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Un piccolo pesce

Non mi piace il torbido, mi fa paura il torbido.


Mi scatena l’ansia, l’angoscia, la paura del buio, del soffocamento, del mostro nell’armadio. Lo evito, lo
scanso, lo aggiro come un nemico.
Da bambino ho rischiato di annegare, e non riesco a cancellare il ricordo di quella caligine sabbiosa che mi
circondava mentre annaspavo come un cane cercando inutilmente di tenere la testa fuori dall’acqua.
Colpa mia. Non sapevo nuotare, ed invidiavo i merluzzetti miei coetanei che già guizzavano tra le (si fa per
dire) onde del piccolo stabilimento dove affittavamo in estate una cabina. Mio padre ci lasciava lì di buon
mattino e andava al lavoro, così per me “mare” era solo un concetto astratto ricostruito da mia madre: era la
sabbia, la sdraio, il sole, l’olio solare, l’ombrellone, le formine a guisa di lucertola e quelle montagnole informi
che chiamavamo con impropria metafora letteraria “castelli di sabbia”.
Il mare vero era estraneo, pericoloso, era “non ti allontanare” , era una vasca dove bagnarsi sino alla vita
solo quando il caldo agostano diventava insopportabile, e poi via, subito a riva per far asciugare
l’abominevole costumino fiorato.
Ma io, per sfida o per amore, volevo nuotare. E un giorno mi avventurai “al largo”, passetto dopo passetto,
affascinato da un abbraccio inaspettato e carezzevole sulla pancia, sulle spalle, sul petto, sulla gola, sul
mento…sul mento….Che bello, vado avanti…..
L’onda lunga mi riempi la bocca di acqua disgustosa e salata, incominciai a tossire, a sputare, mi prese il
panico e mi rovesciai a testa sotto. Immerso nel latte macchiato del lido “Il Trampolino” vedevo solo granellini
velocissimi davanti agli occhi, e per la prima volta provavo la sensazione di non toccare il fondo con i piedi.
“Sto nuotando” pensai in un istante di felicità, e mi sentii un piccolo pesce. Ma non respiravo più.
Mi ritovai a boccheggiare in preda al vomito provocato dall’acqua di mare ingurgitata a torrenti, e ritornai
sotto. Un ragazzo mi vide, si tuffò, mi afferrò con facilità, mi portò a riva, mi riaccompagnò da mia madre più
stordito che piangente. Mi sentivo a metà un eroe (in fondo avevo rischiato di annegare) e a metà un cretino
( mi rendevo perfettamente conto che la mia eroica dipartita avrebbe avuto luogo in poco più di un metro
d’acqua). Ma la cosa che più mi lasciava confuso era il ricordo di quei granellini davanti agli occhi, oltre cui
era il nulla, il vuoto, la morte per asfissia. E cosa c’entravano quei terrorizzanti granellini beige con il mare
limpido di Jacques Costeau, i cui documentari mi tenevano inchiodato la domenica pomeriggio davanti al
piccolo Vega del nonno?.
Un giorno ne parlerò con mio analista, ma intanto non ci posso fare niente, ho paura del torbido e ‘sta paura
me la tengo, punto e basta.
Sta di fatto che l’anno scorso, mentre mi calavo lentamente dalla barca di Alberto, il mio entusiasmo si era
spento di colpo. La maledetta mareggiata che ci aveva frustrato per giorni era scaduta, ma il mare era
torbido, torbido come può esserlo dopo che la mano del dio bambino Jonio ha sollevato il fondo per
costruire chissà dove un altro stramaledetto castello di sabbia.
Già, i lacustri pescano senza nemmeno vedere la punta del fucile…. E che minchia ci vanno a fare in acqua?
La pesca subacquea è anche gioia pura di spiare la natura nel suo stato originale. Se non vedi niente sei
solo uno che sta acquattato nel lurido capanno col fucile spianato, fumando una sigaretta dopo l’altra nella
speranza che passi “ad culum” la beccaccia. “E’ la strategia miserabile del cacciatore che si fa invisibile...”
canta il sapiente Fossati. E il contatto col mondo dov’è? E la senzazione di volare dov’è?
Ma porca di quella porca schifa….
Queste ed altre amene idiozie del genere mi frullavano dietro la maschera, mentre mi tenevo appiccato alla
lunghissima frangiflutti, in cerca di sicurezza. Andare giù? Non ci pensavo nemmeno. Il pensiero di alzare la
testa e non veder la luce mi spaventava. Tentai qualche agguato di superficie…macchè. Non si vedeva nulla
nemmeno a galla. Il cielo coperto radicalizzava la situazione. Diciamocela tutta e senza giri di parole: non si
vedeva un beneamato kazzo!
In lontananza Alberto e Claudia di immergevano con regolarità e senza patemi. Evidentemente a loro il
torbido non dava fastidio. Oppure ero io, quel giorno, ad essermi alzato male.
Più che una pescata fu una bestemmiata. Lo sapete com’è: quando gira male gira male, punto, e dovetti con
rassegnazione centellinare centinaia di metri senza tirare nemmeno un colpo. Arrivai così alla punta della
frangiflutti, dove sapevo essere le tane di alcuni bei saraghi. Ero a cinque metri dallo scapolare della punta
quando accadde l’imprevisto: una nuvola si aprì, ed una raggio di sole si tuffò nell’acqua dritto davanti a me.
La barriera grigio-marrone, divenne giallastra e nebbiosa. Mi fermai. “Non prendo niente qui, oggi è cappotto,
porca pupazza”. Oltretutto ero alla seconda uscita con la nuova balestra 90, che sentivo strana in mano
dopo una vita di pneumatici. E ribestemmiavo. “ Proprio oggi che mi serviva lo pneu corto con la fiocina…” .
Ma intanto i miei occhi si erano già abituati alla nuova nebbia biancastra, e anzi con quella sciabolata di sole
avevano guadagnato un buon metro di visuale. Guardai in basso: entro i due metri ora qualche ombra si
vedeva. “Forse alla girata della barriera, alla girata….”. Mi immersi, e presi a strisciare tra i macigni
incastrati.
Ormai ero controsole e due grossi saraghi mi videro e sgabbiarono ben prima che li mettessi in mira, ma
proseguii: avevo deciso di appostarmi dietro un pietrone proprio alla punta della lunga barriera. Il masso era
connotato sullo spigolo da una singolare scassa cilindrica, che sembrava fatta apposta per appoggiare il
fucile. Appoggiai la pancia sui sassi, afferrai una pietra con una mano, poggiai il fusto dell’arbalete nella
scassa, scrutai tra i granellini….
Sì, c’era un ombra tra i cristalli in sospensione, un ombra che veniva verso di me. Mi congelai. Lo sapevo di
non essere del tutto coperto dalla roccia, e che al minimo movimento avrei visto forse una scodata, e poi più
nulla. Fermo, fermissimo, freddo come la neve….e i polmoni che bruciano d’incanto non li senti più. Magica
adrenalina, che porta tutto al presente, qui, ora, ed anche mentre scrivi eccita innaturalmente i tempi della
narrazione, mandando in malora passati ed imperfetti. Qui, ora, presente.
Il pesce nuota sinuoso, si avvicina lentissimo. Non è grande, ma vale la pena di aspettare. E ‘ slanciato…un
cefalo? No, ora lo vedo, una spigola in cerca di fortuna tra gli scogli….Mi punta, mi vede. Kazzo, ora se ne
va. No. Si ferma. E continua a fissarmi.
Ed io ci provo.
Mi ritiro lentissimo con la testa, senza muovere il fucile. Quella apre gli occhi e leggermente la bocca, gira la
testa di lato, sta per andarsene, poi ci ripensa. Viene dritta da me. Aspetto fino all’ultimo. Ora la vedo bene,
ed anche lei mi vede ma, fregata dal torbido, troppo tardi si accorge dell’asta puntuta. Gira ancora la testa,
la reazione della mano è istintiva, parte il videoclip.

