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DI EMILIO LUSSU
di Giovanni Falaschi
3. Tematiche e contenuti. 15
4. Modelli e fonti. 27
6. Nota bibliografica. 36
«Il libro di Emilio Lussu [...] credo che resterà nella letteratura italiana tra i più
notevoli di carattere autobiografico»; così Benedetto Croce nel 1945 a proposito
di Marcia su Roma e dintorni1. Ma si può essere certi che quando Un anno sul-
l’Altipiano uscì in Italia qualche mese dopo, egli avrebbe potuto ripetere senz’al-
tro lo stesso giudizio, se la prima guerra mondiale fosse stata un argomento così
attuale e coinvolgente com’era allora, e per lui in particolare, il fascismo delle ori-
gini. Anzi direi che a distanza di mezzo secolo dalla prima edizione italiana il libro
che ci sembra più importante fra i due è proprio il secondo. E poiché su di esso, e
su Lussu in particolare, esistono studi anche molto diligenti ma divaricati fra bio-
grafia e storia politico-ideologica, antropologia e critica letteraria (ma manca uno
studio linguistico esauriente), è necessario non perdere l’occasione di una rico-
struzione anche minuziosa della genesi, concretezza testuale, fortuna editoriale e
critica di questo straordinario libro.
Le lettere di Lussu a Carlo Rosselli, diligentemente pubblicate da Manlio Bri-
gaglia2 (che è anche l’autore di un importante studio su Lussu e «Giustizia e Li-
bertà»), ci consentono di seguire con una certa precisione i tempi della stesura di
Un anno sull’Altipiano, eccetto che per il semestre che va dalla metà di luglio
1936 al gennaio 1937, periodo per il quale l’epistolario è perduto. Per lo stesso
periodo sono conservate nel medesimo Archivio «Giustizia e Libertà», presso l’I-
stituto per la Storia della Resistenza in Toscana, alcune lettere – a quel che mi ri-
sulta ancora inedite ma tuttavia utilizzate parzialmente dagli studiosi – scambiate
fra Gaetano Salvemini e lo stesso Rosselli, che ci consentono di seguire per un
certo tratto l’intera vicenda facendo perno sulla figura di quest’ultimo; e nel Fon-
do Salvemini3 dello stesso Istituto lettere, inedite e inutilizzate, a lui scritte da
Lussu, alcune delle quali, soprattutto dell’estate 1935 e dell’estate (ma anche del
dicembre) 1937, contengono informazioni utilissime circa la genesi e i contenuti
di Un anno sull’Altipiano e la strategia editoriale del suo autore. All’epistolario
nel suo complesso farò solo questo cenno: nonostante le forti divergenze politiche
di Lussu con gli altri due interlocutori in esilio e le differenze d’opinione fra que-
* In questo saggio la sezione Struttura è confluita nella sezione 5, Valutazione critica, strutturale e stilistica.
1 B. CROCE, Marcia su Roma e dintorni (1945), in ID., Scritti e discorsi politici (1943-1947), Bari 1963, II, p. 172.
2 Cfr. E. LUSSU, Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di «Giustizia e Libertà», a cura di M. Brigaglia, Sassari 1979;
ni, quelle di Lussu per gli anni 1935-38. Per le lettere di Lussu e di Salvemini a Rosselli si veda il Fondo Carlo Rossel-
li dell’Archivio di «Giustizia e Libertà». Avendo la possibilità di vedere gli originali, l’ho fatto nonostante la corretta
edizione della corrispondenza Salvemini / Carlo Rosselli curata dal Brigaglia e citata alla nota precedente.
sti ultimi – aggravate dal contesto politico-militare denso di novità anche terribili
(vittoria di Mussolini in Africa, guerra di Spagna), con rimescolamento delle car-
te nei gruppi di fuorusciti anche per il cambiamento di linea dei partiti comunisti
nei confronti delle altre forze politiche – la solidarietà umana (assistenza materia-
le, morale, ecc.) nei confronti di un Lussu allora ammalato e povero non mancò
mai. Salvemini, ad esempio, si dava un gran daffare per vendere negli Stati Uniti
le copie della traduzione inglese di Marcia su Roma e dintorni prima di farne fare
un’edizione americana; Rosselli per fargliele avere, e anche sborsava di tasca pro-
pria. Insomma, ne viene fuori un quadro di grande nobiltà d’animo di questi pro-
tagonisti che, congiunta alla loro altezza intellettuale, fa molto riflettere sul gran-
de patrimonio dilapidato dal governo fascista a scapito ovviamente dell’intero
paese.
Oltre ai tempi, documentati dalle lettere, sono degni di rilievo: le condizioni
psicofisiche in cui Lussu scrisse Un anno sull’Altipiano, il suo travaglio ideolo-
gico, e gli interessi immediati che, come si preciserà, non aveva affatto pensato di
sacrificare per un libro sulla guerra. Ma vediamo dalla sua corrispondenza con
Carlo Rosselli.
Il 14 febbraio 1936 Lussu è da quasi cinque mesi in sanatorio in Svizzera, a
Clavadel, sopra Davos, dato il peggioramento della sua malattia. È tutto preso
dalla stesura dell’ultima parte di Teoria dell’insurrezione, il libro che ritiene il «più
interessante del momento», per il quale non ha fatto pesare la propria «documen-
tazione tecnica» ma solo l’«esperienza personale». E perciò, aggiungeva all’ami-
co, «tutto è nuovo, e in forma originale. Io tengo enormemente a che questo mio
libro esca. L’ho anteposto ai libro sulla guerra, perché mi pare politicamente ne-
cessario». Affermazioni assolute che qualcuno ha ritenuto scherzose, ma forse
non lo sono proprio. Vedremo prestissimo comunque cosa vuoi dire «anteposto».
Continuando nell’attenta lettura della corrispondenza con Carlo: il 17 marzo gli
scrive che sta conducendo la revisione di Teoria dell’insurrezione e il 4 aprile che
glielo sta mandando. Alla metà del mese, però, Lussu viene operato di toracopla-
stica, un intervento assai serio: «resecazione delle prime sei costole di destra»4 per
far cicatrizzare il polmone. Il 18 maggio sta comunque lavorando sul dattiloscrit-
to e il 5 giugno, pare, lo invia a Carlo chiedendogli di farlo uscire ai primi di luglio
perché il libro è « attuale attualissimo». In fine della lettera dà notizia di Un anno
sull’Altipiano: «Io riprenderò ora il libro sulla guerra e lo finirò fra qualche mese,
in modo che possa essere pubblicato alla fine dell’anno». È evidente che il libro
era stato iniziato prima di Teoria dell’insurrezione, poi era stato accantonato per
4 G.
FIORI, Il cavaliere dei Rossomori. Vita di Emilio Lussu, Torino 2985, p. 299.
essere ripreso ora. Vedremo meglio i tempi dalla corrispondenza con Salvemini.
Tra il luglio e l’agosto 1936 subisce la seconda operazione, non così grave co-
me la prima, ma tale da impedirgli per un po’ di lavorare; quindi, a causa della la-
cuna nella corrispondenza con Carlo della quale già si è detto, occorre aspettare il
9 febbraio 1937 per avere notizia che «sta finendo» il libro. Il 27 marzo, ancora:
«Sto finendo e rivedendo il libro sulla guerra». Il 25 aprile scrive a Carlo da An-
nemasse, un paesino francese vicino al confine con la Svizzera, dove si è fermato
in un albergo per terminare il volume: «Lavoro 8-9 ore al giorno e la salute resiste
magnificamente». Poiché scrive di voler andare in maggio in Spagna, come aveva
del resto anticipato, è evidente che il libro sta davvero per essere terminato. A fi-
ne maggio, pare, lo invia a Salvemini a Londra.
Dalle lettere a Carlo si desume inequivocabilmente un certo fastidio di Lussu
per il libro che si è accinto a scrivere; una prova è data dal fatto che lo accantona
dedicandosi a materia più urgente (Teoria dell’insurrezione); lo considera non ne-
cessario, quasi una perdita di tempo, e dichiara che «mai mi lascierò più sedurre
a scrivere cose extrapolitiche, tanto queste sono ora estranee e aliene al mio spiri-
to» (27 marzo 1937). Il seduttore era stato, come un input che veniva da lontano,
Salvemini, ma occorre pensare anche al bisogno di danaro di Lussu. Il 5 giugno
del ’36, sempre a Carlo, aveva scritto che Un anno sull’Altipiano gli era «necessa-
rio per fare un po’ di denaro», il 9 febbraio successivo precisa che lo sta finendo
«per pagare i debiti » (e Carlo – che come si è detto lo stava aiutando – doveva ca-
pire bene), finché il 27 marzo confida di temere l’insuccesso editoriale, che inve-
ce non ci sarà.
Passiamo all’altro carteggio di questo piccolo coro a tre voci. Le lettere scam-
biate fra Salvemini e Carlo Rosselli utili per la storia di Un anno sull’Altipiano co-
prono l’arco febbraio 1936 – febbraio ’37; il carteggio era comunque destinato a
interrompersi nel luglio dello stesso ’37 per l’assassinio di Carlo. Le preoccupa-
zioni di quest’ultimo e di Salvemini riguardo a Lussu hanno una triplice origine:
la sua salute, le condizioni economiche e le posizioni politiche. Da questo conte-
sto si ricavano osservazioni e notizie che riguardano il libro sulla grande guerra.
