fa ora parte della
diegesi, ma se la nostra intrusione iniziale era in nome dell’Eros, qui lo sguardo conclusivo di Norman e
la sovrimpressione in dissolvenza del teschio ci rimanda alla sfera del Thanatos. Lo sguardo finale di
Norman è indirizzato solo ed esclusivamente allo spettatore, cerca con esso una complicità che già è
stata raggiunta in diversi momenti del film. Uno dei dualismi centrali della pellicola, quello tra amore e
morte, presente anche nella psicologia di Bates che, come abbiamo detto, uccide in un certo senso per
amore (un amore malato), viene così replicato nella scena finale.
Psycho è un film dal soggetto molto distante dalla produzione cui Hitchcock ci ha abituati, ma da un
punto di vista puramente filmico e tecnico, la poetica del regista britannico viene sintetizzata alla
perfezione dal film del 1960. Tanto che egli stesso dichiara a Truffaut:

La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla
quale tenevo di più. In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi
importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è
puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo che sia una grande soddisfazione per noi
utilizzare l’arte cinematografica per creare un’emozione di massa. E con Psycho ci siamo riusciti. Non
è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha
sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il
pubblico, è stato il film puro.
[…] è un film che appartiene a noi registi, a lei e a me, più di tutti i film che ho girato.11

L’immediato successo della pellicola è dovuto proprio al modo con cui Hitchcock ha saputo rapportarsi
con il suo pubblico, sia per mezzo del film stesso che attraverso la singolare e corposa campagna
pubblicitaria preparata dallo stesso regista prima dell’uscita nelle sale. Hitchcock sapeva di aver
raggiunto il suo obiettivo postosi dopo il successo di Intrigo internazionale, ovvero realizzare un film che
fosse diverso da tutti i suoi precedenti, e di esserci riuscito a un ottimo prezzo. Ma se il maestro della
suspense non fosse stato in grado di “vendere” Psycho come un “nuovo” Hitchcock, forse le sorti
economiche del film non sarebbero state le stesse. Il primo passo fu l’acquisizione per 5.000 dollari
della grafica del titolo ideata da Palladino per il romanzo. Quindi, per la promozione di un film in cui la
rivelazione finale e lo shock improvviso costituiscono il valore aggiunto alla storia raccontata, era
necessario ridurre al minimo il rischio che la trama e il finale venissero raccontati dagli spettatori usciti

11 Ivi, p. 233.

12
dalla prima proiezione. A tale scopo Hitchcock rivoluzionò le modalità di fruizione dello spettacolo
cinematografico vietando l’organizzazione di anteprime per critici e giornalisti, e l’entrata del pubblico
nelle sale dopo l’inizio del film. Non avendo una storia venduta a priori – come per i più classici film di
genere quali western e melodrammi – e non potendo contare su un cast di sicura attrattiva al
botteghino12, il regista puntò molto sul titolo, sulla scena shock della doccia e sul suo ruolo di direttore
del macabro circo degli orrori. Furono proprio le sagome di cartone a grandezza naturale rappresentanti
Hitchcock ad annunciare davanti ai cinema l’impossibilità per gli spettatori di fare il proprio ingresso al
di fuori degli orari stabiliti, in un’epoca in cui gli spettatori erano abituati a fare il loro ingresso in sala a
orari abbastanza casuali. Tuttavia la trovata pubblicitaria più efficace del maestro furono i tre
“prossimamente”, costati complessivamente 9.619 dollari ed entrati – soprattutto il più lungo – nella
storia del cinema. Proprio quest’ultimo trailer promozionale di sei minuti è interessante per questo
discorso sul marketing e per l’utilizzo che Alfred Hitchcock ha fatto della propria immagine. L’autore di
Psycho sceglie di non mostrare materiale tratto dal film, ma gira un vero e proprio tour guidato da lui
stesso all’interno del motel e di casa Bates.
Riporto alcuni estratti della visita guidata di Hitchcock nella casa degli orrori:

Vedete, anche in pieno giorno questo posto è un po’ sinistro. È in cima alle scale che è stato
commesso il secondo delitto. Lei è uscita dalla porta lassù e ha incontrato la vittima in cima.
Naturalmente, in un lampo è apparso il coltello, e in un attimo… […] la vittima è inciampata ed è
caduta con un orribile fracasso. Penso che si sia subito rotta la schiena, ed è finita a terra. È difficile
descrivere come fossero contorte le… [contorcendo le dita] della… Beh, meglio lasciar perdere.
Venite di sopra.13

Dopo un accenno all’omicidio di Arbogast, la visita prosegue nella camera della madre e quindi nel
salotto di Norman:

Suppongo che lo si potesse chiamare il suo rifugio. Il suo hobby era la tassidermia. Qui un corvo, là
un gufo. In questa stanza è avvenuta una scena importante. C’è stata una cena privata, qui. A
proposito, questo quadro [indica il quadro appeso al muro, Susanna e i vecchioni] ha molta importanza
perché… ma andiamo alla stanza numero uno. Voglio farvi vedere una cosa.14

E una volta entrato nell’ormai celeberrima camera:

Tutto rimesso a posto. Il bagno. Oh, anche lì hanno fatto una bella pulizia. Una bella differenza.
Dovevate vedere il sangue. Tutto, tutta la stanza era…beh, è troppo orribile da descrivere.15

12L’unico volto famoso era quello di Janet Leigh, che aveva ottenuto la fama internazionale due anni prima nel ruolo della
protagonista Susie Vargas ne L’infernale Quinlan (Touch of evil, 1958) di Orson Welles, ma non era certo una star del calibro di
Kim Novak o Grace Kelly.

13 A. Hitchcock nel trailer promozionale di Psycho. Cit. in S. Rebello, Op. cit., p. 163.

14 Ivi, p. 164.

15 Ibidem.

13
Come correttamente osserva Stephen Rebello, «la quantità di informazioni sulla trama che Hitchcock
svela può sembrare audace, ma la narrazione aderisce perfettamente a una delle regole base della
suspense hitchcockiana: dire al pubblico che sta per succedere qualcosa di orribile […] e poi farli
friggere in attesa del finale».16
Il blitz pubblicitario qui accennato, non solo ha rivoluzionato il modo di promuovere i film e di fruirne,
ma ha assicurato alla pellicola il successo planetario di cui tuttora gode.

3. Psycho e la postmodernità

Il cinema e la medialità degli ultimi decenni hanno dovuto fare i conti con un panorama in forte
mutamento, che investe sia il mondo delle tecnologie di riproduzione adottate dai canali mediatici, sia
nuovi stilemi espressivi. Il panorama è quello della condizione postmoderna, sulla cui natura non ci si
può dilungare in questa sede ma di cui è necessario menzionare alcuni tratti peculiari, almeno in
riferimento al cinema e alle arti visive. Il cinema postmoderno nasce in un’epoca in cui il pubblico
sembra essere consapevole dell’artificio mediatico, e gioca a mettere in scena i meccanismi stessi della
finzione, rendendoli palesi. A livello narrativo emerge un nuovo gusto per gli intrecci complessi e per la
molteplicità dei livelli di lettura e di senso e, non ultima, la ripresa e la rivisitazione di codici e stilemi
popolari già assimilati dalla cultura di riferimento a cui il prodotto è destinato. A tal proposito vanno
intese la proliferazione di citazioni ironiche e non – che spesso si risolvono nel puro atto ludico da
parte dell’autore –, la costruzione di percorsi intertestuali, il gioco combinatorio attraverso la
commistione di generi e, a livello più generale, tra cultura aulica e cultura cosiddetta popolare. Queste
sono solo alcune delle caratteristiche di marcano i procedimenti di costruzione delle forme
postmoderne attraverso la settima arte.
Questa breve introduzione sui concetti fondamentali di postmodernità è utile per orientarci attraverso
la pluralità del testo di Psycho e per comprendere i meccanismi che hanno portato alla sua
appropriazione da parte di autori e testi molto diversi fra loro che hanno fatto proprie le sensibilità della
condizione postmoderna.

3.1. I Simpsons

Iniziamo con un’icona della cultura cinematografica moderna, quella che Zanichelli definisce la
«famiglia più disfunzionale e irresistibile del postmoderno»:17 I Simpson (The Simpsons, 1987-2017). Nel
nono episodio della seconda stagione, Grattachecca, Fichetto e Marge (Itchy & Stratchy & Marge, 1990), Matt
Groening ci offre una lezione non comune di «cultura cinematografica e scrupolo filologico, dono di
sintesi e una rara capacità parodistica in un breve short di 26 secondi».18

16 Ivi, p. 165.

17 M. Zanichelli, Op. cit., p. 94.

18 Ibidem.

14
In breve, la descrizione della sequenza: Homer sta costruendo un portaspezie per Marge e non si
accorge che alle sue spalle, dalla cima delle scale, compare Maggie che brandisce una mazzuola. Homer,
spaventato, emette un grido lacerante mentre il montaggio restringe l’inquadratura sulla bocca. Nel
frattempo sono subentrati gli archi della partitura originale di Bernard Herrmann, a sottolineare una
fedeltà filologica che prosegue anche nelle successive inquadrature. Dopo il colpo inflitto, Maggie
fugge, mentre Homer cade a terra e afferra il panno verde sul tavolo – esattamente come Marion con la
tenda della doccia –, i ganci si allentano, il panno cade e con esso la latta di vernice rossa che era sul
tavolo, che si rovescia e scorre verso lo scarico, passando accanto ai piedi dell’inerte Homer. Anche in
questa rivisitazione parodistica, la bocca dello scarico si trasforma, mediante una dissolvenza,
nell’occhio di Homer, compiendo il solito giro di carrello. Se nella scena originale del film di Hitchcock,
dopo il movimento a spirale sull’occhio di Marion, la m.d.p. si allontanava dalla vittima e ritornava nella
stanza del motel con un dolly, nel cartone animato la chiusura della sequenza è impreziosita da una
zenitale a salire dal corpo inerme di Homer. Come vedremo più tardi, di quest’ultimo movimento di
macchina si ricorderà Gus Van Sant nella sua personale rilettura della shower scene nel remake del 1998
(anche se, a onor del vero, lo script originale di Psycho prevedeva la zenitale sul corpo nudo di Marion in
chiusura di scena). La genialità di Matt Groening è quella riuscire a sposare in un prezioso connubio
l’aderenza filologica alla sequenza hitchcockiana e una notevole capacità di riadattare la stessa in un
cartone animato, in un contesto di prosaica quotidianità.

3.2. Brian De Palma

Il regista che più di tutti ha assimilato la lezione del cinema di Alfred Hitchcock e che può considerarsi
suo principale adepto è senz’altro Brian De Palma, una delle figure più influenti del panorama della
New Hollywood e senz’altro un autore tra i più consapevoli delle potenzialità del mezzo che usa,
nonché regista cinefilo fra i più carismatici della postmodernità.
Come afferma lo stesso De Palma: «Per me Hitchcock è come una grammatica cui continuamente
attingere».19 Il cinema del maestro è costantemente omaggiato da De Palma attraverso vari strumenti fra
cui la citazione, la riproposizione di personaggi e situazioni, la parodia, la ripresa di temi fondamentali
per il regista britannico e, talvolta, il rifacimento in chiave moderna e personale delle sue opere.
Per motivi di spazio non ci dilunghiamo sull’influenza che l’intera filmografia di Hitchcock ha esercitato
sulla produzione depalmiana, limitandoci ad analizzare quelle pellicole che non avrebbero potuto
prescindere in particolare dall’oggetto di questo studio: Psycho. De Palma – e dopo di lui altre figure di
cineasti definibili in qualche modo postmoderni, come Tarantino e i fratelli Coen, che non a caso citano
ripetutamente il regista britannico – incarna la figura del cineasta postmoderno per eccellenza,
servendosi di processi di appropriazione di contenuti, di citazioni dipanate lungo l’arco dei suoi film e
che richiedono la complicità dello spettatore, del pastiche.
Voyeurismo, sdoppiamento, identità sessuale incerta, sono alcuni dei temi di Psycho che ritornano
frequentemente nel cinema di De Palma. Il regista di Newark torna più volte su figure filmiche (temi,
situazioni, tecniche di ripresa) che in Hitchcock sono episodi sporadici, isolati, e che invece per De
Palma divengono vere e proprie ossessioni, riproposte quando se ne presenta l’occasione: è il caso del
piano sequenza di Nodo alla gola (Rope, 1948) o della doccia di Psycho, per intenderci.

19
Citato in R. Nepoti, Brian de Palma, Il Castoro, Milano 1995, p. 8.

15
In ordine cronologico, il primo film di De Palma che presenta un forte debito nei confronti di Psycho è
senz’altro Le due sorelle (Sisters, 1973), pellicola in cui il tema dello sdoppiamento di personalità assume
una centralità inedita. Danielle è l’unica sopravvissuta all’operazione traumatica di separazione dalla
gemella siamese Dominique. De Palma adotta la strategia narrativa hitchcockiana, facendo credere al
pubblico durante tutto l’arco della narrazione che esistano realmente due sorelle, quando invece l’unica
presente nel film è appunto Danielle, la sopravvissuta, che vive continui sdoppiamenti. Come in Psycho
la personalità più forte e autoritaria (la madre) viveva nel corpo e nella mente della personalità più
fragile (Norman), anche in questo caso la personalità più pericolosa (Dominique) è infatti contenuta in
quella più sensibile e mansueta (Danielle), e da vita a ondate di incontrollabile violenza nel momento in
cui Danielle ha rapporti sessuali con altri uomini. La gelosia e la morbosità (altro riferimento) sono i
motori che determinano l’entrata in scena della “sorella cattiva” che, a suon di coltellate, fa fuori uno
dopo l’altro gli amanti di Danielle. Come sottolinea, ancora una volta, Massimo Zanichelli:

la doppia personalità di Norman Bates trova un riflesso nella doppia personalità di Danielle, anche a
livello semantico: i nomi di Danielle e Dominique, pur non essendo quasi coincidenti come quelli di
Norman e Norma, sono quantomeno altrettanto allitteranti.20

Queste similitudini non esauriscono il novero delle citazioni di Psycho presenti nel film: per esempio,
nella scena iniziale Danielle (Margot Kidder) indossa un reggiseno che è chiaro riferimento a quello di
Janet Leigh; la scena in cui la stessa Danielle ripulisce il luogo del delitto rimanda alla lunga sequenza in
cui Norman è costretto a liberarsi del cadavere di Marion e a rendere presentabile la camera n. 1.; i
diverbi tra Norman e la madre sono riproposti similarmente nei litigi verbali tra le due sorelle; come in
Psycho, l’uscita di scena improvvisa di Philip introduce nella storia un personaggio nuovo: nel film di
Hitchcock lo spettatore non aveva alternative a Marion e il suo unico processo di identificazione lo
portava alla figura negativa di Norman, mentre nel caso di Le due sorelle la giornalista Grace, testimone
oculare del corpo straziato di Philip, prende in mano il timone narrativo. La partitura affidata a Bernard
Herrmann non fa che confermare la provenienza dell’ispirazione di De Palma, che per tutta la durata
della narrazione non fa che manipolare lo spettatore proprio come fece Hitchcock nel 1960,
stemperando talvolta i toni con l’immissione del precetto di understatement.
Nel successivo Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the paradise, 1974), brillante cult movie in cui si
fondono melodramma, horror e musical, De Palma recupera per la prima volta la shower scene in chiave
parodistica. Il ruolo della vittima nella scena in questione è Beef (Gerritt Graham), cantante glitter che ha
preso il posto di Phoenix per l’inaugurazione del locale di Swan, il Paradiso. Beef si caratterizza per
voce e movenze particolarmente effemminate e un atteggiamento da primadonna. Prima dello
spettacolo, lo vediamo all’interno del suo camerino dalle pareti scarlatte con bigodini in testa e trucchi
per il viso alla mano, quindi, pochi istanti dopo, a torso nudo con una cuffietta da donna mentre fa il
suo ingresso nella doccia. Qui la m.d.p. compie diversi movimenti mentre Beef gioca con la saponetta e
intona le arie della sua esibizione, per poi fissarsi nella medesima posizione scelta da Hitchcock per
filmare l’ingresso dell’ombra della “madre” di Norman che si avvicina a passo felpato verso la tenda
della doccia. Se nella sequenza di Psycho vediamo Marion nella parte destra del quadro e la silhouette
della madre comparire dal lato sinistro, in questo caso De Palma ripropone l’inquadratura in modo
speculare, rovesciando la posizione dei personaggi: in questo caso è Beef a occupare il lato sinistro,

