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Colleen McCullough

Uccelli di rovo
Traduzione di Bruno Oddera

Ebook Ita Calibre Collection


by Filuck
filuck.wix.com/pagineparlanti

0078

Bompiani
Titolo originale: The Thorn Birds
© 1977 by Colleen McCullough
© 1977 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A.
© 1994-2003 RCS Libri S.p.A. Milano
XXII edizione Tascabili Bompiani
gennaio 2003
Bompiani

L'eterna tentazione tra spiritualità e passione.


La storia dei Cleary inizia ai primi del '900 e si conclude ai giorni nostri, nel
grandioso scenario naturale dell'Australia. Gli anni consumano le vite in una
vicenda di sentimenti e passioni, di fede e amore, sulla quale si stende grave
e inesorabile il senso della giustizia divina. I personaggi - soprattutto
memorabili figure femminili, tenere e orgogliose - vanno incontro al destino
come gli uccelli di rovo della leggenda australiana, che cercano le spine con
cui si danno la morte.
Un libro di rare e memorabili emozioni.

Colleen McCullough, nata a Wellington (Australia) nel 1937, si è imposta


all'attenzione di tutto il mondo con Uccelli di rovo (Bompiani 1977). In
seguito sono apparsi presso Rizzoli I giorni della gloria, I giorni del potere, I
favoriti della fortuna, Cesare. Il genio e la passione, Il canto di Troia.

Trattandosi di opera di fantasia, eventuali analogie e riferimenti a fatti e


personaggi reali sono puramente casuali.
alla «grande sorella»
Jean Easthope
Parte prima 1915-1917 Meggie

La leggenda narra di un uccello che canta una sola volta nella vita, più soavemente di ogni altra
creatura al mondo. Da quando lascia il nido, cerca e cerca un grande rovo e non riposa finché non lo
abbia trovato. Poi, cantando tra i rami crudeli, si precipita sulla spina più lunga e affilata. E, mentre
muore con la spina nel petto, vince il tormento superando nel canto l'allodola e l'usignuolo. Una
melodia suprema il cui scotto è la vita. Ma il mondo intero tace per ascoltare, e Dio, in Paradiso,
sorride. Al meglio si perviene soltanto con grande dolore... O così dice la leggenda.
1

L'8 dicembre 1915, Meggie Cleary festeggiò il quarto compleanno. Dopo la colazione, sua madre
sparecchiò, e senza una parola, le mise sulle braccia un pacco avvolto in carta marrone; poi le
ordinò di uscire. E così, Meggie si inginocchiò dietro il cespuglio di ginestra, accanto al cancello
principale, e diede strattoni impazienti. Le dita erano goffe, la carta era robusta; sapeva vagamente
dell'emporio di Vahiné, e questo le disse che, qualsiasi oggetto potesse trovarsi entro il pacco,
miracolosamente era stato comperato, e non fatto in casa, o regalato da altri.
Qualcosa di bello e di nebulosamente dorato cominciò a spuntare attraverso uno spigolo del pacco;
Meggie aggredì la carta più in fretta, lacerandola a lunghe strisce frastagliate.
«Agnese! Oh, Agnese!» disse con tenerezza, battendo le palpebre mentre contemplava la bambola
entro il nido strappato.
Davvero un miracolo. Una sola volta in vita sua Meggie era stata a Vahiné. Così impettita sul
calesse accanto alla madre, intenta a comportarsi come meglio sapeva, era troppo eccitata per
vedere o ricordare molto. Tranne Agnese, la magnifica bambola seduta sul banco del negozio,
vestita in crinolina di raso rosa, con pizzi color crema dappertutto. All'istante, in cuor suo, l'aveva
battezzata Agnese, il solo nome che conoscesse abbastanza elegante per quella creatura
impareggiabile. Eppure, nei mesi successivi, il desiderio di Agnese non aveva contenuto un solo
briciolo di speranza; Meggie non aveva bambole e non sapeva che le bimbette e le bambole sono
fatte le une per le altre. Giocava allegramente con i fischietti e le fionde e i soldatini malconci
gettati via dai suoi fratelli, si insudiciava le mani e si infangava le scarpe.
Non le era mai accaduto di pensare che Agnese fosse fatta per giocarci. Accarezzando le vivide
pieghe rosa del vestito, più fastoso di tutti quelli che aveva veduto indosso alle donne vere, sollevò
Agnese teneramente. La bambola aveva braccia e gambe a giunture e si poteva muoverle in tutti i
modi; anche il collo e la minuscola vita ben fatta erano a giunture. I capelli color dell'oro li aveva
acconciati in modo squisito, a formare un alto pompadour costellato di perle, il seno chiaro faceva
capolino dietro lo spumeggiante fichu di pizzo color crema, fermato da una spilla con perla. Il viso,
di porcellana finemente dipinta, era bellissimo, volutamente non vetrificato per far sì che la pelle,
colorata con delicatezza, avesse un aspetto naturale e morbido. Occhi azzurri, vivi in modo
stupefacente, splendevano tra le ciglia vere, con le iridi striate e circondate da un alone azzurro più
scuro; affascinata, Meggie scoprì che Agnese, quando veniva inclinata all'indietro in misura
sufficiente, chiudeva gli occhi. In alto, su una delle gote appena accese, aveva un neo, e la bocca, di
un rosso scuro, si schiudeva lievemente, mostrando minuscoli denti bianchi. Meggie si mise con
dolcezza la bambola in grembo, incrociò i piedi sotto di sé, comodamente, e, una volta seduta, si
limitò a contemplarla.
Sedeva ancora dietro il cespuglio di ginestra quando arrivarono Jack e Hughie tra l'erba frusciante,
là ove era troppo vicina al recinto perché la falce potesse raggiungerla. I capelli di Meggie erano
l'orgoglio dei Cleary; a tutti gli altri figli, tranne Frank, era toccato il martirio di una zazzera in
qualche sfumatura del rosso; Jack diede di gomito al fratello e additò allegramente. I due si
separarono, sorridendosi, e finsero di essere soldati di cavalleria lanciati alla ricerca di un rinnegato
Maori. Meggie non li avrebbe uditi comunque, tanto era assorta nella contemplazione di Agnese
mentre mugolava sommessamente tra sé e sé.
«Cos'è che hai lì, Meggie?» urlò Jack, spiccando un balzo. «Facci vedere!»
«Sì, facci vedere!» ridacchiò Hughie, aggirandola sul fianco.
Lei si strinse la bambola al petto e scosse la testa. «No, è mia! L'ho avuta per il mio compleanno!»
«Faccela vedere, dai! Vogliamo soltanto dare un'occhiata.»
L'orgoglio e la felicità prevalsero. Tenne la bambola in modo che i fratelli potessero vederla.
«Guardate, non è bellissima? Si chiama Agnese.»
«Agnese? Agnese?» Jack finse di avere realistici conati di nausea. «Che nome sdolcinato! Perché
non la chiami Margaret o Betty?»
«Perché è Agnese!»
Hughie notò la giuntura nel polso della bambola, e fischiò. «Ehi, Jack, guarda! Può muovere la
mano!»
«Dove? Vediamo.»
«No!» Di nuovo Meggie tenne stretta la bambola, e le si riempirono gli occhi di lacrime. «No, la
romperete! Oh, Jack, non portarmela via... la romperai!»
«Puah!» Le mani di lui, sudicie e brune, le si serrarono intorno ai polsi, stringendo con forza. «Vuoi
una bruciatura cinese? E non essere così piagnona, o lo dirò a Bob.» Le tirò la pelle in direzioni
opposte finché non si tese, bianca, mentre Hughie afferrava la sottana della bambola e tirava a sua
volta. «Dammela, o tiro sul serio!»
«No! Non lo fare, Jack, per favore! La romperai, so che la romperai! Oh, per piacere, lasciala stare!
Non me la prendere, per piacere!» Nonostante la stretta crudele sui polsi, si avvinghiò alla bambola,
singhiozzando e scalciando.
«Ce l'ho!» urlò Hughie, mentre la bambola scivolava sotto gli avambracci incrociati di Meggie.
Jack e Hughie la trovarono affascinante come era accaduto a Meggie; il vestito venne via, seguito
dalle sottovesti e dalle lunghe mutande ornate di gale. Agnese giacque nuda mentre i due ragazzetti
la tartassavano e la tiravano, piegandole un piede sotto la nuca, costringendola a contemplare la
propria spina dorsale, plasmandola in tutte le possibili contorsioni che vennero loro in mente. Non
badarono affatto a Meggie che, balzata in piedi, piangeva; né a lei venne in mente di invocare aiuto,
poiché, nella famiglia Cleary, chi non sapeva combattere le proprie battaglie otteneva scarso
soccorso e poca comprensione: una regola valida anche per le ragazze.
I capelli dorati della bambola si sciolsero, le perle volarono ammiccanti tra l'erba alta e
scomparvero. Una scarpa infangata piombò noncurante sul vestito abbandonato, sporcandolo.
Meggie cadde sulle ginocchia e annaspò frenetica qua e là per ricuperare gli indumenti in miniatura
prima che subissero altri danni, poi cominciò a frugare tra gli steli d'erba ove riteneva che potessero
essere cadute le perle. Le lacrime la stavano accecando, la sofferenza nel suo cuore era nuova
perché, fino a quel momento, non aveva mai posseduto nulla per cui valesse la pena di affliggersi.
Frank lanciò il ferro di cavallo a sibilare nell'acqua fredda e raddrizzò la schiena; non gli doleva, in
quei giorni, e quindi, forse, si era abituato alla fatica del fabbro. Mica tanto presto, avrebbe detto
suo padre, dopo sei mesi. Ma Frank sapeva benissimo per proprio conto quanto tempo era passato
da quando aveva cominciato a cimentarsi con la fucina e l'incudine; lo aveva misurato con odio e
risentimento. Gettato il martello nella cassetta, si scostò dalla fronte i neri capelli madidi, con la
mano tremante, e si sfilò dal collo il vecchio grembiule di cuoio. Aveva lasciato la camicia su un
mucchio di paglia nell'angolo; arrancò da quella parte e rimase immobile per un momento, fissando
il muro screpolato della stalla come se non fosse esistito, gli occhi neri dilatati e fissi.
Era molto piccolo di statura, non più di un metro e cinquantotto, e ancora magro come lo sono gli
adolescenti, ma le spalle e le braccia nude mostravano muscoli già resi nodosi dal lavoro con il
martello, e la pelle chiara e perfetta luccicava di sudore. Il colore scuro dei capelli e degli occhi
aveva un che di straniero, la bocca dalle labbra piene e il naso, largo alla radice, non si
conformavano alle fattezze consuete della famiglia, ma c'era sangue Maori dalla parte di sua madre
e in lui lo si vedeva. Aveva quasi sedici anni, mentre Bob contava appena undici anni, Jack dieci,
Hughie nove, Stuart cinque e la piccola Meggie tre. Ricordò adesso che quel giorno Meggie
compiva quattro anni; era l'8 dicembre. Si mise la camicia e uscì dalla stalla.
La casa si trovava sulla sommità di un piccolo poggio, circa trenta metri più in alto del granaio e
delle stalle. Come tutte le case della Nuova Zelanda, era di legno, a pianta irregolare e a un solo
piano, in base alla teoria che, se vi fosse stato un terremoto, avrebbe potuto restare in piedi almeno
in parte. Intorno crescevano dappertutto le ginestre, in quel periodo rivestite da abbondanti fiori
gialli; l'erba era verde e lussureggiante, come tutta l'erba della Nuova Zelanda. Nemmeno in pieno
inverno, quando la brina, talora, non si scioglieva per tutto il giorno all'ombra, l'erba diventava
rossiccia, e la lunga e mite estate non faceva che tingerla di un verde ancor più smagliante. Le
piogge cadevano dolcemente, senza ammaccare la tenera soavità di tutte le cose che crescono, la
neve non esisteva, e il sole aveva proprio quel tanto di forza per nutrire e mai abbastanza per
fiaccare. I flagelli della Nuova Zelanda scaturivano tuonando dalle viscere della terra, più che
scendere dal cielo. C'era sempre una sensazione soffocata di attesa, c'erano un fremere e un
rumoreggiare sordi, intangibili, che effettivamente si trasmettevano attraverso i piedi. Infatti, sotto
la terra si celava una forza spaventosa, una forza talmente grande che, trent'anni prima, un'intera,
torreggiante montagna era scomparsa; getti di vapore erano sgorgati ululando dalle crepe sui fianchi
di colline innocenti, vulcani avevano riversato fumo nel cielo, facendo sì che i torrenti delle alte
montagne scorressero caldi. Laghi enormi di fango ribollivano oleosi, i mari lambivano, incerti,
dirupi che un tempo, forse, non si erano trovati là ad accogliere l'alta marea, e, in certi punti, la
crosta della terra aveva uno spessore di meno di trecento metri.
Eppure, si trattava di una regione dolce e bella. Al di là della casa si stendeva una pianura ondulata,
verde come lo smeraldo dell'anello di fidanzamento di Fiona Cleary, e disseminata da migliaia di
fagotti color crema che, veduti da vicino, risultavano essere pecore. Là ove le curve alture
ritagliavano l'orlo del cielo celeste chiaro, il Monte Egmont svettava per tremila metri,
assottigliandosi tra le nubi, i pendii ancor bianchi di neve, con una simmetria così perfetta che
persino chi, come Frank, lo vedeva ogni giorno della sua esistenza, non finiva mai di stupirsi.
Era ripida, la salita tra il granaio e la casa, ma Frank si affrettò perché sapeva che non avrebbe
dovuto andare; gli ordini di suo padre erano stati espliciti. Poi, mentre voltava all'angolo della casa,
scorse il gruppetto accanto al cespuglio di ginestra.
Frank aveva portato in calesse la madre a Vahiné per comprare la bambola a Meggie, e si stava
ancora domandando che cosa l'avesse indotta a quell'acquisto. Fee non era propensa agli inutili doni
di compleanno, non avevano il denaro per poterseli permettere e, prima di allora, non aveva mai
regalato un giocattolo a nessuno di loro. A tutti toccavano capi di vestiario; i compleanni e le feste
natalizie rifornivano esigui guardaroba. Ma, a quanto pareva, Meggie aveva veduto la bambola la
sola volta che era andata nella cittadina, e Fiona non se n'era dimenticata. Interrogata da Frank,
aveva farfugliato qualcosa a proposito del fatto che le bambine hanno bisogno di una bambola,
affrettandosi poi a cambiare discorso.
Jack e Hughie reggevano insieme la bambola sul vialetto d'accesso e ne manipolavano
spietatamente le giunture. Di Meggie, Frank poté vedere soltanto la schiena mentre, in piedi,
guardava i suoi fratelli che profanavano Agnese. Le immacolate calze bianche di lei erano scivolate
a pieghe increspate intorno agli stivaletti neri e il rosa delle gambe era visibile per una decina di
centimetri sotto l'orlo del vestito di velluto marrone della festa. Sulle spalle le si riversava a cascata
una criniera di capelli accuratamente arricciati, scintillando al sole; non rossi, né dorati, ma di un
colore intermedio. Il nastro di taffetà bianco che impediva ai riccioli sul davanti di spioverle sul
viso pendeva floscio, con il nodo sciolto. Stringeva forte in una mano i vestitini della bambola, e,
con l'altra, invano spingeva Hughie.
«Piccoli bastardi dannati!»
Jack e Hughie si rimisero in piedi e corsero via, dimenticando la bambola; sapevano che, quando
Frank imprecava, era savia politica tagliare la corda.
«Se vi sorprendo a toccare di nuovo quella bambola, vi farò un marchio sul sedere con un ferro
rovente» gridò loro dietro Frank.
Si chinò e prese tra le mani le spalle di Meggie, scrollandola con dolcezza.
«Su, su, non c'è bisogno di piangere! Suvvia, calmati, se ne sono andati e la bambola non la
toccheranno mai più, te l'assicuro. Sorridimi per il tuo compleanno, eh?»
Meggie aveva la faccia gonfia, le guance inondate di lacrime; fissò Frank con le iridi grigie così
dilatate e colme di tragedia che lui si sentì serrare la gola. Tolto uno straccio sudicio dalla tasca dei
calzoni, glielo passò goffamente sulla faccia, poi le strinse il naso tra due pieghe.
«Soffia!»
Lei fece come le era stato detto, singhiozzando sonoramente mentre le lacrime si asciugavano. «Oh,
Fra-Fra-Frank, mi hanno to-to-tolto Agnese!» Tirò su con il naso. «I ca-ca-capelli le si sono sciolti e
ha per-per-perduto tutte quelle "velle" per-per-perle! Sono cadute nell'er-er-erba e non riesco a
trovarle!»
Le lacrime sgorgarono di nuovo e bagnarono la mano di Frank; lui fissò la pelle bagnata per un
momento, poi leccò via le gocce.
«Bene, bisognerà che le troviamo, no? Ma finché piangi non puoi trovare niente, sai, e poi cos'è
questo modo di parlare da bambini piccoli? Erano sei mesi che non ti sentivo dire "velle" invece di
"belle"! Su, soffiati di nuovo il naso e poi prendi la povera... Agnese? Se non la rivesti, il sole la
scotterà.»
La fece sedere al margine del vialetto, le diede con dolcezza la bambola, poi strisciò qua e là,
cercando tra l'erba, finché non lanciò un trionfante evviva e mostrò una perla.
«Ecco! La prima! Le troveremo tutte, aspetta e vedrai.»
Meggie osservò con uno sguardo adorante il fratello maggiore, mentre cercava tra gli steli d'erba,
mostrandole ogni perla man mano che le trovava; poi ricordò quanto doveva essere delicata la pelle
di Agnese, con quale facilità doveva scottarsi, e si concentrò nel rivestire la bambola. Sembrava che
non ci fosse stato alcun vero danno. I capelli erano arruffati e sciolti, le braccia e le gambe sudicie
dove i due ragazzetti le avevano tirate e spinte, ma tutto funzionava ancora. Sopra le orecchie
Meggie aveva due pettini di tartaruga; ne tirò uno finché non riuscì a liberarlo, e cominciò a
pettinare i capelli di Agnese, che erano capelli veri, abilmente applicati su una base di colla e di
garza, e tinti nel colore della paglia dorata.
Con movimenti inesperti stava dando strattoni a un nodo voluminoso quando la cosa spaventosa
accadde. I capelli si staccarono, tutti quanti, penzolando come una matassa arruffata dai denti del
pettine. Sopra l'ampia e liscia fronte di Agnese non c'era niente; non la testa; non il cranio calvo.
Soltanto un orribile buco beante. Rabbrividendo di terrore, Meggie si sporse per sbirciare entro il
cranio della bambola. I contorni invertiti delle gote e del mento si intravedevano appena, la luce
splendeva tra le labbra dischiuse, con i denti che formavano un nero profilo animalesco, e sopra a
tutto ciò si trovavano gli occhi di Agnese, due orribili sfere crepitanti trafitte da un fil di ferro che
crudelmente perforava la testa.
Il grido di Meggie fu acuto ed esile, non infantile; gettò via Agnese e continuò a gridare, coprendosi
la faccia con le mani, sussultando e tremando. Poi sentì Frank aprirle a forza le dita, prenderla tra le
braccia e premerle il viso contro il lato del proprio collo. Abbracciandolo, trasse conforto da lui
finché quella vicinanza non la calmò quanto bastava per consentirle di essere consapevole del buon
odore che aveva, di cavalli e sudore e ferro.
Quando si fu tranquillizzata, Frank si fece dire che cosa aveva; prese la bambola e ne fissò la testa
vuota, meravigliato, sforzandosi di ricordare se il suo universo infantile fosse stato così assediato da
strani terrori. Ma i suoi fantasmi sgradevoli erano consistiti di persone e bisbigli e occhiate gelide.
La faccia della madre tirata e stravolta, la mano di lei tremante mentre stringeva la sua, la curva
delle spalle.
Che cosa aveva veduto Meggie, per esserne tanto sconvolta? Immaginò che non sarebbe rimasta
turbata fino a quel punto se la povera Agnese avesse almeno sanguinato perdendo i capelli.
Sanguinare era una realtà; qualcuno nella famiglia Cleary perdeva copiosamente sangue almeno una
volta alla settimana.
«Gli occhi! Gli occhi!» bisbigliò Meggie, rifiutandosi di guardare la bambola.
«È una meraviglia, accidenti, Meggie» mormorò lui, strofinandole la faccia sui capelli. Com'erano
sottili, folti e ricchi di colore!
Gli ci volle una mezz'ora di persuasione per indurla a guardare Agnese, e un'altra mezz'ora trascorse
prima che fosse riuscito a convincerla a sbirciare entro il buco nella testa. Le mostrò come
funzionavano gli occhi, con quale accurata precisione erano stati montati per far sì che aderissero
bene e al contempo si aprissero e si chiudessero facilmente.
«Su, adesso, è ora che tu torni in casa» le disse, prendendola in braccio e ficcando la bambola tra il
proprio petto e quello di lei. «La faremo riparare da Ma', eh? Laveremo e stireremo i vestiti e
incolleremo di nuovo i capelli. Inoltre, io ti farò degli spilloni con quelle perle, in modo che non
possano più cadere; così potrai acconciarle i capelli in ogni sorta di modi.»
Fiona Cleary si trovava in cucina a sbucciare patate. Era una donna molto bella, molto bionda,
leggermente al di sotto della statura media, ma con un viso piuttosto duro e severo; aveva uno
splendido corpo dalla vita sottile che non si era ispessita, nonostante i sei figli che aveva avuto.
Indossava un vestito di calicò grigio, la cui gonna sfiorava il pavimento immacolato, ed era protetta
sul davanti da un enorme grembiule bianco inamidato che le passava intorno al collo ed era fermato
dietro la vita da un nodo rigido, perfetto. Dal momento del risveglio a quello in cui si coricava
trascorreva la propria esistenza in cucina e nell'orto dietro casa e i suoi robusti stivaletti neri
percorrevano un itinerario circolare dalla cucina economica al lavatoio all'orto alle corde del bucato,
per poi tornare alla cucina economica.
Posò il coltello sul tavolo, fissò Frank e Meggie, e gli angoli della sua bella bocca si piegarono
all'ingiù.
«Meggie, ti ho lasciato indossare il più bel vestito della domenica, stamane, a una condizione: che
non lo insudiciassi. E guardati un po'! Guarda come ti sei conciata!»
«Ma', non è stata colpa sua» protestò Frank. «Jack e Hughie le hanno portato via la bambola per
scoprire come funzionassero le braccia e le gambe. Le ho promesso che l'avremmo riparata e
rimessa a nuovo. Possiamo, non è vero?»
«Fa' vedere.» Fee tese la mano per prendere la bambola.
Era una donna taciturna. Quello che pensava, nessuno lo sapeva, nemmeno il marito; lasciava a lui
il compito di imporre la disciplina ai bambini, e faceva qualsiasi cosa egli ordinasse, senza
commenti né lagnanze, se non in situazioni del tutto insolite. Meggie udiva a volte i ragazzi
bisbigliare che lei aveva di Pa' un timore reverenziale quanto il loro, ma, se questo era vero, Ma'
riusciva a nasconderlo sotto una vernice di calma impenetrabile e lievemente austera. Non rideva
mai, e non perdeva mai la pazienza.
Terminato l'esame, Fee posò Agnese sulla credenza accanto alla cucina economica e guardò
Meggie.
«Le laverò i vestiti domattina e le acconcerò di nuovo i capelli. Frank potrà incollarglieli questa sera
dopo il tè, presumo, e lavarla.»
Le parole erano improntate a praticità più che intese a consolare. Meggie annuì, sorridendo incerta;
a volte desiderava intensamente sentir ridere sua madre, ma la mamma non rideva mai. La bimbetta
intuiva che loro due condividevano qualcosa di speciale che non apparteneva a Pa' e ai ragazzi, ma
non c'era modo di andare al di là di quella schiena sempre dritta, di quei piedi mai fermi. Ma' si
limitava ad annuire distrattamente e a far frusciare le gonne voluminose, con movimenti esperti,
dalla cucina al tavolo mentre continuava a lavorare, a lavorare, a lavorare.
Di una cosa nessuno dei figlioli, tranne Frank, poteva rendersi conto, e cioè che Fee era
definitivamente, inguaribilmente stanca. C'erano tante di quelle cose da fare, mancava quasi del
tutto il denaro per farle, mancava il tempo, e lei aveva due sole mani. Non vedeva l'ora che
giungesse il giorno in cui Meggie sarebbe stata abbastanza grande per aiutarla; la bambina sbrigava
già alcune semplici faccende, ma all'età di quattro anni non poteva certo alleviare il suo fardello. Sei
figli, ma una sola bimba, e per giunta la più piccola. Tutte le sue conoscenti erano al contempo
comprensive e invidiose. Ma questo non sbrigava di certo il lavoro. Nel cestino dei lavori di cucito
si trovava una montagna di calzini ancora da rammendare, sui ferri da calza era infilata una calza
ancora da completare, e Hughie stava crescendo più dei maglioni che indossava, mentre Jack non
poteva ancora cedergli i suoi.
Padraic Cleary si trovava lì, la settimana del compleanno di Meggie, per caso. Era ancora troppo
presto per tosare le pecore, e aveva del lavoro da sbrigare nei dintorni, arare e seminare. Faceva di
mestiere il tosatore di pecore, un mestiere stagionale, dalla metà dell'estate al termine dell'inverno,
dopodiché nascevano gli agnelli. Di solito, riusciva a trovare abbastanza lavoro per tirare avanti
durante la primavera e nei primi mesi estivi, dando una mano per gli agnelli, arando, o sostituendo
un allevatore nelle interminabili mungiture due volte al giorno. Andava dove c'era lavoro, lasciando
la famiglia, nella grande vecchia casa, a barcamenarsi; non era certo una crudeltà come poteva
sembrare. A meno che uno non fosse così fortunato da possedere terre, non poteva regolarsi
diversamente.
Quando rientrò, poco dopo il tramonto, le lampade erano accese e le ombre giocavano a rimpiattino,
baluginando, sull'alto soffitto. I ragazzi, riuniti sulla veranda dietro la casa, si divertivano con un
ranocchio, tutti tranne Frank; Padraic sapeva dov'era Frank perché udiva i tonfi costanti di una scure
dalla legnaia. Si soffermò sulla veranda soltanto quanto bastava per piazzare una pedata sul sedere
di Jack e per tirare un orecchio a Bob.
«Andate ad aiutare Frank con la legna, brutti sfaticati. E farete bene a finire prima che Ma' porti il tè
a tavola, se no vedrete che voleranno delle sberle!»
Salutò con un cenno Fiona indaffarata davanti alla cucina economica; non la baciò né l'abbracciò,
perché riteneva che le manifestazioni d'affetto tra marito e moglie si addicessero soltanto alla
camera da letto. Mentre si serviva del cavastivali per togliersi gli scarponi incrostati di fango,
Meggie entrò saltellante portandogli le pantofole, e lui sorrise alla bimbetta con la strana sensazione
di stupore che provava invariabilmente vedendola. Era così graziosa, aveva così bei capelli; prese
un ricciolo tra le dita e lo lisciò, poi lo lasciò andare, soltanto per vederlo arrotolarsi dondolando
mentre riprendeva la forma di prima. Sollevata la bambina tra le braccia, andò a mettersi sull'unica
sedia comoda che si trovasse nella cucina, una sedia Windsor, alla quale era stato legato con nastri
un cuscino, accostata al fuoco. Lasciandosi sfuggire un sommesso sospiro, vi si abbandonò di peso
e si tolse di tasca la pipa, vi batté su e fece cadere, noncurante, la cenere di tabacco, contenuta nel
fornello, sul pavimento. Meggie gli si rannicchiò in grembo e gli gettò le braccia al collo, il visetto
fresco voltato all'insù verso il suo mentre si divertiva con il gioco serale: vedere la luce filtrata tra la
corta stoppia della sua barba dorata.
«Come stai, Fee?» domandò Padraic Cleary alla moglie.
«Benissimo, Paddy. Hai finito il pascolo basso, oggi?»
«Sì, è tutto fatto. Posso cominciare con quello alto per prima cosa domattina. Ma, Signore, quanto
sono stanco!»
«Lo credo bene. MacPherson ti ha dato di nuovo la vecchia giumenta cocciuta?»
«Ci puoi giurare. Non crederai che se la tenga lui per dare a me il roano, no? Le braccia mi dolgono
come se me le avessero strappate dalle giunture. In tutta la Nuova Zelanda, giuro, non c'è giumenta
con la bocca più dura.»
«Non te la prendere. I cavalli del vecchio Robertson sono tutti buoni e presto sarai là.»
«Non sarà mai presto abbastanza.» Pigiò tabacco forte nel fornello della pipa e tolse una candela dal
grosso vaso situato accanto alla stufa. Un rapido guizzo nel fornello e la pipa si accese; lui si
appoggiò all'indietro sulla sedia e aspirò con tanta energia che la pipa fece rumori gorgoglianti.
«Che cosa si prova ad avere quattro anni, Meggie?» domandò a sua figlia.
«È molto bello, Pappi.»
«Ma' te lo ha dato il regalo?»
«Oh, Pappi, come avete fatto tu e Ma' a indovinare che volevo Agnese?»
«Agnese?» Scoccò una rapida occhiata a Fee, sorridendo e interrogandola con le sopracciglia
inarcate. «È così che si chiama, Agnese?»
«Sì, è bellissima, Pappi. Voglio guardarla tutto il giorno.»
«È una fortuna se ha qualcosa da guardare» disse Fee, torva. «Jack e Hughie si sono impadroniti
della bambola prima che la povera Meggie avesse modo di vederla bene.»
«Be', i ragazzi sono ragazzi. L'hanno rotta?»
«Niente di irrimediabile. Frank li ha colti sul fatto prima che la facessero a pezzi.»
«Frank? Che cosa ci stava facendo qui? Doveva restare nella fucina tutto il giorno. Hunter ha
bisogno dei cancelli.»
«Ci è restato tutto il giorno. È venuto soltanto a prendere non so quale attrezzo» si affrettò a dire
Fee; Padraic era troppo severo con il figlio maggiore.
«Oh, Pappi, Frank è il migliore dei fratelli! Ha impedito che la mia Agnese venisse uccisa, e dopo il
tè le incollerà di nuovo i capelli.»
«Bene» disse suo padre sonnacchiosamente, appoggiando la testa alla spalliera della sedia e
chiudendo gli occhi.
Faceva caldo davanti alla cucina economica, ma lui non parve accorgersene; gli si formarono sulla
fronte gocce di sudore, luccicanti. Si mise le braccia dietro il capo e si appisolò.
I ragazzi avevano ereditato da Padraic Cleary le varie sfumature dei loro folti e ondulati capelli
rossi, sebbene nessuno potesse vantare una zazzera aggressivamente rossa come la sua. Era un
uomo piccoletto, con una struttura di molle d'acciaio, le gambe storte per aver sempre vissuto tra i
cavalli, le braccia lunghe a furia di tosare pecore un anno dopo l'altro; il torace e le braccia erano
rivestiti da un vello dorato che, se nero, sarebbe stato laido. Gli occhi erano di un vivido azzurro,
sempre socchiusi come quelli di un marinaio, perché non faceva che guardare lontano. Aveva una
faccia simpatica, con un che di stravagante e di sorridente che lo rendeva gradito al primo sguardo
agli altri uomini. Il naso era magnifico, un autentico naso romano che doveva lasciare interdetti i
suoi compatrioti irlandesi, ma quella dell'Irlanda è sempre stata una costa di naufragi. Parlava
ancora con la pronuncia molle, rapida e difettosa dell'irlandese di Galway, dicendo le «t» finali
come «th», ma i quasi vent'anni trascorsi agli Antipodi vi avevano sovrapposto una verniciatura
bizzarra, per cui le «a» suonavano «i», e inoltre la rapidità nell'esprimersi era diventata un po' più
lenta, come un vecchio orologio che ha bisogno di essere caricato a fondo. Era riuscito ad adattarsi
alla sua dura e faticosa esistenza meglio della maggior parte degli altri, e, sebbene fosse un rigido
fautore della disciplina e le sue pedate lasciassero il segno, tutti i suoi figli, tranne uno, lo
adoravano. Se il pane non bastava per tutti, ne faceva a meno; se bisognava scegliere tra un vestito
nuovo per lui, e un vestito nuovo per uno dei suoi rampolli, rinunciava a rimpannucciarsi. In un
certo qual modo, questa era una prova di affetto più palpabile d'un milione di facili baci. Era molto
irascibile, e una volta aveva ucciso un uomo. La fortuna gli era stata propizia; si trattava di un
inglese, e una nave nel porto di Dun Laoghaire stava salpando per la Nuova Zelanda.
Fiona si avvicinò alla porta sul retro e gridò: «Tè!»
I ragazzi entrarono uno dopo l'altro, Frank per ultimo, con una bracciata di legna che lasciò cadere
nella grande cassa accanto alla cucina economica. Padraic mise giù Meggie e si portò a una
estremità del tavolo da pranzo al lato opposto della cucina, mentre i ragazzi prendevano posto ai lati
e Meggie si arrampicava sulla cassetta di legno posta dal padre sopra la sedia più vicina alla sua.
Fee distribuì il cibo nei piatti sul tavolo da lavoro, più rapida ed efficiente di un cameriere; li portò
due alla volta, prima a Pa' e a Frank, e così via fino a Meggie, servendo se stessa per ultima.
«Accidenti! Stufato!» esclamò Stuart, facendo smorfie mentre prendeva coltello e forchetta.
«Perché mi avete dato un nome che somiglia a stufato?» (La pronuncia di stufato è uguale a quella
di Stu, diminutivo di Stuart. [N.d.T.]
«Mangia» ringhiò suo padre.
I piatti erano grandi e colmi di cibo: patate lesse, stufato d'agnello e fagioli colti quel giorno stesso
nell'orto. Tutti, compreso Stu, ripulirono il proprio piatto con il pane, e divorarono parecchie altre
fette di pane spalmandovi su spessi strati di burro e di marmellata di uvaspina fatta in casa. Fee
sedette, mangiò in fretta la sua porzione, poi tornò subito ad alzarsi e si affrettò verso il tavolo da
lavoro sul quale, entro profonde fondine, distribuì una gran quantità di biscotti fatti con molto
zucchero e cosparsi abbondantemente di marmellata. Un fiume di bollente e fumante crema di uova
e latte venne versato su ciascun piatto, dopodiché arrancò di nuovo verso il tavolo da pranzo
portando due piatti alla volta. Infine si rimise a sedere con un sospiro; il dolce poteva gustarlo con
calma.
«Oh, che bellezza! Budino alla marmellata!» esclamò Meggie, spostando avanti e indietro il
cucchiaio nel dolce finché la marmellata non filtrò attraverso la crema ricamando il giallo con
striature rosa.
«Be', Meggie, piccola, è il tuo compleanno, e così Ma' ha preparato il budino che preferisci» disse
suo padre, sorridendo.
Non ci furono lamentele, questa volta; il budino venne gustato avidamente. I Cleary erano tutti
ghiotti di dolci.
Nessuno di loro aveva un chilo di ciccia superflua, nonostante le grandi quantità di cibi ricchi
d'amido che consumavano. Smaltivano ogni grammo di ciò che avevano mangiato lavorando o
giocando. Si nutrivano di frutta e verdura perché giovavano alla salute, ma erano il pane, le patate,
la carne e i budini caldi, con farina in abbondanza, a tenere a bada la spossatezza.
Dopo che Fee ebbe versato a tutti una tazza di tè dal bricco gigantesco, si trattennero a tavola per
un'ora o più, chiacchierando, bevendo o leggendo; Pa' succhiava la pipa con la testa affondata in un
libro, Fee continuava a riempire le tazze, Bob era immerso in un altro libro, mentre i ragazzi più
piccoli facevano progetti per l'indomani. La scuola era chiusa per le lunghe vacanze estive e i
bambini, liberi, non vedevano l'ora di dedicarsi ai lavori assegnati dal babbo in casa e nell'orto. Bob
doveva ritoccare la verniciatura esterna ovunque fosse necessario, Jack e Hughie avrebbero
provveduto alla legna, alla manutenzione degli edifici annessi e alla mungitura, mentre Stuart si
sarebbe occupato dell'orto; divertimenti, in confronto agli orrori della scuola. Di tanto in tanto, Pa'
alzava la testa dal libro per aggiungere un altro incarico all'elenco, ma Fee non diceva niente, e
Frank si abbandonava stancamente sulla sedia, sorseggiando una tazza di tè dopo l'altra.
Infine, Fee fece cenno a Meggie di sedersi su un alto sgabello e le intrecciò i capelli per la notte
prima di spedirla a letto con Stu e con Hughie; Jack e Bob chiesero il permesso di alzarsi e uscirono
per dar da mangiare ai cani, Frank portò la bambola di Meggie sul tavolo da lavoro e cominciò a
incollarle di nuovo i capelli. Stiracchiandosi, Padraic chiuse il libro e mise la pipa nell'enorme e
iridescente conchiglia paua che gli serviva da posacenere.
«Be', Ma', io me ne vado a letto.»
«Buonanotte, Paddy.»
Fee sparecchiò la tavola e staccò dal suo gancio alla parete una grossa tinozza di ferro zincato. La
posò sull'estremità opposta del tavolo da lavoro rispetto a Frank e, tolta dalla cucina economica la
massiccia pentola di ghisa, riempì la tinozza di acqua calda; l'acqua fredda contenuta in un vecchio
bidone di petrolio servì per ridurre la temperatura nella tinozza fumante; dopo avervi rimestato il
sapone racchiuso entro una protezione di fil di ferro, cominciò a lavare e sciacquare i piatti,
mettendoli poi a scolare uno accanto all'altro contro una tazza.
Frank aveva lavorato alla bambola senza alzare la testa, ma, quando la fila di piatti cominciò ad
allungarsi, si alzò silenziosamente per prendere una salvietta e cominciò ad asciugarli. Spostandosi
tra il tavolo da lavoro e la credenza, si diede da fare con la disinvoltura di una lunga familiarità. Era
un gioco furtivo e timoroso, quello cui si stavano dedicando lui e sua madre, poiché la norma più
imperiosa nel regno di Paddy concerneva la giusta distribuzione dei compiti. Le faccende
domestiche erano un lavoro da donne, e basta. Nessun componente di sesso maschile della famiglia
doveva sbrigare lavori femminili. Eppure ogni sera, dopo che Pa' era andato a coricarsi, Frank
aiutava la madre, e Fee collaborava e lo facilitava rimandando il momento di lavare i piatti finché
non udivano il tonfo delle pantofole di Padraic che cadevano sul pavimento. Dopo essersi tolto le
pantofole, Pa' non tornava mai in cucina.
Fee rivolse a Frank uno sguardo dolce. «Non so come farei senza di te, Frank. Ma non dovresti.
Sarai troppo stanco domattina.»
«Sciocchezze, Ma'. Asciugare qualche piatto non mi ammazzerà. È una ben piccola cosa, e ti
consente di faticare un po' meno.»
«È il compito mio, Frank. Non mi pesa.»
«Vorrei soltanto che diventassimo ricchi, un giorno o l'altro. Così potresti avere una cameriera.»
«Questi sono pii desideri!» Si asciugò le mani insaponate e rosse con lo strofinaccio, poi le poggiò
sui fianchi, sospirando. I suoi occhi, quando si posarono sul figlio, erano vagamente preoccupati,
perché intuiva l'amaro scontento di lui, qualcosa di più violento della normale ribellione di chi
lavora contro la propria sorte. «Frank, non metterti in mente idee grandiose. Apparteniamo alla
classe operaia, e questo significa che non diventeremo ricchi e non avremo mai cameriere.
Accontentati di quello che sei e di quello che hai. Quando dici queste cose, offendi Pa', e lui non lo
merita, lo sai bene. Non beve, non gioca, e lavora spaventosamente per noi. Non un centesimo di
quello che guadagna gli resta in tasca; è tutto destinato a noi.»
Le spalle muscolose si ingobbirono spazientite, la faccia bruna divenne dura e torva. «Ma perché
dovrebbe essere una brutta cosa volere nella vita qualcosa che non sia solo fatica? Non vedo che
cosa ci sia di male se desidero che tu abbia una cameriera.»
«È un male perché non può essere! Sai bene che non abbiamo il denaro per farti studiare, e, se non
continuerai gli studi, come potrai mai diventare qualcosa di meglio di un manovale? Il tuo accento,
il modo di vestire, le mani dimostrano che fatichi per vivere. Ma non è un'onta avere i calli sulle
mani. Come dice Pa', quando le mani di un uomo sono callose, puoi star certo che è onesto.»
Frank fece spallucce e non disse altro. Tutti i piatti vennero messi via; Fee prese il cestino da lavoro
e si mise sulla sedia di Paddy accanto al fuoco, mentre Frank tornava a dedicarsi alla bambola.
«Povera piccola Meggie!» esclamò, a un tratto.
«Perché?»
«Oggi, quando quei mascalzoni le stavano strapazzando la bambola, lei si limitava a rimanere
immobile in piedi e a piangere come se il mondo intero fosse andato in pezzi.» Abbassò gli occhi
sulla bambola, che aveva di nuovo i capelli. «Agnese! Dove è andata a pescarlo, santo Cielo, un
nome simile?»
«Deve avermi sentita parlare di Agnese Fortescue-Smythe, presumo.»
«Quando le ho ridato la bambola, le ha guardato entro la testa e per poco non è morta di paura.
Qualcosa degli occhi l'ha spaventata; non so bene che cosa.»
«Meggie vede continuamente cose che non esistono.»
«È un peccato che non abbiamo abbastanza soldi per continuare a fare studiare i bambini. Sono così
intelligenti!»
«Oh! Frank! Se i desideri fossero cavalli, i mendicanti potrebbero cavalcare» disse sua madre,
stancamente. Si passò la mano, un po' tremante, sugli occhi, e conficcò l'ago da rammendo in un
gomitolo di lana grigia. «Non ce la faccio più. Sono troppo stanca per vederci bene.»
«Va' a letto, Ma'. Spegnerò io le lampade.»
«Non appena avrò caricato la stufa.»
«Ci penserò io.» Si alzò dal tavolo e posò con cautela la fragile bambola di porcellana dietro una
forma per budini sulla credenza, ove sarebbe stata al sicuro. Non temeva che i bambini potessero
tentare una nuova devastazione; avevano più paura della sua vendetta che di quella del padre,
perché Frank aveva in sé una vena di perfidia. Quando si trovava con la madre o con la sorella non
la manifestava mai, ma tutti i ragazzi l'avevano dolorosamente sperimentata.
Fee lo osservò, con una stretta al cuore; c'era qualcosa di selvaggio e di disperato, in Frank, un'aura
di guai. Se soltanto lui e Paddy fossero andati più d'accordo! Ma non riuscivano mai a essere dello
stesso parere, e non facevano che discutere. Forse Frank si preoccupava un po' troppo per lei, forse
era un po' il cocco di mamma. Fee sapeva di essere in colpa, se le cose stavano realmente in quel
modo. Ma questa era la riprova dell'affettuosità, della bontà di Frank. Lui voleva soltanto renderle la
vita un po' più comoda. E di nuovo Fee si sorprese ad anelare al giorno in cui Meggie sarebbe stata
grande abbastanza per togliere il fardello dalle spalle di Frank.
Tolse dal tavolo una piccola lampada, poi la rimise giù e si avvicinò a Frank che, accosciato davanti
alla cucina economica, la caricava con la legna ed era alle prese con la valvola di tiraggio. Sul
braccio bianco di lui risaltavano vene sporgenti, la sue mani ben fatte erano troppo sature di
sporcizia per poter mai essere del tutto pulite. La mano di Fee si sporse timidamente e, con grande
leggerezza, gli scostò i capelli lisci e neri dagli occhi; era il massimo cui potesse indursi in fatto di
carezze.
«Buonanotte, Frank, e grazie.»
Le ombre ruotavano e sfrecciavano dinanzi alla lampada che avanzava mentre Fee passava
silenziosamente per la porta del lato anteriore della casa.
Frank e Bob dormivano nella prima camera da letto; lei aprì l'uscio senza rumore e tenne alta la
lampada; la luce inondò il letto a due piazze nell'angolo. Bob giaceva supino, a bocca aperta,
fremendo e guizzando come un cane; Fee si avvicinò al letto e girò il ragazzo sul fianco destro
prima che potesse scivolare in un vero e proprio incubo, poi indugiò un momento, contemplandolo.
Quanto somigliava a Paddy!
Jack e Hughie erano quasi intrecciati insieme nell'altra stanza. Che tremendi che erano! Ne
combinavano sempre qualcuna, ma senza malvagità. Invano cercò di separarli e di rimettere un po'
in ordine le coperte; le due rosse teste ricciute si rifiutarono di scostarsi l'una dall'altra. Con un lieve
sospiro, Fee rinunciò. Come riuscissero a sentirsi riposati dopo aver dormito in quel modo, superava
le sue capacità di comprensione, eppure sembravano lo stesso sempre carichi di energie.
La stanza ove dormivano Meggie e Stuart era squallida e lugubre per due bimbetti; dipinta in
marrone spento e con il pavimento di linoleum marrone, senza quadri alle pareti. Identica alle altre
camere da letto.
Stuart si era girato nel letto e rimaneva del tutto invisibile eccetto il sedere, che sporgeva dalle
coperte là ove si sarebbe dovuta trovare la testa; Fee gliela trovò dopo avergli toccato le ginocchia,
e, come sempre, si meravigliò che non fosse soffocato. Fece scivolare con cautela la mano sotto il
lenzuolo e si irrigidì. Bagnato di nuovo! Bene, bisognava rimandare alla mattina dopo, quando,
senza dubbio, anche il guanciale sarebbe stato bagnato. Succedeva sempre così, Stuart si girava nel
letto e poi faceva pipì ancora una volta. Be', un solo bambino su cinque che bagnava il letto, non era
male.
Meggie dormiva acciambellata come un mucchietto, il pollice in bocca e i capelli sparsi tutto
attorno. La sola femmina. Fee si limitò a sbirciarla con uno sguardo fuggevole prima di uscire; non
esisteva alcun mistero in Meggie, era una femmina. Fee sapeva quale sarebbe stata la sua sorte, e
non la invidiava né la compassionava. I ragazzi erano diversi; erano miracoli, maschi usciti in
seguito a chissà quale alchimia dal suo corpo di femmina. Una dura sorte non essere aiutata in casa,
ma ne valeva la pena. I figli maschi costituivano il più grande motivo d'orgoglio di Paddy tra i suoi
pari. Chi generava figli maschi era un vero uomo.
Fee chiuse silenziosamente la porta della propria camera da letto e mise la lampada su uno scrittoio.
Le dita agili volarono giù per le decine di minuscoli bottoni tra il collo alto e la vita del vestito, poi
lo sfilarono dalle braccia. Sfilò dalle braccia anche la camicetta e, tenendola molto attentamente
contro il petto, si contorse entro una lunga camicia da notte di flanella. Soltanto allora, una volta
decentemente coperta, si liberò della camicetta, delle mutande e del busto non strettamente
allacciato. I capelli d'oro raccolti in una crocchia compatta si sciolsero e tutti gli spilloni vennero
posti in una conchiglia paua sulla toletta. Ma anche ai capelli, per quanto fossero splendidi, folti e
lucenti e molto lisci, non era consentita alcuna libertà; Fee portò i gomiti sopra il capo, le mani
dietro il collo, e prese a intrecciarli rapidamente. Si voltò poi verso il letto, il respiro inconsciamente
trattenuto; ma Paddy dormiva e lei si lasciò sfuggire un profondo sospiro di sollievo. Non che la
cosa non fosse bella quando Paddy era in vena, perché si trattava di un amante timido, tenero,
premuroso. Ma, fino a quando Meggie non avesse avuto due o tre anni di più, sarebbe stato molto
gravoso mettere al mondo altri figli.
2