Intanto si è già detto che i due corrispondenti si dànno da fare per aiutare l’amico
ammalato, mentre sono molto nette, e vissute in modo preoccupante, le differen-
ze politiche. Il 29 febbraio 1936 Carlo scrive da Cannes a Salvemini, che è a Cam-
bridge (Massachusetts):
Lussu promette nuove difficoltà per il Convegno [quello di «Giustizia e Libertà»]; sva-
luta tutto ciò che facciamo; voleva e forse vorrebbe un accordo massimalisti -schiavetti-
sti - «Giustizia e Libertà» per lanciare il vero socialismo […]. Solamente sbaglia se cre-
Al che Salvemini risponde: «vedo dalla tua lettera che Lussu continua a «teo-
rizzare». Beato lui!» Nel linguaggio politico di questi fuorusciti «teorizzare» era
un’accusa non di poco conto perché, quando si trattava di valutare una situazione
complessa e densa di fatti nuovi (l’attuale crisi di «Giustizia e Libertà», i rapporti
con gruppi e partiti degli altri fuorusciti, la vittoria militare di Mussolini in Abis-
sinia, il pericolo di un fascismo esteso ad altri paesi dell’Europa in un futuro pros-
simo venturo) e di prendere decisioni politicamente corrette, cioè concrete, prati-
che, il «teorizzare» significava restare tagliato fuori dagli eventi senza capirli,
astrattezza: del resto la «teoria» era un rischio sempre presente in chi non poteva
disporre di un quadro aggiornato e completo della situazione. L’accusa di Salve-
mini a Lussu è perciò quella di astrattezza, ed è un’accusa seria. Del resto lui stes-
so si era difeso puntigliosamente (un indizio in più della paura dell’astrattezza) da
un’accusa simile che gli aveva mosso Rosselli, il quale il 29 febbraio dello stesso
anno gli aveva scritto: «La vera differenza tra noi e voi sta in ciò: che noi ci rifiu-
tiamo a teorizzare una eventualità di cui per ora mancano anche i più minimi [sic]
segni premonitori»; e Salvemini gli aveva risposto piuttosto piccato articolando le
proprie ragioni. Quanto a Lussu, nella lettera del 12 maggio 1936 Rosselli sembra
condividere la stessa accusa di Salvemini quando gli scrive: «Per lui [Lussu] la
guerra [d’Africa] è passata come acqua fresca e continua a parlare esattamente
come prima». Fra Rosselli e Salvemini però la valutazione dell’astrattezza di Lus-
su era di intensità e forma diverse: il secondo non attribuiva a Lussu solo l’inca-
pacità di vedere chiaramente quel particolare momento politico negativo teoriz-
zandone correttamente l’uscita, ma in generale sembra di capire che per lui Lussu
fosse incapace di teorizzare alcunché. Scrive a Carlo il 15 maggio 1936: «Ora egli
dovrebbe lavorare alle sue memorie di guerra. Ma temo continuerà a voler fare il
pensatore politico. Lo zoppo vuol ballare, il sordo vuol cantare, etc. »; e circa un
mese dopo rincara la dose a proposito del brano su Blanqui estratto da Teoria
dell’insurrezione e uscito come anticipazione su «Giustizia e Libertà»: « Ho letto
la filastrocca di Lussu su Blanqui. Tutta roba per aria. Del resto, tutto, oramai, è
roba per aria… fino al prossimo patatrac universale, cioè ancora per un anno o
due anni» (20 giugno, da Londra).
Molto più interessanti per il nostro assunto le lettere inedite e sconosciute di
Lussu a Salvemini, ricchissime come si è detto di informazioni. Se lette con quel-
le a Carlo Rosselli, ci fanno assistere alla gestazione faticosa del libro, alle resi-
stenze di varia natura di Lussu, al suo timore di non riuscire a scriverlo, a quello
di un insuccesso. E contemporaneamente, mentre le riserve si sciolgono, alla fati-
ca della stesura a causa della malattia e dell’interesse per altri argomenti che già
conosciamo. Ma andiamo con ordine. Prima di tutto si ha una conferma a quanto
Lussu dirà nella prefazione all’edizione del 1960: « non avrei mai scritto il libro,
senza le insistenze di Salvemini. Fin dal 1921, in seguito alle rievocazioni che as-
sieme facevamo della guerra, egli mi aveva chiesto di scrivere un libro: «il libro»,
diceva nelle sue lettere. Nell’esilio «il libro» era diventato una specie di cambiale
che io dovevo pagargli»5. Infatti in una lettera6 dell’8 agosto 1935 Lussu gli scri-
veva: «Le difficoltà in cui mi trovo mi hanno fatto ripensare all’arcifamosissimo li-
bro sulla guerra di cui tu mi parli ad anni intercalati». La sollecitazione salvemi-
niana che spinse Lussu finalmente a dedicarvisi risale senz’altro alla tarda prima-
vera di quell’anno, se in una lettera del 15 giugno egli scrive: «Per l’idea su un li-
bro sulla guerra ho molti dubbi: proprio molti. Altrimenti avrei già tentato». E
adduce, come argomenti contrari alla stesura, il proprio stato di salute («non pos-
so lavorare più di 2 ore al giorno, 3 al massimo, quando sto bene») e, cosa per noi
ancor più interessante, l’inutilizzabilità pratica di un simile libro. Scrive infatti che
forse non troverebbe un editore e, una volta stampato, dei lettori, «Perché ho
l’impressione che, proprio ora in cui sovrasta seriamente un pericolo di guerra, i
libri sulla guerra hanno cessato di avere l’accoglienza d’un tempo. Le opinioni
pro o contro la guerra sono già formate né possono essere modificate dai libri».
Già sapevamo che proprio questa «impoliticità» del libro distoglieva Lussu
dall’applicarvisi e in seguito sarà la causa del suo procedere nella stesura senza en-
tusiasmo; ora si apprende che sarà decisivo un sondaggio presso altri amici. «Ho
voluto chiedere l’opinione, – scriverà l’8 agosto, – di amici vari residenti in diffe-
renti paesi. Mi è venuto un incoraggiamento generale e l’assicurazione della tra-
duzione in parecchie lingue. Il che mi dà già la certezza che non lavorerò a vuoto.
Io dunque scriverò il libro ».
Lussu ha combattuto la prima guerra mondiale per tutta la sua durata (tre an-
ni e mezzo) ma Un anno sull’Altipiano racconta soltanto le vicende che lo videro
impegnato sull’Altipiano d’Asiago (giugno 1916 - luglio 1917). L’intenzione di li-
mitarsi a questo segmento di guerra è chiara fin dall’inizio. Dopo aver chiesto a
Salvemini (lo stesso 8 agosto) se ha idee da proporgli (cosa che ripete anche in al-
5 Cito dalla ristampa einaudiana di E. LUSSU, Un anno sull’Altipiano, Torino 1994, p. 7. Data la brevità della pre-
messa d’ora in avanti ne citerò frammenti senza indicare la pagina. Per quanto concerne le altre citazioni tratte da que-
st’edizione, se ne indicheranno d’ora in poi tra parentesi nel testo solo il numero di capitolo e di pagina.
6 Pur con qualche incertezza preferisco leggere sull’autografo 8 anziché 9. Esiste comunque una lettera di Lussu
lerati. Tutto questo riconfermava ai loro occhi la natura europea del loro movi-
mento; e ciò, oltre alla povertà di Lussu, spiega la strategia editoriale (piano di
traduzioni, propaganda, diffusione, ecc.) concernente Marcia su Roma e dintorni
e Un anno sull’Altipiano; e spiega la vicenda della breve prefazione a questo testo
di cui la corrispondenza ci informa ma senza entrare nei dettagli.
Il 25 agosto 1937 Lussu scrive: «Per la correzione in senso europeo della pre-
fazione ad evitare la diffamazione italiana, sono d’accordo. La cambierò così come
tu dici per tutte le edizioni». Il mutamento, suggerito da Salvemini e accettato su-
bito da Lussu, sembra essere stato definitivo perché nulla nella prefazione, qua-
lunque punto di vista politico si adotti, è interpretabile come diffamatorio nei
confronti dell’Italia. Ma in una lettera del 1° dicembre dello stesso anno si legge:
«La tua proposta [circa il cap. XXV] mi fa venire invece il dubbio se la correzio-
ne che tu mi hai fatto portare all’introduzione sia opportuna. Cioè, è opportuno
dire che la guerra è stata fatta in tutti gli eserciti allo stesso modo con cui è stata
fatta in Italia? O non è più opportuno lasciare l’introduzione com’era prima?»
Evidentemente nella prima stesura della prefazione si doveva leggere una puntata
contro il modo con cui la guerra era stata condotta dall’Italia; e ovviamente Lus-
su si riferiva non certo ai soldati, ma allo stato maggiore e agli ufficiali superiori.
Questo doveva essere parso «diffamatorio» a Salvemini, che ne suggerì la corre-
zione nel senso che Lussu dichiara ora di non voler più accettare. E infatti nella
prefazione non si legge nulla in proposito, né secondo la tesi di Salvemini né se-
condo quella di Lussu. Ciò significa che entrambi rinunciarono a che la prefazio-
ne esprimesse i loro punti di vista.
Abbiamo già visto dall’epistolario di Carlo Rosselli con Salvemini che que-
st’ultimo non riteneva che Lussu avesse delle capacità teoriche. Inoltre dalla pre-
fazione all’edizione di Un anno sull’Altipiano del 1960 risulta che Lussu, poco
prima di scrivere il libro sulla guerra, colpito dallo studio di Federico Chabod sul
Principe del Machiavelli, aveva parlato a Salvemini della sua intenzione di dedi-
carsi anche lui a questo argomento; e continua: «la nostra amicizia rischiò seria-
mente di cadere in crisi. Era «il libro» che egli mi reclamava, non già divagazioni
sul segretario fiorentino». Insomma, Salvemini non amava il Lussu teorico (la
parte che aveva letto come anticipo di Teoria dell’insurrezione gli era sembrata
«roba per aria», cioè «campata in aria» e anche forse «un po’ strampalata») e te-
meva il Lussu storico. Questo è evidente anche dalle opere che Lussu progetterà
di scrivere dopo Un anno sull’Altipiano, e dai consigli che invece Salvemini gli da-
va; ma anche è evidente a proposito di Un anno sull’Altipiano, perché in una let-
tera del 18 agosto 1935 Lussu gli scrive: «Per il libro sulla guerra, evidentemente,
io non mi sono spiegato. Non intendo affatto scrivere un libro di storia. Esso sarà,
press’a poco come La Marcia su Roma, un libro di ricordi personali e di guerra
vissuta. Un documento umano, non già una monografia da Stato Maggiore».