20 M. Zanichelli, Op. cit., p. 109.

16
mentre la figura del Fantasma armato di coltello fa il suo ingresso dalla destra del campo. La tenda
viene squarciata con una coltellata, ma in questa parodia della doccia la lama del coltello non provoca
bagni di sangue. L’urlo di Beef viene ammutolito dalla ventosa di uno sturalavandini che il Fantasma gli
preme sulla bocca per zittirlo. Graham si appoggia con la schiena alle piastrelle del bagno come fa Janet
Leigh, mentre il Fantasma gli intima di non cantare più la sua musica, perché la sua arte è solo per
Phoenix, la ragazza che lui ama e che si chiama come la città di Psycho da cui fugge Marion Crane
all’inizio del film.
Il regista di Newark, che proviene da esperienze cinematografiche underground, non ha paura, tanto nelle
produzioni indipendenti quando in quelle più commerciali, di misurarsi con il proibito e di sfidare il
buongusto: che sia la visione insistente del sangue e della violenza o l’erotismo softcore, peculiarità del
regista che molti critici hanno liquidato come pornografia spicciola. Da brillante autore postmoderno
qual è, De Palma riesce ad approfondire temi delicati e sconcertanti, senza lasciare spazio all’intuizione
ma, al contrario, mostrando direttamente l’immagine cruda, in prodotti raffinatissimi sotto ogni punto
di vista: estetico, stilistico e contenutistico (a proposito della confluenza postmoderna tra cultura alta e
bassa). Due anni dopo, il regista ha l’occasione di rivisitare nuovamente la doccia di Psycho elaborando i
due elementi primari della sequenza: l’acqua e il sangue, e permettendosi di mostrare frontalmente il
pube nudo della protagonista. Il film in questione è Carrie – Lo sguardo di Satana (Carrie, 1976), pellicola
tratta da un romanzo di Stephen King in cui la doccia occupa l’incipit del film. Carrie White (Sissy
Spacek) è una ragazza magrissima, timida e impacciata, vittima costante delle crudeli offese e derisioni
delle compagne. Nella scena in questione, siamo nello spogliatoio femminile della scuola: Carrie si
immerge nel tepore della doccia e si passa la saponetta sul corpo: noi vediamo tutto questo con una
serie di riprese a rallentatore e dissolvenze da un’inquadratura all’altra, accompagnati dalla musica di
Pino Donaggio. Improvvisamente, dalla coscia, insieme alla schiuma del sapone e all’acqua, cola un
rivolo di sangue: sono le prime mestruazioni per la ragazza che, cresciuta nell’ignoranza da una madre
dispotica e sessuofoba come la Norma Bates di Psycho, vive l’arrivo della femminilità come uno shock. Il
sangue e lo spavento di Carrie interrompono la musica rilassante di Donaggio e la morbidezza del
rallentatore. Carrie è terrorizzata, pensa di avere qualche anomala ferita interna, e chiede disperatamente
aiuto alle compagne che, al contrario, la deridono in maniera ancor più crudele lanciandole assorbenti,
mentre lei si rannicchia in un angolo della doccia in preda alla disperazione. Il rivolo di sangue delle
mestruazioni preannuncia il “bagno di sangue” del finale: tanto il sangue del maiale fatto precipitare da
una coppia sadica di compagni di scuola sulla figura indifesa di Carrie, incoronata reginetta della festa,
quanto quello della strage che segue, compiuta da una Carrie posseduta grazie ai suoi poteri telecinetici.
Divenuta iconica la scena dell’incedere della ragazza, completamente ricoperta di sangue e con occhi
vitrei e sporgenti che guardano nel vuoto, mentre attraversa la palestra della scuola completamente in
fiamme, tra le urla strazianti dei presenti.
Tornando alla doccia, la stessa posa di Carrie, rannicchiata in un angolo della doccia in lacrime mentre
le compagne le lanciano assorbenti, trova un suo equivalente nella sequenza successiva alla festa
scolastica: colpita da una coltellata della madre Margaret (Piper Laurie) che intende sacrificarla a Dio in
quanto la ritiene una peccatrice, Carrie indietreggia strisciando sul pavimento, indebolita dalla ferita e
spaventata, mentre la madre avanza verso di lei con espressione sadica e sorridente brandendo il
coltello (e ricordando, inevitabilmente, Norman Bates). Ancora una volta interviene la telecinesi in aiuto
di Carrie e la madre viene trafitta da una serie di coltelli volanti, crocifiggendola. Quando Carrie
rinsavisce, avvicinandosi al corpo della madre, emette un grido acuto e la musica interviene per pochi
secondi completando l’omaggio con gli archi stridenti dell’ormai iconica soundtrack di Bernard
17
Herrmann, rivisitata da Pino Donaggio. Anche l’abitazione di Carrie White e della madre Margaret
presenta i medesimi accenti gotici di villa Bates, e inoltre, in Carrie, De Palma approfondisce il tema
principale di Psycho, lo sdoppiamento, riaggiornandolo con la confluenza del soprannaturale. La
protagonista uccide senza esserne apparentemente cosciente, come se la parte più recondita e malvagia
– evidentemente posseduta, come suggerisce il titolo italiano – prendesse il sopravvento sulla
personalità originale, quella fragile e indifesa di Carrie: esattamente come la personalità più autoritaria e
repressiva della madre prende il sopravvento sulla personalità debole e remissiva di Norman. Altro
tema di Psycho che De Palma, naturalmente servendosi del plot confezionato da Stephen King, ha
l’opportunità di sviscerare, è il morboso rapporto madre/figlia, caratterizzato dalla figura di un genitore
che tende a esercitare un controllo totale sulla parte sottomessa. Il nucleo famigliare è sempre quello:
pur cambiando il sesso della protagonista – maschile quello di Norman, femminile quello di Carrie – la
famiglia White e la famiglia Bates sono entrambe monoparentali e caratterizzate dalla presenza di un
unico figlio che (seppur in momenti e per cause diverse) nell’arco della narrazione vive una
dissociazione della propria persona e si serve di un’unica ed estrema via di fuga dalla disperazione: il
matricidio (anche qui, le cause sono diverse), che inevitabilmente genera un profondo senso di colpa
per entrambi. In questo caso, Carrie fa uso per l’ultima volta della telecinesi e fa crollare l’edificio, si
sacrifica rimanendo abbracciata al cadavere della madre mentre le macerie dell’abitazione gotica la
seppelliscono.
Due anni dopo De Palma lavora con Kirk Douglas in Fury (The Fury, 1978). In questa pellicola la
lezione hitchcockiana si riflette nel montaggio della scioccante sequenza finale in cui Gillian (Amy
Irving) fa esplodere il malvagio Childress (John Cassavetes) servendosi, come Carrie, di poteri
telecinetici. Il montaggio incalzante e serrato della sequenza rappresenta una riedizione interessante del
montaggio della doccia di Psycho, pur non presentando un numero così elevato di inquadrature.
Anche in Blow Out (Id., 1981) Brian De Palma si cimenta con il film capolavoro del 1960, permettendosi
ancora una volta di servirsi della scena della doccia ironizzandoci su. Bellissimo il gioco intellettuale
della sequenza iniziale: De Palma gioca con l’ambiguità della natura del mezzo cinematografico,
facendoci credere, attraverso una lunga soggettiva in piano sequenza di un maniaco sessuale, che siamo
di fronte a un film pornomacabro ambientato in un collegio femminile. La sequenza termina con il
maniaco che, sempre in soggettiva, brandisce il coltello davanti a una giovane ragazza nuda sotto la
doccia. L’urlo della ragazza ha del comico e veniamo così a sapere che le immagini viste finora altro
non sono che il girato di una piccola produzione cinematografica indipendente che realizza pellicole di
serie b, e che il problema della produzione è quello di trovare un urlo decente da inserire nel doppiaggio
in modo da sostituirlo a quello inascoltabile e inautentico della giovane attrice. Lo spettatore viene così
affascinato dalla soluzione di De Palma e allo stesso tempo spiazzato da un senso di impotenza: al
cinema ci fidiamo di quello che vediamo, ma il punto di vista del pubblico è estremamente illusorio.
Anche in questo caso De Palma si dimostra uno dei più carismatici esponenti del postmoderno
cimentandosi nella commistione di forme linguistiche popolari e altre più elevate: ormai cifra stilistica e
autoriale del regista di Newark. In questo caso mutua il titolo e i principali sviluppi narrativi dal Blow-Up
(1966) di Michelangelo Antonioni e compie una riflessione arguta sulla natura del cinema e
dell’informazione. Nel finale si torna ancora una volta nella sala di doppiaggio (dopo numerosi tentativi
fallimentari di trovare un urlo adatto nel corso del film), e vediamo ancora una volta l’inquadratura della
teenager che urla davanti al coltello: questa volta l’effetto del grido è decisamente più efficace e
paragonabile a quello di Marion Crane nella doccia di Hitchcock, perché è il grido reale della co-
protagonista Sally (Nancy Allen) che sta per essere uccisa. Jack (John Travolta), che nel film svolge la
18
professione di tecnico del suono per il cinema, non riesce a salvare Sally dal suo carnefice. Nonostante
nella colluttazione – che cita testualmente quella hitchcockiana tra Sam Loomis e Norman Bates – Jack
riesca ad avere la meglio, Sally è già stata strangolata, e Jack non può che farla rivivere solo attraverso la
riproposizione del suo grido straziante in punto di morte, che verrà utilizzato nel montaggio sonoro
finale della finta doccia.
Finora abbiamo visto come in tutte queste pellicole, da Le due sorelle a Carrie, da Il fantasma del palcoscenico
a Blow Out, passando per Fury, De Palma non abbia potuto fare a meno di servirsi della shower scene
hitchcockiana, riproponendola in forma di omaggio, citazione o pastiche. Il film che più apertamente si
ispira a Psycho, tanto da potersi dichiarare una sorta di remake per certi versi, è il raffinato Vestito per
uccidere (Dressed to kill, 1980). La cornice circolare depalmiana propone la doccia sia all’inizio che alla fine
del film, e cita il riferimento al travestitismo di Norman Bates già dal titolo. Come rileva giustamente
Zanichelli, in ambedue le shower scene di Vestito per uccidere, le sequenze nascondono una natura onirica:
nel primo caso prende forma reale una fantasia sessuale che si rivela un’illusione per lo spettatore, e la
stessa doccia finale si rivelerà essere un incubo della protagonista.21
Per la sequenza iniziale De Palma si serve di una carrellata che ci conduce in un bagno in cui vediamo
Kate (Angie Dickinson) mentre si tocca, sotto il getto bollente della doccia, guardando il marito radersi.
De Palma ripropone il nudo integrale, indugiando con la m.d.p. sui seni della protagonista che
Hitchcock avrebbe voluto mostrare in Psycho (ma qui sono di una controfigura) e sulla nudità puberale,
creando una sorta di autocitazione della doccia di Carrie. La musica di Donaggio enfatizza la scena di un
erotismo travolgente, amplificato dalle espressioni lussuriose di Kate, che poco dopo si immagina di
essere afferrata da dietro da un altro uomo che la ammutolisce e le tocca le parti intime,
nell’indifferenza totale del marito che non se ne accorge. Nella sequenza successiva Kate ha un
rapporto sessuale col marito, ma sembra evidente quanto ognuno dei due partner sembri vivere in
maniera distaccata e autonoma dall’altro il piacere dello stesso. L’orgasmo di Kate è infatti provocato
dal ricordo della fantasia avuta poc’anzi sotto la doccia. I suoi disagi col marito vengono quindi
raccontati allo psichiatra Robert Elliott (Michael Caine), che le consiglia di essere sincera con se stessa e
lasciarsi andare alle pulsioni. Durante la seduta, Kate ammette la propria paura di non essere più
attraente per gli altri uomini, e tale insicurezza è la prima causa del suo disagio. Al termine di una
sequenza silenziosa e bellissima all’interno del Metropolitan Museum che ricorda e cita
intenzionalmente La donna che visse due volte, Kate viene abbordata da uno sconosciuto che, senza
proferire verbo, la trascina in un taxi e consuma con lei un rapporto durante il tragitto fino a casa sua,
dando vita al recondito desiderio di Kate di cui siamo entrati a conoscenza nella sequenza iniziale. Il
tentativo riuscito di De Palma di creare una connessione tra la sua Kate Miller e la Marion Crane di
Hitchcock è enfatizzato dall’abito bianco e dalla chioma bionda della protagonista che, specialmente nei
suoi spostamenti all’interno del museo, ma anche più tardi in ascensore, occupa una posizione frontale
rispetto alla m.d.p., facendo trasparire le sue angosce e i suoi sentimenti. Per filmare l’esterno
dell’edificio in cui vive il misterioso uomo, De Palma si serve di due panoramiche incrociate da una
dissolvenza, omaggiando la scena d’apertura di Psycho e le panoramiche di Hitchcock su Phoenix e
sull’albergo in cui Marion e Sam consumano il loro incontro clandestino. Anche il reggiseno che Angie
Dickinson si allaccia quando si alza dal letto suggerisce un legame con quello di Janet Leigh, in uno dei
tanti collegamenti con la protagonista di Psycho. Come nel film del 1960, il collegamento tra Eros e