Quando i Cleary andavano in chiesa, la domenica, Meggie doveva restare a casa con uno dei ragazzi
più grandi, a desiderare il giorno in cui anche lei sarebbe stata abbastanza avanti negli anni per
accompagnare gli altri. Padraic Cleary sosteneva che i bambini piccoli stavano bene soltanto a casa
loro, e questo valeva anche per la casa del Signore. Quando Meggie avesse cominciato ad andare a
scuola e avesse imparato a stare ferma, si sarebbe potuta recare in chiesa. Non prima. E così, ogni
domenica mattina, rimaneva in piedi accanto al cespuglio di ginestra, di lato al cancello, desolata,
mentre la famiglia si ammonticchiava sul vecchio calesse e il fratello incaricato di badare a lei
cercava di fingere che fosse piacevolissimo evitare la Messa. Il solo Cleary cui piacesse restare
separato dagli altri era Frank.
La religiosità di Paddy costituiva un aspetto intrinseco della sua vita. Quando aveva sposato Fee,
ciò era avvenuto con l'approvazione cattolica data a malincuore, poiché Fee apparteneva alla Chiesa
anglicana; pur avendo abbandonato la propria fede per Paddy, lei si era rifiutata di adottare la sua.
Difficile dire perché, a parte il fatto che gli Armstrong appartenevano a una stirpe di vecchi pionieri
di impeccabile estrazione anglicana, mentre Paddy era un immigrato senza il becco di un quattrino,
proveniente dalla parte cattolica dell'Irlanda. Erano già esistiti Armstrong nella Nuova Zelanda
molto tempo prima che giungessero i primi coloni «ufficiali» e ciò costituiva un passaporto per
entrare a far parte dell'aristocrazia coloniale. Dal punto di vista degli Armstrong, si poteva dire
soltanto che Fee aveva stretto una scandalosa mésalliance.
Roderick Armstrong era stato il fondatore del clan nella Nuova Zelanda, in modo curioso.
Tutto era incominciato con un evento destinato ad avere molte impreviste ripercussioni
sull'Inghilterra del diciottesimo secolo: la guerra per l'indipendenza americana. Fino al 1776, più di
mille delinquenti comuni, inglesi, venivano imbarcati ogni anno per la Virginia e le due Caroline, e
venduti per contratto a un servaggio non migliore della schiavitù. La giustizia inglese di quei tempi
era truce e implacabile: l'assassinio, l'incendio doloso e il furto di più di uno scellino venivano
puniti con la forca. I reati meno gravi comportavano la deportazione a vita nelle Americhe.
Ma quando, nel 1776, le Americhe rimasero precluse, l'Inghilterra venne a trovarsi con un numero
di condannati che cresceva rapidamente, senza sapere dove metterli. Le prigioni traboccavano e
coloro che non vi trovavano posto finivano pigiati entro putridi scafi ormeggiati negli estuari dei
fiumi. Bisognava fare qualcosa e qualcosa fu fatto. Con somma riluttanza, perché ciò implicava la
spesa di alcune migliaia di sterline, al capitano Arthur Phillip venne impartito l'ordine di salpare per
la Grande Terra del Sud. Era l'anno 1787. La sua flotta di undici navi aveva a bordo più di mille
detenuti, oltre ai marinai, agli ufficiali, e a un contingente di fanteria di marina. Non fu, questa, una
gloriosa odissea alla ricerca della libertà. Alla fine di gennaio del 1788, otto mesi dopo la partenza
dall'Inghilterra, la flotta arrivò nella Botany Bay. Sua Pazza Maestà Giorgio III aveva trovato un
nuovo deposito per i rifiuti della società, la colonia del Nuovo Galles del Sud.
Nel 1801, quando aveva appena vent'anni, Roderick Armstrong fu condannato alla deportazione a
vita. Le successive generazioni di Armstrong si ostinarono a dire che proveniva da una famiglia
patrizia del Somerset impoveritasi dopo la rivoluzione americana, e che non aveva mai commesso
alcun reato, ma nessuno tentò seriamente di risalire alle origini dell'illustre antenato. Si limitarono
tutti a crogiolarsi nella gloria riflessa.
Quali che fossero state le sue origini e la sua condizione sociale in Inghilterra, il giovane Roderick
Armstrong era un violento e un ribelle. Per tutti gli indescrivibili otto mesi di traversata fino al
Nuovo Galles del Sud, dimostrò di essere un detenuto caparbio e intrattabile e si rese ulteriormente
caro agli ufficiali della sua nave rifiutandosi di crepare. Quando arrivò a Sydney, nel 1803, si
comportò ancor peggio, per cui venne spedito all'isola Norfolk, nella prigione degli intrattabili. Ciò
non bastò a farlo ravvedere. Lo affamarono; lo murarono in una cella tanto angusta che non poteva
né sedersi, né stare in piedi, né sdraiarsi; lo fustigarono fino a ridurlo una polpa gelatinosa; lo
incatenarono a uno scoglio in mare lasciando che rasentasse l'annegamento. Ed egli - scarno, tutto
ossa, coperto di sudicia tela, senza un dente in bocca, senza un centimetro di pelle esente da
cicatrici, acceso interiormente da un fuoco di rancore e di sfida che niente sembrava poter spegnere
— continuò a ridere di loro. All'inizio di ogni giornata, impegnava se stesso a non morire, e al
termine di ogni giornata rideva trionfante nel trovarsi ancora vivo.
Nel 1810 lo mandarono nella Terra di Van Diemen, e lo incatenarono ad altri che dovevano scavare
una strada nell'arenaria dura come ferro dietro a Hobart. Alla prima occasione, si servì del piccone
per scavare un buco nel petto del militare che comandava la spedizione; insieme ad altri dieci
forzati massacrò i rimanenti cinque militari raschiando loro la carne dalle ossa un centimetro alla
volta finché non morirono urlando per le sofferenze. Sia i forzati sia gli uomini che li sorvegliavano
erano esseri elementari le cui emozioni si erano atrofizzate fino a ridurli a uno stato subumano.
Roderick Armstrong non avrebbe potuto fuggire lasciando i suoi aguzzini integri, o uccidendoli
rapidamente, più di quanto potesse rassegnarsi a essere un forzato.
Con il rum e il pane e la carne essiccata tolti ai militari, gli undici uomini si aprirono una strada
attraverso chilometri e chilometri di foresta e di piogge e giunsero nella base baleniera di Hobart,
ove rubarono una scialuppa e salparono sul Mare di Tasmania senza viveri, senz'acqua e senza vele.
Quando la scialuppa venne gettata dai venti sulla selvaggia costa occidentale dell'Isola Meridionale
della Nuova Zelanda, Roderick Armstrong e altri due uomini vivevano ancora. Egli non parlò mai
di quel viaggio incredibile, ma si bisbigliò che i tre erano riusciti a sopravvivere uccidendo e
divorando i compagni più deboli.
Questo, nove anni esatti dopo che era stato deportato dall'Inghilterra. Era un uomo ancora giovane,
ma dimostrava sessant'anni. Quando i primi coloni con la sanzione ufficiale giunsero nella Nuova
Zelanda, l'anno 1840, si era impossessato di terre nel ricco distretto Canterbury dell'Isola
Meridionale, aveva «sposato» una donna Maori e generato una nidiata di tredici splendidi figli per
metà polinesiani. Ed entro il 1860, gli Armstrong erano aristocratici coloniali, mandavano la loro
progenie maschile a studiare in signorili scuole private in Inghilterra, e dimostravano ampiamente,
con la propria scaltrezza e possessività, di essere davvero gli autentici discendenti di un uomo
straordinario e formidabile. Il nipote di Roderick, James, generò Fiona nel 1880, l'unica femmina su
quindici figli.
Anche se Fee sentiva la mancanza dei più austeri riti protestanti della sua fanciullezza, non lo
diceva mai. Tollerava le convinzioni religiose di Paddy, andava ad assistere alla Messa con lui,
faceva in modo che i suoi figli adorassero un Dio esclusivamente cattolico. Ma siccome non si era
mai convertita, mancavano i piccoli tocchi della religiosità, come il benedicite prima dei pasti, e le
preghiere prima di coricarsi, la santità quotidiana.
A parte quell'unica puntata fino a Vahiné, diciotto mesi prima, Meggie non si era mai spinta più
lontano da casa del granaio e della fucina nella conca. La mattina del suo primo giorno di scuola,
era talmente eccitata che vomitò la colazione e dovette essere riportata nella camera da letto e lavata
e cambiata. Via il bel vestitino nuovo di stoffa blu-mare, con il grande colletto bianco alla marinara,
e su l'orrido vestituccio di flanella marrone, che si abbottonava fino in alto intorno al suo piccolo
collo e sempre le dava la sensazione di esserne soffocata.
«E per amor del Cielo, Meggie, la prossima volta che avrai la nausea, dimmelo. Non startene seduta
finché non è troppo tardi e a me tocca ripulire un disastro, oltre a tutto il resto che ho da fare! Ora
dovrai affrettarti, perché se arriverai in ritardo, dopo la campanella, è certo che Suor Agata ti punirà
a bacchettate. Comportati bene e bada ai tuoi fratelli.»
Bob, Jack, Hughie e Stu stavano saltellando avanti e indietro accanto al cancello quando Fee spinse
infine Meggie fuori della porta, con le tartine alla marmellata per la colazione in una vecchia
cartella.
«Su, vieni, Meggie, arriveremo in ritardo!» gridò Bob, incamminandosi lungo la strada.
Meggie seguì di corsa le sagome man mano più piccole dei fratelli.
Erano le sette del mattino passate da poco e il sole mite si trovava nel cielo da parecchie ore; la
rugiada si era asciugata sull'erba, tranne nei punti d'ombra più fitta. La strada di Vahiné era un
sentiero di terra battuta segnato dai solchi delle ruote, due nastri rosso-scuri separati da un'ampia
fascia d'erba di un verde smagliante. Gigli calla bianchi e nasturzi arancione fiorivano in
abbondanza tra l'erba alta a ciascun lato, ove i lindi recinti di legno avvertivano di non entrare nelle
proprietà che fiancheggiavano il sentiero.
Bob andava invariabilmente a scuola camminando in equilibrio sulla cresta dei recinti di destra,
tenendo la cartella di cuoio in bilico sulla testa, invece di portarla a tracolla. I recinti sulla sinistra
appartenevano a Jack. I tre Cleary più piccoli erano padroni del sentiero. In cima al lungo e ripido
colle sul quale dovevano salire, dalla conca della fucina al punto in cui la strada di Robertson si
univa alla strada di Vahiné, sostarono per un momento, ansimanti, le cinque vivide teste profilate
contro un cielo di nubi gonfie. Quello era il tratto più piacevole, la discesa dalla collina; si presero
per mano e galopparono giù per il pendio erboso, sin dove scompariva in un intrico di fiori,
augurandosi di avere il tempo di strisciare sotto il recinto del signor Chapman e di rotolare sino in
fondo come macigni.
La casa dei Cleary distava otto chilometri da Vahiné e quando Meggie scorse in lontananza i pali
del telegrafo, le gambe le tremavano e le calze le stavano scivolando giù. Tendendo l'orecchio per
udire la campanella dell'inizio delle lezioni, Bob la sbirciò spazientito mentre arrancava e si
soffermava di tanto in tanto per tirarsi su le mutande o emettere un ansito di sgomento. La faccia
sotto la massa di capelli era rosea, eppure curiosamente pallida. Con un sospiro, Bob passò la
cartella a Jack e fece scorrere le mani lungo i lati dei calzoni alla zuava.
«Avanti, Meggie, ti porto io sulle spalle per il resto della strada» disse in tono brusco, fissando torvo
i fratelli, se per caso avessero avuto l'idea sbagliata che stava diventando tenero.
Meggie gli si arrampicò sulla schiena, si sollevò quanto bastava per stringergli le gambe intorno alla
vita, e gli appoggiò la testa alla spalla ossuta con una sensazione di beatitudine. Ora avrebbe potuto
vedere Vahiné comodamente.
Non c'era molto da vedere. Poco più di un grosso villaggio, Vahiné si allineava ai due lati di una
strada catramata. L'edificio più grande era l'albergo, a due piani, con una tenda che riparava dal sole
il vialetto d'accesso e pali che sostenevano la tenda lungo il rigagnolo. Subito dopo, in ordine di
grandezza, veniva l'emporio, che a sua volta vantava una tenda e due lunghe panche di legno sotto
le vetrine, affinché i passanti potessero riposarvisi. C'era un'asta per bandiera davanti alla loggia
massonica; alla sua sommità, una lacera bandiera inglese stinta sventolava nella brezza fresca. Nella
cittadina non esisteva ancora un'autorimessa, il numero delle carrozze senza cavalli essendo
limitatissimo, ma c'era un fabbroferraio vicino alla loggia massonica e, dietro la fucina, una
scuderia, mentre un distributore di benzina si levava rigido accanto all'abbeveratoio dei cavalli. La
sola costruzione di tutto l'abitato che davvero attirasse lo sguardo era un singolare negozio, dipinto
in blu vivido, assai poco inglese; tutti gli altri edifici erano verniciati in un sobrio marrone. La
scuola pubblica e la Chiesa anglicana si trovavano a fianco a fianco, proprio di fronte alla Chiesa
del Sacro Cuore e alla scuola parrocchiale.
Mentre i Cleary passavano frettolosamente davanti all'emporio, la campanella della scuola cattolica
risuonò, seguita dai rintocchi più sonori della grossa campana sostenuta da un palo di fronte alla
scuola pubblica. Bob si mise a trottare ed entrarono nel cortile inghiaiato mentre una cinquantina di
bambini si allineava davanti a una minuscola suora con una bacchetta di salice più alta di lei. Senza
bisogno di sentirselo dire, Bob guidò i fratelli da un lato, lontano dalle file di bambini, e rimase
immobile, gli occhi fissi sulla bacchetta.
Il convento del Sacro Cuore era a due piani, ma poiché si trovava molto indietro rispetto alla strada,
e dietro un recinto, la cosa non saltava agli occhi tanto facilmente. Le tre suore dell'Ordine delle
Sorelle della Misericordia che lo mandavano avanti alloggiavano al primo piano, con una quarta
suora, che fungeva da governante, e non si vedeva mai; al pianterreno si trovavano le tre grandi aule
nelle quali venivano impartite le lezioni. Un'ampia veranda in ombra correva tutto intorno
all'edificio rettangolare e lì, nei giorni di pioggia, ai bambini era consentito restare decorosamente
seduti durante gli intervalli per la ricreazione e i pasti, mentre nei giorni di sole nessuno poteva
mettervi piede. Numerosi alberi di fichi facevano ombra a una parte degli spaziosi giardini, e dietro
la scuola il terreno scendeva in lieve pendio verso uno spiazzo rotondo ed erboso eufemisticamente
denominato «il campo di cricket» in riferimento alla principale attività che vi si svolgeva.
Ignorando le risatine maliziose e soffocate dei bambini disposti in fila, Bob e i suoi fratelli rimasero
perfettamente immobili mentre gli allievi sfilavano entro la scuola al suono degli accordi di Suor
Catherine che martellava «Fede dei nostri padri» sul pianoforte tintinnante del convento. Soltanto
quando l'ultimo bambino fu scomparso, Suor Agata abbandonò il proprio rigido atteggiamento; con
le pesanti sottane di sargia che frusciavano imperiosamente spazzando via la ghiaia, andò a gran
passi là ove i Cleary aspettavano.
Meggie la contemplò a bocca aperta, non avendo mai veduto, prima di quel momento, una suora. La
visione era davvero straordinaria: tre frammenti di persona, vale a dire la faccia e le mani di Suor
Agata, mentre tutto il resto consisteva in soggolo e pettorina bianchi, inamidati e vistosi contro
strati su strati del nero più nero, con la fila massiccia dei chicchi di un rosario di legno penzolanti
dall'anello di ferro al quale si collegavano le estremità di una larga cintola di cuoio bianco intorno
alla vita robusta. La pelle di Suor Agata era permanentemente rossa, per un eccesso di pulizia e a
causa della pressione esercitata dagli orli, simili a lame di coltello, del soggolo che incorniciava il
lato anteriore della testa, inquadrando qualcosa di troppo incorporeo per essere chiamato faccia;
corti peli spuntavano a ciuffi dappertutto sul mento, che il soggolo spietatamente comprimeva
rendendolo doppio. Le labbra rimanevano del tutto invisibili, strette in un'unica linea di
concentrazione a causa dell'aspra fatica di essere la Sposa del Cristo in una retrograda colonia dalle
stagioni capovolte, mentre lei aveva pronunciato i voti nella dolce soavità di un'abbazia di Killarney
più di cinquant'anni prima. Aveva due piccoli segni cremisi impressi sui lati del naso dalla presa
spietata dei tondi occhiali cerchiati in acciaio, e dietro le lenti gli occhi scrutavano sospettosi, color
celeste scialbo e amareggiati.
«Ebbene, Robert Cleary, perché sei in ritardo?» latrò Suor Agata, con la sua voce asciutta, un tempo
irlandese.
«Mi dispiace, Sorella» rispose Bob legnosamente, gli occhi sempre fissi sull'estremità della
bacchetta vibrante che oscillava avanti e indietro.
«Perché sei in ritardo?»
«Mi dispiace, Sorella.»
«Questa è la prima mattina del nuovo anno scolastico, Robert Cleary, e a me pare che almeno
stamane, se non le altre mattine, avresti potuto fare lo sforzo di arrivare puntualmente.»
Meggie rabbrividì, ma chiamò a raccolta il coraggio. «Oh, la prego, Sorella, la colpa è stata mia!»
squittì.
Gli occhi di un celeste scialbo si distolsero da Bob e parvero trapassare l'anima stessa di Meggie,
mentre lei rimaneva lì a guardare in su con sincera innocenza, ignara di avere trasgredito alla prima
regola di comportamento nel duello mortale in corso ad infinitum tra insegnanti e allievi: non dare
mai informazioni spontaneamente. Bob le sferrò un calcio fulmineo alla gamba e Meggie lo sbirciò
in tralice, smarrita.
«Perché è stata colpa tua?» domandò la suora, nel tono più gelido che Meggie avesse mai udito.
«Ecco, ho vomitato dappertutto sul tavolo e il vomito mi è arrivato fino alle mutande, e così Ma' ha
dovuto cambiarmi e lavarmi, e ho fatto arrivare tutti in ritardo» spiegò Meggie ingenuamente.
Le fattezze di Suor Agata rimasero inespressive, ma la bocca si tese come una molla troppo caricata,
e la punta della bacchetta si abbassò di tre o quattro centimetri. «Chi è questa?» scattò, rivolta a
Bob, come se l'oggetto della sua domanda fosse stato una specie nuova e particolarmente detestabile
di insetto.
«La prego, Sorella, è mia sorella Meghann.»
«Allora in avvenire le farai comprendere che esistono certi argomenti dei quali noi non parliamo
mai, Robert, se siamo vere signore e veri gentiluomini. Per nessun motivo al mondo nominiamo mai
e poi mai un qualsiasi capo della nostra biancheria, come i bambini di una famiglia decente
dovrebbero già sapere. Porgete le mani, tutti quanti.»
«Ma, Sorella, la colpa è stata mia!» gemette Meggie, tendendo le mani con i palmi in su, poiché
aveva veduto i fratelli mimare quel gesto in casa almeno un migliaio di volte.
«Silenzio!» sibilò Suor Agata, voltandosi verso di lei. «Mi lascia del tutto indifferente sapere chi di
voi è il responsabile. Siete tutti in ritardo, e per conseguenza dovete essere puniti tutti quanti. Sei
colpi.» Pronunciò la sentenza con voce monotona, ma con gioia.
Terrorizzata, Meggie osservò le mani ferme di Bob, vide la lunga bacchetta fischiar giù quasi più
rapida di quanto i suoi occhi potessero seguirla, e la udì schioccare secca sul centro del palmo, dove
la carne era soffice e tenera. Una striscia rossa si accese all'istante; il secondo colpo piombò sulla
giunzione tra dita e palmo, ancor più sensibile, e l'ultimo sui polpastrelli delle dita, che il cervello
ha saturato di sensibilità più di ogni altro punto del corpo, tranne le labbra. La mira di Suor Agata
era perfetta. Seguirono ancora tre colpi sull'altra mano di Bob, prima che ella rivolgesse la propria
attenzione a Jack, il secondo della fila. La faccia di Bob era pallida, ma lui non gridò e non si
mosse, e nello stesso modo si comportarono i suoi fratelli, man mano che veniva il loro turno;
persino il calmo e tenero Stu.
Mentre seguivano con lo sguardo la traiettoria all'insù della bacchetta sopra le sue mani, gli occhi di
Meggie si chiusero involontariamente per non vederla calare. Ma il dolore fu come una vasta
esplosione, uno scorticamento, una bruciante invasione della sua carne sino all'osso; nel momento
stesso in cui il dolore si irradiava, facendole formicolare l'avambraccio, seguì il colpo successivo, e
quando raggiunse la spalla, l'ultimo colpo sulle punte delle dita urlò lungo la stessa strada, arrivando
però al cuore. Lei affondò i denti nel labbro inferiore e lo morse, troppo colma di vergogna e troppo
orgogliosa per piangere, troppo infuriata e indignata a causa dell'ingiustizia per trovare l'audacia di
aprire gli occhi e fissare Suor Agata; la lezione veniva assimilata, anche se il suo nocciolo non era
ciò che Suor Agata intendeva insegnare.
Venne l'ora di pranzo prima che gli ultimi residui di dolore le si dileguassero dalle mani. Meggie
aveva trascorso la mattinata in una bruma di paura e di smarrimento, senza capire nulla di quello
che veniva detto o fatto. Spinta in un doppio banco nell'ultima fila dell'aula dei bambini più piccoli,
non notò neppure chi fosse la sua compagna, tranne che dopo la malinconica ora del pasto trascorsa
stando rannicchiata dietro a Bob e a Jack in un angolo appartato del cortile della ricreazione.
Soltanto un ordine severo di Bob la persuase a mangiare le tartine con la marmellata di uvaspina
preparate da Fee.
Quando la campanella squillò, annunciando l'inizio delle lezioni del pomeriggio, e Meggie trovò un
posto nella fila, gli occhi cominciarono infine a schiarirlesi quanto bastava per consentirle di vedere
ciò che stava accadendo intorno a lei. L'onta delle bacchettate continuava a bruciarle, tagliente come
prima, ma tenne la testa alta e finse di non accorgersi delle gomitate e dei bisbigli delle bimbette più
vicine.
Suor Agata si trovava in testa con la bacchetta; Suor Declan andava su e giù dietro le file; Suor
Catherine sedeva al pianoforte subito al di là della porta dell'aula dei più piccoli e cominciò a
suonare «Avanti, soldati cristiani», sottolineando con molta enfasi il ritmo due quarti. Si trattava, a
dire il vero, di un inno protestante, ma la guerra lo aveva reso accettabile. I cari bambini marciavano
a quegli accordi proprio come piccoli soldati, pensò orgogliosa Suor Catherine.
Delle tre religiose, Suor Declan era una copia di Suor Agata, meno quindici anni di vita, mentre
Suor Catherine continuava a essere remotamente umana. Non aveva ancora superato la trentina,
veniva dall'Irlanda, naturalmente, e il fiore del suo ardore non era del tutto appassito;
l'insegnamento continuava a darle gioia, vedeva sempre l'imperitura immagine del Cristo nelle
faccette voltate all'insù verso la sua con espressioni così adoranti. Ma insegnava ai bambini più
grandi, quelli che Suor Agata riteneva fossero stati abbastanza percossi per comportarsi bene
nonostante una maestra giovane e amabile. Quanto a lei, Suor Agata si occupava dei bambini più
piccoli, per foggiarne le menti e i cuori con l'argilla dell'infanzia, lasciando quelli di mezzo a Suor
Declan.
Nascosta e al sicuro nell'ultima fila di banchi, Meggie osò sbirciare in tralice la bambina che le
sedeva accanto. Un sorriso sdentato accolse il suo sguardo impaurito, enormi occhi scuri la
fissarono tondi in una faccia bruna e lievemente lucida. La bambina affascinò Meggie, abituata alle
carnagioni chiare e alle lentiggini, poiché persino Frank, con gli occhi e i capelli neri, aveva la pelle
bianca; e così Meggie finì con il giudicare la compagna di banco la più bella creatura che avesse
mai veduto.
«Come ti chiami?» mormorò la bruna bellezza, con un angolo della bocca, rosicchiando dall'altra
parte la matita, e sputando i pezzettini di legno entro il calamaio vuoto.
«Meggie Cleary» fu la bisbigliata risposta.
«Ehi tu, laggiù!» giunse una voce asciutta e aspra, dall'altro lato dell'aula.
Meggie sussultò, guardandosi attorno smarrita. Vi fu un trepestio cavernoso mentre venti bambini
posavano le matite tutti contemporaneamente, e un fruscio sommesso mentre preziosi fogli di carta
venivano spinti da parte per consentire ai gomiti di appoggiarsi furtivamente sui banchi. Con il
cuore che sembrava caderle giù verso le scarpe, Meggie si rese conto che tutti la fissavano. Suor
Agata stava venendo avanti rapida lungo il passaggio; il terrore di Meggie divenne così acuto che,
se soltanto vi fosse stata qualche possibilità di fuggire, sarebbe scappata a gambe levate. Ma dietro
di lei si trovava la parete divisoria dell'aula di mezzo, a ciascun lato i banchi la imprigionavano, e
dinanzi a sé aveva Suor Agata. Gli occhi occuparono quasi tutto lo spazio della faccetta livida,
mentre li alzava sulla suora soffocando la paura, aprendo e chiudendo le mani sul piano del banco.
«Hai parlato, Meghann Cleary.»
«Sì, Sorella.»
«E che cosa hai detto?»
«Il mio nome, Sorella.»
«Il tuo nome!» la schernì Suor Agata, voltandosi a guardare gli altri bambini, come se anch'essi
dovessero condividere senz'altro quel disprezzo. «Bene, bambini, non è un grande onore? Un'altra
Cleary nella nostra scuola, e non vede l'ora di proclamare le sue generalità!» Tornò a rivolgersi a
Meggie. «Alzati quando ti parlo, piccola selvaggia ignorante! E porgi le mani, per piacere.»
Meggie si districò dal banco, con i lunghi riccioli che le oscillavano contro la faccia e rimbalzavano
via. Intrecciando le mani, le torse disperatamente, ma Suor Agata non si mosse, si limitò ad
aspettare, aspettare, aspettare... Poi, in qualche modo, Meggie riuscì a costringere le proprie mani a
disgiungersi, ma, mentre la bacchetta calava, le tirò indietro di scatto, ansimante per il terrore. Suor
Agata affondò le dita nei capelli annodati a crocchia sul cocuzzolo della testa di Meggie e la
trascinò più vicina a sé, accostandole la faccia a pochi centimetri dagli spaventosi occhiali.
«Porgi le mani, Meghann Cleary.» Le parole vennero pronunciate cortesemente, gelide e
implacabili.
Meggie aprì la bocca e vomitò dappertutto sul davanti dell'abito di Suor Agata. Vi fu un inorridito
risucchiare il respiro da parte di ogni bambino nell'aula mentre Suor Agata rimaneva immobile, con
il vomito disgustoso che gocciolava lungo le pieghe nere sul pavimento, la faccia paonazza di
rabbia e di stupore. Poi la bacchetta si abbatté, ovunque potesse finire sul corpo di Meggie mentre
lei alzava le braccia per proteggersi il viso e si faceva piccola, sempre vomitando, nell'angolo.
Quando Suor Agata ebbe il braccio tanto stanco da non poter più alzare la bacchetta, additò la porta.
«Tornatene a casa, ripugnante piccola filistea» disse; quindi girò sui tacchi ed entrò nell'aula di Suor
Declan.
Lo sguardo frenetico di Meggie trovò Stu; lui fece di sì con la testa, per dirle che doveva fare come
le era stato detto, i teneri occhi azzurro-verdi colmi di compassione e di comprensione.
Asciugandosi la bocca con il fazzoletto, la bambina passò incespicante per la porta e uscì nel cortile
della ricreazione. Mancavano ancora due ore al termine delle lezioni; arrancò lungo la strada,
spenta, sapendo che i fratelli non avrebbero potuto raggiungerla, e troppo impaurita per trovare un
posto in cui aspettarli. Doveva tornare a casa sola e confessare tutto a Ma' per proprio conto.
Fee per poco non le cadde addosso, mentre barcollava fuori della porta dietro casa con una cesta
piena di biancheria bagnata. Meggie sedeva sull'ultimo gradino della veranda posteriore, a testa
bassa, le estremità dei chiari riccioli appiccicose e il davanti del vestito imbrattato. Deposto il peso
schiacciante della cesta, Fee sospirò e si scostò dagli occhi una ciocca ribelle.
«Ebbene, che cosa è successo?» domandò in tono stanco.
«Ho vomitato tutto addosso a Suor Agata.»
«Oh, Signore!» esclamò Fee, le mani sui fianchi.
«Sono stata anche punita a bacchettate» bisbigliò Meggie, mentre le lacrime le riempivano gli occhi
senza sgorgare.
«Un bel guaio davvero, devo dire.» Fee sollevò la cesta, barcollando finché non fu riuscita a
equilibrarla. «Be', Meggie, non so come regolarmi con te. Dovremo aspettare e sentire che cosa dirà
Pa'.» E si incamminò, attraverso il cortile, nella direzione della biancheria che sbatteva nel vento,
sulle corde riempite a mezzo.
Passandosi stancamente le mani sulla faccia, Meggie seguì con lo sguardo la madre per un
momento, poi si alzò e si incamminò giù per il sentiero della fucina.
Frank aveva appena terminato di ferrare la giumenta baia del signor Robertson e la stava facendo
indietreggiare nella stalla quando Meggie apparve sulla soglia. Si voltò, la vide, e i ricordi della sua
terribile infelicità a scuola tornarono, pervadendolo. Meggie era così piccola, così infantilmente
grassoccia e innocente e tenera, ma la luce nei suoi occhi sembrava essere stata spenta brutalmente
e ora vi si celava un'espressione che lo indusse a voler assassinare Suor Agata. Assassinarla, proprio
assassinarla, afferrarla sotto il doppio mento e stringere... Lasciò cadere gli attrezzi, si tolse il
grembiule; andò rapido verso la bambina.
«Che cosa c'è, cara?» domandò, chinandosi fino ad avere la faccia alla stessa altezza della sua.
L'odore del vomito saliva da lei come un miasma, ma Frank represse l'impulso di scostarsi.
«Oh, Fra-Fra-Frank!» gemette; il visetto le si alterò e le lacrime non trovarono argini, finalmente.
Gli gettò le braccia al collo e gli si avvinghiò appassionatamente, piangendo nello strano modo
silenzioso, doloroso, tipico di tutti i piccoli Cleary non appena si lasciavano indietro l'infanzia. Era
orribile a vedersi e non bastavano a fugarlo le parole tenere o i baci.
Quando la bambina fu di nuovo calma, la prese in braccio e la portò sul mucchio di fieno dal
profumo soave, accanto alla giumenta del signor Robertson; vi sedettero vicini, lasciando che la
cavalla intaccasse i margini del loro giaciglio, dimentichi del mondo. Il capo di Meggie poggiava
sul torace nudo e liscio di Frank e ciocche dei capelli di lei si muovevano qua e là mentre la cavalla
soffiava con gusto sul fieno, sbuffando di piacere.
«Perché ha dato bacchettate a tutti noi, Frank?» domandò Meggie. «Le avevo detto che la colpa era
mia.»
Frank si era ormai abituato al cattivo odore, che non lo infastidiva più; tese una mano e
distrattamente accarezzò il muso della giumenta, respingendolo quando diventava troppo invadente.
«Siamo poveri, Meggie, questa è la ragione più importante; le suore odiano sempre gli allievi
poveri. Quando sarai stata per alcuni giorni nella vecchia e muffita scuola di Suor Agata, ti
accorgerai che non se la prende soltanto con i Cleary, ma anche con i Marshall e con i MacDonald.
Siamo tutti poveri. Se invece fossimo ricchi e andassimo a scuola con una grande carrozza come gli
O'Brien, le suore ci riempirebbero di complimenti dalla testa ai piedi. Ma non possiamo regalare un
organo alla chiesa, o paramenti dorati alla sacrestia, o un cavallo e un calesse nuovo alle suore. Con
noi possono fare quello che vogliono.
«Un giorno, ricordo, Suor Ag si arrabbiò tanto con me che continuò a gridarmi: "Piangi, per amor di
Dio! Fatti sentire, Francis Cleary! Se tu mi dessi la soddisfazione di sentirti strillare, non ti
percuoterei così forte o così di frequente."
«Questa è un'altra ragione per cui ci odia; perché siamo migliori dei Marshall e dei MacDonald. I
Cleary non riesce a farli piangere. Dovremmo leccarle le scarpe. Be', io ho già detto ai ragazzi che
cosa farei a qualsiasi Cleary se anche soltanto gemesse prendendosi le bacchettate, e questo vale
anche per te, Meggie. Per quanto forte possa picchiarti, non un lamento. Hai pianto, oggi?»
«No, Frank» sbadigliò lei, con le palpebre grevi e il pollice che ciecamente si spostava sul viso in
cerca della bocca. Frank la fece coricare sul fieno e si rimise al lavoro, canticchiando e sorridendo.
Meggie dormiva ancora quando entrò Paddy. Le braccia erano sudicie perché aveva pulito la
vaccheria del signor Jarman: portava il cappello a larga tesa calcato sin sugli occhi. Osservò Frank
che foggiava una scure sull'incudine, con fasci di scintille turbinanti intorno alla testa, poi lo
sguardo di lui si volse verso sua figlia raggomitolata sul fieno e verso la giumenta baia del signor
Robertson, che faceva ciondolare la testa sopra il visetto addormentato.
«Immaginavo che fosse qui» disse Paddy, lasciando cadere la frusta e portando il vecchio roano
nella parte del granaio destinata a stalla.
Frank annuì appena, e alzò gli occhi sul padre con uno di quei cupi sguardi di dubbio e di incertezza
che Paddy trovava sempre così esasperanti, poi tornò a dedicarsi alla scure incandescente, i fianchi
nudi resi luccicanti dal sudore.
Dopo aver tolto la sella al roano, Paddy lo legò al suo posto, riempì l'abbeveratoio, quindi mescolò
crusca e avena con un po' d'acqua. L'animale nitrì sommessamente, in segno d'affetto, quando lui
vuotò il foraggio nella mangiatoia e lo seguì con lo sguardo mentre si avvicinava al grande trogolo
fuori della fucina, sfilandosi la camicia. Paddy si lavò le braccia, la faccia e il torace, bagnandosi i
calzoni al ginocchio e i capelli. Dopo essersi asciugato con un vecchio sacco, fissò il figlio,
interrogativo.
«Ma' mi ha detto che Meggie è stata mandata a casa per punizione. Sai che cosa è successo,
esattamente?»
Frank smise di battere la scure mentre l'incandescenza moriva. «Ha vomitato tutto addosso a Suor
Agata.»
Affrettandosi a cancellare il sorriso dalla propria faccia, Paddy fissò la parete opposta per un
momento, per ricomporsi, poi si voltò verso Meggie. «Troppo eccitata dal primo giorno di scuola,
eh?»
«Non lo so. Ha vomitato prima di uscire di casa, stamane, e così sono arrivati dopo la campana. Si
sono buscati tutti quanti sei bacchettate, ma Meggie era molto sconvolta perché pensava che la
punizione sarebbe dovuta toccare soltanto a lei. Dopo l'ora di pranzo, Suor Ag si è scatenata di
nuovo e la nostra Meggie le ha vomitato pane e marmellata sul lindo abito nero.»
«Che cosa è accaduto, allora?»
«Suor Ag l'ha bacchettata ben bene e l'ha mandata a casa per punizione.»
«Be', direi che è già stata punita abbastanza. Ho un gran rispetto per le suore e so che non spetta a
noi criticare le loro azioni, ma vorrei che fossero un po' meno leste con la bacchetta. So bene che
per insegnare a leggere e a far di conto alle dure teste irlandesi ci vogliono botte, ma, alla fin fine,
era il primo giorno di scuola per Meggie.»
Frank stava fissando suo padre, stupito. Mai, fino a quel momento, Paddy aveva parlato da uomo a
uomo con il figlio maggiore. Emergendo, scosso, dal suo perpetuo risentimento, Frank si rese conto
che, nonostante tutte le fiere vanterie, Paddy voleva bene a Meggie più di quanto ne volesse ai figli
maschi. Si sorprese ad amare, quasi, suo padre, e pertanto sorrise senza la diffidenza consueta.
«È una piccola straordinaria, vero?» domandò.
Paddy annuì distrattamente, assorto nella contemplazione della bambina. La cavalla soffiò, facendo
crepitare le labbra; Meggie si mosse, si girò ed aprì gli occhi. Quando scorse il padre in piedi
accanto a Frank, si drizzò a sedere di scatto, e la paura le fece impallidire la pelle.
«Bene, Meggie, piccola, hai avuto una giornata dura, eh?» Paddy si avvicinò e la sollevò dal fieno,
trattenendo il respiro mentre veniva investito da una folata di odore di vomito. Poi alzò le spalle e la
tenne stretta contro di sé.
«Sono stata punita a bacchettate, Pappi.»
«Be', conoscendo Suor Agata, non sarà l'ultima volta» rise lui, mettendosela appollaiata sulla spalla.
«Sarà bene andare a vedere se Ma' ha dell'acqua calda nel paiolo per farti il bagno. Puzzi più della
vaccheria di Jarman.»
Frank si portò sulla soglia e osservò le due teste rosse che dondolavano su per il sentiero, poi si
voltò e vide gli occhi dolci della giumenta baia che lo guardavano.
«Su, vieni, vecchia sgualdrina, ti porto a casa» le disse, chinandosi a prendere la cavezza.
La vomitata di Meggie finì per essere una benedizione mascherata. Suor Agata continuava a
bacchettarla con regolarità, ma sempre tenendosi lontana abbastanza per sottrarsi alle possibili
conseguenze, il che riduceva la forza del braccio e annullava del tutto la precisione della mira.
La bambina bruna seduta accanto a Meggie era la figlia minore dell'italiano proprietario e gestore
del bar-ristorante di Vahiné verniciato in vivido blu. Si chiamava Teresa Annunzio ed era ottusa quel
tanto che bastava per sottrarsi all'attenzione di Suor Agata, ma senza esserlo a tal punto da divenirne
il bersaglio. Quando le crebbero i denti, diventò notevolmente bella, e Meggie l'adorava. Durante
gli intervalli, passeggiavano nel cortile della ricreazione cingendosi la vita, un indizio del fatto che
si era «amiche intime», non disponibili alle attenzioni altrui. E parlavano, parlavano, parlavano.
Una volta, durante l'ora di pranzo, Teresa condusse Meggie nel ristorante per farle conoscere sua
madre e suo padre, nonché i fratelli e le sorelle più grandi. Rimasero incantati dai suoi capelli di
fuoco dorato, così come lo era lei dalle loro nere zazzere, e la paragonarono a un angelo quando li
contemplò con i grandi occhi, mirabilmente screziati di grigio. Aveva ereditato dalla madre
un'indefinibile aria patrizia della quale tutti si accorgevano immediatamente; e se ne accorse anche
la famiglia Annunzio. Ansiosi quanto Teresa di coccolarla, le diedero patatine unte, fritte in
pentoloni sfrigolanti di grasso d'agnello, e un pezzo di pesce molto spinoso che aveva un sapore
delizioso essendo stato immerso in una pastella di farina e fritto nello stesso grasso fumante,
insieme alle patatine, ma entro una reticella separata. Meggie non aveva mai gustato cibo così
delizioso, e si augurò di poter pranzare più spesso nel ristorante. Ma quella era stata un'occasione
speciale e aveva richiesto particolari permessi di sua madre e delle suore.
La conversazione di Meggie in casa cominciò a essere formata soltanto da «Teresa dice» e «Sapete
che cosa ha fatto Teresa?» finché Paddy non urlò che aveva sentito parlare anche troppo di Teresa.
«Non so se sia una così buona idea andare troppo d'accordo con i latini» borbottò, in quanto
condivideva l'istintiva diffidenza della comunità inglese nei confronti di ogni persona bruna di pelle
o mediterranea. «I latini sono sudici, Meggie, piccola, non si lavano troppo spesso» spiegò
zoppicante, smontato dall'occhiata di risentito rimprovero scoccatagli da Meggie.
Ferocemente geloso, Frank lo approvò. E così, Meggie parlò più di rado della sua amica quando si
trovava in casa. Ma la disapprovazione domestica non poteva ostacolare quell'amicizia, limitata
com'era ai giorni e alle ore di scuola. Bob e gli altri bambini erano anche troppo contenti di vedere
Meg completamente accaparrata da Teresa. Potevano così sfrenarsi a più non posso nel cortile della
ricreazione, proprio come se la sorella non fosse esistita.
Le cose inintelligibili che Suor Agata continuava a scrivere sulla lavagna cominciarono a poco a
poco ad assumere un significato, e Meggie imparò che «+» significava contare tutti i numeri fino a
pervenire a un totale, mentre un «-» significava togliere i numeri scritti sotto dai numeri scritti sopra
e finire con numeri più piccoli di quelli che si erano avuti all'inizio. Era una bambina intelligente e
sarebbe stata un'allieva ottima, se non proprio brillante, qualora fosse riuscita a sormontare il timore
di Suor Agata. Ma non appena quegli occhi a succhiello si volgevano dalla sua parte e quell'asciutta
voce di vecchia le poneva una brusca domanda, lei balbettava, tartagliava e non riusciva a pensare.
Trovava facile l'aritmetica, ma quando doveva dimostrare a parole la propria capacità, non ricordava
più quanto facesse due più due. Imparare a leggere significò entrare in un mondo così affascinante
da non poterne mai avere abbastanza ma non appena Suor Agata le diceva di alzarsi e di leggere un
brano ad alta voce, Meggie stentava a pronunciare la parole più facili, figurarsi poi quelle lunghe e
complicate. Le sembrava di essere continuamente in preda a un tremito, bersagliata dai commenti
sarcastici di Suor Agata, o di arrossire perché il resto della classe rideva di lei. Infatti era sempre la
sua lavagnetta quella che Suor Agata mostrava a tutti, tenendola alta, per schernirla, ed erano
sempre i suoi fogli di carta faticosamente scritti quelli di cui si serviva Suor Agata per dimostrare
l'orrore di un compito disordinato. Alcuni dei bambini più ricchi erano così fortunati da possedere
gomme per cancellare, ma la sola gomma di Meggie era la punta del dito, che leccava e strofinava
sui propri errori causati dal nervosismo, finché la scrittura non si spandeva a chiazze e la carta
veniva via formando salsicce in miniatura. Questo causava buchi ed era severamente vietato, ma lei
era talmente disperata da tentare qualsiasi cosa pur di evitare le critiche di Suor Agata.
Fino al suo arrivo, Stuart era stato il primo bersaglio della bacchetta e della velenosità della suora.
Ma Meggie rappresentava un bersaglio di gran lunga migliore, poiché la malinconica placidità di
Stuart e il suo distacco quasi da santo erano noci dure da rompere, anche per Suor Agata. Meggie,
invece, tremava tutta e diventava rossa come una barbabietola, sebbene si sforzasse così virilmente
di attenersi al comportamento dei Cleary, come lo aveva definito Frank. Stuart provava una gran
compassione per Meggie e cercava di facilitarle le cose attraendo deliberatamente le ire della suora
sul proprio capo, ma la maestra scopriva immediatamente l'astuzia e si adirava ancor più nel
constatare che la solidarietà dei Cleary si estendeva anche alla bambina, come era sempre accaduto
tra i fratelli. Se qualcuno le avesse domandato per quale precisa ragione si accaniva tanto contro i
Cleary, non sarebbe stata in grado di rispondere. Ma per un'anziana religiosa, amareggiata quanto
Suor Agata dal corso della propria esistenza, una famiglia orgogliosa e suscettibile come i Cleary
non era facile da mandar giù.
La colpa peggiore di Meggie consisteva nell'essere mancina. Quando prese guardinga tra le dita il
gessetto, per cimentarsi nella prima lezione di scrittura, Suor Agata si avventò su di lei come Cesare
contro i Galli.
«Meghann Cleary, metti giù quel gessetto!» tuonò.
E così ebbe inizio un'accanita battaglia. Meggie era mancina, inguaribilmente e senza speranze.
Allorché Suor Agata le fletté a forza le dita della mano destra nella posizione giusta intorno al
gessetto e le tenne la mano sopra la lavagna, Meggie sentì che le girava la testa, senza avere la più
pallida idea di come costringere l'arto colpevole a fare ciò che, secondo la maestra, poteva fare.
Divenne mentalmente sorda, muta e cieca; quell'inutile appendice, la mano destra, non era più
collegata delle dita dei piedi ai suoi processi mentali. Tracciò una linea tortuosa fuori dell'orlo della
lavagna, perché non riusciva a flettere la mano; lasciò cadere il gessetto come se fosse paralizzata;
nessuno dei tentativi di Suor Agata poté far sì che la mano destra di Meggie tracciasse una «A». In
seguito, furtivamente, Meggie trasferì il gessetto nella mano sinistra e, con il braccio goffamente
incurvato intorno a tre lati della lavagnetta, tracciò una fila di meravigliose «A» degne di un
incisore.
Fu Suor Agata a vincere la battaglia. Un mattino, quando i bambini si allinearono, legò a Meggie il
braccio sinistro contro il corpo con una corda, e non lo sciolse finché non squillò la campanella che
annunciava il termine delle lezioni, alle tre del pomeriggio. Persino all'ora di pranzo la bambina
dovette mangiare, passeggiare e giocare con il braccio sinistro saldamente immobilizzato.
Occorsero tre mesi, ma in ultimo imparò a scrivere correttamente secondo i dettami di Suor Agata,
anche se il contorno delle lettere non fu mai buono. Allo scopo di accertarsi che non ricominciasse
mai a servirsene, il braccio sinistro le venne tenuto legato per altri due mesi; poi Suor Agata riunì
l'intera scolaresca e fece recitare un rosario di ringraziamento a Dio Onnipotente per la Sua
saggezza nel far sì che Meggie si fosse resa conto del proprio errore. I figli di Dio adoperavano di
preferenza la destra; i bambini mancini erano generati dal demonio, specie se avevano i capelli
rossi.
Durante quel primo anno di scuola Meggie perdette le rotondità dell'infanzia e diventò molto magra,
sebbene fosse cresciuta poco di statura. Cominciò a rosicchiarsi le unghie, Suor Agata la costrinse a
girare intorno a ogni banco della scuola tenendo le mani in fuori affinché tutti i bambini potessero
vedere quanto erano brutte le unghie rosicchiate. E questo sebbene una buona metà degli allievi tra i
cinque e i quindici anni si rosicchiassero le unghie quanto Meggie.
Fee tirò fuori la bottiglia di aloe amaro e spalmò sulla punta delle dita di Meggie l'orribile sostanza.
Tutti gli appartenenti alla famiglia vennero arruolati affinché si accertassero che Meggie non avesse
mai modo di lavar via l'aloe. Quando le altre bimbette a scuola notarono le macchie brune, Meggie
si sentì mortificata. Se si metteva le dita in bocca, il sapore era indescrivibile, schifoso e nero come
il bagno insetticida per le pecore; in preda alla disperazione, lei sputava nel fazzoletto e si strofinava
finché non riusciva a liberarsi della maggior parte della sostanza. Paddy prese il suo frustino, uno
strumento assai più mite della bacchetta di Suor Agata, e la fece saltellare tutto attorno alla cucina.
Era contrario a percuotere i suoi figli sulle mani, sulla faccia o sulle natiche, e si limitava alle
gambe. Le gambe sentivano il dolore quanto ogni altra parte del corpo, diceva, e non potevano
essere danneggiate. Eppure, nonostante l'aloe amaro, il ridicolo, la bacchetta di Suor Agata e il
frustino di Paddy, Meggie continuò a rosicchiarsi le unghie.
L'amicizia con Teresa Annunzio era la felicità della sua esistenza, la sola cosa che rendesse
sopportabile la scuola. Subiva le lezioni nell'angosciosa attesa che giungesse l'intervallo della
ricreazione per potersi mettere a sedere sotto il grande fico con il braccio intorno alla vita di Teresa,
e il braccio di Teresa intorno alla sua, parlando e parlando. Ascoltava racconti sulla straordinaria
famiglia forestiera di Teresa, sulle numerose bambole della compagna e sul suo vero servizio da tè
decorato con disegni cinesi.
Quando vide il servizio da tè, rimase sopraffatta. Era formato da centootto pezzi, tazzine in
miniatura e piattini e vassoi, con una teiera e una zuccheriera e una lattiera nonché un apposito
recipiente per la panna, e poi cucchiaini e forchettine e coltellini delle dimensioni giuste perché
potessero servirsene le bambole. Teresa possedeva innumerevoli giocattoli; oltre a essere molto più
piccola della più giovane delle sue sorelle, apparteneva a una famiglia italiana, e ciò significava che
veniva appassionatamente e apertamente amata e viziata per quanto lo consentivano le possibilità
finanziarie del padre. Ognuna delle due bambine considerava l'altra con meraviglia reverenziale e
con invidia, sebbene Teresa non avesse mai invidiato l'educazione calvinista e stoica di Meggie. La
compassionava, piuttosto. Non potersi rifugiare dalla mamma, per farsi abbracciare e baciare?
Povera Meggie!
Meggie, da parte sua, si trovava nell'impossibilità di paragonare la mamma sorridente, piccoletta e
corpulenta di Teresa con la propria madre, magra e seria, per cui non pensava mai: vorrei che Ma'
mi abbracciasse e mi baciasse. Pensava invece: vorrei che la mamma di Teresa abbracciasse e
baciasse anche me. Ma le immagini degli abbracci e dei baci erano di gran lunga meno frequenti
nella sua mente delle immagini del servizio da tè con decorazioni cinesi. Era così delicato, così
sottile e fragile, così bello! Oh, se soltanto avesse avuto anche lei un servizio da tè con decorazioni
cinesi, e le fosse stato possibile offrire il tè delle cinque ad Agnese con una tazzina blu-scuro e
bianca, su un piattino blu-scuro e bianco!
Durante la benedizione del venerdì nella vecchia chiesa, con le belle e grottesche sculture maori, e
con il soffitto dipinto nello stile maori, Meggie si inginocchiava e pregava per avere un servizio da
tè cinese tutto suo. Quando Padre Hayes sollevava l'Ostensorio, l'Ostia consacrata era appena
visibile attraverso lo sportellino di vetro al centro dei raggi incrostati di gemme. Padre Hayes
benediceva i fedeli a capo chino. Tutti tranne Meggie, che non vedeva nemmeno l'Ostia; era troppo
intenta a sforzarsi di ricordare quanti piattini ci fossero nel servizio da tè con decorazioni cinesi di
Teresa; e quando i Maori nella cantoria attaccavano il coro glorioso, la testa di Meggie girava in uno
stordimento di blu oltremare molto lontano dal Cattolicesimo o dalla Polinesia.
L'anno scolastico si stava avvicinando al termine, il mese di dicembre e il giorno del suo
compleanno cominciavano a preannunciare la piena estate, allorché Meggie imparò quanto si
poteva pagar caro il desiderio più ardente. Sedeva su un alto sgabello accanto alla cucina economica
e Fee le stava acconciando i capelli, come sempre prima che andasse a scuola; si trattava di una
faccenda complicata. I capelli di Meggie tendevano ad arricciarsi di loro iniziativa, la qual cosa era
considerata una grande fortuna da sua madre. Le bambine con i capelli lisci si trovavano a mal
partito quando crescevano e tentavano di ricavare magnifiche masse ondulate dalle loro zazzerette
lisce e rade. Di notte, Meggie dormiva con i capelli, lunghi sin quasi alle ginocchia, fastidiosamente
arrotolati intorno a pezzetti di vecchie lenzuola tagliate a lunghe strisce, e tutte le mattine doveva
arrampicarsi sullo sgabello mentre Fee svolgeva gli straccetti e le spazzolava i riccioli.
Fee si serviva di una vecchia spazzola per capelli Mason Pearson, prendendo un lungo e arruffato
ricciolo nella mano sinistra e spazzolandolo abilmente intorno al proprio dito indice finché l'intera
lunghezza del ricciolo non risultava arrotolata a formare un lucente e spesso salsicciotto, poi sfilava
con cautela il dito dal centro del rotolo e scuoteva quest'ultimo facendo sì che divenisse un lungo
boccolo folto e lucido. Questa manovra veniva ripetuta circa venti volte, poi raccoglieva tutti
insieme i boccoli sopra il cocuzzolo della testa di Meggie mediante un nastro di taffetà appena
stirato, dopodiché la bambina era pronta per uscire. Tutte le altre bambine portavano le trecce, a
scuola, lasciando i riccioli per le grandi occasioni, ma su questo punto Fee era inflessibile. Meggie
doveva avere sempre i boccoli, per quanto a lei riuscisse difficile trovare il tempo necessario per
pettinarla ogni mattina. Una precauzione scriteriata, se soltanto Fee se ne fosse resa conto, poiché i
capelli di sua figlia erano di gran lunga i più belli dell'intera scolaresca. E sottolineare la cosa con i
boccoli faceva sì che la piccola venisse molto invidiata e odiata.
Si trattava di una faccenda dolorosa, ma Meggie ci era troppo abituata per accorgersene, poiché non
ricordava un solo giorno in cui non fosse stata pettinata in quel modo. Il braccio muscoloso di Fee
dava strattoni spietati con la spazzola attraverso nodi e grovigli finché gli occhi di Meggie non si
riempivano di lacrime e lei doveva afferrarsi allo sgabello con tutte e due le mani per non cadere.
Era il lunedì dell'ultima settimana di scuola e mancavano due giorni appena al suo compleanno; si
afferrò allo sgabello e sognò il servizio da tè decorato alla cinese, sapendo bene che si trattava di un
sogno. Ce n'era uno nell'emporio di Vahiné, e lei se ne intendeva abbastanza di prezzi per capire che
il costo del servizio lo poneva molto al di là degli esigui mezzi di suo padre.
A un tratto Fee si lasciò sfuggire un verso così strano da strappare Meggie alle sue fantasticherie e
da far sì che i maschi della famiglia ancora seduti al tavolo della colazione voltassero la testa
incuriositi.
«Gesù Cristo Santissimo!» disse Fee.
Paddy balzò in piedi, lo stupore sulla faccia; non aveva mai udito, prima di allora, Fee pronunciare
invano il nome del Signore. Fee rimaneva in piedi con uno dei riccioli di Meggie nella mano, la
spazzola a mezz'aria, le fattezze contorte in un'espressione di orrore e di ripugnanza. Paddy e i
ragazzi si pigiarono intorno; Meggie cercò di vedere che cosa stesse succedendo e si buscò un colpo
in faccia, con la parte pungente della spazzola, che le fece lacrimare gli occhi.
«Guarda!» bisbigliò Fee, tenendo il ricciolo in un raggio di sole affinché Paddy potesse vedere.
I capelli erano una massa d'oro brillante e splendente nel sole, e a tutta prima Paddy non vide nulla.
Poi si rese conto che una creatura stava marciando lungo il dorso della mano di Fee. Sollevò egli
stesso un ricciolo e, tra i suoi riflessi guizzanti, scorse altre creature che si occupavano indaffarate
dei fatti loro. Minuscole cosine bianche erano appiccicate, a piccoli ammassi, lungo i singoli capelli,
e le creature stavano energicamente producendo altri piccoli ammassi di minuscole cose bianche. La
chioma di Meggie era un alveare di industriosità.
«Si è presa i pidocchi!» disse Paddy.
Bob, Jack, Hughie e Stu diedero un'occhiata e, al pari del padre, si portarono a distanza di sicurezza;
soltanto Frank e Fee rimasero lì a contemplare la chioma di Meggie, ipnotizzati, mentre la bambina
sedeva miseramente ingobbita, domandandosi che cosa avesse fatto. Paddy si lasciò cadere
pesantemente sulla sedia Windsor e fissò il fuoco battendo le palpebre con rapidità.
«È quella dannata ragazzetta latina!» disse infine, e si voltò a fissare irosamente Fee. «Dannati
bastardi, sudicio mucchio di porci!»
«Paddy!» balbettò Fee, scandalizzata.
«Scusami se ho imprecato, Ma', ma quando penso a quella maledetta latina che ha trasmesso i suoi
pidocchi a Meggie, potrei andare seduta stante a Vahiné e demolire quello sporco ristorante
bisunto!» esplose lui, picchiando ferocemente il pugno sul ginocchio.
«Ma', che cosa c'è?» Meggie riuscì infine a dire.
«Guarda, sporcacciona!» rispose sua madre, abbassando di scatto la mano davanti agli occhi di
Meggie. «Hai questi cosi dappertutto sui capelli, e te li sei presi da quella bambina italiana! Le stai
sempre appiccicata! Che cosa farò adesso di te?»
Meggie fissò a bocca aperta il minuscolo insetto che vagava ciecamente sulla nuda pelle di Fee, in
cerca di un territorio più irsuto, poi si mise a piangere.
Senza che dovessero dirglielo, Frank mise il paiolo sul fuoco, mentre Paddy andava avanti e
indietro nella cucina infuriando, e arrabbiandosi più che mai ogni qual volta guardava Meggie.
Infine si avvicinò alla fila di ganci infissi nella parete subito al di qua della porta sul retro, si piazzò
il cappello in testa e staccò dal chiodo il lungo frustino.
«Vado a Vahiné, Fee, e dirò a quel latino dannato che cosa può farci con la sua melmosa frittura di
pesce e le sue patatine! Poi andrò a parlare con Suor Agata e le dirò cosa penso di lei, che ha
ammesso nella sua scuola bambine pidocchiose!»
«Paddy, sii prudente!» lo esortò Fee. «E se non fosse la bambina italiana? E, anche ammesso che
abbia i pidocchi, potrebbe esserseli presi da qualcun'altra insieme a Meggie.»
«Storie!» esclamò Paddy, beffardo. Si precipitò giù per i gradini e, pochi minuti dopo, udirono gli
zoccoli del roano martellare al galoppo la strada. Fee sospirò e guardò Frank con un'aria desolata.
«Bene, saremo fortunati, immagino, se non finirà in prigione. Frank, sarà meglio che riporti dentro i
ragazzi. Niente scuola, oggi.»
A una a una, Fee esaminò minuziosamente le zazzere dei suoi figli, poi controllò la testa di Frank e
gli disse di fare altrettanto con la sua. Risultò che nessun altro era stato contagiato dalla malattia
della povera Meggie, ma Fee non intendeva correre rischi. Quando l'acqua nell'enorme paiolo per il
bucato cominciò a bollire, Frank staccò dal gancio la tinozza per lavare i piatti e la riempì a metà
d'acqua bollente, aggiungendovi altrettanta acqua fredda. Poi andò nella legnaia e portò dentro un
bidone di petrolio da venticinque litri ancora sigillato, prese un pezzo di sapone alla lisciva nel
lavatoio e cominciò a darsi da fare con Bob. Ogni testa venne immersa per qualche momento nella
tinozza, parecchie tazze di petrolio vi furono versate sopra, e l'intera massa bagnata e oleosa venne
insaponata. Il petrolio e la lisciva bruciavano; i ragazzi strillarono, si stropicciarono gli occhi fino a
farli lacrimare, si grattarono il cuoio capelluto arrossato e minacciarono vendette spaventose contro
tutti i latini.
Fee si avvicinò al cestino da lavoro e ne tolse le grosse forbici. Poi tornò accanto a Meggie, che non
aveva osato muoversi dallo sgabello sebbene fosse trascorsa più di un'ora, e rimase lì in piedi con le
forbici in mano, contemplando la splendida chioma. Quindi cominciò a tagliarla - zac! zac! - finché
tutti i lunghi riccioli non formarono mucchietti lucenti sul pavimento e la pelle bianca di Meggie
cominciò a intravedersi, a chiazze irregolari, dappertutto sulla testa. Con il dubbio negli occhi, Fee
si voltò allora verso Frank.
«Dovrei raparla?» domandò a labbra strette.
Frank tese una mano verso di lei, ribellandosi. «Oh, Ma', no! No di certo! Una buona lavata con il
petrolio dovrebbe bastare. Per piacere, non la rapare!»
Così, Meggie venne fatta avvicinare al tavolo da lavoro e tenuta sopra la tinozza mentre le
versavano sulla testa una tazza di petrolio dopo l'altra e strofinavano il sapone corrosivo su quel che
le restava dei capelli. Quando si ritennero infine soddisfatti, lei era quasi cieca a furia di
stropicciarsi gli occhi brucianti, e piccole file di vesciche le si erano formate dappertutto sulla faccia
e sul cuoio capelluto. Frank spinse con la scopa i riccioli tagliati su un foglio di carta e li gettò nel
fuoco, poi immerse la scopa in una bacinella piena di petrolio. Lui e Fee si lavarono, entrambi, i
capelli, boccheggiando mentre la lisciva bruciava loro la pelle; infine Frank prese un secchio e lavò
il pavimento con il disinfettante per le pecore.
Non appena la cucina fu divenuta sterile come un ospedale, passarono alle camere da letto, tolsero
tutte le lenzuola e tutte le coperte dai letti, e trascorsero il resto della giornata facendo bollire,
torcendo e appendendo ad asciugare la biancheria della famiglia. Materassi e guanciali vennero
esposti al sole sul recinto dietro casa e spruzzati con petrolio; batterono i tappeti del salotto sin
quasi a non poterne più. Tutti i ragazzi diedero una mano, e soltanto Meggie fu esentata, perché era
in disgrazia. Andò a nascondersi dietro il granaio e pianse. La testa le pulsava indolenzita. Si
vergognava a tal punto che non volle nemmeno guardare Frank quando venne a cercarla, né egli
riuscì a persuaderla a rientrare in casa.
Da ultimo, dovette trascinarla dentro a forza, ribelle e scalciante; si era rincantucciata in un angolo
quando Paddy tornò da Vahiné, nel tardo pomeriggio. Diede un'occhiata alla testa tosata di Meggie
e scoppiò in lacrime, lasciandosi cadere e dondolandosi sulla sedia Windsor con le mani sulla
faccia, mentre tutti i componenti della famiglia rimanevano in piedi e spostavano il proprio peso da
un piede all'altro e si auguravano di trovarsi ovunque tranne lì. Fee preparò un bricco di tè e ne
versò una tazza a Paddy mentre cominciava a calmarsi.
«Che cosa è successo a Vahiné?» gli domandò. «Sei stato via per moltissimo tempo.»
«Ho frustato quel maledetto latino e l'ho scaraventato nell'abbeveratoio dei cavalli per prima cosa.
Poi ho visto McLeed in piedi davanti al suo negozio a guardare, e gli ho detto che cosa era
accaduto. Lui allora ha chiamato alcuni uomini che si trovavano nella taverna e abbiamo gettato
tutti quei latini, anche le donne, nell'abbeveratoio, versandoci dentro qualche decina di litri di
disinfettante per le pecore. Poi mi sono diretto alla scuola e ho parlato con Suor Agata e, ve lo
assicuro, si è arrabbiata da matti perché non si era accorta di niente. Ha trascinato la bambina
italiana fuori del banco per guardarle i capelli e, manco a dirlo, aveva pidocchi dappertutto. Così
l'ha mandata a casa e le ha detto di non tornare finché non avesse avuto la testa pulita. Quando me
ne sono andato, Suor Agata, Suor Declan e Suor Catherine stavano esaminando la testa di tutti gli
allievi della scuola, e di pidocchiosi ce n'erano parecchi. Quelle tre suore si grattavano frenetiche
quando pensavano che nessuno le stesse guardando.» Sorrise, ricordando, poi vide di nuovo la testa
di Meggie e ridiventò serio. La fissò torvo: «Quanto a te, signorinella, basta con le bambine italiane
e qualsiasi altro marmocchio, tranne i tuoi fratelli. Se non vanno abbastanza bene per te, tanto
peggio. Bob, ti ordino di fare in modo che Meggie non abbia niente a che vedere con nessuno tranne
te e i ragazzi finché è a scuola, mi hai sentito?»
Bob annuì. «Sì, Pa'.»
La mattina dopo, Meggie scoprì, inorridita, che avrebbe dovuto andare a scuola come sempre.
«No, no, non posso andarci!» gemette, stringendosi la testa con le mani. «Ma', Ma', non posso
andare a scuola conciata così, non con Suor Agata!»
«Oh, sì che puoi» rispose sua madre, ignorando gli sguardi imploranti di Frank. «Ti servirà di
lezione.»
E così, Meggie andò a scuola, strascicando i passi, la testa avvolta in un fazzoletto marrone. Suor
Agata la ignorò completamente, ma durante la ricreazione le altre bambine l'afferrarono e le
strapparono il fazzoletto per vedere che aspetto avesse. La faccia era sfigurata soltanto un pochino
ma la testa, una volta scoperta, risultò orribile a vedersi, tutta vesciche bagnate, e infiammata. Non
appena si accorse di quello che stava accadendo, Bob intervenne e condusse via sua sorella in un
angolo appartato del campo di cricket.
«Non badare a loro, Meggie» disse in tono rude, riannodandole goffamente il fazzoletto sulla testa e
battendole la mano sulle spalle irrigidite. «Piccole gatte maligne! Vorrei che mi fosse venuto in
mente di catturare qualcuno di quegli insetti che avevi sulla testa; certo sarebbero ancora vivi. E,
non appena tutti avessero dimenticato, li spargerei su certe teste che dico io.»
Gli altri rampolli Cleary si riunirono intorno a loro e montarono di guardia a Meggie finché non
squillò la campanella.
Teresa Annunzio venne a scuola per qualche minuto all'ora di pranzo, con la testa rapata. Tentò di
aggredire Meggie, ma i suoi fratelli la tennero facilmente a distanza. Mentre indietreggiava, alzò il
braccio destro con il pugno chiuso e batté la mano sinistra sul bicipite, un gesto affascinante e
misterioso che nessuno capì, ma che i ragazzi, avidamente, misero in serbo nella memoria per
servirsene in seguito.
«Ti odio!» gridò Teresa. «Il mio Pa' dovrà andarsene dal distretto a causa di quello che gli ha fatto
tuo padre!» Poi girò sui tacchi e corse fuori del cortile ululando.
Meggie rimase a testa alta, con gli occhi asciutti. Stava imparando. Non importava quello che
poteva pensare chiunque altro, non importava, non importava! Le altre bambine la evitarono, in
parte perché avevano paura di Bob e Jack, in parte perché la voce era corsa tra i loro genitori, che le
avevano ammonite a stare alla larga; mettersi contro i Cleary di solito significava guai. Così,
Meggie trascorse gli ultimi pochi giorni di scuola «a Coventry», come dicevano loro, vale a dire
totalmente messa al bando. Persino Suor Agata si attenne a questa nuova politica e si sfogò soltanto
con Stuart.
Come si faceva in occasione di tutti i compleanni dei bambini, se cadevano in un giorno di scuola, il
festeggiamento di quello di Meggie venne rimandato al sabato, giorno in cui ricevette in dono il
tanto desiderato servizio da tè cinese. Era disposto su un tavolino di mirabile fattura, color azzurro
oltremare, con seggioline nella stessa tinta, il tutto costruito durante le inesistenti ore libere da
Frank, e Agnese fu fatta accomodare su una delle due minuscole sedie con un nuovo vestito blu
cucito da Fee nelle sue inesistenti ore libere. Meggie fissò sgomenta i disegni blu e bianchi che
folleggiavano intorno a ciascun piccolo pezzo del servizio: gli alberi fantastici, con i loro buffi e
paffuti fiori, la piccola pagoda, le coppie di uccelli stranamente immobili e le minuscole figurine
eternamente in fuga sul ponticello traballante. Tutto aveva completamente perduto il suo incanto.
Ma, in modo vago, capì perché la famiglia si fosse ridotta alla miseria pur di procurarle la cosa che
riteneva le fosse più cara. E pertanto, doverosamente, preparò il tè per Agnese nella piccolissima
teiera quadrata, e celebrò il rito come se fosse in estasi. E continuò, caparbia, ad adoperare il
servizio da tè per anni, senza mai romperne, o anche soltanto scheggiarne, un pezzo. Nessuno si
sognò mai di immaginare che odiasse quel servizio cinese, il tavolino e le seggioline blu, e il vestito
blu di Agnese.
Due giorni prima di quel Natale del 1917, Paddy portò a casa la rivista settimanale e una nuova pila
di libri presi in prestito alla biblioteca. La rivista, però, una volta tanto, ebbe la precedenza sui libri.
I suoi direttori avevano concepito una nuova idea basata sulle fantasiose riviste americane che
soltanto di rado arrivavano nella Nuova Zelanda: l'intera parte di mezzo conteneva un servizio
dedicato alla guerra. C'erano fotografie sfuocate dei soldati del Corpo australiano e neozelandese
che prendevano d'assalto gli spietati dirupi a Gallipoli, lunghi articoli che vantavano il coraggio dei
militari degli antipodi, servizi su tutti gli australiani e i neozelandesi decorati con la Victoria Cross
da quando essa esisteva, e un magnifico disegno a piena pagina di un soldato australiano della
cavalleria leggera in sella al suo destriero, con la sciabola in pugno e un pennacchio di piume
lunghe e seriche fluenti dal lato piegato all'insù del cappello.
Alla prima occasione, Frank si impadronì della rivista e lesse avidamente il servizio, divorandone la
prosa fanatica, con gli occhi che splendevano magicamente.
«Pa', voglio andare in guerra!» disse, mentre posava la rivista, con reverenza, sul tavolo.
Fee voltò la testa di scatto, versando stufato dappertutto sui fornelli della cucina economica, e
Paddy si irrigidì sulla sedia Windsor, e dimenticò il libro.
«Sei troppo giovane, Frank» disse.
«No, non è vero! Ho diciassette anni, Pa', sono un uomo! Perché gli unni e i turchi dovrebbero
massacrare i nostri uomini come porci, mentre io me ne sto qui al sicuro? Sarebbe tempo che un
Cleary facesse la sua parte.»
«Non hai l'età giusta, Frank, non ti prenderanno.»
«Mi prenderanno se tu non ti opporrai» ribatté Frank, fulmineamente, i neri occhi fissi sulla faccia
di Paddy.
«Ma io mi oppongo e come. Sei il solo che lavori, per il momento, e il denaro che guadagni ci
occorre, lo sai.»
«Ma sotto le armi mi pagheranno!»
Paddy rise. «Il "soldo del soldato", eh? Fare il fabbro a Vahiné rende molto di più che fare il soldato
in Europa.»
«Ma se mi troverò laggiù, forse avrò modo di diventare qualcosa di meglio di un fabbro! È la mia
sola via d'uscita, Pa'.»
«Assurdo! Buon Dio, figliolo, tu non sai quello che dici. La guerra è terribile. Vengo da un paese
che è stato in guerra per mille anni, e pertanto lo so bene. Non hai sentito parlare gli uomini che
hanno preso parte alla guerra contro i boeri? Vai abbastanza spesso a Vahiné, e dunque, la prossima
volta, apri le orecchie. In ogni modo, a me sembra che i maledetti inglesi si servano degli australiani
e dei neozelandesi come di carne da cannone per l'artiglieria nemica in tutti quei posti dove loro non
vogliono perdere le proprie preziose truppe. Pensa a quel guerrafondaio di Churchill, che ha
sacrificato i nostri uomini in un'impresa inutile come Gallipoli! Diecimila morti su cinquantamila!
Due volte peggio della decimazione!
«Per quale motivo dovresti batterti nelle guerre della Madre Inghilterra? Che cosa ha mai fatto per
te, tranne dissanguare le colonie? Se tu andassi in Inghilterra, ti guarderebbero dall'alto in basso
perché sei coloniale. La Nuova Zelanda non corre alcun pericolo, e l'Australia neppure. Farebbe un
mondo di bene alla vecchia Madre Inghilterra essere sconfitta; sarebbe ora che qualcuno le facesse
pagare quello che ha fatto all'Irlanda. Io senza dubbio non verserei nemmeno una lacrima se, alla
fine, il Kaiser dovesse marciare nello Strand.»
«Ma Pa', io voglio arruolarmi!»
«Puoi volere tutto quello che ti pare, Frank, ma non ti arruolerai e quindi tanto vale che te ne scordi.
Non sei alto abbastanza per fare il soldato.»
Frank si imporporò in viso e strinse le labbra; la statura era un punto molto dolente. A scuola era
sempre stato il ragazzo più piccolo della classe, e proprio per questo si era azzuffato due volte più di
tutti gli altri. Di recente, un dubbio tremendo aveva cominciato a insinuarglisi nella mente, poiché, a
diciassette anni, continuava a essere alto esattamente un metro e cinquantotto, come lo era stato a
quattordici: forse non sarebbe più cresciuto. Lui solo sapeva a quali torture sottoponesse il corpo e
lo spirito: gli stiramenti, la ginnastica, le vane speranze.
Il lavoro del fabbro gli aveva dato, però, una forza del tutto sproporzionata alla sua statura; se
Paddy avesse volutamente scelto un mestiere per un ragazzo con il temperamento di Frank, non
avrebbe potuto scegliere meglio. Piccola struttura di pura forza, Frank, a diciassette anni, non era
mai stato sconfitto in alcuna rissa, e già la sua fama si estendeva all'intera penisola Taranaki. Tutta
la sua ira, la frustrazione e l'inferiorità si concentravano contro i suoi avversari ed erano più di
quanto potesse affrontare anche il giovanotto più grosso e robusto, in quanto si alleavano a un
organismo in superbe condizioni fisiche, a un'intelligenza di prim'ordine, alla cattiveria e a una
volontà indomabile.
Quanto più i suoi avversari erano grossi e forti, tanto più Frank voleva vederli mordere, umiliati, la
polvere. I coetanei si tenevano alla larga, perché la sua aggressività era ben nota. Di recente era
uscito dalle file dei giovani, cercando avversari da sfidare, e gli uomini del posto parlavano ancora
del giorno in cui aveva battuto Jim Collins, massacrandolo, sebbene Jim Collins avesse ventidue
anni, fosse alto un metro e novanta senza scarpe e riuscisse a sollevare un cavallo. Con il braccio
sinistro fratturato e le costole incrinate, Frank aveva continuato a picchiare finché Jim Collins non si
era ridotto a una massa sbavante di carne insanguinata ai suoi piedi; e soltanto trattenendolo con la
forza gli avevano impedito di sfondargli a calci la faccia mentre era privo di sensi. Non appena il
braccio era guarito e le fasciature gli erano state tolte dalle costole, Frank, tornato nella cittadina,
aveva sollevato un cavallo, tanto per dimostrare che Jim non era il solo a saperlo fare, e che la forza
non dipendeva dalla statura di un uomo.
In quanto padre di questo fenomeno, Paddy conosceva benissimo la reputazione di Frank e capiva la
sua battaglia per assicurarsi il rispetto altrui, sebbene ciò non gli impedisse di adirarsi quando le
zuffe ritardavano il lavoro nella fucina. Essendo egli stesso un ometto, Paddy aveva avuto la sua
quota di risse per dimostrare il proprio coraggio, ma dalle sue parti in Irlanda non veniva
considerato proprio piccolo, e, una volta giunto nella Nuova Zelanda, ove gli uomini erano più alti,
aveva ormai un'età adulta. Di conseguenza, la statura non era mai stata per lui un'ossessione come
nel caso di Frank.
Osservò ora attentamente il ragazzo, sforzandosi di capirlo, ma senza riuscirci; quel figliolo era
sempre stato il più lontano dal suo cuore, per quanto lui cercasse di evitare discriminazioni tra i
propri figli. Sapeva che Fee si affliggeva per il loro antagonismo inespresso, ma anche il suo affetto
per Fee non riusciva a sormontare l'esasperazione destata da Frank.
Le mani corte e ben fatte di Frank si trovavano aperte sulla rivista in un gesto difensivo, gli occhi
del ragazzo fissavano la faccia di Paddy con un curioso compromesso tra la supplica e un orgoglio
troppo forte per poter supplicare. Quanto era diversa dalle loro la sua faccia! Non vi si scorgeva
niente dei Cleary o degli Armstrong, tranne forse una lieve somiglianza con Fee intorno agli occhi,
se gli occhi di Fee fossero stati neri e avessero potuto accendersi e balenare come quelli di Frank
alla più piccola provocazione.
La discussione terminò bruscamente con la frase di Paddy sulla statura di Frank; la famiglia mangiò
stufato di coniglio in un silenzio inconsueto. Hughie e Jack continuarono guardinghi una stentata e
imbarazzata conversazione, punteggiata da molte stridule risatine. Meggie si rifiutò di mangiare e
tenne lo sguardo fisso su Frank, come se egli avesse potuto scomparire da un momento all'altro.
Frank piluccò il cibo per qualche minuto come voleva la buona educazione, ma, non appena gli fu
possibile, si scusò e si alzò da tavola. Un minuto dopo, udirono i tonfi sordi della scure nella
legnaia; Frank stava aggredendo i ceppi di legno duro che Paddy aveva portato a casa per il fuoco
che doveva ardere adagio durante l'inverno.
Quando tutti la credevano ormai addormentata, Meggie strisciò fuori della finestra della camera da
letto e si diresse furtiva verso il deposito della legna. Era un luogo enormemente importante per far
sì che la vita della casa continuasse; una cinquantina di metri quadrati di terreno imbottiti e resi
soffici da uno spesso strato di schegge e di pezzi di corteccia, con grandi e alte cataste di tronchi da
un lato, in attesa di essere tagliati, e dall'altro pareti, simili a mosaici, di legna geometricamente
preparata, nelle dimensioni giuste per la cucina economica. Al centro dello spazio aperto, tre ceppi
d'albero che ancora affondavano le radici nel terreno venivano utilizzati per spaccare la legna in
diverse lunghezze.
Frank non era accanto a uno dei ceppi; stava lavorando a un massiccio tronco di eucaliptus e lo
spaccava in modo che divenisse abbastanza piccolo per porlo sul ceppo più basso e più ampio. Il
tronco, del diametro di sessanta centimetri, giaceva sul terreno, entrambe le estremità fissate da un
chiodo a becco, e Frank era ritto su di esso e lo tagliava in due tra i propri piedi divaricati. La scure
veniva vibrata con tale rapidità da fischiare, e il manico produceva un suo diverso suono frusciante
scivolando su e giù entro i palmi sudati. In alto balenava la scure sopra il capo di Frank, poi si
abbatteva, disegnando un'offuscata traccia argentea e faceva saltar via una scheggia a forma di
cuneo dal legno duro come il ferro, con la stessa facilità con cui si possono intaccare un pino o un
albero deciduo. Schegge di legno volavano in tutte le direzioni, il sudore scorreva striando il petto e
la schiena nudi di Frank. Si era avvolto il fazzoletto intorno alla fronte per impedire alla
traspirazione di accecarlo. Un lavoro pericoloso, quello di spaccare i tronchi per il lungo; un solo
colpo mal calcolato o mal diretto, e si sarebbe trovato con un piede in meno. Aveva intorno ai polsi
le bande di cuoio per assorbire il sudore delle braccia, ma le mani delicate erano senza guanti e
impugnavano il manico della scure con leggerezza e con una abilità squisita nel dirigere i colpi.
Meggie si accosciò accanto alla camicia e alla canottiera del fratello, per guardare intimorita. Tre
scuri di ricambio si trovavano lì accanto, poiché il legno di eucaliptus toglieva il filo in men che non
si dica anche alla scure più affilata. Meggie ne afferrò una per il manico e se la tirò sulle ginocchia,
augurandosi di poter spaccare la legna come Frank. La scure era tanto pesante che quasi non
riusciva a sollevarla. Aveva una sola lama, talmente affilata da poter tagliare in due un capello. Il
dorso della testa della scure aveva uno spessore di due centimetri e mezzo, volutamente appesantito,
e il manico vi passava attraverso, saldamente ancorato mediante piccoli cunei di legno.
Frank manovrava la scure quasi per istinto nella luce che rapidamente moriva; Meggie scansò le
schegge con la disinvoltura di una lunga pratica e aspettò paziente che lui la vedesse. Il tronco era
ormai spaccato quasi a metà, e Frank si voltò dall'altra parte, ansimante; poi sollevò di nuovo la
scure e cominciò a spaccare l'altra estremità. Lo squarcio era profondo e stretto, per risparmiare
legna e affrettare il lavoro; mentre affondava verso il centro del tronco, la testa della scure
scompariva completamente nel taglio e i grossi cunei di legno schizzavano via sempre più vicini al
suo corpo. Frank li ignorò e vibrò colpi ancor più rapidi. Il tronco si spaccò in due con una
stupefacente subitaneità, e, nello stesso momento, lui balzò agilmente in aria, avendo intuito quanto
stava per accadere ancor prima che la scure mordesse per l'ultima volta. Mentre i due lati del tronco
cedevano l'uno contro l'altro, Frank toccò terra da una parte, sorridente; ma non era un sorriso
felice.
Si voltò per prendere un'altra scure e vide la sorella che sedeva paziente, nella austera camicia da
notte, tutta abbottonata in alto e abbottonata in basso. Era ancora strano vedere i suoi capelli
formare una massa di corti riccioli invece di essere avvolti intorno ai consueti straccetti; ma lui si
disse che quell'acconciatura da ragazzo le si addiceva, e si augurò che potesse restare così.
Avvicinatosi, si accosciò a sua volta, la scure tra le ginocchia.
«Come hai fatto a uscire?»
«Mi sono arrampicata fuori della finestra dopo che Stu si è addormentato.»
«Se non stai attenta, ti trasformerai in un maschiaccio.»
«Non me ne importa. Giocare con i ragazzi è sempre meglio che giocare da sola.»
«Già, presumo di sì.» Sedette con la schiena addossata al tronco e stancamente voltò la testa verso
di lei. «Che cosa c'è, Meggie?»
«Frank, non vorrai andartene sul serio, vero?» Gli mise le mani, con le unghie rosicchiate, sulla
coscia, e alzò gli occhi su di lui ansiosamente, a bocca aperta, perché le si era otturato il naso a furia
di lottare contro le lacrime, e non riusciva a respirare molto bene.
«Potrebbe darsi, Meggie.» Frank lo disse con dolcezza.
«Oh, Frank, non puoi. Ma' e io abbiamo bisogno di te! Sul serio, senza di te non so che cosa
faremmo!»
Lui sorrise nonostante la sofferenza, udendo una inconscia eco di Fee nel suo modo di esprimersi.
«Meggie, certe volte le cose non vanno proprio come si vorrebbe che andassero. Dovresti saperlo
anche tu. Noi Cleary abbiamo imparato a lavorare insieme nell'interesse di tutti, senza che nessuno
pensi anzitutto a se stesso. Ma io questo non lo approvo; credo che dovremmo poter pensare
anzitutto a noi stessi. Voglio andarmene perché ho diciassette anni ed è tempo che mi faccia una mia
vita. Ma Pa' dice no perché sono necessario in casa per il bene di tutta la famiglia. E siccome non ho
ventun anni, dovrei fare come vuole lui.»
Meggie annuì seria, cercando di districare i fili del ragionamento.
«Be', Meggie, ho riflettuto a lungo e intensamente. Me ne andrò, e basta. So che mancherò a te e a
Ma', ma Bob sta crescendo in fretta, e Pa' e i ragazzi non sentiranno affatto la mia mancanza.
Soltanto i soldi che guadagno premono a Pa'.»
«Non ci vuoi più bene, Frank?»
Lui si voltò ad afferrarla e a prenderla tra le braccia, stringendola e accarezzandola con un
tormentato piacere, formato quasi esclusivamente da sofferenza, dolore e brama. «Oh, Meggie,
voglio bene a te e a Ma' più che a tutti gli altri messi insieme! Dio, perché non sei più grande, così
potrei parlarti? Ma forse è meglio che tu sia tanto piccina, forse è meglio...»
La lasciò andare bruscamente, lottando per dominarsi, muovendo la testa di qua e di là, con la gola
e la bocca guizzanti. Poi la guardò. «Meggie, quando sarai più grande capirai meglio.»
«Per piacere, non te ne andare, Frank.»
Lui rise, e fu quasi un singhiozzo. «Oh, Meggie! Non hai sentito niente di quello che ho detto? Be',
non ha importanza in realtà. L'importante è che tu non dica a nessuno di avermi parlato questa sera,
capito? Non voglio far pensare agli altri che tu sia d'accordo con me.»
«Ho sentito, Frank, ho sentito tutto» disse Meggie. «Non dirò una parola a nessuno però, te lo
prometto. Ma, oh, vorrei tanto che tu non te ne andassi!»
Era troppo piccola per potergli dire l'irragionevole ansia del suo cuore: chi altri sarebbe rimasto, se
Frank se ne fosse andato? Era il solo a darle apertamente affetto, il solo che la stringesse e
l'abbracciasse. Quando era stata più piccola, Pa' l'aveva presa in braccio molte volte, ma ora che
andava a scuola, non la faceva più stare su un ginocchio, non le consentiva di gettargli le braccia al
collo, e diceva: «Sei una ragazza grande ormai, Meggie.» E Ma' era sempre così indaffarata, così
stanca, così presa dai ragazzi e dalla casa. Era Frank il più vicino al suo cuore, la stella del suo cielo
limitato. Il solo che sembrasse trovare piacevole discorrere con lei e spiegarle le cose in modo da
fargliele capire. Dal giorno in cui Agnese aveva perduto i capelli, c'era stato Frank, e, nonostante le
sue molte pene, più nulla, da allora, l'aveva realmente trafitta proprio fino al profondo del cuore.
Non le bacchettate, né Suor Agata, né i pidocchi, perché c'era lì Frank a confortarla e a consolarla.
Si alzò, comunque, e riuscì a sorridere. «Se devi andare, Frank, allora va bene.»
«Meggie, dovresti essere a letto, e sarà meglio che ci torni prima che Ma' vada a controllare. Fila
presto!»
Il sentirsi ricordare questo fugò ogni altro pensiero dalla sua mente; abbassò la testa, pescò il lembo
posteriore della camicia da notte che strisciava per terra, lo tirò su tra le gambe e lo tenne come una
coda a rovescio dinanzi a sé mentre correva, evitando con i piedi nudi i pezzi di legno e le schegge
taglienti.
La mattina dopo, Frank se n'era andato. Fee, quando venne a tirar fuori del letto Meggie, era torva e
sbrigativa; Meggie saltò su come un gatto scottato e si vestì senza nemmeno chiedere di essere
aiutata a infilare nelle asole tutti i bottoni.
In cucina, i ragazzi sedevano imbronciati intorno al tavolo, e la sedia di Paddy era vuota. Come
quella di Frank. Meggie scivolò al proprio posto e vi rimase immobile, battendo i denti per la paura.
Dopo colazione, Fee li spinse irritata fuori di casa e, dietro il granaio, Bob diede a Meggie la
notizia.
«Frank è scappato» alitò.
«Forse è andato soltanto a Vahiné» fece osservare Meggie.
«No, stupida! È andato ad arruolarsi nell'esercito. Oh, come vorrei essere abbastanza grande per
andare con lui! Com'è fortunato!»
«Be', io invece vorrei che fosse ancora a casa.»
Bob fece spallucce. «Non sei che una femmina, ed è quello che mi aspettavo dicesse una femmina.»
La frase che di norma sarebbe stata incendiaria venne lasciata passare senza raccogliere la sfida;
Meggie tornò dentro da sua madre per vedere che cosa potesse fare.
«Dov'è Pappi?» domandò, dopo che Fee le ebbe dato i fazzoletti da stirare.
«È andato a Vahiné.»
«Riporterà con sé Frank?»
Fee sbuffò. «Cercar di mantenere un segreto in questa famiglia è impossibile. No, non raggiungerà
Frank a Vahiné, e lo sa bene. È andato a spedire un telegramma alla polizia e all'esercito a
Wanganui. Lo riporteranno indietro.»
«Oh, Ma', spero che lo trovino! Non voglio che Frank se ne vada!»
Fee sbatté sul tavolo il contenuto della zangola e aggredì il monticello giallo e acquoso con due
pacche legnose. «Nessuno di noi vuole che Frank se ne vada. Per questo Pa' farà in modo che lo
riportino indietro.» La bocca le tremò per un momento; lavorò il burro più energicamente. «Povero
Frank! Povero, povero Frank!» sospirò, rivolta non a Meggie, ma a se stessa. «Non so davvero
perché i figli debbano scontare le nostre colpe. Il mio povero Frank, così fuori delle cose...» Poi
notò che Meggie aveva smesso di stirare, e strinse le labbra, e non disse altro.
Tre giorni dopo, la polizia riportò indietro Frank. Aveva opposto una resistenza terribile, disse a
Paddy il sergente inviato di scorta da Wanganui.
«Che figlio combattivo ha lei! Quando ha capito che quelli dell'esercito erano stati avvertiti, è filato
via come un proiettile, giù per i gradini e nella strada, con due soldati che gli correvano dietro. Se
non avesse avuto la jella di imbattersi in un agente di pattuglia, scommetto che sarebbe riuscito a
tagliare la corda. Si è battuto come un vero forsennato; ci sono voluti cinque uomini per mettergli le
manette.»
Così dicendo, tolse a Frank le pesanti catene e lo spinse rudemente al di là del cancello; Frank urtò
contro Paddy e si scostò come se il contatto lo avesse punto.
I bambini si nascondevano di lato alla casa, a una decina di metri dagli adulti, guardando e
aspettando. Bob, Jack e Hughie erano irrigiditi, e speravano che Frank si battesse di nuovo; Stuart si
limitava a guardare tranquillo, placido e comprensivo com'era; Meggie teneva le mani contro le
gote e le premeva e le pizzicava, straziata dalla paura che qualcuno volesse fare del male a Frank.
Lui si voltò a guardare dapprima sua madre, gli occhi neri fissi negli occhi grigi, in una tenebrosa e
amara comunione che mai era stata espressa e mai doveva esserlo. Lo sguardo feroce e azzurro di
Paddy lo demolì, sprezzante e caustico, come se egli non si fosse aspettato altro, e le palpebre
abbassate di Frank riconobbero il suo diritto di essere adirato. Da quel giorno in poi, Paddy non
parlò più con suo figlio, se non quando era indispensabile. Ma Frank trovò soprattutto penoso
affrontare i bambini, perché si vergognava ed era imbarazzato, il vivido uccello riportato a casa
senza che avesse esplorato il cielo, con le ali tarpate, e il canto soffocato nel silenzio.
Meggie aspettò che Fee avesse terminato l'ispezione notturna, poi si contorse passando per la
finestra aperta e attraversò l'aia dietro casa. Sapeva dove avrebbe trovato Frank, su nel fieno del
granaio, al sicuro dagli occhi curiosi e da suo padre.
«Frank, Frank, dove sei?» domandò in un bisbiglio teatrale, mentre strascicava i piedi nella
silenziosa oscurità del granaio, esplorando con le dita dei piedi il terreno ignoto dinanzi a sé, con la
sensibilità di un animale.
«Da questa parte, Meggie» giunse la sua voce stanca; non sembrava quasi affatto la voce di Frank,
non conteneva né vita né passione.
Seguì il suono finché non ebbe trovato il fratello disteso sul fieno, poi gli si rannicchiò accanto, con
le braccia intorno al suo petto, sin dove potevano arrivare. «Oh, Frank, come sono contenta che tu
sia tornato» disse.
Lui gemette, scivolò in giù nel fieno finché non venne a trovarsi più in basso di Meggie e le poggiò
il capo sul corpo. La bambina afferrò i corti e lisci capelli, canticchiando. Faceva troppo buio
perché potesse vederla, e la sostanza invisibile della sua comprensione lo sciolse. Si mise a
piangere, contorcendosi e lasciandosi sfuggire lenti e soffocati gemiti di sofferenza, inzuppandole di
lacrime la camicia da notte. Meggie non pianse. Qualcosa nella sua piccola anima era abbastanza
adulto e femminile per provare la gioia irresistibile, tagliente, di essere necessaria; seduta, gli
dondolò la testa avanti e indietro, avanti e indietro, finché il dolore di lui non si fu esaurito nel
vuoto.
Parte seconda 1921-1928 Ralph
3