In queste lettere, non numerose e tuttavia molto dense, si leggono anche no-
tizie su questioni puntuali non secondarie come le seguenti.
a) Il titolo. Abbiamo visto che l’intenzione di limitare la narrazione al solo an-
no di guerra passato sull’altipiano di Asiago è documentata da una lettera
dell’8 agosto 1935; la lettera invece in cui si legge che il titolo è proprio Un
anno sull’Altipiano è del 14 agosto1937, a libro finito e già inviato da circa
tre mesi a Salvemini. Proprio quest’ultimo dovette sollevare la questione
del titolo, se il 25 agosto Lussu gli scriveva: «Per il titolo del libro credo an-
ch’io che sarà bene consultare a suo tempo l’editore. «Feritoia n. 14» forse
andrebbe bene per l’America ma non certo per l’Inghilterra. «I miei gene-
rali» mi pare sia da scartare». Dove è evidente che almeno il secondo dei
due titoli nuovi era stato proposto da Salvemini, e che comunque i due
amici cercavano un titolo in vista della traduzione inglese del volume, for-
se considerando eccessivamente «locale» (in questo caso, «italiano») il ti-
tolo primitivo. E infatti nell’edizione americana tradotta dalla Rawson il li-
bro si chiamerà Sardinian Brigade. Questa ricerca dei titoli è comunque il-
luminante non solo dell’intelligenza editoriale dei due amici, ma anche del
senso che entrambi attribuivano al libro cercando la formula adatta per
sintetizzarlo. Se Lussu scarta subito «I miei generali» è perché l’idea di fo-
calizzare gli alti comandi come se il libro fosse su di loro dovette sembrar-
gli limitativa. A questo punto si affaccia il problema di quale doveva esse-
re, secondo Lussu, lo scopo dei libro e quale il contenuto, la tesi, la de-
nuncia. Tutti, critici e recensori, insistono sul libro-denuncia contro gli alti
gradi; ma la cosa non è così, o almeno non è soltanto così, come ormai è
evidente e vedremo meglio presto.
b) Il capitolo xxv. Salvemini, forse convinto da Franco Venturi, invitò Lussu
a espungere dal volume il capitolo xxv, molto citato dagli studiosi, sulla
riunione in cui gli ufficiali esprimono i loro pareri sulla guerra. Il capitolo
naturalmente rimane, e in una lettera del 1° dicembre 1937 Lussu ne di-
fende la funzione ideologica, essenziale nel suo libro, e quella strutturale.
La lettera è talmente importante che la riprodurremo ampiamente un po’
più avanti.
In base alle notizie che abbiamo riportato, è probabile che Lussu non avreb-
traduzioni, dai suoi sondaggi con gli editori di cui ancora il carteggio con Salve-
mini ci parla, da quanto ci documenta quello Salvemini - Carlo Rosselli sull’atti-
vità promozionale del primo a favore di Marcia su Roma e dintorni, dai personag-
gi citati da Lussu come lettori del manoscritto o del libro appena uscito (nomi che
rimandano senz’altro ad altri nomi) – certamente era reale e intensa. Comunisti e
giellisti (e perché non anche i socialisti?) nonostante le loro profonde divergenze
non potevano non trovarsi concordi, se non al cento per cento, intorno al libro di
Lussu. «Giustizia e Libertà » sul numero del 6 maggio 1938 ne riproduceva un
brano dal capitolo XXIV col titolo Abbasso la guerra. Sul numero del 20 maggio,
Silvio Trentin gli dedicava una lunga recensione; Velio Spano l’aveva preceduto
(15 maggio) sulla rivista comunista «Lo Stato operaio». E sul numero del 25 ago-
sto del 1939 «Giustizia e Libertà » ancora parlava del libro, anzi: di Sardinian Bri-
gade, in occasione della sua edizione in lingua inglese.
La prima edizione italiana dei volume è quella einaudiana nei «Saggi» (1945),
poco dopo l’uscita del fortunato Marcia su Roma e dintorni: i due libri continua-
no a camminare insieme, editorialmente parlando, e tutto sommato – per quanto
diversi – sono rimasti uniti anche nella memoria dei lettori. Entrambi ebbero una
tiratura di 3000 copie, ma mentre Marcia su Roma al 30 giugno 1948 ne ha già
vendute un migliaio di una ristampa di identica tiratura, Un anno sull’Altipiano
alla stessa data ha venduto circa la metà dell’unica edizione, e la tiratura viene
smaltita gradualmente nel tempo (al 31 dicembre 1958 restano ancora 583 copie
invendute). Tuttavia Einaudi ristampa il volume nel 1960, ancora nei «Saggi», con
una breve prefazione dello stesso Lussu. Questa nuova edizione, di 2000 copie, va
un po’ meglio ed è quasi esaurita alla fine del 1963: a questa data si è andata len-
tamente esaurendo anche la prima edizione, cosicché il 4 giugno 1964, su propo-
sta di Roberto Cerati, Einaudi scrive a Lussu di voler ripubblicare il libro «Ma
[...] non più nei «Saggi» come già nel ’45 e nel ’6o, ma nei «Coralli», in quel filo-
ne di libri sulla guerra e la Resistenza che abbraccia Il sergente nella neve di Rigo-
ni Stern, Se questo è un uomo di Primo Levi, e presto comprenderà una nuova edi-
zione del Sentiero dei nidi di ragno di Calvino, e dei Lunghi fucili di Cristoforo
Negri»9 . Il documento che ho potuto consultare relativamente alla tiratura del
volume si riferisce ad una proposta della Casa editrice per 10000 copie, e in realtà
ne furono messe in vendita circa 17000. L’edizione si esaurirà entro il 1970, e ne
sarà tirata un’altra di 4000 copie che andrà esaurita quasi subito e quindi un’altra
9 Questa lettera e le altre citate qui di seguito sono conservate presso l’Archivio della Casa editrice Einaudi. Rin-
grazio Angela Pecchio della Casa editrice Einaudi; Luisa Maria Plaisant dell’Istituto Sardo per la Storia della Resi-
stenza e dell’Autonomia (Cagliari); Giovanni Verni dell’Istituto Storico per la Resistenza in Toscana (Firenze), che mi
hanno aiutato nella ricerca del materiale inedito o disperso.
di 6000, sempre nello stesso anno. Un anno dopo (1965) l’editore propone a Lus-
su di stampare il volume nella collana «Lsm» («Letture per la scuola media»). La
reazione di Lussu è piuttosto interessante perché egli dichiara di considerare il te-
sto come assolutamente inadatto a ragazzi così giovani. Il 14 settembre 1965 scri-
ve infatti a Einaudi: «Questo libro sulla guerra, per i ragazzi di 10-11 anni! Ricor-
do che la signora Marion Rosselli, la moglie di Carlo, ebbe a dirmi che, dopo aver
letto l’assalto preceduto dai guastatori, pianse a lungo ed ebbe in seguito una cri-
si nervosa... Se questi ragazzi si rovineranno la salute, la responsabilità sarà stata
tua, solamente tua: io non ci voglio entrare». Ma se Lussu non demorderà, l’edi-
tore neppure. Nascono però altri problemi: il primo, che viene superato con faci-
lità, è relativo agli apparati: anziché all’autore, Einaudi ricorrerà per le note all’e-
sperienza di Daniele Ponchiroli (Lussu verrà consultato solo per alcuni chiari-
menti puntuali). L’altro è costituito dalla nuova prefazione (sarebbe stata la terza
allo stesso libro) che l’editore gli chiede; e qui si verifica un tiramolla che manda
un po’ in lungo le cose. Lussu, non ben disposto per la stampa in questa collana,
si rifiuta, ma accetta che la faccia un altro. L’editore propone di premettervi la re-
censione, naturalmente rivista, di Mario Rigoni Stern, che però non piace a Lus-
su, il quale ritorna alla sua vecchia proposta di premettere al testo una breve bio-
grafia dell’autore, che però vorrebbe fosse scritta redazionalmente, e in più pro-
pone l’aggiunta di una scelta di giudizi critici sulla propria attività di scrittore;
proposte sgradite alla redazione che considera inopportuno il florilegio ed esige
da Lussu la biografia. Al testo è effettivamente premessa una breve biografia ano-
nima che, nonostante io non abbia trovato documentazione certa, attribuirei
senz’altro allo stesso autore. Il libro finalmente esce nel 1966 e ne vengono tirate
due edizioni per 20000 copie di cui sono smaltite 12000 il 2 novembre (cioè ad
anno scolastico appena iniziato). Nel 1968, come segno della popolarità del libro,
Mondadori – visto il successo di Marcia su Roma negli «Oscar» – chiede a Ei-
naudi di affiancargli Un anno sull’Altipiano: la tiratura prevista in prima edizione
è di 22000 copie. Le ristampe einaudiane sono continue e nel 1983 si farà la sedi-
cesima tiratura in questa stessa collana scolastica. Per il cosiddetto effetto di tra-
scinamento dell’autore, un suo testo ne attrae un altro, e nella stessa collana sco-
lastica uscirà nel 1974 Marcia su Roma e dintorni e ancora, due anni più tardi,
verrà confezionato un libro di per sé inesistente perché troppo composito (tra
racconti e saggi) col titolo Il cinghiale del Diavolo e altri scritti sulla Sardegna. Per
concludere su Un anno sull’Altipiano: se ne continuerà la stampa anche nei
«Nuovi Coralli»(la quarta edizione è del 1981).
3. Tematiche e contenuti.
Quando Lussu si mise poco convinto a scrivere Un anno sull’Altipiano era, come
si è visto, tutto preso da questioni politiche che lo interessavano assai di più; ma,
impedito di dedicarsi fisicamente alla politica attiva, cercava di chiarire a se stes-
so e agli altri, con scritti teorici, la difficoltà del momento. Vediamo brevemente.