21 Ivi, p. 125.

19
Thanathos è indissolubile. Kate scopre che l’uomo sconosciuto ha contratto la sifilide e, scioccata, esce in
fretta dall’appartamento ed entra nell’ascensore. Ciò che accadrà da lì a poco non solo sarà un ulteriore
rivisitazione della doccia di Psycho, ma allo stesso tempo potenzierà la connessione tra la Dickinson e la
Leigh. Kate si sente osservata da una bambina nell’ascensore, come se la perdita della purezza
sopraggiunta con l’adulterio e con la possibile contrazione della malattia venerea fosse ben visibile.
Come Marion Crane, Kate fugge dal “luogo del reato” con il terrore, e ambedue muovono la
compassione dello spettatore e creano con esso un legame empatico, benché colpevoli (del furto l’una,
del tradimento l’altra). Come Marion viene pugnalata da “mamma” Bates nel momento di maggior
vicinanza tra spettatore e personaggio, anche a Kate è riservata la medesima sorte: le porte
dell’ascensore si aprono e la donna viene brutalmente uccisa a colpi di rasoio da una figura bionda con
occhiali da sole e trench nero, visibilmente un travestito. L’assassinio di Kate è girato seguendo il
modello della doccia di Psycho (il dettaglio sull’arma sollevata, il corpo morente di Kate che scivola sulla
specchiera, come quello di Marion sulle piastrelle bianche del muro), benché meno veloce nel
montaggio, e come la sequenza di riferimento, anche questa genera uno shock: è inattesa, perché avviene
anzitempo (anche qui siamo a un terzo del film) e nel momento di maggior empatia col personaggio.
Inoltre, la rivisitazione di De Palma è molto più cruenta e sanguinolenta della shower scene di Psycho.
Anche in questo caso abbiamo un passaggio di testimone. La prostituta Liz (Nancy Allen) si trova
casualmente sulla scena del delitto e per difendersi dall’accusa di omicidio è costretta a indagare,
diventando la nuova protagonista del film e assumendo il comando al timone della narrazione (così
come ne Le due sorelle accade tra Philip e Grace).
Le similitudini non si esauriscono qui. Quando il dottor Elliott ascolta la segreteria telefonica, sentiamo
un messaggio di un suo paziente le cui affermazioni lo inchiodano come assassino di Kate. Dice di
essere un transessuale di nome Bobbi, che vorrebbe cambiare sesso ma non ha ancora potuto, in parte
perché il suo psichiatra l’ha dissuaso a non farlo. Talvolta però, su sua stessa ammissione, la sua parte
femminile prende possesso di lui, facendogli commettere atti criminosi e violenti. Lo psichiatra non lo
denuncia alla polizia, apparentemente per proteggere il suo fragile paziente, in realtà, come scopriremo
nelle sequenze finali, per tutelarsi. Bobbi è un alter ego del dottor Elliot, e non esiste in quanto tale,
esattamente come Norma Bates in Psycho. Nel finale si scoprirà che la polizia ha incaricato una donna-
poliziotto del dipartimento di sorvegliare Liz dall’inizio del film ma, per ingannare lo spettatore, De
Palma veste la poliziotta come il serial-killer, così che ogni volta in cui noi vediamo il presunto killer
nelle vicinanze di Liz, temiamo che la scena cruenta dell’ascensore possa ripetersi. Come la shower scene
rappresenta il culmine della violenza di Psycho, mai ripetuta nella seconda parte del film (nemmeno nella
scena dell’omicidio di Arbogast) ma sufficiente per terrorizzare a dovere lo spettatore, il quale spera di
non vedere più una violenza di tale portata nell’arco della narrazione, la stessa natura e le stesse
conseguenze sullo spettatore sono messe in atto dalla scena dell’ascensore in Vestito per uccidere.
Nel prefinale, quando la bionda assassina viene colpita da un proiettile, cade a terra e De Palma carrella
sul volto del dottor Elliott truccato e vestito da donna come Norman Bates nel finale di Psycho. Nella
scena successiva il film prosegue nel ricalcare lo svolgimento di Psycho: inizia la spiegazione del dottor
Levy relativa ai conflitti psicologici del transessuale Elliott, non senza risvolti parodistici e caricaturali se
messi in confronto con la scena del 1960. Lo psichiatra era afflitto da un contrasto fra due opposti sessi
che convivono nello stesso corpo, una componente maschile e una femminile, con quest’ultima (Bobbi)
che nel momento in cui la maschile (dottor Elliott) prova attrazione per una donna, assume il
predominio cercando di uccidere chiunque risvegli la mascolinità dello psichiatra. Per quanto il
personaggio di Vestito per uccidere non abbia nessun legame edipico con la madre e cambi totalmente il
20
tipo di conflitto psicologico rappresentato – anche se pure in questo caso è giocato sul confronto fra
personalità appartenenti a due sessi differenti – vi sono delle convergenze fra Norma Bates e Bobbi,
così come tra questi personaggi e la Dominique de Le due sorelle: questi tre personaggi femminili non
reali intervengono sempre quando la personalità più fragile che li contiene manifesta un desiderio
sessuale che vada a rompere il precario equilibrio del soggetto.
Rispetto a Psycho cambia il linguaggio, sia durante la spiegazione del dottor Levy che durante la
successiva rielaborazione del discorso da parte di Liz che, come nel romanzo di Bloch, racconta al suo
compagno di investigazione la patologia del dottor Elliott, come faceva Sam con Lila nel romanzo del
1959, in cui riportava il discorso udito personalmente dallo psichiatra. Il “testo sessuale” è aggiornato e
ora si parla di “transessuale”, e non più di “travestito” come in Psycho; ma non solo: vengono utilizzate
altre espressioni colorite che sembrano essere consapevoli forzature depalmiane immesse con lo scopo
di “sporcare” l’elegante linguaggio hitchcockiano in un tentativo postmoderno di rivisitazione del
classico che può compiersi solo tendendo verso l’iperbole e l’eccesso.
Un altro tema ricorrente in Psycho e onnipresente nel film di De Palma è lo specchio. Gli specchi qui
alludono sempre alla doppia personalità del dottor Elliott: è sempre lui infatti a esservi riflesso, nei
propri panni quando si accorge di provare desiderio sessuale per l’interlocutrice o quando ascolta la
storia della morte di Kate dalla segreteria; ma anche quando veste i panni di Bobbi, e la sua figura viene
vista più volte da Liz, nello specchio dell’ascensore e nella doccia finale. La doccia finale. De Palma non
poteva chiudere il film senza mostrarci un’ultima scena focalizzata nuovamente sul dottor
Elliott/Bobbi. Siamo all’interno di un manicomio terrificante quando il dottore soffoca un infermiera e
fugge dal manicomio verso l’abitazione di Liz. Anche in quest’altra citazione della doccia di Hitchcock
De Palma mostra interamente la nudità del soggetto, che intravede dietro la porta la figura di Elliott,
vestito da infermiera. Liz sceglie di uscire dalla doccia e cercare un oggetto contundente nell’armadietto:
vi trova un rasoio, ma nel frattempo Elliott è alle sue spalle, come vede dal riflesso dello specchio, e le
taglia la gola. Ma come la prima violenza nella doccia a Kate apparteneva al mondo della fantasia,
quest’ultima nei confronti di Liz appartiene a quella dell’incubo, e sul suo risveglio traumatico, che è
una citazione testuale del finale di Carrie, scorrono i titoli di coda. Al termine del film, con in mano tutti
i dati necessari per un confronto definitivo con Psycho, possiamo dare una risposta a ulteriori quesiti:
quali sono i significati dell’adulterio, della fantasia erotica di Kate e della malattia venerea? Possiamo
affermare, alla luce di tutto, che questi elementi siano dei sapienti trucchi escogitati da De Palma per
incollare lo spettatore allo schermo e far sì che questo si immagini uno sviluppo totalmente diverso,
così da amplificare l’effetto di shock nella scena dell’ascensore. Sono dei MacGuffin al pari dei 40.000
dollari sottratti da Marion, dei puri vettori narrativi che non ritornano più nella narrazione. Così come il
i soldi di Marion, la sifilide e l’adulterio, dettagli così ben innestati da De Palma nel tessuto narrativo,
non ritornano più nel film, tanto che sia il marito di Kate quanto l’uomo con cui è andata a letto
contraendo la sifilide, spariranno completamente dalla narrazione. Dopo i primi trenta minuti di film la
storia non parla più di una donna di mezza età in crisi con il marito e con la propria immagine, che
nutre fantasie sessuali verso gli sconosciuti e vorrebbe essere desiderata da loro, e che a causa di queste
fantasie tradisce il marito e contrae una malattia. La protagonista diventa una giovane prostituta che,
essendo colta suo malgrado sulla scena del crimine, indaga per scagionarsi da ogni colpevolezza e tenta
di scoprire l’identità di una donna misteriosa che uccide le proprie vittime con un rasoio.

21
3.3 Il seguito della saga: Psycho II, Psycho III e Psycho IV

A ben ventitré anni di distanza dal film capolavoro del 1960, la Universal mette in cantiere il progetto
per un sequel delle vicende legate al Bates motel. Siamo nel 1983 e la regia del progetto viene affidata al
regista australiano Richard Franklin, che può vantare all’attivo il cult movie Patrick (Id., 1978) e il thriller
Roadgames (1981), parzialmente ispirato a La finestra sul cortile (Rear window, 1954). Psycho II (Id., 1983)
rappresenta l’esordio americano per Franklin, affiancato per questo progetto dallo sceneggiatore Tom
Holland. La trama del film non ha nulla a che vedere con il sequel letterario Psycho II che Robert Bloch
pubblicò nel 1982 e si innesta sull’intreccio del 1960, lo prende come riferimento a livello
promozionale, di cast, citazioni, stile (nel senso che si prova con scarso successo a imitarne le ardite
soluzioni registiche). Il film fu un grande successo economico e di pubblico22, per più motivi. L’esplicita
volontà di innestare la narrazione sul solco degli eventi del film capostipite si rivela una mossa vincente,
nonché la sfilza di omaggi e citazioni che permeano tutta la durata della pellicola. In tal modo Franklin
strizza l’occhio a quel pubblico che, nel 1960 o a posteriori, ha potuto ammirare il film di Hitchcock.
Ma Psycho II non mira unicamente a un target di appassionati del primo episodio, per cui lo stile visivo,
narrativo e iconografico del film si inserisce nel filone del cinema horror anni ottanta in cui l’eccesso di
scene splatter poco credibili va incontro all’esigenza di un pubblico rinnovato che predilige lo shock. Il
nuovo pubblico di teenager è compiaciuto dalla frequenza e dalle modalità con cui vengono mostrate le
scene di violenza nell’horror contemporaneo, e l’esagerazione di certe sequenze risulta quasi catartica
per una fetta di pubblico che, dopo lo shock e il ribrezzo per i fiotti di sangue, viene rassicurato dal fatto
che è tutto visibilmente finto.
Il film è inoltre uno slasher, inscrivibile dunque nel calderone di film prodotti a partire dagli anni settanta
in cui un maniaco omicida (spesso mascherato) dà la caccia a un gruppo di persone (solitamente
adolescenti), in uno spazio spesso chiuso e limitato, utilizzando armi da taglio per eliminare le vittime in
modo cruento.23
Va detto che il prodotto è interessante solo ed unicamente ai fini del nostro studio e di una panoramica
sugli sviluppi della produzione horror nel decennio in questione (produzione che, guarda caso, deve
moltissimo allo Psycho hitchcockiano), ma dal punto di vista narrativo e formale offre molto poco allo
spettatore che ha saputo apprezzare il primo episodio della saga. La fotografia patinata da b-movies
televisivo è molto lontana da quella di John L. Russell, i personaggi sono piatti e poco credibili, e i
plurimi tentativi di imitare alcune soluzioni registiche ammirate nell’antecedente paiono un po’ fini a se
stesse.
Interessante sotto più punti di vista la scelta di confermare due membri portanti del cast. Anthony
Perkins, ora cinquantunenne, veste nuovamente i panni di un Norman Bates che, nonostante le fragilità
e le paure del caso, sembra essere sulla buona strada per la redenzione e viene rilasciato dopo ventidue
anni di reclusione in ospedale psichiatrico perché considerato guarito. Vera Miles riveste i panni di Lila
Crane, con una variante: nel 1983 è Lila Loomis, vedova di quel Sam Loomis che nel primo film è stato

22Il film venne distribuito nei cinema il 3 giugno 1983 e incassò nel primo weekend 8.310.244 dollari piazzandosi al secondo
posto al botteghino dopo Il ritorno dello Jedi (Return of the Jedi, 1983). In totale il film incassò più di 34 milioni di dollari.

23Il genere fiorisce negli anni settanta, decennio di produzione di quello che è da molti considerato il padre del genere, Non
aprite quella porta. In realtà, il capostipite dei generi slasher e splatter è Blood Feast (1963) di Herschell Gordon Lewis, che non a
caso riutilizza la scena della doccia di Psycho, inevitabile punto di riferimento per il genere.

22
l’amante della sorella Marion. Il romanzo di Bloch lasciava effettivamente intendere un congiungimento
sentimentale tra Sam e Lila nel penultimo capitolo, ma Hitchcock, che a Sam e Lila aveva destinato un
ruolo di totale subalternità rispetto ai due protagonisti Norman e Marion, non da questa possibilità ai
due. Come detto, Lila è vedova. Sam è morto per cause apparentemente naturali nei ventidue anni che
intercorrono tra l’arresto di Norman e il suo rilascio. Perché questa scelta? Le risposte possono essere
più di una. Se da una parte il tutto si può giustificare con una motivazione di carattere narrativo (Sam è
sostanzialmente marginale rispetto a Lila anche nel primo film, nel secondo subentra la difficoltà di
scrittura del personaggio: come si sarebbe comportato davanti agli sprazzi di follia della moglie?
Norman ha già abbastanza “nemici” intorno), probabilmente la risposta è molto più semplice: John
Gavin si è ritirato dalle scene dal 1970, e sostituirlo avrebbe contrastato con la politica di ridare ai
personaggi le fattezze fisiche degli interpreti originali. La trasformazione totale del personaggio
interpretato da Vera Miles risulta uno degli elementi più incongruenti e ridicoli della pellicola. Nel finale
del romanzo di Bloch, Lila Crane ascolta la storia della vita di Norman, ormai smascherato, quali sono i
suoi meccanismi mentali e i suoi moventi, e infine afferma di non riuscire a provare odio per Bates,
perché è evidente che soffre più di chiunque altro. Nel film Lila è determinata a ritrovare sua sorella, ma
nel momento in cui scopre la verità sembra più incredula che vendicativa. Il ritratto schizofrenico di
Lila che ci fornisce il sequel targato Franklin, che trova compimento nella mimica invasata e negli occhi
fuori dalle orbite di un’anziana Vera Miles, risulta pertanto poco credibile. Un'altra presenza
significativa nel cast è senz’altro Dennis Franz, nei panni di Warren Toomey, il nuovo proprietario che
ha rilevato il motel durante l’assenza di Norman. Franz è un caratterista che negli anni Ottanta lavora
intensivamente con Brian De Palma, il principale adepto di Sir Alfred.
Il sequel, come anticipato, è incentrato sul ritorno di Norman al Bates motel dopo ventidue anni passati
in un istituto psichiatrico. Viene considerato sano di mente, contro il parere di Vera Loomis che non gli
ha ancora perdonato l’omicidio della sorella Marion. Il motel è stato nel frattempo rilevato da un
buzzurro che ha destinato l’attività a casa di appuntamenti per giovani vogliosi di consumare rapporti
sessuali e droga nelle camere. Si prende cura della reintegrazione di Norman un fidato psichiatra, il
dottor Raymond. Norman vuole rigare dritto: resiste alle provocazioni di chi lo aggredisce, si trova un
lavoro come tuttofare in una tavola calda di Fairvale, resiste alla tentazione di dare a Mary Samuels
(Meg Tilly) la chiave della stanza numero 1. Mary è una sua collega che viene ospitata in casa Bates
perché non ha un tetto sopra la testa e col tempo sembra affezionarsi a Norman e fidarsi di lui
nonostante le voci. A Fairvale però è cominciato il bagno di sangue, sempre ad opera di una presunta
donna anziana armata di coltello da cucina che semina morte facendo ricadere ogni sospetto su
Norman che, dal canto suo, inizia ad avere visioni, a ricevere telefonate e bigliettini dalla madre defunta
e a non essere più così sicuro della sua guarigione mentale. Veniamo a sapere che tutto ciò fa parte di
un piano di Lila che inizialmente vedeva coinvolta Mary nelle vesti di complice: l’intento era di far
ricadere Norman nella sua follia e far sì che venisse ricondotto in manicomio. Inoltre, si scopre che il
vero cognome di Mary è Loomis, e che è la figlia di Lila e del defunto Sam.
La domanda che pone lo spettatore al film e che fa da filo conduttore alla narrazione è: Norman Bates è
ricaduto nel suo stato di follia allucinatoria e omicida di quando lo abbiamo conosciuto, o qualcun altro
sta uccidendo e spiando dai buchi nel muro?
A un certo punto pensiamo di avere la risposta in mano: Lila Loomis è responsabile delle morti cruente
e dell’intera messa in scena di buchi spiati, telefonate, voci, biglietti. Così crede lo sceriffo, così crede
tutta la comunità di Fairvale, e anche lo spettatore sino a quel momento, e con tutta la delusione del