La strada di Drogheda non gli riportava alcuna reminiscenza della gioventù, pensò Padre Ralph de
Bricassart, gli occhi socchiusi contro il bagliore mentre la Daimler nuova sobbalzava sui solchi
della strada sotto la lunga erba argentea. Non era questa la bella Irlanda verde e nebbiosa. E
Drogheda? Non un campo di battaglia, non la sede di un grande potere. O tutto ciò si limitava a
essere pura letteratura? Ormai più disciplinato, ma acuto come sempre, il suo senso dell'umorismo
gli evocò nella mente l'immagine di una Mary Carson cromwelliana che esercitasse il suo
particolare genere di malevolenza imperiale. Né si trattava di un paragone tanto esagerato, del resto;
la dama, senza dubbio, disponeva di più potere, e dominava più individui di qualsiasi possente
signore della guerra dei tempi antichi.
L'ultimo cancello apparve attraverso un boschetto di bossi e di eucalipti; l'automobile si fermò
pulsando. Piazzatosi sul capo un logoro cappellaccio grigio a larga tesa per tenere a bada il sole,
Padre Ralph discese, arrancò fino al chiavistello d'acciaio sul contropalo di legno, lo fece scorrere
all'indietro e spalancò il cancello con stanca impazienza. C'erano ventisette cancelli tra la canonica
di Gillanbone e la dimora di Drogheda, ognuno dei quali significava che lui doveva fermarsi,
scendere dalla macchina, aprire il cancello, risalire in macchina e passare, fermarsi, ridiscendere,
tornare indietro per chiudere il cancello, poi salire sull'automobile una volta ancora e proseguire
fino all'ostacolo successivo. Più e più volte fu tentato di evitarsi almeno una metà del rituale, di
proseguire lungo il sentiero lasciando dietro di sé i cancelli aperti come una serie di bocche
stupefatte; ma anche la sua vocazione che incuteva rispetto non avrebbe impedito ai proprietari dei
cancelli di spalmarlo di pece e coprirlo di penne per una simile mancanza. Si augurò che i cavalli
fossero veloci ed efficienti come le automobili, perché era possibile aprire e chiudere cancelli
stando in sella a un cavallo, senza smontare.
«Nulla viene dato senza che implichi uno svantaggio» disse, accarezzando il cruscotto della
Daimler nuova e ripartendo lungo l'ultimo chilometro e mezzo della tenuta erbosa e priva di alberi,
lo Home Paddock, dopo avere chiuso saldamente il ventisettesimo cancello dietro di sé.
Anche per un irlandese assuefatto ai castelli e ai palazzi, quella dimora australiana era imponente.
Drogheda, la più antica e la più vasta tenuta del distretto, era stata dotata dal suo defunto e
puntiglioso proprietario di un'abitazione confacente. Costruita con blocchi di arenaria color giallo-
burro, squadrati a mano nelle cave ottocento chilometri più a est, la casa a due piani si atteneva a
uno stile architettonico austeramente georgiano, con grandi finestre a molti riquadri e un'ampia
veranda dalle colonnine di ferro che correva tutto attorno al pianterreno. Ad abbellire i lati di ogni
finestra c'erano imposte di legno scuro, non soltanto ornamentali, ma anche utili; nella calura estiva
venivano tenute accostate per mantenere fresco l'interno della dimora.
Era autunno e il glicine cresciuto fino a una grande altezza rimaneva verde. Piantato il giorno stesso
in cui la casa era stata completata, cinquant'anni prima, si tramutava, in primavera, in una massa
compatta di grappoli color lilla, tumultuando su tutti i muri esterni e sul tetto della veranda.
Parecchi acri di prato meticolosamente falciato circondavano la dimora, con aiuole stracolme di
colori, di rose, di violacciocche, di dalie, di calendule. Un boschetto di magnifiche betulle dai
pallidi tronchi bianchi e dalle foglie sottili agitate nella brezza, che rimanevano sospese fino a venti
metri dal suolo, riparava la casa dal sole spietato, e i rami erano inghirlandati da un magenta
brillante là ove si avvolgevano e fiorivano i tralci delle buganvillee. Anche le cisterne dell'acqua
erano fittamente rivestite da rose e glicini, e riuscivano ad apparire più decorative che funzionali. Il
defunto Michael Carson era stato prodigo in fatto di cisterne per l'acqua; correva voce che a
Drogheda potessero consentirsi di mantenere verdi i prati e fiorite le aiuole anche se non avesse mai
piovuto per dieci anni.
Quando ci si avvicinava a Home Paddock, la casa e le betulle colpivano per prime lo sguardo, ma
poi, dietro la casa e ai lati, si notavano molte altre case di arenaria gialla, a un solo piano, collegate
all'edificio principale mediante rampe riparate da un tetto e soffocate dai rampicanti. Un ampio
viale d'accesso inghiaiato faceva seguito ai solchi scavati dalle ruote nel sentiero e si incurvava fino
a un parcheggio circolare situato a un lato della grande dimora, ma continuava al di là e scompariva
ove si trovava il cuore vero dell'attività di Drogheda, i magazzini, il capannone della tosatura, le
stalle. In cuor suo, Padre Ralph preferiva i giganteschi alberi del pepe che facevano ombra a questi
edifici dove ferveva il lavoro, alle betulle della grande casa. Gli alberi del pepe erano fitti di fronde
verde pallido e animati dal ronzio delle api.
Mentre Padre Ralph parcheggiava l'automobile e attraversava il prato, la cameriera lo aspettò sulla
veranda anteriore, con la faccia lentigginosa inghirlandata di sorrisi.
«Buongiorno, Minnie.»
«Oh, Padre, lieta di vederla in questa bella mattinata» rispose lei con spiccata cadenza dialettale,
poggiando una mano sulla porta per tenerla spalancata e tendendo l'altra per prendere il malconcio
cappello.
Padre Ralph si soffermò nel buio ingresso con le piastrelle di marmo e lo scalone dalle ringhiere di
ottone, prima di entrare nel salotto, finché Minnie non gli fece un cenno.
Mary Carson sedeva nella poltrona a conchiglia, accanto a una finestra spalancata alta quattro metri
e mezzo, dal pavimento al soffitto, indifferente, a quanto pareva, all'aria fredda che entrava in casa.
La chioma di capelli rossi continuava a essere vivida quasi quanto lo era stata in gioventù; sebbene
la vecchiaia avesse invaso con altre macchie la pelle ruvida e lentigginosa, per essere una donna di
sessantacinque anni aveva poche rughe; solo una fine ragnatela di minuscole linee come quelle di
una trapunta imbottita. Indizio del carattere intrattabile, due profonde pieghe correvano ai lati del
naso romano e terminavano abbassandole gli angoli della bocca. Gli occhi celeste scialbo avevano
un'espressione gelida.
Padre Ralph attraversò silenziosamente il tappeto Aubusson e le baciò entrambe le mani; il gesto si
addiceva molto a un uomo alto e distinto come lui, specie in quanto indossava una semplice tonaca
nera che gli conferiva, in qualche modo, un'aria cerimoniosa. Con gli occhi inespressivi divenuti a
un tratto timidi e scintillanti, Mary Carson sorrise quasi con affettazione.
«Gradisce un tè, Padre?»
«Dipende, se lei desidera ascoltare la Messa» disse lui, sedendo sulla poltrona di fronte e
accavallando le gambe; la tonaca si sollevò quanto bastava per mostrare stivali da cavallerizzo, una
concessione all'ambiente della parrocchia. «Le ho portato la Comunione, ma se vuole ascoltare la
Messa sono pronto a celebrarla entro pochissimi minuti. Non ha importanza se prolungherò ancora
un poco il digiuno.»
«È troppo buono con me, Padre» disse lei, con un'aria di sufficienza, sapendo benissimo che, come
tutti gli altri, rendeva omaggio non già alla sua persona, ma al suo denaro. «Prenda il tè, la prego.
La Comunione mi è più che sufficiente.»
Padre Ralph impedì al risentimento di palesarsi; quella parrocchia era stata un'ottima scuola per
insegnargli a dominarsi. Gli si era presentato il modo di emergere dall'oscurità nella quale lo aveva
fatto cadere la sua indole irascibile, e non intendeva ripetere lo sbaglio. Se avesse giocato bene le
proprie carte, quella vecchia avrebbe potuto esaudire le sue preghiere.
«Devo confessare, Padre, che lo scorso anno è stato piacevolissimo» ella disse. «Lei è un pastore di
gran lunga più soddisfacente di quanto lo fosse il vecchio Padre Kelly, che Dio faccia marcire
l'anima sua.» La voce, pronunciando quest'ultima frase, divenne all'improvviso aspra, vendicativa.
Egli alzò gli occhi sul viso di lei, battendo le palpebre. «Mia cara signora Carson! Questi non sono
sentimenti molto cattolici.»
«Ma si tratta della verità. Era un vecchio abbrutito dall'alcool, e sono certissima che Dio farà
marcire l'anima sua quanto l'alcool gli aveva fatto marcire il corpo.» Si protese in avanti. «La
conosco abbastanza bene, ormai; posso permettermi, ritengo, di farle qualche domanda, non è vero?
In fin dei conti, lei si sente libero di servirsi di Drogheda come di un luogo per le sue distrazioni
private... viene qui per imparare a fare l'allevatore, per perfezionarsi nell'equitazione, per sottrarsi
alle vicissitudini dell'esistenza a Gilly. Sempre dietro mio invito, s'intende, ma credo di avere diritto
ad alcune risposte, non le sembra?»
Non gli piacque sentirsi ricordare che avrebbe dovuto essere grato, ma, d'altro canto, si era aspettato
il giorno in cui lei avrebbe creduto di dominarlo abbastanza per cominciare a pretendere qualcosa
da lui. «Certo che ne ha diritto, signora Carson. Non potrò mai ringraziarla abbastanza per avermi
consentito il libero accesso a Drogheda, e per tutti i suoi doni... i cavalli, l'automobile.»
«Quanti anni ha?» domandò lei, senza altri preamboli.
«Ventotto» le rispose.
«È più giovane di quanto credessi. Ma anche così, non mandano sacerdoti come lei in località come
Gilly. Che cosa ha fatto perché mandassero un uomo del suo valore qui nell'interno?»
«Ho insultato il Vescovo» disse lui calmo, sorridendo.
«Proprio così! Ma non riesco a credere che un sacerdote con i suoi talenti possa trovarsi bene in un
posto come Gillanbone.»
«È il volere di Dio.»
«Storie, assurdità! Lei si trova qui a causa di manchevolezze umane... le sue e quelle del Vescovo.
Soltanto il Papa è infallibile. Lei è completamente al di fuori del suo elemento naturale, a Gilly,
questo lo sappiamo tutti; non che non siamo contenti di avere un uomo del suo valore, tanto per
cambiare, in luogo dei preti incapaci che ci mandano di solito. Ma il suo elemento naturale è in
qualche via d'accesso al potere ecclesiastico, non qui, tra cavalli e pecore. Lei sarebbe magnifico
con la porpora cardinalizia.»
«Questo è del tutto improbabile, temo. Presumo che Gillanbone non sia precisamente l'epicentro
della mappa del Legato pontificio, l'Arcivescovo. Ma potrebbe andar peggio. Ho lei, e ho
Drogheda.»
Ella accettò l'adulazione, volutamente scoperta, nello spirito con il quale era stata intesa,
apprezzando la bellezza e la premurosità di Padre Ralph, la sua intelligenza acuta e sottile; sarebbe
stato davvero uno splendido cardinale. Non riusciva a ricordare di aver veduto, in tutta la sua vita,
un uomo più avvenente, né un uomo che sapesse servirsi nello stesso modo delle proprie doti
fisiche. Egli doveva essere conscio del suo aspetto: la statura e le proporzioni perfette del corpo, le
belle fattezze aristocratiche, il modo con il quale ogni caratteristica fisica era stata armonizzata con
una cura, per quanto concerneva il risultato del prodotto finale, che Dio prodigava a ben poche delle
Sue creazioni. Dai riccioli neri e morbidi sul capo e dall'azzurro stupefacente degli occhi, alle mani
e ai piedi piccoli ed esili, era perfetto. Sì, doveva essere consapevole di ciò che era. Eppure esisteva
in lui una distaccata indifferenza, una capacità tutta sua di farle sentire che non era mai stato
asservito dalla propria bellezza, né mai lo sarebbe stato. Se ne sarebbe avvalso senza rimorsi per
ottenere quel che voleva, qualora avesse potuto essergli utile, ma non come se ne fosse innamorato;
piuttosto, come se giudicasse spregevoli le persone perché se ne lasciavano influenzare. E lei
avrebbe dato molto per sapere che cosa fosse stato nel suo passato a fare di lui quello che era.
Strano che fossero così numerosi i sacerdoti belli come Adone, con lo stesso magnetismo sessuale
di Don Giovanni. Adottavano forse il celibato per sottrarsi alle conseguenze?
«Perché sopporta Gillanbone?» gli domandò. «Perché non rinuncia al sacerdozio, piuttosto?
Potrebbe essere ricco e potente in qualsiasi campo, con i suoi talenti, e non verrà a dirmi che l'idea
del potere non l'attrae, per lo meno.»
Il sopracciglio sinistro di lui si inarcò di scatto. «Mia cara signora Carson, lei è cattolica. Sa bene
che i voti sono sacri. Fino alla morte rimarrò un sacerdote. Non potrò non esserlo.»
Sbuffò ridendo. «Oh, andiamo! Crede davvero che se rinunciasse ai voti la perseguiterebbero con
ogni arma immaginabile, dalle saette ai segugi e ai fucili?»
«No di certo. E non credo neppure che lei sia così sciocca da pensare che sia il timore delle
conseguenze a mantenermi nel sacerdozio.»
«Ohoh! Mi diventa pungente, Padre de Bricassart! Che cos'è, allora, a mantenerla legato ai voti?
Che cosa la costringe a sopportare la polvere, la calura e le mosche di Gilly? Per quello che ne sa
lei, potrebbe trattarsi di una condanna a vita.»
Un'ombra offuscò momentaneamente gli occhi azzurri, ma poi egli sorrise, compassionandola. «Lei
mi è di grande conforto, non le sembra?» Dischiuse le labbra, alzò gli occhi al soffitto e sospirò.
«Sin dalla culla sono stato cresciuto per diventare un sacerdote, ma si tratta di molto di più di
questo. Come posso spiegarlo a una donna? Io sono un'urna, signora Carson, e in certi momenti è
Dio a colmarmi. Se fossi un sacerdote migliore, non vi sarebbero affatto periodi di vuoto. E quella
pienezza, quell'essere un tutto con Dio, non è in funzione del luogo. Sia ch'io mi trovi a Gillanbone,
o in un palazzo vescovile, accade. Ma definire la cosa è difficile, perché, anche per i sacerdoti,
rappresenta un grande mistero. Un possesso divino, che gli altri uomini possono non conoscere mai.
Sì, può darsi, in effetti, che si tratti di questo. Rinunciarvi? Non potrei.»
«Sicché è un potere, no? Perché dovrebbe essere dato ai sacerdoti, allora? Cosa le fa credere che il
semplice spalmare il crisma, nel corso di una cerimonia lunga, spossante, possa conferirlo a
qualsiasi uomo?»
Scosse la testa. «Senta, si tratta di anni di vita, prima di arrivare al punto dell'ordinazione. Il cauto
sviluppo di uno stato d'animo che apre l'urna a Dio. È guadagnato! Giorno per giorno viene
guadagnato. E questo è lo scopo dei voti, non lo capisce? Affinché nessuna cosa terrena si
interponga tra il sacerdote e il suo stato d'animo... non l'amore per una donna, non l'amore del
denaro, né la riluttanza a ubbidire ai dettami di altri uomini. La povertà non è nuova per me, non
appartengo a una famiglia ricca. Quanto alla castità, l'accetto senza trovare difficile mantenerla. E
l'ubbidienza? Per me è il più difficile dei tre voti. Ma ubbidisco perché, se dovessi ritenermi più
importante del mio scopo quale ricettacolo di Dio, sarei perduto. Ubbidisco. E, se necessario, sono
disposto a subire Gillanbone come una condanna a vita.»
«Allora è uno sciocco» disse lei. «Anch'io penso che esistano cose più importanti delle amanti, ma
l'essere un ricettacolo di Dio non fa parte di tali cose. Strano. Non mi ero mai resa conto che lei
credesse in Dio così ardentemente. Pensavo che fosse, forse, un uomo pervaso dal dubbio.»
«Dubito, infatti. Quale uomo pensante non dubita? Ecco perché, a volte, sono vuoto.» Guardò al di
là di lei, fissando qualcosa che lei non poteva vedere. «Sa, credo che rinuncerei a qualsiasi
ambizione, a ogni desiderio, pur di avere la possibilità di essere un prete perfetto.»
«La perfezione in tutto» ella disse «è intollerabilmente noiosa. Quanto a me, preferisco un tocco di
imperfezione.»
Padre Ralph rise, guardandola con un'ammirazione colorata dall'invidia. Era una donna
straordinaria.
La sua vedovanza risaliva a trentatré anni addietro, e il suo unico figlio, un maschio, era morto
bambino. A causa della propria singolare posizione nella comunità di Gillanbone, non aveva
approfittato di alcuno degli approcci da parte degli uomini più ambiziosi tra i suoi conoscenti; in
quanto vedova di Michael Carson, era incontestabilmente una regina, ma, come moglie di qualcuno,
avrebbe dovuto cedere a quel qualcuno l'amministrazione di tutto ciò che possedeva. Fare il
secondo violino non rientrava nel concetto che Mary Carson aveva della vita. Per conseguenza,
aveva abiurato la carne, preferendo disporre del potere, ed era inconcepibile che potesse prendersi
un amante, poiché, in fatto di pettegolezzi, Gillanbone era ricettiva quanto un filo metallico alla
corrente elettrica. Dimostrarsi umana e debole non faceva parte della sua ossessione.
Ma ormai era abbastanza avanti negli anni per trovarsi ufficialmente al di là degli impulsi del corpo.
E se il nuovo giovane sacerdote era assiduo nei propri doveri verso di lei, e se lei lo ricompensava
con piccoli doni, come un'automobile, la cosa non aveva alcunché di assurdo. Saldo pilastro della
Chiesa per tutta la vita, aveva aiutato la parrocchia e il capo spirituale della parrocchia nei modi
confacenti, anche quando Padre Kelly continuava ad avere il singhiozzo durante l'intera Messa. Non
era la sola a sentirsi caritatevolmente propensa nei confronti del successore di Padre Kelly; Padre
Ralph de Bricassart era meritatamente bene accetto a ogni pecorella del suo gregge, ricca o povera.
Se i parrocchiani più lontani non potevano recarsi a Gilly per parlargli, andava lui da loro, e, finché
Mary Carson non gli aveva regalato l'automobile, si era accontentato di viaggiare a cavallo. La sua
pazienza e la sua bontà gli avevano meritato le simpatie di tutti, e il sincero affetto di taluni; Martin
King, di Bugela, aveva dispendiosamente riarredato la canonica; e Dominic O'Rourke, di Dibban-
Dibban, pagava il salario a una buona governante.
Dal piedestallo della sua età e della sua posizione, dunque, Mary Carson si sentiva del tutto sicura
apprezzando Padre Ralph; le piaceva gareggiare contro una mente intelligente, le piaceva provarsi a
indovinare ciò che egli pensava, perché non era mai sicura di riuscirci davvero.
«Tornando a quanto stava dicendo di Gilly, che non è l'epicentro nella mappa del Legato pontificio,
l'Arcivescovo» disse, sistemandosi meglio sulla poltrona, «che cosa potrebbe scuotere abbastanza,
secondo lei, quel reverendo gentiluomo per indurlo a fare di Gilly il cardine del suo mondo?»
Il sacerdote sorrise malinconicamente. «Impossibile dirlo. Un qualche colpo di scena? L'improvvisa
salvezza di un migliaio di anime, l'improvvisa capacità di guarire gli zoppi e i ciechi... Ma l'epoca
dei miracoli è tramontata.»
«Oh, suvvia, di questo dubito molto. È solo che Dio ha modificato la Sua tecnica. Di questi tempi,
si avvale del denaro.»
«Che donna cinica è lei! Forse proprio per questo mi piace tanto, signora Carson.»
«Il mio nome è Mary. Mi chiami Mary, la prego.»
Minnie entrò, spingendo il carrello del tè, mentre Padre de Bricassart diceva: «Grazie, Mary.»
Gustando croccanti focaccette d'avena e tartine alle acciughe, Mary Carson sospirò. «Caro Padre,
desidero che lei preghi per me, stamane, con particolare fervore.»
«Mi chiami Ralph» disse lui, poi continuò, maliziosamente: «Dubito che mi sia possibile pregare
per lei con più fervore di quanto faccio normalmente, ma ci proverò.»
«Oh, lei è un incantatore! O, forse, questa frase celava un'allusione? Di solito l'ovvio non mi
interessa, ma, nel suo caso, non sono mai sicura che l'ovvio non sia, in realtà, il mantello di
qualcosa di più profondo. Come la carota fatta penzolare davanti all'asino. Che cosa pensa
realmente di me, Padre de Bricassart? Non lo saprò mai, perché lei non sarà mai così privo di tatto
da dirmelo, non è vero? Affascinante, affascinante... Però deve pregare per me. Sono vecchia, e ho
molto peccato.»
«La vecchiaia striscia su tutti noi, e anch'io ho peccato.»
Le sfuggì una risatina. «Darei non so cosa per sapere come ha peccato! Davvero, davvero, è così.»
Tacque per un momento, poi cambiò discorso. «In questo momento, mi manca un capo-guardiano di
bestiame.»
«Di nuovo?»
«È il quinto, quest'anno. Sta diventando difficile trovare una persona onesta.»
«Be', corre voce che lei non sia una padrona precisamente generosa o rispettosa dei sentimenti
altrui.»
«Oh, impudente!» esclamò Mary Carson, ridendo. «Chi le ha comprato una Daimler nuova di zecca
affinché non dovesse andare a cavallo?»
«Ah, sì, ma pensi al fervore con il quale prego per lei!»
«Se Michael avesse posseduto anche soltanto la metà del suo spirito e della sua personalità, sarei
riuscita ad amarlo» disse bruscamente. Il suo volto cambiò, divenne sprezzante. «Crede che io non
abbia un solo parente al mondo, e che sia costretta a lasciare il denaro e le terre alla Madre Chiesa, è
così?»
«Non ne ho idea» rispose lui, placido, versandosi altro tè.
«In effetti, ho un fratello con una numerosa e prospera nidiata di rampolli.»
«È una gran bella cosa per lei» disse Padre Ralph, contegnoso.
«Quando mi maritai, non possedevo alcun bene terreno. Sapevo che non avrei mai fatto un buon
matrimonio in Irlanda, ove le donne devono essere raffinate e di buona famiglia per accalappiare un
marito ricco. Così, lavorai consumandomi le dita fino all'osso per potermi pagare il viaggio fino a
un paese in cui gli uomini ricchi non fossero così schizzinosi. Quando arrivai qui, non avevo altro
che un viso, un corpo e un cervello migliore di quello che si suppone posseggano le donne, e questo
bastò per accalappiare Michael Carson, che era ricco e stupido. Mi amò alla follia fino al giorno in
cui morì.»
«E suo fratello?» le suggerì, pensando che stesse discostandosi dall'argomento.
«Mio fratello ha undici anni meno di me, vale a dire cinquantaquattro anni. Siamo i due soli ancora
in vita. Quasi non lo conosco. Era un bimbetto, quando partii da Galway. Attualmente si trova nella
Nuova Zelanda, ma, se emigrò per fare fortuna, non c'è riuscito.
«Ieri sera, però, quando il bracciante mi ha portato la notizia che Arthur Teviot aveva fatto fagotto e
se n'era andato, improvvisamente, ho pensato a Padraic. Non sto ringiovanendo di certo, e non ho
un solo parente accanto a me. E mi è accaduto di pensare che Paddy è un uomo pratico della terra,
sebbene non disponga dei mezzi per acquistare terre. Perché, mi son detta, non scrivergli e non
chiedergli di trasferirsi qui con i suoi figlioli? Quando morirò, erediterà Drogheda e la Michar
Limited, poiché è il mio solo parente ancora in vita a parte qualche ignoto cugino in Irlanda.»
Sorrise. «Sembra stupido aspettare, non le sembra? Tanto vale che venga subito, anziché in seguito,
e si abitui ad allevare pecore sulle pianure di terra nera, con sistemi che, ne sono certa, devono
essere completamente diversi da quelli dell'allevamento delle pecore nella Nuova Zelanda. Poi,
quando io me ne sarò andata, potrà prendere il mio posto senza difficoltà.» A testa bassa, osservò
attentamente Padre Ralph.
«Mi domando come mai non ci abbia pensato prima.»
«Oh, ci ho pensato. Ma, fino a poco tempo addietro, mi dicevo che l'ultima cosa al mondo ch'io
potessi desiderare era un branco di avvoltoi in ansiosa attesa di vedermi esalare l'ultimo respiro. Di
recente, però, il giorno della mia dipartita ha cominciato a sembrarmi molto più vicino di un tempo,
e sento... oh, non saprei. Come se potesse essere piacevole vedermi circondata da persone che
hanno il mio stesso sangue.»
«Che cosa c'è, pensa di essere malata?» si affrettò a domandare, con una preoccupazione sincera
nello sguardo.
Mary Carson alzò le spalle. «Sto perfettamente bene. Ma c'è un che di minaccioso nel compiere
sessantacinque anni. All'improvviso, la vecchiaia non è più un fenomeno che si determinerà, si è già
determinato.»
«Capisco quello che intende, e ha ragione. Sarà piacevolissimo per lei udire voci giovani nella
casa.»
«Oh, non abiteranno qui. Potranno alloggiare nella casa del capo-guardiano, abbastanza lontano da
me. Non amo i bambini, né le loro voci.»
«Non è un modo un po' meschino di trattare il suo unico fratello, Mary? Anche se c'è una così
grande differenza d'età?»
«Erediterà il mio patrimonio... che se lo guadagni» disse lei, crudelmente.
Fiona Cleary partorì un'altra creaturina di sesso maschile nei giorni prima del nono compleanno di
Meggie, e si ritenne fortunata perché in precedenza aveva avuto soltanto un paio di aborti. A nove
anni, Meggie era grande abbastanza per aiutarla sul serio. Quanto a Fee, aveva ormai quarant'anni,
troppo anziana per partorire senza sopportare doglie tali da svuotarla di ogni energia. Il bambino,
battezzato Harold, era delicato; per la prima volta, a quanto tutti potevano ricordare, il dottore
cominciò a venire a casa loro con regolarità.
E, come è tipico dei guai, i guai dei Cleary si moltiplicarono. La fine della guerra non aveva avuto
come conseguenza un boom, ma una crisi agricola. Diventava sempre più difficile trovare lavoro.
Un giorno, il vecchio Angus MacWhirter portò a casa loro un telegramma, proprio mentre stavano
terminando di sorseggiare il tè, e Paddy lacerò la busta con mani tremanti; i telegrammi non
recavano mai buone notizie. I ragazzi gli si riunirono attorno, tutti tranne Frank, che prese la sua
tazza di tè e si allontanò da tavola. Fee lo seguì con lo sguardo, poi tornò a voltarsi mentre Paddy
gemeva.
«Che cosa c'è?» gli domandò.
Paddy stava fissando il pezzo di carta come se avesse portato la notizia di un decesso. «Archibald
non ha bisogno di noi.»
Bob picchiò il pugno sul tavolo, selvaggiamente; era stato così impaziente di accompagnare il padre
come apprendista tosatore, e quello di Archibald avrebbe dovuto essere il primo recinto per lui.
«Perché dovrebbe farci una simile mascalzonata, Pa'? Dovevamo cominciare domani.»
«Il perché non lo dice, Bob. Immagino che qualche morto di fame si sia offerto di lavorare per
meno.»
«Oh Paddy!» sospirò Fee.
Il piccolo Hal si mise a piangere nella culla di vimini accanto alla cucina economica ma, prima che
Fee potesse alzarsi, Meggie balzò in piedi; Frank era rientrato e rimaneva in piedi, con la tazza di tè
in mano, osservando attentamente il padre.
«Be', presumo che dovrò andare a parlare con Archibald» disse Paddy, infine. «È troppo tardi ormai
per cercare un'altra tosatura, ma credo proprio che mi debba una spiegazione più convincente di
questo telegramma. Possiamo solo sperare di trovare lavoro come mungitori finché Willoughby non
comincerà a far tosare le sue pecore in luglio.»
Meggie tolse un pannolino bianco, quadrato, dall'enorme pila posta a scaldare accanto alla stufa, lo
distese accuratamente sul tavolo da lavoro, poi tolse dalla culla di vimini il bambino che strillava. I
capelli dei Cleary fiammeggiarono radi sulla testolina, mentre Meggie cambiava il pannolino con la
stessa rapidità ed efficienza di cui avrebbe potuto dar prova sua madre.
«Meggie la mammina» disse Frank, per prenderla in giro.
«Non sono una mammina!» rispose lei, indignata. «Mi limito ad aiutare Ma'.»
«Lo so» fece lui con dolcezza. «Sei una brava ragazza, piccola Meggie.» Tirò il nodo del nastro di
taffetà bianco che aveva sulla nuca facendolo pendere di traverso.
Ed ecco che i grandi occhi grigi lo contemplarono in viso, adoranti; mentre Meggie lo guardava al
di sopra della testa ciondolante del bambino, si sarebbe detto che avesse avuto la sua stessa età, o di
più. Egli sentì un dolore al petto mentre pensava che doveva essere quella la sua sorte a un'età in cui
il solo pupo del quale si sarebbe dovuta occupare era Agnese, ormai relegata e dimenticata nella
camera da letto. Se non fosse stato per lei e per Fiona, se ne sarebbe andato già da un pezzo. Guardò
con rancore suo padre, la causa della nuova vita che aveva portato tutto quello scompiglio in casa.
Ben gli stava, essere rimasto senza la tosatura.
In qualche modo, gli altri ragazzi, e persino Meggie, non avevano mai occupato i suoi pensieri tanto
quanto Hal; ma quando il ventre di Fee aveva cominciato a gonfiarsi, questa volta, lui era ormai
abbastanza avanti negli anni per essere ammogliato e padre. Tranne la piccola Meggie, quella
gravidanza aveva messo a disagio tutti, e in particolare sua madre. Le occhiate furtive dei ragazzi la
inducevano a farsi piccola come un coniglio; non riusciva a sostenere lo sguardo di Frank, né a
cancellare la vergogna dal proprio. E del resto, nessuna donna dovrebbe passare per un tormento
simile, si disse Frank per la millesima volta, ricordando i gemiti e le grida orribili nella camera da
letto, la notte in cui Hal era nato. Ormai maggiorenne, non lo avevano spedito altrove come gli altri.
Ben gli stava, a Pa', aver perduto la tosatura. Un uomo decente avrebbe lasciato in pace sua moglie.
Il capo di Ma', nella nuova luce elettrica, era d'oro filato, e il puro profilo di lei, mentre guardava, al
di là del lungo tavolo, Paddy, indicibilmente bello. Come aveva potuto, una creatura squisita e
raffinata come lei, sposare un tosatore ambulante venuto dalle paludi di Galway? Sprecando se
stessa e le sue porcellane Spode e la biancheria da tavola di damasco e i tappeti persiani che si
trovavano nel salotto e che nessuno vedeva mai, perché lei metteva molto a disagio le mogli dei pari
di Paddy. Le rendeva troppo consapevoli delle loro voci sguaiate e volgari, e del loro smarrimento
quando si trovavano di fronte a più di una forchetta.
A volte, la domenica, entrava nel salotto deserto, sedeva alla spinetta sotto la finestra e suonava,
sebbene il suo tocco fosse scomparso da un pezzo, in quanto non aveva il tempo di esercitarsi, e
sebbene ormai riuscisse a cimentarsi soltanto con i pezzi più facili. Lui si metteva a sedere sotto la
finestra, tra i lillà e i gigli, e chiudeva gli occhi ascoltando. Aveva, in quei momenti, una sorta di
visione, di sua madre con un abito lungo stretto in vita, di pizzo del rosa più pallido, seduta alla
spinetta in una enorme sala color avorio, con grandi candelabri tutto attorno. Gli faceva venir voglia
di piangere, ma non piangeva più, ormai; non più dopo quella notte nel granaio, quando la polizia lo
aveva riportato a casa.
Meggie aveva rimesso Hal nella culla, e si trovava ora in piedi accanto a sua madre. Ecco un'altra
creatura sprecata. Lo stesso profilo fiero e sensibile; e inoltre un qualcosa di Fiona nelle mani, nel
corpo infantile. Sarebbe stata molto simile a sua madre quando fosse diventata una donna. E chi
l'avrebbe sposata? Un altro balordo tosatore irlandese, o uno zotico contadinaccio di qualche
vaccheria a Vahiné? Meritava di più, ma non era nata per avere di più. Non esistevano vie d'uscita,
così dicevano tutti, e ogni anno in più della sua esistenza sembrava comprovarlo.
Consce a un tratto dello sguardo fisso di lui, Fee e Meggie si voltarono contemporaneamente,
sorridendogli con la singolare tenerezza che le donne riservano all'uomo più amato nella loro vita.
Frank mise la tazza sul tavolo e uscì per dar da mangiare ai cani, augurandosi di poter piangere, o di
poter uccidere qualcuno. Qualsiasi cosa che potesse scacciare la sofferenza.
Tre giorni dopo che Paddy aveva perduto la tosatura da Archibald, giunse la lettera di Mary Carson.
L'aprì all'ufficio postale di Vahiné, non appena ritirata la posta, e tornò a casa saltellante come un
bambino.
«Andiamo in Australia!» urlò, agitando i lussuosi fogli di carta pergamena sotto il naso della
famiglia stupefatta.
Vi fu un silenzio, mentre tutti gli occhi erano fissi nei suoi. Quelli di Fee sembravano spaventati, e
così quelli di Meggie, ma gli occhi di tutti i maschi si erano illuminati di gioia. E lo sguardo di
Frank sembrava risplendere.
«Ma, Paddy, perché dovrebbe pensare a noi così all'improvviso, dopo tanti anni?» domandò Fee,
quando ebbe letto la lettera. «Il denaro non è una cosa nuova per lei, né l'isolamento. Non ricordo
che si sia mai offerta di aiutarti, prima d'ora.»
«Sembra che abbia paura di morire sola» disse, per rassicurare tanto se stesso quanto Fee. «Hai
visto che cosa scrive: "Non sono giovane, e tu e i tuoi figlioli siete i miei eredi. Dovremmo vederci,
credo, prima che io muoia, ed è tempo che tu impari ad amministrare la tua eredità. Ho l'intenzione
di nominarti mio capo-guardiano... sarà un addestramento eccellente, e anche quelli dei tuoi figli
che sono abbastanza grandi potranno lavorare come guardiani di bestiame. Drogheda diventerà
un'azienda familiare, mandata avanti dalla famiglia senza l'intervento di estranei."»
«Ma non dice che ci manderà il denaro per il viaggio in Australia» osservò Fee.
La schiena di Paddy si irrigidì. «Non mi sognerei mai di importunarla per questo!» scattò.
«Possiamo andare in Australia senza mendicare i soldi da lei; ho abbastanza da parte.»
«Credo che dovrebbe pagarci il viaggio» sostenne Fee, cocciuta, non senza lo scandalizzato stupore
di tutti; non accadeva spesso che esprimesse un parere. «Perché dovresti rinunciare alla tua vita qui
e andare a lavorare per lei sulla base di una promessa fatta per lettera? Non ha mai alzato un dito per
aiutarci, prima d'ora, e non mi fido. La sola cosa ch'io ricordi di averti sentito dire di lei è che non
avevi mai veduto nessuno tenere più stretta in pugno una sterlina. In fin dei conti, Paddy, non è che
tu la conosca tanto bene; c'era una tale differenza di età tra voi due, e lei partì per l'Australia prima
che tu fossi grande abbastanza per andare a scuola.»
«Non vedo come questo possa modificare la situazione adesso, e se è taccagna, tanto più avremo da
ereditare. No, Fee, andremo in Australia, e il viaggio ce lo pagheremo noi.»
Fiona non disse altro. Fu impossibile arguire, dalla sua espressione, se fosse risentita per essere stata
tacitata così bruscamente.
«Evviva, andiamo in Australia!» urlò Bob, afferrando la spalla di suo padre. Jack, Hughie e Stu
saltellavano su e giù, e Frank sorrideva; vedeva qualcosa molto lontano. Soltanto Fee e Meggie,
perplesse e impaurite, si auguravano intensamente che tutto finisse in una bolla di sapone, poiché la
loro vita non avrebbe potuto essere più facile in Australia; le stesse cose, e in un ambiente estraneo.
«Dov'è Gillanbone?» domandò Stuart.
Tirarono fuori il vecchio atlante; per quanto i Cleary fossero poveri, c'erano parecchi scaffali di libri
dietro il tavolo da pranzo in cucina. I ragazzi sfogliarono le pagine ingiallite finché non ebbero
trovato il Nuovo Galles del Sud. Abituati com'erano alle distanze relativamente brevi della Nuova
Zelanda, non pensarono a guardare la scala in miglia nell'angolo in basso a sinistra della carta.
Supposero logicamente che il Nuovo Galles del Sud avesse press'a poco le stesse dimensioni
dell'Isola Settentrionale della Nuova Zelanda. Ed ecco Gillanbone, situata in alto, verso l'estremo
angolo sinistro; la distanza da Sydney equivaleva press'a poco a quella tra Wanganui e Auckland, si
sarebbe detto, sebbene i puntini che indicavano i centri abitati fossero di gran lunga meno numerosi
di quelli dell'Isola Settentrionale.
«È un atlante molto vecchio» disse Paddy. «L'Australia è come l'America, sta crescendo a balzi e
salti. Sono certo che, al giorno d'oggi, le cittadine siano più numerose.»
Avrebbero dovuto viaggiare in terza classe sulla nave, ma si trattava di una traversata di tre giorni
appena, tutto sommato; non sarebbe stato un gran sacrificio. Non come le settimane e settimane tra
l'Inghilterra e gli Antipodi. Con sé potevano permettersi di portare soltanto il vestiario, i piatti, le
posate, le lenzuola, gli utensili da cucina, e quei preziosi libri; i mobili avrebbero dovuto venderli
per pagare le spese di spedizione delle poche cose di Fee nel salotto: la spinetta, i tappeti e le
poltrone.
«Non voglio assolutamente che tu ci rinunci» disse Paddy a Fiona, con fermezza.
«Sei certo che possiamo permettercelo?»
«Certissimo. Quanto agli altri mobili, Mary dice che sta approntando l'alloggio del capo-guardiano
e che c'è qualsiasi cosa possa occorrerci. Sono contento che non dobbiamo abitare nella stessa casa
di Mary.»
«Anch'io» disse Fee.
Paddy si recò a Wanganui per prenotare una cabina di terza classe con otto cuccette sulla Vahiné;
strano che la nave e la cittadina più vicina a loro avessero lo stesso nome. Dovevano partire alla fine
di agosto, e così ai primi di quel mese tutti cominciarono a rendersi conto che vi sarebbe stata
davvero la grande avventura. I cani dovettero essere dati via, i cavalli e il calesse venduti, i mobili
accatastati sul carro del vecchio Angus MacWhirter e portati a Wanganui per la vendita all'asta,
mentre le poche cose di Fee furono chiuse entro casse insieme al vasellame, alla biancheria, ai libri
e agli utensili da cucina.
Frank trovò sua madre in piedi accanto alla bellissima, antica spinetta, intenta ad accarezzarne i
pannelli lievemente rosei e striati e a contemplare con uno sguardo vago l'incipriatura di polvere
dorata rimastale sulla punta delle dita.
«L'hai sempre avuta, Ma'?» domandò.
«Sì. Quello che era realmente mio non riuscirono a togliermelo quando mi sposai. La spinetta, i
tappeti persiani, il divano e le poltrone Luigi XV, lo scrittoio Reggenza. Non un gran che, ma mi
appartenevano di diritto.» Gli occhi grigi e malinconici contemplarono, alle spalle di Frank, il
dipinto a olio sulla parete, un po' offuscato dal tempo, sebbene la donna dai capelli d'oro e dalla
veste di pizzo rosa-pallido, in crinolina con centosette balze, continuasse a essere ben visibile.
«Chi era?» domandò lui, incuriosito, voltando la testa. «Ho sempre desiderato saperlo.»
«Una gran dama.»
«Be', deve essere imparentata con te; ti somiglia un po'.»
«Lei? Una mia parente?» Gli occhi grigi smisero di contemplare il quadro e si posarono ironici sulla
faccia del giovane. «Suvvia, ho forse l'aria di aver mai potuto avere una parente come lei?»
«Sì.»
«Hai ragnatele nel cervello; spazzale via.»
«Vorrei che tu me lo dicessi, Ma'.»
Ella sospirò e chiuse la spinetta, poi si tolse l'oro dalle dita. «Non c'è niente da dire, proprio niente.
Avanti, aiutami a spostare queste cose al centro della stanza, così Pa' potrà imballarle.»
Il viaggio fu un incubo. Prima ancora che la Vahiné fosse uscita dal porto di Wellington,
cominciarono tutti quanti a soffrire il mal di mare, e continuarono a soffrirlo durante l'intera
traversata, milleduecento miglia di mari invernali spazzati da venti di tempeste. Paddy portava i
ragazzi in coperta e li teneva lì nonostante le raffiche gelide e gli spruzzi incessanti, scendendo nella
stiva a vedere come stessero le sue donne e il bambino soltanto quando qualche anima buona si
offriva di tener d'occhio i quattro malconci ragazzi che vomitavano. Per quanto anelasse l'aria
fresca, Frank aveva deciso di restare sottocoperta per sorvegliare le donne. La cabina era minuscola,
soffocante, e puzzava di petrolio, poiché si trovava sotto la linea di galleggiamento e per giunta a
prora, ove il beccheggio della nave era quanto mai violento.
Alcune ore dopo la partenza da Wellington, Frank e Meggie si persuasero che la madre sarebbe
morta; il medico, chiamato dalla prima classe da un preoccupatissimo cameriere di bordo, crollò il
capo, pessimista, dopo averla visitata.
«Grazie a Dio, si tratta di una traversata breve» disse, dando ordine alla sua infermiera di trovare
latte per il bambino.
Tra l'uno e l'altro attacco di vomito, Frank e Meggie riuscirono a nutrire con il biberon Hal, che non
sembrava gradire troppo la cosa. Fee aveva smesso di sforzarsi di vomitare, ed era scivolata in una
sorta di coma, dal quale non riuscirono a riscuoterla. Il cameriere aiutò Frank a metterla sulla
cuccetta più alta, ove l'aria era un po' meno viziata; poi, premendosi una salvietta sulla bocca per
assorbire la bile acquosa che continuava a vomitare, Frank si appollaiò sulla sponda della cuccetta
accanto a lei, scostandole gli umidi capelli gialli dalla fronte. Un'ora dopo l'altra rimase immobile al
suo posto di veglia, nonostante la nausea; ogni volta che Paddy scendeva, lo trovava acanto a sua
madre, intento ad accarezzarle i capelli, mentre Meggie rimaneva rannicchiata su una cuccetta più
bassa con Hal, anche lei con una salvietta sulla bocca.
A tre ore di navigazione da Sydney, il mare si appiattì, divenendo calmo e vitreo, e la nebbia avanzò
furtiva dal remoto Antartico, avvolgendosi intorno alla nave. Meggie, riavutasi un poco, immaginò
che la nave ululasse, a intervalli regolari, di dolore, adesso che le percosse tremende erano finite.
Proseguirono adagio nel colloso grigiore furtivamente come creature inseguite, finché quell'ululato
profondo e monotono non risuonò di nuovo in qualche punto tra le sovrastrutture, un suono perduto
e solitario, indescrivibilmente triste. Poi, tutto intorno a loro, l'aria vibrò di altri ululati luttuosi
mentre scivolavano, solcando acqua spettrale e fumigante, nel porto. Meggie non doveva mai
dimenticare il suono delle sirene da nebbia, il suo primo contatto con l'Australia.
Paddy portò Fee giù dalla Vahiné tra le braccia, seguito da Frank con il bambino, e da Meggie con
una valigia, mentre tutti i ragazzi incespicavano stancamente sotto il peso di qualche fardello. In
una nebbiosa mattinata invernale, alla fine di agosto, erano giunti a Pyrmont, un nome privo di
significato. Una fila sconfinata di tassì aspettava fuori della tettoia di ferro, sul molo. Meggie li
contemplò a bocca aperta e con gli occhi tondi, poiché non aveva mai veduto un così gran numero
di automobili in un solo posto contemporaneamente. In qualche modo, Paddy riuscì a pigiare tutti
quanti su un solo tassì, il cui autista si era offerto di portarli al Palazzo del Popolo.
«Quello è il posto che fa per lei, amico» disse a Paddy. «È un albergo per i lavoratori mandato
avanti dall'Esercito della Salvezza.»
Le strade erano gremite di autoveicoli che sembravano correre in tutte le direzioni; si vedevano
pochissimi cavalli. Contemplarono rapiti, attraverso i finestrini del tassì, gli alti palazzi di mattoni,
le vie strette e tortuose, la rapidità con cui folle di persone sembravano formarsi e sciogliersi,
secondo un qualche strano rito urbano. Wellington li aveva intimoriti, ma Sydney faceva sembrare
Wellington una piccola borgata di campagna.
Mentre Fee si riposava in una della miriade di camere di quella conigliera che l'Esercito della
Salvezza chiamava affettuosamente Palazzo del Popolo, Paddy si recò alla stazione centrale per
chiedere quando avrebbero potuto prendere un treno diretto a Gillanbone. Ormai del tutto riavutisi, i
ragazzi chiesero, vociando, di accompagnarlo, in quanto avevano saputo che la stazione non distava
molto, e che lungo l'intero tratto si allineavano negozi, compreso uno nel quale vendevano certe
speciali caramelle. Paddy cedette, invidiando la gioventù, perché, quanto a lui, non era ben sicuro di
aver le gambe salde dopo tre giorni di mal di mare. Frank e Meggie rimasero con Fee e con il
bambino, sebbene anche loro desiderassero andare; ma erano preoccupati per la madre e volevano
che si ristabilisse. In effetti, ora che non si trovava più a bordo, sembrava ricuperare rapidamente le
forze, e aveva sorbito una tazza di brodo e mangiucchiato una fetta di pane abbrustolito servite da
uno degli angeli in cuffietta dei lavoratori.
«Se non partiamo questa sera, Fee, dovremo aspettare una settimana fino al prossimo treno» disse
Paddy, quando tornò con i ragazzi. «Credi di farcela a viaggiare stanotte?»
Fee si drizzò a sedere rabbrividendo. «Posso farcela.»
«Secondo me, dovremmo aspettare» intervenne Frank, in tono aspro. «Non credo che Ma' stia
abbastanza bene per affrontare il viaggio.»
«A quanto pare non ti rendi conto di una cosa, Frank, e cioè che se non prendiamo il treno questa
sera dovremo aspettare tutta una settimana, e io non ho in tasca il denaro sufficiente per sette giorni
in albergo a Sydney. Questo è un paese enorme e la località ove siamo diretti non è servita da treni
quotidiani. Potremmo arrivare fino a Dubbo con uno qualsiasi di tre treni, domani, ma poi saremmo
costretti ad aspettare una coincidenza locale e mi hanno detto che il viaggio sarebbe molto più
scomodo di quello con il rapido di stanotte, se riuscissimo a prenderlo.»
«Ce la farò, Paddy» ripeté Fee. «Ho con me Frank e Meggie. Starò benissimo.» Volse lo guardo su
Frank, supplicandolo ed esortandolo a tacere.
«Allora spedirò subito un telegramma a Mary, dicendole di aspettarci domani sera.»
La stazione centrale era più grande di qualsiasi edificio nel quale i Cleary fossero mai entrati,
un'enorme volta a vetri che sembrava moltiplicare, e contemporaneamente assorbire, il vocio delle
migliaia di persone in attesa accanto a logore valigie legate con cinghie, e intente a fissare
attentamente una gigantesca tabella indicatrice che uomini muniti di lunghe aste modificavano a
mano. Nell'oscurità man mano più fitta della sera, vennero a far parte anch'essi della folla, gli occhi
fissi sui cancelli d'acciaio, a fisarmonica, del marciapiede cinque; sebbene fossero chiusi, vi si
trovava un grande cartello scritto a mano con l'indicazione «Postale di Gillanbone». Sul
marciapiede uno e sul marciapiede due, un'agitazione tremenda preannunciò la partenza imminente
dei rapidi notturni diretti a Brisbane e a Melbourne, mentre i passeggeri si pigiavano contro le
barriere. Ben presto venne la loro volta, mentre i cancelli del marciapiede cinque si aprivano
ripiegandosi su se stessi e la gente cominciava ansiosamente a farsi avanti.
Paddy trovò uno scompartimento vuoto di seconda classe, vi fece salire i ragazzi più grandi per il
finestrino, mentre Fee, Meggie e il bambino entrarono per la porta scorrevole che dava sul lungo
corridoio del vagone. Alcune facce guardarono dentro speranzose, ma scomparvero subito
inorridite, alla vista di tutti quei ragazzi. A volte, essere una famiglia numerosa costituiva un
vantaggio.
La notte era così fredda che liberarono dalle cinghie tutte le pesanti coperte da viaggio a quadri,
arrotolate all'esterno delle valigie; sebbene la carrozza non fosse riscaldata, cassoni d'acciaio
contenenti braci accese erano applicati al pavimento e irradiavano un po' di tepore; nessuno, del
resto, si era aspettato il riscaldamento perché niente in Australia o nella Nuova Zelanda veniva mai
riscaldato.
«Quanto è lontana Gillanbone, Pappi?» domandò Meggie, mentre il treno partiva sferragliando e
sobbalzando dolcemente su una infinità di scambi.
«Molto di più di quanto sembrasse sul nostro atlante, Meggie. Novecentottanta chilometri.
Arriveremo nel tardo pomeriggio di domani.»
I ragazzi rimasero a bocca aperta, ma non ci pensarono più vedendo fiorire un paese da fiaba di luci,
all'esterno; corsero tutti ai finestrini e stettero a guardare mentre i primi chilometri volavano via e le
case non diradavano. La velocità aumentò, le luci si diradarono e infine scomparvero, sostituite da
incessanti fasci di scintille che saettavano in un vento ululante. Quando Paddy portò i ragazzi fuori
dello scompartimento affinché Fee potesse allattare Hal, Meggie li seguì con uno sguardo
nostalgico. Da qualche tempo sembrava che non venisse più considerata una di loro; non più da
quando la nascita del bambino aveva sconvolto la sua esistenza, incatenandola alla casa quanto sua
madre. Non che gliene importasse, in realtà, si disse lealmente. Hal era una così cara creaturina, la
più grande delizia della sua vita, e inoltre le faceva piacere essere trattata da Ma' come una donna
adulta. Che cosa inducesse Ma' a mettere al mondo bambini, non riusciva a immaginarlo, ma il
risultato era adorabile. Mise Hal sulle braccia di Fee; il treno si fermò, non molto tempo dopo,
cigolando e stridendo e parve rimanere immobile per ore, ansimando per riprendere fiato. Lei
moriva dalla voglia di aprire il finestrino e guardar fuori, ma lo scompartimento stava diventando
molto freddo, nonostante le braci accese contro il pavimento.
Paddy entrò dal corridoio con una fumante tazza di tè per Fee, che rimise sul sedile Hal, rimpinzato
e sonnacchioso.
«Dove siamo?» ella domandò.
«In un posto chiamato Valley Heights. Attaccano un'altra locomotiva, qui, per la salita fino a
Lightgow, così ha detto la cameriera nella carrozza-ristoro.»
«Quanto tempo ho per bere questo tè?»
«Un quarto d'ora. Frank ti porterà qualche tramezzino e io farò mangiare i ragazzi. La prossima
fermata sarà una località a nome Blayney, molto più tardi stanotte.»
Meggie, intollerabilmente eccitata, bevve parte del tè bollente e molto zuccherato di sua madre, e
divorò un tramezzino, quando Frank li portò. Frank la fece coricare sul lungo sedile accanto al
piccolo Hal, l'avvolse ben bene in una coperta, e poi fece altrettanto con Fee, completamente
allungata sul sedile di fronte. Stuart e Hughie furono fatti coricare sul pavimento tra i sedili, ma
Paddy disse a Fee che avrebbe portato Bob, Frank e Jack parecchi scompartimenti più avanti, per
conversare con alcuni tosatori, e per trascorrere là la notte. Si stava molto meglio che sulla nave,
viaggiando cullati dal ritmico sferragliare delle due locomotive, ascoltando il vento contro i fili del
telegrafo, e, di quando in quando, uno stridore furioso mentre le ruote d'acciaio slittavano sui binari
in salita, cercando freneticamente l'attrito per poter esercitare trazione. Meggie si addormentò.
La mattina dopo, contemplarono intimoriti e sgomenti un paesaggio talmente estraneo che non
avevano mai sognato potesse esistere qualcosa di simile sullo stesso pianeta della Nuova Zelanda.
C'erano le colline ondulate, sì, ma assolutamente niente altro che ricordasse la loro patria. Tutto
aveva un colore rossiccio e grigiastro, persino gli alberi! Il frumento invernale era già stato tinto
d'argento fulvo dal sole abbacinante, chilometri su chilometri di frumento che si increspava e si
piegava sotto il vento, distese interrotte soltanto da boschetti d'alberi stentati, affusolati, con le
foglie blu, e da macchie polverose di esausti cespugli grigi. Gli occhi stoici di Fee osservarono lo
scenario senza cambiare espressione, ma quelli della povera Meggie si riempirono di lacrime. Era
una distesa orribile, priva di recinti, sconfinata, senza una sola traccia di verde.
Dopo la notte gelida, la giornata divenne rovente, man mano che il sole saliva verso lo zenit e il
treno sferragliava sempre e sempre e sempre più avanti, fermandosi di tanto in tanto in qualche
minuscolo villaggio pieno di biciclette e di veicoli trainati da cavalli; le automobili scarseggiavano,
lì, a quanto pareva. Paddy abbassò sino in fondo entrambi i finestrini, nonostante la fuliggine che
penetrava turbinando e si posava dappertutto; faceva un tal caldo che boccheggiavano, e i pesanti
vestiti invernali della Nuova Zelanda si appiccicavano sulla pelle, causando pruriti. Sembrava
impossibile che qualsiasi luogo, eccetto l'inferno, potesse essere così caldo nella stagione invernale.
Gillanbone apparve mentre il sole stava tramontando, uno strano piccolo insieme di sgangherate
costruzioni di legno e lamiera ondulata, ai lati di un'unica strada ampia, polverosa, senz'alberi,
monotona. Il sole sul punto di scomparire aveva disteso una vernice dorata su ogni cosa, dando al
villaggio una fuggevole e fulgida dignità che si dileguò quando lo guardarono dal marciapiede della
stazione. Un tipico centro di pionieri ai margini del «Più in là dell'Aldilà», l'ultimo avamposto nella
fascia delle piogge man mano più rade; non lontano di lì, più a ovest, cominciavano i tremila
chilometri dei territori deserti ove non poteva piovere.
Nella piazza della stazione si trovava una splendente automobile nera, e, camminando a gran passi
con noncuranza sullo strato di polvere spesso parecchi centimetri, venne verso di loro un prete. La
lunga tonaca lo faceva sembrare una figura emersa dal passato, quasi non avesse mosso i piedi
come gli uomini normali, ma stesse scivolando come in un sogno; la polvere si sollevava e si
gonfiava intorno a lui, rossa negli ultimi raggi del tramonto.
«Salve, sono Padre de Bricassart» disse, tendendo la mano a Paddy. «Lei dev'essere il fratello di
Mary; è il suo ritratto vivente.» Si voltò verso Fee e ne portò la mano inerte alle labbra, sorridendo
con autentico stupore; nessuno era in grado di riconoscere una gentildonna più rapidamente di Padre
Ralph. «Ah, ma è splendida!» esclamò; come se quello fosse stato il commento più naturale del
mondo da parte di un prete, poi gli occhi di lui si volsero verso i ragazzi, raggruppati in piedi tutti
insieme. Per un momento, con interdetto stupore, indugiarono su Frank, che aveva in braccio il
bambino, quindi si abbassarono da un ragazzo all'altro, in ordine di statura. Dietro di loro, tutta sola,
Meggie fissava il sacerdote a bocca aperta, come se stesse contemplando Dio. Senza attribuire,
apparentemente, importanza al fatto che la sua bella tonaca di sargia si impregnava di polvere, egli
girò intorno ai ragazzi e si accosciò per stringere Meggie tra le mani, ed erano mani ferme, dolci,
cortesi. «Bene! E tu chi sei?» le domandò, sorridendo.
«Meggie» rispose lei.
«Si chiama Meghann» disse Frank, accigliato, odiando quell'uomo bellissimo, la sua statura
stupefacente.
«È il nome che prediligo, Meghann.» Il prete si raddrizzò ma continuò a tenere la mano di Meggie
nella sua. «Sarà preferibile che rimaniate alla canonica, stanotte» disse, conducendo Meggie verso
l'automobile. «Vi accompagnerò a Drogheda domattina; è troppo lontana dopo il viaggio in treno da
Sydney.»
A parte l'Hotel Imperial, la chiesa cattolica, la scuola, il convento e la canonica erano i soli edifici di
mattoni a Gillanbone, poiché anche la grande scuola pubblica doveva accontentarsi di essere di
legno. Ora, una volta discesa l'oscurità l'aria era diventata incredibilmente gelida; ma nel salotto
della canonica fiammeggiava un enorme fuoco di ceppi, e un profumo di cibi giunse, allettante, da
qualche stanza più in là. La governante, una raggrinzita scozzese dall'energia stupefacente, si diede
un gran da fare, mostrando le loro stanze e cicalando ininterrottamente con lo spiccato accento degli
Highlands occidentali.
Abituati al riserbo «noli me tangere» dei sacerdoti di Vahiné, i Cleary stentarono ad abituarsi alla
disinvolta e allegra bonomia di Padre Ralph. Soltanto Paddy si sgelò, perché ricordava ancora la
cordialità dei preti nella sua natia Galway, la loro affabilità con le persone di rango inferiore. Gli
altri cenarono in un cauto silenzio, e si rifugiarono di sopra non appena fu possibile, seguiti con
riluttanza da Paddy. Per lui, la religione era un tepore e una consolazione; ma, per il resto della sua
famiglia, si trattava di qualcosa che affondava le radici nella paura, una coazione «credi-o-sarai-
dannato».
Quando furono andati a coricarsi, Padre Ralph si allungò sulla sua poltrona prediletta, fissando il
fuoco, fumando una sigaretta e sorridendo. Nell'immaginazione, stava passando in rassegna i
Cleary, così come li aveva veduti per la prima volta dalla piazza della stazione. L'uomo, così
somigliante a Mary, ma incurvato dalla dura fatica, e, assai manifestamente, con un'indole ben
diversa da quella maligna della sorella; la sua stanca e bella moglie, che aveva l'aria di dover
scendere da un landò con un tiro a due di cavalli bianchi; il bruno e torvo Frank dagli occhi neri,
occhi neri; gli altri figlioli, quasi tutti somiglianti al padre; ma il più piccolo, Stuart, assai simile alla
madre, sarebbe diventato un bell'uomo da grande; impossibile dire che cosa sarebbe diventato il
poppante; e poi Meggie. La più soave, la più adorabile bimbetta che avesse mai veduto; capelli di
un colore che sfidava ogni descrizione, né rossi, né dorati, una fusione perfetta di entrambi i colori.
E lo aveva guardato di sotto in su con occhi grigio-argento, di una indicibile, splendente purezza,
come pietre preziose fuse. Alzando le spalle, gettò il mozzicone della sigaretta nel fuoco e si alzò.
Stava diventando fantasioso, nella maturità; pietre preziose fuse, figurarsi! Era più probabile che gli
si stesse indebolendo la vista, con il flagello della sabbia.
La mattina dopo, portò in macchina a Drogheda gli ospiti; era ormai talmente assuefatto al
paesaggio che i loro commenti lo divertirono molto. L'ultima altura si trovava trecento chilometri
più a est; questa era la regione delle pianure di terra nera, spiegò. Niente altro che immensi pascoli,
piatti come un'asse, con scarsi alberi. La giornata era calda come quella precedente, ma sulla
Daimler si viaggiava assai più comodamente che sul treno. Ed erano partiti presto, a digiuno, con i
paramenti di Padre Ralph e il Benedetto Sacramento riposti con cura in una valigia nera.
«Le pecore sono sudicie!» disse Meggie in tono afflitto, contemplando le molte centinaia di fagotti
color rosso-ruggine, con i musi che cercavano, affondati nell'erba.
«Ah, mi rendo conto che avrei dovuto scegliere la Nuova Zelanda» disse il sacerdote. «Dev'essere
come l'Irlanda, allora, piena di belle pecore color crema.»
«Sì, è come l'Irlanda sotto molti aspetti; c'è la stessa bellissima erba verde. Ma è più selvaggia, assai
meno addomesticata» rispose Paddy. Padre Ralph gli piaceva moltissimo.
Proprio in quel momento, un gruppo di emù si misero in piedi traballando e cominciarono a fuggire,
rapidi come il vento sulle goffe zampe, i lunghi colli protesi. I bambini trattennero udibilmente il
respiro, poi scoppiarono a ridere, incantati nel vedere uccelli giganteschi che correvano invece di
volare.
«Che piacere non dover scendere e aprire quei fastidiosi cancelli» disse Padre Ralph, mentre
l'ultimo veniva chiuso dietro di loro, e Bob, che si era assunto il compito in sua vece, risaliva sulla
macchina.
Dopo gli shock che l'Australia aveva fatto subire loro con una rapidità sconcertante, la dimora di
Drogheda ricordò in qualche modo la patria, con la sua graziosa facciata georgiana; i tralci di
glicine quasi in fiore e le migliaia di cespugli di rose.
«Abiteremo qui?» squittì Meggie.
«Non precisamente» si affrettò a dire il sacerdote. «La casa nella quale alloggerete si trova circa un
chilometro e mezzo più avanti, sul torrente.»
Mary Carson li aspettava nel vasto salotto e non si alzò per salutare il fratello, ma lo costrinse ad
avvicinarsi rimanendo seduta sulla poltrona a conchiglia.
«Bene, Paddy» disse in tono abbastanza cordiale, lo sguardo fisso, al di là di lui, su Padre Ralph che
rimaneva in piedi con Meggie tra le braccia, e le esili braccine di lei strette intorno al collo. Mary
Carson si alzò pesantemente, senza salutare Fee né i bambini.
«Andiamo ad ascoltare la Messa immediatamente» disse. «Sono certa che Padre de Bricassart sia
ansioso di ripartire.»
«Niente affatto, mia cara Mary.» Egli rise, con gli occhi azzurri splendenti. «Celebrerò la Messa,
faremo tutti insieme un'ottima colazione calda al suo desco, poi mostrerò a Meggie la casa dove
abiterà, come le ho promesso.»
«Meggie?» disse Mary Carson.
«Sì, questa è Meggie. Il che significa cominciare le presentazioni dal fondo, no? Mi consenta,
invece, di iniziarle dal principio, Mary, la prego. Ecco Fiona.»
Mary Carson annuì brusca, e prestò scarsa attenzione mentre Ralph presentava i ragazzi; era troppo
assorta nella contemplazione del sacerdote e di Meggie.
4