Alla crisi della Concentrazione antifascista aveva reagito dando le dimissioni dal
comitato centrale di «Giustizia e Libertà » con una lettera pubblicata sul periodi-
co del movimento il 1° marzo del 1935 (La situazione italiana e l’antifascismo) ma
scritta un paio di mesi prima. Con questo gesto metteva in evidenza le differenti
anime di quel movimento e anche la sua distanza da Rosselli. Il loro punto di par-
tenza era sostanzialmente comune: il fascismo ha vinto, si è espanso anche in Eu-
ropa e quindi occorre trovare una risposta adeguata superando i vecchi schiera-
menti. Lussu punta ad un’unione di «Giustizia e Libertà» con altri gruppi della
Sinistra, ad una loro intesa organica coi socialisti per acquisire una base di massa
in modo da poter trattare coi comunisti. Vuole comunque che «Giustizia e Li-
bertà» diventi una forza operaia e socialista, per un «antifascismo rivoluzionario e
positivo»; il fine dovrà essere la rivoluzione socialista proletaria, diretta quindi dal
proletariato il quale rappresenta anche gli intellettuali che sono «idealmente»
proletari. È quindi necessario, per lui, che «Giustizia e Libertà» si dia un’ideolo-
gia classista socialista per creare il movimento rivoluzionario italiano. Lussu pen-
sa dunque ad un partito unico in Italia e all’estero, partito che doveva organizza-
re tutte le forze socialiste (e per un futuro non lontano riteneva che si dovesse
puntare ad un grande partito proletario europeo che comprendesse anche i co-
munisti), che mirasse alla rivoluzione e si strutturasse, in Italia, con un braccio ar-
mato, arruolando giovani sui tipo dello Schutzbund austriaco. In queste posizio-
ni, che ho espresso un po’ frettolosamente, è molto evidente l’istanza volontaristi-
ca, attivistica e rivoluzionaria di Lussu, la quale è da leggersi di contro a posizioni
di altri militanti o simpatizzanti giellisti che sono invece molto più moderate (Al-
berto Tarchiani, ad esempio, e lo stesso Salvemini). In sostanza, le due anime si ri-
velano come quella liberale e quella socialista, ma rivoluzionaria.
Se queste sono le prospettive politiche che Lussu si dà fin dai primi del 1935,
le prospettive ideologiche appaiono concentrate nella Teoria dell’insurrezione che
egli invia a Rosselli nel febbraio 1936: era il libro al quale come sappiamo aveva
sacrificato per un certo tempo la stesura di Un anno sull’Altipiano, vi teneva mol-
tissimo e lo considerava importantissimo. Teoria dell’insurrezione studia la fase
prima della rivoluzione, cioè il suo momento esplosivo. Fin dal titolo è un libro
10 E.
LUSSU, Teoria dell’ insurrezione (1936), Milano 1969, p. 14.
11
Ibid.
12 Ibid., p. 11
ne annessa molta importanza alla varietà degli ambienti fisico-antropici in cui l’in-
surrezione deve maturare, e al mondo rurale come soggetto sociale delle rivolte.
Scrive Lussu: «I contadini poveri sono sempre alla testa di tutte le sommosse e
danno alla guerra civile un carattere di estrema decisione»13. Ebbene, non è diffi-
cile vedere in ciò dei riferimenti alla Sardegna e ai suoi abitanti, ai quali egli allu-
de in parte, e direi inconsciamente, quando scrive a Carlo Rosselli il 14 febbraio
1936 di aver fatto confluire in questo libro la sua «documentazione tecnica» e la
sua «esperienza personale»14. E certamente rimanda a una riflessione sulla prima
guerra mondiale il seguente passo: «Nella guerra civile come nella guerra classica,
il compito dei capi è quello di condurre la massa alla vittoria non ad una catastro-
fe gloriosa»15. L’accostamento guerra civile - guerra classica è sintomatico; inoltre
la stupidità dei comandanti è, come si vede, uno dei bersagli polemici antichi di
Lussu ma anche un tema essenziale in Un anno sull’Altipiano, nel quale pure è
fondamentale il rapporto di segno opposto, quello di rispetto e affetto fra ufficia-
li e soldati che Lussu poteva ritrovare ancora nella «sua esperienza personale» al
fronte e nel suo apporto alle origini del Partito sardo d’Azione. Insomma, per vie
traverse, da fuori campo, quelle esperienze passate si fanno indubbiamente senti-
re. Quanto? Riprenderemo il problema più avanti.
Esiste una linea interpretativa della figura di Lussu e dei suoi scritti forte-
mente orientata a dare un peso notevole alle sue origini sarde. La cosa non è del
tutto campata in aria, ma semmai il problema critico è quello di trovare la giusta
misura nel valutare il peso delle sue origini isolane nelle opere. Simonetta Salve-
stroni più di altri ha insistito nel leggere Un anno sull’Altipiano accanto alle pa-
gine sarde, soprattutto quelle del racconto Il cinghiale del Diavolo16; più cauto
Manlio Brigaglia, che non propone una lettura «sarda» di questo testo. L’ipotesi
della Salvestroni è tanto più impegnativa quanto Un anno sull’Altipiano è parso
generalmente il libro più eccentrico di Lussu, diverso da tutti gli altri, quello im-
politico, tanto per usare una definizione riassuntiva degli stessi giudizi di Lussu.
Eccentrico, ma tanto da non essere anch’esso un libro «sardo»?
Al di là dell’aggettivo, che è ambiguo, credo che il materiale a disposizione
per sostenere questa ipotesi sia ampio ma che funzioni relativamente all’angolo
13 Ibid.,p. 88.
14 ID.,
Lettere a Carlo Rosselli cit., p. 147.
15 Cfr. ID., Scelta del momento e iniziativa militare, in «Giustizia e Libertà», n. 11 (1934).
16 Cfr. S. SALVESTRONI, Emilio Lussu scrittore, Firenze 1974, soprattutto le pp. 83-87. Il cinghiale del Diavolo è
stato edito per la prima volta da Lerici, Roma 1968; e successivamente, con altri scritti d’argomento sardo, uscirà a cu-
ra della stessa Salvestroni, presso Einaudi, nel 1976.
19 Cfr. M. PIRA, Lussu sardo, in AA.VV, Emilio Lussu e la cultura popolare della Sardegna. Convegno di Studio (Nuo-
In tanti anni d’esilio, io non sognavo neppure la mia casa, non mio padre, non mia
madre, la sola vivente nella famiglia, alla quale pure scrivevo poche righe ogni giorno,
sempre, da qualunque città in cui mi trovassi. Io stesso non saprei spiegarmi le ragioni
di queste lacune nei miei sogni frequenti. Eppure in sogno rivedevo tante volte piazza
di Spagna e le azalee della scalinata di Trinità dei Monti, e il Palazzo Farnese, con le
fontane che gli stanno di fronte. E mai ho rivisto in sogno, sull’altipiano di fronte al mio
villaggio, le distese verdi dei cisti fioriti in bianco, intramezzati da cespugli blu, con-
templati dall’alto, a cavallo, in primavera21.
Ma il Pira ricorda che Lussu dice di aver scritto tutti i giorni, dovunque si tro-
vasse, alla madre, rimasta ovviamente a casa, e aggiunge: «Non stupisce che egli
non sognasse la Sardegna»22. Quanto al brano citato mi viene il sospetto che quel-
la designazione un po’ generica nel titolo scelto da Lussu (Un anno sull’Altipia-
no), così inattesa per il lettore, così poco guerresca in un libro invece tragico e
cruento, così poco caratterizzante storicamente e geograficamente: «sull’Altipia-
no», non sia invece scaturita con facilità, come da ricordo di cosa familiare, abi-
tuale, da quell’altipiano «di fronte al mio villaggio» che qui sopra si ricorda. L’e-
ditore inglese – certamente non la traduttrice Marion Rawson, ma si può sospet-
tare lo stesso Salvemini d’accordo con l’autore – pensò bene di rendere accettabi-
le il titolo a un pubblico che come lui non aveva particolare affetto verso altipiani
e simili, e intitolò il volume didascalicamente Sardinian Brigade.
Se il contenuto sardo può essere individuato in ciò che abbiamo indicato, il
problema critico è comunque costituito dalla valutazione dinamica del testo, cioè
dallo studio dei vari elementi che vi interagiscono: quelli sardi coabitano con altri,
sono profondi, ma comunque non sono che una parte di un insieme complesso.
Indicarli è corretto e necessario, ma non sono certo tali da dover essere eletti co-
me assolutamente caratterizzanti rispetto ad altri. Ne accenneremo ancora nelle
pagine sulla fortuna critica dell’opera.
21
ID., Il cinghiale del Diavolo cit., pp. 8-9.
22
M. PIRA, Lussu sardo cit., p. 49.
25
M. ISNENGHI, Emilio Lussu, in «Belfagor», XXI (1966), 3, pp. 300-23 (la citazione è alle pp. 320-21).
26 ID., Il mito della grande guerra (1970), Bari 1973, pp. 196-97.
27 Cfr. G. FIORI, Il cavaliere dei Rossomori cit.
28 M. BRIGAGLIA, Emilio Lussu e «Giustizia e Libertà» cit., p. 202.
29 Ibid., p. 204.
30 S. SALVESTRONI, Emilio Lussu scrittore cit., p. 79.
31 Ibid., p.103.
della corrispondenza di Lussu con Salvemini che già conosciamo un po’. Richia-
miamo la lettera dell’8 agosto 1935, nel passo in cui Lussu progetta di scrivere
«un libro che sia limitato ad una zona d’operazione o a un gruppo d’azioni». In
essa è evidente che Lussu puntava a offrire al lettore dei casi esemplari, direi indi-
pendentemente dalla loro contiguità o meno: «azioni» evidentemente rap-
presentative della natura della guerra. Quindi se Lussu scrive sulla sua esperienza
nell’altipiano di Asiago, è perché lì si verificarono senza soluzione di continuità
una serie di «azioni» il cui racconto poteva dare il senso della guerra; la risposta di
Brigaglia al quesito costituito dalla scelta di raccontare un segmento dell’intera
guerra è evidentemente la più vicina alle intenzioni di Lussu, che nella lettera del
18 agosto dice di aver visto sull’altipiano tante cose «più che sufficienti a dare un
quadro completo della guerra italiana».
