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OLTRE L’UOMO O AL SUO SERVIZIO?

DUE PARADIGMI PER PENSARE


L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Andrea Pizzichini *

L’attuale riflessione sulla tecnologia e, in particolare, sull’Intelli-


genza Artificiale (Artificial Intelligence, = AI) è impegnata con fatica a
tenere il passo dell’evoluzione di un settore che promette di rivoluzio-
nare la vita di ogni essere umano sul pianeta, ma è al tempo stesso agi-
tata da uno spettro la cui sagoma si profila su un orizzonte non si sa
quanto vicino: la scomparsa o quantomeno la sottomissione dell’uma-
nità da parte di una Superintelligenza algoritmica, che nel suo pro-
gressivo e inarrestabile autoperfezionamento potrebbe raggiungere
vette e scopi praticamente inintelligibili all’umanità1.
Un banco di prova per valutare simili progressi è quello del gioco.
Molti si ricorderanno della storica vittoria nel 1997 del computer
Deep Blue di IBM contro il campione mondiale di scacchi Garry Ka-
sparov2, ma ancora più impressionante – e per certi versi inquietante

* Doctor in Moral Theology / Doctor en Teología Moral / Dottore in Teologia


morale.
1 Cf. N. BOSTROM, Superintelligenza. Tendenze, pericoli, strategie, Bollati Borin-
ghieri, Torino 2018. Il mondo della fiction ha da sempre attinto alle paure atavi-
che suscitate dallo sviluppo tecnologico, il quale, sebbene sia un prodotto dell’at-
tività umana, ne è anche per certi versi indipendente o, comunque, non piena-
mente controllabile. Questi timori nei confronti dei più recenti ritrovati dell’AI
e della robotica sono stati resi noti al grande pubblico anche attraverso il cinema,
come nel caso della malvagia AI Skynet della serie cinematografica di Terminator
o del mondo parallelo e distopico della trilogia di Matrix.
2 Deep Blue era in grado di calcolare la mossa giusta sulla base di 200 milioni

di posizioni di pezzi al secondo, anche se non sapeva fare praticamente nient’altro

StMor 60/1 (2022) 85-105


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– è stata quella nel 2016 di AlphaGo, sviluppata da Google, contro il


coreano Lee Sedol campione di Go. Si tratta di un gioco di origini ci-
nesi e popolare in Asia che consiste nel posizionare e muovere pietre
di due colori (un giocatore ha il bianco e l’altro il nero) lungo le 361
intersezioni di una scacchiera con lo scopo di circondare territori e
catturare pietre nemiche. Com’è facile immaginare, il numero delle
mosse possibili è enorme, di gran lunga superiore a quello degli scac-
chi, per cui da sempre è considerato un gioco a base di creatività e in-
tuizione, dunque off limits per qualsiasi genere di macchina. Ebbene,
non solo AlphaGo riuscì a battere pesantemente Lee Sedol per 4 a 1,
ma ciò che colpì fu il modo in cui lo fece: attraverso mosse del tutto
inusuali, che mostravano al contempo una loro «bellezza» e una capa-
cità di «intuizione» non umana3.
Certo, si potrebbe fare una fin troppo facile ironia sulle mire im-
perialistiche di abili computer scacchisti oppure su orde di medita-
bondi giocatori elettronici di Go pronti a conquistare il mondo; è inu-
tile tuttavia negare come questi siano esempi emblematici di come l’AI
abbia iniziato ad affermarsi in modo sempre più pervasivo in molte-
plici campi della società, cambiandone a poco a poco il profilo. Per-
tanto, una riflessione etica anche da parte della teologia su questi ar-
gomenti è sempre più urgente. Si potrebbe certamente obiettare che
dietro all’idea di uno sviluppo tecnico inesorabile, dagli esiti (paventa-
ti) non proprio auspicabili per la nostra specie, vi sia una sorta di ri-
edizione del tipico positivismo ottocentesco, che com’è noto soleva
suddividere le epoche in base al progressivo avanzare della razionalità
scientifica; però, forse, la sfida principale che pone la cosiddetta quar-

(ad esempio rendere conto della strategia adottata oppure giocare a un altro gio-
co). L’importanza della vittoria di Deep Blue sta nella dimostrazione della capaci-
tà di un’AI di saper padroneggiare il ragionamento simbolico; cf. D. HEAVEN
(ed.), Macchine che pensano. La nuova era dell’intelligenza artificiale, Dedalo, Bari
2018, 22-24.
3 Cf. M. ZASTROW, «How victory for Google’s Go AI is stoking fear in South

Korea», NewScientist.com, 15 marzo 2016, in https://www.newscientist.com/arti-


cle/2080927-how-victory-for-googles-go-ai-is-stoking-fear-in-south-korea/ [ac-
cesso: 01.10.2021]
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ta rivoluzione industriale4 riguarda prima di tutto un ripensamento


della tecnologia e del suo significato per la vita dell’uomo.

Tecnica e tecnologia

Mal si attaglia all’AI una concezione dei manufatti tecnici che li ve-
da come semplici estensioni degli arti del corpo, al modo degli stru-
menti usati da un artigiano. Un tale modello, tutto sommato, è inade-
guato già per descrivere l’organizzazione socio-tecnica impostasi a
partire dalla prima rivoluzione industriale, con la quale diventò stori-
camente percepibile il passaggio dalla «tecnica» alla «tecnologia»5. La
prima, derivata dalla greca téchne-, secondo le parole di Aristotele «ha
a che fare con la generazione, con il progettare e il considerare in che
modo possano generarsi alcune tra le cose che possono essere e non
essere»6. La tecnica o arte è legata alla sfera del produrre o fare dal
nulla (poíēsis) per uno scopo, dove naturalmente il non essere in questo
caso è relativo: la produzione tecnica consiste nel trarre o condurre al-
l’esistenza (pro-ducere) ciò che non è per necessità o ciò che non esiste
per natura, vale a dire che possiede in sé il proprio principio. Tale pro-
duzione non avviene senza «un certo stato abituale (hexis), accompa-
gnato da ragione vera»7, quindi con competenza e non mediante un

4 La quarta rivoluzione industriale seguirebbe quelle innescate dall’invenzio-


ne della macchina a vapore (prima rivoluzione industriale), dalla razionalizzazio-
ne del lavoro con l’impiego del motore a combustione interna e dell’elettricità
(seconda), e infine dall’introduzione dei processi di automazione e informatizza-
zione (terza), e consisterebbe nell’utilizzo massiccio e su larga scala delle tecno-
logie digitali e cibernetiche.
5 Cf. G.L. BRENA, «Tecnica ed etica», in C. CALTAGIRONE (ed.), L’umano e le

sfide della tecnica, Morcelliana, Brescia 2019, 137-145. Osserviamo che ciò riguar-
da la percezione e l’interpretazione del fenomeno tecnologico, piuttosto che il
suo effettivo sussistere, in quanto l’influenza della tecnologia sulla cultura è pre-
sumibilmente antica quanto l’uomo.
6 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, in ID., Le tre etiche, ed. it. con testo greco a

fronte a cura di A. FERMANI, Bompiani, Milano 2008, VI, 4 (1140a11-13).