23
caso relativa all’assurdità del fatto che una persona che dichiara di voler rinchiudere un assassino perché
pericoloso, come metodo per incastrarlo inizi ad uccidere in modo violento tanti innocenti.
Il finale presenta un parallelismo e allo stesso tempo una grande differenza con lo Psycho di Hitchcock.
Da una parte, nel film del 1960 quando ci troviamo alla centrale di polizia e il dottor Richmond ci svela
la realtà dei fatti, non abbiamo ulteriori colpi di scena, la verità è quella pronunciata dallo psichiatra,
ovvero che Norman ha ucciso la madre e il compagno e che per estinguere l’assillante senso di colpa
del matricidio si traveste da donna “riportandola in vita” e, talvolta, uccidendo, sempre nei panni della
madre, quando avverte un pericolo di qualche tipo. La storia non si sposta più dal commissariato di
polizia e non ci sono ulteriori rivelazioni. Al contrario, nel sequel di Franklin ci viene raccontata dallo
sceriffo la “verità” condivisa sui fatti, ma allo spettatore e solo ed esclusivamente ad esso è consentito
conoscere la verità autentica. L’ultima sequenza, infatti, è ambientata nuovamente a casa Bates
(Norman è stato, giustamente, lasciato libero di farvi ritorno) e assistiamo all’arrivo di Emma Spool,
una vecchietta che lavorava con Norman alla tavola calda e che dichiara di essere la sua madre naturale.
Emma è la sorella di Norma Bates (il cui cognome da nubile è, appunto, Spool) e dichiara di aver
dovuto lasciare il piccolo Norman alla sorella in quanto lei era troppo giovane e con qualche problema
di instabilità mentale per occuparsi del figlio, ma ora è tornata per proteggerlo dai mali del mondo a
suon di coltellate. Norman la uccide e la porta in camera sua, in un vero finale tipico del genere (e non
solo). Molti horror, infatti, adottano questa soluzione narrativa di un epilogo che va a seguire il
presunto finale del film, in cui si aggiunge un pezzetto fondamentale all’ultimo capitolo della
narrazione, magari in grado di lasciare una porta aperta sul senso del film, sulla natura di un
personaggio, o spalancando le porte alla produzione di un terzo episodio, come in questo caso.
Dall’altra parte anche nella sequenza finale originale alla centrale di polizia Hitchcock ci riserva un
ultimo incontro a tu per tu con Norman Bates, riservato solo ed esclusivamente allo spettatore: una
scena che non aggiunge nulla alla trama ma è necessaria per conoscere più da vicino lo sdoppiamento di
Norman e per chiudere efficacemente con il celebre ghigno rivolto in m.d.p.
Come già anticipato, il film vuole essere un omaggio al ben più celebre precedente e non risparmia
citazioni in questo senso.
A cominciare dall’intro: i titoli di testa sono preceduti dalla riproposizione della scena della doccia
originale con Janet Leigh, il cui bianco e nero contrasta fortemente con la colorazione e la fotografia
anonima che percepiamo sin dai titoli.
Il personaggio interpretato da Meg Tilly si presenta a Norman come Mary Samuels, e in tal modo
Franklin compie un doppio omaggio: Samuels è il falso cognome rilasciato da Janeth Leigh sul registro
di Norman nel film originale, e Mary è il corrispettivo di Marion nella versione letteraria di Robert
Bloch. Anche nel sequel assistiamo a una scena della doccia, che vuole certamente essere un’imitazione
dell’originale (anche per incollare il pubblico alla poltrona: dopo aver visto il primo episodio ora ci
aspettiamo accada qualcosa di terribile). A cominciare dall’estasi di Meg Tilly quando l’acqua comincia a
sgorgarle sul volto, alcune inquadrature sono riprese tale e quali da Hitchcock, con la differenza che
Franklin, visto il cambiamento dei tempi, può permettersi di mostrare il corpo nudo dell’attrice per
intero.
Anche la sequenza dell’omicidio Arbogast viene citata a più riprese, in primis durante l’assassinio di
Toomey, il cui volto viene sfregiato come quello del private eye, e in secondo luogo con l’uccisione
accidentale del dottor Richmond, che cade giù dalle scale. Più in generale, le inquadrature sulle coltellate
rimandano chiaramente alle medesime che hanno terrorizzato il pubblico del 1960, rimanendo la cifra
stilistica di tutti e tre i sequel, e di numerose filiazioni di Psycho estranee a questo contesto narrativo.
24
Fra tutti i movimenti di macchina con cui Franklin ha voluto scimmiottare il maestro, il riferimento più
esplicito si ha nella sequenza finale, prima dei titoli di coda, quando Norman sale le scale con il
cadavere della signora Spool in braccio, e la ripresa dall’alto della rampa è la fotocopia di quella presente
nel primo episodio della saga in occasione dell’omicidio Arbogast e del trasporto della “madre” in
cantina.
L’intreccio e la caratterizzazione negativa dei personaggi che circondano Norman lasciano trasparire il
messaggio banale e didascalico che Norman sia tutto sommato una persona buona e coscienziosa
circondata da un mondo di persone più matte di lui («Se Bates è il pazzo numero uno, c’è un sacco di
gente qui in giro che si contende il secondo posto», citando lo sceriffo Hunt), ma il finale circolare ci
restituisce Norman così come ce lo ha lasciato Hitchcock, e al Bates motel si preannunciano nuovi fatti
di sangue.
Tre anni dopo esce nelle sale la terza “puntata”, Psycho III (Id., 1986), sempre prodotto dalla Universal
che affida il timone della regia a Anthony Perkins, per la prima volta dietro la cinepresa (oltre che,
naturalmente, nei panni di Norman Bates). Il film questa volta non raggiunge i picchi di pubblico che
aveva toccato il film precedente24, limitandosi a tre milioni di spettatori nella primo weekend di
programmazione, senza superare l’ottava posizione. Nelle intenzioni di Perkins il film vuole essere un
omaggio al film capostipite che gli ha dato la fama, e per questo tenta di convincere la Universal a girare
in bianco e nero, ma tale libertà di scelta non gli viene accordata. Si gira a colori, dunque, avvalendosi
della fotografia di un tale Bruce Surtees (figlio del tre volte premio Oscar per la fotografia Robert
Surtees) che lavorò nella sua carriera con registi del calibro di Fosse, Penn, Don Siegel e Eastwood. La
fotografia talvolta solare, altre sporca e materica, rappresenta uno dei pochi meriti di un film mediocre
ricco di citazioni fini a se stesse, personaggi piatti e un intreccio più prevedibile di Psycho II. Lo
sceneggiatore Charles Edward Pogue (autore anche del soggetto) introduce il tema religioso della crisi
di fede, forse con l’intento di arricchire con nuova linfa il contenuto del film, ottenendo invece un
effetto ai limiti del parodistico. Personaggio di spicco è anche il compositore Carter Burwell, già attivo
per i fratelli Coen in Blood Simple – Sangue facile (Blood Simple, 1984) e destinato a diventare il loro
compositore di riferimento. Naturalmente la narrazione del terzo episodio prosegue dove era finito il
secondo: nella cittadina di Fairvale si indaga sulla scomparsa della signora Spool, che giace impagliata in
case di Norman. Il dialogo fra madre e figlio diviene paradossale, e non cerca di mantenere più una
parvenza di verosimiglianza. Il volto della madre è sempre in ombra quando “parla”, mentre la m.d.p
riprende frontalmente Norman quando si sente la voce della madre, come fosse un ventriloquo. Il
motivo di questa scelta risiede nel fatto che, arrivati a questo punto della storia, nessuno crede più
all’esistenza di una madre in carne e ossa e dunque non v’è nulla da celare, nessun trucco da mantenere
segreto, e inoltre il tutto è giustificabile con l’idea credibile, a questo picco di follia, che la voce della
“madre” sia frutto della sua immaginazione. Norman si vuole imporre comunque una condotta
impeccabile e ritorna alle vecchie abitudini. La sua esistenza viene turbata dall’arrivo a Fairvale di una
giovane bionda ex suora in crisi depressiva che pare la reincarnazione di Marion Crane (almeno agli
occhi di Norman). L’occhio di Norman cade sulle iniziali della valigia, M.C. (Maureen Coyle è il nome
della ragazza), provocandogli una sensazione di forte malessere e la reminiscenza della shower scene
hitchcockiana. La donna viene ospitata da Norman nella camera numero 1 e, dopo essere stata spiata
durante i preparativi per la doccia, assistiamo a un nuovo faccia a faccia con la madre (alla cui esistenza
24Nel weekend di uscita nelle sale, il film guadagna 3.238.400 dollari, senza andare oltre l’ottavo posto nelle classifiche di
incassi. Il totale degli incassi ad oggi è di oltre 14 milioni di euro, cifre ben lontane dai 34 milioni di Psycho II.

25
nessuno può più credere), che questa volta le risparmia la vita vedendo la ragazza che si è già tagliata i
polsi. Da parte sua, Maureen vede la figura della madonna al posto di quella di mamma Bates,
suscitando nello spettatore un involontario effetto comico. In mezzo alla consueta lista di
accoltellamenti, Perkins fornisce al suo Norman uno spiraglio di salvezza rappresentato dall’amore per
Maureen: il turbamento amoroso manda ancor più fuori di testa il protagonista che persiste nell’essere
ostacolato dalla voce materna. Nel finale, com’era prevedibile, abbiamo la conferma della colpevolezza
di Norman riguardo alle continue morti verificatesi nella struttura: questo arresto ha tutta l’aria di essere
definitivo per un omicida recidivo con all’attivo più di dieci vittime, ma sorprendentemente pochi anni
dopo troviamo un Bates a piede libero dopo soli quattro anni. Non solo l’arresto: nelle sequenze finali
abbiamo la rivelazione cervellotica della lungimirante giornalista che era rimasta l’unica a Fairvale a
essere convinta della recidività di Norman. Ella ci spiega di come Emma Spool non è in realtà la madre
naturale di Norman, come ci era stato detto nel finale del film di Franklin, ma solo la zia. Era
innamorata del padre di Norman, che scelse però di sposare Norma, la vera madre. Così, in un raptus di
gelosia, la Spool uccise il padre di Norman portandosi via il piccolo Bates in fasce, e autoconvincendosi
di esserne la madre. Tutta una costruzione mentale della signora Spool, insomma, a riprova del fatto
che la popolazione di Fairvale ce l’ha messa tutta per far risprofondare Norman nel suo stato di follia. È
lo stesso Norman a consegnarsi allo sceriffo dopo le rivelazioni, non prima di aver infierito a coltellate
sul fantoccio impagliato della madre, per liberarsi dalle sue prevaricazioni.
Il film ha perso totalmente la capacità di scavo nella profondità del personaggio. Proseguendo la deriva
che abbiamo già avuto modo di osservare con il primo sequel, ora perfino un personaggio
potenzialmente ricco di spunti di osservazione si trasforma in una macchietta ridicola da peggior horror
movie da cassetta. Il Bates di Psycho III non è più coerente con il ritratto psicologico delineato da
Hitchcock e, in parte, da Franklin. Se nei sequel Norman appare ancora più fragile e indifeso che nel film
del 1960, la sua educazione e i suoi buoni propositi sono ora intervallati da un numero ancora più alto
di coltellate e bagni di sangue. L’incoerenza sta nel fatto che Norman non uccide più quando è turbato
o sente il proprio equilibrio psicologico, emotivo e sessuale in pericolo. Nel terzo capitolo Bates uccide
anche persone che non conosce, che teoricamente non dovrebbe nemmeno aver visto, donne che non
hanno alcun legame con lui. Paradossalmente, quando inizia a maturare il sentimento nei confronti di
Maureen e cresce la sua follia, incentivata dagli ordini materni, sembra riuscire a controllare bene i
propri istinti omicidi (cosa che gli risultava impossibile nel primo film). Anche nel quarto episodio,
come vedremo, in cui ci viene mostrata una panoramica sulla sua adolescenza, le sue vittime erano tutte
persone che avevano raggiunto un’intimità con lui, che avevano mandato in frantumi il suo tentativo di
controllare le proprie pulsioni. La violenza sconclusionata e senza scopo alcuno del terzo episodio
rappresenta un unicum della saga. La ricerca continua dello shock, delle sequenze splatter e il
mantenimento della linea slasher hanno soppiantato l’approfondimento psicologico dei personaggi.
Anche Psycho III è infarcito di citazioni e omaggi a Hitchcock. Nel prologo assistiamo al tentato suicidio
di Maureen – ancora nei panni di suora del convento – la quale minaccia di volersi gettare da un
campanile. Anche chi non ha presente la sequenza non può far altro che ricordare le due celebri scene
de La donna che visse due volte (Vertigo, 1958). L’omicidio della cabina telefonica rimanda allo stesso tempo
all’attacco degli uccelli a Tippi Hedren nella cabina di Bodega Bay in Gli uccelli (The Birds, 1963), ma
anche alla sequenza della doccia con Janet Leigh. Anche la morte accidentale di Maureen è una
citazione testuale impossibile da notare: la caduta dalle scale richiama gli stessi movimenti di macchina
visti in Psycho durante l’omocidio di Arbogast.

26
Nel 1990 la Universal produce per la televisione Psycho IV (Psycho IV - The Beginning, 1990), la cui natura
rimane sospesa tra sequel e prequel. È infatti un film sull’infanzia e l’adolescenza di Norman e racconta la
vita del protagonista insieme alla madre Norma e i soprusi da lui subiti, all’origine della sua follia. Per
farlo utilizza la tecnica del flashback: anche nella finzione narrativa siamo nel 1990 e Norman telefona in
diretta a una trasmissione radiofonica in cui si parla di matricidi per raccontare la propria storia,
riavvolgendo il nastro sino all’infanzia. Annuncia quindi di voler tornare a uccidere per un ultima volta:
l’obiettivo è la nuova moglie, colpevole di portare in grembo un bambino. Norman è convinto che la
follia omicida sia un fatto genetico e teme che il suo erede possa diventare un mostro.
La regia per questo progetto viene affidata a Mick Garris, un regista minore specializzato in sequel e
horror scadenti scritti in collaborazione con Stephen King. Psycho IV si avvale della collaborazione dello
sceneggiatore Joseph Stefano, che aveva realizzato lo script del film di Hitchcock. L’universo di
riferimento è sempre il capostipite della saga girato nel 1960 dal regista britannico, il che viene
confermato, oltre che dalle plurime citazioni, anche dal riutilizzo della soundtrack originale composta da
Bernard Herrmann.
L’idea del film è quindi quella di recuperare il passato scabroso di Norman attraverso il lungo racconto
del Bates adulto, nel giorno del suo compleanno, in una sorta di anamnesi fortemente psicanalitica. Lo
spunto iniziale è interessante ma si sviluppa in modo assai superficiale, con una regia anonima e
personaggi prevedibili, fortemente stereotipati. Nonostante il tentativo di indugiare sulle radici
psicanalitiche di Bates, il film banalizza il fenomeno edipico confezionandolo in un formato appetibile
per il grande pubblico televisivo.
La prima in TV viene presentata da Janet Leigh che ammirò molto il lavoro fatto da Mick Garris,
mentre qualche anno dopo criticò apertamente l’operazione di remake di Gus Van Sant.
Come anticipato, la narrazione è intessuta di omaggi e citazioni. Il reggiseno slacciato della prima
vittima (una ragazza che voleva fare l’amore con Norman adolescente), richiama quello di Janet Leigh,
così come l’omicidio della stessa che accorpa la shower scene di Psycho con i fuochi d’artificio di Caccia al
ladro (To catch a thief, 1955). La donna di mezza età che viene strangolata da Norman nei pressi della
palude è un richiamo alle vittime strangolate di Frenzy (Id., 1972). Dopo, l’omicidio, Norman non può
fare a meno di farci assistere al solito copione: chiude il cadavere nel bagagliaio dell’automobile e la fa
sprofondare nelle acque melmose. Durante il solito faticoso affondamento della macchina, Norman si
tocca il labbro e sul volto ha la medesima espressione ansiosa che abbiamo visto nell’originale. La terza
citazione esplicita è verso il finale del film, quando la moglie guida l’auto verso il Bates motel. Viene
inquadrata frontalmente, sul parabrezza comincia a scrosciare la pioggia battente e nella sua mente
rivive la conversazione avuta poco prima col marito, che le ha dato appuntamento a casa di “mamma”
Bates. Anche Janet Leigh, come ben sappiamo, durante la sua guida verso il motel si immagina
verosimili affermazioni future da parte delle persone coinvolte nel suo furto. A conferma del
parallelismo fra Marion Crane e la moglie di Norman, quando quest’ultima arriva al motel apre la
portiera e viene spaventata dal rumore dell’ombrello del marito che, aprendolo, dice: «Non ti
spaventare, sono io con il mio fidato ombrello». Parole simili a quelle pronunciate dallo stesso Perkins
alla Leigh dopo la consegna delle chiavi della stanza numero 1: «Sistematevi, mettete delle scarpe
asciutte e appena pronto verrò a prendervi con il mio fedele ombrello». Nel melodrammatico finale, che
non manca di suscitare involontari effetti comici, Norman risparmia la vita alla moglie e si convince che
deve darsi una possibilità come marito e come padre.

27
Significativamente Norman si presenta alla conduttrice radiofonica con il nome di Ed, con esplicito
richiamo al “macellaio di Plainfield” che ha ispirato innanzitutto Robert Bloch e quindi il proseguo
dell’universo testuale di Psycho.
Il film manca totalmente di quella suspense con cui amava giocare Hitchcock. Sebbene non si possa
parlare di suspense hitchcockiana a proposito dei due sequel precedenti, lo sviluppo dell’intreccio, per
quanto ridicolo a volte, regalava shock gratuiti e svolte inaspettate. In questo quarto capitolo i fatti che
Bates narra sono da lui stesso anticipati: sappiamo già cosa stiamo per vedere, di quale omicidio Bates ci
sta parlando, quindi nemmeno eventuali shock violenti e inaspettati rendono piacevole una pellicola che
risulta addirittura noiosa sotto ogni aspetto, sia narrativo che del contenuto, ma si presume che anche
un amante dello splatter movie più becero abbia ragione di annoiarsi davanti al film di Garris. Se la finalità
di Garris e di Stefano non è quella di calcare la mano sulle sequenze truculente come in precedenza
hanno fatto Franklin e Perkins, come effettivamente sembra, ma di impreziosire il contenuto del film
con la psicanalisi, il risultato rimane comunque molto distante dai buoni propositi dello spunto iniziale.
La pellicola non manca di incongruenze e assurdità piuttosto rilevanti che vale la pena citare. Se il
ritorno di Bates a piede libero dopo soli quattro anni dai cruenti omicidi del 1986 (da recidivo,
sottolineiamo)25 per quanto incredibile, possa essere giustificato da un’esigenza narrativa, alcune
incongruenze narrative faticano a trovare una spiegazione.
Dopo il primo ritorno di Norman dopo ventidue anni a Fairvale all’inizio di Psycho II gli interni
dell’abitazione gotica risplendono come se fosse stata abbandonata da pochissimo tempo. Nel quarto
capitolo, dall’ultima visita di Norman sono passati quattro anni e questo lascerebbe pensare che gli
arredi e gli interni si siano conservati più o meno integralmente. Eppure, lo scenario che si presenta
davanti ai nostri occhi è quello di un’abitazione sul punto di crollare a pezzi, simile al castello di
Dracula, in cui ogni parete e ogni oggetto d’arredo sono ricoperti da polvere e fitte ragnatele.
Un’ulteriore incongruenza riguarda la biografia di Norman. Dal suo racconto veniamo a sapere che il
padre è venuto a mancare quando lui aveva sei anni, ucciso da un attacco di api. Alla fine di Psycho III ci
era stato però svelato che il padre di Norman era stato assassinato da Emma Spool quando il piccolo
Bates era ancora in fasce. Per una pellicola che si pone come coerente seguito narrativo dei precedenti
episodi, dal momento che cita la reclusione di quattro anni dopo gli omicidi del 1986 e il numero delle
vittime di Norman (che si aggira oltre la decina, coerentemente con ciò che abbiamo visto nei quattro
film), l’incongruenza risulta piuttosto significativa e disturbante per lo spettatore e fa riflettere sulla
possibilità dei sequel di trascurare completamente alcuni dettagli menzionati negli episodi precedenti,
senza per questo snaturarsi come tale.
L’happy ending e la prematura morte di Anthony Perkins sopraggiunta nel 1992 sembrano chiudere il
circo degli orrori commessi dallo psicopatico più celebre della storia del cinema. In realtà la figura di
Bates tornerà sullo schermo qualche anno più tardi in più occasioni: nel celebre e bistrattato remake di
Gus Van Sant (mantenendo, come vedremo, il medesimo impianto narrativo dell’originale) e nel reboot
Bates Motel.