Ma nella scelta di Lussu c’è anche un’intenzione di natura involontariamente
narratologica; la si nota nel passo in cui egli attribuisce alla scelta medesima la
possibilità di «dare al lettore l’impressione esatta del fenomeno durata immensa
della guerra, che è stato l’incubo più tragico per tutti i combattenti». Come se of-
frire un segmento intermedio dei combattimenti costringesse il lettore a pro-
lungare avanti e indietro nel tempo, quasi all’infinito, la loro crudeltà e insensa-
tezza.
Veniamo ora al famoso capitolo XXV, il capitolo politico, considerato da al-
cuni come il meno bello, il più arretrato ideologicamente e comunque il più pro-
grammato dell’intera opera. Nel 1971, in polemica con Mario Isnenghi, Lussu
scrisse32 che Salvemini e Venturi gli consigliarono di sopprimerlo. Affermazione
che risulta confermata dall’importante lettera scritta da Lussu il 1° dicembre
1937, poco prima che il libro fosse edito. Per la verità Venturi, allora giovane stu-
dioso di storia, motivava il suo suggerimento con ragioni esclusivamente narrati-
ve: il capitolo spezzava la continuità del racconto. Ma nella lettera Lussu scrive:
«quella critica non mi convince molto. Come supporre infatti che, dopo un am-
mutinamento dei reparti, gli ufficiali non ne discutessero [?] Come supporre che
gli ufficiali non parlassero di politica? Noi ne parlavamo invece, e ab-
bondantemente».
L’obiezione di Salvemini era invece di natura politica, poiché gli sembrava (si
deduce dalla risposta di Lussu) che prevalessero nel capitolo le tesi «sovversive»
del tenente Ottolenghi, il quale vi parla dell’impossibilità di sottrarsi alla guerra,
della giustizia che dovrebbe essere fatta sparando sui comandanti, e della guerra
come «inutile strage». Gli risponde il comandante della X Compagnia, cioè Lus-
32
E. LUSSO, L’influsso di Salvemini e la bussola classista, in «Belfagor», XXVI (1975), 5 pp. 606-7.
su stesso: «E la tua rivoluzione non è anch’essa una strage? Non è anch’essa una
guerra, la guerra civile? [...] non sono tutt’uno?» (p. 180). E Ottolenghi: «No,
non sono tutt’uno. Nella rivoluzione, io vedo il progresso del popolo e di tutti gli
oppressi. Nella guerra, non v’è niente altro che strage inutile» (ibid.). La cosa in-
teressante è che Lussu aveva da poco scritto Teoria dell’insurrezione e proclamava
la necessità che gli antifascisti si organizzassero per suscitare un moto rivoluzio-
nario, ovviamente armato. In un certo senso pensava in modo non molto dissimi-
le da Ottolenghi, e se Salvemini non aveva capito che le sue posizioni sulla guerra
erano espresse dal comandante della X Compagnia, sarà stato anche perché co-
nosceva quelle attuali (1937) di Lussu. Il quale gli dichiarava la necessità del fa-
moso capitolo XXV in questo modo (la citazione sarà lunga, ma il documento – la
più volte citata lettera del 1° dicembre 1937 – è sconosciuto e importante):
Io credo che, per un ex combattente, quel capitolo non sia superfluo. Tu, a pag. 9
del tuo libretto inglese su Nello e Carlo Rosselli ti soffermi su questa questione così im-
portante per chi ha fatto la guerra. «Abbiam fatto una sciocchezza a farla o abbiam fat-
to bene? Ci siam battuti per una causa giusta o per un falso ideale?» Quel capitolo del
mio libro vuoi mettere la mia coscienza in pace. In quella conversazione fra ufficiali, il
comandante della Xa, cioè io, sostiene che, malgrado tutto, la guerra bisognava farla. Io
l’ho fatta con la coscienza di difendere una posizione di libertà e di democrazia in Eu-
ropa. Ho, a casa in Italia, una pergamena della mia madrina di guerra, con sopra scritto
«Giustizia e Libertà». Essa conosceva il movente ideale del mio interventismo. Ed è per
questo che io l’ho fatta fino all’ultimo, per quanto l’osceno modo con cui la guerra ve-
niva condotta, mi spingesse a scappare.
Nella conversazione fra ufficiali, non mi pare proprio che la tesi di Ottolenghi sia
quella che trionfi. La sua opinione non è condivisa da nessun ufficiale, ed egli stesso
d’altronde, fa la guerra valorosamente, malgrado la sua posizione sovversiva. Il sugo di
quella conversazione, a mio parere, non è fornito dalla tesi di Ottolenghi ma dalla frase
del comandante della Xa: «Che sarebbe la civiltà del nostro paese e la stessa civiltà del
mondo, se la violenza di un pugno di briganti potesse scatenarsi impunemente, senza
ostacoli e senza resistenza?» Così, o press’a poco, perché io non ho qui presente il testo.
I briganti, secondo la mia mentalità d’allora, erano i tedeschi, oggi sono i fascisti te-
deschi e italiani ecc. Sicché la morale attuale che scaturisce da quella conversazione è
che, se i fascisti scatenano una guerra, bisogna battersi contro: e si debbono battere an-
che i rivoluzionari, i socialisti, i comunisti ecc.
Io ho l’impressione che quel capitolo, che tu mi proponi di sopprimere, è il solo che
salvi la faccia del libro. Perché tutto il libro è la critica spietata alla guerra-carneficina
mostruosa. Quel capitolo dice: malgrado sia una carneficina mostruosa, bisogna farla,
altrimenti i briganti vincono.
Convincere Salvemini è per Lussu la prova generale della bontà delle proprie
mente Lusso lo lesse, e nelle edizioni di «Giustizia e Libertà» l’anno dopo. Cito da G. SALVEMINI, Opere, VIII.
Scritti vari (1900-1957), a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, Milano 1978, p. 674.
34 M. BRIGAGLIA, Emilio Lussu e «Giustizia e Libertà» cit., p. 201.
35 C. BELLIENI, Emilio Lussu, Cagliari 1924, p. 47.
fermazioni di Lussu nelle altre fonti militari sarde scritte, sia edite che inedite e
giacenti nell’Archivio storico dell’Esercito. Da quest’analisi comparata è possibile
cogliere fra l’altro la reticenza delle fonti, la sottovalutazione di alcuni aspetti del-
la guerra, l’esagerazione di alcuni fatti, le dichiarazioni assolutamente inattendibi-
li, e così via. Tanto per fare un solo esempio, quasi nessuno parla della diffusione
del cognac, e nessuno comunque della sua funzione devastante ma «necessaria»;
Lussu, invece, per dimostrare il modo «osceno» in cui fu condotta la guerra non
può trascurare questo elemento non secondario nella follia degli ufficiali e nella
capacità di tolleranza dei soldati. Pozzato e Nicolli controllano le sue affermazio-
ni capitolo per capitolo, e segnalano le discrepanze con gli altri autori ma anche le
incongruenze di Lussu nei confronti di quella che in senso generale si può defini-
re la realtà militare del momento. In alcuni capitoli più che in altri queste discre-
panze sono più evidenti, sia quantitativamente che qualitativamente. C’è però una
tendenza generale in Un anno sull’Altipiano, che è quella di addurre argomenti
per dimostrare il comportamento «osceno» dei comandi militari. Così pare che il
tenente colonnello che nel capitolo III informa Lussu su Monte Fior dica delle
cose esagerate; pare inoltre che il cosiddetto «principio di quota» che Lussu di-
scute nel giugno del 1916 non potesse assolutamente essere messo in discussione
a quella data, precedente alla rotta di Caporetto. E ancora: quanto afferma il co-
lonnello Stringari (cioè: Stringa) sulle carenze di artiglieria e sulla distruzione del-
la IV Compagnia sembra non corrispondesse esattamente alla realtà. Oltre a que-
ste esagerazioni, prodotte evidentemente allo scopo che già conosciamo, sembra
certa nel testo l’esistenza di sovrapposizioni di fatti accaduti in tempi diversi. Per
questo si può pensare alla necessità di Lussu di caricare gli avvenimenti, di cui fu
partecipe nell’anno di Asiago, del senso morale di tutta la guerra; da qui la neces-
sità di condensare e aggregare quanto forse accadde in tempi e luoghi diversi. Per
finire, merita un cenno anche la decodificazione da parte dei due studiosi della
«trasformazione di nomi» operata intenzionalmente da Lussu. Sostanzialmente,
comunque, questa ricerca, che tocca problemi di congruenza e di attendibilità
storica di Un anno sull’Altipiano, non incide per nulla sul suo valore letterario.
4. Modelli e fonti.
chivio Storico dell’Esercito, p. 20). Traggo la citazione da P. POZZATO e G. NICOLLI, 1916-1917. Mito e antimito
cit.
39 J. LUSSU, L’olivastro e l’innesto, Cagliari 1982, p. 13.
Salvemini del 1921 e quelle con altri reduci democratici che non le canzoni di ge-
sta sarde. Piuttosto riterrei che si debba considerare attentamente la praticabilità
di altre strade, spostando l’attenzione su diversi testi e contesti. 1) Prima di tutto
sulla letteratura scritta intorno alle gesta della Brigata Sassari, fatta di testi che
continuarono ad essere pubblicati fin dentro gli anni Trenta, e che forse Lussu
lesse almeno fino alla sua detenzione. 2) In secondo luogo è da ritenere che l’er-
rore compiuto da tutti indistintamente gli studiosi di Un anno sull’Altipiano è l’a-
verlo considerato un libro italiano, mentre si tratta del libro di un fuoruscito ita-
liano, che è cosa profondamente diversa. Nel progetto di Lussu c’era la stesura di
un testo che documentasse la condotta italiana della guerra, che era un modo per
fare un libro sull’Italia, implicitamente tenendo presente che il pubblico cui egli
voleva riferirsi non solo non era esclusivamente italiano, ma anzi prima di tutto
straniero. 3) Inoltre, volendo Lussu scrivere un libro che allineasse l’Italia ad altri
paesi europei, si presume – anche al di là del fatto che questo è dichiarato nella
sua premessa – che i libri italiani sulla guerra gli sembrassero del tutto insuffi-
cienti di fronte a quegli eventi tragici. Né d’altra parte esistono in Un anno sul-
l’Altipiano rimandi espliciti o riferimenti impliciti a testi italiani. Chi ha fatto
un’indagine comparativa non ha potuto che sottolineare le differenze, oppure ha
esibito degli accostamenti tematici che non hanno un grande significato. In alcu-
ni dei testi migliori (Jahier, Stuparich) la lezione della prosa vociana è talmente
evidente e stucchevole che la loro distanza dal libro di Lussu appare abissale (il
Giornale di Gadda è edito tardissimo). Così dicasi dell’estetismo della prosa pur
notevole del Soffici di Kobilek, dell’illetterarietà di Rosai, della prosa giornalistica
di Monelli, di quella sconnessa di Frescura, di quella mossa per eccesso di vitali-
smo di Comisso. Quando non funzionano le categorie stilistiche, o stilistiche e
ideologiche insieme, emergono queste ultime: La ritirata del Friuli di Soffici è un
grande resoconto, ma il punto di vista dell’autore è troppo interno alle ragioni
della guerra; e se si deve ammettere che il testo con cui Un anno sull’Altipiano ha
una qualche affinità è forse La rivolta dei santi maledetti di Malaparte, allora è evi-
dente che il libro di Lussu è veramente unico.