7 Ibid., VI, 4 (1140a20-21). Per Aristotele, infatti, la téchne- è una delle cinque

disposizioni attraverso cui l’anima coglie il vero, cf. Ibid., VI, 3 (1139b16).
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agire casuale sulla natura, anche se tale conoscenza è di ordine pratico


e non speculativo. Sempre per Aristotele, infatti, il sapere generale sul
mondo, sulle «cose necessarie», non si ottiene con la téchnē ma con la
scienza (epistḗmē)8.
La tecnologia è, invece, l’unione di téchnē e lógos, a indicare non tan-
to un’accumulazione progressiva di manufatti o di sapere tecnico-pra-
tico, quanto una «razionalizzazione e rappresentazione della vita e
della realtà, che finisce con il costruire un implicito universo di sen-
so»9. Si tratta, cioè, di un vero e proprio orizzonte interpretativo del-
la realtà, di un modo di rapportarsi a essa che è mediato dai prodotti
tecnologici e, in una certa misura, da essi plasmato, essendo questi, a
un tempo, espressione e fattore di cambiamento per una particolare
cultura10. La tecnologia, in altri termini, ha natura sistemica e inqua-
dra l’agire pratico di interi settori (per non dire la totalità) delle socie-
tà moderne11.

18Come ad esempio afferma negli Analitici Secondi: «conosciamo ciascuna co-


sa non accidentalmente, quando la conosciamo secondo ciò in base a cui il predi-
cato le appartiene, a partire dai principi propri di quella cosa in quanto quella co-
sa» (ARISTOTELE, Analitici Secondi, in ID., Organon, vol. 2, ed. it. a cura di M. ZA-
NATTA, UTET, Torino 1996, I, 9, 27 [76a5-6]). Questa impostazione verrà quin-
di sintetizzata in Occidente nel celebre «scire per causas», per cui «conoscere qual-
cosa […] significa comprenderla perfettamente, vale a dire apprenderne la verità:
infatti sono identici i principi dell’essere delle cose e della loro verità. […] È ne-
cessario allora che il conoscente, perfettamente tale (si est perfecte cognoscens), co-
nosca (anche) la causa della cosa conosciuta» (A. STAGNITTA, «Il posto della logi-
ca in Tommaso d’Aquino», in Angelicum 56 [1979] 47).
19 G. MANZONE, La tecnologia dal volto umano, Queriniana, Brescia 2004, 50.
10 Cf. G. DEL MISSIER, «Dignitas Personae. Logica della tecnologia e logica

della persona», in Studia Moralia 47 (2009) 369-377; P. BENANTI, The cyborg: cor-
po e corporeità nell’epoca del post-umano. Prospettive antropologiche e riflessioni etiche per
un discernimento morale, Cittadella, Assisi 2012, 418-420.
11 Cf. R. SCHWARTZ COWAN, «Industrial society and technological systems»,

in M. WINSTON – R. EDELBACH (edd.), Society, ethics, and technology, Wadsworth,


Boston 20145, 37-53.
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Due paradigmi a confronto

Da questo legame circolare tra tecnologia, cultura e società possia-


mo desumere che l’imporsi di un ruolo sostitutivo oppure comple-
mentare dell’AI rispetto all’uomo non dipenda dall’accumulo di dati,
che per alcuni starebbero addirittura scalzando le teorie scientifiche
come paradigma di conoscenza12, ma «da come si considerano nel
complesso la natura e lo scopo dell’operato umano e della tecnolo-
gia»13. Perché è proprio questo il punto della questione. Non si tratta
di ribadire con fermezza – o con una più o meno malcelata preoccu-
pazione – che vi sono capacità dell’essere umano che non sono repli-
cabili da una macchina, e dunque vi sono compiti che mai saranno sot-
tratti all’esclusiva competenza umana: questa tesi è in effetti ciò che si
premura di confutare nei fatti chi si dedica alla ricerca sull’AI dal pun-
to di vista del transumanesimo e postumanesimo14. Anzi, questi ultimi
mirano proprio alla costruzione di un “qualcosa” che trascenda i limi-
ti fisici e cognitivi umani. Ammettendo pure che questa visione appaia
quantomeno implausibile, se non altro perché non si sa bene se classi-
ficarla come semplice fantascienza o come una sorta di moderna mi-
tologia apocalittica15, non sembra accettabile nemmeno quanto pro-

12 Cf. C. ANDERSON, «The end of theory: the data deluge makes the scientif-
ic method obsolete», Wired, 23 giugno 2008, in https://www.wired.com/2008/
06/pb-theory/ [accesso: 30.9.2021].
13 F. PASQUALE, Le nuove leggi della robotica. Difendere la competenza umana nel-

l’era dell’intelligenza artificiale, LUISS University Press, Roma 2021, 49.


14 Cf. M. TEGMARK, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale,

Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.