25 Dopo gli omicidi del 1960 toccarono a Norman ben ventidue anni di manicomio criminale. Dopo un difficoltoso
reinserimento nella società e i soliti omicidi cruenti, questa volta meno giustificati dalla psicanalisi rispetto al film di
Hitchcock, Norman torna in prigione (si presume condannato all’ergastolo) nel 1986. In Psycho IV lo troviamo dopo soli
quattro anni dai bagni di sangue già in libertà in un comodo appartamento, sposato con la dottoressa che lo ha preso in cura
all’ospedale psichiatrico, e in attesa di un figlio.

28
3.4. Spin-off e Reboot

Nel 1987 fallisce in fase di lavorazione il progetto televisivo Bates Motel, ideale spin-off del film del 1960.
Anthony Perkins rifiuta di prendervi parte, ormai stanco di quel ruolo cui è stato inevitabilmente
troppo spesso accostato (e che ricoprirà per un’ultima volta quattro anni più tardi).
L’episodio pilota viene comunque girato dal regista Richard Rothstein e viene trasmesso dal canale
televisivo NBC nel luglio dello stesso anno. Il film televisivo Bates Motel (Il motel della paura, 1987) è
quindi l’unica traccia di quel progetto mai andato in porto, ed è incentrato sulle vicende di Alex West
(Bud Cort), compagno di camera di Norman Bates per una ventina d’anni all’ospedale psichiatrico. La
forte amicizia che lega i due ha fatto sì che Norman lasciasse in eredità il motel, rimasto nel frattempo
abbandonato, all’amico Alex. Il protagonista fa il suo ritorno a Fairville (questo il nome della cittadina,
che storpia l’originale Fairvale) e con l’aiuto di un’adolescente di nome Willie riapre il motel, che però è
infestato dal fantasma della madre di Norman, e come prevedibile, ricomincia il bagno di sangue.
Più concreta l’operazione avviata in anni recenti dal network A&E: una serie TV molto liberamente
ispirata ai fatti raccontati nel romanzo di Bloch e nell’adattamento di Hitchcock. La serie va considerata
come un reboot del testo di Psycho: è infatti incentrata sul rapporto tra un Norman Bates diciassettenne
(Freddie Highmore) e la madre Norma (Vera Farmiga), ma costruisce radicalmente un nuovo inizio per
la narrazione, tanto che, per esempio, Marion Crane (la cantante Rihanna) non viene accoltellata sotto
la doccia, sorte che invece capiterà al malcapitato Sam Loomis (Austin Nichols). La prima stagione è
andata in onda nel 2013 e oggi, nella primavera del 2017, sta andando in onda la quinta stagione dello
show.
Gli autori hanno dichiarato di aver voluto prendere le distanze da Psycho e che pertanto il progetto non
deve essere considerato come un omaggio al film di Hitchcock, perché i personaggi originali sono solo
d'ispirazione. Se tale affermazione può essere supportata dall’ambientazione contemporanea degli
avvenimenti (le amiche di Norman organizzano feste in discoteca e si fanno selfie con gli smartphone), e
da diverse incongruenze con i fatti narrati nel romanzo e nel libro, è anche vero che l’universo di
riferimento non può che essere considerato il film del 1960, del quale diverse situazioni vengono
riprese. Le differenze sono comunque tali per cui nel caso di Bates motel non si possa parlare di prequel
ma, come detto, di reboot.

3.5. Gus Van Sant

Finora, nel caso de Le due sorelle e di Vestito per uccidere è stata usata in modo quasi provocatorio
l’espressione remake per la costanza di temi, rimandi, situazioni, costruzione personaggi, movimenti di
macchina, che in riferimento a Psycho hanno dato vita e sostanza ai film in questione, che tuttavia
mantengono una loro vita autonoma e si impregnano fortemente dell’autorialità di Brian De Palma.
L’unico progetto a oggi etichettabile effettivamente come remake del capolavoro di Hitchcock è un
lavoro altrettanto emblematico del maestro del cinema indipendente Gus Van Sant, Psycho (Id., 1998).
Nel 1998, l’anno di distribuzione del film, Van Sant era una regista che poteva vantare diverse pellicole
interessanti all’attivo, fra cui Drugstore cowboy (Id., 1989), Belli e dannati (My own private Idaho, 1991), Da
Morire (To die for, 1995) e Will Hunting – Genio ribelle (Good Will Hunting, 1997). Dopo gli esordi nel
panorama indipendente della seconda metà degli anni Ottanta, si trasferisce a Hollywood nel 1995 e

29
due anni dopo, grazie al successo di Will Hunting, ottiene la consacrazione a livello internazionale che gli
apre le porte per produzioni più ad alto costo.
Psycho rappresenta il turning point della carriera di Gus Van Sant: una sfida dall’interno al cinema
mainstream condotta utilizzando gli strumenti della sperimentazione. L’insuccesso al botteghino va di
pari passo con quello di critica: l’idea del remake shot-for-shot di un’icona del cinema come Psycho di Alfred
Hitchcock fece storcere il naso a buona parte dei critici e va detto che l’approccio a un lavoro di questo
tipo difficilmente poteva non generare pregiudizi ancor prima della visione. Eppure molti dovettero
ricredersi. Psycho è un eccellente esempio di cinema postmoderno: nasce come operazione meramente
commerciale per poi mutare in manifesto d’avanguardia in anticipo sui tempi (da qui l’incapacità da
parte di una buona fetta di critica e pubblico di apprezzare la scelta dell’operazione).
L’idea anticonvenzionale di Van Sant segnerà il suo ritorno all’indie e aprirà le porte alle sperimentazioni
del nuovo millennio, fra cui Gerry (Id., 2002), Elephant (Id., 2003) e Last days (Id., 2005).
Come scrivono Giovanni Guagnelini e Valentina Re in un saggio sul rapporto tra intertestualità e
cinema, il remake va letto come un’operazione di ricontestualizzazione, un atto di rienunciazione le cui
potenzialità più interessanti emergono nel momento in cui ipotizziamo che il testo-matrice non subisca
variazioni.26 Sempre i due studiosi, prendendo in ipotesi questo caso, non possono fare a meno di citare
l’operazione compiuta da Van Sant:

Ricollocare uno stesso testo in un diverso contesto fa sì che quel testo non sia più lo stesso. A tal
proposito, il caso di Psycho di Van Sant risulta essere ancora una volta emblematico: sebbene una
serie di variazioni lavorino in funzione dell’attualizzazione del testo originale […], il film tende
infatti, perlomeno idealmente, sul piano del linguaggio e dell’intreccio, ad un massimo di
equivalenza con il testo hitchcockiano. Se le variazioni attualizzanti tendono a colmare lo iato
storico-culturale che separa i due contesti di ricezione al fine di produrre lo stesso effetto a cui
mirava l’originale, gli elementi che nel testo vengono riproposti invariati tendono invece, in virtù del
mutato contesto di ricezione, a produrre effetti diversi da quelli del testo originale. È dunque il
mutato contesto di ricezione che induce a leggere come diverso ciò che è rimasto identico, perché
sono mutate le coordinate interpretative e gli orizzonti di attesa; ed è per questa ragione che è
possibile sostenere che, alla stregua della citazione, il remake agisce sotto il segno dell’anacronismo,
opera una forzatura dell’ordine cronologico che si realizza attraverso un atto di rienunciazione
(enunciazione ripetente) che ripropone un testo identico in un contesto che si è trasformato.27

Interessante è anche il concetto espresso dal critico cinematografico Guido Fink riguardo al remake
come seconda chance offerta all’originale28: esso rilancia la presenza del testo di partenza, cercando di
renderlo accessibile in un diverso contesto storico-culturale, o al contrario di proporlo identico sapendo
che identico non potrà essere, in quanto oggetto di letture diverse. La definizione di Fink fa emergere
una relazione tra remake e testo-matrice che è sempre bidirezionale, in cui anche la retroazione del
remake sull’originale è fondamentale, come dimostra il caso emblematico di Psycho.

26 G. Guagnelini, V. Re, Visioni di altre visioni. Intertestualità e cinema, Archetipolibri, Bologna 2007, p. 25.

27 Ivi, pp. 25,26.

28 G. Fink, “Elogio della seconda chance”, Cinema & Cinema, n. 39, 1984.

30
Il saggio citato più volte di Stephen Rebello si apre con un’intervista introduttiva del giornalista
all’autore del remake Gus Van Sant. L’intervista in questione è fondamentale per comprendere la natura
dell’operazione, prima di addentrarci nell’analisi del film.
Alla domanda di Rebello, che cerca una definizione alternativa a remake per il film di Van Sant, egli
risponde:

È una riproduzione. È questa la differenza. È questa la novità. Abbiamo praticamente riprodotto


ogni ripresa del film di Hitchcock e utilizzato la sceneggiatura originale di Joseph Stefano, con
pochi cambiamenti. Il nostro concetto originale è stato «Non dobbiamo cambiare nulla. Tutto
dev’essere uguale». Non era mai stato fatto prima.29

Nel proseguo dell’intervista, Van Sant spiega come l’idea di una “riproduzione” di questo tipo sia una
reazione alla tendenza delle major a puntare sul remake come operazione commerciale che attenua i
rischi, anziché investire su progetti nuovi.
Un'altra considerazione interessante dello stesso regista sullo statuto di Psycho di Hitchcock, ci fornisce
un’ulteriore spunto per comprendere la scelta di “riprodurlo” anziché “rifarlo”:

È un’opera a sé. È quasi come un lavoro teatrale. Certi film sono grandi per il modo in cui sono
raccontati. Psycho è come Aspettando Godot. Puoi mettere chiunque al posto dei personaggi, situarlo in
un interno, in un esterno, funzionerà comunque. È un po’ come un’opera, qualcosa da rimettere in
scena e celebrare. Perché non rifare a colori un film intelligente e di successo che nessuno va più a
vedere perché è in bianco e nero?30

Psycho è riproducibile perché lo permettono la sua struttura narrativa e il suo impianto scenico, e perché
è scolpito nell’immaginario come un testo teatrale famoso, riconoscibile e in grado di farsi amare quali
che siano gli interpreti o le scenografie.
Per il regista di Louisville, partire da un film perfetto e modificarlo nello svolgimento stravolgendone lo
stile, è inevitabilmente un’operazione di impoverimento. Partire dallo script e dagli storyboard originali, al
contrario, conferisce a Van Sant la possibilità di introdurre “migliorie” che, a causa dei mezzi dell’epoca
e dei bassi costi di produzione Hitchcock non ha potuto inserire (per esempio il long take aereo iniziale),
o altri dettagli che non solo avrebbero cozzato contro la censura interna dettata dal codice Hays, ma
anche contro il pudore del pubblico (per esempio la verticale sul corpo nudo di Marion, una volta
caduta a terra nella doccia, che abbiamo visto in chiave parodistica nei Simpson).
Van Sant aggiorna il testo di partenza utilizzando il formato panoramico e il colore, e rimanendo fedele
alla scelta di Hitchcock di ambientare la storia nella contemporaneità, ambienta il film nel presente, il
1998. Ne conseguono una serie di modifiche inerenti il linguaggio, gli atteggiamenti, la gestualità degli
attori, e altri dettagli che a breve esamineremo.
Psycho è un’icona pop così come il volto di Marylin Monroe o il marchio della Coca-Cola, e il
riferimento all’opera di Andy Warhol non è casuale. Sempre Van Sant, sulla sua formazione e sul
significato dell’operazione:

29 G. Van Sant in S. Rebello, Op. cit., p. 8.


30 Ibidem.

31
La mia formazione artistica risale agli anni Settanta, l’era delle appropriazioni, dell’arte
preconfezionata, di Marcel Duchamp, di Andy Warhol. L’idea è che l’opera nuova è diversa, ma
resta allo stesso tempo quella originale.31

Fare cinema con il cinema, rielaborando materiali preesistenti. Questa è l’essenza dell’estetica
postmoderna nella settima arte.
La nuova versione di Psycho è una “riproduzione” che non mette in discussione lo statuto di capolavoro
del film precedente, anzi, vuole essere un omaggio a un testo di partenza già vicino alla perfezione, ma
con una serie di variazioni sul tema interessanti e personali che fanno del remake di Van Sant un’opera
personale e sperimentale. Come scrive Leonardo Quaresima nel suo intervento contenuto nel volume
di Guagnelini e Re citato poc’anzi: «la riproposta (intesa come atto creativo e non come copiatura,
ristampa) muta l’opera anche se questa rimane identica a se stessa».32
Come accennato, il film fu un flop di critica e pubblico come spesso accade ai manifesti d’avanguardia
che giocano d’anticipo rispetto ai tempi. La stessa critica che agli albori degli anni Sessanta aveva
bocciato Hitchcock per i temi trattati, la scabrosità e il cattivo gusto, ora difende a spada tratta
l’originale come un’opera d’arte sacra che non può essere modificata né rivisitata. Ma il ready-made di
Duchamp e la serialità delle immagini di Warhol hanno già dimostrato che i miti di massa e le icone pop
possono essere soggetti ad appropriazioni. Per comprendere pienamente il film di Gus Van Sant e
apprezzarne le sottili variazioni occorre conoscere il film di Hitchcock, ma anche inscrivere
l’operazione del regista in un contesto che va al di là del concetto tradizionale di film comunemente
inteso, destinato alle sale cinematografiche. Va considerata come una performance proiettabile a una
mostra d’arte avanguardistica.
Non serve specificare che il film non è un adattamento del romanzo di Bloch. Il testo di partenza non è
più il romanzo originale che ha dato vita al testo plurale di Psycho, ma bensì il film che ha elevato i
personaggi di Bloch a icone pop. Alfred Hitchcock è il solo e unico modello di riferimento, il
compositore dello spartito che viene reinterpretato dal direttore d’orchestra Gus Van Sant.
Le variazioni di Van Sant vanno a modificare per lo più la sfera dell’immagine, con una serie di ritocchi
significativi.
A cominciare dalla prima sequenza in cui Van Sant, partendo dalla panoramica su Phoenix uguale
all’originale, ci proietta attraverso un lungo e continuato movimento di macchina aereo “a volo di
mosca” all’interno della camera d’albergo, in cui troviamo Marion (Anne Heche) e Sam (Viggo
Mortensen) ancora a letto. Il piano sequenza realizzato dall’elicottero è lo stesso che avevano sognato di
realizzare Hitchcock e lo sceneggiatore Stefano trentotto anni prima ma che le tecnologie e il budget
ridotto di produzione dell’originale non hanno permesso. La variazione in questo caso è da considerarsi
“migliorativa”, interviene su ciò che l’opera originaria non presenta ma che i suoi autori avevano
intenzione di realizzare. Non appena lo spettatore voyeur faceva il suo ingresso con lo sguardo nella
camera d’albergo, aveva l’occasione di cogliere la scelta compositiva di Hitchcock riguardante la
dialettica fra linee verticali e orizzontali. Nel film di Van Sant questa ricorrenza che rimanda al tema
della dissociazione di personalità anticipata dai titoli di testa – in cui si intrecciano, appunto, righe
verticali e orizzontali – viene totalmente a mancare ed è sostituita da una m.d.p molto più insistente sui