La casa del capo-guardiano poggiava su pali, una decina di metri al disopra di uno stretto burrone
frangiato da sparsi eucalipti e da molti salici piangenti. Dopo lo splendore della dimora di
Drogheda, parve alquanto nuda e ispirata a criteri utilitaristici, ma gli ambienti all'interno non
differivano molto dalla casa che avevano lasciato nella Nuova Zelanda. Massicci mobili vittoriani
riempivano le stanze fino a traboccare, rivestiti da un'impalpabile polvere rossa.
«Siete fortunati, qui, avete un bagno» disse Padre Ralph, conducendoli su per gli scalini di assi,
nella veranda anteriore; si trattava di una vera e propria scalata. «L'han fatta tanto alta
nell'eventualità che il torrente trabocchi» spiegò. «Vi trovate proprio accanto al torrente, e ho sentito
dire che il livello dell'acqua può aumentare di diciotto metri in una notte.»
Avevano, effettivamente, un bagno; una vecchia vasca di zinco e uno scaldabagno scrostato
nell'alcova a una estremità della veranda posteriore. Ma, come le donne constatarono disgustate, il
gabinetto non era altro che una buca nel terreno, a circa duecento metri dalla casa, e puzzava.
Primitivo, dopo la Nuova Zelanda.
«Chiunque abitasse qui, non era molto pulito» disse Fee, facendo scorrere un dito sulla polvere
della credenza.
Padre Ralph rise. «Combatterà una battaglia perduta, se tenterà di eliminare questa polvere» disse.
«Qui siamo nell'interno, e ci sono tre cose che non sconfiggerà mai... il caldo, la polvere e le
mosche. Qualunque cosa possa fare, l'accompagneranno sempre.»
Fee guardò il sacerdote. «Lei è molto buono con noi, Padre.»
«E perché no? Siete gli unici parenti della mia ottima amica Mary Carson.»
«Non sono abituata ad avere rapporti amichevoli con un sacerdote. Nella Nuova Zelanda se ne
stavano parecchio sulle loro.»
«Non è cattolica, vero?»
«No, il cattolico è Paddy. Naturalmente, i bambini sono stati cresciuti tutti nella fede cattolica, dal
primo all'ultimo, se è questo che la preoccupa.»
«Non mi sono mai sognato di preoccuparmene. A lei dispiace?»
«Mi è indifferente, in realtà, una cosa o l'altra.»
«Non si è convertita?»
«Non sono un'ipocrita, Padre de Bricassart. Non avevo più fede nella mia Chiesa, e non ci tenevo
affatto ad adottare una fede diversa e altrettanto priva di senso.»
«Capisco.» Osservò Meggie che, in piedi sulla veranda anteriore, contemplava il sentiero lungo il
quale si arrivava alla grande dimora di Drogheda. «È così graziosa, sua figlia. Ho un debole per i
capelli tizianeschi, sa. Quelli della bambina avrebbero indotto il pittore a correre a prendere i
pennelli. Non avevo mai veduto prima d'ora un colore simile. È la sua unica figlia?»
«Sì. I maschi predominano, sia nella famiglia di Paddy, sia nella mia; le femmine sono
un'eccezione.»
«Povera creaturina» disse lui, oscuramente.
Quando le casse furono arrivate da Sydney e la casa ebbe assunto un aspetto più familiare, con i
libri, le cineserie, i ninnoli e il salotto arredato con i mobili di Fee, tutto cominciò a sistemarsi.
Paddy e i ragazzi più grandi di Stu erano quasi sempre via con i due braccianti assunti da Mary
Carson per insegnare loro le molte differenze tra le pecore del nord-ovest del Nuovo Galles del Sud
e le pecore della Nuova Zelanda. Fee, Meggie e Stu scoprirono le differenze tra il mandare avanti
una casa nella Nuova Zelanda e il vivere nell'alloggio del capo-guardiano a Drogheda; esisteva una
tacita intesa in base alla quale non dovevano mai disturbare Mary Carson, ma la governante e le
cameriere di lei erano ansiose di rendersi utili alle donne quanto i braccianti lo erano di aiutare gli
uomini.
Come tutti poterono constatare, Drogheda era un mondo a sé, talmente isolato dalla civiltà che,
dopo qualche tempo, persino Gillanbone non divenne altro che un nome con ricordi remoti. Entro i
limiti del vasto Home Paddock si trovavano stalle, una fucina, autorimesse, innumerevoli ripostigli
nei quali veniva conservato di tutto, dal foraggio alle macchine agricole, e poi canili e recinti per
cani, un intricato labirinto di recinti per il bestiame, un capannone gigantesco per la tosatura, con
l'incredibile numero di ventisei corridoi, e, dietro, un altro complicato labirinto di cortili. C'erano
pollai, porcili, stalle per le mucche e una cascina, alloggi per i ventisei tosatori, piccoli alloggi per i
braccianti, altre due case come la loro, ma più piccole, per i guardiani, una baracca per gli
apprendisti, un cortile per macellare e una legnaia.
Tutto ciò si trovava press'a poco al centro di una radura senz'alberi avente un diametro di quasi
cinque chilometri: lo Home Paddock, «il recinto della casa». Soltanto la casa del capo-guardiano
sfiorava quasi le foreste circostanti. V'erano comunque molti alberi intorno ai ripostigli e ai recinti
degli animali e del bestiame, così da fornire un'ombra gradita e necessaria; per lo più, alberi del
pepe, enormi, resistenti, fronzuti e sonnacchiosamente belli. Più in là, tra l'erba alta, pascolavano
vacche da latte e cavalli.
Nel profondo burrone accanto alla casa del capo-guardiano scorreva un pigro torrente d'acqua
melmosa. Nessuno credeva a quanto aveva detto Padre Ralph, che il livello poteva alzarsi di
diciotto metri in una notte; non sembrava possibile. L'acqua di quel torrente veniva pompata a mano
per le necessità della cucina e del bagno, e occorse molto tempo alle donne prima che si abituassero
a lavare se stesse, i piatti e la biancheria in quell'acqua di un verde-rossiccio. Sei massicci serbatoi
di lamiera ondulata, appollaiati su torri di legno simili a torri di trivellazione, raccoglievano l'acqua
piovana proveniente dal tetto e fornivano l'acqua potabile; ma si resero conto ben presto che
dovevano adoperarla con parsimonia e non servirsene mai per il bucato. Infatti, nessuno poteva
sapere quando nuove piogge avrebbero riempito i serbatoi.
Pecore e vacche bevevano acqua artesiana, attinta non già a una falda acquifera facilmente
accessibile, ma vera acqua artesiana che saliva da novecento metri sotto la superficie del suolo.
Sgorgava, a una temperatura di cento gradi, dall'imboccatura di quello che veniva chiamato foro di
trivellazione, e scorreva lungo piccoli canali, frangiati da erba di un verde velenoso, fino a ogni
recinto della proprietà. Questi canali erano gli scarichi del pozzo e l'acqua molto sulfurea e satura di
minerali che contenevano non era potabile per gli uomini.
A tutta prima, le distanze li sbalordirono; Drogheda aveva un'estensione di duecentocinquantamila
acri; il lato più lungo correva per centoventotto chilometri. La dimora distava sessantaquattro
chilometri e ventisette cancelli da Gillanbone, l'unico centro abitato che fosse lontano meno di
centosettanta chilometri. Lo stretto confine a est era formato dal fiume Barwon: così gli indigeni
chiamavano il tratto settentrionale del fiume Darling, un grande corso d'acqua melmosa lungo
milleseicento chilometri che, in ultimo, confluiva nel fiume Murray per sfociare infine nell'Oceano
meridionale, duemilaquattrocento chilometri più lontano, nell'Australia del Sud. Il torrente Gillan,
che scorreva nel burrone accanto alla casa del capo-guardiano, si gettava nel Barwon a oltre tre
chilometri di distanza dallo Home Paddock.
Il posto piaceva a Paddy e ai ragazzi. A volte trascorrevano giorni e giorni di seguito in sella, a
chilometri di distanza dalla dimora, accampandosi durante la notte sotto un cielo così vasto e così
gremito di stelle da dar loro l'impressione di far parte di Dio.
La terra grigio-rossiccia brulicava di vita. Canguri a branchi di centinaia e centinaia passavano a
balzi tra gli alberi, superando i recinti, belli, eleganti, liberi, infiniti; gli emù nidificavano nella
pianura erbosa e si aggiravano come giganti intorno ai loro nidi, spaventati da qualsiasi cosa
estranea, per cui fuggivano, più veloci di cavalli, abbandonando le loro uova verdi-scure, grosse
come palloni; le termiti edificavano torri rugginose simili a grattacieli in miniatura; formiche
enormi, dal morso feroce, si riversavano a fiumi fuori da buchi del terreno.
I volatili erano talmente numerosi e talmente variati, che sembrava non esservi mai fine alle nuove
specie; vivevano non già isolati o a coppie, ma a migliaia di migliaia: minuscoli parrocchetti verdi e
gialli che Fee chiamava pappagallini ma ai quali la gente del posto dava il nome di «budgerigars»;
piccoli pappagalli scarlatti e azzurri denominati «rosellas»; grossi pappagalli di un grigio chiaro, di
un vivido rosa-viola sul petto, sotto le ali e sul capo, detti «galahs»; e i grandi uccelli di un bianco
puro, con creste di un giallo sfrontato: cacatua dalla cresta di zolfo. Squisiti, minuscoli fringuelli
frullavano dappertutto, così come i passeri e gli stornelli, mentre i robusti e bruni martin pescatori,
denominati lì «kookaburras», ridevano e ridacchiavano, o si gettavano in picchiata sui serpenti, il
loro cibo prediletto. Erano quasi umani, tutti quegli uccelli, e impavidi, appollaiati a centinaia sugli
alberi: si guardavano attorno con occhi vividi e intelligenti, strillando, ciangottando, ridendo,
imitando qualsiasi cosa producesse un suono.
Rettili spaventosi, lunghi un metro e mezzo o due metri, strisciavano pesantemente al suolo o
balzavano agilmente sugli alti rami degli alberi: erano i «goannas»; ed esistevano molte altre
lucertole, più piccole, ma non meno orribili, adorne di collari cornei, da triceratopo, sul collo, o con
lingue gonfie, di un azzurro acceso. Quanto ai serpenti, ne esistevano varietà quasi a non finire, e i
Cleary impararono che i più grossi, e quelli dall'aspetto più minaccioso, erano spesso i più innocui,
mentre una tozza piccola creatura, lunga una trentina di centimetri, poteva essere un aspide mortale;
serpenti-tappeto, serpenti-rame, serpenti degli alberi, serpenti neri dal ventre rosso, serpenti bruni,
letali serpenti-tigre.
E gli insetti! Cavallette, locuste, grilli, api, mosche di ogni dimensione e di ogni genere, cicale,
moscerini, libellule, falene gigantesche e innumerevoli farfalle. I ragni erano spaventosi, creature
enormi e pelose, con zampe lunghe parecchi centimetri; ragni neri ingannevolmente piccoli,
mortali, che si celavano nel gabinetto; taluni vivevano su vaste ragnatele a forma di ruota tese tra
due alberi, altri si dondolavano all'interno di culle dalla trama sottile, appese tra steli d'erba, altri
ancora si gettavano entro piccoli fori scavati nel terreno, con tanto di coperchio che si chiudevano
dietro.
Esistevano anche i predatori: maiali selvatici spaventati da un nonnulla, ma feroci e divoratori di
carne, creature nere e pelose grosse come vacche adulte; poi i dingo, i cani selvatici australiani, che
camminavano rasente il terreno e si confondevano con l'erba, corvi a centinaia che gracchiavano
desolati sugli scheletri calcinati di alberi morti; falchi e aquile librantisi immobili sulle correnti
aeree.
Da alcuni di questi predoni occorreva proteggere le pecore e le mucche, specie quando figliavano. I
canguri e i conigli selvatici divoravano l'erba preziosa; i maiali selvatici e i dingo uccidevano
agnelli, vitelli e bestie malate; i corvi ne beccavano gli occhi. I Cleary dovettero imparare a sparare,
poi portarono con sé i fucili quando si aggiravano a cavallo, talora per sottrarre ai tormenti una
bestia che soffriva, talora per abbattere un cinghiale o un dingo.
Questa, pensavano i ragazzi, esultanti, era vita. Non uno di loro provava nostalgia per la Nuova
Zelanda; quando le mosche si raggruppavano come sciroppo agli angoli dei loro occhi, penetrando
nella bocca, nel naso e nelle orecchie, ricorrevano all'espediente australiano che avevano imparato,
e appendevano sugheri ciondolanti all'estremità di spaghi tutto attorno alla tesa del cappello. Per
impedire agli insetti di strisciare sotto i calzoni, legavano sotto le ginocchia strisce di pelle di
canguro chiamate bowyang, ridacchiando di quel nome dal suono strambo, ma reverenzialmente
persuasi della necessità della cosa. La Nuova Zelanda sembrava un paese monotono in confronto a
tutto ciò; questo sì che significava vivere.
Legate alla casa e ai suoi dintorni immediati, le donne trovavano quella vita assai meno di loro
gusto, poiché non potevano avere il tempo o il pretesto per cavalcare, né erano stimolate da attività
diverse. Era semplicemente più faticoso, per loro, fare ciò che fanno sempre le donne: cucinare,
pulire, lavare e stirare, badare ai bambini. Dovevano combattere contro la calura, le mosche, la
polvere, i tanti scalini, l'acqua melmosa, la quasi perenne assenza di uomini che spaccassero e
portassero la legna, pompassero l'acqua, sgozzassero i polli. La calura, soprattutto, era penosa a
sopportarsi, e si trovavano appena all'inizio della primavera; ciò nonostante, il termometro, fuori
sulla veranda in ombra, raggiungeva ogni giorno i trentotto gradi. In cucina, con la stufa accesa, si
superavano i quaranta gradi.
I loro molteplici strati di indumenti erano adatti alla Nuova Zelanda ove, in casa, faceva quasi
sempre fresco. Mary Carson, che aveva fatto pian piano un po' di moto venendo a trovare la
cognata, osservò con un'aria arrogante il colletto alto e la gonna di calicò lunga fino al pavimento di
Fee. Quanto a lei, vestiva all'ultima moda: un abito di seta color crema che le arrivava appena ai
polpacci, con maniche ampie fino al gomito, largo in vita e con una scollatura profonda.
«Davvero, Fiona, tu sei irrimediabilmente all'antica» disse, sbirciando intorno a sé il salotto, appena
ridipinto in color crema, i tappeti persiani, e gli esili e inestimabili mobili.
«Non ho il tempo di essere altro» replicò Fee, in un tono che era brusco per lei, nella parte di
padrona di casa.
«Avrai più tempo adesso che gli uomini saranno quasi sempre assenti e dovrai cucinare meno pasti.
Accorciati le gonne e smettila di portare sottane e busti, o, quando verrà l'estate, morirai. Può fare
anche parecchi gradi più caldo di così, sai.» Indugiò con lo sguardo sul ritratto della bellissima
donna bionda, in crinolina all'Imperatrice Eugenia. «Chi è quella?» domandò, additandola.
«Mia nonna.»
«Oh, davvero? E i mobili, i tappeti, di chi sono?»
«Miei, ereditati dalla nonna.»
«Oh, sul serio? Mia cara Fiona, sei discesa in basso nella vita, no?»
Fee non perdeva mai la pazienza, e non la perdette nemmeno adesso, ma le sue labbra sottili
divennero quasi invisibili. «Non credo, Mary. Ho sposato un brav'uomo; tu dovresti saperlo.»
«Ma squattrinato. Come ti chiamavi da ragazza?»
«Armstrong.»
«Oh, davvero? Non gli Armstrong di Roderick Armstrong?»
«È il mio fratello maggiore. Il suo omonimo era il mio bisnonno.»
Mary Carson si alzò, scacciando con l'ampio cappello le mosche irrispettose. «Bene, devo
riconoscere, sebbene mi costi dirlo, che discendi da una stirpe migliore di quella dei Cleary. Amavi
Paddy a tal punto da rinunciare a tutto questo?»
«I motivi di quello che faccio» disse Fee, placida «sono affar mio, Mary, non tuo. Non giudico mio
marito, nemmeno con sua sorella.»
Le due pieghe a ciascun lato del naso di Mary Carson si approfondirono, gli occhi parvero sporgere
lievemente. «Santo Cielo!»
Non tornò più; ma la signora Smith, la sua governante, venne spesso e ripeté il consiglio di Mary
Carson per quanto concerneva il modo di vestire.
«Senta» disse «nella mia stanza c'è una macchina per cucire che non adopero mai. La farò portare
qui da due apprendisti. Se dovesse servirmi, verrò a cucire a casa sua.» Lo sguardo di lei si posò sul
piccolo Hal, che si rotolava allegramente sul pavimento. «Mi piace udire le voci dei bambini,
signora Cleary.»
Ogni sei settimane arrivava da Gillanbone la posta portata da un carro; era questo il loro unico
contatto con il mondo esterno. A Drogheda esistevano un autocarro Ford, un altro autocarro Ford
costruito appositamente, con un serbatoio per l'acqua in luogo del cassone, un'automobile Ford
modello T, e una Rolls-Royce, ma sembrava che nessuno se ne servisse mai per andare a Gilly,
tranne, e soltanto di rado, Mary Carson. Sessantaquattro chilometri erano come la lontananza dalla
luna.
L'appalto per la distribuzione della corrispondenza nel distretto lo aveva Bluey Williams, e
impiegava sei settimane per percorrere l'intero territorio. Il suo carro piatto, con ruote del diametro
di tre metri, era trainato da un magnifico equipaggio di dodici cavalli da tiro, e carico di tutto ciò
che ordinavano gli allevamenti periferici. Oltre alla corrispondenza, portava viveri, benzina in fusti
da duecento litri, petrolio in bidoni quadrati da venticinque litri, fieno, sacchi di granturco, sacchi di
zucchero e farina, casse di tè, sacchi di patate, macchine agricole, giocattoli ordinati per
corrispondenza e vestiti della Anthony Horden a Sydney, oltre a qualsiasi altra cosa che dovesse
essere trasportata da Gilly o dall'«esterno». Si spostava all'eccellente media di trentadue chilometri
al giorno, veniva accolto festosamente ovunque sostasse, assediato con richieste di notizie e delle
condizioni meteorologiche in località lontane, e gli si consegnavano pezzetti di carta scribacchiati,
accuratamente avvolti intorno ai soldi, con gli elenchi delle mercanzie che doveva acquistare a
Gilly, nonché le lettere, laboriosamente scritte, da mettere nei sacchi di juta con l'indicazione
«Regio Servizio Postale».
A ovest di Gilly si trovavano due soli insediamenti lungo la strada, Drogheda il più vicino, e Bugela
il più lontano; al di là di Bugela si stendeva il territorio nel quale la posta giungeva soltanto una
volta ogni sei mesi. Il carro di Bluey percorreva un lungo arco zigzagante, passando per tutti gli
insediamenti a sud-ovest, a ovest e a nord-ovest, poi tornava a Gilly prima di partire verso est, un
viaggio più breve, perché il villaggio di Booroo distava appena novantasei chilometri. A volte,
portava persone accanto a sé sul sedile di cuoio, visitatori, o uomini speranzosi in cerca di lavoro; a
volte conduceva via altre persone, visitatori, o guardiani scontenti, o cameriere, o apprendisti; molto
di rado una governante. Gli allevatori avevano i loro mezzi di trasporto, ma chi lavorava per gli
allevatori dipendeva da Bluey per viaggiare, oltre che per le mercanzie e le lettere.
Quando le pezze di tessuto ordinate da Fee furono arrivate, sedette alla macchina per cucire e
cominciò a confezionare vestiti ampi, di cotone leggero, per sé e per Meggie, pantaloni leggeri e
tute per gli uomini, grembiulini per Hal, tende da mettere alle finestre. Senza dubbio, si stava più
freschi con meno strati di biancheria addosso e vestiti non attillati.
L'esistenza era solitaria per Meggie, adesso che, di tutti i ragazzi, soltanto Stuart rimaneva in casa.
Jack e Hughie accompagnavano il padre, imparando a fare i guardiani di bestiame, a essere
«jackaroos», come venivano chiamati gli apprendisti. Stuart non le teneva compagnia come
avevano fatto un tempo Jack e Hughie. Viveva in un mondo tutto suo, era un bimbetto silenzioso
che preferiva starsene seduto per ore a osservare il comportamento di uno stuolo di quelle formiche
che si arrampicano sugli alberi mentre Meggie adorava arrampicarsi lei, sugli alberi, e riteneva che
gli eucalipti fossero meravigliosi, infinitamente vari e tali da opporre infinite difficoltà. Non che vi
fosse molto tempo per arrampicarsi sugli alberi o per osservare le formiche, d'altro canto. Meggie e
Stuart lavoravano sodo. Spaccavano e portavano la legna, scavavano buche per le immondizie,
coltivavano l'orto e si occupavano delle galline e dei maiali. Impararono inoltre a uccidere serpenti
e ragni, sebbene continuassero ad averne paura.
Le piogge erano state mediocremente buone per parecchi anni, il livello del torrente si manteneva
basso, ma i serbatoi dell'acqua contenevano la metà della loro capacità. L'erba era ancora
abbastanza alta e verde, ma, a quanto pareva, non certo come nei periodi migliori.
«Probabilmente la situazione peggiorerà» osservò Mary Carson, torva.
Ma dovevano sperimentare una piena, prima di attraversare un periodo di vera e propria siccità. A
metà gennaio, sulla regione passava il margine meridionale dei monsoni di nord-ovest. Insidiosi
all'estremo, i grandi venti soffiavano capricciosamente, a piacer loro. Talora, soltanto gli estremi
lembi settentrionali del continente ricevevano le loro copiose piogge estive; talora i monsoni si
spingevano sino al profondo interno e portavano agli infelici cittadini di Sydney un'estate piovosa.
In quel mese di gennaio, le nubi invasero il cielo tempestose e scure, lacerate, ridotte a brandelli dal
vento, e cominciò a piovere; non una pioggia dolce, ma un costante e scrosciante diluvio, che
continuò e continuò.
Erano stati posti sull'avviso: Bluey Williams giunse con un alto carico sul carro e dodici cavalli di
ricambio dietro di sé, poiché intendeva viaggiare in fretta per completare il giro prima che le piogge
rendessero impossibili ulteriori rifornimenti.
«I monsoni stanno arrivando» disse, arrotolandosi una sigaretta e indicando, con la frusta, cataste di
provviste in più. «Il Cooper e il Barcoo e il Diamantina stanno rasentando gli argini e l'Overflow sta
traboccando. Tutto l'interno del Queensland è sott'acqua per sessanta centimetri e quei poveracci
cercano i punti più elevati del terreno per condurvi le pecore.»
Improvvisamente dilagò un panico controllato; Paddy e i ragazzi lavorarono come matti, portando
via le pecore dai recinti più bassi e lontano il più possibile dal torrente e dal Barwon. Padre Ralph
arrivò, sellò il suo cavallo e partì con Frank e con la miglior muta di cani per due recinti non ancora
sgombrati lungo il Barwon, mentre Paddy e i due guardiani conducevano un ragazzo per ciascuno in
altre direzioni.
Padre Ralph era un eccellente guardiano di bestiame. Cavalcava una giumenta purosangue saura
donatagli da Mary Carson, indossando calzoni al ginocchio dal taglio impeccabile, lucenti stivali
marrone, e una immacolata camicia bianca con le maniche rimboccate sulle braccia muscolose e il
colletto aperto che scopriva il torace liscio e abbronzato. Con un paio di vecchi calzoni che
facevano le borse, legati sotto le ginocchia dai bowyang, e una canottiera di flanella grigia, Frank si
sentiva il parente povero. Come del resto era, pensò, seguendo la figura eretta sull'elegante
giumenta, attraverso un boschetto di bossi e di pini al di là del torrente. Quanto a lui, cavalcava un
pomellato cocciuto, un animale bizzoso, con una volontà sua e un odio feroce per gli altri cavalli. I
cani guaivano e saltellavano eccitati, ringhiando e azzuffandosi, finché Padre Ralph non li separò
con una sferzata della frusta da bestiame, manovrata con tremenda energia. Sembrava non esistesse
niente che quell'uomo non sapesse fare; conosceva bene i fischi variamente modulati per far
lavorare i cani, e si serviva della frusta assai meglio di quanto riuscisse a fare Frank, il quale stava
ancora cercando di imparare quell'arte esotica.
Il grosso cane «blu del Queensland» che guidava la muta era affezionato al prete come uno schiavo
e lo ubbidiva senza esitazione, facendo sì che Frank passasse definitivamente in secondo piano. In
parte, Frank non se ne curava; lui solo, dei figli di Paddy, non si era appassionato alla vita a
Drogheda. Aveva desiderato ardentemente andarsene dalla Nuova Zelanda, ma non per passare a
questo. Odiava l'incessante pattugliamento dei recinti, la dura terra sulla quale doveva dormire quasi
ogni notte, i cani stessi, che non potevano essere trattati come animali domestici e venivano uccisi a
fucilate se non facevano il loro dovere.
Ma quella cavalcata sotto le nubi sempre più fitte aveva un aspetto avventuroso; persino gli alberi
che si piegavano e crepitavano sembravano danzare in preda a una felicità bizzarra. Padre Ralph
lavorava come un uomo preso nella morsa di qualche ossessione, lanciando i cani contro gruppi di
pecore che non sospettavano di nulla, facendo sì che le stupide e lanose creature spiccassero balzi
belando di paura, finché le basse sagome che filavano tra l'erba non formavano un gregge compatto
in corsa. Soltanto i cani consentivano a una manciata di uomini di mandare avanti una proprietà
delle dimensioni di Drogheda; addestrati a lavorare con le pecore e il bestiame, avevano
un'intelligenza stupefacente e richiedevano ben pochi interventi da parte dell'uomo.
Al cader della notte, Padre Ralph e i cani, con Frank che cercava di fare del suo meglio dietro di
loro, avevano sgombrato tutte le pecore da un recinto, un lavoro che di norma richiedeva parecchi
giorni. Il sacerdote dissellò la giumenta accanto a un gruppo d'alberi nei pressi del cancello del
secondo recinto e disse ottimisticamente che riteneva di poter sgombrare anche quello prima
dell'inizio delle piogge. I cani erano distesi sull'erba, le lingue penzolanti, mentre il grosso blu del
Queensland faceva le feste a Padre Ralph strisciando servile ai suoi piedi. Frank tolse ripugnante
carne di canguro dalla bisaccia da sella e la gettò ai cani che si lanciarono su di essa e se la
contesero facendo scattare le mascelle e azzannandosi gelosamente a vicenda.
«Maledetti bruti» disse. «Non si comportano come cani, sono soltanto sciacalli.»
«Credo che queste bestie siano molto più vicine a ciò che Dio voleva fossero i cani» osservò Padre
Ralph, blando. «Sveglie, intelligenti, aggressive e quasi non domate. Per quanto mi concerne, li
preferisco alle razze da salotto.» Sorrise. «E così è anche per i gatti. Non li hai notati intorno ai
ripostigli? Selvaggi e perfidi come pantere; non si lasciano avvicinare da alcun essere umano. Ma
cacciano mirabilmente e non riconoscono padroni.»
Tolse dalla sua bisaccia un pezzo di carne di montone fredda e un pacco contenente pane e burro;
tagliò una fetta di montone e porse il resto a Frank. Poi, posto il pane e il burro su un tronco che si
trovava tra loro due, affondò i denti bianchi nella carne con evidente piacere. La loro sete venne
placata grazie al prezioso contenuto di una borraccia di tela, quindi i due compagni arrotolarono le
sigarette.
Lì accanto, si trovava un albero solitario; Padre Ralph lo indicò con la sigaretta.
«Quello è il posto in cui dormire» disse, slegando la coperta e prendendo la sella.
Frank lo seguì fino all'albero, un wilga, la pianta più bella in quella parte dell'Australia. Il fogliame
era fitto e di un pallido verde-limone, la forma quasi perfettamente arrotondata. Le foglie
crescevano tanto vicine al terreno che le pecore potevano raggiungerle facilmente, con il risultato
che ogni wilga era potato geometricamente fino a una certa altezza come una siepe ornamentale. Se
avesse cominciato a piovere, sarebbero stati riparati più che da ogni altro albero, in quanto gli alberi
australiani hanno generalmente un fogliame più rado di quelli dei paesi più piovosi.
«Tu non sei felice, Frank, vero?» domandò Padre Ralph, stendendosi con un sospiro e arrotolando
un'altra sigaretta.
Da dove si trovava, una sessantina di centimetri più in là, Frank si voltò a guardarlo sospettoso.
«Chi è felice?»
«Per il momento, tuo padre e i tuoi fratelli. Ma tu no, e nemmeno tua madre e tua sorella. Non ti
piace l'Australia?»
«Non questa regione dell'Australia. Voglio andare a Sydney. Laggiù potrei avere il modo di fare
qualcosa.»
«A Sydney, eh? È un covo di iniquità.» Padre Ralph stava sorridendo.
«Non me ne importa! Qui sono bloccato, né più né meno come nella Nuova Zelanda, non posso
allontanarmi da lui.»
«Da lui?»
Ma Frank non aveva avuto l'intenzione di dirlo, e non volle aggiungere altro. Disteso supino,
contemplò le foglie.
«Quanti anni hai, Frank?»
«Ventidue.»
«Oh, sì! Ti sei mai allontanato dai tuoi?»
«No.»
«Sei mai stato a un ballo? Hai mai avuto un'amichetta?»
«No.» Frank si ostinava a non riconoscergli il titolo che gli spettava.
«Allora, non ti tratterrà ancora a lungo.»
«Mi tratterrà finché non sarò crepato.»
Padre Ralph sbadigliò e si accinse a dormire. «Buonanotte» disse.
La mattina dopo, le nubi erano più basse, ma non piovve ancora per tutto il giorno e sgombrarono
anche il secondo recinto. Una lieve altura attraversava Drogheda da nord-est a sud-ovest; lì
concentrarono le pecore, in recinti ove avrebbero potuto trovare terreno più elevato, se l'acqua fosse
salita al di sopra delle scarpate del torrente e del Barwon.
La pioggia cominciò a cadere quasi mentre faceva notte, e Frank e il sacerdote si affrettarono, a un
rapido trotto, verso il guado del torrente sotto la casa del capo-guardiano.
«Non stiamo a preoccuparci se li faremo scoppiare, adesso!» urlò Padre Ralph. «Affondagli i tacchi
nella pancia, ragazzo, o affogherai nel fango!»
In pochi secondi, furono zuppi, come il terreno cotto dal sole. Il suolo fine e non poroso divenne un
mare di fango che faceva affondare i cavalli fino ai garretti e rendeva difficoltoso il cammino.
Finché si trovarono sull'erba, riuscirono a proseguire, ma nei pressi del torrente, ove il terreno era
stato calpestato fino a renderlo nudo, dovettero smontare. Una volta liberati dal loro peso, i cavalli
non incontrarono più difficoltà, ma Frank trovò impossibile mantenere l'equilibrio. Era peggio di
una pista di pattinaggio. Sulle mani e sulle ginocchia, strisciarono fino alla sommità dell'argine del
torrente, poi scivolarono giù come proiettili. Il guado sassoso, coperto di norma da una trentina di
centimetri d'acqua pigra, si trovava adesso sotto un metro e venti di vortici spumeggianti; Frank udì
il prete ridere. Spronati da grida e da colpi sferrati con i cappelli zuppi, i cavalli riuscirono ad
arrampicarsi su per l'argine opposto senza incidenti, ma Frank e Padre Ralph non ci riuscirono.
Ogni volta che ci provavano, scivolavano indietro di nuovo. Il sacerdote aveva appena proposto di
arrampicarsi su un salice, quando Paddy, allarmato dall'arrivo dei cavalli, venne con una corda e li
tirò su.
Sorridendo e scuotendo la testa, Padre Ralph rifiutò l'ospitalità offertagli da Paddy.
«Sono atteso nella grande casa» disse.
Mary Carson lo udì gridare prima di tutta la servitù, poiché aveva deciso di portarsi davanti alla
dimora, ritenendo che gli sarebbe stato più facile arrivare in camera sua.
«Non vorrà entrare conciato in quel modo» gli disse, stando in piedi sulla veranda.
«Allora sia buona, mi dia molti asciugamani e la mia valigia.»
Per nulla imbarazzata, stette a guardarlo mentre si toglieva la camicia, gli stivali e i calzoni,
appoggiandosi alla finestra sollevata soltanto a mezzo del salotto, e osservandolo quando eliminò
con gli asciugamani la maggior parte del fango.
«Lei è il più bell'uomo che abbia mai veduto, Ralph de Bricassart» gli disse. «Perché sono così
numerosi i sacerdoti belli? Si tratta della loro origine irlandese? Sono un popolo magnifico, gli
irlandesi. O forse i begli uomini trovano che il sacerdozio è un rifugio dalle conseguenze del loro
aspetto? Scommetto che le ragazze di Gilly si mangiano il cuore per lei.»
«Ho imparato da un pezzo a non badare alle ragazze malate d'amore.» Rise. «Ogni prete sotto i
cinquanta diviene il bersaglio di qualcuna di loro, e un prete sotto i trentacinque è di solito il
bersaglio di tutte. Ma sono soltanto le ragazze protestanti a tentare apertamente di sedurmi.»
«Lei non dà mai una risposta diretta alle mie domande, eh?» Raddrizzandosi, Mary Carson gli mise
il palmo sul petto e ve lo tenne. «È un sibarita, Ralph, si distende al sole. È abbronzato
dappertutto?»
Sorridendo, sporse la testa in avanti, poi le rise tra i capelli mentre con le dita sbottonava le mutande
di cotone; quando furono scivolate sul pavimento, le scostò con un calcio e rimase ritto, simile a
una statua di Prassitele, mentre lei gli girava attorno concedendosi tutto il tempo di contemplarlo.
Gli ultimi due giorni lo avevano inebriato, e così ora lo inebriò l'improvvisa consapevolezza che lei
fosse più vulnerabile di quanto l'avesse immaginata; ma la conosceva e si sentì del tutto al sicuro
domandando: «Vuole che faccia all'amore con lei, Mary?»
Mary Carson gli adocchiò il pene flaccido e scoppiò a ridere. «Non mi sognerei mai di imporle un
simile disturbo! Ha bisogno di donne, Ralph?»
Lui gettò la testa all'indietro, sprezzante. «No!»
«Di uomini?»
«Sono peggiori delle donne. No, non ho bisogno di loro.»
«E di lei stesso?»
«Meno che di ogni altro.»
«Interessante.» Sollevando del tutto la finestra, la scavalcò ed entrò nel salotto. «Ralph, Cardinale
de Bricassart!» si burlò di lui. Ma, una volta lontana dai suoi occhi perspicaci, tornò ad
abbandonarsi sulla poltrona a conchiglia e strinse i pugni, il gesto che protesta contro le assurdità
del fato.
Nudo, Padre Ralph discese dalla veranda e rimase in piedi sul prato rasato, le braccia sollevate
sopra la testa, gli occhi chiusi; lasciò che la pioggia lo investisse con tiepidi rivoletti che sondavano
e trafiggevano, una sensazione squisita sulla nuda pelle. L'oscurità era molto fitta. Ma continuò a
essere flaccido.
Il torrente superò gli argini e l'acqua salì ancor di più su per i pali di sostegno della casa di Paddy,
spingendosi nello Home Paddock verso la grande dimora.
«Si abbasserà domani» disse Mary Carson, quando Paddy andò a riferirglielo, preoccupato.
Come sempre, ebbe ragione; nel corso della settimana successiva l'acqua defluì e rientrò nel suo
corso naturale. Il sole riapparve, la temperatura salì bruscamente a quarantasei gradi all'ombra e
l'erba parve mettere le ali e puntare verso il cielo, alta fino alle cosce e lavata, schiarita e vivida,
tanto da ferire gli occhi. Lavati anch'essi e liberati dalla polvere, gli alberi splendevano, e le orde
dei pappagalli tornarono da chissà dove a far balenare i loro corpi arcobalenati tra le fronde, loquaci
come non mai.
Padre Ralph era tornato ad assistere i suoi parrocchiani trascurati, sereno nella certezza che non
sarebbe stato punito con bacchettate sulle nocche; sotto l'immacolata camicia bianca, contro il
cuore, aveva un assegno di mille sterline. Il Vescovo sarebbe andato in estasi.
Le pecore vennero riportare nei loro pascoli normali e i Cleary furono costretti ad acquisire
l'abitudine dell'interno, l'abitudine della siesta. Si alzavano alle cinque, sbrigavano ogni cosa prima
di mezzogiorno, poi crollavano, guizzanti e sudati, fino alle cinque del pomeriggio. Così era sia per
le donne in casa, sia per gli uomini nei recinti. I lavori che non avevano potuto essere sbrigati prima
venivano affrontati dopo le cinque. Il pasto serale lo consumavano una volta tramontato il sole,
seduti all'aperto intorno a un tavolo sulla veranda. Anche tutti i letti erano stati portati fuori, perché
la calura continuava durante la notte. Sembrava che, per settimane, il termometro non fosse mai
disceso sotto i quaranta, giorno e notte. La carne di manzo era una reminiscenza quasi dimenticata;
si nutrivano soltanto con carne di pecora, di pecore abbastanza piccole per non marcire prima di
essere state consumate completamente. I loro palati anelavano a un cambiamento rispetto all'eterna
dieta a base di montone arrosto, stufato di montone, «pasticcio del pastore», fatto di montone tritato,
montone all'indiana, coscia di montone arrosto, montone lesso con sottaceti, montone in casseruola.
Ma ai primi di febbraio, la vita cambiò bruscamente per Meggie e per Stuart. Vennero mandati
come convittori nel convento di Gillanbone, poiché non esisteva una scuola più vicina. Hal, una
volta grandicello, disse Paddy, avrebbe potuto studiare con i corsi per corrispondenza della
Blackfriars School di Sydney, ma nel frattempo poiché Meggie e Stuart erano abituati alle maestre,
Mary Carson si era generosamente offerta di pagare loro la retta nel convento della Santa Croce. E
inoltre, Fee aveva troppo da fare con Hal e non poteva oltretutto sorvegliare le lezioni per
corrispondenza. Fin dall'inizio, si era tacitamente inteso che Jack e Hughie non avrebbero
continuato gli studi; Drogheda aveva bisogno di loro sulla terra, e la terra era quello che entrambi
volevano.
Meggie e Stuart trovarono strana e serena l'esistenza al Santa Croce dopo la vita a Drogheda, ma
soprattutto dopo il Sacro Cuore a Vahiné. Padre Ralph aveva sottilmente lasciato capire alle suore
che i due bambini erano suoi protetti e la loro zia la donna più ricca del Nuovo Galles del Sud. Così,
la timidezza di Meggie da vizio divenne virtù, e la strana astrazione di Stuart, quella sua abitudine
di fissare per ore lontananze sconfinate, gli meritò l'epiteto di «santarellino».
Era un'esistenza davvero molto serena, poiché la scuola ospitava pochissimi convittori; le famiglie
del distretto abbastanza ricche per mandare la loro progenie in collegio preferivano Sydney. Il
convento sapeva di cera per pavimenti e di fiori e i suoi scuri corridoi dagli alti soffitti sembravano
inondati dal silenzio e da una tangibile santità. Le voci erano soffocate, la vita si svolgeva dietro un
sottile velo nero. Nessuno li puniva a bacchettate, nessuno alzava la voce, e c'era sempre Padre
Ralph.
Veniva a trovarli spesso e li ospitava alla canonica con tanta regolarità che decise di far pitturare la
camera da letto di Meggie in un verde-mela delicato e di acquistare tende nuove per le finestre e una
coperta nuova per il letto. Stuart continuava a dormire in una stanza che, rinfrescata già due volte,
era stata dapprima color crema e poi marrone; a Padre Ralph non passava per la mente di
domandarsi se Stuart fosse felice. Il fatto che anch'egli dovesse essere invitato per non offenderlo
era stato un ripensamento.
Perché, poi, provasse una così grande tenerezza per Meggie, Padre Ralph non lo sapeva, né, del
resto, impiegava molto tempo per domandarselo. Tutto era cominciato con la compassione, quel
giorno nella piazza polverosa della stazione, quando aveva notato come rimanesse indietro; lasciata
in disparte dal resto della famiglia a causa del suo sesso, era stata la sagace supposizione del
sacerdote. Quanto alla ragione per cui anche Frank rimaneva su un perimetro esterno, questo non lo
aveva interessato minimamente né si era sentito indotto a compatire Frank. Esisteva un qualcosa,
nel giovane, che uccideva sentimenti teneri: un cuore tenebroso, uno spirito privo di luce interiore.
Ma Meggie? Lo aveva commosso in modo quasi intollerabile, e davvero non sapeva perché. C'era il
colore dei suoi capelli, che gli piaceva; il colore e il taglio degli occhi, simili a quelli della madre e
perciò belli, ma di gran lunga più dolci, di gran lunga più espressivi; e la sua indole, che
considerava la perfetta indole femminile, passiva eppure enormemente forte. Non era una ribelle,
Meggie; all'opposto. Per tutta la vita avrebbe ubbidito, muovendosi entro i limiti della sua sorte
femminile.
Eppure, nulla di tutto ciò bastava a formare il totale. Forse, se avesse guardato più profondamente in
se stesso, si sarebbe potuto rendere conto che quanto provava per lei era il risultato curioso del
momento, del luogo e della persona. Nessuno pensava a lei come a una creatura importante, e
questo significava che esisteva uno spazio, nella sua vita, in cui gli sarebbe stato possibile entrare ed
essere certo del suo affetto; era una bambina, e di conseguenza non costituiva un pericolo per il suo
sistema di vita o per la sua reputazione sacerdotale; era bella, e gli piaceva la bellezza; e, verità
riconosciuta meno di ogni altra, colmava uno spazio vuoto nella sua vita che Dio non poteva
colmare, perché possedeva calore e concretezza umana. Siccome non poteva mettere in imbarazzo
la famiglia facendole regali, le offriva tutta la compagnia che gli era possibile, e impiegava tempo e
riflessioni arredandone a nuovo la stanza alla canonica, non tanto per godere della contentezza di
lei, quanto per creare un ambiente adatto al suo gioiello. Il similoro non si confaceva a Meggie.
Ai primi di maggio arrivarono a Drogheda i tosatori. Mary Carson era al corrente di tutto ciò che si
faceva a Drogheda, dalle località in cui si trovavano le greggi allo schiocco di una frusta; alcuni
giorni prima dell'arrivo dei tosatori, fece venire Paddy alla grande dimora e, senza muoversi dalla
poltrona a conchiglia, gli disse per filo e per segno che cosa doveva fare, fino all'ultimo particolare.
Abituato alle tosature della Nuova Zelanda, Paddy era rimasto trasecolato vedendo il capannone con
i ventisei corridoi; ora, dopo il colloquio con la sorella, fatti e cifre battagliarono nella sua mente.
Non avrebbero tosato lì soltanto le pecore di Drogheda, ma anche quelle di Bugela, e di Dibban-
Dibban, e di Beel-Beel. Questo significava una quantità di lavoro enorme per ogni anima che
vivesse sul posto, maschi e femmine. La tosatura in comune era la costumanza, e gli allevamenti
che approfittavano degli impianti di Drogheda avrebbero logicamente fatto il possibile per dare una
mano; ma il grosso del conseguente lavoro sarebbe inevitabilmente caduto sulle spalle di quelli di
Drogheda.
I tosatori avrebbero portato con sé un loro cuciniere, acquistando i viveri nel magazzino
dell'allevamento, ma quei grossi quantitativi di viveri dovevano essere reperiti; gli sgangherati
alloggi, con cucina e primitivo bagno annessi, dovevano essere sfregati, ripuliti e dotati di materassi
e coperte. Non tutti gli allevamenti erano generosi quanto Drogheda con i suoi tosatori, ma
Drogheda si vantava della propria ospitalità e della propria reputazione, quella di «un impianto
maledettamente buono». La tosatura era infatti la sola attività alla quale Mary Carson partecipasse,
e non stringeva i cordoni della borsa. Il suo era uno dei più grandi capannoni per la tosatura del
Nuovo Galles del Sud, e lei richiedeva i migliori specialisti di cui si potesse disporre, uomini del
calibro di Jackie Howe; più di trecentomila pecore venivano tosate prima che i tosatori caricassero i
loro fagotti sul vecchio autocarro Ford dell'imprenditore e scomparissero lungo la pista, diretti al
successivo allevamento.
Frank non aveva fatto ritorno a casa per due settimane. Lui e il vecchio Pete «Barile-di-birra», il
guardiano, con una muta di cani, due cavalli addestrati per il lavoro con le greggi e un carro
leggero, attaccato a un recalcitrante ronzino, per trasportare il poco che occorreva alle loro modeste
necessità, si erano diretti verso i più lontani recinti a ovest, dai quali dovevano riportare le pecore,
avvicinandole sempre più, selezionandole e vagliandole. Era una fatica lenta e tediosa, non certo
paragonabile al lavoro frenetico svolto prima delle piene. In ogni recinto si trovavano recinti più
piccoli, nei quali si procedeva a parte della selezione e della marchiatura, mentre il grosso del
gregge aspettava che giungesse il suo turno. I recinti del capannone della tosatura potevano
contenere soltanto diecimila pecore alla volta, e, di conseguenza, la vita non sarebbe stata comoda
finché i tosatori fossero rimasti lì; vi sarebbe stato un incessante alternarsi di greggi, le pecore da
tosare al posto di quelle tosate.
Quando Frank entrò in cucina, sua madre si trovava in piedi accanto all'acquaio, intenta a una fatica
che non aveva mai termine: sbucciare patate.
«Ma', sono tornato!» disse, con l'esultanza nella voce.
Mentre lei si voltava d'impeto, il ventre apparve, e le due settimane di lontananza resero ancor più
percettibile la differenza.
«Oh, Dio» disse Frank.
Dagli occhi di Fiona il piacere di rivederlo si dileguò, la faccia le divenne scarlatta di vergogna;
mise le mani aperte sul grembiule rigonfio, come se avessero potuto nascondere ciò che le vesti non
potevano celare.
Frank stava tremando. «Il sudicio vecchio caprone!»
«Frank, non posso permetterti di dire cose simili. Sei un uomo, ormai, dovresti capire. Non è
diverso da come venisti al mondo tu stesso, e merita lo stesso rispetto. Non è una cosa sudicia.
Quando offendi Pa', offendi me.»
«Non ne aveva il diritto! Avrebbe dovuto lasciarti in pace!» sibilò Frank, asciugandosi un po' di
bava dall'angolo della bocca tremante.
«Non è una cosa sudicia» ripeté, stancamente, e lo fissò con gli occhi limpidi e stanchi, come se a
un tratto avesse deciso di lasciarsi la vergogna per sempre alle spalle. «Non è sudicia, Frank, né lo è
l'atto che l'ha creata.»
Questa volta fu lui ad arrossire. Non riuscì a sostenere ancora lo sguardo, e pertanto girò sui tacchi
ed entrò nella stanza ove dormiva con Bob, Jack e Hughie. Le pareti nude e i piccoli letti singoli lo
schernirono, si beffarono di lui; l'aspetto sterile e impersonale di quella stanza, la mancanza di una
presenza che la rendesse calda, di uno scopo che la santificasse. E il viso di sua madre, il bel viso
stanco, con il lindo alone di capelli d'oro, quel viso tutto illuminato a causa di ciò che lei e il
vecchio caprone peloso avevano fatto nella calura terribile dell'estate.
Non riusciva a dimenticarlo, non riusciva a liberarsi di lei, dei pensieri nel profondo della sua
mente, delle brame naturali alla sua età, inevitabili nella virilità. Quasi sempre riusciva a respingere
tutto ciò nell'inconscio, ma quando lei gli esibiva sotto gli occhi la prova tangibile della propria
lussuria, quando gli gettava in faccia le sue attività misteriose con il vecchio bestione lussurioso...
Come poteva pensarci, come poteva consentirlo, come poteva sopportarlo? Avrebbe voluto poter
pensare a lei come a una creatura totalmente santa, pura e incontaminata, simile alla Beata Vergine,
una creatura al di sopra di quelle cose, sebbene tutte le sue sorelle in tutto il mondo ne fossero
colpevoli. Vederla dimostrare la falsità dell'idea che si faceva di lei era la strada della pazzia. Era
divenuto indispensabile, per il suo equilibrio mentale, immaginare che si coricasse con il laido
vecchio in perfetta castità, soltanto per dormire, e che, nel corso della notte, non si voltassero mai
l'una verso l'altro, né si toccassero. Oh, Dio!
Uno stridore metallico lo indusse ad abbassare gli occhi, e constatò che aveva contorto la barra
d'ottone ai piedi del letto formando una S.
«Perché non sei tu Pa'?» domandò al letto.
«Frank» disse sua madre, dalla soglia.
La guardò, gli occhi neri lucenti e bagnati come carbone sul quale sia piovuto. «Finirò per
ammazzarlo» disse.
«Se farai questo, ucciderai me» disse Fiona, venendo a sedersi sulla sponda del letto.
«No, ti libererei» ribatté lui, selvaggiamente, in un tono di speranza.
«Frank, non potrò mai essere libera, e non voglio esserlo. Vorrei sapere da dove viene la tua cecità,
ma lo ignoro. Non da me, né da tuo padre. So che non sei felice, ma devi prendertela, per questo,
con me, o con Pa'? Perché ti ostini a rendere tutto così difficile? Perché?» Abbassò gli occhi sulle
proprie mani, poi li alzò su di lui. «Non vorrei dirtelo, ma credo che sia necessario. È tempo che tu
ti trovi una ragazza, Frank, che la sposi e ti formi una famiglia tua. C'è posto, a Drogheda. Non mi
sono mai crucciata per gli altri ragazzi, sotto questo aspetto; sembra che non abbiano affatto il tuo
carattere. Ma tu hai bisogno di una moglie, Frank. Se avessi una compagna, non troveresti il tempo
di pensare a me.»
Le aveva voltato le spalle, e non volle girarsi. Per forse cinque minuti Fiona rimase seduta sul letto,
sperando che Frank dicesse qualcosa, poi sospirò, si alzò e uscì.
5