15 È noto come sia accaduto tutt’altro che raramente che la science fiction abbia

anticipato la scienza vera e propria, se non altro perché questa, come ogni forma
di letteratura, è una fucina di idee in cui si può forgiare l’immaginario di un’inte-
ra generazione. Un esempio che mostra l’attesa che definiremmo escatologica nei
confronti della scienza, ben prima che gli araldi del postumanesimo facessero
sentire la loro voce, è dato da un racconto del celebre scrittore di fantascienza I.
Asimov degli anni ’50, intitolato L’ultima domanda. Al centro della narrazione c’è
il più potente supercomputer mai costruito dall’uomo, Multivac o AC, creato con
lo scopo di dare risposta a tutte le domande che gli fossero state poste, e che nel
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posto da chi prevede, sì, una certa “collaborazione” tra uomo e mac-
chine, ma con l’obiettivo di superare in profondità i limiti della condi-
zione umana, operandone in concreto uno stravolgimento in nome
della scienza16.
Una tale concezione coltiva un’aspirazione legittima al migliora-
mento delle attuali condizioni di vita dell’umanità17, però partendo da
un giudizio radicalmente negativo sulla natura umana18. È chiaro,
quindi, che se questa è la visione del mondo e, soprattutto, dell’uomo
fatta propria dai cultori (perlomeno alcuni, anche se influenti) dell’AI,
il fine sotteso alla rispettiva ricerca non potrà che essere quella di una
graduale sostituzione degli esseri umani da parte delle macchine o, al-
meno, una loro ibridazione per ottenere un qualcosa di “nuovo”.
Riconoscere i limiti (fisici, cognitivi e morali) che caratterizzano gli
esseri umani, auspicando al contempo un ampliamento delle possibi-
lità loro concesse, non implica necessariamente il desiderio di rim-
piazzare esseri “difettosi” – che saremmo noi – con altri più perfor-
manti, che avrebbero però paradossalmente qualcosa di meno rispet-
to all’uomo19. Si possono certamente apprezzare i sempre nuovi avan-

corso dei secoli si sviluppa fino a superare i limiti stessi dello spazio e del tempo,
della materia e dell’energia, arrivando alla fusione finale con l’umanità e a per-
meare di sé l’universo; cf. I. ASIMOV, «The last question», in Science Fiction Quar-
terly 4/5 (1956) 7-15.
16 Cf. M. O’CONNELL, Essere una macchina. Un viaggio attraverso cyborg, utopi-

sti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte, Adelphi, Milano
2018.
17 Cf. BENEDETTO XVI, Caritas in veritate [= CV], Lettera enciclica sul pro-

gresso umano integrale nella carità e nella verità (29.06.2009), in AAS 101 (2009)
641-709, n. 69.
18 Cf. M.P. FAGGIONI, «Transumanesimo. Volare oltre la natura umana», in J.

MIMEAULT – S. ZAMBONI – A. CHENDI (edd.), Nella luce del Figlio. Scritti in onore
di Réal Tremblay nel suo 70° genetliaco, Dehoniane, Bologna 2011, 505-525.
19 In merito all’idea che gli esseri viventi non siano altro che macchine gover-

nate da algoritmi che “girano” su supporti biologici, il neuroscienziato A. Dama-


sio si esprime così: «L’idea che gli organismi viventi sono algoritmi contribuisce
a perpetuare la falsa idea che il substrato utilizzato nella costruzione di un orga-
nismo, sia esso vivente o artificiale, abbia scarsa importanza. [...] Eppure non vi è
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zamenti nelle tecnologie dell’automazione e dell’informazione, pur


essendo consapevoli delle criticità e dei rischi, anche assumendo una
differente concezione della tecnologia, che quindi si tradurrebbe in
uno stile di pensiero diverso: un approccio, se così si può dire, più
“umano”, che non disprezzi in partenza, ma, anzi, valorizzi quanto ci
connota come membri nell’umanità in tutte le sue sfaccettature di be-
ne e di male, magari cercando di attenuare quelle più negative ed esal-
tando le migliori potenzialità.
Una visione di questo tipo è quanto ci sembra contraddistingua
l’indirizzo della cosiddetta Intelligenza Aumentata (Intelligence Aug-
mentation, = IA). Approfondiremo qui di seguito la differenza storico-
filosofica tra i due approcci, espressi emblematicamente dai due acro-
nimi speculari AI e IA, che si mostrerebbero non tanto complementa-
ri quanto effettivamente contrapposti almeno nelle rispettive logiche
di fondo. Non ci addentreremo in dettagli tecnici, ma rimarremo su
un piano di riflessione prevalentemente filosofico-fenomenologico,
cercando di individuare le direttrici fondamentali del pensiero che
anima tali ricerche considerate come attività prettamente umane. Al
termine proporremo alcune considerazioni su come impostare la ri-
flessione teologica entro tale quadro.

ragione per cui dovrebbe essere così. Il substrato conta, eccome. Quello della no-
stra vita è una organizzazione chimica unica nel suo genere, soggetta alla termo-
dinamica e all’imperativo omeostatico. Per quanto ne sappiamo, questo substra-
to è essenziale per spiegare chi siamo» (A. DAMASIO, Lo strano ordine delle cose. La
vita, i sentimenti e la creazione della cultura, Adelphi, Milano 2018, 231). E poco più
avanti aggiunge: «I valori che le nostre culture celebrano sotto forma di opere
d’arte, credenze religiose, sistemi di giustizia e buon governo sono stati plasmati
sulla base dei sentimenti. Se eliminassimo l’attuale substrato chimico della soffe-
renza e del suo contrario, il piacere e il benessere, elimineremmo il fondamento
naturale dei nostri sistemi morali. Certo, si potrebbero costruire sistemi artificia-
li che operano nel rispetto di “valori morali”. Ma ciò non significherebbe che ta-
li dispositivi contengano il fondamento di quei valori e che sarebbero capaci di
costruirli autonomamente» (Ibid., 233); [corsivo in originale].
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Quattro definizioni per l’AI

Definire con precisione cosa sia l’AI è impresa assai ardua, trattan-
dosi di un campo disciplinare ormai piuttosto vasto e che vede la con-
vergenza di svariati ambiti del sapere che vanno dall’ingegneria, alla
matematica, alla filosofia. Per questo, riteniamo utile rifarci alla dis-
cussione di Russell e Norvig che suddividono il ventaglio delle defini-
zioni in quattro classi, ottenute incrociando tra loro a coppie altret-
tante categorie: pensare, agire, umano e razionale20.