31 Ibidem.

32 L. Quaresima, Amare i testi due alla volta. Il remake cinematografico, in G. Guagnelini e V. Re, Op. cit., p. 148.

32
piani ravvicinati dei personaggi, nonché da un utilizzo compositivo delle cromature altrettanto
simbolico. I tempi sono cambiati e per questo Van Sant può permettersi di apportare alcune variazioni
che rendono più credibile il contesto contemporaneo: fra queste, la nudità integrale di Sam, i rumori
provenienti dalla camera limitrofa, la maggior spensieratezza del personaggio della Heche rispetto al
corrispettivo della Leigh, e il linguaggio utilizzato dalla coppia. La scelta del cast, come vedremo, è
azzeccata, pur presentando significative variazioni. Viggo Mortensen presenta diverse similitudini con
John Gavin, a partire dal corpo statuario, passando per il viso pulito e il capello elegantemente curato.
Anne Heche, al contrario, sembra essere una sorta di alter ego di Janet Leigh, tanto da presentare
unicamente il capello biondo platino come marchio di riconoscibilità del personaggio. Cambia il look,
cambiano vistosamente i lineamenti e la corporatura, cambia il vestiario, ma soprattutto l’atteggiamento:
la Marion di Anna Heche, come già accennato, è notevolmente più spensierata, sbarazzina e sorridente
del suo prototipo. Il personaggio della Heche è difficilmente immaginabile in un contesto sociale e
cinematografico come quello a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, e rappresenta quindi un
aggiornamento intelligente da parte del regista.
Un particolare della sequenza sopracitata: quando Sam fa notare a Marion che non ha nemmeno
assaggiato la colazione, la regia mostra il primo piano della colazione abbandonata, come nello Psycho
originale, ma Van Sant inserisce una mosca appoggiata al sandwich: la mosca che si è intrufolata nella
camera e che ritorna più avanti nel film.
Naturalmente, l’inflazione fa sì che per rendere credibile il furto di Marion la cifra da lei rubata venga
smoderatamente aumentata di uno zero, passando a 400.000 dollari. A conferma della scelta di Van
Sant di integrare il film con alcuni particolari originariamente pensati da Hitchcock ma poi scartati per
motivazioni esterne, vi è la reintegrazione di una pepata battuta di Cassidy nell’ufficio i Lowery che il
regista britannico dovette tagliare.
La frivolezza di Marion risalta anche nella scena in cui prepara il bagaglio prima della fuga: allo
spettatore non viene trasmesso nulla del nervosismo e della preoccupazione della Leigh per il furto; il
pensiero che sembra affliggere la nuova Marion sembra essere la scelta degli abiti meglio intonati da
mettere in valigia. A livello compositivo l’appartamento di Marion è una sorta di manifesto pop: le
cromature vanno dal verde della gonna e del reggiseno a quello turchese delle lenzuola, dal rosa dei
cuscini al giallo della busta con i soldi, passando per il rosso del cappello e il lilla delle pareti. Anche
nella sequenza in cui vende la propria auto per acquistarne un'altra e far perdere le proprie tracce,
Marion sembra quasi voler attirare l’attenzione su di sé con il suo fare provocatorio e il suo completo
cromaticamente d’impatto: non ha nulla della tensione registrata dalla Leigh, il cui personaggio si
presenta nettamente agli antipodi rispetto a quello ideato da Van Sant. La preoccupazione che denota
l’espressione di Marion alla guida prima dell’arrivo al Bates Motel non sembra sfociare nel senso di
colpa come la sua controparte originale.
Al suo arrivo, le insegne luminose e i riflessi del neon, cromaticamente tendenti a varie tonalità di rosso
e di lilla, sono lontane dal conferire l’aria tetra che connotava il motel nel film originale. Una variante
significativa riguarda la trasformazione di una delle icone pop per eccellenza di Psycho: la casa gotica
della famiglia Bates assume una diversa morfologia presentandosi come una casa coloniale all’inglese di
mattoni. La facciata della nuova casa viene realizzata proprio davanti a quella originale.
La dominante cromatica del film, il rosso, assoluto protagonista della scena della doccia che si vedrà fra
qualche minuto, è ripresa dall’ombrello di Norman Bates, qui interpretato da un Vince Vaughn la cui
fisicità e la cui espressività non hanno nulla a che vedere con l’originale di Anthony Perkins. Se
personaggi quali Sam Loomis, Arbogast, Lila Crane e lo sceriffo, ma anche la stessa Marion, sono
33
totalmente sostituibili nelle loro fisionomie che non ne intaccano la credibilità narrativa, risulta
sicuramente più arduo il compito di sostituire Perkins per l’assegnazione del ruolo di Bates, anche alla
luce dei sequel che hanno contribuito a scolpire nell’immaginario una correlazione indissolubile fra actor e
character. Il fisico filiforme, le movenze femminee e la capacità di Perkins di mutare espressioni con un
lieve accento del volto, erano perfette per la resa delle nevrosi e dello sdoppiamento di personalità del
protagonista indiscusso del film. Vince Vaughn ha caratteristiche totalmente differenti. È ancor più alto
di Perkins e presenta un fisico agli antipodi: massiccio e robusto, più sciolto e spavaldo nelle movenze
rispetto all’ingessato personaggio originale, deve sottolineare la propria fragilità psichica attraverso
caratteristiche differenti, quali la risata insistita e perennemente fuori luogo. Van Sant adotta la strategia
del contrasto per rimarcare il ruolo di vittima di Bates. La sua pesante fisicità denota per contrasto
un’impotenza e una repressione sessuale ancor più turbante di quanto non comunichi la struttura
femminea di Perkins. Il tema della repressione del desiderio viene accentuato rispetto al film originale
mediante alcune soluzioni narrative, fra cui l’introduzione della masturbazione del personaggio di
Norman nel momento in cui spia Marion mentre si spoglia dal foro nel muro. La scena in cui Marion e
Norman “cenano” in salotto, si carica di nuovi significanti. La corporatura massiccia di Vaughn, che
contrasta di per sé con il suo carattere remissivo, viene contrastata dalla corporatura più minuta di
Marion, la quale, al contrario, è un tipo più estroverso: tale gioco di contrasti è uno dei punti di forza
della sequenza.
Dopo l’aggiornamento spettacolare dell’autoerotismo di Norman (pur lontano dalle soluzioni frontali
ed eccessive di De Palma) che esplicita ciò che Hitchcock non poteva mostrare, si passa alla sequenza
della doccia, un esercizio di stile perfetto da parte di Gus Van Sant. La sua regia mantiene pressoché
intatta la struttura della shower scene riprendendola fotogramma per fotogramma, introducendo una serie
di variazioni personali. Prima di tutto l’utilizzo del colore. Il bianco accecante delle piastrelle del bagno,
quasi richiamato dal biondo platino della Heche, contrasta con la rosea pelle della protagonista, con lo
smalto rosso sulle unghie e col verde dell’accappatoio. La tenda della doccia ha subito una variazione:
siamo di fronte ad un prezioso oggetto di design che pare un vetro smerigliato, analogamente al soffione
della doccia che presenta una forma hi tech. Van Sant inserisce nel suo montaggio inquadrature inedite al
fine di ritardare l’ingresso nel bagno di “mamma” Bates, probabilmente per dare la possibilità allo
spettatore che già conosce la storia di pregustare quel momento tanto atteso dilatando la suspense per
qualche secondo. L’accoltellamento è più violento nel film di Van Sant (che comunque conserva la
struttura hitchcockiana e non cade nello splatter puro), e l’uso del colore saturo e dei contrasti cromatici
che abbiamo visto essere cifra stilistica della pellicola, si manifestano anche nella scena della doccia, in
cui la maggior quantità di sangue che vediamo contrasta con il bianco della doccia e crea un armonioso
rimando con il rosso dello smalto di Marion. Nonostante l’efferata violenza e i litri di sangue,
quest’ultimo presenta una tonalità volutamente troppo accesa tanto da cadere nell’artificioso. Van Sant
inserisce nella sequenza alcuni frame subliminali di una tempesta, il cui rumore sovrasta le urla di
Marion, e dopo l’aggressione un ultimo frame del dettaglio della pupilla della ragazza che si dilata e
guarda in soggettiva il carnefice uscire dal bagno. Come la Leigh, anche la Heche si appoggia alle
piastrelle del muro e protende il palmo della mano verso la tenda mentre si accascia nella vasca, ma alle
sue spalle il muro viene macchiato col sangue a differenza dell’originale. Questo frame è visivamente
potentissimo: l’incarnato rosa pallido dell’attrice, il taglio sbarazzino biondo platino, il bianco delle
piastrelle, l’azzurro penetrante dei suoi occhi, il rosso del sangue sul muro e il getto trasparente
dell’acqua che seguita a scorrerle davanti al volto, creano una deliziosa composizione per lo spettatore.

34
Vengono eliminati i frame degli anelli della tenda che si rompono, ma Van Sant sceglie di reintegrare il
tutto con una verticale che Joseph Stefano aveva inserito nello script originale e che Hitchcock aveva
dovuto togliere dal montaggio definitivo: il corpo senza vita di Marion si accascia a cavallo della vasca
da bagno, il tutto ripreso dall’alto, quindi la vediamo di schiena con la schiena squarciata dai tagli. Tale
soluzione visiva, come abbiamo visto, è stata utilizzata nella parodia di Psycho dei Simpson, otto anni
prima del remake di Van Sant.
Durante la sequenza in cui Norman si sbarazza del cadavere di Marion e lo carica nel portabagagli, Van
Sant inserisce nuovamente la mosca su cui aveva focalizzato l’attenzione con un dettaglio nella scena
d’apertura e che probabilmente si rifà a quella che lo stesso Hitchcock avrebbe voluto inserire pochi
minuti dopo nella scena della palude e che tolse nel montaggio definitivo. La stessa mosca che
voyeuristicamente si fa spettatrice dall’inizio alla fine e che può considerarsi l’unico personaggio
onnisciente del film: la sola che riesca a insinuarsi nella camera d’hotel di Sam e Marion ergendosi a
testimone della “sporcizia morale” dei due amanti, e che nel finale si fa spettatrice, ancora una volta,
della “sporcizia psicosessuale” di Norman posandosi sulla sua mano. L’unica testimone dell’omicidio e
conoscitrice in tempo reale della realtà dei fatti.
Fra i non protagonisti di rilievo, subiscono variazioni drastiche e interessanti i personaggi di Lila Crane
(Julianne Moore) e del detective Milton Arbogast (William. H. Macy). La Moore, così come la Heche
sta alla Leigh, è una sorta di antitesi di Vera Miles. Come la sorella, per un scelta di aggiornamento sui
tempi, Lila è qui giovane, sbarazzina e provocante, veste con un look casual anni Novanta lontanissimo
dall’austero stile del personaggio originale. Macy è più chiaro di carnagione rispetto a Martin Balsam ed
è molto meno corpulento. Quella di Arbogast è la seconda e ultima morte del film e anche in questo
caso Van Sant inserisce inediti inserti subliminali durante l’aggressione. In questo caso vediamo, dopo la
prima coltellata che sfregia il volto di Arbogast, una ragazza quasi totalmente nuda con una mascherina
nera sul volto che si gira verso la m.d.p. a guardare lo spettatore, quindi “mamma” Bates infligge la
seconda coltellata che va a disegnare un’inedita x sull’occhio sinistro dell’investigatore privato, e di
seguito un ulteriore inserto di un bovino in mezzo a una strada di campagna coperta dalla pioggia
battente, visto da un parabrezza. Per il resto il regista utilizza le medesime soluzioni visive
hitchcockiane: la panoramica dall’alto sul pianerottolo durante la salita delle scale di Arbogast, e
l’“effetto trasparente” durante la sua caduta prima dell’aggressione fatale.
Dopo aver inserito un bacio sulla guancia di Sam a Lila che non vediamo nell’originale, ma che sembra
più coerente con il romanzo di Bloch ed eventualmente con il prologo del sequel del 1983, Van Sant
sceglie di eliminare la scena davanti alla chiesa in cui Sam e Lila chiedono aiuto allo sceriffo Chambers.
Lo stesso Hitchcock aveva giudicato le scene con lo sceriffo le più deboli del film, e questo può
avvalorare la politica integrativa e “migliorativa” di Gus Van Sant che abbiamo sostenuto sinora. Anche
il prefinale si connota per alcune variazioni principali: la cantina di casa Bates è molto più grande
rispetto a quella del primo Psycho e sembra essere, più che una vecchia cantina, un vero e proprio
laboratorio di tassidermia illuminato al neon e pieno di uccelli, sia vivi e svolazzanti, sia impagliati.
L’urlo di Julianne Moore è più realistico e non è accompagnato dalla gestualità innaturale che
caratterizzava l’interpretazione di Vera Miles. Norman arriva alle sue spalle camminando con andatura
lenta e una parrucca biondo platino più vistosa dell’originale. Anche la colluttazione tra Sam e Norman
viene aggiornata e resa più realistica da Van Sant, anche in conseguenza della corporatura più massiccia
di Vaughn. Il regista, nel finale, rende anche più visibile la sovrimpressione del teschio sul volto di
Norman rispetto alla scena di riferimento.

35
3.6. Dalla citazione al plagio, passando per la parodia: le influenze di Psycho sul cinema successivo