Quando i tosatori se ne furono andati e il distretto tornò alla quasi-inerzia dell'inverno vennero la
mostra annua e le Corse del Picnic a Gillanbone. Si trattava dell'avvenimento più importante del
calendario mondano, e continuava per due giorni. Fee non si sentiva abbastanza bene per andare, e
così Paddy portò Mary Carson nella cittadina con la Rolls-Royce, senza sua moglie che lo
appoggiasse o che tenesse a freno la lingua di Mary. Egli aveva notato che, per qualche ragione
misteriosa, la sola presenza di Fee tacitava sua sorella, la metteva in una posizione di svantaggio.
Anche tutti gli altri andavano a Gillanbone. Minacciati di morte se non si fossero comportati bene, i
ragazzi partirono con Pete «Barile-di-birra», con Jim, Tom, la signora Smith e le cameriere
sull'autocarro, ma Frank li precedette per conto suo con la Ford modello T. Gli adulti della comitiva
si sarebbero trattenuti tutti per le corse del secondo giorno; Mary Carson aveva le sue ragioni per
non accettare l'invito di Padre Ralph alla canonica, ma insistette affinché vi andassero Paddy e
Frank. Nessuno sapeva dove alloggiassero i due guardiani e Tom, l'apprendista giardiniere, ma la
signora Smith, Minnie e Cat avevano a Gilly amiche che le ospitavano.
Erano le dieci del mattino quando Paddy lasciò la sorella nella più bella camera dell'Hotel Imperial;
poi discese nel bar e trovò Frank al banco, in piedi, con un boccale di birra in mano.
«Lascia che te ne offra io un'altra, vecchio mio» disse Paddy, cordiale, al figlio. «Devo
accompagnare zia Mary al pranzo delle Corse del Picnic, e mi occorrerà un sostegno morale se
vorrò sopravvivere al cimento senza la mamma.»
L'educazione e il timore reverenziale sono più difficili a sormontarsi di quanto non si creda finché
non tentano effettivamente di aggirare un comportamento di anni; Frank si accorse di non poter fare
ciò cui anelava, si accorse di non poter lanciare il contenuto del boccale in faccia al padre, alla
presenza della gente che affollava il bar. Per conseguenza, trangugiò d'un fiato quel che restava
della birra, sorrise appena e disse: «Mi spiace, Pa', ma ho promesso di trovarmi con certi miei amici
alla mostra.»
«Ah, be', va', allora. Ma aspetta, prendi queste e spendile per divertirti. Spassatela, e, se dovessi
sbronzarti, fa' in modo che tua madre non venga a saperlo.»
Frank fissò la banconota nuova da cinque sterline che gli era stata messa in mano, desiderando farla
a pezzetti e scagliarli sulla faccia di Paddy, ma di nuovo l'educazione prevalse; piegò il biglietto di
banca, lo infilò nel taschino e ringraziò suo padre. Non riuscì a uscire dal bar abbastanza in fretta.
Con il suo migliore vestito blu, il panciotto abbottonato, l'orologio d'oro trattenuto saldamente da
una catena anch'essa d'oro e da un ciondolo costituito da una pepita proveniente dalle miniere
aurifere di Lawrence, Paddy raddrizzò il colletto di celluloide e guardò lungo il banco in cerca di
una faccia conosciuta. Non si era fatto vedere molto spesso a Gilly nei nove mesi trascorsi dopo
l'arrivo a Drogheda, ma la sua posizione di fratello di Mary Carson e, a quel che pareva, di suo
erede gli aveva assicurato accoglienze molto ospitali a ogni sua puntata nella cittadina, ove tutti lo
conoscevano bene. Parecchi uomini gli sorrisero, alcuni gli offrirono una birra e ben presto venne a
trovarsi al centro di un simpatico gruppo di persone; dimenticò Frank.
Meggie, in quel periodo, aveva le trecce, in quanto nessuna delle suore era disposta (nonostante il
denaro di Mary Carson) a farle i boccoli, e le trecce le scendevano sulle spalle come due grosse
corde, legate da nastri blu-mare. Con la sobria uniforme blu-mare delle studentesse del Santa Croce,
venne accompagnata da una suora attraverso il prato che separava il collegio dalla canonica e
consegnata alla governante di Padre Ralph, che l'adorava.
«Oh, è a causa del colore dei suoi bei capelli,» era stata la spiegazione, una volta che il sacerdote
l'aveva interrogata, divertito; Annie non aveva molta simpatia per le bambine e si era lagnata a
causa della vicinanza del collegio alla canonica.
«Suvvia, Annie! I capelli sono inanimati; non si può voler bene a una persona soltanto per il colore
dei capelli» aveva detto lui per prenderla in giro.
«Oh, be', ma è anche una povera creaturina gracile... strinzita, lei mi capisce.»
Non capiva affatto, ma si era ben guardato dal domandarle che cosa significasse «strinzita». A volte
sembrava preferibile ignorare quel che Annie intendeva, o evitare di incoraggiarla prestando molta
attenzione alle sue parole; la sua parlata scozzese aveva un che di luttuoso, e, se compassionava la
bambina, Padre Ralph non voleva sentirsi dire che era a causa del suo avvenire, e non del passato.
Frank arrivò, ancora tremante a causa dell'incontro con il padre nel bar, e senza sapere come
ingannare il tempo.
«Vieni con me, Meggie, ti porto alla fiera» disse, tendendo la mano.
«E se vi accompagnassi io entrambi?» propose Padre Ralph, tendendo la sua.
Stretta tra i due uomini che adorava, e avvinghiata alle loro mani, Meggie si sentì al settimo cielo.
La fiera, o mostra, di Gillanbone era sulle rive del fiume Barwon, vicino all'ippodromo. Sebbene le
piene si fossero ritirate da sei mesi, il fango non si era ancora asciugato del tutto, e i passi frettolosi
dei primi arrivati lo avevano già ridotto a un pantano. Al di là dei recinti delle pecore e dei bovini,
dei maiali e delle capre - gli animali migliori e perfetti - che concorrevano ai premi, c'erano tende
piene di oggetti di artigianato e di vivande. Contemplarono bestie, torte, scialli lavorati al crochet,
indumenti a maglia per bambini, tovaglie ricamate, gatti, cani e canarini.
Al lato opposto di tutto ciò c'era la pista circolare ove giovani cavallerizze e cavallerizzi facevano
caracollare le loro cavalcature con la coda mozza, dinanzi a giudici che sembravano, o così parve a
Meggie ridacchiante, simili a cavalli essi stessi. Le signore, con magnifici abiti di sargia, si
appollaiavano sulle selle da amazzoni degli alti cavalli, i cappelli a cilindro fasciati da veli
impalpabili. Come potessero, persone così precariamente in sella, e dai cappelli in delicato
equilibrio, restare imperturbabili su cavalli che non si limitavano ad andare all'ambio, parve a
Meggie inimmaginabile finché non ebbe veduto una splendida creatura portare il suo cavallo, che
spesso si impennava, su una serie di difficili ostacoli, e terminare in condizioni impeccabili, come
quando aveva cominciato. Poi la signora spronò la cavalcatura con lo sperone impaziente e venne
avanti al piccolo galoppo sul terreno fangoso, tirando infine le redini e fermandosi di fronte a
Meggie, a Frank e a Padre Ralph, così da impedir loro di proseguire. La gamba nel lucente stivale
nero si era liberata dalla staffa e la signora sedeva effettivamente su un lato della sella, le mani
guantate imperiosamente tese.
«Padre! Sia così gentile da aiutarmi a smontare!»
Egli si protese per metterle le mani intorno alla vita, con le mani di lei sulle sue spalle, e la fece
scendere con leggerezza; non appena i tacchi degli stivali ebbero toccato il terreno, la lasciò andare,
afferrò le redini del cavallo e proseguì, con la dama che, al suo fianco, si manteneva senza alcuno
sforzo allo stesso passo.
«Sarà lei a vincere la gara di caccia, Miss Carmichael?» le domandò in un tono di estrema
indifferenza.
Ella fece il broncio; era giovane e molto bella, e l'atteggiamento curiosamente impersonale di lui la
stizziva. «Spero di vincere, ma non posso esserne certa. Gareggiano anche Miss Hopeton e la
signora King, la moglie di Anthony King. Comunque, vincerò il Dressage, e, anche se non riporterò
la vittoria nella gara di caccia, non mi affliggerò.»
Parlava arrotondando mirabilmente le vocali e con il fraseggiare bizzarramente ampolloso di una
giovane donna cresciuta ed educata con tanta cautela da far sì che non esistesse più la benché
minima traccia di cordialità o di accento a colorirne la voce. Mentre conversava con lei, anche il
modo di esprimersi di Padre Ralph divenne più forbito e perdette del tutto le simpatiche inflessioni
irlandesi; come se ella lo avesse riportato ai tempi nei quali, a sua volta, era stato così. Meggie si
accigliò, interdetta e colpita dalle loro parole noncuranti ma sorvegliate, non sapendo che cosa
significasse il cambiamento intervenuto in Padre Ralph, ma rendendosi soltanto conto che un
cambiamento c'era stato, e non trovandolo di suo gusto. Lasciò andare la mano di Frank, anche
perché era diventato difficoltoso continuare a camminare affiancati.
Quando giunsero davanti a una grande pozzanghera, Frank era rimasto indietro. Gli occhi di Padre
Ralph parvero danzare mentre osservava l'acqua, quasi uno stagno poco profondo; si voltò verso la
bambina che continuava a stringere saldamente per mano, e si chinò su di lei con una tenerezza tutta
particolare che non poté sfuggire alla dama: non c'era stata nessuna tenerezza negli scambi di
convenevoli con lei.
«Non porto alcun mantello, Meggie, tesoro, e quindi non posso essere il tuo Walter Raleigh. Sono
certo che vorrà scusarmi, mia cara Miss Carmichael» - e le passò le redini - «ma non posso
consentire che la mia ragazzina prediletta si infanghi le scarpe, le pare?»
Sollevò Meggie, appoggiandola disinvolto contro il proprio fianco e lasciando che Miss Carmichael
raccogliesse la pesante gonna a strascico in una mano, reggesse le redini con l'altra, e sguazzasse,
senza alcun aiuto, attraverso la pozzanghera. Le risate di Frank, alle loro spalle, non contribuirono
certo a placarne la stizza; al lato opposto della pozzanghera ella li lasciò bruscamente.
«Credo proprio che la ucciderebbe, se potesse» disse Frank, mentre Padre Ralph metteva giù
Meggie. Era affascinato da quell'incontro e dalla voluta crudeltà del sacerdote. La giovane donna gli
era sembrata così bella e così altera da impedire a qualsiasi uomo di prevalere su di lei, anche a un
sacerdote, eppure Padre Ralph si era malignamente accinto a frantumarne la fiducia in se stessa e
nella sua inebriante femminilità, che ella maneggiava come un'arma. Come se avesse odiato lei e
ciò che rappresentava, pensò Frank: il mondo delle donne, un mistero squisito che lui non aveva
mai avuto il modo di sondare. Mentre ancora gli bruciavano le parole di sua madre, avrebbe voluto
essere notato da Miss Carmichael, in quanto primogenito dell'erede di Mary Carson, ma lei non si
era nemmeno degnata di accorgersi della sua esistenza. Tutta la sua attenzione si era accentrata sul
prete, un essere asessuato e demascolinizzato. Anche se era alto, bruno e bello.
«Non preoccuparti, tornerà per essere trattata nello stesso modo» disse Padre Ralph, cinicamente.
«È ricca, e quindi, domenica prossima, metterà molto ostentatamente una banconota da dieci
sterline sul vassoio delle offerte.» Rise dell'espressione di Frank. «Non sono molto più anziano di
te, figlio mio, ma, nonostante la mia vocazione, conosco bene il mondo. Non avercela con me;
limitati ad attribuire la cosa all'esperienza.»
Si erano lasciati indietro la pista dell'equitazione, ed erano entrati nella zona dei divertimenti. Sia
per Meggie, sia per Frank, era un incanto. Padre Ralph aveva dato a Meggie ben cinque scellini, e
Frank possedeva le cinque sterline; essere in grado di pagare il biglietto d'ingresso a tutti quegli
allettanti baracconi sembrava meraviglioso. C'era una gran folla, nel parco dei divertimenti;
bambini correvano dappertutto e contemplavano con gli occhi spalancati le scritte pittoresche
dipinte in modo alquanto scorretto all'ingresso delle tende lacere: La Donna Più Grassa del Mondo,
La Principessa Houri e la Danza con il Serpente (ammiratela ventilare le fiamme della furia di un
cobra!); L'Uomo di Gomma; Golia, L'Uomo Più Forte del Mondo; Teti La Sirena. Davanti a
ciascuna tenda o baraccone versarono monetine e ammirarono rapiti, senza notare le squame
malinconicamente scolorite di Teti, o il sorriso sdentato del cobra.
All'estremità del parco dei divertimenti, così grande da richiedere tutto un lato della fiera, c'era una
pensilina gigantesca, con un alto marciapiede sul davanti, e un fregio, simile a un sipario, di figure
dipinte che si stendeva per l'intera lunghezza della passerella sopraelevata di assi. Un uomo con un
megafono in mano stava sbraitando alla gente lì riunita.
«Eccola qui, signori, la famosa troupe di pugili di Jimmy Sharman! Otto dei più grandi campioni di
pugilato del mondo, e una borsa che può essere vinta da chiunque voglia cimentarsi contro di loro!»
Donne e ragazze si univano alla piccola folla con la stessa rapidità degli uomini, e i ragazzini
accorrevano da tutte le parti rendendola ancor più numerosa e pigiandosi sotto la passerella di
legno. Con la stessa solennità dei gladiatori in parata nel Circo Massimo, otto uomini sfilarono sulla
passerella, poi si fermarono, le mani bendate poggiate sui fianchi, le gambe divaricate,
pavoneggiandosi tra gli «oh!» ammirati della folla. Meggie pensò che indossassero soltanto
biancheria, poiché erano fasciati da lunghe magliette nere e da attillate mutande grigie, dalla vita a
metà coscia. Sui loro petti, grandi lettere maiuscole bianche annunciavano Troupe di Jimmy
Sharman. Non ce n'erano due che avessero la stessa statura, alcuni erano grossi e robusti, altri
piccoletti, altri di dimensioni intermedie, ma tutti con un fisico particolarmente bello.
Chiacchierando e ridendo tra loro, con una noncuranza che lasciava capire come tutto ciò fosse una
routine quotidiana, flettevano i muscoli e cercavano di fingere di non provare alcun gusto a
pavoneggiarsi.
«Forza, amici, chi vuole infilarsi i guantoni?» stava ragliando l'imbonitore. «Chi vuole cimentarsi?
Un incontro, e vincete cinque sterline!» l'uomo seguitava a urlare tra i tonfi di un grosso tamburo.
«Ci provo io!» gridò Frank. «Ci provo, ci provo!»
Si liberò dalla mano di Padre Ralph che lo tratteneva, e le persone intorno a loro, quelle in grado di
vedere la piccola statura di Frank, presero a ridere e a spingerlo divertite verso la prima fila.
Ma l'imbonitore si mantenne molto serio mentre uno della troupe tendeva la mano amichevolmente
e aiutava Frank a salire la scaletta per mettersi di lato agli otto già schierati sulla passerella. «Non
ridete, signori. Non è un granché robusto, ma è il primo a presentarsi volontariamente! Non contano
le dimensioni del cane nel combattimento, sapete, ma le dimensioni della combattività del cane!
Forza, fatevi avanti, ecco qui un ometto pronto a tentare... se ci si provasse qualcuno di voi pezzi
d'uomini, eh? Infilate i guantoni e vincete cinque sterline, misuratevi con uno dei pugili della troupe
di Jimmy Sharman!»
A poco a poco i volontari divennero più numerosi; i giovanotti, imbarazzati, tenevano ben stretti i
cappelli e adocchiavano i professionisti, un gruppo di esseri privilegiati, appetto a loro. Sebbene
morisse dalla voglia di restare a vedere che cosa sarebbe accaduto, Padre Ralph decise con
riluttanza che era tempo di condurre Meggie via di lì, per cui la prese in braccio e girò sui tacchi,
accingendosi ad andarsene. Meggie si mise a strillare, e, quanto più lui si allontanava, tanto più
forte gridava; la gente cominciava a guardarli ed egli era così conosciuto che la situazione divenne
molto imbarazzante, per non dire poco dignitosa.
«Suvvia, ascolta, Meggie, non posso portarti là dentro! Tuo padre mi scorticherebbe vivo, e avrebbe
ragione!»
«Voglio restare con Frank! Voglio restare con Frank!» ululò lei, con tutto il fiato che aveva in corpo,
scalciando e cercando di morderlo.
«Oh, merda? disse Padre Ralph.
Rassegnatosi all'inevitabile, si frugò in tasca cercandovi le monete necessarie, e si avvicinò al
lembo aperto della tenda, sbirciando per vedere se ci fosse qualcuno dei piccoli Cleary; ma non ne
vide alcuno e suppose che stessero mettendo alla prova la loro fortuna con il lancio dei ferri di
cavallo, o che stessero ingozzandosi di pasticci di carne e di gelati.
«Non può portare dentro la bambina, Padre!» disse l'imbonitore, scandalizzato.
Padre Ralph alzò gli occhi al cielo. «Se soltanto volesse dirmi come posso condurla via di qui senza
che tutta la polizia di Gilly mi arresti per molestie a una bimba, me ne andrò ben volentieri! Ma suo
fratello si è offerto di battersi e lei non intende abbandonarlo senza una battaglia che farebbe
passare voi tutti per dilettanti!»
L'imbonitore fece una spallucciata. «Bene, Padre, non posso stare a discutere con lei, le sembra?
Entri, ma non ce la lasci venire tra i piedi, per tutti... ehm... per tutti gli angeli del Cielo. No, no,
Padre, si rimetta i quattrini in tasca; Jimmy non approverebbe.»
La tenda sembrava piena di uomini e ragazzi che turbinavano intorno al ring situato al centro. Padre
Ralph trovò un posto dietro la folla, contro il tendone, e strinse a sé Meggie come se dovesse
salvarle la vita. L'aria era piena di fumo e odorava di segatura sparsa in abbondanza per assorbire il
fango. Frank, che aveva già i guantoni, fu il primo sfidante della giornata.
Sebbene capitasse di rado, era già accaduto che un uomo della strada resistesse alla distanza contro
qualche pugile professionista. Ammettevano di non essere i migliori del mondo, ma comprendevano
alcuni dei più bravi in Australia. Opposto a un peso mosca a causa della sua statura, Frank lo mandò
al tappeto al terzo pugno, e propose di battersi contro qualcun altro. Quando arrivò al terzo
professionista, la voce si era sparsa, e la tenda divenne così gremita che non poterono più fare
entrare un solo altro spettatore.
Frank non era stato quasi toccato da un guantone, e i pochi colpi incassati avevano soltanto
provocato la sua furia sempre latente. Gli occhi gli splendevano selvaggi, spruzzava saliva dalla
foga, ognuno dei suoi avversari sembrava avere la faccia di Paddy, e gli applausi della folla gli
pulsavano nella testa come una grande e unica voce che cantilenasse Forza! Forza! Forza! Oh, come
aveva anelato alla possibilità di battersi, negatagli da quando era arrivato a Drogheda! Il
combattimento era il solo modo che conoscesse per liberarsi dell'ira e della sofferenza, e, a ogni
pugno che metteva a segno, la grande e sorda voce nelle sue orecchie sembrava tramutarsi in una
cantilena diversa: Uccidi! Uccidi! Uccidi!
Lo opposero poi a un vero campione, un peso leggero, impartendo a quest'ultimo l'ordine di tenere
Frank a distanza e di accertare se sapesse boxare bene come sferrava pugni. Gli occhi di Jimmy
Sharman splendevano. Era sempre in cerca di campioni, e quei piccoli incontri nelle campagne
gliene avevano forniti parecchi. Il peso leggero fece come gli era stato detto, in difficoltà nonostante
il suo allungo superiore, mentre Frank, così dominato dalla brama di uccidere quella sagoma
saltellante ed elusiva da non vedere niente altro, lo incalzava. Imparava a ogni clinch e a ogni
rapido scambio di colpi, era uno di quei rari individui che, anche nel pieno di una furia titanica,
riescono a continuare a pensare. E resistette alla distanza, nonostante la punizione infertagli da quei
pugni esperti; un occhio gli si stava gonfiando, aveva spacchi sulla fronte e sulle labbra. Ma era
riuscito a vincere venti sterline, e ad assicurarsi il rispetto di tutti gli uomini presenti.
Meggie, contorcendosi, riuscì a sottrarsi alla stretta allentata di Padre Ralph, e saettò fuori della
tenda prima che lui avesse potuto afferrarla. Quando il sacerdote la trovò, fuori, aveva vomitato e
stava cercando di pulirsi le scarpe con un minuscolo fazzoletto. Silenziosamente egli le diede il suo,
accarezzandole il capo luminoso, scosso dai singhiozzi. L'atmosfera entro il tendone aveva
sconvolto anche lui, e avrebbe desiderato di non essere ostacolato dalla dignità della veste per
potersi liberare in pubblico della nausea.
«Vuoi aspettare Frank, o preferisci che andiamo, adesso?»
«Aspetterò Frank» bisbigliò la bambina, appoggiandoglisi al fianco, colma di gratitudine per la sua
calma e la sua comprensione.
«Perché tocchi il mio cuore insensibile?» rifletté a voce alta Padre Ralph, credendola troppo in
preda alla nausea e troppo turbata per ascoltarlo, ma sentendo la necessità di esprimere i propri
pensieri, come fanno molte persone che conducono un'esistenza solitaria. «Tu non mi ricordi mia
madre, non ho mai avuto una sorella, e vorrei sapere che cosa di te e della tua disgraziata famiglia...
Hai avuto una vita dura, mia piccola Meggie?»
Frank uscì dalla tenda con un cerotto sull'occhio, tamponandosi il labbro spaccato. Per la prima
volta da quando Padre Ralph lo conosceva sembrava felice; come la maggior parte degli uomini,
quando si sapeva che avevano trascorso piacevolmente la notte a letto con una donna, pensò il
sacerdote.
«Che cosa ci sta facendo qui Meggie?» ringhiò Frank, sebbene l'esaltazione del ring non lo avesse
ancora abbandonato del tutto.
«A meno che non l'avessi legata mani e piedi, e soprattutto imbavagliata, non mi sarebbe stato
possibile in alcun modo tenerla fuori» disse Padre Ralph piccato, scontento perché doveva
giustificarsi, ma niente affatto sicuro che Frank non se la prendesse anche con lui. Non temeva
minimamente Frank, ma temeva di dar luogo a una scenata in pubblico. «Aveva paura per te, Frank;
voleva esserti vicina e assicurarsi che non ti accadesse nulla. Non adirarti con lei; è già abbastanza
sconvolta.»
«Non sognarti mai di far sapere a Pa' che ci siamo avvicinati a meno di un chilometro da questo
posto» disse Frank a Meggie.
«Vi dispiacerebbe se rinunciassimo al resto del giro?» domandò il sacerdote. «Credo che
gioverebbero a tutti un po' di riposo e una tazza di tè alla canonica.» Pizzicò la punta del naso di
Meggie. «E a te, signorinella, farebbe bene una bella lavata.»
Paddy aveva trascorso una giornata tormentosa con la sorella, dovendo sempre essere ai suoi ordini
come Fee non pretendeva mai, aiutarla a camminare schizzinosamente a zig-zag sul fango di Gilly,
con gli stivaletti di merletto di refe importati, costretto a sorridere e a conversare con le persone che
lei salutava regalmente, e a starle al fianco mentre consegnava il braccialetto di smeraldi al vincitore
della corsa più importante, il Trofeo di Gillanbone. Perché poi dovessero spendere tutti quei soldi
per un gioiello, invece di dargli una coppa placcata in oro e un bel po' di contanti, era qualcosa che
superava le sue capacità di comprensione. Non riusciva a rendersi conto del carattere prettamente
dilettantesco di quelle gare ippiche e non sapeva che i proprietari dei cavalli non avevano bisogno
del volgare denaro. Horry Hopeton, il cui castrone baio Re Edoardo aveva vinto il braccialetto di
smeraldi, possedeva già braccialetti di rubini, di diamanti e di zaffiri vinti negli anni precedenti,
aveva moglie e cinque figlie, e diceva di non potersi fermare fino a quando non fosse entrato in
possesso di sei braccialetti.
La camicia inamidata e il colletto di celluloide irritavano la pelle di Paddy, il vestito blu gli teneva
troppo caldo, e gli esotici frutti di mare provenienti da Sydney, che avevano servito a pranzo
insieme allo champagne, non andavano d'accordo con il suo apparato digerente, abituato alla carne
di montone. Inoltre, si era sentito ridicolo, gli era sembrato di essere ridicolo. Per quanto fosse il
migliore che possedeva, il vestito blu sapeva di un sartorello modesto e di goffaggine bucolica. Né
quelle persone appartenevano alla sua cerchia, i bruschi allevatori di bestiame in tweed, le maestose
matrone, le giovani donne dalla faccia equina, tutte denti, la crema di ciò che il Bulletin chiamava
l'«accosciocrazia». Facevano infatti del loro meglio per dimenticare i tempi del secolo precedente,
quando si erano accosciati sulla terra, affermando così il possesso di vaste estensioni di terreno, che
poi, con la federazione e l'avvento della home rule, era stato riconosciuto loro. Avevano finito con il
diventare la classe più invidiata del continente, finanziavano un loro partito politico, mandavano i
figli nei collegi signorili di Sydney, si intrattenevano con il principe di Galles, quando visitava la
colonia. Mentre lui, il comunissimo Paddy Cleary, era un operaio. Non aveva assolutamente niente
in comune con quegli aristocratici coloniali che gli ricordavano troppo la famiglia di sua moglie per
farlo sentire a proprio agio.
E così, quando entrò nel salotto della canonica e vi trovò Frank, Meggie e Padre Ralph rilassati
intorno al fuoco, con l'aria di aver trascorso una giornata meravigliosa e spensierata, la cosa lo
irritò. Aveva sentito in modo intollerabile l'assenza del raffinato appoggio di Fee, e inoltre
continuava ad avere in antipatia la sorella proprio come ai tempi della prima fanciullezza in Irlanda.
Poi notò il cerotto sull'occhio di Frank, la faccia gonfia; era un pretesto che sembrava mandato dal
Cielo.
«E come credi di poter affrontare tua madre, conciato in quel modo?» urlò. «Ti perdo di vista per
poche ore, ed ecco che ricominci e ti azzuffi col primo che ti guarda storto!»
Stupito, Padre Ralph balzò in piedi con una parola tranquillizzante già sulle labbra; ma Frank fu più
fulmineo.
«Ho guadagnato quattrini con questo!» disse molto sommessamente, additando il cerotto. «Venti
sterline per pochi minuti di lavoro, più di quanto zia Mary paghi te e me messi insieme in un mese!
Ho mandato al tappeto tre buoni pugili e ho resistito sulla distanza con un campione dei pesi leggeri
nella tenda di Jimmy Sharman, questo pomeriggio. E mi sono guadagnato venti sterline» ripeté.
«Potrà non corrispondere alle tue idee riguardo a ciò che dovrei fare, ma oggi pomeriggio mi sono
meritato il rispetto di tutti gli uomini presenti!»
«Qualche stanco ex campione, suonato dalle sventole, in una esibizione in campagna, e te ne vanti?
Vedi di crescere, Frank! Lo so che di statura non puoi crescere più di così, ma, per amore di tua
madre, potresti almeno fare lo sforzo di crescere mentalmente!»
Il pallore della faccia di Frank! Come ossa calcinate. Era stata l'offesa più tremenda che un uomo
potesse fargli, e quell'uomo era suo padre; non poteva vendicarsi. Il respiro cominciò a salirgli dal
profondo del petto dallo sforzo di trattenere le mani sui fianchi. «Non erano ex campioni, Pa'.
Conosci Jimmy Sharman bene quanto me. E lo stesso Jimmy Sharman ha detto che avrei un
avvenire strabiliante come pugile; vuole che entri a far parte della troupe e vuole allenarmi. E vuole
pagarmi! Potrò non diventare più alto, ma sono grosso abbastanza per battere chiunque al mondo...
e questo vale anche per te, vecchio caprone fetente!»
L'allusione celata dietro l'epiteto non sfuggì a Paddy; a sua volta, egli si sbiancò come il figlio.
«Non osare chiamarmi così!»
«Che altro sei? Sei disgustoso, sei peggio di un ariete infoiato! Non potevi lasciarla in pace, non
potevi evitare di metterle le mani addosso?»
«No, no, no!» gridò Meggie. Le mani di Padre Ralph affondarono nelle sue spalle come artigli ed
egli la tenne dolorosamente stretta contro di sé. Le lacrime le striavano la faccia e si contorceva
frenetica, ma invano, per liberarsi. «No, Pappi; no! Oh, Frank, ti prego! Ti prego, ti prego!» strillò.
Ma l'unico a udirla era Padre Ralph. Frank e Paddy si fronteggiavano, l'odio e la paura, che ognuno
provava nei riguardi dell'altro, finalmente allo scoperto. La diga del comune affetto per Fee era
infranta, e la violenta rivalità per Fee emergeva.
«Sono suo marito. E per grazia del Signore abbiamo avuto la benedizione di avere dei figli» disse
Paddy, più calmo, lottando per dominarsi.
«Non sei migliore di un vecchio cane merdoso che corre dietro a ogni cagna per ficcarle dentro il
suo aggeggio!»
«E tu non sei migliore del vecchio cane merdoso che ti ha generato chiunque abbia potuto essere!
Grazie a Dio, io non ci ho mai avuto a che fare!» urlò Paddy. Poi si interruppe. «Oh, Gesù mio!»
L'ira lo abbandonò come un vento ululante, e si afflosciò e si rannicchiò su se stesso ficcandosi le
mani in bocca, come se avesse voluto strapparsi la lingua che aveva detto l'indicibile. «Non dicevo
sul serio, non dicevo sul serio! Non dicevo sul serio!»
Non appena queste parole vennero pronunciate, Padre Ralph lasciò andare Meggie e afferrò Frank.
Gli torse il braccio destro dietro la schiena e gli portò il proprio braccio sinistro intorno al collo,
soffocandolo. Era forte, e la sua stretta paralizzava; Frank lottò per liberarsi di lui, poi, a un tratto, la
sua resistenza venne meno. Scosse la testa in segno di sottomissione. Meggie si era lasciata cadere
sul pavimento e vi rimase inginocchiata, piangendo, volgendo lo sguardo dal fratello al padre, con
una sofferenza impotente e supplichevole. Non capiva che cosa fosse accaduto, ma di una cosa si
rendeva conto: non avrebbe potuto trattenerli entrambi.
«Dicevi sul serio» gracidò Frank. «E io devo averlo sempre saputo! Devo averlo sempre saputo.»
Cercò di voltare la testa verso Padre Ralph. «Mi lasci andare, Padre. Non lo toccherò, Dio mi è
testimone che non lo toccherò.»
«Dio ti è testimone? Che Dio vi imputridisca l'anima, a tutti e due! Se avete rovinato la bambina vi
ammazzerò!» tuonò il prete, il solo ad essere furente, ormai. «Vi rendete conto che ho dovuto
tenerla qui, ad ascoltare tutto questo, temendo che, se l'avessi portata via, vi sareste ammazzati a
vicenda durante la mia assenza? Avrei dovuto lasciare che vi ammazzaste, miserabili, egocentrici
cretini!»
«D'accordo, me ne vado» disse Frank, con una voce strana, cavernosa. «Mi unirò alla troupe di
Jimmy Sharman e non tornerò più.»
«Devi tornare!» bisbigliò Paddy. «Che cosa dirò a tua madre? Per lei tu conti più di noi tutti messi
insieme. Non mi perdonerà mai!»
«Dille che ho seguito Jimmy Sharman perché voglio diventare qualcuno. È la verità.»
«Quello che ho detto... non è vero, Frank.»
Gli occhi neri e forestieri di Frank balenarono sprezzanti, quegli occhi che avevano lasciato
perplesso il sacerdote sin dalla prima volta in cui li aveva veduti; come potevano, Fee dagli occhi
grigi e Paddy dagli occhi azzurri, avere un figlio con gli occhi neri? Padre Ralph conosceva le leggi
di Mendel e riteneva che le iridi grigie di Fee anche da sole avrebbero reso la cosa impossibile.
Frank prese cappello e cappotto. «Oh, è vero! Devo averlo sempre saputo. I ricordi di Ma' che
suona la spinetta in una stanza che tu non avresti mai potuto possedere! La sensazione che tu non
fossi sempre stato presente, che fossi venuto dopo di me. Che ella, prima fosse stata mia.» Rise
silenziosamente. «E pensare che in tutti questi anni ho incolpato te di averla trascinata in basso,
mentre la colpa era mia. Sono stato io!»
«Non è stato nessuno, Frank, nessuno!» gridò il sacerdote, tentando di trascinarlo indietro. «Fa parte
del grande e insondabile piano di Dio; pensa alla cosa in questo modo!»
Frank si strappò di dosso la mano che lo tratteneva, e si diresse verso la porta con la sua andatura
leggera, micidiale, in punta di piedi. Era nato per fare il pugile, pensò Padre Ralph in un angolino
distaccato della mente, quella sua mente cardinalizia.
«Il grande e insondabile piano di Dio!» schernì la voce del giovane dalla soglia. «Lei non vale più
di un pappagallo, quando recita la parte del prete, Padre de Bricassart! Che Dio aiuti lei, io le dico,
perché è il solo, qui, a non avere la più pallida idea di quello che Egli è in realtà!»
Seduto su una poltrona, cinereo, Paddy fissò sconvolto Meggie, inginocchiata e curva davanti al
fuoco, che piangeva e si dondolava avanti e indietro. Si alzò per andare verso di lei, ma Padre Ralph
lo spinse indietro rudemente.
«La lasci in pace. Ha già fatto abbastanza! C'è del whisky nella credenza; ne beva un po'. Io vado a
mettere a letto la bambina, poi tornerò qui a parlarle, quindi non se ne vada. Mi sente?»
«Mi troverà qui, Padre. La metta a letto.»
Di sopra, nell'incantevole cameretta verde-mela, il prete sbottonò il vestito e la camicetta della
bambina, poi la fece sedere sulla sponda del letto per poterle togliere le scarpe e le calze. La camicia
da notte si trovava sul guanciale, ove Annie l'aveva lasciata; gliela infilò intorno al capo e
decentemente l'abbassò prima di toglierle le mutandine. E intanto continuò a parlarle di quisquilie,
stupide storielline di bottoni che non volevano uscire dall'asola, di scarpe che restavano
ostinatamente allacciate, e di nastri che non volevano saperne di sciogliersi. Era impossibile capire
se lo ascoltasse; con i loro inespressi racconti di tragedie infantili, di complicazioni e sofferenze che
trascendevano i suoi anni, gli occhi di lei fissavano stancamente il vuoto al di là delle spalle del
sacerdote.
«Ora coricati, tesoro mio, e cerca di addormentarti. Io tornerò tra poco da te, quindi non ti
preoccupare, capito? Parleremo dopo.»
«Sta bene?» domandò Paddy, quando lui fu rientrato nel salotto.
Padre Ralph prese la bottiglia di whisky sulla credenza e riempì a mezzo un bicchiere.
«Sinceramente non lo so. Dio del Cielo, Paddy, vorrei sapere qual è il più grande flagello di un
irlandese, se il vizio di bere o l'irascibilità. Che cosa l'ha indotta a dire una cosa simile? No, non si
dia nemmeno la pena di rispondere! La collera. Naturalmente è vero. Mi sono accorto che Frank
non era suo figlio sin dal primo momento in cui l'ho veduto.»
«Non sono molte le cose che le sfuggono, eh?»
«Presumo di no. In ogni modo, basta solo un po' di spirito di osservazione per capire quando le
pecorelle della mia parrocchia sono turbate o soffrono. E, dopo averlo capito, è mio dovere fare il
possibile per aiutarle.»
«Lei è molto benvoluto a Gilly, Padre.»
«Per la qual cosa, non ne dubito, posso ringraziare la mia faccia e il mio fisico» disse il sacerdote, in
tono amaro, incapace di far passare la frase per una battuta scherzosa, come era stato nelle sue
intenzioni.
«È così che la pensa? Non posso essere d'accordo, Padre. L'apprezziamo perché è un buon pastore.»
«Bene, mi sembra di essere abbastanza invischiato nei suoi guai, in ogni caso» disse Padre Ralph, a
disagio. «Farebbe bene a sfogarsi, amico.»
Paddy fissò il fuoco, che aveva alimentato sino a fargli assumere le dimensioni di una fornace, nel
traboccare del rimorso e nella frenesia di fare qualcosa mentre il sacerdote stava mettendo a letto
Meggie. Il bicchiere vuoto che aveva in mano tremò con una serie di rapidi sussulti; Padre Ralph si
alzò per andare a prendere la bottiglia di whisky e lo riempì. Dopo una lunga sorsata, Paddy sospirò,
asciugandosi le lacrime dimenticate sulla faccia.
«Non so chi sia il padre di Frank. Fu prima ch'io conoscessi Fee. I suoi, in pratica, sono socialmente
la prima famiglia della Nuova Zelanda, e suo padre possedeva una vasta tenuta, ove coltivava
frumento e allevava pecore, vicino a Ashburton, nell'Isola Meridionale. Il denaro non lo interessava
e Fee era la sua unica figlia. A quanto ne so, aveva pianificato tutta la sua vita... un viaggio in
Inghilterra, il debutto a Corte, un marito fatto per lei. Fee non aveva mai mosso un dito in casa,
naturalmente. Disponevano di cameriere e maggiordomi e cavalli e grandi carrozze; vivevano da
gran signori.
«Io lavoravo nella cascina e a volte vedevo Fee da lontano, mentre passeggiava con un bimbetto di
circa un anno e mezzo. Poco dopo, il vecchio James Armstrong venne a parlarmi. Sua figlia, disse,
aveva disonorato la famiglia, mettendo al mondo un bambino senza essere maritata. Lo scandalo era
stato soffocato, naturalmente, ma quando avevano tentato di allontanarla, sua nonna si era opposta
con tanta veemenza da non lasciare loro altra scelta se non quella di tenerla in casa, nonostante la
situazione imbarazzante. Ora la nonna stava morendo, e niente avrebbe impedito alla famiglia di
liberarsi di Fee e del bambino. Io ero scapolo, disse James; se l'avessi sposata, garantendo di
condurla via dall'Isola Meridionale, sarebbero stati disposti a pagarmi le spese di viaggio e a
versarmi cinquecento sterline.
«Be', Padre, per me si trattava di un patrimonio, e inoltre ero stanco di essere scapolo. La timidezza
mi aveva sempre impedito di combinare qualcosa con le ragazze. La proposta mi parve buona e,
francamente, non attribuivo nessuna importanza al bambino. La nonna venne a saperlo e mi fece
chiamare, sebbene fosse molto malata. Doveva essere stata una despota tremenda, ai suoi tempi,
scommetto, ma era una vera signora. Mi disse qualcosa di Fee, ma non rivelò chi fosse il padre del
bambino, né a me parve bello domandarglielo. In ogni modo, mi fece promettere di essere buono
con Fee... sapeva che l'avrebbero scacciata di casa non appena lei fosse morta, e per questo aveva
proposto a James di trovarle un marito. Compatii la povera vecchia; voleva a Fee un bene da matti.
«Ci crede, Padre, che la prima volta in cui venni a trovarmi così vicino a Fee da poterla salutare fu il
giorno del nostro matrimonio?»
«Oh, lo credo» disse il sacerdote, in un bisbiglio. Fissò il liquido nel bicchiere, poi lo bevve e prese
la bottiglia, tornando a riempire entrambi i bicchieri. «Sicché, sposò una signora di gran lunga più
in alto di lei, Paddy.»
«Sì. A tutta prima mi spaventava a morte. Era così bella, a quei tempi, Padre, e così... fuori di tutto,
non so se mi spiego. Come se non fosse stata nemmeno presente, come se tutto stesse accadendo a
qualcun'altra.»
«È bella ancor oggi, Paddy» osservò Padre Ralph, con dolcezza. «Posso vedere in Meggie come
doveva essere prima che cominciasse a invecchiare.»
«La vita non è stata facile per lei, Padre, ma non so davvero che altro avrei potuto fare. Per lo meno,
con me si trovava al sicuro e non era maltrattata. Mi occorsero due anni per trovare il coraggio di
essere... be', un vero marito per lei. Dovetti insegnarle a cucinare, a scopare un pavimento, a stirare.
Non sapeva come si facesse.
«E mai una volta, in tutti gli anni del nostro matrimonio, Padre, Fee si è lagnata, o ha riso, o ha
pianto. Soltanto nei momenti più intimi della nostra vita a due tradisce una qualche passione, e
anche allora non parla mai. Io spero che dica qualcosa, e al contempo non voglio, perché ho in
mente che se parlasse pronuncerebbe il nome di lui. Oh, non dico che non voglia bene a me, o ai
nostri figli. Io l'amo tanto, ma mi sembra che lei abbia perso la capacità di provare un sentimento
simile. Tranne che per Frank. Voleva bene a Frank più che a noi tutti messi insieme, l'ho sempre
saputo. Doveva essere innamorata di suo padre. Ma non so niente di quell'uomo, chi era, perché non
poté sposarlo.»
Padre Ralph si guardò le mani, battendo le palpebre. «Oh, Paddy, che inferno essere vivi. Grazie a
Dio, non ho il coraggio di inoltrarmi più in là del margine della vita.»
Paddy si alzò, alquanto malfermo. «Be', ormai l'ho fatto, Padre, non è così? Ho allontanato Frank, e
Fee non mi perdonerà mai.»
«Non può dirglielo, Paddy. No, non deve dirglielo, mai. Le dica soltanto che Frank è partito con i
pugili, e non aggiunga altro. Fee sa quanto il ragazzo è sempre stato irrequieto; le crederà.»
«Non potrei mai fare una cosa simile, Padre!» Paddy era atterrito.
«Deve, Paddy. Sua moglie non ha già conosciuto abbastanza dolore e sofferenza? Non le imponga
un nuovo strazio.» E, in cuor suo, si domandò: chissà! Forse imparerà a dare a te, finalmente,
l'amore che ha sempre riservato a Frank. A te, e alla piccola creatura qui al piano di sopra.
«Lo crede davvero, Padre?»
«Certo. Quello che è accaduto stanotte deve restare qui.»
«Ma... e Meggie? Ha sentito tutto.»
«Non si preoccupi per Meggie. Penserò io a lei. Di quanto è avvenuto, ha capito, credo, soltanto che
lei e Frank avete litigato. La convincerò del fatto che, una volta partito Frank, parlare a sua madre
del litigio significherebbe darle un altro dolore. Del resto, ho la sensazione che Meggie non si
confidi molto con la madre, tanto per cominciare.» Si alzò a sua volta. «Vada a letto, Paddy. Dovrà
sembrare quello di sempre e accompagnare Mary al ballo domani, ricorda?»
Meggie non dormiva; giaceva con gli occhi spalancati nella luce fioca della piccola lampada
accanto al letto. Il sacerdote le si sedette accanto e notò che aveva ancora i capelli intrecciati. Con
cautela sciolse i nodi dei nastri blu-mare, e districò pian piano i capelli finché non si distesero sul
guanciale come oro fuso.
«Frank se n'è andato, Meggie» le disse.
«Lo so, Padre.»
«E sai perché, tesoro?»
«Ha litigato con Pappi.»
«Che cosa farai?»
«Andrò con Frank. Ha bisogno di me.»
«Non puoi, Meggie mia.»
«Sì, posso. Sarei andata a cercarlo questa sera stessa, ma le gambe non mi reggevano e il buio non
mi piace. Però lo cercherò domattina.»
«No, Meggie, non devi. Vedi, Frank ha la sua vita da vivere, ed è tempo che se ne vada. So bene che
tu non vuoi vederlo partire, ma è tanto tempo che lui desidera andarsene. Non devi essere egoista,
devi lasciargli vivere la sua vita.» La monotonia della ripetizione, pensò, continuare a insistere.
«Quando diventiamo grandi, è naturale e giusto che vogliamo vivere lontano dalla casa nella quale
siamo cresciuti, e Frank è un uomo fatto, ormai. Dovrebbe già avere una casa sua, avere moglie e
una famiglia. Lo capisci questo, Meggie? Il litigio tra il tuo Pa' e Frank, è stato soltanto un indizio
del fatto che Frank voleva andarsene. Non è accaduto perché non si vogliono bene. È accaduto
perché molti giovani si allontanano dalla famiglia in questo modo, devono avere una sorta di
pretesto. Il litigio è stato soltanto un pretesto perché Frank potesse fare quello che desiderava da
molto tempo, un pretesto per andarsene. Lo capisci questo, Meggie mia?»
Lo sguardo della bambina si volse sulla sua faccia e vi rimase. I suoi occhi erano così esausti, così
colmi di sofferenza, così vecchi. «Lo so» disse «lo so. Frank voleva già andarsene quando io ero
una bimbetta, e non poté. Pa' lo fece portare indietro e lo costrinse a stare con noi.»
«Ma questa volta Pa' non lo farà riportare indietro, perché Pa' non può più costringerlo a restare.
Frank se n'è andato per sempre, Meggie. E non tornerà.»
«Non lo rivedrò più?»
«Non lo so» rispose lui, sinceramente. «Mi piacerebbe dirti che lo rivedrai, ma nessuno può predire
il futuro, Meggie, nemmeno i preti.» Trasse un lungo respiro. «Non devi dire a Ma' che c'è stato un
litigio, Meggie, mi senti? La turberebbe moltissimo, e non sta bene.»
«Perché ci sarà un altro bambino?»
«Che cosa ne sai di questo?»
«A Ma' piace far crescere bambini; lo ha fatto molte volte. E fa crescere così bei bambini. Padre,
anche quando non sta bene! Voglio farne crescere anch'io uno come Hal, così Frank non mi
mancherà più tanto, le pare?»
«Partenogenesi» disse lui. «Buona fortuna, Meggie. Ma se non ci riuscissi?»
«Avrò sempre Hal» disse lei, sonnacchiosa, raggomitolandosi. Poi soggiunse: «Padre, se ne andrà
anche lei? È così?»
«Un giorno, Meggie. Ma non presto, credo; quindi non stare a crucciarti. Ho la sensazione che
rimarrò bloccato a Gilly per molto, molto tempo» rispose il sacerdote, con l'amarezza negli occhi.
6