Macchine che pensano umanamente


La prima classe di definizioni si basa sul concetto di «pensare uma-
namente»: l’AI consisterebbe nei tentativi di far sì che una macchina
(in questo caso un computer) arrivi a possedere una mente paragona-
bile a quella umana e che pertanto funzionerebbe attraverso processi
cognitivi analoghi a quelli dell’uomo21.
Una simile concezione ha le sue radici in una corrente di filosofia
della mente chiamata funzionalismo, in voga tra chi si occupa di AI
da un punto di vista transumanista22. Il funzionalismo ha esordito in
un articolo di qualche decennio fa del filosofo H. Putnam23, il quale
polemizzava contro le teorie materialiste della mente che pretende-
vano di spiegare i processi di pensiero identificandoli con i corri-
spondenti meccanismi cerebrali. Putnam generalizzò per gli esseri
umani il discorso di A. Turing sulle macchine intelligenti (che vedre-
mo tra breve), considerando gli stati mentali come stati funzionali
dell’organismo, ovvero come configurazioni che svolgono un certo
ruolo causale attraverso il quale quegli stessi stati mentali vengono

20 Cf. S. RUSSELL – P. NORVIG, Intelligenza artificiale. Un approccio moderno, vol.

1, Pearson Italia, Milano-Torino 2010, 4-8.


21 Cf. Ibid., 6.
22 Cf. M. O’CONNELL, Essere una macchina, 101.
23 Cf. H. PUTNAM, «Psychological Predicates», in W.H. CAPITAN – D.D.

MERRILL (edd.), Art, Mind, and Religion, University of Pittsburgh Press, Pitts-
burgh 1967, 37-48.
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identificati24. In particolare, a interessare il nostro discorso è una va-


riante del funzionalismo, detta funzionalismo computazionale, che di
fatto identifica la mente con un sistema di elaborazione di informa-
zioni in tutto e per tutto assimilabile a un software25, fondando in que-
sto modo a livello filosofico l’analogia che legittima gli sforzi di ri-
produrre a livello informatico una mente di tipo umano.
Le caratteristiche in dotazione di un tale algoritmo dovrebbero in-
cludere tre capacità: quella di rappresentare la conoscenza posseduta,
di saper ragionare automaticamente e di apprendere per adattarsi a
sempre nuove situazioni. In aggiunta, per potersi interfacciare con un
operatore umano, tale algoritmo deve essere in grado anche di inter-
pretare il linguaggio naturale26.

Macchine che agiscono umanamente


La seconda classe di definizioni dell’AI chiama in causa l’agire:
«agire umanamente». Secondo queste definizioni, l’AI sarebbe lo stu-
dio delle tecniche che permettono di costruire macchine in grado di
eseguire compiti che al momento sono appannaggio delle sole perso-
ne, richiedendo intelligenza e destrezza27. Siamo, quindi, passati dal-
l’informatica alla robotica.
Alla base del concetto di macchina che «agisce umanamente» vi è
la metodologia del test di Turing, sviluppato dal matematico inglese
nel 1950 per appurare quando una macchina di un certo tipo potesse
dirsi intelligente28. Senza entrare nel dettaglio di cosa sia una macchi-
na di Turing29, il relativo test prevede una situazione di questo tipo: un

24 Cf. M. DI FRANCESCO – M. MARRAFFA – A. TOMASETTA, Filosofia della men-


te. Corpo, coscienza, pensiero, Carocci, Roma 2017, 88-89.
25 Tale concezione identifica il campo delle scienze cognitive, cf. S. RUSSELL

– P. NORVIG, Intelligenza artificiale, 18.


26 Cf. Ibid., 4.
27 Cf. Ibid., 4-5.
28 Cf. A.M. TURING, «Computing machinery and intelligence», Mind 49

(1950) 433-460.
29 Si tratta, in sostanza, di un antenato concettuale del computer.
94 ANDREA PIZZICHINI

operatore umano interagisce tramite una tastiera con un interlocuto-


re, non avendo con quest’ultimo alcun tipo di accesso oltre appunto
alla tastiera, e tale interlocutore può essere a sua volta umano oppure
una macchina. Un interlocutore artificiale supera il test di Turing se,
dopo 5 minuti di conversazione, è scambiato dall’operatore per un es-
sere umano, mostrando dunque le capacità di pensare e interagire ca-
ratteristiche di una persona30.
In definitiva, una macchina che «agisce umanamente» è un dispo-
sitivo in grado di eseguire dei compiti che, in condizioni normali, so-
no attribuiti a una persona. Si tratta, tutto sommato, di una generaliz-
zazione della definizione precedente, coinvolgendo un insieme più
ampio di abilità che la macchina deve possedere rispetto al solo pen-
sare e che includono un opportuno insieme di sensori (specialmente
quelli per la visione artificiale) e di attuatori che consentano gli spo-
stamenti e la manipolazione degli oggetti31.
Sia questo approccio che il precedente presentano, comunque,
un’aporia a livello concettuale che si può ricondurre direttamente al
test di Turing, ossia la deduzione dell’intelligenza dal comportamen-
to. L’aporia sta nel fatto che, allo stato attuale dell’arte, una macchina
è in grado al più di simulare un pensiero o un agire intelligente, ma una
cosa è riprodurre esternamente un certo tipo di comportamenti, un’al-
tra è ricreare la soggettività in grado autonomamente di porli32.

Macchine «razionali»
Le rimanenti due classi di definizioni dell’AI si rifanno al concetto
di «razionalità», distinguendosi quindi in «pensare razionalmente» e

30 Cf. S. RUSSELL – P. NORVIG, Intelligenza artificiale, 568-569. Un esempio at-

tuale di questo tipo di performance (non sempre molto riuscite) è dato dalle chat-
bot e dagli operatori virtuali.
31 Cf. Ibid., 5.
32 In effetti, volendo usare un esempio ad effetto, sarebbe come confondere la

simulazione al computer di un uragano per le previsioni meteo con l’uragano


stesso. Del resto, lo stesso test di Turing è stato pensato in condizioni molto par-
ticolari in modo da selezionare solo una specifica e ristretta manifestazione di in-
telligenza: quella riproducibile da una macchina.
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«agire razionalmente». In particolare, per pensiero/azione razionale ci