La fama acquisita dal film lo consacra nell’olimpo del cinema e poco dopo la sua uscita Psycho diviene
già uno dei film più saccheggiati dalla cultura di massa.
Partendo da un caso esemplificativo italiano, Psycosissimo di Steno (1961), con Tognazzi e Vianello nel
ruolo di protagonisti, vediamo come il nome di Psycho compaia nel titolo così da essere sfruttato
commercialmente, anche quando la storia non ha nulla in comune col film di Hitchcock. Si segnalano
altri titoli, fra cui Psychomania, The Psycho Lover, The Psychopath. A partire già dai primi anni Sessanta il
nome Psycho diventa un marchio ben riconoscibile dalla massa, e alcuni elementi iconografici e stilistici
escono dai confini della pellicola per essere ripresi a posteriori da tanti altri registi.
Se la scena della doccia è divenuta, e fra poco spiegherò dove e quando, la più parodiata e citata della
storia del cinema, non meno influenze esercita la casa gotica della famiglia Bates, che diviene il
prototipo per una serie di film ambientati nella cosiddetta haunted house.
Alla ferocia degli omicidi perpetrati da Norman con la sua lama affilata si fa risalire la nascita del genere
slasher, sottogenere del new horror di cui ho accennato in precedenza nella sezione dell’elaborato dedicata
ai sequel. Il coltello da cucina ritorna nell’opera di registi le cui influenze del cinema hitchcockiano sono
evidenti, in primis il regista nostrano di genere horror più famoso, Dario Argento (L’uccello dalle piume di
cristallo, 1970; Profondo rosso, 1975; per citarne alcuni), ma non va dimenticato – rimanendo nel panorama
italiano – il maestro del “gotico padano”, il bolognese Pupi Avati, che in un film in particolare, La casa
dalle finestre che ridono (1976) ha risentito enormemente dell’influenza hitchcockiana. Già il titolo rimanda
al tema gotico della “casa degli orrori” che trova in Psycho la sua più compiuta realizzazione al cinema,
ma nel film di Avati all’elemento gotico si aggiunge il grottesco delle finestre dipinte con inquietanti
sorrisi. Il restauratore Stefano (Lino Capolicchio) fa il suo arrivo in un paesino assopito della Bassa
padana e ha il compito di restaurare un affresco raffigurante San Sebastiano, custodito sulle pareti di
una chiesa di campagna e opera di un artista folle e tormentato, tale Buono Legnani, morto suicida
vent’anni prima e definito il “pittore di agonie”. L’affresco sembra nascondere un segreto di cui
nessuno vuole parlare, ed ecco che ricompare il tema degli orrori celati dalla sonnolenza perpetua della
provincia rurale, che abbiamo avuto modo di conoscere già in Psycho. Durante la sua indagine Stefano
trova un registratore sui cui nastri è incisa la voce sussurrante del Legnani mentre strascica frasi
deliranti, e questo elemento sembra anticipare di qualche anno la voce del travestito Bobbi in Vestito per
uccidere, registrata dalla segreteria telefonica. Nel terrificante prefinale, Stefano scopre la verità. Viene
attirato con l’inganno nell’abitazione diroccata dalle finestre che ridono e lì scopre che le sorelle del
Legnani sono ancora vive, hanno conservato i resti del pittore in una soluzione di formalina, gli
“restituiscono la vita” e il dono della parola avvicinando al suo scheletro il registratore da cui esce la sua
voce, e infine gli offrono sacrifici umani affinché lui possa continuare a dipingere le torture e le
sofferenze degli esseri umani in punto di morte. La m.d.p. riprende la sequenza facendo coincidere il
nostro sguardo con la soggettiva di Stefano, amplificando l’identificazione e il terrore dello spettatore
che subisce un ulteriore shock quando vede piombare il coltellaccio da cucina verso la cinepresa. Stefano
viene colpito e inizia a grondare sangue, ma riesce a fuggire. La sequenza rivela alcuni dei richiami
fondamentali a Psycho, e fra questi troviamo la conservazione del corpo (Norman ha impagliato la
madre, le sorelle del Legnani hanno conservato i suoi resti nella formalina); il coltello da cucina
insanguinato che colpisce ripetutamente la vittima, infierendo sul suo corpo (e le inquadrature sulla
lama ricordano quelle hitchcockiane); la vecchia pazza che abbiamo creduto paralitica e innocua per
tutta la durata del film, esattamente come quanto abbiamo pensato di Norma Bates prima dell’omicidio
36
di Marion (in questo caso siamo però sorpresi di scoprire le due sorelle ancora in vita, mentre in Psycho
lo shock è dovuto alla rivelazione opposta, ossia scoprire che Norma Bates è morta); infine,
naturalmente, la hounted house, cui è stata conferita una sfumatura più diroccata e rurale, meno gotica, nel
solco dei vecchi casolari abbandonati della Pianura Padana. Inoltre, nel film abbiamo già scoperto di
come il rapporto tra il pittore e le sorelle fosse di una morbosa dipendenza, tale da scaturire spesso
nell’incesto, altro sottotesto fondamentale del film di Hitchcock che viene ripreso da Avati. Il finale a
sorpresa aumenta il novero dei temi in comune con Psycho aggiungendone uno dei fondamentali: il
travestitismo. La fuga di Stefano si protrae per la notte e la mattina seguente lo vediamo chiedere aiuto
inutilmente in paese. L’unico ad aprirgli le porte è don Orsi, il prete della chiesa locale. Egli mostra
indifferenza nei confronti del ferito e poco dopo scopriamo il perché: don Orsi altri non è se non la
sorella del Legnani che in precedenza abbiamo visto di spalle intenta a compiere un sacrificio per il
fratello, e che ora può avventarsi, insieme alla paralitica, sul restauratore per completare l’opera iniziata
la notte precedente. Avati ha sempre dichiarato di aver attinto a leggende tramandate dalla tradizione
popolare per la stesura del soggetto de La casa dalle finestre che ridono, ma il suo è solo uno dei tanti
esempi di cineasti che pur negando un’influenza diretta da un capostipite, la rendono comunque
manifesta.
Un grande cineasta europeo che non ha potuto fare a meno di misurarsi con Psycho le poche volte che si
è cimentato con l’horror e il thriller, è senz’ombra di dubbio il polacco Roman Polański. In particolare,
sono due i film in cui si palesa il collegamento con Psycho: Repulsione (Répulsion, 1965) e L’inquilino del terzo
piano (Le locataire, 1976). Nel primo, la protagonista Carole Ledoux (Catherine Deneuve) è una figura
timida e impacciata che utilizza la violenza sugli uomini come estrema manifestazione di androfobia,
uccidendoli con un coltellaccio da cucina. Il bianco e nero espressionista e il biondo della Deneuve
creano parallelismi anche non ricercati con il film di Hitchcock, ma è indubbio che uno stretto legame
con i temi dello sdoppiamento e della lotta tra Eros e Thanatos, il film li presenti. Anche nel secondo
abbiamo alcune componenti di Psycho che vengono approfondite dal regista, qui nel ruolo anche di
protagonista: l’impiegato Trelkowski è il nuovo inquilino di uno scricchiolante appartamento parigino,
abitato fino a pochi giorni prima da una tale Simon Choule (Isabelle Adjani) che ha tentato il suicidio
gettandosi dalla finestra. Lo sviluppo della narrazione si concentra sullo sdoppiamento di personalità di
Trelkowski e sulla sua perdita di identità: incapace di distinguere tra realtà e psicosi, comincia a vestirsi
come Simon, a comportarsi come lei e ad avere inquietanti e allucinate visioni circa gli altri condomini.
Non possono mancare omaggi anche da parte di quei registi nordamericani contemporanei che sono
considerati l’essenza del postmoderno più puro: Quentin Tarantino e i fratelli Joel e Ethan Coen. In
Pulp Fiction (Id., 1994), il regista di Knoxville strizza l’occhio allo spettatore citando testualmente Psycho e
nella fattispecie l’incrocio di sguardi fra Marion, ferma al semaforo al volante della sua macchina, e il
suo capo Lowery che attraversa le strisce pedonali e si arresta improvvisamente, non potendo credere di
vedere la sua segretaria che dovrebbe essere a casa a curarsi l’emicrania. Nel film di Tarantino vediamo
il pugile Butch Coolidge (Bruce Willis) alla guida, costretto a fare ritorno nella propria abitazione per
recuperare il prezioso orologio del padre che la sua fidanzata ha distrattamente scordato nei preparativi
per la fuga da Los Angeles (un altro MacGuffin, perché l’orologio ha importanza solo per il
personaggio, e la sua unica funzione è quella di far procedere la narrazione). La macchina si ferma a un
semaforo e lo sguardo di Butch incrocia quello di Marsellus Wallace (Ving Rhames), il malavitoso che
gli sta dando la caccia, il quale si arresta e indirizza lo sguardo verso il parabrezza, proprio come
Lowery. I Coen omaggiano il cinema di Hitchcock quasi in ogni film, ma i riferimenti a Psycho sono
evidenti in Fargo (Id., 1996), in cui i due registi rovesciano di senso la novità che Hitchcock aveva
37
introdotto nel 1960, ossia la morte prematura della protagonista, sostituendola con l’entrata in scena del
personaggio principale. La sequenza dell’omicidio Arbogast è richiamata dai Coen in modo intelligente
e più velato di quanto non abbia fatto Tarantino, in Non è un paese per vecchi (No country for old men, 2007),
in cui vediamo il detective Carson (Woody Harrelson) sulle tracce del criminale psicopatico Chigurh
(Javier Bardem), mentre sale la scalinata di un albergo e se lo vede comparire alle spalle. Chigurh lo
invita a proseguire la rampa, e anche per Carson, come per Arbogast, quella scala conduce dritto verso
la morte.
Queste sono solo alcuni degli omaggi che il film di Hitchcock ha ricevuto nel corso della successiva
storia del cinema, e per ragioni di spazio, oltre che di semi-impossibilità a recuperarli tutti, mi soffermo
ora sui più significativi. In ordine cronologico Homicidal (Id., 1961) di William Castle è il primo film che
ripropone i temi di Psycho riutilizzando talvolta alcuni stilemi come un vero e proprio plagio. Castle è un
regista specializzando in b-movies dal taglio grottesco e orrorifico, e questo film rappresenta pienamente
il suo stile eccentrico e certamente non eccelso, risultando un’imitazione di Psycho tendente alla parodia.
Il film è introdotto dallo stesso Castle che in tal caso riutilizza un espediente già utilizzato da Hitchcock
nella serie televisiva Alfred Hitchcock presenta per presentarlo. La protagonista Emily (Jean Arless),
presenta diverse somiglianze fisiche con la Marion Crane hitchcockiana, tanto da poter sembrare una
sua rivisitazione in chiave parodistica. Ha una pettinatura corta biondo platino, un viso non troppo
dissimile e una gran fretta di sposarsi. Si propone a un fattorino, a cui chiede di sposarla dietro
compenso, ma egli risponde: «No. Però non è che ce l’abbia con le donne». Questa risposta sembra una
dichiarazione di intenti: così William Castle vuole prendere le distanze dal prototipo che ha ispirato
Homicidal, ma i rimandi sono troppi per non accumunare i due film. Di fronte al giudice di pace, Emily
lo accoltella con una lama da cucina che non può che rimandarci al film di Hitchcock: le coltellate sono
ripetute e violente, accompagnate dalle grida della moglie del giudice e da una musica concitata
plasmata su quella di Herrmann. Dopo l’efferato omicidio, Emily fugge in macchina e le riprese frontali
sul suo volto che guarda in m.d.p. mentre è alla guida della macchina, vanno effettivamente considerate,
più che in chiave citazionistica, come un plagio del film di Hitchcock.
La replica parodistica di Marion Crane è la vera psicopatica di Homicidal. Warren, il marito, sembrerebbe
il componente sano della coppia. Ma come rivelerà il finale, le due personalità coincidono. Emily non è
che un travestimento di Warren, un suo alter-ego. Castle non nasconde il “doppio” come un anno prima
fece Hitchcock, che cela la madre per tutta la durata del film, ma lo mostra costantemente così da non
permettere al pubblico di metterne in dubbio l’esistenza. Il tocco eccentrico del regista si manifesta
anche nel pre-finale, prima della rivelazione: la narrazione si interrompe per 45 secondi durante i quali
un cronometro scandisce il tempo e la voice over del regista consiglia agli spettatori di lasciare la sala se
eccessivamente spaventati.
Prima di parlare della più famosa parodia di Psycho, occorre definire il suo significato utilizzando la
definizione di Genette, laddove per parodia si intende una trasformazione semantica di tipo ludico, vale
a dire una modificazione che avviene sul piano del contenuto, che altera il soggetto dell’ipotesto senza
modificare lo stile, che risulta così scherzosamente applicato ad un nuovo oggetto che lo sminuisce.
Tuttavia, rileva Genette, nell’immaginario comune il termine ha finito con l’evocare esclusivamente il
pastiche satirico, e col divenire un doppione di caricatura. Come nel caso della citazione-allusione e della
citazione-performance, irriconoscibili senza che il testo di partenza sia parte del background dello
spettatore, è necessario che lo quest’ultimo conosca l’originale per cogliere la chiave parodistica del

38
testo trasformato.33 Nel caso di Psycho, vera e propria parodia è da considerarsi Alta tensione (High anxiety,
1977), film diretto da Mel Brooks che si presenta come un omaggio in chiave comica alla filmografia di
Alfred Hitchcock. Non poteva mancare, in mezzo alla ricca scorribanda di gag, una parodia della scena
della doccia, inserita poco prima della metà del film, proprio come in Psycho. Il professor Thorndyke
(Mel Brooks) chiede insistentemente al fattorino dell’albergo di portargli un giornale in camera. Quindi
si appresta a entrare in doccia e la regia, plasmata su quella di Hitchcock, ci mostra dapprima le gambe
pelose dell’uomo mentre si toglie le ciabatte, quindi il suo primo piano e il busto villoso mentre si
insapona. Alle sue spalle compare l’ombra del fattorino, che scosta la tenda e inizia a sferrare colpi di
giornale inveendo contro la “vittima” Mel Brooks. Thorndyke cade nel vano doccia, tramortito, si
afferra alla tenda e, come da copione, si rompono gli anelli, mentre l’inchiostro nero del giornale
fradicio abbandonato nella doccia sgorga verso il buco dello scarico, sostituendosi al rosso del sangue
presente nell’originale. Senza le ardite sovrimpressioni e le spirali del film di Hitchcock, la regia torna
sull’occhio di Mel Brooks, che commenta: «That kid gets no tip».
Un’altra parodia della shower scene, questa volta in un contesto ibrido, parzialmente animato, la
ritroviamo nel film Looney Tunes: Back in Action (Id., 2003) di Joe Dante, film che combina live action
(ambientazioni reali e attori in carne e ossa) e personaggi animati della Warner Bros (i Looney Tunes,
appunto). I panni di Marion Crane sono rivestiti questa volta dal coniglio animato Bugs Bunny, ma la
scena non è introdotta come sempre accade, nell’originale e nelle parodie, con una focalizzazione sulla
vittima. In questo caso la m.d.p. penetra nel bagno seguendo il personaggio di Kate (Jenna Elfman) che,
avendo perso di vista il coniglio, pensa di cercarlo proprio lì. La cinepresa si ferma sul candore del
tendaggio, e nell’inquadratura successiva ci viene mostrata la tenda stessa, ma dall’interno, e lo capiamo
perché vediamo comparire l’ombra della silhouette di Kate e il getto della doccia. Non appena la tenda
viene scostata, la parodia ha inizio: le cromature di Bugs Bunny e della doccia sono ridotte a un bianco
e nero che omaggia il film di Hitchcock, il coniglio grida come faceva Marion, accentuando
comicamente gli strilli, e la m.d.p. ci mostra un dettaglio della sua bocca spalancata che urla, e tutto
questo senza che vi sia minaccia alcuna da parte della donna, che assiste alla scena con aria di rassegnato
compatimento. Anche in questa versione la “vittima” si aggrappa al tendaggio della doccia, causandone
la rottura degli anelli, ma la caduta rovinosa di Bugs Bunny a cavallo della vasca da bagno con sedere e
schiena all’aria richiama quella di Anne Heche nel film di Gus Van Sant, a testimonianza di come
l’operazione di remake del 1998 abbia influenzato il modo di guardare Psycho e la sua doccia negli anni
successivi. La sequenza prosegue con lo stesso Bugs Bunny che versa di proposito dello sciroppo al
cioccolato Hershey’s nella vasca: il bianco e nero fa sì che sembri lo stesso flusso di sangue che sgorga
verso la bocca dello scarico nella pellicola di Hitchcock, ironizzando sulla scelta del regista di utilizzare
proprio del cioccolato fuso per creare l’effetto del sangue nel 1960. In conclusione, abbiamo questa
volta la sovrapposizione in dissolvenza tra lo scarico e l’occhio di Bugs Bunny che, con la faccia
appoggiata alle piastrelle del pavimento, pronuncia la battuta: «Doesn’t anyone knock anymore!»
Per concludere il novero delle parodie, è d’obbligo citare la scena della doccia rivisitata nella serie TV
Scream Queens (2015- ), uno show trasmesso dal network Fox che si propone come parodia del cinema
horror e di tutti i suoi cliché. Nell’ottavo episodio della prima stagione, L’anello debole (Mommie Dearest,
2015), vediamo la figlia di Janet Leigh, l’attrice Jamie Lee Curtis, vestire i panni della madre. La
sequenza è una replica abbastanza fedele dell’originale, sino all’arrivo di un diavolo rosso che brandisce

33 V. Guagnelini, V. Re, Op. cit., p. 32.

39
un coltello sostituendosi a Norma Bates. Ma il malvagio di turno, una volta scostata la tenda, non trova
la sua Marion Crane, ed è così che Jamie Lee Curtis compare alle spalle del suo attentatore mettendolo
fuori combattimento, e pronunciando la divertente battuta: «I saw that movies fifty times!».

3.7. Psycho negli spot pubblicitari

Il testo plurale di Psycho trova diffusione in ogni ambito della cultura occidentale, che di esso prende
come riferimento il film di Hitchcock più che il romanzo di Bloch o il remake vansantiano. Il mondo
della pubblicità non è esente da questo meccanismo citazionistico, e in particolare sono tre i casi
interessanti che qui riportiamo.
Quantomeno curiosa è la scelta della Nike di utilizzare il monologo finale di Norma Bates per
sponsorizzare il ritorno sui campi da gioco del golfista statunitense Tiger Woods nel 2010. In un breve
spot di quaranta secondi girato in bianco e nero per intensificare il richiamo al film del 1960, la m.d.p.
mostra frontalmente il primo piano dell’atleta avvicinandosi sempre più ad esso, mentre la voice over della
madre di Norman recita il celebre testo che si conclude con: « Let them see what kind of a person I am.
I hope they are watching. They'll see. They'll see and they'll know, and they'll say, “Why, she wouldn't
even harm a fly”». Come il monologo di Psycho esplicitava il ritorno definitivo della madre di Norman,
concretizzandosi nel corpo del figlio, l’omaggio della sequenza nello spot della Nike è funzionale a
promuovere il ritorno di un atleta temuto da tutti gli avversari.
Nel 2009 viene promossa una campagna di sensibilizzazione nei confronti delle vittime dell’acqua
sporca e contaminata in paesi in cui mancano condizioni sanitarie e igieniche accettabili. Lo spot è una
rivisitazione della scena della doccia in cui la minaccia che incombe sulla vittima (che grida come Janet
Leigh) è costituita dall’acqua non potabile e piena di fango che fuoriesce dal soffione. Lo spot è in
bianco nero, riutilizza le musiche originali di Herrmann nonché molte riprese della sequenza originale
del film. Nel finale, quando vediamo l’acqua sporca che viene risucchiata dallo scarico, leggiamo in
sovrimpressione la scritta «Water can be a killer», e successivamente le statistiche riguardanti le vittime
delle intossicazioni causate dall’acqua. Per il fine dello spot, che è quello di sensibilizzare, la scelta di
rivisitare la shower scene di Psycho si dimostra poco funzionale perché cade facilmente nel parodistico,
creando un effetto comico che muove la risata, più che la compassione per le vittime.
La stessa celebre scena è riutilizzata da dalla ditta americana Ruud, produttrice di scaldabagni. La
Marion Crane di turno questa volta è vittima dell’acqua fredda, da cui consegue la domanda al
consumatore: «Need a new water heater?».