Non si poté evitarlo, Meggie dovette tornare a casa. Fee non poteva tirare avanti senza di lei, e, non
appena fu rimasto solo nel convento di Gilly, Stuart iniziò uno sciopero della fame, per cui tornò
anche lui a Drogheda.
Era agosto e faceva un freddo intenso. Si trovavano in Australia da un anno esatto; ma questo
sembrava essere un inverno più gelido del precedente. Non pioveva, e l'aria era così ghiaccia da far
dolere i polmoni. Sulle cime del Grande Spartiacque, quattrocentottanta chilometri più a est, la neve
era più alta di quanto fosse accaduto da molti anni, eppure non una goccia di pioggia era caduta a
ovest di Burren Junction, dopo il diluvio dei monsoni nell'estate precedente. La gente, a Gilly,
parlava di una nuova siccità: se l'aspettavano tutti, doveva venire, forse sarebbe stata questa la volta.
Quando Meggie rivide sua madre, le parve che un peso spaventoso fosse venuto a gravare sul suo
essere; forse l'addio alla fanciullezza, il presentimento di quello che significava essere donna.
Esteriormente non c'era alcun cambiamento, a parte il ventre ingrossato; ma interiormente Fee
aveva rallentato, come un vecchio e stanco orologio che ritarda sempre, sempre più fino a fermarsi
definitivamente. Il dinamismo che Meggie non aveva mai veduto mancare a sua madre era
scomparso. Camminava alzando e abbassando i piedi come se non fosse più sicura di come farlo,
nella sua andatura si insinuava una sorta di annaspamento spirituale; non dimostrava alcuna felicità
per la prossima nascita del bambino, e nemmeno quella soddisfazione severamente contenuta della
quale aveva dato prova prima della nascita di Hal.
Il bimbetto dai capelli rossi si aggirava dappertutto in casa barcollando, finiva sempre tra i piedi e
ostacolava ogni cosa, ma Fee non tentava in alcun modo di correggerlo, o anche soltanto di
sorvegliarlo. Faceva eternamente la spola tra la cucina economica, il tavolo da lavoro e l'acquaio,
come se niente altro fosse esistito. E così a Meggie non rimase altra scelta: riempì, semplicemente,
il vuoto nella vita del bambino e divenne sua madre. Non era un sacrificio poiché lo amava
teneramente e trovava in lui un bersaglio indifeso, e ben disposto, di tutto l'affetto che stava
cominciando a voler prodigare a qualche creatura umana. Egli strillava per chiamarla, aveva
imparato a pronunciare il suo nome prima di quello di tutti gli altri, alzava le braccine verso di lei
per essere preso in collo; e la cosa la colmava di felicità. Nonostante le fatiche ingrate, il lavoro a
maglia, i rammendi, il cucito, il bucato, la necessità di stirare la biancheria, e poi le galline, e tutte le
altre faccende che doveva sbrigare, Meggie trovava la propria vita piacevolissima.
Nessuno accennava mai a Frank, ma, ogni sei settimane, Fee alzava la testa quando udiva il
richiamo del postino, e per qualche tempo si animava. Poi la signora Smith portava la
corrispondenza, e, quando non c'era alcuna lettera di Frank, quella scintilla di doloroso
interessamento si spegneva.
C'erano due nuove vite in casa. Fee aveva partorito due gemelli, altri due minuscoli Cleary rossi di
capelli, battezzati James e Patrick. Le adorabili creature, con lo stesso aspetto luminoso del padre e
la stessa indole soave, divennero una proprietà collettiva subito dopo la nascita, poiché, a parte
allattarli, Fee non si interessava minimamente a loro. Ben presto, i nomi dei bambini vennero
abbreviati in Jims e Patsy; erano i prediletti delle donne della grande dimora, le due cameriere
zitelle e la governante vedova e senza figli, avide delle delizie dei poppanti. A Fee venne reso
magicamente facile dimenticarli - avevano tre madri premurosissime - e, man mano che il tempo
passava, divenne una cosa normalissima e accettata vederli trascorrere nella grande casa quasi tutte
le ore durante le quali rimanevano svegli. Meggie non aveva il tempo di prenderli sotto le proprie
ali perché doveva occuparsi di Hal, che era possessivo all'estremo. Le goffe e inesperte lusinghe
della signora Smith, di Minnie e di Cat non facevano per lui. Meggie era il nocciolo del suo mondo;
e lui non voleva altri che Meggie, chiedeva soltanto Meggie.
Bluey Williams barattò i suoi bei cavalli da tiro e il robusto carro contro un autocarro, e la posta
cominciò ad arrivare ogni quattro settimane anziché ogni sei, ma non c'era mai una sola parola da
Frank. E, man mano, il ricordo di lui si offuscò un poco, come succede con i ricordi, anche con
quelli cui è legato un grande affetto; quasi esistesse nella mente un inconscio processo di guarigione
che ci risana nonostante la nostra decisione disperata di non dimenticare mai. Per Meggie si trattò di
un dolente offuscarsi dell'aspetto fisico di Frank, di un annebbiarsi delle dilette fattezze, come una
qualche sfuocata immagine di santo, non più in rapporto con il vero Frank di quanto potesse esserlo
una sacra immagine del Cristo con quello che doveva essere stato l'uomo reale. E per Fee, dalle
profondità silenziose nelle quali aveva bloccato l'evoluzione del suo spirito, emerse una
sostituzione.
La cosa si verificò in modo così poco appariscente che nessuno se ne accorse. Fee infatti si
manteneva chiusa nel silenzio e in una assoluta assenza di espansività; la sostituzione fu una cosa
interiore che nessuno ebbe il tempo di vedere, tranne il nuovo oggetto del suo amore, il quale non lo
tradì esteriormente in alcun modo. Era una cosa nascosta e inespressa tra loro, una cosa con cui
respingere la solitudine.
Forse fu inevitabile, poiché di tutti i figli di lei Stuart era il solo che le somigliasse. A quattordici
anni, costituiva per il padre e per i fratelli un mistero grande come lo era stato Frank, ma,
diversamente da Frank, non generava alcuna ostilità, alcuna irritazione. Faceva quello che gli
veniva detto di fare senza lagnarsi, lavorava duramente come tutti, e non increspava minimamente
le acque tranquille della vita dei Cleary. I suoi capelli, pur essendo rossi, erano più scuri di quelli
degli altri ragazzi, quasi color mogano, e gli occhi limpidi come l'acqua trasparente che scorre
all'ombra, quasi potessero spingersi indietro nel tempo fino ai primordi, e vedere ogni cosa come
realmente era. Inoltre, era l'unico dei figli di Paddy a promettere avvenenza nell'età adulta, sebbene
in cuor suo Meggie ritenesse che, a sua volta, Hal sarebbe stato più bello di lui. Nessuno sapeva mai
che cosa pensasse Stuart; al pari di Fee, parlava poco e non esprimeva mai un'opinione. Aveva la
curiosa capacità di essere completamente immobile, una immobilità interiore e fisica, e a Meggie, la
più vicina a lui per età, sembrava che potesse andare in luoghi ove nessun altro sarebbe mai riuscito
a seguirlo. Padre Ralph si espresse in un modo diverso.
«Questo ragazzo non è umano!» esclamò il giorno in cui riportò a Drogheda Stuart, che aveva fatto
lo sciopero della fame dopo essere stato lasciato in convento senza Meggie. «Ha forse detto che
voleva tornare a casa? Ha forse detto che Meggie gli mancava? No! Si è limitato a smettere di
mangiare e ha aspettato, paziente, che la ragione di ciò penetrasse nelle nostre menti ottuse. Non
una sola volta ha aperto la bocca per lamentarsi, e quando mi sono precipitato da lui e gli ho chiesto
urlando se voleva tornare a casa, si è limitato a sorridermi e ad annuire!»
Man mano che il tempo passava, però, venne deciso tacitamente che Stuart non sarebbe andato nei
recinti a lavorare con Paddy e gli altri ragazzi, sebbene, data la sua età, fosse in grado di farlo. Stu
sarebbe rimasto di guardia in casa, avrebbe spaccato la legna, coltivato l'orto, munto le vacche...
sbrigando quel gran numero di lavori per i quali le donne, con tre bambini piccoli in casa, non
avevano tempo. Era prudente che un uomo rimanesse lì, anche se si trattava soltanto di un
adolescente; dimostrava che ce n'erano altri nei pressi. Poiché non mancavano i visitatori... tonfi di
scarponi sconosciuti su per gli scalini di assi della veranda posteriore, una voce estranea che diceva:
«Salute, signora, ha qualcosa da mettere sotto i denti per un uomo affamato?»
Nell'interno ne esistevano a sciami, vagabondi ingobbiti sotto i loro fagotti avvolti in una coperta
blu, che passavano da un allevamento all'altro, scendendo dal Queensland o risalendo dallo Stato di
Victoria, uomini cui la fortuna non aveva più arriso o ai quali non piaceva un lavoro fisso, e
preferivano arrancare a piedi per migliaia di chilometri, cercando qualcosa che soltanto loro
sapevano. Nella grande maggioranza erano buoni diavoli, che apparivano, divoravano un pasto
enorme, mettevano un po' di tè, di zucchero e di farina tra le pieghe dei fagotti, e poi scomparivano
lungo la pista, diretti a Barcoola o a Narrengang, con vecchi gavettoni ammaccati sobbalzanti, e
cani scarni, dalla pancia penzolante, che li seguivano. I vagabondi australiani di rado viaggiavano a
cavallo, andavano a piedi.
Di quando in quando si presentava un farabutto, in cerca di donne i cui uomini fossero assenti, con
l'intenzione di rubare, non di violentare. Così, Fee teneva un fucile da caccia carico in un angolo
della cucina dove i bambini non potevano arrivare, e si accertava di essere più vicina al fucile del
visitatore, finché il suo sguardo esperto non aveva giudicato che tipo fosse. Quando la casa venne
assegnata ufficialmente a Stuart come suo regno, Fee fu ben lieta di consegnargli il fucile.
Non tutti i visitatori erano vagabondi, sebbene questi ultimi fossero la maggioranza. C'era Watkins,
con la sua vetusta Ford modello T, per esempio. Trafficava in ogni cosa, dal linimento per cavalli
alle saponette profumate, ben diverse dal sapone duro come roccia che Fee produceva nella tinozza
del bucato, con grasso e soda caustica; vendeva lavanda e acqua di Colonia, cipria e creme per la
faccia avvizzita dal sole. Esistevano certe cose che nessuno si sognava di acquistare se non da
Watkins; come il suo unguento, di gran lunga migliore di qualsiasi altro venduto in farmacia o
prescritto dal medico, un unguento capace di guarire qualsiasi cosa, da una lacerazione nel fianco di
un cane da pastore a un'ulcerazione sullo stinco di un uomo. Le donne gli si affollavano attorno, in
ogni cucina nella quale entrasse, aspettando impazienti che aprisse di scatto il valigione delle sue
mercanzie.
E c'erano altri ambulanti, frequentatori meno regolari di Watkins delle zone interne, ma altrettanto
graditi, in quanto vendevano di tutto, dalle sigarette di loro confezione alle pipe fantasia, a intere
pezze di stoffa, e persino, talora, biancheria femminile oscenamente seducente, nonché busti
abbelliti da una grande abbondanza di nastri. Erano avidissime di novità, quelle donne dell'interno
che dovevano limitarsi a uno o due viaggi all'anno nel centro abitato più vicino, lontane dagli
sfarzosi negozi di Sydney, lontane dalla moda e dalle cianfrusaglie femminili.
La vita sembrava consistere soprattutto di mosche e di polvere. Non pioveva da moltissimo tempo,
nemmeno una spruzzatina per fermare il polverone e annegare le mosche; quanto meno pioveva,
tanto più si moltiplicavano gli insetti e abbondava la polvere.
A tutti i soffitti erano appesi festoni di spirali di carta moschicida, nere di cadaveri dopo un giorno
appena, che ruotavano lentamente. Non si poteva lasciare scoperto alcun cibo, sia pur soltanto per
un momento, senza che divenisse o un'orgia o un cimitero di mosche, e i minuscoli puntolini dei
loro escrementi decoravano i mobili, le pareti, il calendario dell'Emporio Generale di Gillanbone.
Eppoi la polvere! Impossibile evitarla, quella cipria impalpabile e rossiccia che si infiltrava anche
nei recipienti più ermeticamente chiusi, rendeva opachi i capelli appena lavati e granulosa la pelle,
si depositava nelle pieghe degli abiti e delle tende e rivestiva i tavoli appena lucidati con una
pellicola che tornava a depositarvisi subito dopo essere stata eliminata. Abbondava sui pavimenti, a
causa delle scarpe mal pulite e del vento caldo e asciutto che penetrava attraverso porte e finestre;
Fee fu costretta ad arrotolare i tappeti persiani nel salotto e a fare inchiodare da Stuart, sul
pavimento, del linoleum acquistato nell'emporio di Gilly senza nemmeno averlo visto prima.
La cucina, nella quale transitava quasi tutto il traffico proveniente dall'esterno, era pavimentata con
assicelle di teak schiarite quasi come vecchie ossa a furia di strofinarle con una spazzola metallica e
con la lisciva. Fee e Meggie vi spargevano la segatura che Stuart raccoglieva con cura nella legnaia,
la spruzzavano con preziose piccole quantità di acqua, poi spazzavano via la poltiglia bagnata e
aromatica fuori delle porte e giù dalla veranda, nell'orto, ove si decomponeva tramutandosi in
humus.
Ma nulla poteva tener lontana a lungo la polvere, e dopo qualche tempo, per giunta, il torrente si
prosciugò tramutandosi in un susseguirsi di piccole pozzanghere, per cui non ci fu più acqua da
pompare nella cucina e nel bagno. Stuart si recò con l'autocisterna al pozzo artesiano e la riportò
indietro piena fino all'orlo, vuotandola infine in uno dei serbatoi dell'acqua piovana, e le donne
dovettero abituarsi a un tipo diverso di orribile acqua per lavare i piatti, la biancheria e se stesse,
un'acqua peggiore di quella melmosa del torrente. Era satura di sostanze minerali, puzzava di zolfo,
doveva essere meticolosamente asciugata dai piatti e rendeva i capelli opachi e secchi come paglia.
La poca acqua piovana che ancora rimaneva veniva adoperata esclusivamente per bere e cucinare.
Padre Ralph stava osservando Meggie con tenerezza. Spazzolava la ricciuta testa rossa di Patsy, e
Jims rimaneva in piedi remissivo, ma dondolandosi un poco, in attesa del proprio turno, entrambe le
paia di vividi occhi azzurri intente ad adorare la bambina di sotto in su. Era proprio come una
minuscola mamma. Doveva essere un qualcosa di innato, egli rifletté, quella singolare ossessione
delle donne per l'infanzia, altrimenti, alla sua età, Meggie avrebbe considerato quel compito un
dovere anziché un piacere, e sarebbe corsa via a fare qualcosa di più divertente non appena
possibile. Invece, stava volutamente prolungando la cosa, e faceva scorrere i capelli di Patsy tra le
dita per ricavare onde dalla loro turbolenza. Per qualche momento il sacerdote fu incantato dalla sua
destrezza, poi batté il frustino sul lato dello stivale polveroso e, imbronciato, volse lo sguardo fuori
della veranda, nella direzione della grande casa, nascosta dai suoi spettrali eucalipti e dai
rampicanti, dal gran numero di edifici annessi e di alberi del pepe che si frapponevano tra il suo
isolamento e questo perno della vita dell'allevamento, la casa del capo-guardiano. Quale complotto
stava tessendo, il vecchio ragno laggiù, al centro della sua vasta ragnatela?
«Padre, non starà spiando!» lo accusò Meggie.
«Scusami, Meggie. Riflettevo.» Tornò a voltarsi verso di lei, mentre terminava di pettinare Jims;
stettero a guardarlo tutti e tre con un'aria di aspettativa, finché non si chinò e sollevò i due gemelli,
uno contro ciascun fianco. «Andiamo a trovare vostra zia Mary, eh?»
Meggie lo seguì lungo il sentiero, portandogli il frustino e conducendo la cavalla saura; egli reggeva
in braccio i bambini con disinvolta familiarità e sembrava non sentirne il peso, sebbene il torrente
distasse quasi un chilometro e mezzo dalla grande casa. Una volta giunto all'edificio della cucina,
affidò i gemelli all'estatica signora Smith e proseguì lungo il viale d'accesso della dimora, con
Meggie al fianco.
Mary Carson sedeva sulla poltrona a conchiglia. Non la lasciava quasi mai, in quel periodo; non era
più necessario, con Paddy così abile nel mandare avanti ogni cosa. Quando Padre Ralph entrò
tenendo per mano Meggie, il suo sguardo malevolo demolì la bambina; il sacerdote sentì le
pulsazioni di Meggie accelerare e le strinse il polso, comprensivo. Fece alla zia un goffo inchino,
mormorando un saluto impercettibile.
«Va' in cucina, ragazza, prendi il tè con la signora Smith» disse Mary Carson, brusca.
«Perché non le piace?» domandò Padre Ralph, lasciandosi cadere sulla poltrona che aveva finito
con il considerare sua.
«Perché piace a lei» ella rispose.
«Oh, andiamo!» Per una volta tanto era riuscita a farlo sentire a disagio. «Non è che una bimbetta,
Mary.»
«Non è quello che vede in lei, e lo sa bene.»
I begli occhi azzurri fissarono sardonici Mary Carson; ora egli si sentiva più disinvolto. «Crede che
possa corrompere bambine? Sono, in fin dei conti, un sacerdote!»
«È anzitutto un uomo, Ralph de Bricassart! L'essere sacerdote la fa sentire al sicuro, ecco tutto!»
Stupito, lui rise. Chissà per quale ragione non riusciva a tenerle testa, quel giorno; era come se ella
avesse trovato lo spiraglio nella sua corazza, insinuandovisi con il proprio veleno di ragno. E
inoltre, sentiva che stava cambiando, forse invecchiava, si rassegnava all'oscurità a Gillanbone. Le
fiamme stavano languendo; oppure ardevano adesso per altre cose?
«Non sono un uomo» disse. «Sono un sacerdote... È il caldo, forse, la polvere e le mosche... Ma non
sono un uomo, Mary. Sono un prete.»
«Oh, Ralph, come è cambiato!» lo schernì lei. «Può mai essere il Cardinale de Bricassart, quello che
odo parlare?»
«È impossibile» egli disse, con una fuggevole infelicità nello sguardo. «Credo di non tenerci più.»
Mary Carson si mise a ridere, dondolandosi avanti e indietro sulla poltrona, osservandolo. «No,
Ralph? Non ci tiene? Bene, la lascerò cuocere a fuoco lento ancora per un po', ma il giorno della
resa dei conti sta arrivando anche per lei, non ne dubiti. Non è ancora il momento, non per due o tre
anni ancora, forse, ma verrà. Io sarò come il demonio, e le offrirò... Basta, non dirò altro! Ma non
dubiti che la costringerò a torcersi. Lei è l'uomo più affascinante che abbia conosciuto. Ci getta in
faccia la sua bellezza, disprezzando la nostra stupidità. Ma io la inchioderò al muro della sua
debolezza, la costringerò a vendersi come una qualsiasi prostituta imbellettata. Ne dubita?»
Il sacerdote si appoggiò alla spalliera della poltrona, sorridendo. «Non dubito che ci proverà. Ma
non credo che mi conosca bene come pensa.»
«Ah, no? Sarà il tempo a dirlo, Ralph, e soltanto il tempo. Io sono vecchia. Non mi rimane altro che
il tempo.»
«E io, cosa crede che abbia?» domandò lui. «Il tempo, Mary, niente altro che il tempo. Tempo,
polvere e mosche.»
Il cielo si coprì di nuvole, e Paddy cominciò a sperare nella pioggia.
«Temporali asciutti» disse Mary Carson. «Non saranno questi a darci la pioggia. Non vedrai piovere
per molto tempo.»
Se i Cleary credevano di aver veduto il peggio che l'Australia potesse dare in fatto di rigori
climatici, questo accadeva perché non avevano ancora assistito alle tempeste asciutte delle pianure
riarse dalla siccità. Prive di calmante umidità, la terra e l'aria asciutte si strofinavano a vicenda
irritandosi e crepitando, un attrito elettrizzante, che cresceva e cresceva e cresceva finché, in ultimo,
poteva soltanto dar luogo a una gargantuesca dispersione di energia accumulata. Le nubi si
abbassarono e il cielo si oscurò a tal punto che Fee dovette accendere le lampade; fuori, nei recinti, i
cavalli fremevano e spiccavano balzi al più lieve rumore; le galline cercarono i loro trespoli e
affondarono la testa apprensive sotto un'ala; i cani si azzuffavano e ringhiavano; i maiali che
grufolavano tra le immondizie del deposito di rifiuti dell'allevamento affondarono i grugni nella
polvere e sbirciarono fuori di essa con occhietti vividi e impauriti. Le torve energie compresse nel
cielo terrorizzavano sin nelle ossa ogni essere vivente, mentre i vasti e spessi nembi inghiottivano
completamente il sole e si accingevano a riversare sulla terra il fuoco solare.
Il tuono sopraggiunse marciando da lontano, a un passo sempre più rapido, lampi minuscoli
all'orizzonte fecero risaltare in netto rilievo i cumuli impennati, creste di un biancore stupefacente
spumeggiavano e si arricciolavano sopra profondità di un blu-mezzanotte. Poi, con un vento
ruggente che risucchiava la polvere e la scaraventava pungente negli occhi, nelle orecchie e nella
bocca, venne il cataclisma. Non dovettero più sforzarsi di immaginare la biblica ira di Dio; la
subirono. Nessuno riusciva a impedirsi di trasalire quando il tuono scrosciava — esplodeva con lo
stesso frastuono e la stessa furia di un mondo che si disintegrasse — ma, dopo qualche tempo, la
famiglia riunita vi si abituò a tal punto che tutti uscirono sulla veranda e guardarono, al di là del
torrente, i pascoli lontani. Immensi fulmini biforcuti risaltavano come vene di fuoco dappertutto nel
cielo, decine di saette a ogni istante; lampi viola a catena zigzagavano tra le nubi e fuori dei nembi,
in un gioco fantastico a nasconderella. Alberi isolati, sulle pianure erbose, puzzavano e fumavano
carbonizzati dai fulmini, ed essi finalmente capirono perché tante di quelle solitarie sentinelle dei
pascoli fossero morte.
Una luminosità magica, ultraterrena, serpeggiava nell'aria, un'aria non più invisibile, ma
interiormente in fiamme, di un rosa fluorescente, e lilla e giallo-zolfo, resa odorosa da qualche
suadente, dolce, elusivo profumo, del tutto imprecisabile. L'aria baluginava, i capelli rossi dei
Cleary erano alonati da lingue di fuoco, i peli sulle loro braccia si drizzavano rigidi. E così
continuò, per tutto il pomeriggio, la furia temporalesca, attenuandosi soltanto molto adagio verso
oriente, per liberarli dal suo spaventoso incantesimo al tramonto, ma lasciandoli tutti eccitati,
nervosi, non placati. Non una goccia di pioggia era caduta. Ma fu come morire e tornare alla vita,
essere sopravvissuti illesi a quell'esplosione di collera atmosferica; per una settimana non riuscirono
a parlare d'altro.
«Ci toccherà molto di più» disse Mary Carson, annoiata.
Subirono molto di più. Sopraggiunse il secondo inverno asciutto, più gelido di quanto lo avessero
ritenuto possibile senza la neve; la brina si formava di notte, sul terreno, con uno spessore di
parecchi centimetri, e i cani si rincantucciavano gli uni contro gli altri, rabbrividendo, nei canili, e
riuscivano a tenersi caldi soltanto ingozzandosi di carne di canguro e di mucchi di grasso
provenienti dal mattatoio dell'allevamento. Il maltempo significava, almeno, carne di manzo e di
maiale da mangiare, in luogo dell'eterno montone. In casa, accendevano grandi fuochi ruggenti, e
gli uomini erano costretti a rientrare, quando potevano, perché di notte, nei pascoli recintati,
gelavano. Ma i tosatori, quando giunsero, erano di umore esultante; avrebbero potuto lavorare più
rapidamente e sudare meno. Nella partizione di ciascun uomo, sotto il grande capannone, c'era un
tratto circolare di pavimento molto più chiaro del resto, il punto in cui i tosatori, per cinquant'anni,
erano rimasti in piedi lasciando ruscellare il loro sudore che scoloriva le assi di legno.
Rimaneva ancora l'erba cresciuta dopo la piena ormai lontana, ma si stava diradando
minacciosamente. Un giorno dopo l'altro, il cielo rimaneva coperto e la luce era fioca, ma non
pioveva mai. Il vento ululava malinconicamente sui pascoli, spazzando via dinanzi a sé rossicci
turbini di polvere, come pioggia, e tormentando la mente con immagini d'acqua. Tanto
somigliavano alla pioggia, quelle lacere raffiche di polvere.
I bambini avevano geloni sulle dita, cercavano di non sorridere con le labbra screpolate, e dovevano
raschiar via i calzini da calcagni e stinchi sanguinanti. Era del tutto impossibile conservare un po' di
calore con quel vento impetuoso e gelido, anche perché le case erano state progettate per lasciar
entrare ogni alito d'aria e non per escluderlo. Bisognava coricarsi in camere da letto gelide, alzarsi
in camere da letto gelide, aspettare con pazienza che a Ma' avanzasse un po' d'acqua calda nel
pentolone sul fuoco, in modo che lavarsi non fosse un cimento doloroso, tale da far battere i denti.
Un giorno, il piccolo Hal cominciò a tossire e a starnutire, e peggiorò rapidamente. Fee preparò un
impiastro bollente e colloso con polvere di carbone di legna e glielo mise sul piccolo torace
ansimante, ma parve non dargli alcun sollievo. A tutta prima Fee non si preoccupò troppo, ma,
mentre la giornata trascorreva e il bambino si indeboliva così in fretta, non seppe più che cosa fare.
Meggie, seduta al capezzale di Hal, si torceva le mani e silenziosamente recitava una sequela di
Avemarie e di Padrenostri. Quando Paddy tornò a casa alle sei, il respiro del bambino lo si udiva
dalla veranda e le sue labbra erano blu.
Paddy corse subito alla grande dimora e al telefono, ma il medico distava sessantaquattro chilometri
e si era recato a visitare un altro paziente. Accesero una mattonella di zolfo e ce lo tennero sopra,
nel tentativo di fargli espellere a colpi di tosse la membrana che aveva in gola e che lo stava
soffocando a poco a poco, ma il bambino non riuscì a contrarre la gabbia toracica quanto bastava
per liberarsene. Stava diventando sempre più cianotico, la respirazione era convulsa Meggie, seduta
accanto a lui, lo sosteneva e pregava, il cuore stretto in una morsa di sofferenza perché la povera
piccola creatura lottava tanto per ogni respiro. Di tutti i bambini, Hal le era il più caro; sentiva di
esserne la madre. Mai prima di allora aveva desiderato così disperatamente di essere una madre
adulta; pensava, infatti, che se fosse stata una donna come Fee, avrebbe avuto in qualche modo la
capacità di guarirlo. Fee non lo poteva guarire perché non era sua madre. Confusa e terrorizzata,
teneva stretto il corpicino ansimante cercando di aiutare Hal a respirare.
Non le passò mai per la mente che avrebbe potuto morire, nemmeno quando Fee e Paddy caddero in
ginocchio accanto al letto e pregarono, non sapendo che altro fare. A mezzanotte, Paddy staccò le
braccia di Meggie dal corpo del bambino immobile, e, con tenerezza, lo compose contro la pila di
guanciali.
Meggie spalancò gli occhi; si era quasi assopita, cullata dall'illusione perché Hal aveva smesso di
dibattersi. «Oh, Pappi, sta meglio!» disse.
Paddy scosse la testa; sembrava raggrinzito e invecchiato, e la lampada gli illuminava ciuffi grigi
nei capelli, peli grigi nella barba lunga di una settimana. «No, Meggie. Hal non sta meglio come
intendi tu, ma adesso è in pace. È tornato a Dio, ha smesso di soffrire.»
«Pa' vuol dire che è morto» disse Fee, con una voce spenta.
«Oh, Pappi, no! Non può essere morto!»
Ma la piccola creatura nel nido di guanciali era realmente morta. Meggie se ne rese conto non
appena guardò suo fratello, sebbene non avesse mai veduto la morte prima di allora. Hal sembrava
una bambola, non più un bambino. Si alzò e uscì per tornare dai ragazzi, che sedevano ingobbiti, in
una veglia inquieta, intorno al fuoco in cucina, mentre la signora Smith, su una dura sedia lì
accanto, teneva d'occhio i minuscoli gemelli il cui lettino era stato portato in cucina affinché
stessero al caldo.
«Hal è morto un momento fa» disse Meggie.
Stuart alzò gli occhi da una remota fantasticheria. «È meglio così» disse. «Pensa che pace.» Si alzò
mentre Fee entrava dal corridoio e le si avvicinò senza toccarla. «Ma', devi essere stanca. Vieni a
coricarti. Accenderò il fuoco in camera tua. Su, vieni, coricati.»
Fee si voltò e lo seguì senza dir parola. Bob si alzò e uscì sulla veranda. Gli altri ragazzi rimasero
seduti dimenandosi per qualche tempo, poi lo raggiunsero. Paddy non si era fatto vedere. Senza dir
parola, la signora Smith tolse la carrozzina dall'angolo della veranda e con cautela vi mise Jims e
Patsy addormentati. Poi si voltò a guardare Meggie con la faccia striata dalle lacrime.
«Meggie, io torno nella casa grande e porto Jims e Patsy con me. Verrò di nuovo domattina, ma è
preferibile che i piccoli rimangano con Minnie e Cat e me per qualche tempo. Dillo a tua madre.»
Meggie si lasciò cadere su una sedia libera e intrecciò le mani in grembo. Oh, Hal apparteneva a lei,
ed era morto! Il piccolo Hal, che aveva seguito e amato come una madre. Lo spazio occupato dal
bambino nei suoi pensieri non restava ancora vuoto, continuava a sentire il caldo peso di lui contro
il petto. Era terribile sapere che quel peso non si sarebbe poggiato mai più contro di lei, ove lo
aveva sentito per quattro lunghi anni. No, non per questo doveva piangere; aveva versato lacrime
per Agnese, per le ferite inferte al fragile guscio dell'amor proprio e dell'infanzia che si era ormai
lasciata indietro per sempre. Questo era un fardello che avrebbe dovuto sopportare fino all'ultimo
dei suoi giorni, continuando a vivere ugualmente. La volontà di vivere è molto forte in alcuni, non
lo è altrettanto in altri. In Meggie era salda e flessibile come una corda d'acciaio.
Così la trovò Padre Ralph, quando giunse con il medico. Indicò in silenzio il corridoio, e non si
sforzò di seguirli. E trascorse molto tempo prima che il sacerdote potesse finalmente fare quello che
si era proposto sin da quando Mary Carson aveva telefonato alla canonica: andare da Meggie, stare
con lei, dare alla povera bambina spaesata qualcosa di sé che potesse essere soltanto suo. Dubitava
che chiunque altro si rendesse pienamente conto di ciò che Hal aveva significato per lei.
Ma fu una lunga attesa. C'erano gli ultimi sacramenti da somministrare, nel caso che l'anima non
avesse ancora abbandonato il corpo; e bisognava parlare con Fee, parlare con Paddy, dare consigli
pratici. Il medico se n'era andato, avvilito, ma abituato da tempo alle tragedie che la sua condotta
troppo estesa rendeva inevitabili. Stando a quanto gli era stato detto, del resto, avrebbe potuto fare
ben poco, lontano come si trovava dall'ospedale e da infermiere esperte. Questa gente si esponeva a
rischi, affrontava demoni, ma resisteva. Sul certificato di morte avrebbe scritto «difterite». Era una
malattia comoda.
Infine, Padre Ralph non dovette più parlare con nessuno. Paddy era andato da Fee, Bob e i ragazzi
si trovavano nella falegnameria per costruire la piccola bara. Stuart sedeva sul pavimento nella
camera da letto di Fee, il puro profilo così simile a quello di lei, delineato contro il cielo notturno al
di là della finestra; da dove giaceva contro il guanciale, con la mano di Paddy nella sua, Fee non
smise mai di contemplare la scura sagoma accovacciata sul pavimento gelido. Erano le cinque del
mattino e i galli si stavano scrollando sonnacchiosi, ma avrebbe continuato a far buio ancora per
parecchio tempo.
Con la stola viola intorno al collo, perché si era dimenticato di averla, Padre Ralph si chinò sulla
stufa in cucina e ravvivò le braci che sprigionarono lunghe fiamme; spense la lampada sul tavolo e
sedette su una panca di legno di fronte a Meggie, per osservarla. Era cresciuta, aveva calzato stivali
delle sette leghe che minacciavano di lasciarlo indietro, battuto in velocità; in quel momento,
mentre la guardava, sentì la propria incapacità più acutamente di quanto gli fosse mai accaduto in
un'esistenza riempita da dubbi tormentosi, ossessivi, sul suo coraggio. Eppure, di che cosa aveva
paura? Cosa riteneva di non poter affrontare, se fosse accaduto? Poteva essere forte per gli altri, non
temeva le altre persone, ma entro di sé, prevedendo che l'innominabile qualcosa scivolasse nella sua
coscienza quando meno se lo sarebbe aspettato, conosceva la paura. Mentre Meggie, nata diciotto
anni dopo di lui, stava crescendo più di lui.
Non che fosse una santa, o qualcosa di più della maggior parte delle persone. Soltanto, non si
lamentava mai, possedeva il dono - o si trattava di una calamità? - della rassegnazione. Qualsiasi
cosa accadesse o potesse accadere, l'affrontava e l'accettava e la poneva in disparte per alimentare la
fornace del suo essere. Chi le aveva insegnato questo? E poteva essere insegnato? O, forse, l'idea
che egli si faceva di lei era frutto delle sue fantasticherie? Ed era davvero importante? Che cosa
importava di più: quello che Meggie era realmente, o quello che lui pensava ella fosse?
«Oh, Meggie» disse, impotente.
La bambina volse lo sguardo verso di lui e, nonostante la sofferenza, gli offrì un sorriso di amore
assoluto e traboccante, che nulla tratteneva, in quanto i tabù e le inibizioni della femminilità non
facevano ancora parte del suo mondo. Sentirsi così amato lo scosse, lo consumò, lo indusse a
desiderare, in nome di quel Dio della cui esistenza aveva talora dubitato, di essere chiunque altro
nell'universo tranne Ralph de Bricassart. Era questa, la cosa ignota? Oh, Dio, perché amava tanto la
bambina? Ma, come sempre, nessuno gli rispose; e Meggie, immobile, continuò a sorridergli.
All'alba, Fee si alzò per preparare la colazione, aiutata da Stuart; poi la signora Smith tornò con
Minnie e Cat, e le quattro donne rimasero in piedi insieme accanto alla cucina economica, parlando
in tono sommesso e monocorde, unite da una qualche comunanza di dolore che né Meggie né il
prete capirono. Dopo colazione, Meggie andò a foderare la piccola bara di legno piallato e
verniciato costruita dai ragazzi. Senza parlare, Fee le aveva dato un vestito da sera di seta bianca,
già da un pezzo reso color avorio dal tempo, ed ella applicò strisce del tessuto ai duri contorni
nell'interno della bara. Mentre Padre Ralph la imbottiva con degli asciugamani, lei fece scorrere le
strisce di seta sagomate sotto la macchina per cucire; poi, insieme, le applicarono all'interno della
bara con delle puntine da disegno. E quando Fee ebbe infilato al bambino il suo più bel vestitino di
velluto e gli ebbe pettinato i capelli, per poi deporlo nel soffice nido che odorava di lei, e non di
Meggie sebbene Meggie gli avesse fatto da madre, Paddy applicò il coperchio, piangendo; era il
primo figlio che perdeva.
Per anni, il salone dei ricevimenti a Drogheda era stato utilizzato come cappella; a un'estremità si
trovava un altare drappeggiato con tovaglie dorate, ricamate dalle suore di Santa Maria d'Urso, che
Mary Carson aveva compensato con un migliaio di sterline. La sala e l'altare erano stati decorati
dalla signora Smith con fiori invernali colti nei giardini di Drogheda, cheiranthus, violacciocche
precoci e rose tardive, masse di fiori simili a dipinti rosei e color ruggine, magicamente entrati nella
dimensione dei profumi. Con un camice bianco senza pizzi e una pianeta nera senza alcun
ornamento, Padre Ralph celebrò la Messa di Requiem.
Come si soleva fare in quasi tutti i grandi allevamenti dell'interno, Drogheda seppelliva nella
propria terra i morti. Il cimitero si trovava al di là dei giardini, accanto alle rive ricche di salici del
torrente, delimitato da una cancellata di ferro verniciata di bianco, ed era verdeggiante anche in quel
periodo di siccità, in quanto veniva annaffiato con l'acqua dei serbatoi. Michael Carson e il suo
figlioletto riposavano lì, sotto un'imponente tomba di marmo, con un angelo in dimensioni naturali
sul frontone, un angelo dalla spada sguainata per proteggere il loro riposo. Forse dieci o dodici
tombe meno pretenziose attorniavano il mausoleo, indicate soltanto da semplici croci bianche di
legno e nitidamente delineate da bianchi cerchi da croquet, alcune di esse prive persino di un nome:
la tomba di un tosatore senza parenti noti, ucciso durante una rissa negli alloggi, le tombe di due o
tre vagabondi il cui ultimo approdo terreno era stato Drogheda; e quella di alcune ossa senza sesso e
del tutto anonime, trovate in uno dei pascoli; poi la tomba del cuoco cinese di Michael Carson,
sopra i cui resti si trovava un bizzarro ombrello scarlatto, con malinconici campanellini che
sembravano eternamente far tintinnare il nome Hee Sing, Hee Sing, Hee Sing; la tomba di un
mandriano, sulla cui croce si poteva leggere semplicemente: Tankstand Charlie era un brav'uomo e
altre tombe ancora, alcune delle quali di donne. Ma una simile semplicità non si addiceva a Hal, il
nipote della proprietaria; misero la bara costruita alla meglio su una mensola all'interno del
mausoleo, e su di essa vennero chiuse le lavorate porte di bronzo.
Dopo qualche tempo, tutti smisero di parlare di Hal, se non di sfuggita. Meggie tenne il proprio
dolore esclusivamente per sé; quella sofferenza aveva la desolazione, incapace di ragionare, tipica
dei fanciulli, esasperata e misteriosa; eppure, la gioventù stessa di lei la seppelliva sotto gli eventi
quotidiani, e ne sminuiva l'importanza. I ragazzi sembravano essere stati poco toccati, tranne Bob,
grande abbastanza per aver voluto bene al fratellino. Paddy si affliggeva profondamente, ma
nessuno sapeva se anche Fee si affliggesse. Fee pareva allontanarsi sempre e sempre più dal marito,
dai figli, da ogni sentimento. Per questo Paddy era tanto grato a Stu, a causa del modo con cui si
occupava di sua madre, della grave tenerezza con la quale la trattava. Soltanto Paddy aveva veduto
l'espressione di Fee il giorno in cui era tornato da Gilly senza Frank. Non c'era stato un solo guizzo
di emotività in quei morbidi occhi grigi; non c'erano stati, da parte sua, né asprezza né accuse, né
odio né disperazione. Era come se avesse semplicemente aspettato il colpo, simile a un cane
condannato a essere ucciso da una pallottola, consapevole della sua sorte e incapace di evitarla.
«Sapevo che non sarebbe tornato» aveva detto.
E Paddy: «Forse tornerà, Fee, se gli scriverai subito.»
Lei si era limitata a scuotere la testa e, essendo Fee, non aveva dato spiegazioni. Meglio che Frank
si costruisse una nuova vita lontano da Drogheda. Conosceva abbastanza bene suo figlio per sapere
che le sarebbe bastata una parola per farlo tornare indietro e, di conseguenza, non doveva scrivere
quella parola, mai. Se le giornate erano interminabili e amareggiate da una sensazione di
insuccesso, doveva sopportarle in silenzio. Non aveva scelto Paddy, ma un uomo migliore di Paddy
non era mai esistito. Fee era una creatura i cui sentimenti sono così intensi da divenire intollerabili,
impossibili a viversi, e aveva avuto una dura lezione. Da quasi venticinque anni stritolava le
emozioni, escludendole dall'esistenza, ed era persuasa che, in ultimo, l'ostinazione sarebbe stata
vittoriosa.
La vita continuò secondo il ritmico ciclo senza fine della terra; l'estate seguente vennero le piogge,
non quelle portate direttamente dai monsoni, ma un loro sottoprodotto: colmarono il torrente e le
cisterne, soccorsero le assetate radici dell'erba, eliminarono a colpi di spugna la polvere furtiva.
Quasi piangendo di gioia, gli uomini si dedicarono ai consueti lavori stagionali, sicuri di non dover
più nutrire le pecore con le loro mani. L'erba aveva resistito per l'appunto quanto bastava, integrata
dal fogliame degli alberi più succosi; ma non era stato così in tutti gli allevamenti di Gilly. Il
numero dei capi di un allevamento dipendeva esclusivamente dal consumo dell'erba disponibile.
Grazie alle vaste dimensioni, Drogheda ospitava un numero di capi inferiore alle sue possibilità:
ecco perché l'erba vi era durata quel tanto di più.
La nascita degli agnelli e le settimane successive costringevano alle fatiche più impegnative di tutto
il calendario. Ogni agnello doveva essere catturato; gli si applicava un anello alla coda, gli si
marchiava un orecchio, e, se si trattava di un maschio non destinato alla riproduzione, bisognava
castrarlo. Un lavoro sudicio e abominevole, che inzuppava gli uomini di sangue, poiché esiste un
solo modo per castrare alla svelta migliaia e migliaia di agnelli: afferrare i testicoli, farli sporgere tra
le dita, staccarli con un morso e sputarli. Serrate da anelli di latta, le code degli agnelli maschi e
femmine rimaste prive a poco a poco del vitale afflusso di sangue, dapprima si gonfiavano, poi
avvizzivano e cadevano.
Erano, quelle, le più belle pecore da lana del mondo, allevate su una scala inaudita in ogni altro
paese, e con un minimo di mano d'opera. Tutto era studiato per la perfetta produzione di una lana
perfetta. C'era la rasatura: intorno alla parte posteriore di ogni pecora, la lana cresceva sudicia di
escrementi, infestata dalle mosche, nera e aggrovigliata. Si trattava di una tosatura su piccola scala,
ma di gran lunga la più sgradevole a causa del fetore e del tormento delle mosche, e veniva pagata
meglio. Poi c'era la disinfestazione: migliaia e migliaia di creature belanti e saltellanti venivano
sospinte e guidate entro un labirinto di passaggi e costrette a immergersi ripetutamente in bagni di
fenolo che le liberavano delle zecche, delle infezioni e di ogni altro parassita. E la vaccinazione: la
somministrazione di farmaci mediante enormi siringhe conficcate nella gola, per eliminare i
parassiti intestinali.
In effetti, il lavoro alle pecore non aveva mai, mai fine; una volta portato a termine uno di questi
compiti, giungeva il momento di affrontarne un altro. Le pecore venivano riunite e selezionate,
trasferite dall'uno all'altro pascolo recintato, fatte accoppiare e separate dai montoni, rasate e tosate,
disinfestate e vaccinate, macellate e spedite per essere vendute. A Drogheda, oltre alle pecore,
esisteva un migliaio di capi di sceltissimi manzi, ma le pecore erano di gran lunga più redditizie, per
cui, nei periodi buoni, l'allevamento conteneva circa una pecora ogni due acri di terreno, vale a dire
circa centoventicinquemila pecore complessivamente. Trattandosi della razza merino, non le si
vendeva mai come carne commestibile; al termine del ciclo di anni della produzione di lana merino,
gli animali venivano spediti per essere lavorati e per divenire pelli conciate, lanolina, sego e colla.
Ecco perché i classici della «letteratura della boscaglia» avevano finito con l'assumere a poco a
poco un loro significato. La lettura era diventata importante come non mai per i Cleary, isolati, a
Drogheda, dal mondo; il loro unico contatto col mondo avveniva per la magia della parola scritta.
Ma non esisteva nelle vicinanze alcuna biblioteca circolante come a Vahiné, né si poteva andare una
volta alla settimana, nella cittadina, a ritirare la posta, i giornali e a procurarsi una nuova pila di
volumi, come avevano fatto a Vahiné. Padre Ralph riempiva il vuoto saccheggiando la libreria di
Gillanbone, i suoi scaffali personali e quelli del convento, e ben presto si rese conto di avere
organizzato una vera biblioteca circolante destinata alla boscaglia, per il tramite di Bluey Williams e
dell'autocarro della posta. Quest'ultimo era continuamente carico di libri... logori volumi, mille volte
sfogliati, che percorrevano le piste tra Drogheda e Bugela, Dibban-Dibban e Braich y Pwll,
Cunnamutta e Each-Uisge, divorati da menti fameliche, fameliche di sostentamento e di evasione. I
romanzi più apprezzati venivano sempre restituiti con somma riluttanza, ma Padre Ralph e le suore
tenevano attentamente nota dei libri trattenuti più a lungo, dopodiché si ordinavano altre copie e si
addebitava il costo a Mary Carson, quale contributo all'Associazione Bibliofila della Boscaglia di
Santa Croce.
Quelli erano i tempi in cui un libro poteva considerarsi fortunato se conteneva un casto bacio, in cui
i sensi non venivano mai titillati da brani erotici, e perciò la linea di demarcazione tra volumi
destinati agli adulti e opere destinate ai fanciulli più grandicelli veniva tracciata meno severamente,
e un uomo dell'età di Paddy non doveva vergognarsi se preferiva i libri che adoravano anche i suoi
figli: Dot e il canguro, la serie Billabong, su Jim e Nora e Wally, l'immortale Noi del Never-Never,
scritto dalla signora Aeneas Gunn. In cucina, la sera, facevano a turno nel leggere a voce alta le
poesie di Banjo Paterson e di C.J. Dennis, si appassionavano alla cavalcata dell'«Uomo del fiume
nevoso», ridevano grazie a «Il tipo sentimentale» e alla sua Doreen, oppure si asciugavano di
nascosto lacrime su «La ridente Maria», di John O'Hara.
«Gli avevo scritto una lettera che, non sapendone di più, spedii ove lo avevo incontrato anni prima
lungo il Lachlan; stava tosando quando lo avevo conosciuto, e così la lettera spedii, come segue
indirizzata, a fiuto: "Per Clancy della piena".
«E la risposta venne, vergata in una scrittura inattesa
(scritta secondo me con l'unghia del pollice affondata nel catrame);
era il suo compagno di tosatura a rispondere e letteralmente lo citerò:
"Clancy nel Queensland ha andato, a fare il mandriano,
e noi ancora non sappiamo quanto sarebbe lontano."
Nella mia accesa e stramba fantasia, Clancy lo immaginavo
errare "giù per il Cooper" ove vanno i mandriani dell'ovest;
mentre le bestie sfilano adagio, Clancy dietro a esse cavalca,
cantando, ché la vita del mandriano è piacevole come i cittadini
mai sapranno; nella boscaglia incontra amici, e cordiali
le voci loro lo accolgono, nel mormorio delle brezze e del fiume,
ed egli contempla la vista meravigliosa della grande pianura assolata
e di notte lo splendore mirabile della volta in eterno stellata.l»
«Clancy della piena» era la poesia che prediligevano tutti; «il Banjo» era il loro poeta prediletto. Un
menestrello mediocre, forse, ma quelle poesie non erano mai state scritte per gli occhi dei sapienti
sofisticati; erano per il popolo, del popolo, e a quei tempi sapevano recitarle a memoria molti più
australiani di quanti conoscessero le solite tiritere scolastiche di Tennyson e Wordsworth, ispirate
dall'Inghilterra. Le distese di narcisi e i campi di asfodeli non significavano niente per i Cleary, che
vivevano in un clima nel quale né gli uni né gli altri potevano esistere.
I Cleary capivano i poeti della boscaglia meglio di tutti gli altri, perché le piene le avevano in casa e
gli spostamenti delle pecore erano una realtà sulla PDG. Esisteva una Pista delle Greggi, o
MCMCPDG, ufficiale, che si estendeva tortuosa in prossimità del fiume Barwon; territori della
Corona aperti a tutti, per trasferire gli animali da un capo all'altro della metà orientale del
continente. Nei tempi antichi i mandriani girovaghi e le loro fameliche mandrie che distruggevano
l'erba non erano graditi, e gli allevatori di manzi venivano considerati una razza odiata, poiché con i
loro carri dai tiri giganteschi di venti o persino ottanta buoi si spingevano fino al cuore dei migliori
pascoli dei proprietari di terre. Ora che esistevano piste ufficiali per il bestiame e che gli allevatori
girovaghi erano svaniti nella leggenda, i rapporti tra vagabondi e proprietari sembravano più
amichevoli.
Gli occasionali mandriani girovaghi venivano bene accolti quando si presentavano per una birra,
una chiacchierata, un pasto casalingo. A volte avevano con sé donne che guidavano malconci
calessi, con cavalli piagati tra le stanghe, e festoni di pentole, gavettini e bottiglie dondolanti e
tintinnanti tutto attorno. Erano queste le donne più allegre o più imbronciate dell'interno, sempre in
viaggio da Kununa al Paroo, da Goondiwindi a Gundagai, dal Katherine al Curry. Strane donne: non
avevano mai avuto un tetto sopra la testa né mai avevano sentito la morbidezza di un materasso di
kapok sotto la spina dorsale. Nessun uomo era mai riuscito a superarle, poiché potevano vantare la
stessa forza e resistenza della terra che scorreva sotto i loro piedi irrequieti. Selvagge come gli
uccelli sugli alberi imbevuti di sole, avevano marmocchi che si nascondevano timidi dietro le ruote
dei calessi o sgattaiolavano al riparo della catasta di legna, mentre i loro genitori cianciavano
sorseggiando tazze di tè, barattavano pettegolezzi esagerati e libri, promettevano di comunicare
vaghi messaggi a Hoopiron Collins o a Brumby Waters, o raccontavano la storia fantastica ai
Pommy il jackaroo a Gnarlunga. E, in qualche modo, si sentiva con certezza che quei vagabondi
senza radici avevano scavato una fossa, seppellito un figlio o la moglie, il marito o un compagno,
sotto un albero coolihah che non avrebbero mai dimenticato, in qualche tratto della pista delle
greggi, uguale a tutti gli altri soltanto per gli occhi di coloro che non sapevano in qual modo il cuore
potesse distinguere un singolo e particolare albero tra tanti altri nella solitudine.
Meggie ignorava persino il significato di una frase trita come «la realtà della vita», avendo le
circostanze cospirato per precluderle ogni occasione mediante la quale avrebbe potuto impararlo.
Suo padre tracciava un confine invalicabile tra i maschi e le femmine della famiglia; di argomenti
come la riproduzione e gli accoppiamenti non si parlava mai alla presenza delle donne, né gli
uomini si mostravano mai all'altro sesso se non erano vestiti di tutto punto. Quei tipi di libri che
avrebbero potuto darle un'idea della realtà non capitavano mai a Drogheda e lei non aveva amiche
della stessa età che potessero contribuire alla sua educazione. Conduceva un'esistenza imbrigliata
nel modo più assoluto dalle necessità della casa, e intorno alla casa non si svolgevano attività
sessuali di alcun genere. Le creature dello Home Paddock erano quasi letteralmente sterili. Mary
Carson non allevava cavalli, li acquistava dall'allevatore Martin King di Bugela; a meno che non si
allevassero cavalli, gli stalloni erano un fastidio, e di conseguenza a Drogheda non esistevano
stalloni. C'era, sì, un toro, un animale focoso e selvaggio, al cui recinto esisteva la proibizione
assoluta di avvicinarsi; e Meggie, inoltre, ne aveva tanta paura che non vi si avvicinò mai. I cani
venivano tenuti alla catena nei canili, e i loro accoppiamenti erano un qualcosa di scientifico e di
sorvegliato, che si svolgeva sotto gli occhi d'aquila di Paddy o di Bob, per cui risultavano anch'essi
proibiti. Né c'era il tempo di osservare i maiali, che Meggie odiava e ai quali non poteva soffrire di
portar da mangiare. In realtà, Meggie non aveva il tempo di osservare un bel niente, tranne i suoi
due fratellini. E l'ignoranza genera ignoranza; un corpo e una mente non ridestati dormono anche tra
eventi che la consapevolezza classifica automaticamente.
Subito prima del suo quindicesimo compleanno, mentre la calura estiva si stava avvicinando al
culmine che stordiva, Meggie notò macchie striate sulle sue mutande. Dopo un giorno o due
scomparvero, ma, sei settimane dopo, si ripresentarono e la vergogna si tramutò in terrore. La prima
volta, le aveva credute l'indizio di un deretano sudicio, donde la sua mortificazione, ma, quando
apparvero per la seconda volta, risultò che erano inequivocabilmente sangue. Non aveva idea da
dove venisse il sangue, ma suppose che fosse il sedere a sanguinare. La lenta emorragia scomparve
tre giorni dopo, e non ricominciò per più di due mesi; il fatto che Meggie si lavasse di nascosto le
mutande era passato inosservato, perché toccava quasi sempre a lei, del resto, fare il bucato.
L'attacco successivo causò dolori, i primi della sua vita che non fossero causati da un'indigestione.
E l'emorragia fu abbondante, molto più abbondante. Meggie si impadronì di alcuni dei pannolini,
ormai messi in disparte, dei gemelli, e cercò di legarseli sotto le mutande, terrorizzata dalla
possibilità che il sangue potesse filtrare attraverso il vestito.
La morte, quando aveva preso Hal, era stata come la visita tempestosa di qualcosa di spettrale; ma
questa cessazione graduale della sua esistenza era terrificante. Come le sarebbe stato possibile
rivolgersi a Fee o a Paddy e dar loro la notizia che stava morendo di qualche vergognosa e
inammissibile malattia delle sue parti intime? Soltanto a Frank avrebbe potuto confidare il
tormento, ma Frank era lontano e non sapeva dove trovarlo. Aveva udito le donne parlare, mentre
prendevano il tè, di tumori e cancri, morti lente e spaventose toccate a loro amiche o madri o
sorelle, e Meggie era certa che qualche sorta di proliferazione maligna le stesse divorando gli
intestini, rosicchiasse e silenziosamente avanzasse verso il suo cuore spaventato. Oh, non voleva
morire!
Le sue idee sull'aldilà erano vaghe; non immaginava nemmeno con chiarezza quale sarebbe stata la
sua condizione in quell'incomprensibile altro mondo. La religione era per Meggie una serie di leggi,
più che un'esperienza spirituale, e non poteva aiutarla affatto. Parole e frasi si urtavano alla rinfusa
nella sua coscienza in preda al panico, parole e frasi pronunciate dai genitori, dai loro amici, dalle
suore, dai preti nelle prediche, da uomini malvagi in libri che minacciavano vendetta. Lei non aveva
alcuna possibilità di venire a patti con la morte; giaceva, una notte dopo l'altra, in preda a un terrore
confuso, sforzandosi di immaginare se la morte fosse una notte eterna, o un abisso di fiamme al di
là del quale avrebbe dovuto balzare per raggiungere i campi dorati al lato opposto, o una sfera
simile all'interno di un pallone gigantesco, colmo di cori possenti e di luci attenuate attraverso un
infinito susseguirsi di finestre a vetri colorati.
Divenne molto taciturna, ma in un modo assai diverso dal distacco sereno e sognante di Stuart; i
suoi silenzi erano il gelo pietrificato di un animale paralizzato dallo sguardo del serpente. Se le
veniva rivolta la parola all'improvviso, trasaliva, se i più piccoli la reclamavano piangendo, li
coccolava in un'agonia di espiazione per averli trascurati. E ogni qualvolta aveva un raro momento
tutto per sé, correva via, fino al cimitero, da Hal, la sola persona deceduta che conoscesse.
Tutti notarono il cambiamento intervenuto in Meggie, ma lo accettarono considerandolo un aspetto
dello sviluppo, senza domandarsi che cosa implicasse lo sviluppo per lei; lei nascondeva troppo
abilmente lo sgomento. Aveva imparato bene le lezioni del passato; il suo dominio di sé era
fenomenale, il suo orgoglio formidabile. Nessuno doveva mai sapere che cosa accadeva entro di lei,
l'apparenza doveva continuare a essere impeccabile fino all'ultimo: da Fee a Frank, a Stuart, aveva
molti esempi, ed era dello stesso sangue, tutto ciò faceva parte della sua indole e del suo retaggio.
Tuttavia, man mano che Padre Ralph continuava a fare frequenti visite a Drogheda e il
cambiamento in Meggie si intensificava, passando da una graziosa metamorfosi femminile a un
soffocamento di tutta la vitalità della ragazza, la sua preoccupazione per lei divenne dapprima
cruccio, e poi timore. Uno sperpero fisico e spirituale stava avendo luogo sotto gli occhi stessi del
sacerdote; Meggie scivolava lontano da tutti loro, ed egli non poteva sopportare di vederla
tramutarsi in un'altra Fee. Il piccolo viso smunto era tutto occhi che contemplavano una qualche
prospettiva spaventosa, la pelle di un color latteo opaco, che non si abbronzava mai e non era mai
lentigginosa, stava diventando più traslucida. Se il processo fosse continuato, pensava il sacerdote,
Meggie sarebbe scomparsa, un giorno, nei propri occhi, come un serpente che si inghiotta la coda,
fino ad andare alla deriva attraverso l'universo come un raggio quasi invisibile di vitrea luce grigia,
veduto soltanto nell'angolo estremo della visuale, ove si annidano ombre e nere cose strisciano su
una parete bianca.
Ah, ma sarebbe venuto a sapere che cosa aveva, anche a costo di strapparle a forza la verità. Mary
Carson attraversava una delle sue fasi più esigenti, in quel periodo, era gelosa di ogni momento che
Padre Ralph trascorreva nella casa del capo-guardiano; soltanto l'infinita pazienza di un uomo
sottile e tortuoso riusciva a tenerle nascosta la ribellione del sacerdote contro la sua possessività.
Persino la preoccupazione che gli causava Meggie non sempre riusciva a sormontare la sua
saggezza politica, la soddisfazione trionfante che ritraeva osservando il proprio fascino agire su un
soggetto stizzoso e caparbio come Mary Carson. Mentre l'interessamento a lungo assopito per il
benessere di un'altra persona mordeva il freno e scalpitava nella sua mente, egli riconosceva
l'esistenza di un'altra entità che vi dimorava: la fredda e felina crudeltà di avere la meglio, di
prendersi gioco di una donna arrogante e dominatrice. Oh, come gli era sempre piaciuto far questo!
Il vecchio ragno non sarebbe mai riuscito a prevalere su di lui.
Un giorno, infine, riuscì a liberarsi di Mary Carson e a scovare Meggie nel cimitero, all'ombra del
pallido e per nulla bellicoso angelo vendicatore. Ne stava contemplando di sotto in su il viso placido
e sdolcinato, con un terrore distruttivo scritto sul suo viso: un contrasto squisito tra il senziente e il
non senziente, pensò Padre Ralph. Ma che cosa stava facendo lì? perché l'aveva inseguita come una
vecchia chioccia chiocciante, mentre, davvero, la cosa non era affar suo? avrebbero dovuto essere la
madre e il padre della ragazza ad accertare che cosa avesse. Ma loro non si erano accorti che le
stava succedendo qualcosa, perché non contava, per entrambi, quanto contava per lui. E inoltre, era
un sacerdote, doveva dare conforto ai solitari, ai disperati. Non sopportava di vederla infelice,
eppure rifuggiva dal modo con il quale si stava legando a lei in seguito a un accumularsi di eventi.
Stava ricavando dalla ragazza un intero arsenale di fatti e di ricordi, e aveva paura. Il suo affetto per
Meggie e l'istinto sacerdotale di offrirsi lottavano contro l'orrore di divenire necessario a una
creatura umana, e di far sì che una creatura umana divenisse necessaria a lui.
Quando lo udì camminare sull'erba, Meggie si voltò dalla sua parte intrecciando le mani in grembo
e abbassando gli occhi. Padre Ralph le sedette accanto, le braccia allacciate intorno alle ginocchia,
la sottana disposta in pieghe aggraziate, ma più aggraziata era la disinvoltura del corpo che
avvolgevano. Inutile menare il can per l'aia, decise.
«Che cosa c'è, Meggie?»
«Niente, Padre.»
«Non ti credo.»
«La prego, Padre, la prego! Non posso dirglielo!»
«Oh, Meggie! Sei di poca fede! Puoi dirmi qualunque cosa, qualunque cosa sotto il sole. Proprio per
questo mi trovo qui, perché sono un sacerdote. Sono il rappresentante eletto di Nostro Signore qui
sulla terra. Ascolto in Nome Suo, e addirittura perdono in Nome Suo. E, piccola Meggie, non esiste
niente nell'universo di Dio che Egli ed io non possiamo perdonare nel nostro cuore. Devi dirmi che
cos'hai, amor mio, perché, se qualcuno può aiutarti, quello sono io. Fino a quando vivrò cercherò di
aiutarti, di vigilare su di te. Una sorta di angelo custode, se vuoi, di gran lunga migliore di quel
pezzo di marmo, là sopra.» Riprese fiato e si sporse in avanti. «Meggie, se mi vuoi bene, dimmelo!»
Si afferrò una mano con l'altra. «Padre, sto morendo! Ho il cancro!»
Dapprima gli venne uno sfrenato desiderio di ridere; poi guardò la pelle sottile e azzurrognola, la
magrezza delle esili braccia, e lo pervase una smania spaventosa di piangere e gridare, di protestare
urlando contro quell'ingiustizia fino alla sommità del cielo. No, Meggie non avrebbe immaginato
una cosa simile senza un motivo, doveva esserci una ragione valida.
«Come lo sai, cuore mio?»
Le occorse molto tempo per dirlo, e, quando lo disse, egli dovette chinare il capo e accostarglielo
alle labbra, in una inconscia parodia dell'atteggiamento nel confessionale, con una mano che gli
nascondeva il viso agli occhi di lei, l'orecchio bello e piccolo offerto alla profanazione.
«Sono sei mesi, Padre, che è cominciato. Mi vengono dolori terribili al ventre, ma non come per
un'indigestione, e... oh, Padre!... un mucchio di sangue mi esce dal... dal sedere!»
Egli gettò la testa all'indietro, qualcosa che non era mai accaduto nel confessionale; fissò il capo
della ragazza vergognosamente chino, assalito da un così gran numero di stati d'animo da non
riuscire a mettere ordine nei propri pensieri. Un assurdo, delizioso sollievo; un'ira tanto grande
contro Fee, che avrebbe potuto ucciderla; un'ammirazione reverenziale per quella creatura così
delicata, che aveva sopportato tanto e tanto bene; e un imbarazzo spaventoso, che lo pervase in tutto
il suo essere.
Era prigioniero dei tempi tanto quanto lei. Le ragazze da poco in ogni città ove era stato, da Dublino
a Gillanbone, si avvicinavano al confessionale per bisbigliargli le loro fantasticherie come se
fossero state verità, attratte dal solo aspetto di lui che le interessasse, la sua virilità, e non disposte
ad ammettere che non fosse in loro potere eccitarla. Mormoravano di uomini che avevano
violentato ogni orifizio, di giochi proibiti con altre ragazze, di lussuria e adulteri; una o due,
dall'immaginazione più accesa, erano arrivate al punto di descrivere nei minimi particolari rapporti
sessuali con un prete. E lui ascoltava del tutto indifferente, tranne un nauseato disprezzo, poiché era
passato per i rigori del seminario, e quella particolare lezione riusciva facile a impararsi a un uomo
del suo tipo. Ma le ragazze non avevano mai, mai accennato al fenomeno segreto che le
distingueva, che le avviliva.
Per quanto si sforzasse, Padre Ralph non poté impedire alla marea rovente di diffonderglisi sotto la
pelle; Padre Ralph de Bricassart rimase immobile, con la faccia voltata e schermata dalla mano, e si
contorse nell'umiliazione del suo primo rossore.
Ma in questo modo non stava aiutando Meggie. Quando fu certo che il sangue fosse defluito dalle
gote, si mise in piedi, la sollevò e la fece sedere su un piatto basamento di marmo, ove il viso di lei
veniva a trovarsi alla stessa altezza del suo.
«Meggie, guardami. No, guardami!»
Ella alzò gli occhi ossessionati e vide che il sacerdote stava sorridendo; un sollievo incontenibile
subito le colmò l'anima. Padre Ralph non avrebbe sorriso in quel modo se lei fosse stata vicina alla
morte; sapeva benissimo quanto contava per il prete, perché lui non glielo aveva mai nascosto.
«Meggie, non stai per morire, e non hai il cancro. Non spetterebbe a me dirti che cos'hai, ma credo
che sia preferibile. Tua madre avrebbe dovuto dirtelo già da anni, avrebbe dovuto prepararti, e
davvero non riesco a immaginare perché non lo abbia fatto.»
Alzò gli occhi verso l'imperscrutabile angelo di marmo, là in alto, e si lasciò sfuggire una risatina
bizzarra, quasi strozzata. «Gesù Buono! Le cose che mi affidi!» Poi, a Meggie in attesa: «Negli anni
a venire, quando diventerai più grande e imparerai qualcosa della mentalità del mondo, potresti
essere indotta a ricordare questo giorno con imbarazzo, persino con vergogna. Ma non ricordarlo
così, questo giorno, Meggie. Non c'è assolutamente nulla di vergognoso o di imbarazzante. In
questo, come in ogni cosa che faccio, io sono semplicemente lo strumento di Nostro Signore. È la
mia sola missione su questa terra; non devo accoglierne altre. Tu eri molto spaventata, avevi
bisogno di aiuto, e Nostro Signore ti ha mandato questo aiuto nella mia persona. Ricorda soltanto
questo, Meggie. Sono il sacerdote di Nostro Signore e parlo in Nome Suo.
«A te sta succedendo soltanto quello che accade a tutte le donne, Meggie. Una volta al mese, per
parecchi giorni, perderai sangue. Di solito la cosa comincia intorno ai dodici o ai tredici anni... tu
quanti anni hai?»
«Ho quindici anni, Padre.»
«Quindici? Tu?» Scosse la testa, credendole soltanto in parte. «Be', se dici di avere questa età, devo
accettare la tua parola. In tal caso, sei in ritardo rispetto alla maggior parte delle ragazze. Ma la cosa
continuerà tutti i mesi finché non avrai circa cinquant'anni; e in certe donne è regolare come le fasi
della luna, in altre è meno prevedibile. Certe donne non sentono alcun dolore, altre soffrono molto.
Nessuno sa perché la faccenda sia così diversa da una donna all'altra. Ma la perdita di sangue ogni
mese è un indizio del fatto che sei matura. Lo sai che cosa significa "matura"?»
«Sicuro, Padre! Leggo! Significa adulta.»
«Benissimo, questo può bastare. Finché continuerai a perdere sangue, potrai avere figli. L'emorragia
è un aspetto del ciclo della procreazione. È scritto che, prima di essere scacciata dal Paradiso
Terrestre, Eva non aveva il mestruo. Il nome esatto del fenomeno è mestruazione. Avere il mestruo.
Ma quando Adamo ed Eva peccarono, Dio punì la donna più dell'uomo, perché in realtà la colpa fu
di lei, se peccarono. Aveva tentato l'uomo. Rammenti le parole della Bibbia? "Partorirai figli con
dolore." Dio voleva dire che l'avere figli si sarebbe sempre accompagnato alla sofferenza. A grandi
gioie, ma anche a grandi sofferenze. È la tua sorte, Meggie, e devi accettarla.»
Meggie non lo sapeva, ma nello stesso modo egli avrebbe prodigato conforto e aiuto a uno qualsiasi
dei suoi parrocchiani, sia pure con una partecipazione personale meno intensa; molto benevolmente,
ma senza mai identificarsi con le loro afflizioni. E di conseguenza, e forse la cosa non era poi tanto
strana, il conforto e l'aiuto di lui risultavano tanto più grandi. Come se avesse superato egli stesso
quei piccoli guai, per cui se ne poteva dedurre che sarebbero passati. E non si trattava nemmeno di
un atteggiamento conscio; nessuno di coloro i quali si rivolgevano a lui per esserne aiutati provava
mai la sensazione che li considerasse con altezzosità, o li incolpasse per le loro debolezze. Molti
sacerdoti facevano sentire i loro fedeli colpevoli, indegni o bestiali, ma non Padre Ralph. Egli li
induceva a pensare che lui fosse afflitto a sua volta da sofferenze e battaglie; sofferenze e lotte
diverse e incomprensibili, forse, ma non meno reali. Padre de Bricassart non sapeva, e non sarebbe
mai riuscito a capire, che la maggior parte del suo ascendente e del suo fascino non risiedeva nella
sua persona, ma in quel suo distacco, quasi divino, eppure molto umano.
A Meggie parlò come le parlava Frank: da pari a pari. Ma era più anziano, più saggio e di gran
lunga più colto di Frank, come confidente ispirava maggior fiducia. E come era bella la sua voce,
con il vago accento irlandese e la soavità inglese! Faceva dileguare ogni paura e ogni angoscia.
D'altro canto, lei era giovane, colma di curiosità, avida adesso di sapere tutto, e non turbata dalle
filosofie imbarazzanti di chi pone sempre in dubbio il perché. Padre Ralph era un amico, l'idolo
adorato del suo cuore, il nuovo sole nel suo firmamento.
«Perché non avrebbe dovuto dirmelo lei, Padre? Perché ha detto che avrebbe dovuto essere Ma' a
parlarmene?»
«È un argomento del quale le donne sono molto gelose. Accennare al mestruo o ai propri periodi
alla presenza di uomini o di ragazzi è una cosa che non si fa, Meggie. Deve restare esclusivamente
tra donne.»
«Perché?»
Lui scosse la testa e rise. «A essere sincero, in realtà non lo so il perché. Vorrei che non fosse così.
Ma devi credermi, è così. Non parlarne mai ad anima viva, tranne che a tua madre, e non dirle che
ne hai parlato con me.»
«Va bene, Padre, non glielo dirò.»
Era maledettamente difficile, fare in quel modo la parte di una madre. «Meggie, devi tornare a casa
e dire a tua madre che hai perduto sangue, e chiederle di spiegarti che cosa devi metterti.»
«Anche Ma' perde sangue?»
«Tutte le donne sane hanno il mestruo. Ma non più quando aspettano un bambino e finché il
bambino non è nato. In questo modo le donne capiscono di essere incinte.»
«Perché non perdono più sangue quando aspettano un bambino?»
«Non lo so. Proprio non lo so. Mi dispiace, Meggie.»
«Perché il sangue mi esce dal sedere, Padre?»
Alzò gli occhi irosamente verso l'angelo, che ricambiò sereno lo sguardo, imperturbato dalle
afflizioni delle donne. La situazione stava diventando troppo difficile per Padre Ralph. Sembrava
stupefacente che Meggie insistesse, mentre di solito era così reticente! Ciò nonostante, rendendosi
conto di essere divenuto la fonte delle sue conoscenze per tutto ciò che lei non avrebbe potuto
trovare nei libri, e poiché la conosceva troppo bene, non volle lasciar trasparire il suo imbarazzo o il
suo disagio. Meggie si sarebbe chiusa in se stessa e non gli avrebbe più domandato nulla.
Pertanto rispose con pazienza: «Non esce dal sedere, Meggie. C'è un passaggio nascosto, più avanti,
fatto per i bambini.»
«Oh! Da dove escono, vuol dire» esclamò lei. «Mi ero sempre domandata come uscissero.»
Padre Ralph sorrise, la sollevò e la mise giù dal basamento. «Ora lo sai. E sai che cos'è a fare i
bambini, Meggie?»
«Oh, sì» ella disse, in un tono di importanza, lieta di sapere almeno qualcosa. «Crescono dentro,
Padre.»
«Ma che cos'è a farli crescere?»
«Li si desidera.»
«Chi te lo ha detto?»
«Nessuno. L'ho capito per conto mio.»
Padre Ralph chiuse gli occhi e si disse che non avrebbe dovuto considerarsi un codardo se avesse
lasciato le cose come stavano. Poteva compatirla, ma non era in grado di aiutarla di più. Quel che è
troppo è troppo.
7