Per quanto la pubblicistica italiana prosegua fin dentro gli anni Trenta, con
alcune ristampe e con novità, generando un flusso discontinuo ma comunque non
tale che il lettore del periodo fascista abbia potuto perder di vista la prima guerra
mondiale, tuttavia negli estremi anni Trenta, quando scrive Lussu, non è più det-
to che le cose fossero così; ma, appunto, in Italia. E scrivere un libro sulla guerra
«per caso», quando il paese ha già combattuto un’altra guerra ed è impegnato in
armi su un fronte diverso, e farlo uscire nel 1938 dimostra già, se non avessimo al-
tre conferme, l’estraneità dell’autore al contesto italiano. Del resto, per la stesura
di Un anno sull’Altipiano egli non chiede libri sull’argomento, ma semmai idee a
Salvemini e ad altri, affidandosi, come d’altra parte dichiara nella premessa, alla
memoria; e poi manda il manoscritto finito per eventuali consigli. Il risultato è
quello che si diceva: la totale estraneità di Un anno sull’Altipiano alla pubblicisti-
ca di guerra italiana. Funzionano invece per Lussu le altre direzioni in cui si è det-
to di dover orientare la ricerca: la «sardità», ma nelle forme che abbiamo precisa-
to, e il panorama internazionale dei testi sulla guerra.
Il fatto è che l’orizzonte di Lussu è europeo, come bene sapeva Trentin nella
recensione già citata, in cui ricorda Feu, Croix de bois, Im Westen nichts Neues,
Journey’s End, L’Equipage, tutti testi compresi fra il 1919 e il ’29, dei quali però
non menziona gli autori tanto erano noti internazionalmente, e quindi anche a
gran parte della comunità dei lettori di «Giustizia e Libertà», sulle cui pagine egli
scrive (si tratta di Henri Barbusse, Roland Dorgelès, Erich Maria Remarque, Ro-
bert Cedric Sheriff, Joseph Kessel). A parte questo caso di comune cultura dei
fuorusciti o, ancor di più, di cultura che i fuorusciti avevano in comune con gli al-
tri, io credo che si potrebbe aprire una prospettiva di studio che non valga solo
per Lussu ma per molti gielleisti esuli come lui, e cioè in che cosa sia consistita la
loro cultura storico-politica e letteraria; perché non c’è dubbio che, se è lecito
senz’altro parlare di una vera e propria cultura dei fuorusciti in generale, sarebbe
tuttavia molto opportuno individuare soprattutto le culture dei gruppi di fuoru-
sciti, legati senz’altro alle comunità nazionali (o alle élite) che li ospitavano. Lussu
va considerato in questo contesto. Nel caso specifico di Un anno sull’Altipiano i
testi citati da Trentin non sono molto individualizzanti perché notissimi; comun-
que è più che plausibile che egli li conoscesse bene: si tratta di tre francesi, un te-
desco, un inglese. «Non esistono, – scrive Lussu nella premessa, – in Italia, come
in Francia, in Germania o in Inghilterra, libri sulla guerra». Appunto!
ni» o di «un gruppo d’azioni», e aggiunge che «potrebbe venirne fuori un libro
italiano di interesse, anche perché io ho visto un’infinità di cose e fatto un’infinità
di sondaggi psicologici» (8 agosto 1935): «cose» e «sondaggi» rimandano a espe-
rienze militari e umane durante la guerra sull’Altipiano d’Asiago. Ma general-
mente un segmento è privilegiato perché ritenuto eccezionale. Tipico è il caso di
Soffici, che à tambour battent scrive due libri, anche se brevi, sulla prima guerra,
uno sul Kobilek, la montagna sulla quale si trovò per un periodo ad operare, e
uno su Caporetto: in qualche modo due eventi straordinari irrelati fra loro. Lussu
invece direi che tende a epicizzare la guerra, e per molti aspetti vi riesce.
Nel racconto epico è indifferente che si cominci a raccontare da un’avventura
o da un’altra; e, naturalmente, si può finire dove si vuole. Il lettore (o l’a-
scoltatore) sa che prima dell’inizio del racconto è comunque avvenuto qualcosa, e
che lì dove il racconto s’interrompe è appunto la fine del racconto ma non quella
della storia. L’Iliade non è certo un poema incompiuto perché non finisce con la
presa di Troia e, venendo ad un testo più recente, il cosiddetto Partigiano Johnny
di Fenoglio, per il lettore va anche bene così, pur sapendo che continuava certa-
mente. Né si può dire, anche al di fuori di ogni credenza nella sua origine divina,
che la Bibbia sia incompiuta. Insomma, i libri o i capitoli di una narrazione epica
possono essere addizionati o moltiplicati o anche sottratti senza che si perda il
senso delle cose; e il racconto, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, dà co-
munque al lettore o all’ascoltatore – in quel particolare tempo e spazio che sono
tipici dell’epica – l’idea di una storia dalla durata immensa. A questa luce Lussu
può non raccontare nulla della guerra sul Carso, sulla Bainsizza o sul Piave, limi-
tarsi alle vicende corrispondenti a pochi mesi della sua lunga vita militare, e con-
temporaneamente offrire al lettore il senso dell’intera guerra; per dirla con lui:
«posso dare al lettore l’impressione esatta del fenomeno durata immensa della
guerra, che è stato l’incubo più tragico per tutti i combattenti» (ancora lettera
dell’8 agosto).
Per giustificare il limite del proprio racconto e nello stesso tempo alludere ad
altri eventi che si potrebbero narrare, ma per una scelta puramente empirica si
decide di non farlo, occorre isolare il segmento agli estremi: e infatti Un anno sul-
l’Altipiano comincia con una marcia di trasferimento nel teatro degli eventi rac-
contati, e termina preannunciando un altro trasferimento in altro teatro di guerra.
Per raccordare l’evento privilegiato a una catena di fatti occorre dunque che si
sappia che il segmento sta su una retta: per non isolarlo totalmente conferendogli
la natura di un luogo eccezionale e perdere così il senso dell’immensità tragica de-
gli eventi, Lussu stabilisce dei raccordi col prima e col dopo: il Carso da una par-
vent’anni prima occorre un uomo di vent’anni prima: «Io mi sono spogliato anche
della mia esperienza successiva e ho rievocato la guerra così come noi l’abbiamo
realmente vissuta, con le idee e i sentimenti d’allora», si legge ancora nella pre-
messa. In tal modo Lussu può prendere le distanze dal se stesso di ora, perché sa
di non essere più quello d’allora. Ciò è molto importante perché consente di ri-
considerare il problema dell’abbandono o meno da parte di Lussu delle sue anti-
che convinzioni interventiste; problema che, come si è visto, ha coinvolto molto
gli studiosi e che per la verità non mi sembra poi determinante per la compren-
sione del testo. Comunque, una volta che ci siamo messi su questa strada, doven-
do pur prendere atto degli studi altrui, si può confermare quello che abbiamo
detto mettendolo ora a fuoco sotto altra luce: questa distanza che l’autore prende
dal se stesso di «ora» (1936-37) e il conseguente recupero della dimensione d’«al-
lora» – che altro non è che una finzione impossibile – gli consente un gioco mol-
to libero circa l’uso del personaggio che dice «io»: per esempio, di conferirgli
sempre la più piena attendibilità, nel racconto dei fatti come nell’espressione del-
le opinioni, e addirittura dei pensieri e dei sentimenti.