3.8. Psycho nell’arte d’avanguardia

Secondo Casetti34 il nuovo orizzonte telematico del XXI secolo produce rispetto alla tradizionale
fruizione cinematografica un fenomeno cosiddetto di rilocazione: il cinema non si identifica più con la
sala cinematografica.

34 F. Casetti, L’esperienza filmica e la ri-locazione del cinema, «Fata Morgana», 2008, 4, pp. 23-40.

40
Oggi il cinema non è più pensabile fuori dalle arti. Infatti se fin dalle sue origini il cinema ha sempre
tentato di imitare l’arte (come si è accennato prima nel caso dei dipinti di Hopper), di sottrarle il
primato estetico e culturale e di ricrearne filmicamente le atmosfere e le immagini – insomma di
“rubarle il segreto” del suo lignaggio culturale – oggi accade in qualche modo il contrario: ormai è il
cinema che, raggiunto lo statuto di più grande fenomeno di massa del XX secolo, costituisce oggi il
“repertorio” culturale dell’arte contemporanea, l’archivio segreto, il tesoro di immagini che possono dar
sostanza al suo esangue concettualismo. Questo però non significa che sia possibile una continuità
organica fra i due linguaggi espressivi. Il punto di discontinuità forte esiste e consiste nel cambiamento
di dispositivo che caratterizza le arti visive che impiegano il video, la videoproiezione e la
videoinstallazione rispetto al cinema come tale. Questi concetti sono esplicati e approfonditi in un
saggio sull’argomento dello studioso Marco Senaldi.35
Psycho, da vera e propria icona pop quale è diventato, oggetto di sconfinamento fra i linguaggi espressivi,
dal cinema al fumetto, passando per la pubblicità, non ha potuto fare a meno di diventare prodotto
artistico d’avanguardia. Per la prima volta nel 1993, quando l’artista scozzese Douglas Gordon,
specializzato in videoarte, ne fa un’opera concettuale: 24 hour Psycho, che verrà esposta dapprima a
Glasgow e Berlino nel 1993, quindi a New York nell’estate del 2006. L’opera consiste nella proiezione
del film di Hitchcock la cui durata dei singoli frame si dilata in modo da raggiungere il minutaggio
complessivo di ventiquattro ore. Epurato dei dialoghi e della colonna sonora, l’opera vuole minare
l’inconscio dello spettatore con nuove suggestioni, date da particolari e dettagli che normalmente
sfuggono alla percezione dello sguardo a velocità normale. Elevata è la quantità di particolari che
emergono da questa nuova forma di visione. Inoltre, Gordon riscrive il concetto di spazio-tempo del
prodotto cinematografico: lo spettatore è per qualche minuto riportato nel passato dal ricordo che la
memoria conserva dell’originale, ma allo stesso tempo è proiettato nel futuro dal momento in cui tende
ad anticipare i fatti di una narrazione che già conosce e che nel presente della performance non si sono
ancora verificati. 24 hour Psycho è qualcosa di ben diverso dal film Psycho, è un ricordo di esso e allo
stesso tempo una nuova esperienza. La memoria si aggancia a qualcosa di già noto e noi con occhi
diversi lo ricreiamo nella nostra mente. Il tempo è complice di un lavoro di estremo realismo (ogni
dettaglio è disponibile all’occhio) e al contempo di stupefacente surrealismo (estraniazione). La struttura
narrativa del capolavoro hitchcockiano ha messo per la prima volta in discussione la famigliarità del
pubblico con il plot. Come Hitchcock sapeva bene, il pubblico tenta sempre di anticipare la narrazione,
soprattutto nei thriller, e Psycho mette davvero a dura prova la prevedibilità dell’intreccio con una serie
di false piste molto efficaci. L’installazione di Douglas Gordon risarcisce il pubblico in questo senso,
ridandogli la possibilità di anticiparne lo svolgimento in maniera corretta. L’installazione assume un
ruolo centrale nel romanzo Punto omega di Don De Lillo36, il cui sviluppo è inserito fra due capitoli, uno
in apertura e uno in chiusura, dal titolo Anonimato e Anonimato 2, datati il 3 e 4 settembre 2006 e
ambientati in una sala del MoMa di New York in cui è esposta l’installazione 24 hour Psycho. In questi
due capitoli, il punto di vista è quello di un visitatore che osserva ripetutamente l’opera , immergendosi
nella dimensione temporale allo stato puro. Durante le sue visite, inoltre, osserva con attenzione gli
altri spettatori, fra cui coloro che diverranno i protagonisti della vicenda. La presenza dell’opera di
Gordon si inserisce perfettamente nel contesto di un romanzo che si interroga sulla dimensione

35 M. Senaldi, Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea, Bompiani, Milano 2008.

36 D. De Lillo, Punto omega, Einaudi, Torino 2010.

41
temporale, sul rapporto tra tempo della storia e tempo del racconto, sulla confusione tra spazio della
realtà e spazio della finzione. Il visitatore, protagonista della vicenda: «Ogni volta che un attore
muoveva un muscolo, ogni battito di ciglia, era una rivelazione. Ciascuna azione veniva scomposta in
parti così distinte dall’entità originaria che l’osservatore si ritrovava scollegato da qualunque aspettativa».
Nel 2001 invece tocca all’artista hawaiano Paul Pfeiffer, che realizza l’installazione Self portrait as a
Fountain: si tratta di una scultura tridimensione che ricostruisce in scala 1:1 la doccia della famosa scena
di Psycho. Lo spettatore può così prendere virtualmente il posto di Marion Crane, entrando fisicamente
nella doccia mentre nove telecamere filmano la scena e trasmettono le immagini su uno schermo
montato in una stanza attigua, in una sorta di remake instantaneo. Quest’opera d’avanguardia riflette sui
concetti di spazio e di tempo così come quella di Gordon, ma diversamente dall’antecedente si
concentra sull’esplosione della dimensione spaziale e non sulla dilatazione temporale. Il titolo allude
velatamente al primo e più celebre ready-made di Duchamp, Fountain, la celebre latrina
decontestualizzata. La doccia del film, come ben sappiamo, era la rappresentazione di una doccia che in
realtà non è mai esistita. Andare a riproporla come “oggetto reale” significa mostrare che anche questa
finzione ha però una sua concretezza; questo è un attrezzo di scena che può servire a (ri)costruire un
passaggio cinematografico. Lo spettatore può fare il suo ingresso in quello che è allo stesso tempo uno
spazio reale e finzionale, come se stesse in un certo senso oltrepassando lo schermo cinematografico e
facendo il proprio ingresso nel film di Hitchcock.
L’artista e fotografo tedesco Andreas Schmidt, invece, ha operato uno sconfinamento della fotografia
nell’arte d’avanguardia passando per l’immagine cinematografica, e nella fattispecie per Psycho,
ovviamente. 153 page Psycho è il risultato di una performance che punta a sfidare i limiti della macchina e
dello sguardo voyeuristico dell’essere umano. Schmidt punta la sua Canon G10 davanti a uno schermo
ove è in riproduzione il film di Hitchcock, scattando una o due fotografie al secondo. Il risultato
sembra essere una sorta di novellizzazione, altrettanto muta e su carta fotografica, dell’installazione di
Gordon (anche in 24 hour Psycho il film è rallentato a circa due frame al secondo).

3.9. Psycho nei fumetti

Abbiamo visto come l’universo testuale Psycho abbia fatto irruzione in ogni ambito della produzione
culturale occidentale e non solo, attraverso la riproposizione di situazioni, linee narrative, personaggi,
temi e ricorrenze stilistiche. Come abbiamo visto parlando del campo cinematografico, la produzione
horror italiana non ha potuto fare a meno di misurarsi con questo fenomeno di massa. Oltre al cinema,
di cui si sono fatti portatori registi come Avati, Bava, Argento, Deodato e Fulci, è diventato il fumetto
(dagli anni Settanta in poi) lo strumento più fertile per sviscerare i nuovi generi narrativi contemporanei
e proporre intere saghe di genere, spesso influenzate dalla televisione e dalla settima arte. Ne sono un
esempio i fumetti di Milo Manara, i personaggi di Martin Mystère e Nathan Never, e naturalmente il
fenomeno cult Dylan Dog, ideato nel 1986 da Tiziano Sclavi e disegnato da Claudio Villa.
L’indagatore dell’incubo, la cui fisionomia è ricalcata su quella dell’attore britannico Rupert Everett, è
un ex poliziotto che indaga privatamente su fenomeni paranormali nella Londra contemporanea (degli
anni Ottanta e Novanta), facendo leva unicamente sul suo “quinto senso e mezzo”, grandi doti
investigative e conoscenza dell’occulto. Nonostante Dylan, da buon conoscitore del paranormale, sia un
cultore del cinema horror, e idem i suoi ideatori, che disseminano citazioni cinematografiche ovunque,

42
è in particolare un episodio della saga edita da Bonelli, La sfida,37 a essere interessante per il nostro
discorso. In questo episodio viene a bussare alla porta di Dylan un tale Brett Pierce, uomo
apparentemente distinto e insospettabile, il quale rivela a Dylan di essere un assassino seriale e lo sfida a
coglierlo sul fatto durante la lunga serie di omicidi che ha intenzione di commettere. Se nel contenuto
della narrazione non troviamo collegamenti con la storia di Psycho, fatta eccezione per ricorrenze quali la
compostezza del killer, la serialità delle morti e l’uso ricorrente di armi da taglio che, a quest’altezza
cronologica, sono ormai topoi narrativi sdoganati, è il disegno a offrirci uno spunto di riflessione
interessante. Le fattezze di Brett Pierce sono modellate su un modello iconografico ben preciso: il
Norman Bates interpretato da Anthony Perkins. Brett è giovane, alto, magro, impostato ed elegante,
moro e ben pettinato. Ma se ciò non è sufficiente a creare il riferimento diretto, alcune vignette citano
testualmente il film di Hitchcock e nella fattispecie l’ultima inquadratura su Perkins, quando la sua
espressione spaventata e incerta muta in un celebre ghigno. Se alcune icone di Psycho erano già state
riutilizzate nella pluralità di derivazioni successive, soprattutto filmiche, per esempio la haunted house
ricorrente nella produzione horror e thriller, l’utilizzo del volto di un personaggio e dell’attore che lo
identifica rimane una prerogativa del fumetto e un caso di derivazione testuale interessante e non
scontato. A conferma di questa tendenza del fumetto, si può citare l’ispirazione tratta dal personaggio di
Rick Deckard di Blade Runner (Id., Ridley Scott, 1983) per il disegno e l’ideazione del già citato Nathan
Never, sempre edito da Bonelli. Nel nostro caso, Pierce non ha niente della psicologia e della
caratterizzazione di Bates: nessun complesso edipico, né timidezza, né tantomeno un movente; al
contrario, è cosciente e sadico nel pianificare la morte delle sue vittime, e per lui la morte non
rappresenta che un hobby per evadere dalla noia. Ciò che i disegnatori hanno in mente non è tanto
servirsi della narrazione Psycho in quanto bacino di idee narrative, ma omaggiare uno dei capolavori che
ha rivoluzionato le narrazioni orrorifiche strizzando l’occhio allo spettatore che alla vista della vignetta
non può che cogliere il rimando e convincersi che dietro l’aspetto curato e innocuo di Pierce si
nasconde una mente perversa e violenta. La soluzione di risolvere l’omaggio nelle fattezze di un
personaggio e di esplicitare la citazione in un pugno di vignette che sono la fotocopia di alcuni
fotogrammi hitchcockiani, è utile per sottolineare quanto nella cultura di massa il personaggio
immaginario di Norman Bates sia inscindibile dalla persona fisica di Anthony Perkins che gli da corpo e
voce. La scelta della citazione immediata ben si sposa con la tecnica di rappresentazione, il disegno (in
alcune vignette è più difficile cogliere la somiglianza Pierce/Bates; il disegno, con più facilità del cinema,
permette di intervenire quel che basta, da una vignetta all’altra, sui lineamenti e sull’espressione di un
personaggio in modo determinante), ed è coerente con lo stile della saga Dylan Dog, ripetutamente
disseminata di omaggi, a volte nascosti, altre più palesi, all’universo horror: nell’episodio in questione,
per esempio, Pierce uccide in modo cruento una donna rimasta stranamente sola su una metropolitana
condotta da un morto vivente e destinata verso la bocca di un teschio, riprendendo il racconto Macelleria
mobile di mezzanotte dello scrittore Clive Barker, da cui hanno tratto il film horror Prossima fermata: l’inferno
(The midnight meat train, 2008), e fra i manifesti della metro spicca il Frankenstein di Whale (Id., 1931)
interpretato da Boris Karloff; nello studio di Dylan è appeso un poster del musical horror divenuto cult
The Rocky Horror Picture Show (Id., 1975) e la vicina di casa di Pierce (una morta vivente) si chiama,
guarda caso, signora Romero.

37 Dylan Dog, mensile n. 96, settembre 1994, Sergio Bonelli, Milano.

43
Rimanendo nell’ambito del fumetto, il film di Hitchcock è stato sottoposto nel 1992 a un processo di
novellizzazione, ove per novellizzazione si intende «la trasposizione di film in racconti letterari,
generalmente illustrati da fotografie, o più raramente da disegni». 38 Parlo del film di Hitchcock quale
opera di riferimento perché è esplicito l’intento del disegnatore Felipe Echeverria di servirsi dei volti
degli attori hitchcockiani, da Janet Leigh a John McIntire (l’attore caratterista che nel 1960 interpretò lo
sceriffo Chambers) quali modelli per la costruzione della fisionomia dei suoi personaggi. La vicenda è la
medesima narrata da Hitchcock e ideata da Bloch, dunque si tratta di una novellizzazione a tutti gli
effetti, che prende le mosse da un testo filmico specifico. Prove determinanti sono le indicazioni di
copertina, nella quale leggiamo alcune diciture quali: «Directed by Alfred Hitchcock», «Screenplay by
Joseph Stefano», «From the novel by Robert Bloch», «Adaption & painting by Felipe Echeverria».
Unica variante rispetto al film da cui prende le mosse: l’aspetto di Norman Bates. Il protagonista
assoluto della storia è l’unico a non avere le medesime fattezze fisiche dell’attore che lo ha
originariamente interpretato, ma si presenta al contrario come stempiato, meno giovane, più piazzato.
Anthony Perkins è l’unico attore del cast di Psycho a non aver ceduto i propri diritti d’immagine per il
progetto grafico edito dalla Innovation, a causa dell’invadenza del personaggio con il quale
inevitabilmente il volto dell’attore è stato perennemente accostato e da cui aveva intenzione di prendere
le distanze, prima che l’AIDS lo uccidesse prematuramente nell’anno di uscita del fumetto.

38R. De Berti, Leggere il film, in R. De Berti (a cura di), La novellizzazione in Italia. Cartoline, romanzo, rotocalco, radio, televisione,
«Bianco e Nero», 1 (fascicolo 548), gennaio-aprile, citato in G. Guagnelini e V. Re, Op. cit., p. 54.

44
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

R. Bloch, Psycho, Bompiani, Milano 2015

Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1979

Giovanni Guagnelini e Valentina Re, Visioni di altre visioni. Intertestualità e cinema, Archetipolibri, Bologna
2007

Roberto Nepoti, Brian De Palma, Editrice Il Castoro, Milano 1995

Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho (Con un’intervista a Gus Van Sant), Editrice Il Castoro,
Milano 1999

Marco Senaldi, Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea, Bompiani, Milano 2008

François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore S.p.A., Milano 2009

Massimo Zanichelli, Psyco & Psycho. Genesi, analisi e filiazioni del thriller più famoso della storia del cinema, Le
Mani – Microart’s Edizioni, Recco (Genova), 2010

FILMOGRAFIA PRINCIPALE (Titoli originali)

Bates Motel, regia di Richard Rothstein (1987)

Blow out, regia di Brian De Palma (1981)

Carrie, regia di Brian De Palma (1976)

Casa dalle finestre che ridono, La, regia di Pupi Avati (1976)

Dressed to kill, regia di Brian De Palma (1980)

Fury, regia di Brian De Palma (1978)

High anxiety, regia di Mel Brooks (1977)

Hitchcock, regia di Sacha Gervasi (2012)

Homicidal, regia di William Castle (1961)

Phantom of the paradise, The, regia di Brian De Palma (1974)

45
Psycho, regia di Alfred Hitchcock (1960)

Psycho, regia di Gus Van Sant (1998)

Psycho II, regia di Richard Franklin (1983)

Psycho III, regia di Anthony Perkins (1986)

Psycho IV, regia di Mick Garris (1990)

Sisters , regia di Brian De Palma (1973)

46

Potrebbero piacerti anche