Mary Carson stava per compiere settantadue anni e si proponeva di offrire il più grande ricevimento
che avesse mai avuto luogo a Drogheda da cinquant'anni a quella parte. Il compleanno cadeva ai
primi di novembre, quando faceva caldo, ma una calura ancora sopportabile... almeno per la gente
di Gilly.
«Se lo ricordi bene, signora Smith!» bisbigliò Minnie. «Non se lo dimentichi! È nata in novembre,
la stronza!»
«Di che cosa va cianciando, adesso, Min?» domandò la governante. La misteriosità celtica di
Minnie irritava i suoi pur saldi nervi inglesi.
«Oh bella, significa che è una donna dello scorpione, chiaro, no? Una donna dello scorpione,
figuriamoci!»
«Non ho la più pallida idea di quello che sta dicendo, Min!»
«È il segno peggiore nel quale una donna possa nascere, cara signora Smith. Mamma mia, sono
figlie del diavolo, ecco che cosa sono!» esclamò Cat, con gli occhi tondi, facendosi il segno della
croce.
«Francamente, Minnie, voi due rasentate la follia» disse la signora Smith.
Ma l'agitazione stava crescendo e sarebbe cresciuta ancora. Il vecchio ragno, sulla sua poltrona a
conchiglia, al centro esatto della ragnatela, impartiva una sequela ininterrotta di ordini; bisognava
far questo, bisognava fare quest'altro, la tale e la tal'altra cosa dovevano essere tolte dai ripostigli, o
portate nei ripostigli. Le due cameriere irlandesi lucidarono argenterie e lavarono le migliori
porcellane Haviland, riportando la cappella a quello che era stata un tempo, un salone di
ricevimento, e preparando anche le sale adiacenti.
Intralciati, più che aiutati, dai Cleary più piccoli, Stuart e una squadra di garzoni falciarono il prato,
sarchiarono le aiuole fiorite, sparsero segatura umida sulle piastrelle spagnole delle verande, e
sfregarono con gesso ben asciutto il pavimento del salone, affinché vi si potesse danzare.
L'orchestra di Clarence O'Toole sarebbe venuta sin da Sydney, insieme a ostriche e gamberi, a
granchiolini e aragoste; parecchie donne di Gilly furono assunte temporaneamente per dare una
mano. L'intero distretto, da Rudna Hunish a Inishmurray e a Bugela e a Narrengang, era in
fermento.
Mentre nei corridoi dai pavimenti di marmo echeggiavano i rumori inconsueti dei mobili che
venivano spostati e le persone di servizio vociavano, Mary Carson si spostò dalla poltrona allo
scrittoio, mise dinanzi a sé un foglio di carta uso pergamena, intinse la penna nel calamaio e prese a
scrivere. Non ebbe alcuna esitazione, non si soffermò mai, neppure per riflettere sulla posizione di
una virgola. In quegli ultimi cinque anni aveva elaborato mentalmente ogni frase complicata, fino a
renderla assolutamente perfetta. Non le occorse molto tempo per terminare; i fogli di carta erano
due e il secondo restava per un buon quarto in bianco. Ciononostante, per un momento, una volta
completata l'ultima frase, rimase immobile sulla sedia. Lo scrittoio a coperchio avvolgibile era
situato di lato a una delle finestre, per cui, semplicemente voltando la testa, poteva guardar fuori al
di là del prato. Una risata all'esterno la indusse per l'appunto a guardar fuori, dapprima pigramente,
poi irrigidendosi nell'ira. Dio maledicesse lui e la sua ossessione!
Padre Ralph aveva insegnato a Meggie a cavalcare; sebbene figlia di contadini, non era mai montata
a cavallo finché il prete non aveva posto rimedio alla carenza. Infatti, per quanto possa sembrare
strano, le ragazze appartenenti a famiglie povere di campagnoli non cavalcavano spesso.
L'equitazione era un passatempo per le giovani ricche, sia delle campagne, sia delle città. Oh, le
ragazze della classe sociale di Meggie potevano guidare calessi e carri trainati da cavalli da tiro, o
anche trattori e talora automobili, ma cavalcavano di rado. Costava troppo consentire l'equitazione a
una figlia.
Padre Ralph aveva portato da Gilly stivaletti alla caviglia, con una fascia elastica laterale, e calzoni
da cavallerizza di tessuto spigato, gettandoli un giorno rumorosamente sul tavolo di cucina dei
Cleary. Paddy alzò gli occhi dal libro che stava leggendo dopo pranzo, blandamente sorpreso.
«Be', che roba è quella, Padre?» domandò.
«Una tenuta da cavallerizza per Meggie.»
«Cosa?» sbraitò Paddy.
«Cosa?» squittì Meggie.
«Una tenuta da cavallerizza per Meggie. Francamente, Paddy, lei è un idiota di prim'ordine!
Erediterà il più grande e ricco allevamento del Nuovo Galles del Sud, e non ha mai consentito alla
sua unica figlia di montare a cavallo! Secondo lei, come potrà occupare il posto che le compete
accanto a Miss Carmichael, a Miss Hopeton e alla signora King, tutte abili cavallerizze? Meggie
deve imparare a cavalcare, sia all'amazzone, sia come gli uomini, è chiaro? Mi rendo conto che lei è
occupatissimo, e quindi farò io stesso da maestro a Meggie, le piaccia o non le piaccia. Se questo le
impedirà di sbrigare parte delle faccende domestiche, pazienza. Per alcune ore alla settimana, Fee
dovrà semplicemente fare a meno di Meggie e non rimane altro da dire.»
Una cosa Paddy non poteva fare, discutere con un prete; Meggie imparò subito ad andare a cavallo.
Lo aveva desiderato per anni, e una volta si era azzardata timidamente a chiedere a suo padre se
fosse permesso, ma un momento dopo lui se n'era dimenticato e lei non glielo aveva più chiesto,
ritenendo che quello fosse il modo di Paddy per dire di no. Imparare sotto l'egida di Padre Ralph la
colmò di una gioia che si guardò bene dal dimostrare, perché nel frattempo la sua adorazione per il
prete si era tramutata in una infatuazione ardente, proprio tipica di una fanciulla. Pur sapendo che la
cosa era del tutto impossibile, si consentiva il lusso di sognare di lui, di domandarsi che cosa
avrebbe provato essendo stretta fra le sue braccia, accogliendo il suo bacio. Più in là i sogni di lei
non potevano andare, in quanto non aveva idea di quel che veniva dopo, o forse ignorava persino
che c'era qualcosa dopo. E, se anche sapeva che era peccaminoso sognare in quel modo a proposito
di un sacerdote, le riusciva impossibile, a quanto pareva, imporsi di evitarlo. Il massimo che le
riuscisse era accertarsi nel modo più assoluto di non lasciargli capire quale corso inammissibile
stessero seguendo i suoi pensieri.
Mentre Mary Carson guardava dalla finestra del salotto, Padre Ralph e Meggie vennero avanti dalle
scuderie, situate al lato opposto della grande dimora rispetto alla casa del capo-guardiano. Gli
uomini dell'allevamento montavano scarni cavalli che non avevano mai veduto l'interno di una
scuderia in tutta la loro esistenza, e si limitavano ad aggirarsi nei recinti quando vi venivano
rinchiusi, oppure galoppavano sull'erba dello Home Paddock quando erano lasciati a riposo. Ma
esistevano scuderie a Drogheda, sebbene ormai Padre Ralph fosse il solo a servirsene. Mary Carson
vi teneva due purosangue riservati esclusivamente al sacerdote; i ronzini ossuti non facevano per
lui. Quando le aveva chiesto se anche Meggie potesse approfittare delle cavalcature, non le era stato
possibile dir di no. La ragazza era sua nipote, e lui aveva ragione. Avrebbe dovuto essere in grado di
cavalcare in modo decente.
Mary Carson si era augurata di poter opporre un rifiuto, o, altrimenti, di poter cavalcare insieme a
loro. Ma non poteva rifiutare, né riusciva ormai più a issarsi a cavallo. E la esasperò vederli adesso,
mentre attraversavano il prato affiancati, l'uomo con i calzoni al ginocchio, gli stivali alti e la
camicia bianca, aggraziato come un ballerino, la fanciulla, in calzoni da cavallerizza, esile e
maschilmente bella. Sembrava racchiuderli un alone di disinvolta amicizia; e, per la milionesima
volta, Mary Carson si domandò come mai nessuno, tranne lei, ne deplorasse gli stretti, quasi intimi
rapporti. Paddy li giudicava una cosa meravigliosa, Fee — tonta qual era! — non diceva niente
come sempre, e i ragazzi consideravano i due come fratello e sorella. Forse, lei vedeva ciò che
sfuggiva a tutti gli altri perché amava ella stessa Ralph de Bricassart? Oppure la sua era soltanto
immaginazione e in realtà non esisteva niente tra i due, tranne l'amicizia di un uomo sui
trentacinque anni per una ragazza non ancora del tutto sviluppata? Storie! Nessun uomo di
trentacinque anni, nemmeno Ralph de Bricassart, avrebbe potuto non accorgersi della rosa in
boccio. Nemmeno Ralph de Bricassart? Ah! Soprattutto Ralph de Bricassart! Nulla sfuggiva mai a
quell'uomo.
Le stavano tremando le mani; dalla penna, gocce d'inchiostro blu scuro caddero in fondo al foglio.
Le dita deformate dall'artrite tolsero un altro foglio dalla casella e riscrissero le parole con la stessa
sicurezza della prima volta. Poi si mise pesantemente in piedi e trasferì la propria mole verso la
porta.
«Minnie! Minnie!» gridò.
«Che il Signore ci aiuti, è lei!» si udì con chiarezza la voce della cameriera, dal salone di
ricevimento. Poi la faccia lentigginosa e senza età fece capolino. «In che cosa posso esserle utile,
cara signora Carson?» domandò Minnie, meravigliata perché la vecchia non aveva chiamato la
signora Smith servendosi del campanello, come faceva sempre.
«Va' a cercare l'uomo che ripara i recinti e Tom. Mandali da me immediatamente.»
«Non dovrei prima riferirlo alla signora Smith?»
«No! Limitati a fare come ti ho detto, ragazza!»
Tom, il giardiniere, era un uomo anziano e raggrinzito; un tempo, vagabondava lungo le piste con
fagotto e gavettino, e, diciassette anni prima, aveva accettato di lavorare lì provvisoriamente; si era
innamorato dei giardini di Drogheda e non sopportava l'idea di abbandonarli. Il riparatore di recinti,
un girovago come tutti quelli della sua razza, era stato distolto dal lavoro interminabile di tendere
filo spinato tra un palo e l'altro, per riparare i paletti bianchi cui venivano legati i cavalli, nella
dimora, in vista del ricevimento. Intimoriti dall'ordine inatteso, entrambi gli uomini giunsero pochi
minuti dopo e rimasero impalati nei loro calzoni da lavoro, bretelle e canottiera di flanella, rigirando
nervosamente il cappello tra le mani.
«Sapete scrivere tutti e due?» domandò la signora Carson.
Annuirono, deglutirono.
«Bene. Voglio che mi guardiate mentre firmerò questo pezzo di carta, e che poi scriviate i vostri
nomi e indirizzi subito sotto la mia firma. Avete capito?»
Annuirono.
«Accertatevi di firmare come fate sempre, e di scrivere in stampatello l'indirizzo. Non m'importa se
si tratta di un fermo posta o qualunque altra cosa, purché consenta di rintracciarvi.»
I due uomini la osservarono mentre firmava. Tom si fece avanti, fece scricchiolare faticosamente la
penna sulla carta, poi il riparatore di recinti scrisse: «Chas. Hawkins», in grandi lettere rotonde, e un
recapito a Sydney. Mary Carson stette a guardarli attentamente: quando ebbero finito, diede a
ciascuno di loro una banconota rossiccia da dieci sterline e li congedò con l'aspra ingiunzione di
tenere la bocca chiusa.
Meggie e il sacerdote erano scomparsi da un pezzo. Mary Carson sedette pesantemente allo
scrittoio, avvicinò a sé un altro foglio di carta e ricominciò a scrivere. Questa volta non scrisse con
la stessa disinvoltura e scorrevolezza di prima. Più e più volte si interruppe per riflettere, poi, con le
labbra stirate in un sorriso senz'allegria, continuò. Sembrava che avesse molte cose da dire, poiché
le parole erano pigiate, le righe molto vicine le une alle altre, e, ciò nonostante, le occorse un
secondo foglio. In ultimo, rilesse quanto aveva scritto, unì tutti i fogli, li piegò e li infilò in una
busta, che sigillò con ceralacca rossa.
Soltanto Paddy, Fee, Bob, Jack e Meggie andavano al ricevimento; Hughie e Stuart erano incaricati
di badare ai più piccoli, non senza un grande e segreto sollievo da parte loro. Per una volta tanto in
vita sua, Mary Carson aveva allentato i cordoni della borsa; tutti sfoggiavano vestiti nuovi, i
migliori che si potessero trovare a Gilly.
Paddy, Bob e Jack erano impacciatissimi sotto sparati inamidati, colletti alti e cravatte bianche a
farfalla, giacche nere a coda, pantaloni neri, panciotti bianchi. Sarebbe stato un ricevimento molto
protocollare, cravatta bianca e giacca a coda per gli uomini, abito lungo da sera per le donne.
Il vestito di Fee era di crêpe, in una sfumatura particolarmente accesa di blu-grigio, e le donava
molto, scendendo fino al pavimento in pieghe soffici, con una scollatura profonda ma le maniche
strette ai polsi, e una grande abbondanza di perline, press'a poco nello stile della Regina Mary. Al
pari di quella imperiosa dama, aveva i capelli raccolti in una acconciatura alta e ravviati all'indietro,
e l'emporio di Gilly le aveva fornito una collana e orecchini di perle false che avrebbero ingannato
tutti se non fossero state esaminate attentamente da vicino. Un magnifico ventaglio di piume di
struzzo, tinte nello stesso colore del vestito, completava l'insieme, non così vistoso come poteva
sembrare a prima vista. Faceva insolitamente caldo e, alle sette di sera, la temperatura superava
ancora i trentotto gradi.
Quando Fee e Paddy uscirono dalla loro camera, i ragazzi rimasero a bocca aperta. Da quando erano
nati, non avevano mai veduto i genitori così regalmente belli, così diversi. Paddy dimostrava tutti i
suoi sessantun anni, ma con tanta distinzione che avrebbe potuto essere uno statista; mentre Fee
sembrava all'improvviso avere dieci anni meno dei suoi quarantotto, ed era bella, piena di vita e
sorrideva magicamente. Jims e Patsy scoppiarono in lacrime e strillarono, rifiutandosi di guardare
Ma' e Pa' finché non avessero ripreso il loro aspetto normale, e, nello scompiglio e nella
costernazione, la dignità venne dimenticata. Ma' e Pa' si comportarono come avevano sempre fatto e
ben presto i gemelli sorrisero ammirati.
Ma tutti fissarono Meggie più a lungo di ogni altro. Forse ricordando la sua adolescenza e irritata
perché tutte le altre signorine invitate avevano ordinato i vestiti a Sydney, la sarta di Gilly si era
impegnata a fondo con il vestito di Meggie. Era senza maniche e aveva una scollatura profonda
drappeggiata, tale da destare i dubbi di Fee, ma c'erano state le suppliche di Meggie e le
assicurazioni della sarta che tutte le ragazze avrebbero indossato press'a poco lo stesso modello...
voleva forse che sua figlia venisse derisa perché vestiva alla campagnola? E così Fee aveva ceduto.
Di crêpe georgette, il vestito era scivolato in vita, ma con una fascia della stessa stoffa sui fianchi.
Di un grigio-rosa chiaro, aveva la tinta che a quei tempi veniva chiamata cenere di rose; tra tutte e
due, la sarta e Meggie lo avevano ricamato con minuscoli boccioli di rosa. Inoltre, Meggie si era
fatta tagliare i capelli corti il più possibile secondo la moda «à la garçonne» che stava cominciando
a diffondersi anche tra le ragazze di Gilly; li aveva un po' troppo ricciuti, naturalmente, ma le
stavano meglio corti che lunghi.
Paddy aprì la bocca, sul punto di protestare a gran voce perché non era più la sua piccola Meggie,
ma poi la richiuse senza aver pronunciato parola; la scenata con Frank alla canonica, tanto tempo
prima, gli era servita di lezione. No, non poteva costringerla a restare una ragazzina in eterno; era
una giovane donna, intimidita dalla trasformazione stupefacente che lo specchio le aveva mostrato.
Perché rendere la situazione ancor più difficile?
Le tese la mano, sorridendo con tenerezza. «Oh, Meggie, sei adorabile! Vieni, ti farò io stesso da
accompagnatore, e Bob e Jack accompagneranno tua madre.»
Aveva diciassette anni meno un mese esatto, e, per la prima volta in vita sua, Paddy si sentì
realmente vecchio. Ma era il tesoro del suo cuore; niente doveva rovinarle il primo ricevimento.
Si diressero adagio a piedi verso la dimora, di gran lunga prima degli altri invitati; dovevano cenare
con Mary Carson ed essere presenti per accogliere gli ospiti insieme a lei. Nessuno voleva avere le
scarpe sudicie e un chilometro e mezzo sulla polvere di Drogheda li costrinse a una sosta nella
cucina per lucidarsi le scarpe e spazzolar via la polvere dal fondo dei calzoni e dagli strascichi dei
vestiti.
Padre Ralph indossava la tonaca come sempre; nessun abito da sera avrebbe potuto donargli quanto
quella veste dal taglio severo, lievemente svasata, con gli innumerevoli bottoncini di stoffa nera
dall'orlo al colletto, e la fascia da monsignore orlata di porpora.
Mary Carson aveva deciso di indossare un vestito di seta bianca, pizzo bianco e bianche piume di
struzzo. Fee la fissò stupidamente, strappata alla sua consueta indifferenza. Era così assurdamente
nuziale, così grossolanamente inadatto... perché, in nome del Cielo, si era agghindata come una
vecchia zitella impiastricciata di belletti che recita la parte della sposina? In quegli ultimi tempi era
ingrassata moltissimo, la qual cosa non migliorava la situazione.
Ma Paddy parve non notare alcunché di buffo; si fece avanti a gran passi per afferrare le mani della
sorella, sorridendo radioso. Che caro uomo era, pensò Padre Ralph, osservando la scenetta, in parte
divertito, in parte distaccato.
«Ah, Mary! Come stai bene! Sembri una ragazza!»
In realtà, era quasi identica alla famosa fotografia della Regina Vittoria, scattata non molto tempo
prima della sua morte. Le due rughe profonde continuavano ad affondare ai lati del naso imperioso,
la bocca caparbia era compressa in una piega indomabile, gli occhi, lievemente sporgenti e glaciali,
fissavano senza batter ciglio Meggie. Gli splendidi occhi di Padre Ralph passarono dalla nipote alla
zia, e poi di nuovo alla nipote.
Mary Carson sorrise a Paddy e gli mise la mano sul braccio. «Puoi accompagnarmi a tavola,
Padraic. Padre de Bricassart farà da cavaliere a Fiona, e i ragazzi dovranno accontentarsi di avere
Meghann tra loro.» Voltò la testa, guardando Meggie oltre la spalla. «Ballerai questa sera,
Meghann?»
«È troppo giovane, Mary, non ha ancora diciassette anni» si affrettò a dire Paddy, ricordando
un'altra sua manchevolezza come genitore; a nessuno dei suoi figli era stato insegnato a ballare.
«Che peccato» disse Mary Carson.
Fu un ricevimento splendido, sontuoso e brillante, o almeno, questi risultarono essere gli aggettivi
più sbandierati. C'era Royal O'Mara, venuto da Inishmurray, lontana trecentoventi chilometri;
l'ospite arrivato più da lontano, anche se non di molto, con la moglie, i figli e l'unica figlia. La gente
di Gilly non esitava a percorrere trecento chilometri per andare ad assistere a una gara di cricket,
figurarsi poi una festa. C'era Duncan Gordon, di Each-Uisge; nessuno era mai riuscito a persuaderlo
a spiegare perché avesse chiamato il suo allevamento, così lontano dall'oceano, con le parole
gaeliche che significano cavalluccio marino. C'era Martin King, con la moglie, il figlio Anthony e
consorte; Martin era stato il primo «squatter», il primo grande allevatore di ovini, a Gilly, dato che
Mary Carson, essendo donna, non poteva essere chiamata così. C'era Evan Pugh, di Braich y Pwll,
un nome che nel distretto pronunciavano Brakeypull. C'erano Dominic O'Rourke di Dibban-Dibban,
Horry Hopeton, di Beel-Beel, e decine di altri invitati.
Tutti cattolici, e pochi con nomi anglosassoni; si suddividevano, quasi in ugual misura, in irlandesi,
scozzesi e gallesi. No, non potevano sperare nella home rule in Inghilterra, né, se cattolici, nella
Scozia o nel Galles, in molta simpatia da parte dei protestanti locali, ma lì, nelle migliaia di
chilometri quadrati intorno a Gillanbone, potevano fare sberleffi ai lord inglesi, ed erano padroni di
tutto quel che vedevano; Drogheda, la proprietà più vasta, aveva una superficie maggiore di quella
di certi principati europei. Prìncipi monegaschi, duchi del Liechtenstein, attenzione! Mary Carson
era più grande. E così, piroettarono ai ritmi dei valzer suonati dall'orchestra di Sydney e
osservarono con indulgenza i loro figli ballare il charleston, gustarono le tartine all'aragosta e le
ostriche ghiacciate, bevvero champagne francese vecchio di quindici anni o lo Scotch di puro malto,
vecchio di dodici anni. A dire il vero, avrebbero preferito di gran lunga mangiare cosciotto d'agnello
arrosto e manzo conservato sotto sale e bere il fortissimo ed economico rum Bundaberg o la birra
amara Grafton alla spina. Ma era piacevole sapere che potevano disporre delle cose migliori della
vita.
Sì, c'erano gli anni magri. E molti. Gli utili della lana venivano prudentemente tesoreggiati negli
anni buoni, per compensare le perdite di quelli cattivi, poiché nessuno era in grado di prevedere la
pioggia. Ma quello era un periodo favorevole, continuava a esserlo da qualche tempo, e a Gilly
esistevano poche possibilità di spendere. Oh, per chi nasceva nelle pianure di terra nera del Grande
Nord-ovest, il mondo non vantava luogo altrettanto bello. Non si sognavano neppure pellegrinaggi
nostalgici per rivedere la patria; la patria non aveva fatto niente per loro, tranne discriminarli a
causa della loro fede religiosa, mentre l'Australia era un paese troppo cattolico per discriminare. E il
Grande Nord-ovest era la vera patria.
Inoltre, quella sera, i conti li pagava Mary Carson. E poteva senz'altro permetterselo. Correvano
voci secondo le quali avrebbe potuto comprare e vendere il Re d'Inghilterra. Aveva investito
nell'acciaio, nell'argento, nel piombo e nello zinco, nel rame e nell'oro, aveva investito in un
centinaio di cose diverse, e quasi sempre in quelle attività che fruttavano denaro, letteralmente e
metaforicamente. Drogheda aveva smesso da un pezzo di essere la fonte principale dei suoi redditi;
ormai non era altro che un hobby redditizio.
Durante la cena, Padre Ralph non rivolse direttamente la parola a Meggie, né gliela rivolse in
seguito; la ignorò volutamente per tutta la sera. Addolorati, gli occhi di lei lo cercavano ogni volta
che veniva a trovarsi nel salone di ricevimento. Conscio di quegli sguardi, andava a fermarsi di
fronte alla sua sedia e a spiegarle che non sarebbe stato di alcun giovamento per la reputazione di
entrambi se avesse avuto nei suoi riguardi più premure che, per esempio, per Miss Carmichael, Miss
Gordon o Miss O'Mara. Al pari di Meggie, non ballava, e, come Meggie, sentiva molti sguardi su di
sé; erano senz'altro le due persone più belle del salone.
Una metà di lui odiava, quella sera, l'aspetto della ragazza, i capelli corti, il bel vestito, le graziose
scarpette di seta color cenere di rose con i tacchi alti cinque centimetri; stava crescendo di statura e
cominciava ad avere forme molto femminili. L'altra metà di lui si sentiva orgogliosissima per il
fatto che Meggie lasciava in ombra tutte le altre fanciulle. Miss Carmichael aveva un aspetto molto
nobile, ma non possedeva il particolare splendore di quei capelli; Miss King poteva vantare squisite
trecce bionde, ma non quel corpo flessuoso; Miss Mackail aveva un corpo stupefacente, ma il viso
ricordava un cavallo che rosicchia una mela attraverso una rete metallica. Comunque, in generale, la
reazione di Padre Ralph era quella di un uomo deluso, e accompagnata dal desiderio tormentoso di
sfogliare all'indietro il calendario. Non voleva che Meggie crescesse, voleva la ragazzina da poter
trattare come un piccolo tesoro. Sulla faccia di Paddy intravide un'espressione che rispecchiava i
suoi stessi pensieri, e sorrise debolmente. Che beatitudine sarebbe stata poter rivelare, almeno una
volta nella vita, i suoi sentimenti! Ma l'abito, gli insegnamenti ricevuti e la discrezione, tutto questo
era troppo radicato.
Man mano che le ore passavano, le donne divennero sempre più disinvolte, dallo champagne e dal
whisky si passò al rum e alla birra e il ricevimento si tramutò in qualcosa di simile a un ballo nel
magazzino della lana. Alle due del mattino soltanto la totale assenza di braccianti e di operai riuscì a
distinguere la festa dai consueti divertimenti del distretto di Gilly, che erano prettamente
democratici.
Paddy e Fee si trovavano ancora lì, ma, a mezzanotte in punto, Bob e Jack se ne erano andati con
Meggie. Né Fee né Paddy lo avevano notato; si stavano divertendo. Se i loro figli non sapevano
ballare, loro conoscevano quell'arte, e ballavano; quasi sempre insieme, e a Padre Ralph, che li
osservava, parvero assai più in sintonia l'uno con l'altra, forse perché i momenti in cui avevano
modo di rilassarsi e di godersi reciprocamente erano rari. Non ricordava di averli mai veduti senza
almeno un bambino tra i piedi, e si disse che doveva essere penoso per i genitori di nidiate
numerose non poter mai avere momenti di solitudine tranne che in camera da letto, ove era
comprensibile che pensassero a cose diverse dalla conversazione. Paddy era sempre allegro e
gioviale, Fee, quella sera, splendeva, quasi letteralmente, e quando Paddy, per cortesia, invitava a
ballare la moglie di qualche allevatore, a lei non mancavano i cavalieri impazienti; c'erano molte
donne di gran lunga più giovani che languivano sulle sedie tutto intorno al salone.
Tuttavia, i momenti a disposizione di Padre Ralph per osservare la coppia Cleary divennero limitati.
Sentendosi ringiovanito di dieci anni dopo aver veduto Meggie andar via, divenne molto più
animato e sbalordì le signorine Hopeton, Mackail, Gordon e O'Mara ballando - ed estremamente
bene - il blackbottom con Miss Carmichael. Ma in seguito invitò tutte le ragazze libere nel salone,
anche la povera Miss Pugh, alquanto bruttina, e siccome, ormai, tutti erano completamente rilassati
e trasudavano benevolenza, nessuno criticò menomamente il sacerdote. Anzi, il suo zelo e la sua
compitezza destarono molta ammirazione e causarono commenti favorevoli. Nessuno poteva dire
che sua figlia non aveva avuto modo di ballare con Padre de Bricassart. Certo, se non si fosse
trattato di un ricevimento privato, egli non avrebbe potuto avvicinarsi di un passo alla pista da ballo;
ma era molto simpatico vedere un così bell'uomo divertirsi davvero una volta tanto.
Alle tre del mattino, Mary Carson si alzò e sbadigliò. «No... non interrompete la festa! Se mi sento
stanca - come infatti è — posso andare a coricarmi, e mi propongo di farlo. Ma c'è da mangiare e da
bere in abbondanza, l'orchestra è stata assunta per suonare fino a quando qualcuno avrà voglia di
dedicarsi alle danze, e un po' di strepito potrà soltanto farmi arrivare più in fretta nel mondo dei
sogni. Padre, le spiacerebbe aiutarmi a salire le scale, per favore?»
Una volta uscita dal salone di ricevimento, non si diresse verso il maestoso scalone, ma condusse il
sacerdote nel suo salotto, appoggiandoglisi pesantemente al braccio. La porta era chiusa a chiave.
Mary Carson aspettò, mentre lui si serviva della chiave che gli aveva dato, poi lo precedette nella
stanza.
«È stata una bella festa, Mary.»
«L'ultima.»
«Non dica così, mia cara.»
«Perché no? Sono stanca di vivere, Ralph, e ora mi fermerò.» Gli occhi duri lo deridevano. «Ne
dubita? Per più di settant'anni ho sempre fatto esattamente quello che volevo fare, e quando volevo
farlo, per cui, se la Morte crede di poter scegliere il momento della mia dipartita, si sbaglia di
grosso. Morirò nel momento che sceglierò io, e non si tratterà neppure di suicidio. È la nostra
volontà di vivere a tenerci su questa terra, Ralph; non è difficile morire, se davvero lo desideriamo.
Sono stanca e voglio fermarmi. È molto semplice.»
Anche lui era stanco; non di vivere, a dire il vero, ma delle interminabili apparenze, del clima, della
mancanza di amici congeniali, di se stesso. La stanza era fiocamente illuminata da un'alta lampada a
petrolio, di inestimabile vetro rubino, che proiettava trasparenti ombre cremisi sulla faccia di Mary
Carson, facendo emergere dall'ossatura ostinata un'espressione in qualche modo ancor più diabolica.
Al prete dolevano i piedi e la schiena, da molto tempo non aveva più ballato tanto, sebbene fosse un
suo puntiglio tenersi sempre aggiornato con le mode più recenti. Età trentacinque anni, un
monsignore di campagna, ma come potere nella Chiesa? Poteva considerarsi finito prima ancora di
aver cominciato. Oh, i sogni della gioventù! E l'imprudenza della lingua dei giovani, la focosità
dell'indole dei giovani! Non era stato forte abbastanza per superare la prova. Ma non avrebbe
commesso mai più lo stesso errore. Mai, mai...
Si agitò, irrequieto, sospirò. A che cosa sarebbe servito? L'occasione non si sarebbe ripresentata mai
più. Era tempo che affrontasse la realtà, era tempo che smettesse di sognare e sperare.
«Ricorda quello che le dissi, Ralph, che l'avrei battuta?»
La voce rauca della vecchia lo strappò alla fantasticheria indotta dalla stanchezza. Guardò Mary
Carson e sorrise.
«Mary cara, non dimentico mai niente di quello che lei mi dice. Che cosa avrei fatto senza di lei, in
questi ultimi sette anni, non lo so. La sua intelligenza, il suo spirito, la sua intuizione...»
«Se fossi stata più giovane, l'avrei conquistata in un modo diverso, Ralph. Lei non saprà mai quanto
ho desiderato gettar fuori della finestra trent'anni della mia vita. Se il demonio si fosse presentato a
me e mi avesse proposto di comprarmi l'anima in cambio della giovinezza, non avrei esitato un
secondo a venderla, né avrei stupidamente deplorato il baratto come quell'idiota del vecchio Faust.
Ma il demonio non esiste. Davvero non riesco a credere in Dio o nel demonio, sa. Non ho mai
veduto un solo briciolo di prova della loro esistenza. E lei?»
«Nemmeno io. Ma la convinzione non poggia sulla prova dell'esistenza, Mary. Poggia sulla fede, e
la fede è la pietra di paragone della Chiesa. Senza la fede c'è il nulla.»
«Una dottrina molto effimera.»
«Forse. La fede è innata nell'uomo e nella donna, credo. Per me si tratta di una lotta costante, lo
ammetto, ma non mi arrenderò mai.»
«Mi piacerebbe distruggerla.»
Gli occhi azzurri di lui, resi grigi dalla luce, risero. «Oh, mia cara Mary! Lo so, questo.»
«Ma sa il perché?»
Una tenerezza terrificante si insinuò contro di lui, quasi entro di lui, ma egli si batté contro di essa,
fieramente. «So il perché, Mary, e, mi creda, sono spiacente.»
«A parte sua madre, quante donne l'hanno amata?»
«Mi domando se mia madre mi amasse. In ogni modo, finì con l'odiarmi. Come quasi tutte le donne.
Il mio nome avrebbe dovuto essere Ippolito.»
«Ohhhhh! Questo mi dice molto!»
«Quanto ad altre donne, credo che soltanto Meggie... Ma è una ragazzina. Probabilmente non
sarebbe un'esagerazione affermare che centinaia di donne mi hanno desiderato; ma amarmi? Ne
dubito moltissimo.»
«Io l'ho amata» disse lei, pateticamente.
«No, non è vero. Sono lo stimolo della sua vecchiaia, ecco tutto. Quando mi guarda, le rammento
quello che non può più fare, a causa dell'età.»
«Si sbaglia. L'ho amata. Dio, quanto! Crede che i miei anni lo impediscano, automaticamente?
Bene, Padre de Bricassart, mi consenta di dirle una cosa. Entro questo stupido corpo sono ancora
giovane... continuo a sentire, continuo a desiderare, continuo a sognare; continuo a scalciare e a
ribellarmi contro le restrizioni. La vecchiaia è la vendetta più atroce che il nostro Dio vendicativo ci
infligge. Perché non fa invecchiare anche la mente?» Si appoggiò alla spalliera della poltrona e
chiuse gli occhi, scoprendo irosamente i denti. «Andrò all'inferno, naturalmente. Ma, prima di
andarci, spero di poter avere il modo di dire al Signore che razza di Dio perfido e malevolo, che
pietosa parodia di Dio egli sia!»
«È rimasta vedova troppo a lungo. Dio le aveva dato la libertà di scelta. Avrebbe potuto rimaritarsi.
Se ha deciso di non riprendere marito, e, di conseguenza, è rimasta intollerabilmente sola, la colpa è
sua, non di Dio.»
Per un momento non disse nulla, le mani avvinghiate con forza ai braccioli della poltrona; poi
cominciò a rilassarsi e aprì gli occhi. Splendettero rossastri nella luce della lampada, ma senza
lacrime; con qualcosa di più duro, di più brillante. Egli trattenne il respiro e si sentì impaurito.
Sembrava un ragno.
«Ralph, sul mio scrittoio c'è una busta. Vuole portarmela, per favore?»
Indolenzito e spaventato, si alzò, si avvicinò allo scrittoio, prese la lettera e l'adocchiò incuriosito.
Mancava l'indirizzo, ma era stata ben sigillata sul retro con ceralacca rossa e il sigillo di lei, la testa
d'ariete e la grande lettera «D». Le portò la busta e gliela porse, ma lei lo invitò con un gesto a
sedersi e non la prese.
«È per lei» disse, e ridacchiò. «Lo strumento del suo destino, Ralph, ecco che cos'è. La mia ultima e
più efficace stoccata, nella nostra lunga battaglia. Che peccato ch'io non possa essere qui a vedere
cosa accadrà! Ma so quello che accadrà, perché la conosco. La conosco molto meglio di quanto lei
creda. Insopportabile presunzione! Entro quella busta si trova il fato della sua vita e dell'anima sua.
Devo perderla a favore di Meggie, ma mi sono accertata che anche lei non possa averla.»
«Perché odia tanto Meggie?»
«Gliel'ho già detto una volta. Perché lei, Ralph, l'ama.»
«Non in questo senso! È la bambina che non potrò mai avere, la rosa della mia vita. Meggie è
un'idea, Mary, un'idea!»
Ma la vecchia rise beffarda. «Non voglio parlare della sua preziosa Meggie! Non ci rivedremo mai
più, e pertanto non voglio perdere tempo in sua compagnia parlando di lei. La lettera. Deve
giurarmi sui suoi voti di sacerdote che non l'aprirà finché non avrà veduto personalmente le mie
spoglie, ma poi dovrà aprirla immediatamente, prima di seppellirmi. Lo giuri!»
«Non c'è alcun bisogno di giurare, Mary. Farò come mi chiede.»
«Me lo giuri, o riprenderò la lettera!»
Il prete alzò le spalle. «Sta bene, allora. Glielo giuro sui miei voti sacerdotali. Giuro di non aprire la
lettera finché non l'avrò veduta morta, e giuro di aprirla prima che lei venga sepolta.»
«Bene, bene!»
«Mary, la prego, non stia a tormentarsi. Questa è soltanto una sua fantasticheria, niente di più.
Domattina ne riderà.»
«Non vedrò il mattino. Morirò stanotte; non sono così debole da essere schiava del piacere di
rivederla. Che caduta nella banalità! E ora me ne andrò a letto. Vuole accompagnarmi fino in cima
alle scale?»
Non le credeva, ma si rese conto che sarebbe stato inutile discutere e che il suo stato d'animo non
era tale da poter essere distratto con l'allegria. Dio soltanto decideva quando era il momento di
morire, a meno che una persona, avvalendosi del libero arbitrio concesso da Lui, non si togliesse la
vita. Ed ella aveva detto che non intendeva far questo. Per conseguenza, l'aiutò a salire, ansimante,
le scale, e, quando si trovarono in cima, prese le mani di lei tra le sue e si chinò per baciargliele.
Mary Carson le respinse. «No, non questa sera. Sulla bocca, Ralph! Mi baci sulla bocca come se
fossimo amanti!»
Alla luce vivida della lumiera, accesa per il ricevimento con quattrocento candele, ella vide il
disgusto sulla faccia di lui, l'istintivo indietreggiare; e in quel momento volle morire, volle morire
così intensamente da non poter più aspettare.
«Mary, sono un sacerdote! Non posso!»
La vecchia rise stridula, lugubremente. «Oh, Ralph, che impostore è lei! Un falso uomo, un falso
sacerdote! E pensare che una volta ha avuto la temerarietà di propormi di fare all'amore con lei! Era
proprio così sicuro che avrei rifiutato? Come vorrei non aver detto di no! Darei l'anima per vedere
come si sarebbe districato, se potessimo far tornare indietro quella notte! Impostore, impostore,
impostore! Non è altro che questo, Ralph! Un impostore, inutile impostore! Un uomo impotente, e
un prete impotente! Io credo che lei non riuscirebbe a farselo drizzare e a tenerlo ritto nemmeno per
la Vergine Benedetta! È mai riuscito a farselo drizzare, Padre de Bricassart? Impostore!»
Fuori, non era ancora l'alba, né si intravedeva la luce tenue che la precede. L'oscurità gravava
soffice, densa e molto calda su Drogheda. Gli invitati stavano diventando chiassosi all'estremo; se vi
fossero stati vicini intorno alla dimora, avrebbero chiamato già da un pezzo la polizia. Qualcuno
stava vomitando abbondantemente sulla veranda, e, sotto un rado cespuglio, si trovavano due
sagome allacciate. Padre Ralph evitò l'uomo che vomitava e gli amanti e si inoltrò silenziosamente
sul prato primaverile appena falciato, in preda a un tale tormento mentale da non sapere dove stesse
andando e da non curarsene. Sapeva soltanto di volersi allontanare da lei, lo spaventoso vecchio
ragno persuaso di filare il bozzolo della propria morte in quella notte squisita. A quell'ora
antelucana, la calura non era spossante; una brezza debole e greve smuoveva l'aria, nella quale si
insinuavano languidi profumi di boronia e di rose, e regnava il silenzio celestiale che soltanto le
latitudini tropicali e subtropicali possono conoscere. Oh, Dio, essere vivo, essere realmente vivo!
Abbracciare la notte, e vivere, ed essere libero!
Si soffermò al lato opposto del prato e, immobile, alzò gli occhi al cielo, una ricerca istintiva, aerea,
di Dio. Sì, lassù, in qualche punto, tra gli ammiccanti puntini di luce così pura e ultraterrena; che
cosa significava il cielo notturno? Che la palpebra azzurra del giorno veniva sollevata, e all'uomo
era consentito intravedere l'eternità? Nulla, tranne il contemplare lo spazio disseminato di stelle,
poteva persuadere un uomo che l'eternità e Dio esistevano.
Mary ha ragione, naturalmente. Un impostore, un totale impostore. Né prete, né uomo. Soltanto
qualcuno che vuole sapere come essere l'una cosa e l'altra. No! Non tutte e due! Prete e uomo non
possono coesistere... essere un uomo significa non essere un sacerdote. Perché ho lasciato che i
piedi mi si impigliassero nella sua ragnatela? Il veleno di Mary è forte, forse più forte di quanto io
supponga. Che cosa c'è nella lettera? Come è tipico da parte sua adescarmi! Fino a che punto sa, e
fino a che punto si limita a supporre? Ma che cosa c'è da sapere o da supporre? Soltanto futilità e
solitudine. Dubbio, sofferenza. Sempre sofferenza. Eppure ti sbagli, Mary. Posso farmelo drizzare.
È solo che non voglio, che ho impiegato anni per dimostrare a me stesso come si possa tenerlo sotto
controllo, dominarlo, soggiogarlo. Infatti, farlo drizzare è l'attività di un uomo, e io sono un prete.
Qualcuno stava piangendo nel cimitero. Meggie, naturalmente. Nessun altro avrebbe pensato ad
andare là. Sollevò la sottana e scavalcò la cancellata di ferro battuto, sentendo l'inevitabilità di non
avere ancora finito con Meggie, quella notte. Se aveva affrontato una delle donne della sua vita,
doveva affrontare anche l'altra. Il distacco divertito stava tornando in lui; il vecchio ragno non era in
grado di disperderlo a lungo. Il vecchio ragno malvagio. Dio la faccia imputridire, Dio la faccia
imputridire!
«Meggie, tesoro, non piangere» disse, mettendosi a sedere accanto a lei, sull'erba bagnata di
rugiada. «Senti, scommetto che non hai un fazzoletto decente. Le donne non lo hanno mai. Prendi il
mio e asciugati gli occhi, da brava.»
Lo prese e fece come le era stato detto.
«Non ti sei nemmeno tolta il tuo bel vestito. È da mezzanotte che te ne stai seduta qui?»
«Sì.»
«Bob e Jack sanno dove sei?»
«Ho detto che me ne andavo a letto.»
«Che cos'hai, Meggie?»
«Lei non mi ha mai rivolto la parola, stanotte!»
«Ah, immaginavo che potesse trattarsi di questo. Suvvia, Meggie, guardami!»
Lontano, a oriente, si intravedeva un chiarore perlaceo, una fuga dell'oscurità totale, e i galli di
Drogheda stavano gridando un precoce benvenuto all'alba. Vide così che nemmeno un lungo pianto
poteva offuscare la bellezza di quegli occhi.
«Meggie, tu eri di gran lunga la più bella ragazza al ricevimento, ed è ben noto che io vengo a
Drogheda più spesso di quanto sia necessario. Sono un sacerdote e, di conseguenza, dovrei essere al
di sopra di ogni sospetto... un po' come la moglie di Cesare... ma temo che la gente non pensi con
tanta purezza. Per essere un prete, sono giovane, e non brutto di aspetto.» Si interruppe
domandandosi come sarebbe stata accolta da Mary Carson la piccola sottovalutazione, e rise
silenziosamente. «Se io avessi prestato a te anche soltanto un briciolo di attenzione, in men che non
si dica tutta Gilly ne avrebbe parlato. Tutti quanti nel distretto si sarebbero affrettati a pettegolare.
Sai che cosa voglio dire?»
Ella scosse la testa. I corti riccioli stavano diventando più luminosi nella luce che avanzava.
«Be', sei giovane per poter conoscere le abitudini del mondo, ma devi imparare, e sembra che tocchi
sempre a me insegnarti, non è così? Intendevo questo: la gente direbbe che io sono interessato a te
come uomo, non come sacerdote.»
«Padre!»
«Spaventoso, vero?» Sorrise. «Ma è proprio quello che direbbe la gente, te lo assicuro. Vedi,
Meggie, tu non sei più una bimbetta, sei una signorina. Ma non hai ancora imparato a nascondere il
tuo affetto per me, e, se io mi fossi soffermato a parlarti mentre tutte quelle persone guardavano, tu
mi avresti fissato in un modo che sarebbe potuto essere male interpretato.»
La ragazza lo stava guardando con un'espressione bizzarra, una imperscrutabilità improvvisa le
velava lo sguardo; poi, bruscamente, voltò la testa, presentandogli il proprio profilo. «Sì, capisco.
Sono stata sciocca a non essermene resa conto.»
«E ora non credi che sarebbe tempo di tornare a casa? Senza dubbio tutti dormiranno fino a tardi,
ma, se qualcuno si destasse alla solita ora, ti troveresti nei pasticci. E non puoi dire di essere stata
con me, Meggie, nemmeno alla tua famiglia.»
Si alzò e, stando in piedi, abbassò gli occhi su di lui. «Vado, Padre. Ma vorrei che la conoscessero
meglio, allora non penserebbero mai certe cose di lei. Non ne è capace, vero?»
Per qualche motivo, queste parole lo ferirono, lo ferirono sino all'anima come non avevano potuto
fare i sarcasmi crudeli di Mary Carson. «No, Meggie, hai ragione. Non ne sono capace.» Balzò in
piedi, con un sorriso obliquo. «Ti sembrerebbe strano se dicessi che vorrei esserlo?» Si portò una
mano sul capo. «No, non voglio esserlo affatto! Torna a casa, Meggie, torna a casa!»
Il viso di lei era triste. «Buonanotte, Padre.»
Le prese le mani tra le sue, si chinò e le baciò. «Buonanotte, carissima Meggie.»
La vide camminare tra le tombe, scavalcare la cancellata; nel vestito ricamato a boccioli di rose, il
suo corpo che si allontanava era aggraziato, femminile e un po' irreale. Cenere di rose. «Come è
appropriato» disse lui all'angelo.
Le automobili si allontanavano rombando da Drogheda, quando riattraversò il prato; la festa era
finita, finalmente. In casa, l'orchestra stava mettendo via gli strumenti, i suonatori barcollavano per
il rum e la stanchezza, e le stanche cameriere e gli aiuti temporanei cercavano di riordinare. Padre
Ralph scosse la testa guardando la signora Smith.
«Mandi tutti a letto, mia cara. È più facile sbrigare queste faccende quando si è riposati. Farò io in
modo che la signora Carson non si adiri.»
«Gradirebbe qualcosa da mangiare, Padre?»
«Buon Dio, no! Me ne vado a dormire.»
Nel tardo pomeriggio, una mano gli toccò la spalla. L'afferrò alla cieca, senza trovare la forza di
aprire gli occhi, e cercò di tenerla contro la gota.
«Meggie» farfugliò.
«Padre, Padre! Oh, vuole destarsi, per favore?»
Al tono di voce della signora Smith, gli occhi gli divennero all'improvviso molto desti. «Che cosa
c'è, signora Smith?»
«Si tratta della signora Carson, Padre. È morta.»
L'orologio gli disse che erano le sei di sera passate; stordito e vacillante dopo il torpore greve
causato dalla calura tremenda durante il giorno, si sfilò il pigiama e indossò la veste sacerdotale, si
gettò intorno al collo una stretta stola viola e prese l'olio dell'estrema unzione, l'acqua santa, la
grossa croce d'argento, il rosario di chicchi d'ebano. Nemmeno per un momento gli passò per la
mente di domandarsi se la signora Smith avesse detto la verità; sapeva che il ragno era morto.
Aveva ingerito qualcosa, tutto sommato, Mary Carson? Volesse Iddio, se così era, che il veleno non
si trovasse palesemente nella stanza, e che i suoi effetti non saltassero agli occhi del medico. A che
cosa potesse mai servire somministrare l'estrema unzione, non lo sapeva. Ma doveva farlo. Se si
fosse rifiutato, vi sarebbe stata un'autopsia, seguita da complicazioni di ogni genere. Eppure, quella
riluttanza non aveva niente a che vedere con l'improvviso sospetto di suicidio, gli sembrava
semplicemente osceno toccare con cose sacre il cadavere di Mary Carson.
Era morta, e come; la morte doveva averla colta pochi minuti dopo che si era coricata, almeno
quindici ore prima. Trovò le finestre ermeticamente chiuse e la stanza umida a causa delle grandi
teglie d'acqua che la signora voleva venissero collocate in ogni angolo buio per mantenerle liscia la
pelle. Si udiva nell'aria un suono bizzarro; dopo uno stupido momento di stupore, si rese conto che
quanto udiva era un ronzio di mosche, orde di mosche ronzanti, dalle ali pazzamente vibranti
mentre banchettavano su di lei, si accoppiavano su di lei, depositavano su di lei le loro uova.
«Per amor di Dio, signora Smith, spalanchi le finestre!» disse a stento, con la voce soffocata, mentre
si avvicinava al letto, pallido in faccia.
Aveva superato la fase del rigor mortis ed era di nuovo floscia, disgustosamente. Gli occhi
spalancati e fissi si stavano chiazzando, le labbra sottili erano nere, e dappertutto sul suo corpo
c'erano le mosche. Dovette ordinare alla signora Smith di continuare a scacciarle mentre si dava da
fare con il cadavere, bofonchiando le antiche esortazioni latine. Che farsa! e come puzzava! Oh,
Dio, peggio di un cavallo morto nella frescura dei pascoli. Lo schifava toccarla nella morte come
nella vita; specie quelle labbra coperte di uova di mosche. Di lì a poche ore sarebbe stata una massa
di vermi.
Finalmente ebbe finito. Si raddrizzò. «Vada subito dal signor Cleary, signora Smith, e, per amor di
Dio, gli dica di far costruire immediatamente una bara dai ragazzi. Non ci sarà il tempo di farne
venire una da Gilly, sta imputridendo sotto i nostri occhi. Dio buono! Mi sta prendendo la nausea.
Farò un bagno e lascerò i miei panni fuori della porta. Non riuscirei mai a toglierne il suo odore.»
Rientrato in camera sua con i calzoni al ginocchio e una camicia - poiché non aveva messo due
tonache nella valigia — ricordò la lettera e la propria promessa. Erano suonate le sette; udì uno
strepito attutito mentre le cameriere, con i loro temporanei aiuti, si precipitavano a eliminare il
disordine del ricevimento, a trasformare di nuovo in cappella il salone, a preparare la casa per il
funerale dell'indomani. Impossibile. Impossibile evitarlo, sarebbe stato costretto a tornare a Gilly
quella notte stessa per prendere un'altra tonaca e i paramenti della Messa di Requiem. Certe cose
non gli mancavano mai quando si allontanava dalla canonica per recarsi in un allevamento lontano,
accuratamente assicurate con cinghie negli scomparti della piccola valigia nera; i sacramenti per le
nascite, le morti, le benedizioni, il culto, e le vesti adatte alla Messa in qualunque stagione. Ma era
irlandese, e portare i neri e luttuosi paramenti della Messa di Requiem significava tentare il destino.
La voce di Paddy echeggiò in lontananza, ma in quel momento non se la sentiva di parlare con
Paddy; sapeva che la signora Smith avrebbe fatto tutto il necessario.
Seduto davanti alla finestra e contemplando Drogheda nel sole morente della sera, gli spettrali
eucalipti dorati, la massa di rose rosse, rosee e bianche nel giardino inondato di viola, tolse dal
portafogli la lettera della signora Carson e la tenne tra le dita. Ma ella aveva insistito affinché la
leggesse prima di seppellirla, e, in qualche punto della sua mente, una vocetta stava bisbigliando
che doveva leggerla subito, non più tardi quella sera, dopo aver parlato con Paddy e con Meggie,
ma subito, prima di aver veduto chicchessia tranne Mary Carson.
La busta conteneva quattro fogli di carta; li separò e immediatamente si rese conto che i due
inferiori erano il testamento. I primi due erano destinati a lui, sotto forma di lettera.
«Mio carissimo Ralph,
«avrà ormai veduto che il secondo documento contenuto in questa busta è il mio testamento. Esiste
già un testamento perfettamente valido, firmato e sigillato, nello studio di Harry Gough a Gilly; il
testamento qui accluso è di gran lunga successivo e, naturalmente, annulla quello che ha Harry.
«In effetti, l'ho scritto appena l'altro ieri, e l'ho fatto controfirmare da Tom e dall'uomo che ripara i
recinti, in quanto mi risulta che nessun beneficiario può essere legalmente testimone. Si tratta di un
testamento valido, sebbene non sia stato Harry a compilarlo per me. Nessun tribunale del paese
potrà considerarlo nullo, glielo assicuro.
«Ma perché non ho fatto compilare da Harry anche questo nuovo testamento, se volevo modificare
le mie ultime volontà? È molto semplice, mio caro Ralph. Ho voluto che nessuno, assolutamente,
conoscesse l'esistenza di questo testamento, a parte lei e me. Questa è l'unica copia e si trova in sue
mani. È un aspetto molto importante del mio piano.
«Rammenta quel passo del Vangelo in cui è detto che Satana condusse Nostro Signore Gesù Cristo
sulla vetta di una montagna e lo tentò con il mondo intero? Come è piacevole sapere che io ho il
potere di un piccolo Satana, e sono in grado di tentare colui che amo (lei dubita che Satana amasse
il Cristo? io no) con il mondo intero. Raffigurarmi il suo dilemma ha notevolmente rallegrato i miei
pensieri in questi ultimi anni, e quanto più mi avvicino alla morte, tanto più deliziose divengono
queste fantasticherie.
«Dopo aver letto il testamento, capirà che cosa voglio dire. Mentre io brucio all'inferno oltre i
confini di questa nuova vita che ormai conosco, lei si trova ancora nell'altra vita, ma brucia in un
inferno le cui fiamme sono più feroci di quelle che qualsiasi Dio possa creare. Oh, Ralph mio, io
l'ho giudicata alla perfezione! Se anche non sono mai stata capace di fare altro, ho sempre saputo
come far soffrire coloro che amo. E lei è una preda di gran lunga migliore di quanto lo sia mai stato
il mio caro, defunto Michael.
«All'inizio, quando la conobbi, lei voleva Drogheda e il mio denaro, non è così, Ralph? Vedeva in
ciò un mezzo per tornare alla sua vocazione naturale. Ma poi venne Meggie, e lei escluse dalla sua
mente lo scopo originario di coltivare me, non è forse vero? Io divenni un pretesto per consentirle di
venire a Drogheda e stare con Meggie. Chissà se avrebbe cambiato bandiera con tanta disinvoltura,
qualora avesse saputo quanto io valgo in realtà? Lo sa, Ralph? Non credo che se ne faccia un'idea.
Ritengo non sia signorile precisare la portata esatta delle proprie ricchezze in un testamento, ragion
per cui farò meglio a dirglielo qui, tanto per essere certa che lei abbia sulla punta delle dita la cifra
necessaria quando dovrà prendere una decisione. Poche centinaia di migliaia di sterline in più o in
meno, il mio patrimonio ammonta a circa tredici milioni di sterline.
«Sto arrivando quasi in fondo al secondo foglio, e non posso darmi la pena di fare di questa lettera
una tesi di laurea. Legga il mio testamento, Ralph, e, dopo averlo letto, decida che cosa ne farà. Lo
consegnerà a Harry Gough per l'omologazione, o lo brucerà e non dirà mai ad anima viva che è
esistito? Questa è la decisione che deve prendere. Dovrei aggiungere che il testamento nello studio
di Harry è quello da me fatto l'anno dopo l'arrivo di Paddy, e gli lascia tutto ciò che possiedo.
Questo soltanto perché lei sappia che cosa si trova sui due piatti della bilancia.
«Ralph, io l'amo, al punto che sarei stata capace di ucciderla per non avermi voluta, ma questa è una
rappresaglia di gran lunga migliore. Non sono di indole nobile; l'amo, ma voglio sentirla urlare di
sofferenza. Perché, vede, so già quale sarà la sua decisione. Lo so con la stessa certezza che se
potessi essere lì e stare a guardare. Lei urlerà, Ralph, e saprà che cos'è il tormento. Legga, dunque,
mio bel prete ambizioso! Legga il testamento e decida la sua sorte.»
La lettera non era firmata, nemmeno sigillata. Sentì il sudore imperlargli la fronte, lo sentì scorrergli
giù per la nuca dai capelli. E avrebbe voluto balzare in piedi in quel momento stesso, e bruciare
entrambi i documenti, e non leggere mai ciò che conteneva il secondo. Ma l'osceno vecchio ragno
aveva giudicato bene la sua preda. Naturalmente avrebbe continuato a leggere, era troppo curioso
per poter resistere. Dio, di che cosa si era mai reso colpevole perché avesse voluto fargli questo?
Perché le donne lo facevano tanto soffrire? Perché non era nato piccolo, storto, brutto? In tal caso,
avrebbe potuto essere felice.
Gli ultimi due fogli erano coperti dalla stessa scrittura precisa, quasi minuta. Gretta e avara come
l'anima di lei.
«Io, Mary Elisabeth Carson, sana di mente e sana di corpo, dichiaro che queste sono le mie ultime
volontà e il mio testamento, e che di conseguenza annullano ogni altro precedente testamento da me
fatto.
«Eccezion fatta per i particolari lasciti precisati più avanti, lascio tutti i miei beni terreni, il mio
denaro, e le mie proprietà alla Santa Chiesa Cattolica di Roma, alle condizioni qui di seguito
elencate:
«Primo, che la predetta Santa Chiesa Cattolica di Roma, d'ora in avanti denominata la Chiesa,
sappia quale stima e quale affetto io abbia per il suo sacerdote Padre Ralph de Bricassart. È
esclusivamente a causa della sua bontà, della sua guida spirituale e del suo aiuto, mai venutomi
meno, che dispongo in questo modo dei miei beni.
«Secondo, che il mio patrimonio continui ad appartenere alla Chiesa soltanto se, e in quanto, essa
apprezzerà il valore e la capacità del predetto Padre de Bricassart.
«Terzo, che l'amministrazione e la destinazione di questi miei beni terreni, del denaro e delle mie
proprietà sia affidata al predetto Padre Ralph de Bricassart, in quanto massima autorità preposta al
mio patrimonio.
«Quarto, che alla dipartita del predetto Padre Ralph de Bricassart, le sue ultime volontà e il suo
testamento siano legalmente vincolanti ai fini dell'ulteriore amministrazione del mio patrimonio.
Vale a dire che esso continui a essere di proprietà della Chiesa, ma spetti esclusivamente a Padre
Ralph de Bricassart nominare chi gli succederà nell'amministrarlo; egli non sarà obbligato a
nominare come suo successore o un ecclesiastico o un esponente laico della Chiesa.
«Quinto, che l'allevamento di Drogheda non venga mai venduto né diviso.
«Sesto, che mio fratello, Padraic Cleary, continui a dirigere l'allevamento di Drogheda, con il diritto
di abitare nella mia casa, e con uno stipendio stabilito da Padre Ralph de Bricassart e da nessun
altro.
«Settimo, che, nell'eventualità della morte di mio fratello, il sunnominato Padraic Cleary, alla
vedova e ai figli di lui sia consentito di rimanere nell'allevamento di Drogheda e che la carica di
direttore passi consecutivamente a ognuno dei suoi figli, Robert, John, Hugh, Stuart, James e
Patrick, escludendo però Francis.
«Ottavo, che alla morte di Patrick, o di quel qualsiasi altro figlio, a esclusione di Francis, rimasto in
vita, gli stessi diritti spettino ai nipoti del sunnominato Padraic Cleary.
«Lasciti particolari.
«A Padraic Cleary tutto ciò che è contenuto nelle mie case dell'allevamento di Drogheda.
«A Eunice Smith, la mia governante, il diritto di restare a Drogheda, con un equo salario, finché lo
desidererà, e inoltre il versamento immediato della somma di cinquemila sterline, nonché un'equa
pensione quando andrà a riposo.
«A Minerva O'Brien e a Catherine Donnelly, il diritto di restare a Drogheda, con un equo salario,
finché lo vorranno, e inoltre il versamento immediato di una somma di mille sterline per ciascuna,
nonché la corresponsione di un'equa pensione quando andranno a riposo.
«A Padre Ralph de Bricassart la somma di diecimila sterline da corrispondergli annualmente finché
vivrà, somma che egli potrà spendere per le sue necessità personali senza alcuna restrizione.»
Il testamento era debitamente firmato, datato, e controfirmato da due testimoni.
La stanza del sacerdote dava a ovest. Il sole stava tramontando. Il drappo funebre di polvere che si
formava ogni estate saturava l'aria tacita, e il sole insinuava le sue dita tra le particelle impalpabili;
sembrava che il mondo intero si fosse tramutato in oro e porpora. Nubi striate, orlate di vivido
fuoco, attraversavano, simili a festoni argentei, la grande sfera sanguigna sospesa subito al di sopra
degli alberi dei lontani pascoli.
«Brava! Devo ammetterlo, Mary mi ha battuto. Una stoccata da maestro. Sono stato io lo sciocco,
non lei.»
Attraverso le lacrime non riusciva a vedere i fogli che aveva in mano, e li posò, prima di macchiarli.
Tredici milioni di sterline. Tredici milioni di sterline! Era davvero ciò cui aveva mirato prima
dell'arrivo di Meggie. E, dopo il suo arrivo, si era rassegnato a rinunciarvi, perché non poteva
continuare a sangue freddo una simile campagna e frodarla dell'eredità. Ma se avesse saputo quanto
valeva il vecchio ragno? Come si sarebbe regolato, allora? Non pensava nemmeno a un decimo di
tanto. Tredici milioni di sterline!
Per sette anni Paddy e la sua famiglia avevano abitato nella casa del capo-guardiano e si erano
ammazzati di fatica nell'interesse di Mary Carson. E per che cosa? Per i tirchi compensi che si
degnava di pagare? Mai, a quanto risultava a Padre Ralph, Paddy si era lagnato di essere trattato
ingiustamente, perché riteneva, senza dubbio, che alla morte di sua sorella sarebbe stato
ampiamente ricompensato per aver mandato avanti l'allevamento con la paga di un comune
mandriano, mentre i suoi figli facevano il lavoro di mandriani compensati come apprendisti. Aveva
sopportato, finendo con l'affezionarsi a Drogheda come se fosse stata sua, presumendo a buon
diritto che lo sarebbe divenuta.
«Brava, Mary» ripeté Padre Ralph, mentre le sue prime lacrime dopo la fanciullezza gli scorrevano
dal viso sul dorso delle mani, ma non sui fogli.
Tredici milioni di sterline e la possibilità di diventare, nonostante tutto, il Cardinale de Bricassart.
Contro gli interessi di Paddy Cleary, di sua moglie, dei suoi figli... e di Meggie. Come lo aveva
giudicato diabolicamente bene, Mary! Se avesse spogliato Paddy di tutto, la strada da percorrere
sarebbe stata chiara, per lui: avrebbe potuto portare il testamento in cucina e gettarlo, senza
un'esitazione, nella stufa. Ma si era accertata che Paddy non venisse a trovarsi nel bisogno, che,
dopo la sua morte, potesse condurre a Drogheda un'esistenza più comoda di quando era viva lei, e
aveva fatto in modo che Drogheda non potesse essergli tolta del tutto. Gli utili e il diritto di
proprietà sì, ma non la terra. No, Paddy non avrebbe posseduto quei favolosi tredici milioni di
sterline, ma sarebbe stato rispettato e senza preoccupazioni finanziarie. Meggie non avrebbe
sofferto la fame, né sarebbe stata gettata a piedi scalzi sulle strade del mondo. Ma nemmeno
avrebbe potuto essere Miss Cleary, su un piano di parità con Miss Carmichael e le altre della stessa
classe sociale. Rispettabilissima, ammissibile in società, ma non sulla vetta. Mai sulla vetta.
Tredici milioni di sterline. La possibilità, per lui, di andarsene da Gillanbone e di sottrarsi a una
perpetua oscurità, la possibilità di occupare il posto che gli competeva nella gerarchia della Chiesa,
e la benevolenza garantita dei suoi pari e dei suoi superiori. E tutto questo mentre era ancora
abbastanza giovane per riguadagnare il terreno perduto. Mary Carson aveva fatto di Gillanbone
l'epicentro sulla sua mappa del Legato pontificio, l'Arcivescovo, vendicandosi; le ripercussioni
sarebbero arrivate fino al Vaticano. Per quanto la Chiesa fosse ricca, tredici milioni di sterline erano
tredici milioni di sterline. Nessuno poteva disprezzarli, nemmeno la Chiesa. E lui era il solo che
avrebbe potuto portarli nell'ovile; lui, indicato in inchiostro blu con la scrittura di Mary Carson.
Sapeva che Paddy non avrebbe mai contestato il testamento; e lo aveva saputo anche Mary Carson,
Dio la facesse imputridire. Oh, Paddy sarebbe senza dubbio andato su tutte le furie, non avrebbe
voluto più guardarlo in faccia, né rivolgergli la parola, ma certo l'ira non lo avrebbe accecato al
punto da fargli intentare causa.
V'era forse una decisione da prendere? Non sapeva già, non aveva saputo sin dal momento in cui
aveva letto il testamento, quello che avrebbe fatto? Le lacrime si erano asciugate. Con la grazia
consueta, Padre Ralph si alzò in piedi, si accertò che la camicia fosse infilata a dovere tutto attorno
sotto i calzoni, e andò verso la porta. Doveva recarsi a Gilly, per prendere una tonaca e i paramenti.
Ma prima voleva rivedere Mary Carson.
Nonostante le finestre spalancate, il cattivo odore era divenuto un fetore da far vomitare; non un
alito di vento smuoveva le tende immobili. A passi furtivi si avvicinò al letto e rimase lì in piedi
abbassando gli occhi, guardandola. Dalle uova di mosca stavano cominciando a uscire vermi in tutte
le parti umide della faccia, i gas della putrefazione le stavano gonfiando le braccia grasse e le mani
con bolle verdognole, la pelle si stava screpolando. Oh, Dio. Vecchio ragno disgustoso. Hai vinto,
ma quale vittoria. Il trionfo di una disintegrata caricatura di umanità contro un'altra caricatura. Non
puoi sconfiggere la mia Meggie, né puoi toglierle ciò che non ti è mai appartenuto. Potrò anche
bruciare all'inferno accanto a te, ma so già quale inferno ti hanno preparato: vedere la mia
indifferenza nei tuoi riguardi continuare mentre imputridiremo insieme per tutta l'eternità...
Paddy lo stava aspettando nell'ingresso al pianterreno e sembrava sconvolto e smarrito.
«Oh, Padre!» disse, facendosi avanti. «Non è spaventoso? Che colpo! Non avrei mai creduto che se
ne sarebbe andata così; stava tanto bene, ieri sera! Buon Dio, che cosa farò?»
«L'ha veduta?»
«Il Cielo mi scampi, sì!»
«Allora sa che cosa occorre fare. Non ho mai visto un cadavere decomporsi così rapidamente. Se
non la rinchiuderà decentemente in una qualsiasi sorta di bara entro poche ore, dovrà versarla in un
fusto di petrolio. È indispensabile seppellirla nelle prime ore di domattina. Non perda tempo per
abbellire la bara; la ricopra con rose colte in giardino o con qualcos'altro. Ma si sbrighi, amico! Io
vado a Gilly a prendere i paramenti.»
«Torni il più presto possibile, Padre!» lo esortò Paddy.
Ma Padre Ralph tardò più di quanto sarebbe stato giustificato da una semplice capatina alla
canonica. Prima di andare con la macchina in quella direzione, si portò in una delle più signorili vie
secondarie di Gillanbone e fermò davanti a una dimora alquanto pretenziosa, circondata da un
giardino ben tenuto.
Harry Gough era sul punto di mettersi a tavola per la cena, ma si recò nel salotto quando la
cameriera gli ebbe detto chi era il visitatore.
«Padre, non vuole tenerci compagnia? Manzo conservato sotto sale e cavoli, con patate lesse e salsa
verde; e, una volta tanto, il manzo non è troppo salato.»
«No, Harry, non posso trattenermi. Sono venuto soltanto per dirle che Mary Carson è deceduta
stamane.»
«Gesù santo! Ero là ieri sera. Sembrava stesse così bene, Padre!»
«Lo so. Stava benissimo quando l'ho aiutata a salire le scale, verso le tre del mattino, ma deve
essere morta quasi subito dopo che era andata a letto. La signora Smith l'ha trovata alle sei di questo
pomeriggio. Ormai era passata a miglior vita da tanto di quel tempo da essere laida; la stanza era
rimasta chiusa come un'incubatrice per tutte le ore più calde della giornata. Signore Iddio, sto
chiedendo nelle mie preghiere di poterne dimenticare l'aspetto. Indicibile, Harry, spaventoso.»
«Sarà seppellita domani?»
«Dovrà esserlo.»
«Che ore sono? Le dieci? Dobbiamo mangiare tardi come gli spagnoli, con questo caldo, ma non è
il caso di preoccuparsi che sia troppo tardi per cominciare a telefonare a tutti i suoi conoscenti.
Vuole che provveda io per lei, Padre?»
«Grazie, mi farebbe una grande cortesia. Sono venuto a Gilly soltanto per prendere i paramenti.
Partendo, non avevo certo previsto di dover celebrare una Messa di Requiem. Devo tornare a
Drogheda al più presto possibile, hanno bisogno di me. La Messa verrà celebrata domattina alle
nove.»
«Dica a Paddy che porterò il testamento di Mary, così potrò leggerlo subito dopo il funerale. Anche
lei è uno dei beneficiari, Padre, e pertanto le sarei grato se assistesse alla lettura.»
«Temo che ci sia una piccola difficoltà, Harry. Mary ha fatto un altro testamento, sa. Ieri sera, dopo
essersi allontanata dal ricevimento, mi ha consegnato una busta sigillata, facendomi promettere che
l'avrei aperta subito dopo aver constatato personalmente la sua morte. Quando così ho fatto, ho
veduto che conteneva un nuovo testamento.»
«Mary ha fatto un nuovo testamento? Senza di me?»
«Così sembrerebbe. Credo che ci stesse rimuginando su da un pezzo, ma non so davvero perché
abbia preferito tanta segretezza.»
«Ha con sé il testamento, Padre?»
«Sì.» Il sacerdote infilò la mano sotto la camicia e consegnò i fogli di carta piegati in quattro.
L'avvocato non esitò a leggerli immediatamente. Quando ebbe terminato alzò gli occhi e in essi
c'erano molte cose che Padre Ralph avrebbe preferito non scorgervi. Ammirazione, ira, un certo
disprezzo.
«Bene, Padre, congratulazioni! Ha vinto la partita, tutto sommato.» Poteva dirlo, non essendo
cattolico.
«Mi creda, Harry, la sorpresa è stata più grande per me di quanto lo sia per lei.»
«Esiste soltanto questa stesura del testamento?»
«A quanto ne so io, sì.»
«E gliel'ha consegnata solamente ieri sera?»
«Sì.»
«Allora perché non la distrugge, facendo così in modo che il povero, anziano Paddy erediti quanto
gli spetta? La Chiesa non ha alcun diritto sul patrimonio di Mary Carson.»
I begli occhi del prete rimasero blandi. «Ah, ma questo non sarebbe etico, Harry, non le sembra?
Mary aveva il diritto di disporre in qualsiasi modo volesse delle sue proprietà.»
«Consiglierò a Paddy di impugnarlo.»
«Sì, credo che dovrebbe regolarsi così.»
E con ciò si separarono. Prima che tutti si recassero la mattina dopo a veder seppellire Mary Carson,
l'intera Gillanbone e tutta la regione circostante avrebbero saputo a chi sarebbe andato il denaro. Il
dado era tratto, non si poteva più tornare indietro.
Erano le quattro del mattino quando Padre Ralph passò per l'ultimo cancello ed entrò nello Home
Paddock; non si era affrettato, durante il tragitto di ritorno. Per tutto il viaggio, aveva imposto il
vuoto alla propria mente, costringendosi a non pensare. Né a Paddy, né a Fee, né a Meggie, e
nemmeno al fetido e rivoltante cadavere che dovevano ormai (lo sperava ardentemente) aver
travasato nella bara. Spalancò invece gli occhi e la mente alla notte, allo spettrale colore argenteo
degli alberi morti che si levavano solitari dall'erba lucente, alla concentrata oscurità delle ombre
proiettate dai boschetti, alla luna piena che galleggiava in cielo come un palloncino. A un certo
momento, fermò l'automobile, discese, si avvicinò a un recinto di filo spinato e si appoggiò a
quell'elastica tensione, aspirando l'odore degli eucalipti e il profumo incantevole dei fiori selvatici.
Il mondo era così bello, così puro, così indifferente ai destini delle creature che presumevano di
governarlo! Potevano impadronirsene, ma alla lunga era il mondo a dominarle.
Parcheggiò l'automobile a una certa distanza dietro la casa e vi si diresse adagio. Tutte le finestre
erano illuminate; fiocamente, dall'alloggio della governante gli giunse la voce della signora Smith
che recitava il rosario con le due cameriere irlandesi. Un'ombra si mosse nelle tenebre sotto il
glicine. Si fermò di colpo, sentendosi accapponare la pelle. Il vecchio ragno lo aveva spaventato in
più di un modo. Ma era soltanto Meggie, pazientemente in attesa del suo ritorno. Meggie in calzoni
da cavallerizza e stivali, perfettamente viva.
«Mi hai fatto paura» disse, brusco.
«Mi scusi, Padre, non volevo. Ma non mi andava di restare in casa con Pa' e i ragazzi, e la mamma
si trova ancora a casa nostra con i bambini. Presumo che dovrei recitare il rosario con la signora
Smith e Minnie e Cat, ma non me la sento di pregare per lei. Sto commettendo un peccato, vero?»
Non era in vena di fare il ruffiano con la memoria di Mary Carson. «Non credo che sia un peccato,
Meggie, mentre lo è l'ipocrisia. Neanch'io me la sento di pregare per lei. Non era... una creatura
molto buona.» Il suo sorriso balenò. «Come vedi, se hai peccato dicendo così, ho peccato anch'io, e
più gravemente per giunta. Io dovrei amare tutti, un fardello che a te non è imposto.»
«Si sente bene, Padre?»
«Sì, sto benissimo.» Alzò gli occhi verso la casa e sospirò. «Non voglio entrare, ecco tutto. Non
voglio trovarmi dov'è lei, finché non farà giorno e i demoni delle tenebre saranno stati scacciati. Se
sellassi i cavalli, faresti una cavalcata con me fino all'alba?»
La mano di lei gli toccò la nera manica, poi ricadde. «Nemmeno io voglio entrare in casa.»
«Aspettami un minuto mentre metto la tonaca in macchina.»
«Andrò nella scuderia.»
Per la prima volta stava cercando di incontrarlo sul suo terreno, il terreno di un adulto; intuì la
diversità in lei, con la stessa certezza con cui poteva odorare le rose nei meravigliosi giardini di
Mary Carson. Rose. Cenere di rose. Rose, rose dappertutto. Petali sull'erba. Rose rosse e bianche e
gialle. Rose rosa, che la luna faceva sembrare di cenere. Cenere di rose, cenere di rose. Meggie mia,
ti ho abbandonata. Ma non ti rendi conto che sei divenuta una minaccia? Per questo ti ho schiacciata
sotto il tacco della mia ambizione; per me non hai più sostanza di una rosa calpestata sull'erba. Il
profumo delle rose. Il fetore di Mary Carson. Rose e cenere, cenere di rose.
«Cenere di rose» disse, montando a cavallo. «Allontaniamoci dal profumo delle rose. Domani la
casa ne sarà piena.»
Spronò la cavalla saura e procedette al piccolo galoppo dinanzi a Meggie, lungo il sentiero del
torrente, desiderando piangere; poiché, fino a quando non aveva percepito il profumo dei fiori che
avrebbero adornato la bara di Mary Carson, la realtà non gli si era insinuata mentalmente come un
fatto imminente. Se ne sarebbe andato presto. Troppi pensieri, troppe emozioni, e tutto
incontrollabile. Non lo avrebbero lasciato a Gilly un solo giorno di più, dopo essere stati informati
delle clausole di quel testamento incredibile, lo avrebbero richiamato a Sydney immediatamente.
Immediatamente! Fuggiva la sua sofferenza, non avendo mai provato una sofferenza come quella,
ma essa lo seguiva senza alcuna fatica. Non si trattava di qualcosa situato in un vago futuro; sarebbe
accaduto immediatamente. E gli sembrava quasi di vedere la faccia di Paddy, la ripugnanza, Paddy
che gli avrebbe voltato le spalle. In seguito, non sarebbe stato più gradito a Drogheda e non avrebbe
riveduto Meggie mai più.
L'autodisciplina cominciava in quel momento, martellata dagli zoccoli, e con una sensazione di
fuga. Era meglio così, meglio così, meglio così. Continuando a galoppare e a galoppare. Sì, senza
dubbio avrebbe sofferto meno in seguito, al sicuro in qualche cella nel palazzo di un vescovo,
avrebbe sofferto sempre meno, finché, in ultimo, il dolore si sarebbe dileguato anche dalla
consapevolezza. Era preferibile che fosse così. Meglio che restare a Gilly e vedere lei tramutarsi in
una creatura non voluta, e doverla poi unire un giorno in matrimonio a uno sconosciuto. Lontano
dagli occhi, lontano dal cuore.
Ma allora che cosa faceva con lei, adesso, perché stavano cavalcando attraverso il bosco di bossi e
di coolibah sull'altra riva del torrente? Sembrava che non riuscisse a capire il perché, si limitava a
soffrire. Non la sofferenza del tradimento; non c'era spazio per questo. Soltanto il dolore perché
doveva lasciarla.
«Padre! Padre! Non riesco a tenerle dietro! Rallenti, Padre, per piacere!»
Fu il richiamo al dovere, e alla realtà. Come un uomo veduto al rallentatore, costrinse la cavalla a
voltarsi e la tenne a freno finché non si fu liberata, danzando, dall'eccitazione della corsa. Poi
aspettò che Meggie lo raggiungesse. Questo era il guaio. Meggie lo stava raggiungendo.
Non lontano da loro c'era il rombo del pozzo artesiano, una grande pozza fumigante, dall'odore di
zolfo, con un tubo simile alla presa d'aria di una nave, dalle cui profondità zampillava acqua
bollente. Tutto intorno al perimetro del piccolo lago sopraelevato, i canali di scolo del pozzo
artesiano scavati nella pianura erano frangiati d'erba dall'assurdo color smeraldo. Le rive della
pozza erano di viscido fango grigio, e nel fango vivevano i gamberi d'acqua dolce chiamati yabbies.
Padre Ralph si mise a ridere. «Puzza come l'inferno, Meggie, non è vero? Zolfo, proprio qui, nella
proprietà di lei, nel cortile di casa sua, si può dire. Dovrebbe riconoscere l'odore quando arriverà là
coperta di rose, non ti pare? Oh, Meggie...»
I cavalli erano addestrati a non muoversi quando le redini ciondolavano, non esistevano recinti nei
pressi, né alberi più vicini di un ottocento metri. Ma c'era un tronco sul lato del laghetto più lontano
dal pozzo artesiano, ove l'acqua era meno calda. Vi sedevano i bagnanti invernali quando si
asciugavano i piedi e le gambe.
Padre Ralph vi si lasciò cadere e Meggie sedette a una certa distanza da lui, voltata di sghembo per
osservarlo.
«Che cosa c'è, Padre?»
Parve strano: la domanda che le aveva posto spesso, pronunciata dalle labbra della ragazza e rivolta
a lui. Le sorrise. «Ti ho venduta, Meggie mia, ti ho venduta per tredici milioni di pezzi d'argento.»
«Ha venduto me?»
«È un modo di dire. Non ti preoccupare. Vieni, siedi più vicino. Potremo non aver modo di parlare
ancora insieme.»
«Finché saremo in lutto per la zia, vuol dire?» Si spostò lungo il tronco e venne a sedergli accanto.
«Che differenza farà se saremo in lutto?»
«Non mi riferivo a questo, Meggie.»
«Vuol dire perché io sto crescendo e la gente potrebbe pettegolare sul nostro conto?»
«Non precisamente. Voglio dire che me ne andrò.»
Eccolo: affrontare il disastro a testa bassa, rassegnarsi a un nuovo fardello. Nessun grido, nessun
pianto, nessuna tempesta di protesta. Soltanto un ingobbirsi appena percettibile, come se il fardello
fosse collocato di traverso e il peso non volesse distribuirsi in modo da consentirle di reggerlo bene.
E il respiro trattenuto, non proprio come un sospiro.
«Quando?»
«Sarà questione di giorni.»
«Oh, Padre! Sarà più doloroso che per Frank.»
«E, per me, più doloroso di ogni altra cosa nella mia vita. Non ho altre consolazioni. Tu almeno hai
la famiglia.»
«Lei ha il suo Dio.»
«Ben detto, Meggie! Stai davvero crescendo!»
Ma, da femmina tenace, aveva riportato i pensieri alla domanda che per cinque chilometri di
galoppata non era riuscita a porgli. Stava per partire, sarebbe stato molto penoso fare a meno di lui,
ma la domanda rivestiva la sua importanza.
«Padre, nella scuderia mi ha chiamata "cenere di rose". Si riferiva al colore del mio vestito?»
«In un certo senso, forse. Ma in realtà credo di essermi riferito a qualcos'altro.»
«A che cosa?»
«Niente che tu possa capire, Meggie mia. La morte di un'idea che non aveva il diritto di nascere, e
tanto meno di essere accolta e accarezzata.»
«Non c'è niente che non abbia il diritto di nascere, anche un'idea.»
Voltò la testa per guardarla. «Sai di che cosa sto parlando, non è vero?»
«Credo di sì.»
«Non tutto ciò che nasce è buono, Meggie.»
«No. No, ma se è nato, era destinato a nascere.»
«Ti esprimi come un gesuita. Quanti anni hai?»
«Ne avrò diciassette tra un mese, Padre.»
«E hai faticato per tutti i tuoi diciassette anni. Be', la fatica ci rende più vecchi degli anni che
abbiamo. A che cosa pensi, Meggie, quando hai il tempo di pensare?»
«Oh, a Jims e a Patsy e agli altri ragazzi, a Pa' e a Ma', a Hal e alla zia Mary. A volte a far crescere
in me un bambino. Questo mi piacerebbe moltissimo. E a cavalcare, e alle pecore. A tutte le cose di
cui parlano gli uomini. Il tempo, la pioggia, l'orto, le galline, quello che farò domani.»
«Non sogni mai di avere un marito?»
«No, ma credo che dovrò averlo, se vorrò far crescere bambini dentro di me. Non è bello che un
bambino non abbia il padre.»
Nonostante la sofferenza, sorrise; Meggie era un miscuglio così bizzarro di ignoranza e di moralità!
Poi si voltò all'improvviso di lato, le prese il mento nella mano e la contemplò. In qual modo fare
quello che doveva essere fatto?
«Meggie, non molto tempo fa mi sono reso conto di una cosa che avrei dovuto capire prima. Non
sei stata del tutto sincera quando mi hai detto quello a cui pensi, non è vero?»
«Io...» mormorò lei, poi tacque.
«Non hai detto che pensi a me, è così? Se non ci fosse stato niente di male, avresti fatto il mio nome
dopo quello di tuo padre. Penso che forse la mia partenza sia una buona cosa, non ti sembra? Sei un
po' troppo avanti negli anni per avere infatuazioni da scolaretta, ma, a quasi diciassette anni, non sei
nemmeno tanto vecchia, eh? Mi piace la tua assenza di saggezza e di esperienza, ma so quanto
possono essere dolorose le infatuazioni delle ragazzine; ne ho subite anche troppe.»
Meggie parve sul punto di parlare, ma poi abbassò le palpebre sugli occhi pieni di lacrime, e scosse
la testa.
«Senti, Meggie, è soltanto una fase, un'indicazione sulla strada per diventare donna. Quando sarai
diventata una donna, conoscerai l'uomo che è destinato a essere tuo marito e sarai di gran lunga
troppo impegnata a vivere la tua vita per pensare a me, se non come a un vecchio amico che ti ha
aiutata in alcune delle terribili crisi della crescita. Una cosa non devi fare, prendere l'abitudine di
sognare di me in modo romantico. Io non potrò mai vederti come ti vedrà un marito. Non penso
affatto a te sotto questa luce, mi capisci, Meggie? Quando dico che ti amo, non intendo dire di
amarti come un uomo. Sono un sacerdote, non un uomo. E quindi, non riempirti la testa con sogni
sul mio conto. Me ne andrò e dubito molto che avrò il tempo di tornare, sia pure soltanto per una
breve visita.»
Meggie aveva le spalle curve, come se il fardello fosse stato molto pesante, ma alzò la testa per
fissare Padre Ralph negli occhi.
«Non mi riempirò la testa con sogni sul suo conto, non abbia paura. So che è un prete.»
«Non sono persuaso di avere sbagliato scegliendo la mia vocazione. Appaga una necessità in me
come nessun essere umano potrebbe mai fare, nemmeno tu.»
«Lo so. Posso rendermene conto quando celebra la Messa. C'è una forza in lei. Immagino che debba
sentirsi come Nostro Signore.»
«Riesco a sentire ogni respiro trattenuto in chiesa, Meggie! Muoio a ogni giorno che passa, ma ogni
mattina, celebrando la Messa, rinasco. Questo però accade perché sono il prete scelto da Dio, o
perché odo quei respiri trattenuti e timorosi e conosco il potere che ho su ogni anima del mio
gregge?»
«Ha qualche importanza? È così e basta.»
«Probabilmente non avrebbe alcuna importanza per te, ma ce l'ha per me. Dubito, dubito.»
Passò a un argomento che le stava più a cuore. «Non so come riuscirò a tirare avanti senza di lei,
Padre. Prima Frank, ora lei. In qualche modo, con Hal è diverso. So che è morto e non potrà tornare
mai più. Ma lei è vivo, come Frank! Continuerò a domandarmi dove si trova, che cosa sta facendo,
se gode di buona salute, se potrei fare qualcosa per aiutarla. Dovrò addirittura domandarmi se sia
ancora vivo, non le sembra?»
«Sarà così anche per me, Meggie, e sono certo che è così anche per Frank.»
«No. Frank ci ha dimenticati... E ci dimenticherà anche lei.»
«Non potrò mai dimenticarti, Meggie, mai finché vivrò. E sarò punito vivendo a lungo, molto a
lungo.» Si alzò e la mise in piedi, poi l'allacciò con le braccia, senza stringerla, affettuosamente.
«Credo che questo sia il nostro addio, Meggie. Non potremo più restar soli.»
«Se lei non fosse un prete, Padre, mi avrebbe sposata?»
Il titolo che gli spettava lo irritò. «Non chiamarmi sempre così! Il mio nome è Ralph.» Il che non
rispose alla domanda.
Sebbene la stesse abbracciando, non aveva alcuna intenzione di baciarla. Il viso alzato verso il suo
rimaneva quasi invisibile perché la luna era tramontata, lasciando dietro di sé una fitta oscurità.
Sentiva i piccoli seni appuntiti contro il petto; una sensazione curiosa, sconvolgente. Ancor più lo fu
il fatto che, con naturalezza, come se si fosse gettata tra le braccia di un uomo ogni giorno della sua
vita, Meggie gli aveva passato le braccia intorno al collo, allacciandolo con forza.
Non aveva mai baciato nessuna donna come un amante, e non voleva farlo adesso; né, pensava,
poteva volerlo Meggie. Un bacio affettuoso sulla gota, un rapido abbraccio, lo stesso che avrebbe
chiesto a suo padre qualora fosse dovuto partire. Era sensibile e orgogliosa; doveva averla ferita
profondamente sottoponendo a uno spassionato esame i suoi sogni preziosi. Indubbiamente, Meggie
doveva essere ansiosa quanto lui di affrettare l'addio. L'avrebbe consolata sapere che stava
soffrendo più di lei? Mentre chinava il capo per sfiorarle la gota, lei si sollevò in punta di piedi e,
più per fortuna che per abilità, gli toccò le labbra con le sue. Padre Ralph sussultò all'indietro come
se avesse gustato il veleno del ragno, poi di nuovo abbassò il capo prima di perderla, cercò di dire
qualcosa contro la bocca chiusa e soave e, nel tentativo di rispondere, Meggie la dischiuse. Il suo
corpo parve perdere tutte le ossa, divenire fluido, una calda, sciolta oscurità; un braccio di lui la
stringeva alla vita, l'altro le premeva il dorso con la mano sulla nuca, tra i capelli, tenendole il volto
alzato verso il suo, quasi per il timore di poter essere abbandonato proprio in quel momento, prima
di aver potuto capire e catalogare l'incredibile presenza che era Meggie. Meggie e non Meggie,
troppo estranea per essere familiare, poiché la sua Meggie non era una donna, non dava le
sensazioni di una donna, non avrebbe mai potuto essere una donna per lui. Così come lui non
sarebbe potuto essere un uomo per lei. La riflessione prevalse sui sensi che affogavano; si strappò
via dal collo le braccia della ragazza, la respinse e si sforzò di vederne il volto nell'oscurità. Ma
teneva la testa bassa e non voleva guardarlo.
«È il momento di andare, Meggie» le disse.
La vide avvicinarsi al cavallo senza pronunciar parola, montare in sella e aspettarlo; di solito era lui
ad aspettarla.
Padre Ralph aveva avuto ragione. In quella stagione, Drogheda era inondata di rose, per cui ora la
casa sembrava esserne soffocata. Alle otto di quel mattino, nei giardini non restava quasi più un
fiore. I primi conoscenti cominciarono ad arrivare non molto tempo dopo che l'ultima rosa era stata
sottratta al cespuglio, una colazione leggera a base di caffè e crostini appena abbrustoliti e imburrati
era stata preparata nella piccola sala da pranzo. Una volta rinchiusa Mary Carson nel mausoleo, un
pasto più sostanzioso sarebbe stato servito nella sala da pranzo grande, per rinvigorire i partecipanti
alle esequie prima del lungo viaggio di ritorno. La notizia si era sparsa; impossibile dubitare
dell'efficienza con cui si diffondevano le voci a Gilly grazie al telefono. Mentre le labbra
pronunciavano frasi di circostanza, gli occhi e le menti dietro gli occhi facevano supposizioni,
deducevano, sorridevano con malizia.
«Mi risulta che stiamo per perderla, Padre» disse Miss Carmichael, con perfidia.
Non era mai sembrato tanto remoto, tanto svuotato di ogni sentimento umano come quel mattino,
con il camice privo di pizzi, la casula di un nero opaco e la croce d'argento. Si sarebbe detto che
fosse presente soltanto con il corpo, mentre lo spirito vagava lontano. Ma abbassò gli occhi su Miss
Carmichael distrattamente, parve ritrovare se stesso, e sorrise con autentico divertimento.
«Dio segue vie misteriose, Miss Carmichael» disse, poi andò a parlare con qualcun altro.
Che cosa avesse in mente, nessuno sarebbe riuscito a supporlo; il confronto imminente con Paddy a
causa del testamento, e il timore di assistere all'ira di Paddy, e il suo bisogno dell'ira e del disprezzo
di Paddy.
Prima di cominciare a celebrare la Messa di Requiem, si voltò verso i fedeli; il salone era gremito, e
odorava a tal punto di rose che nemmeno le finestre spalancate riuscivano a disperderne il profumo
greve.
«Non intendo pronunciare un lungo elogio funebre» disse con la sua limpida pronuncia quasi
oxfordiana e il lieve accento irlandese in sottofondo. «Voi tutti conoscevate Mary Carson. Un
pilastro della comunità, un pilastro della Chiesa, che ella amava più di qualsiasi persona al mondo.»
A questo punto, taluni giurarono che gli occhi di lui erano colmi di scherno, ma altri, con altrettanta
sicurezza, sostennero che li offuscava un vero e perenne dolore.
«Un pilastro della Chiesa, che amava più di qualsiasi persona al mondo» ripeté ancor più
chiaramente; anche lui non era uomo da cambiare idea. «Nell'ultima ora della sua vita è rimasta
sola, ma, ciò nonostante, non era sola. Poiché, nel momento della morte, Nostro Signore Gesù
Cristo è con noi, entro di noi, e sopporta il fardello della nostra agonia. Né la più grande né la più
umile creatura vivente muoiono sole, e la morte è dolce. Siamo qui riuniti a pregare per la sua
anima immortale, affinché colei che abbiamo amato nella vita abbia il giusto ed eterno riposo.
Preghiamo.»
La bara improvvisata era talmente coperta di rose da restare invisibile e poggiava su un carrello
messo insieme dai ragazzi con pezzi di varie macchine agricole. Ma, nonostante le finestre
spalancate e il profumo prepotente delle rose, tutti potevano percepire il fetore del cadavere. Anche
il medico aveva parlato.
«Al mio arrivo a Drogheda era talmente decomposta che non ho potuto fare a meno di vomitare»,
così si era espresso, parlando con Martin King. «In vita mia non ho mai compassionato nessuno
quanto Paddy Cleary, in quel momento, non soltanto perché era stato privato di Drogheda, ma
perché doveva spingere quello spaventoso mucchio di putredine nella bara.»
«Allora non mi farò avanti offrendomi di portarla» aveva detto Martin, così fiocamente, a causa di
tutti i ricevitori alzati lungo la linea telefonica a circuito chiuso, che il dottore era stato costretto a
fargli ripetere la frase per ben tre volte prima di riuscire a capirla.
Ecco il perché del carrello; nessuno era disposto a portare a spalla i resti di Mary Carson attraverso
il prato fino al mausoleo. E nessuno si dispiacque quando le porte di quest'ultimo vennero chiuse su
di lei e la respirazione poté ridiventare normale, finalmente.
Mentre tutti si trovavano nella grande sala da pranzo a mangiare o a fingere di mangiare, Harry
Gough condusse Paddy, la sua famiglia, Padre Ralph, la signora Smith e le due cameriere nel
salotto. Nessuno di coloro che avevano partecipato al funerale intendeva tornare a casa, per il
momento; per questo fingevano di mangiare. Volevano essere presenti e vedere la faccia di Paddy
quando fosse uscito dopo la lettura del testamento. Volendo rendere giustizia a lui e ai suoi, durante
le esequie non si erano comportati come se fossero consapevoli della loro nuova posizione sociale.
Buono di cuore come sempre, Paddy aveva pianto per la sorella, e Fee era sembrata esattamente
quella di sempre, come se non si curasse di quello che le accadeva.
«Paddy, voglio che lei impugni il testamento» disse Harry Gough, dopo aver letto sino in fondo, con
una voce vibrante e indignata, lo stupefacente documento.
«Perfida, vecchia strega!» esclamò la signora Smith; sebbene fosse affezionata al sacerdote, lo era
molto di più ai Cleary. Avevano portato bambini e gioventù nella sua esistenza.
Ma Paddy scosse la testa. «No, Harry! Non potrei fare una cosa simile. La proprietà era sua, no?
Aveva tutto il diritto di farne ciò che le piaceva. Se ha voluto che l'avesse la Chiesa, così dovrà
essere. Non nego di essere un po' deluso, ma sono un uomo comune, e forse è meglio così. Non
credo che mi sarebbe piaciuta la responsabilità di possedere una proprietà vasta come Drogheda.»
«Lei non capisce, Paddy» disse l'avvocato, esprimendosi adagio e con chiarezza come se il suo
interlocutore fosse stato un bambino. «Non sto parlando soltanto di Drogheda. Drogheda è la
minima parte di quel che sua sorella aveva da lasciare, mi creda. Possedeva importanti quote
azionarie in un centinaio di società di prim'ordine, era la proprietaria di acciaierie e miniere d'oro,
nonché della Michar Limited con un palazzo d'uffici alto dieci piani e tutto suo a Sydney. Era più
ricca di chiunque altro nell'intera Australia! È strano, ma, non più di quattro settimane fa, volle che
parlassi con i direttori della Michar Limited a Sydney, per accertare la portata esatta del suo
patrimonio. Morendo, ha lasciato qualcosa di più di tredici milioni di sterline.»
«Tredici milioni di sterline!» esclamò Paddy, come si può indicare la distanza tra la terra e il sole,
qualcosa di totalmente incomprensibile. «Allora è deciso, Harry. Non voglio la responsabilità di
tutti questi quattrini.»
«Non è una responsabilità, Paddy! Ancora non lo capisce? Un patrimonio simile si autoamministra!
Lei non avrebbe niente a che vedere con il farlo fruttare e il mietere gli utili; vi sono centinaia di
persone impiegate esclusivamente per tutelare i suoi interessi. Impugni il testamento, Paddy, la
prego! Le troverò il miglior civilista del paese, che si batterà per lei, anche fino al Consiglio Privato,
se necessario.»
Rendendosi conto a un tratto che la sua famiglia era interessata quanto lui, Paddy si voltò verso Bob
e Jack; sedevano l'uno accanto all'altro, smarriti, su una panca di marmo fiorentino. «Ragazzi, che
cosa ne dite? Ci tenete ai tredici milioni di sterline di vostra zia Mary? Se ci tenete, impugnerò il
testamento, altrimenti no.»
«Ma possiamo restare a Drogheda comunque, non è così che dice il testamento?» domandò Bob.
Fu Harry a rispondere. «Nessuno potrà mai scacciarvi da Drogheda finché anche uno solo dei nipoti
di vostro padre sarà in vita.»
«Abiteremo qui, nella grande casa, avremo la signora Smith e le ragazze al nostro servizio, e
guadagneremo uno stipendio decente» disse Paddy, come se stentasse a credere alla propria fortuna,
più che alla sfortuna.
«Allora che altro possiamo volere, Jack?» domandò Bob al fratello. «Non sei d'accordo?»
«Per me va bene» disse Jack.
Padre Ralph si agitò irrequieto. Non si era nemmeno concesso il tempo di togliersi i paramenti della
Messa di Requiem, né aveva occupato una sedia; come un bruno e splendido stregone, rimaneva in
piedi, per metà in ombra, in fondo alla stanza, appartato, le mani nascoste sotto la nera casula, la
faccia immota e, nelle profondità degli occhi azzurri, un risentimento stordito, inorridito. Non vi
sarebbe stata neppure l'anelata punizione dell'ira o del disprezzo. Paddy gli avrebbe servito ogni
cosa su un vassoio d'oro di benevolenza, e lo avrebbe persino ringraziato per aver liberato i Cleary
di un fardello.
«E Fee, e Meggie?» domandò il sacerdote, in tono aspro, a Paddy. «Tiene in così poco conto le sue
donne da non consultare anche loro?»
«Fee?» domandò Paddy, in tono ansioso.
«Qualsiasi cosa deciderai tu, Paddy. Non mi interessa.»
«Meggie?»
«Non li voglio, i suoi tredici milioni di pezzi d'argento» rispose Meggie, gli occhi fissi su Padre
Ralph.
Paddy si rivolse all'avvocato. «Allora è deciso, Harry. Non vogliamo impugnare il testamento. Che
la Chiesa si tenga il denaro di Mary e buon pro le faccia.»
Harry fece schioccare le mani l'una contro l'altra. «Per tutti i diavoli, non sopporto di vedervi
frodati!»
«Ringrazio la mia stella per Mary» disse Paddy, con dolcezza. «Se non fosse stato per lei,
continuerei a guadagnarmi a stento da vivere nella Nuova Zelanda.»
Mentre uscivano dal salotto, fermò Padre Ralph e gli tese la mano, alla presenza degli ospiti
affascinati, che si raggruppavano sulla soglia della sala da pranzo.
«Padre, la prego di non credere che vi sia qualche risentimento da parte nostra. Mary non si è mai
lasciata influenzare da alcun essere umano in vita sua, sacerdote, o fratello o marito. Creda a me, ha
fatto quello che voleva fare. Lei è stato infinitamente buono con mia sorella, e infinitamente buono
con noi. Non lo dimenticheremo mai.»
Il rimorso. Il fardello. Padre Ralph quasi non fece il gesto di accettare la mano nodosa e chiazzata,
ma la mente del Cardinale prevalse; l'afferrò febbrilmente, e sorrise tormentato.
«Grazie, Paddy. Farò in modo, può starne certo, che non vi manchi mai nulla.»
Entro quella stessa settimana partì, senza più tornare a Drogheda. Trascorse i pochi giorni prima
della partenza mettendo via le sue poche cose e recandosi in tutti gli allevamenti del distretto ove
risiedevano famiglie cattoliche; ma non a Drogheda.
Padre Watkin Thomas, che era stato di recente nel Galles, venne ad assumere i compiti di parroco
nel distretto di Gillanbone, mentre Padre Ralph de Bricassart diveniva segretario privato
dell'Arcivescovo Cluny Dark. Ma senza molte incombenze; disponeva di due sottosegretari. Per la
maggior parte del tempo, accertò esattamente quanto avesse posseduto Mary Carson e dove, e riunì
le redini dell'amministrazione del patrimonio a favore della Chiesa.
Parte terza 1929-1932 Paddy
8