si riferisce alla «cosa giusta da fare», laddove, a sua volta, per cosa
«giusta» si intende un intervento ottimale in base a un certo tipo di
criteri e obiettivi33. Sembrerebbe sottinteso che non sempre gli esseri
umani siano «razionali», o, meglio, che non sempre agiscano razio-
nalmente, soprattutto per l’influenza di fattori come le emozioni che
interferiscono con un corretto pensiero «razionale»34.
Un’AI che «pensasse razionalmente» sarebbe pertanto un disposi-
tivo software con implementata la capacità di risolvere attraverso i pro-
cedimenti della logica formale – le “leggi del pensiero” – qualsiasi que-
stione. Si tratta, però, di un’aspirazione alquanto utopistica, poiché
non sempre si è in grado di esprimere la conoscenza in modo forma-
lizzato o ridurre un problema in termini formali35.
Un agente «razionale», invece, generalizza il «pensiero razionale»
poiché esso «agisce in modo da ottenere il miglior risultato o, in con-
dizione di incertezza, il miglior risultato atteso»36. Si tratta di una ge-
neralizzazione secondo due punti di vista. Innanzitutto, perché un agi-
re «razionale» (che porti cioè al miglior risultato) non sempre è frutto
di un’inferenza logica, come vorrebbe invece l’approccio del «pensie-
ro razionale»: nell’ambito del comportamento umano, si pensi ai ri-
flessi che impediscono di ferirsi o permettono di sottrarsi rapidamente
e istintivamente a una minaccia. Oltre a ciò, nelle circostanze in cui si
è chiamati ad agire non sempre si dispone delle informazioni sufficien-
ti a dedurre la soluzione “migliore”, per cui bisogna ricorrere ad altre
strategie di intervento che tengano conto delle inevitabili incertezze ed
eventualmente conducano a una ridefinizione degli obiettivi37.

33 Cf. S. RUSSELL, «Rationality and intelligence», in Artificial Intelligence 94


(1997) 57-77.
34 Anche se sembrerebbe essere vero proprio il contrario; cf. A. DAMASIO,

«The somatic marker hypothesis and the possible functions of the prefrontal cor-
tex», in Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Series B, Biological
Sciences 351 (1996) 1413-1420.
35 Cf. S. RUSSELL – P. NORVIG, Intelligenza artificiale, 6-7.
36 Ibid., 7.
37 Cf. Ibid., 7-8.
96 ANDREA PIZZICHINI

In conclusione, da questa sintetica rassegna si può vedere come nel-


le basi filosofiche di questo approccio all’AI sia riscontrabile effettiva-
mente un intento di sostituzione degli esseri umani nelle prestazioni
professionali. Un tale proposito forse non emerge direttamente dagli
sforzi di ricreare a livello di manufatti le capacità tipicamente umane,
ma risalta più chiaramente in quei tentativi di produrre pensieri e azio-
ni puramente «razionali», in cui il non detto neanche troppo celato sa-
rebbe quello di un superamento delle relative facoltà umane. Di per
sé, però, queste linee di ricerca non impongono necessariamente di av-
venturarsi in una corsa folle e inarrestabile verso la «singolarità»38, ma
possono sfruttare le potenzialità degli algoritmi e della robotica per
un’autentica promozione dell’umano, come nel caso dell’IA.

La tecnologia a servizio della persona

Oltre che per le finalità, i due approcci dell’AI e dell’IA si distin-


guono per due differenti paradigmi nella concezione della mente: nel
primo caso, come visto, questa è considerata come un’entità in fin dei
conti riconducibile a un software e il corpo umano a una macchina in-
credibilmente complessa; nel secondo, invece, l’uomo è considerato
essenzialmente «un utilizzatore delle macchine»39. In questo modo,
un’eventuale macchina “pensante” è tale non in quanto dotata di ra-
zionalità, bensì perché consente all’operatore umano di pensare con es-
sa, dunque di incrementare le proprie capacità nell’affrontare proble-
mi complessi40.

38Cioè il punto in cui un’ipotetica AI, in un processo di indefinito automi-


glioramento, superasse il livello umano di intelligenza.
39 P. SKAGESTAD, «The mind’s machine: the Turing machine, the Memex, and

the personal computer», in Semiotica 111 (1996) 234; [corsivo in originale].


40 «Con [l’espressione] “incrementare l’intelletto umano” intendiamo l’au-

mento della capacità dell’uomo di trattare una complessa situazione problemati-


ca, l’ottenere una comprensione che si adatti ai suoi particolari bisogni, e il trar-
re soluzioni ai problemi. Una capacità incrementata in questo ambito è intesa es-
sere un insieme delle seguenti capacità: comprensione più rapida, comprensione
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Si tratta, in un certo senso, di una versione applicata alla tecnologia


di quella che in filosofia della mente è chiamata teoria della mente
estesa41, secondo la quale l’uso di strumenti come carta e penna o una
calcolatrice rappresenterebbero una vera e propria estensione delle ca-
pacità razionali, anzi, perfino della stessa mente. In effetti, si doman-
dano tali autori, dov’è che finisce la mente e inizia il mondo esterno?
Ora, se nell’esecuzione di un certo compito un qualche insieme di og-
getti funziona secondo processi che non esiteremmo a definire razio-
nali se avvenissero all’interno delle nostre teste, «allora tale parte del
mondo è (così affermiamo) parte del processo cognitivo. I processi co-
gnitivi non sono (tutti) nella testa!»42. Se un tale ragionamento vale
per strumenti semplici, a fortiori è applicabile a un computer.
Al di là della stravaganza della tesi, almeno in quanto teoria della
mente stricto sensu, ciò che attira il nostro interesse è l’interpretazione
del particolare rapporto tra uomo e tecnologia dell’informazione co-

migliore, la possibilità di ottenere un utile grado di comprensione in una situa-


zione che in precedenza era troppo complessa, soluzioni più veloci, soluzioni mi-
gliori, e la possibilità di trovare soluzioni a problemi che prima sembravano in-
solubili» (D.C. ENGELBART, Augmenting human intellect: a conceptual framework,
Stanford Research Institute, Menlo Park [CA – USA] 1962). Si tratta di un estrat-
to da un rapporto redatto per l’ufficio della ricerca scientifica dell’aeronautica sta-
tunitense (reperibile in rete all’indirizzo https://www.dougengelbart.org/pubs/
papers/scanned/Doug_Engelbart-AugmentingHumanIntellect.pdf [accesso:
7.9.2021]) in cui compare per la prima volta un programma di ricerca relativo al-
la intelligence augmentation. Il termine augmentation richiama l’idea di un aumen-
to in senso quantitativo e non qualitativo dell’intelligenza umana grazie all’ausilio
delle macchine: si rende, cioè, possibile la risoluzione di problemi che sarebbero
altrimenti troppo complicati, mantenendo comunque il carattere umano di tale
intelligenza. Non a caso, nel citato documento si parla anche di «amplificazione»
(amplification) dell’intelligenza, la quale «non implica alcun tentativo di incre-
mentare [in senso qualitativo] l’intelligenza umana naturale. […] Avremo ampli-
ficato l’intelligenza dell’uomo organizzando le sue capacità intellettuali a più alti
livelli di strutturazione sinergica [con le macchine]» (Ibid., 19).
41 Cf. A. CLARK – D.J. CHALMERS, «The extended mind», in Analysys 58