S’è detto che Un anno sull’Altipiano è costruito abbastanza sapientemente,
con alternanza di episodi concitati ad altri più pacati. Simonetta Salvestroni ha
cercato di individuare una cadenza in queste successioni, che perderebbero però
di consistenza nella parte finale; ma poiché uno schema o c’è o non c’è (e non c’è)
si può prendere per buoni alcuni elementi della sua analisi: la distribuzione sa-
piente dei capitoli più drammatici in mezzo ad altri dal tono più disteso, e l’idea
che il dramma sia comunque da ricercare, come del resto afferma lo stesso Lussu,
negli episodi degli assalti. D’altra parte Lussu, concependo il suo testo come il
racconto di tutto ciò che l’ha colpito della guerra, si inibisce volontariamente di
seguire un andamento cronachistico. Credo quindi che egli abbia cercato, con-
centrandosi a tanti anni di distanza su quel periodo, di rastrellare i fatti di cui ave-
va memoria più nitida. Da questo suo far mente locale saranno usciti gli argo-
menti più disparati (ora di puro resoconto logistico, ora di battaglie, di amici
morti, di eccezionali incontri, di avvenimenti impensabili, come l’ammu-
tinamento, di scoperte capaci di cambiare la sua filosofia della vita: la conoscenza
del combattente sardo, le considerazioni sul nemico, ecc.; e su questi elementi
sorprendenti e unici, alcune invanianti, come l’alcool, la pazzia dei comandanti, la
boria, ecc.) che egli deve aver selezionato scartando i meno significativi fra i simi-
li, e ripensandoli poi nel contesto, cioè nel tessuto più propriamente cronologico,
ma badando anche a una loro distribuzione sapiente, una scansione che non an-
noiasse il lettore. Che ci sia stato in Lussu questo libero ripensamento dei fatti è
dimostrato non da quanto egli racconta e che conosciamo anche da altre fonti, ma
da quanto racconta che è rimasto «impresso», per usare una parola sua, soprat-
tutto a lui. Come nell’operazione attribuzionistica di un dipinto si cerca non la ci-
tazione, ma il particolare variabile a riprova della paternità di X o Y, così in que-
sto caso è interessante rintracciare quanto inequivocabilmente è ricordo di Lussu
(«impresso nella sua memoria») che difficilmente potrebbe essere di altri. Nel ca-
pitolo XXVI si parla di una festosa razzia condotta dai tenente Ottolenghi alla te-
sta di alcuni sciatori nei magazzini di sussistenza, in mezzo a scoppi di razzi e pe-
tardi come in uno scontro vero che assume i contorni di una festa. Tutto finisce
col ritorno dei predatori e con una generosa distribuzione del cibo rubato ai sol-
dati. Confesso che questo episodio non mi pare poi così degno di essere traman-
dato alla memoria, ma Lussu ne resta affascinato perché l’impresa di Ottolenghi
senz’altro gli ricorda le razzie che i suoi progenitori abitanti della montagna face-
vano, assaltando i paesi della pianura e ritornandone carichi di preda. Dei suoi
soldati che sono scesi in mezzo alla popolazione civile, fra Bassano e Marostica,
scrive che «diventarono, in quelle ore, i signori della pianura», e «i più giovani,
scorrazzavano da cavalieri erranti, cercandosi un sorso di gioia» (capitolo XXVII,
p. 192). Insomma, la memoria aveva conservato fedelmente la materia, e in certi
casi anche fedelmente la successione; si trattava di nispettarla il più possibile. Lus-
su è fedele, ma come i veri scrittori a se stesso e non pedissequamente ai fatti. Per-
ciò la credibilità non ha niente a che fare con l’esaustività del racconto, che può
fare a meno di informazioni minuziose fine a se stesse. Due esempi fra gli altri:
«Di quello che avvenne in quello scontro, io non ho mai conservato un ricordo
chiaro» (capitolo VI, p. 46); e all’inizio del capitolo IV si legge: il Monte Fior «era
principalmente difeso da gruppi di battaglioni alpini: il battaglione Val Maira, il
battaglione dei Sette Comuni, il battaglione Bassano e alcuni altri di cui ho di-
menticato i nomi» (p. 31).
Sono passi in cui si esplicita che fondare il racconto sulla memoria (com’è
programmato nella premessa) significa ammettere e omettere, ma l’omissione de-
ve allora essere bilanciata da un’importanza determinante e straordinaria del mes-
saggio. Nei racconti di guerra la bellezza della scrittura appare collegata di-
rettamente all’ideologia; non ovviamente a quella politica, ma alla visione del
mondo in senso globale. Se si considera bene, gli avvenimenti di cui è fatto un li-
bro non di fiction come un resoconto di guerra sono sempre gli stessi: azioni mili-
tari, soldati, comandanti, trincee, nemici, problemi logistici, stato psicologico del-
la truppa, ecc.; in un romanzo gli ingredienti sono teoricamente infiniti. Nel pri-
mo caso il vero problema per il critico è costituito dalla loro gestione, cioè dal
punto di vista di chi li sceglie e li esamina. Una volta che questo è avvenuto, il nar-
ratore può anche scomparire. Naturalmente le due cose tendono a verificarsi con-
temporaneamente. È meglio comunque che scompaia il narratore come commen-
tatore e cronista, come ponte fra personaggio e lettore, perché i fatti sono talmen-
te importanti che «parlano da soli». Questo è il programma esplicito di ogni me-
morialista, e lo era anche di Lussu, che tuttavia si riserva molto spesso la facoltà di
entrare in ballo proprio pigiando sul pedale del commento, sempre allo scopo di
confermare ed enfatizzare la tragicità dei fatti. Cito un paio di casi: «Anche ades-
so, a tanta distanza di tempo, mentre il nostro amor proprio, per un processo psi-
cologico involontario, mette in rilievo, del passato, solo i sentimenti che ci sem-
brano i più nobili e accantona gli altri, io ricordo l’idea dominante di quei primi
momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi» (capitolo
V, p. 41).
Si è detto dell’ideologia come forma distributiva della materia, modello che
presiede alla sua organizzazione e come giudizio sui fatti. Certamente quanto si è
detto un po’ più sopra sulle teorie politiche di Lussu nel periodo in cui scrive Un
anno sull’Altipiano può spiegare qualcosa del libro, ma io tenderei a spingerlo,
quest’ultimo, in una zona filosofica moderna, non più «nuovissima» in quel 1936-
37, ma certo capace di suggerire giudizi e punti di vista straordinariamente origi-
nali ed efficaci. Nego che Lussu abbia avuto le pur minime capacità speculative,
tuttavia la posizione che egli assume come scrittore di fronte al proprio passato
militare è permeata di un profondo senso dell’assurdo. Tutti i fatti sono dominati
da questa legge: nulla si spiega perché nulla ha senso. Le discussioni che nel libro
ad opera dell’autore e di altri ufficiali, intorno al libro ad opera degli studiosi, so-
no state impostate intorno al tema dell’«inutile massacro», del «macello», e così
via toccano per dir così una parte della verità dell’ideologia politica che Lussu si
attribuisce o attribuisce ad altri; ma quando non si fanno nel libro commenti così
espliciti e si raccontano i fatti, l’ottica con cui sono visti è quella dell’assurdo. In
questo senso Un anno sull’Altipiano risente anche della lezione di Remarque.
La lingua di Lussu è, nel panorama della prosa letteraria o giornalistica ita-
liana degli estremi anni Trenta, assolutamente originale. Non gli si possono ac-
costare testi simili. Né è solo un problema di dannunzianesimo o antidannun-
zianesimo40, ma senz’altro la guerra era allora in Italia un tema che, da parte di un
ex combattente, non poteva essere toccato se non con linguaggi e stili già speri-
40 All’antidannunzianesimo di Un anno sull’Altipiano si rivelarono particolarmente sensibili, ovviamente, i primi
autorevoli critici, sia esplicitamente che, alla maniera di Montale (Cronache di una disfatta, in ID., Auto da fé, Milano
1966, particolarmente la p. 31; il pezzo è comunque del 1945), implicitamente, lodando la lingua asciutta e precisa di
Lussu. Molto intelligentemente Montale attribuiva queste qualità al pubblico internazionale cui Lussu si rivolgeva.
mentati: insomma c’era una retorica, o più retoriche, ma sempre quelle. La prosa
di Lussu sicuramente si avvantaggia, com’è ovvio, della sua ideologia e, in concre-
to, della sua permanenza fuori d’Italia. Certamente il francese gli serve molto per
semplificare (per merito suo, poiché avrebbe potuto anche servirsene per retori-
cizzare), asciugare, chiarire, tanto più che mentre scriveva Un anno sull’Altipiano
egli si sentiva davanti il fantasma di un pubblico internazionale che esigeva fatti
più che parole.
6. Nota bibliografica.
Un anno sull’Altipiano ebbe, come si è detto, un notevole successo fra gli antifa-
scisti, un successo che si può definire «trasversale» se, una volta tanto, oltre alle
pagine di «Giustizia e Libertà» (S. TRENTIN, Un anno sull’Altipiano, sul nume-
ro del 20 maggio 1938), che abbiamo ricordato più volte, Lussu ebbe rico-
noscimenti senza riserve anche dal comunista «Lo Stato operaio » (V. SPANO,
L’insurrezione e la guerra in due libri di Emilio Lussu, sul numero del 15 maggio
1938, pp. 151-52). Si tratta di due recensioni non presenti sempre ai critici di Lus-
su, ma nelle quali vi sono elementi che saranno poi accreditati come i punti forti
del testo. Spano per esempio parla di «opera d’arte», di «lingua dura e diretta», di
«asprezze stilistiche» che «non fanno che accrescere la immediatezza e la sincerità
del racconto»; oltre ovviamente ai rilievi ideologici più scontati: l’ufficiale di «un
esercito borghese» che fa parlare i soldati, il loro affetto per lui, il libro come «at-
to d’accusa […] contro la guerra imperialista», ecc. Da ricordare che l’avevano
edito le Edizioni italiane di Cultura dirette da Giorgio Amendola. Nel 1939, si è
detto, il libro fu edito dalla Knopf, a New York, in prima edizione americana co-
me Sardinian Brigade, nella traduzione di Marion Rawson che si può ormai consi-
derare la traduttrice inglese di Lussu (aveva già tradotto infatti Marcia su Roma e
dintorni).