Frame 1. Il dito si contrae con uno spasmo


Frame 2. L’asta è quasi tutta fuori dalla testata
Frame 2. la bestia fa uno scarto a destra…
Frame 3. … si blocca, contrae la schiena, spalanca le fauci e grida “OOOHHHH!!!!”.

Così, immobile, con le branche puntute aperte a fisarmonica, assomiglia ad un grosso soprammobile
d’argento. Mi incanto a guardarla, ma subito quella scatta e sparisce nella nebbia. Mollo tutto, la seguo
imprecando, ma è sul filo e non tardo a trovarla, infiacchita da una lesione alla spina. Guardo su. E’ tutto
giallastro, porco cane, ma intravvedo una increspatura in superficie e poi sono vicinissimo alla barriera. Ed
ho la mia spigola tra le mani a tenaglia. Mia.
Mi accorgo che non ho più paura. Sono su in un secondo, la profondità è minima ma l’apnea, per me
lunghissima, mi lascia senza fiato. Riprendo fiato, poi seguendo la sagola nella nebbia mi avvicino al siluro
bancorosso.
Non è un esemplare grosso, sfiora appena il chilo, ma è santo, arrivato quando mi serviva di più. Il piccolo
pesce che sto attaccando al pallone è servito a dare coraggio al pesciolino di sette anni che non sapeva
nuotare e per questo tanto tempo fa stava annegando in un metro d’acqua.
La fotografo con l’LG, non ho altro a disposizione, ma l’avversario merita l’onore delle armi.
Lode a te, onesta spigola, e grazie. La prossima volta il pesciolino nella nebbia nuoterà meglio.

PierLuigi Morizio
12 giugno 2006

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