(1998) 7-19; M. DI FRANCESCO, «L’Io tra neuroni e mente estesa», in A. LAVAZ-


ZA – G. SARTORI (edd.), Neuroetica, Il Mulino, Bologna 2011, 43-68.
42 Ibid., 8; [corsivo in originale].
98 ANDREA PIZZICHINI

me caso particolare di quello più generale tra uomo e cultura, in quan-


to, come osservato, i dispositivi tecnologici non sono soltanto espres-
sione del mondo culturale, ma a loro volta modellano quest’ultimo.
Da questo punto di vista non sembra quindi così peregrina l’ipotesi
che interpreti l’uso di dispositivi elettronici e informatici come
«estensioni» o «incrementi» dell’intelligenza umana.

Alcune applicazioni dell’IA

A questo punto, può essere utile considerare brevemente a titolo di


esempio un ambito di applicazione dell’IA particolarmente significati-
vo, cioè la medicina, per vedere come un tale approccio possa offrire
reali possibilità di umanizzazione rispetto alla teoria della sostituzione
da parte dell’AI43. Precisiamo ancora che con AI ci riferiamo più che
altro ai fondamenti filosofici (prevalentemente transumanisti) che ani-
mano perlomeno una parte, anche se influente, di tale filone di ricer-
ca, essendo ben consapevoli che anche i dispositivi di IA sfruttano tec-
nologia di intelligenza artificiale.
Secondo un’ottica di sostituzione, l’ingresso dell’AI negli ospedali
e, più in generale, nella pratica medica porterà a una sempre maggio-
re automazione del rapporto medico-paziente, con robot clinici che
saranno in grado di diagnosticare una qualunque malattia in modo in-
comparabilmente più accurato rispetto a un essere umano, unendo al-
la precisione della diagnosi quella del trattamento grazie all’impiego
delle nanotecnologie. È evidente come un tale scenario utopistico ce-
li il sogno transumanista della sconfitta della morte, ed è relegato an-
cora – purtroppo o per fortuna, a seconda del punto di vista – in un fu-
turo remoto44.

43Naturalmente non si tratta dell’unico campo in cui si può applicare con suc-
cesso l’IA. Si pensi, ad esempio, al mondo dell’educazione e dell’istruzione, op-
pure alla gestione dei media in una società che è letteralmente invasa dalle infor-
mazioni e in cui è sempre più difficile distinguere le vere notizie dalle famigera-
te fake news.
44 Cf. M. O’CONNELL, Essere una macchina, 197-211.
OLTRE L’UOMO O AL SUO SERVIZIO? 99

Più realisticamente, un uso proficuo delle tecnologie dell’automa-


zione può essere quello di un ausilio strumentale che permetta una va-
lorizzazione ed espansione delle competenze del singolo professioni-
sta secondo la filosofia di base dell’IA. Ad esempio, è stato mostrato
che l’adozione dei Clinical Decision Support System (CDSS), ossia siste-
mi software progettati per assistere medici e altri professionisti sanita-
ri nel processo decisionale, ha consentito una riduzione significativa
degli errori in sede di diagnosi45. Oltre a ciò, anche i settori clinici più
passibili di automazione, come la radiologia e la patologia clinica, pro-
prio perché i sistemi di visione artificiale sono tutt’altro che esenti da
criticità46, più che a una sostituzione del personale medico assistono
alla formazione di nuove figure professionali, gli information specialists.
Ora, per quanto discutibile possa essere tale innovazione, emerge an-
cora una volta il ruolo irrinunciabile del personale umano, oltre al fat-
to che è la sinergia uomo-macchina a confermarsi una via di efficace
miglioramento della pratica medica47.
Tra i campi della medicina che hanno beneficato dell’IA si può
menzionare in particolare la dermatologia, per la quale sono stati svi-
luppati algoritmi di riconoscimento visivo che, grazie al machine lear-
ning, permettono di riconoscere e segnalare agli specialisti la presenza
di melanomi anche a partire dalle foto di un comune smartphone48. Co-
m’è ovvio, tali algoritmi di imaging a supporto del personale medico
sono estendibili anche ad altre discipline che richiedono un approccio
visivo per la diagnosi49. In ogni caso, resta il limite che le possibilità di

45 Cf. L. MOJA et al., «Effectiveness of computerized decision support systems


linked to electronic health records: a systematic review and meta-analysis», in
American Journal of Public Health 104 (2014) e12-e22.
46 Come emerso soprattutto nel campo della guida autonoma, cf. J. JANAI et

al., «Computer vision for autonomous vehicles. Problems, datasets and state of
the art», in Foundations and Trends in Computer Graphics and Vision 12 (2020) 1-308.
47 Cf. S. JHA – E.J. TOPOL, «Adapting to Artificial Intelligence. Radiologists

and pathologists as information specialists», in JAMA 316 (2016) 2353-2354.


48 Cf. A. ESTEVA et al., «Dermatologist-level classification of skin cancer with

deep neural networks», in Nature 542 (2018) 115-118.