Non si registra eccessiva attenzione nel dopoguerra immediato alla prima
edizione italiana del volume, né da parte dei critici né da quella dei lettori. In que-
sto secondo caso avrà senz’altro giocato il suo ruolo la scelta editoriale di in-
cludere il testo nei «Saggi», collana di per sé più selettiva e comunque non tale da
attirare il cosiddetto lettore medio. Su tutti, critici e lettori, certamente ebbe il suo
peso una somma di altri addendi negativi, fra cui l’inattualità della grande guerra
e l’attenzione universalmente rivolta al conflitto testé concluso, di cui si comin-
ciavano a conoscere sempre meglio gli abissi di crudeltà e distruzione. Insomma,
la memorialistica sugli anni 1940-45 schiacciò ovviamente quella sugli anni 1915-
18. Il libro di Lussu che invece fu più letto fu Marcia su Roma e dintorni, e in que-
sta preferenza è da vedere la collocazione ideologica del testo, che rivelava le ma-
lefatte del fascismo in un periodo in cui l’antifascismo era l’asse strutturante ogni
movimento e partito, almeno a parole. Per questo – e per il tempismo con cui Ei-
naudi lo pubblicò, e per il sapore di novità del tema – la sua uscita calamitò l’at-
tenzione di critici eccezionali: abbiamo visto all’inizio di questo studio il giudizio
di Croce, cui Luigi Russo seguì a ruota come il discepolo il maestro, in pagine
molto efficaci. Fra l’altro individuava «l’umorismo politico ignoto a noi italiani
che, in libri del genere, preferiamo le escandescenze, il tono scandalistico, e le
clausole da comizio» (L. RUSSO, Emilio Lussu, in ID., Ritratti critici di contem-
poranei, Genova 1945, p. 127), sostenendo, forse anche autobiograficamente, la
tesi della completa emancipazione intellettuale del Lussu dalla propria isola
(ibid., p. 129). Stesse qualità – asciuttezza e tono umoristico della confessione –
lodate da Eugenio Montale (Cronache di una disfatta, in «Il Mondo», 2 giugno
1945; e ora in Auto da fé, Milano 1966, pp. 30-33). Fu probabilmente per l’atten-
zione già dedicata a questo libro, in aggiunta a quanto si è detto circa l’attualità
degli argomenti nel secondo dopoguerra, che i tre critici non recensirono Un an-
no sull’Altipiano, del quale Claudio Varese scriveva ancora nel 1951 che era «for-
se meno conosciuto» dell’altro (Lussu scrittore, in «Il Ponte», VII (1951), 9-10, p.
1315).
Mi sembra necessario sintetizzare al massimo quanto diffusamente si è scritto
della fortuna editoriale del libro, anche per creare uno sfondo alle recensioni al
volume. Un anno sull’Altipiano, dunque, iniziò il suo successo dopo l’edizione del
1960, ancora nei «Saggi» ma, come si è visto, nel 1964 soppiantata da quella nei
«Coralli»; e infine comincerà a penetrare per dir così «dal basso» nella società dei
lettori grazie all’edizione scolastica dell’anno successivo. Un rinverdimento della
sua fortuna, anche per evidenti motivi politici, si avrà nel 1970 dopo l’uscita del
film che Francesco Rosi ne trasse col titolo molto sessantottesco di Uomini contro.
Le caratteristiche generali di questa bibliografia critica sono sostanzialmente
le seguenti. a) Un andamento di routine per i primi venti-venticinque anni, af-
fidato ai recensori in occasione di ristampe del volume, con qualche punta si-
gnificativa. b) Un’accettazione pressoché immediata della figura di Lussu scrit-
tore accanto a quella dell’uomo politico sotto l’etichetta dello scrittore-politico. c)
L’assenza di studi impegnativi di critici accreditati (eccezion fatta per l’immediato
dopoguerra e per qualche recensione più tarda) che certo ha contribuito a tenere
questo scrittore di razza relegato nella schiera degli outsiders, e perciò senza un
posto sicuro e fisso nell’ambito della storia della letteratura italiana. d) Anche l’as-
senza, Croce a parte, di quelle voci moderate di recensori autorevoli che fanno so-
spettare che su Lussu abbia pesato per un certo tempo la sua inconfondibile fisio-
nomia «di sinistra». e) I contributi determinanti degli studiosi sardi all’illumina-
zione della figura di Lussu. E sotto questo paragrafo segnalo subito, oltre all’at-
tenzione costante dei recensori alle ristampe di Un anno sull’Altipiano, che anche
a Lussu è capitato in sorte di essere additato quasi come nemico dei Sardi, una di
quelle reazioni che frequentemente si registrano sulla stampa meridionale dopo
l’uscita di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (si veda la stroncatura di N.
VALLE, Sul confine tra realtà e fantasia, in «L’Unione sarda», 10 dicembre
1961).f) Una costante reazione negativa delle riviste militari: dalla recensione di
A. BORROZZINO, Un anno sull’Altipiano, in «Rivista militare» dell’aprile 1947,
a Un libro disfattista, su «Il nuovo Pensiero militare» (30 maggio 1965). Il secon-
do recensore, una volta definito Un anno sull’Altipiano come «il più disfattista fra
tutti i libri comparsi in Italia sulle due ultime grandi guerre», riassume il punto di
vista espresso dal generale Motzo in un articolo sull’edizione sarda del «Tempo»,
dove si sostiene, fra l’altro, che scrivendo il suo libro di memorie Lussu si era lu-
cidamente proposto due scopi: «– gettare il discredito sulle istituzioni militari de-
nigrando sistematicamente i comandanti; – dimostrare l’inutilità, per non dire
l’assurdità, del sacrificio per la Patria». Affermazioni degne di nota perché risa-
lenti ad anni in cui si stava ormai consolidando l’importanza di questo libro (defi-
nito da Motzo «sacrilego e blasfemo») nella coscienza di lettori e critici. g) Da sot-
tolineare il peso sulle recensioni degli archetipi più autorevoli, anche se lontani e
rivolti ad altro oggetto, quelli di Croce e Russo, cosicché non si sa se far risalire a
questi ultimi l’attenzione di pressoché tutti gli altri recensori all’umorismo, allo
stile asciutto e preciso, alla moralità dello scrittore; ai quali si aggiunga la sottoli-
neatura costante dell’attenzione non retorica che Lussu dedica ai soldati-contadi-
ni e la polemica contro i comandi militari.
Se questi sono alcuni tratti salienti della fortuna critica di Un anno sull’Alti-
piano, sia consentito di segnalare, necessariamente in modo frammentario, le re-
censioni più interessanti. Quella di P. MILANO, Immagine di una guerra, in «L’E-
spresso», 27 novembre 1960, assai citata per il richiamo a Chaplin a proposito di
alcuni episodi che hanno per protagonista il generale Leone, mentre resta tutto
sommato senza sviluppo, depositandosi nelle recensioni come formula poco si-
gnificativa, il rilievo della «caratteristica [...] classica» che fa sì che il narratore
tenda a parlare «pochissimo di sé». Insistita la presenza di Carlo Salinari, che de-
dicò al libro ben due recensioni in tempi diversi. Probabilmente nasce da quella
su «Mondo nuovo » (4 dicembre 1960: Emilio Lussu scrittore) il problema che poi
si configurerà come contraddizione fra testo letterario e posizioni ideologiche
dell’autore; contraddizione che Salinari formula però in modo diverso, come
amaro umorismo che lo scrittore Lussu riserba a se stesso interventista quando si
trova di fronte alla tragedia della guerra (l’altra recensione, Il dramma della guer-
ra rivive sull’Altipiano, in «Vie nuove», 12 novembre 1964).
Significativo il disorientamento dei critici evidente nei loro suggerimenti cir-
ca gli imparentamenti letterari di Lussu; Salinari nel 1964 parla dei «grandi scrit-
tori dell’Ottocento» (italiani?); Arnaldo Bocelli (L’Altipiano di Lussu, in «Il Mon-
do», 14 febbraio 1961) aveva indicato, piuttosto che gli stranieri o i veristi, la «let-
teratura vociana» che aveva costituito la «corrente più viva » della nostra lettera-
tura di guerra (così pare di intendere). Franco Antonicelli (Guerra sull’Altipiano
con la Brigata Sassari, in « La Stampa », 30 ottobre 1964) più accortamente rifiuta
tutte le parentele italiane (s’intende coi testi sulla prima guerra mondiale) e cita
Remarque e «il grido rivoltoso degli espressionisti tedeschi»; l’anno dopo Paolo
Padovani (Generali pazzi e soldati morti, in «Paese Sera», 22 gennaio 1965) ag-
giunge a Remarque il nome di Zweig, e Mario Pomilio (Un anno sull’Altipiano, in
«Il Mattino» di Napoli, 11 marzo 1965) dà una prova della sua notevole intelli-
genza di lettore insistendo sulla natura di «vera e propria opera creativa» del vo-
lume e citando La rivolta dei santi maledetti di Malaparte come il solo libro dota-
to di «altrettanta chiarezza nella diagnosi degli antefatti» della tragedia di Capo-
retto. Antonicelli ha anche il merito di avere attribuito giustamente al «peso di al-
tri eventi» la scarsa fortuna del libro nell’immediato dopoguerra; ciò significa che
a distanza Un anno sull’Altipiano non solo si rivela per quello che è – «il migliore
che io abbia letto sulla guerra del Quindici», sostiene M. RIGONI STERN, La te-
stimonianza di un soldato su una guerra indimenticabile, in «L’Unione sarda», 20
marzo 1965 – ma, come riconosce lo stesso Salinari, che nella recensione su «Vie
Nuove» insiste sulla necessità che il libro sia veramente letto, col passare del tem-
po esso ci guadagna. Risale all’ottobre 1964 M. ISNENGHI, La guerra sconsacra-
ta di Emilio Lussu (in «Quaderni piacentini», n. 19-20 (1964), pp. 70-73), il pri-
mo, anche se breve, intervento riguardante Un anno sull’Altipiano. Isnenghi vi so-
stiene la tesi che già conosciamo della, si potrebbe dire, emancipazione imperfet-
ta di Lussu dalle proprie antiche posizioni interventiste. Sulla stessa scia, decisa-
mente orientata ad un riesame realistico della guerra 1915-18 e polemico verso il
permanere della retorica patriottarda a tanti anni di distanza dai fatti, è la recen-
sione di P. GUADAGNOLO, Un anno sull’Altipiano, in «Cultura popolare» di
Milano, aprile 1965.
Alcuni di questi interventi si situano nel periodo delle celebrazioni del cin-
quantennale dell’entrata in guerra, diciamo fra il Congresso di Trento sul Risor-
gimento del 1963 e altre iniziative del ‘64 e ’65, per cui intorno al libro è da vede-
re il fronteggiarsi di due schieramenti diversi, uno retorico e un altro deciso a ri-
fiutare il ciarpame di molte iniziative e interventi anche di quadri militari: il libro
di Lussu diventa un pretesto per questo secondo fronte per affermare il proprio
punto di vista. Il dibattito si riaccende senza costituire nell’insieme un grande
contributo critico quando, nel 1970, esce Uomini contro, un film mediocre che
Francesco Rosi trasse dal libro.