49 Applicazioni promettenti di IA sono riscontrabili anche per la chirurgia, sia

in sede di diagnosi e di ausilio al processo decisionale, che di prognosi, fornendo


100 ANDREA PIZZICHINI

tali algoritmi ricadono entro i tipi di patologie che sono stati addestrati
a riconoscere: la rilevazione di eventuali anomalie o casi inediti rima-
ne specifica competenza umana. Anche l’attuale pandemia del Covid-
19 ha messo in evidenza come una cooperazione tra operatori umani
e AI sia fondamentale per gestire situazioni particolarmente comples-
se e caratterizzate da grande incertezza, sia in termini clinici di dia-
gnosi e cura, che sociali di tracciamento50.
Dove l’inapplicabilità dell’AI in ambito medico appare non legata a
insufficienze tecnologiche quanto a motivi intrinseci è nella cura inte-
sa come care e non come semplice treatment, quindi non come presta-
zione sanitaria ma vera e propria relazione: questo è ad esempio l’ap-
proccio della medicina narrativa51. L’IA anche qui può svolgere un
certo ruolo di supporto e integrazione, come nelle app di sostegno psi-
coterapeutico52. Tuttavia è chiaro che, qualora si punti alla sostituzio-
ne del rapporto persona-persona con uno di tipo persona-macchina,
l’effetto potrà essere al più una sorta di placebo, poiché un algoritmo
non può far altro che riprodurre, imitandolo, un certo comportamen-
to, mancando la soggettualità che renda quel rapporto relazione au-
tenticamente personale. Senza contare la logica sottostante, che non è
certamente quella della promozione e tutela della dignità del malato o
della persona in difficoltà, ma di rimuovere problemi che sono visti
utilitaristicamente come ostacoli alla produttività53.

previsioni di eventuali complicazioni o del probabile decorso post-operatorio; cf.


D.A. HASHIMOTO et al., «Artificial Intelligence in surgery: promises and perils»,
in Annals of Surgery 268 (2018) 70-76.
50 Cf. F. PICCIALLI et al., «The role of Artificial Intelligence in fighting the

Covid-19 pandemic», Information Systems Frontiers (2021), in https://link.


springer.com/content/pdf/10.1007/s10796-021-10131-x.pdf [accesso: 7.9.2021].
51 Cf. M. MARINELLI, «La medicina narrativa, pratica comunicativa che orien-

ta la cura verso la persona», in Medicina e morale 70 (2021) 55-71.


52 Cf. S. LEIGH – S. FLATT, «App-based psychological interventions: friend or

foe?», in Evidence-based Mental Health 18 (2015) 97-99.


53 Cf. F. PASQUALE, Le nuove leggi, 66-68.
OLTRE L’UOMO O AL SUO SERVIZIO? 101

Spunti per una riflessione etica

Nel presente articolo ci siamo occupati della distinzione tra due ap-
procci o finalità di base che caratterizzano la ricerca nel settore del-
l’intelligenza artificiale: quello che punta, più o meno intenzional-
mente, a una progressiva sostituzione degli esseri umani in vari campi
professionali, anche quelli tradizionalmente ritenuti irriducibili alle
prestazioni di una macchina; quello che invece cerca di preservare le
peculiarità dell’uomo, al di là di quei compiti che possono essere ef-
fettivamente automatizzati, e per il quale l’uso delle macchine può an-
zi essere un mezzo di potenziamento e valorizzazione delle capacità
intellettuali.
Non bisogna comunque dimenticare che la nostra analisi si basa su
una semplificazione delle posizioni in gioco, che, come al solito, nella
realtà presentano confini molto meno netti di quelli riportati sulla pa-
gina scritta, e non vuole in nessun modo affermare che tutti gli studiosi
e ricercatori nel campo dell’AI siano transumanisti ansiosi di ripetere
le gesta del famigerato dottor Frankenstein.
Piuttosto, si è inteso evidenziare alcune caratteristiche salienti del
milieu culturale e filosofico a cui in qualche modo è possibile ricon-
durre molti dei discorsi sull’AI, specialmente quelli che chiamano in
causa la distinzione tra AI debole e AI forte54. Ciò implica che lo svi-
luppo tecnologico non è mai neutrale, né la ricerca tecnica è avulsa da
influenze e considerazioni di carattere filosofico o comunque extra-
scientifico. In effetti, può sembrare banale dirlo, ma ogni attività, in-
clusa quella scientifica, è svolta a partire dalle motivazioni e dai valori
delle persone che la pongono in atto: dai nobili ideali dell’avvicina-
mento alla verità e del miglioramento delle condizioni di vita, a quel-
li più mondani della massimizzazione del profitto per un proprio tor-

54 In particolare per AI debole si intende un’AI che è uno strumento a dispo-


sizione dell’uomo (più o meno, quindi, ciò che si intende per IA), mentre l’AI for-
te equipara un algoritmo sufficientemente avanzato a una mente vera e propria.
Per una discussione sulla differenza tra la mente di organismi biologici e l’intel-
ligenza manifestata da una macchina, cf. J.R. SEARLE, «Mind, brain and pro-
grams», in Behavioral and Brain Sciences 3 (1980) 417-457.
102 ANDREA PIZZICHINI

naconto personale. In base alla nostra analisi, possiamo affermare che


l’approccio dell’IA sottende in modo meno ambiguo rispetto all’altro
un’idea della tecnologia a servizio della persona umana, per cui, a con-
dizione di disporre di una governance adeguata, più che rassegnarsi a
una tecnicizzazione dell’uomo ci si potrebbe orientare verso una uma-
nizzazione della tecnologia55.
Per umanizzazione della tecnologia intendiamo che «secondo il di-
segno di Dio e la sua volontà essa corrisponda al vero bene dell’uma-
nità, e permetta all’uomo singolo o posto entro la società di coltivare
e attuare la sua integrale vocazione»56. La tecnologia, quindi, anche da
un punto di vista teologico morale, non è mai solo semplice tecnica,
ma soprattutto nel suo progredire «manifesta l’uomo e le sue aspira-
zioni allo sviluppo, esprime la tensione dell’animo umano al graduale
superamento di certi condizionamenti materiali»57. Questo comporta
l’esigenza di doversi liberare dalle insidie di un paradigma tecnocrati-
co, attraverso il quale il mondo è visto come realtà inerte, totalmente
manipolabile, secondo una logica di dominio che prescinde dalle sue
effettive risorse e possibilità offerte58, stravolgendo quindi il senso del
comando divino che assegna all’essere umano il «dominio» sul mon-
do naturale59. Se la conseguenza immediata di tale mentalità è uno
sfruttamento senza scrupoli dell’ambiente naturale, anche l’uomo
stesso non sarà esente da questo destino, dato che dal punto di vista di
un certo naturalismo anch’egli non è che un “pezzo di natura” su cui
si può intervenire a piacimento.

55 Cf. P. BENANTI, The cyborg, 417.


56 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Gaudium et spes, Costituzione pasto-
rale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (7.12.1965), in AAS 58 (1966) 1025-
1120, n. 35. Il documento ha per la verità una prospettiva più ampia riferendosi
in generale all’attività umana, entro cui rientra ovviamente la tecnologia.
57 CV, n. 69.
58 Cf. FRANCESCO, Laudato si’ [= LS], Lettera enciclica sulla cura della casa co-

mune (24.05.2015), in AAS 107 (2015) 847-945, n. 106.


59 Cf. Gen 1,26. Il «dominare» concesso all’uomo su tutti gli esseri della terra

è espresso dall’ebraico ra-dâ (nel greco della LXX reso con árchein) e nel suo uso
è effettivamente prossimo al linguaggio di corte, sebbene Gen taccia del tutto su
OLTRE L’UOMO O AL SUO SERVIZIO? 103

In quest’ottica, il nostro sintetico confronto tra i due approcci del-


l’AI e dell’IA ha voluto mostrare che la riflessione sui valori etici non
è un qualcosa di superfluo o addirittura di ostacolo allo sviluppo della
conoscenza tecno-scientifica, ma può invece essere di aiuto per orien-
tare quest’ultimo nella direzione di una sempre maggiore promozione
dell’uomo, qualificandolo quindi come progresso nel vero senso del
termine. In questo ambito si palesa, quindi, l’importanza di una co-
stante e aggiornata riflessione bioetica (sia di tipo filosofico che teolo-
gico) che permetta di rendere consapevole il mondo della ricerca e il
grande pubblico dell’esistenza di una perenne domanda di senso, la
quale certamente è oggi inevitabilmente modulata da un paradigma
culturale permeato dalla tecnoscienza60. Eppure tale esigenza rimane
inalterata e continua a scorrere come un fiume carsico, silenzioso e te-
nace, al di sotto dell’impetuoso sviluppo tecnologico, quale cifra pro-
pria e inestinguibile dell’humanum che è all’origine di ogni forma di
tecnologia.

ogni aspetto propriamente regale di tale «dominio». In sostanza, dominio non è


sinonimo di sovranità, ma deriva da una benedizione conseguente all’essere im-
magine e somiglianza di Dio, pertanto «la signoria dell’uomo è una posizione
concessa da Dio all’uomo e deve servire alla compagine dell’ordinamento divino.
Il dominio dell’uomo deve risultare positivo per la parte dominata, ed esercitan-
dolo l’uomo deve dare buona prova di sé in quanto uomo e restando umano» (H.-
J. ZOBEL, «‫ רדָה‬ra-dâ», in H.-J. FABRY – H. RINGGREN (edd.), Grande lessico del-
l’Antico Testamento, vol. 8, Paideia, Brescia 2008, 221-222).
60 Cf. LS, n. 108.
104 ANDREA PIZZICHINI

ABSTRACT

The article deals with the problem of the philosophical interpretation of Artifi-
cial Intelligence [= AI], arguing that its correct evaluation must take into ac-
count the lines of thought underlying the research activity itself, and that there-
fore it does not appear to be philosophically neutral. In reference to this, two
currents of thought can be identified: the one generically called “Artificial In-
telligence” which since the second half of the twentieth century has been en-
gaged in overcoming and replacing human performance in multiple profes-
sional areas; and the other which is referred to as “Augmented Intelligence”
[= AI], which, while using AI algorithms, considers technology at the service
of man to expand the possibilities of action. Therefore, for an effective re-
sponse to the challenges of AI it does not seem sensible to close oneself
completely to its increasingly pervasive applications, but it is necessary to
bring the latter back into a personalist horizon that takes into account the orig-
inal question of meaning.

Keywords: Artificial intelligence; Technology; Transhumanism

***
El artículo aborda el problema de la interpretación filosófica de la Inteligencia
Artificial [= AI], argumentando que su correcta evaluación debe tener en cuen-
ta las líneas de pensamiento que subyacen a la propia actividad investigado-
ra, y que, por tanto, no es filosóficamente neutral. En referencia a esto, se pue-
den identificar dos corrientes de pensamiento: la genéricamente denominada
“Inteligencia Artificial” y que desde la segunda mitad del siglo XX se ha dedi-
cado a superar y sustituir el desempeño humano en múltiples áreas profesio-
nales; y lo que se denomina “Inteligencia Aumentada” [= IA], que, al utilizar
algoritmos de AI, considera la tecnología al servicio del hombre para ampliar
las posibilidades de acción. Por tanto, para una respuesta eficaz a los retos
de la AI no parece conveniente cerrarse por completo a sus aplicaciones ca-
da vez más omnipresentes, sino que es necesario reconducirlas a un hori-
zonte personalista que tenga en cuenta la cuestión original del sentido.

Palabras clave: Inteligencia artificial; Tecnología; Transhumanismo

***
L’articolo tratta il problema dell’interpretazione filosofica dell’Intelligenza Arti-
ficiale [= AI], argomentando che una sua corretta valutazione deve tener con-
to degli indirizzi di pensiero sottesi alla stessa attività di ricerca, e che quindi
OLTRE L’UOMO O AL SUO SERVIZIO? 105

non risulta essere filosoficamente neutrale. In riferimento a ciò, si individuano


due correnti di pensiero: quella chiamata genericamente “Intelligenza Artifi-
ciale” e che dalla seconda metà del XX secolo è impegnata in un supera-
mento e sostituzione delle prestazioni umane in molteplici aree professionali;
quella a cui ci si riferisce come “Intelligenza Aumentata” [= IA], la quale, pur
utilizzando algoritmi di AI, considera la tecnologia a servizio dell’uomo per
ampliarne le possibilità di azione. Pertanto, per un’efficace risposta alle sfide
dell’AI non sembra conveniente chiudersi in toto alle sue applicazioni sempre
più pervasive, ma occorre far rientrare queste ultime in un orizzonte persona-
lista che tenga conto dell’originaria domanda di senso.

Parole chiave: Intelligenza artificiale; Tecnologia; Transumanesimo


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