Il nuovo anno cominciò con il ricevimento offerto da Angus MacMCQueen per Hogmanay (La
vigilia di Capodanno, in scozzese.) [N.d.T.]¼, a Rudna Hunish, e ancora il trasloco nella grande
dimora non era stato completato. Non era una cosa che si potesse sbrigare da un giorno all'altro,
tenuto conto del fatto che bisognava imballare suppellettili accumulatesi per sette anni, e che Fee
voleva almeno arredare prima il salotto della grande casa. Nessuno aveva la benché minima fretta,
sebbene tutti fossero impazienti di trasferirsi. Sotto alcuni aspetti, la grande casa non sarebbe stata
diversa: mancava l'energia elettrica e le mosche la popolavano altrettanto fitte. Ma in estate era di
almeno undici gradi più fresca che all'esterno, grazie allo spessore dei muri di pietra e agli alti
eucalipti che ne ombreggiavano il tetto. Inoltre, il bagno costituiva un autentico lusso, in quanto
disponeva per tutto l'inverno di acqua calda portata sin lì mediante tubi collegati alla grossa stufa
nella cucina esterna; e inoltre, ogni goccia che correva nelle tubazioni era d'acqua piovana. Sebbene
i bagni e le docce bisognasse farli in quel vasto locale, suddiviso in dieci cubicoli, la grande dimora
e le case più piccole erano generosamente dotate di gabinetti con acqua corrente, un lusso inaudito
che invidiosi di Gilly erano stati uditi definire sibaritismo. A parte l'Hotel Imperial, due pub, la
canonica e il convento cattolico, l'intero distretto di Gillanbone si accontentava di latrine esterne.
Eccezion fatta per Drogheda, grazie all'enorme numero di cisterne e ai vasti tetti che raccoglievano
acqua piovana. Le regole erano severe: nessuno scarico superfluo, e liquido disinfestante per le
pecore in abbondanza. Ma, dopo le fosse scavate nel terreno, si trattava di un paradiso.
Nei primi giorni del precedente mese di dicembre, Padre Ralph aveva spedito a Paddy un assegno di
cinquemila sterline, per cominciare a tirare avanti, diceva la sua lettera. Paddy lo consegnò a Fee
con un'esclamazione di stupore.
«Dubito di essere riuscito a guadagnare tanto in tutta una vita di lavoro» disse.
«Che cosa dovrò farne?» domandò Fee, fissando l'assegno; poi alzò gli occhi su di lui, occhi
splendenti. «Denaro, Paddy! Denaro, finalmente, te ne rendi conto? Oh, non mi importa dei tredici
milioni di sterline di zia Mary... non c'è alcunché di reale in una somma simile. Ma questa è reale!
Che cosa dovrò farne?»
«Spendila» si limitò a rispondere Paddy. «Qualche vestito nuovo per i ragazzi e per te, magari? E
forse ci sono cose che ti piacerebbe acquistare per la grande casa? Non mi viene in mente altro che
possa occorrerci.»
«Nemmeno a me, non è stupido?» Poi Fee, che sedeva a tavola per la colazione, balzò in piedi, e,
imperiosamente, fece cenno a Meggie. «Vieni con me, figliola, andiamo a dare un'occhiata alla
grande casa.»
Sebbene fossero già trascorse altre tre settimane, dopo quella frenetica seguita alla morte di Mary
Carson, nessuno dei Cleary si era più avvicinato alla grande dimora. Ma ora l'ispezione di Fee
controbilanciò la precedente riluttanza. Passò da una stanza all'altra, seguita da Meggie, dalla
signora Smith, da Minnie e da Cat; animata come Meggie — sconcertata — non l'aveva mai veduta.
Continuava a mormorare tra sé e sé: questo era spaventoso, quest'altro un vero e proprio orrore; ma
non aveva avuto occhi per i colori, Mary? Non possedeva un briciolo di buon gusto?
Si trattenne più a lungo nel salotto, osservandolo con aria esperta. Soltanto il salone dei ricevimenti
lo superava in dimensioni, poiché era lungo dodici metri, largo nove e aveva un soffitto alto quattro
metri e mezzo. Si trattava di un bizzarro miscuglio del meglio e del peggio in fatto di decorazione e
arredamento, dipinto com'era in un color crema uniforme, che il tempo aveva ingiallito e che non
faceva risaltare in alcun modo le magnifiche modanature del soffitto e i pannelli scolpiti alle pareti.
Le enormi finestre che andavano dal pavimento al soffitto, e che si susseguivano per tutti i dodici
metri sul lato della veranda, erano nascoste da pesanti tende di velluto marrone e lasciavano in una
tetra penombra le sbiadite poltrone marroni, due stupefacenti panchine di malachite, due panchine
meravigliose di marmo fiorentino, e un massiccio caminetto di marmo crema con venature rosa
carico. Sul lucido pavimento di teak erano stati disposti con geometrica precisione tre tappeti
Aubusson, mentre una lumiera Waterford lunga un metro e ottanta sfiorava il soffitto.
«Merita una lode, signora Smith» dichiarò Fee. «È semplicemente spaventoso, ma di una pulizia
immacolata. Io le darò qualcosa che valga la pena di tener pulito. Quelle inestimabili panche, senza
alcunché per farle risaltare... è una vergogna! Sin dal giorno in cui vidi per la prima volta questa
stanza, ho desiderato farne qualcosa che possa essere ammirato da chiunque vi entri, ma al
contempo qualcosa di tanto comodo da far sì che chiunque vi entri desideri restarvi.»
Lo scrittoio di Mary Carson era un orrore vittoriano. Fee si avvicinò a esso e al telefono che vi si
trovava, dando un buffetto sprezzante al legno scuro. «Il mio scrittoio farà una figura meravigliosa,
qui. Comincerò con questa stanza, e, quando sarà finita, ci trasferiremo, ma non prima. Allora
avremo per lo meno un ambiente nel quale poterci riunire senza sentirci oppressi.» Sedette e staccò
il ricevitore del telefono dal gancio.
Mentre sua figlia e le cameriere formavano un gruppetto allibito, si accinse a mettere in moto Harry
Gough. Mark Foys avrebbe spedito campioni di stoffe con la posta serale; la Nock & Kirby avrebbe
mandato campioni di vernici; la Grace Brothers campioni di carta da parati; questi e altri negozi di
Sydney avrebbero spedito, inoltre, cataloghi preparati appositamente per lei, con la descrizione
delle loro mercanzie. Il riso nella voce, Harry assicurò che le avrebbe trovato un abile tappezziere e
un gruppo di pittori capaci di fare il lavoro meticoloso preteso da Fee. Brava signora Cleary!
Avrebbe spazzato via Mary Carson dalla casa.
Terminato il colloquio telefonico, tutte le donne ricevettero l'ordine di togliere immediatamente le
tende di velluto. Il mucchio di stoffe finì fuori, in un'orgia di sperpero diretta personalmente da Fee,
la quale accostò con le sue mani la torcia accesa alla catasta.
«A noi non servono» disse «e non intendo infliggerle ai poveri di Gillanbone.»
«Sì, Ma'» mormorò Meggie, paralizzata.
«Non metteremo alcuna tenda» continuò Fee, per nulla turbata dalla flagrante violazione delle
costumanze dell'epoca in fatto di arredamento. «La veranda è troppo profonda per consentire al sole
di entrare direttamente, e perché allora dovrebbero occorrerci tende? Voglio che questa stanza si
veda.»
Il materiale necessario arrivò e arrivarono i pittori e il tappezziere; Meggie e Cat furono fatte salire
su scale a pioli per lavare la parte alta delle finestre, mentre la signora Smith e Minnie erano alle
prese con il resto, e Fee andava avanti e indietro a gran passi, osservando ogni cosa con occhi
d'aquila.
Entro la seconda settimana di gennaio tutto era stato completato, e in qualche modo, naturalmente,
la notizia si sparse al telefono. La signora Cleary aveva trasformato il salotto di Drogheda in un
palazzo, e la cortesia non imponeva forse che la signora Hopeton si recasse, con la signora King e la
signora O'Rourke, a fare una visita di benvenuto nella grande dimora?
Nessuno contestò che il risultato delle fatiche di Fee fosse la bellezza in assoluto. I tappeti
Aubusson color crema, con i loro stinti mazzi di rose rosse e rosa e le foglie verdi, erano stati
disposti a caso nella sala ripulita a specchio. Una nuova tinta color crema rivestiva le pareti e il
soffitto, ogni modanatura e ogni pannello erano stati meticolosamente posti in risalto con dorature,
ma gli enormi spazi piatti e ovali dei pannelli risultavano rivestiti con seta nera opaca sulla quale
figuravano gli stessi mazzi di rose dei tre tappeti, come stilizzati dipinti giapponesi circondati da
dorature su sfondo crema. La lumiera Waterford era stata abbassata in modo che le ultime gocce di
cristallo tintinnassero ad appena due metri d'altezza dal pavimento, con ognuno delle migliaia di
prismi lucidato sino a rifulgere come un arcobaleno. Su esili tavolini color crema e dorati si
trovavano lampade Waterford accanto a posacenere Waterford e a vasi Waterford, con mazzi di rose
tea e rosa; tutte le ampie e comode poltrone erano state rivestite a nuovo in seta marezzata color
crema chiaro e raggruppate qua e là in modo intimo, con grandi ottomane accostate, invitanti. In un
angolo luminoso risaltava la squisita, antica spinetta e su di essa troneggiava un enorme vaso, pieno
anch'esso di rose crema e rosa. Sopra il caminetto pendeva il ritratto della nonna di Fee, in crinolina
rosa-pallido, e, di fronte a lei, al lato opposto della sala, si trovava un ritratto ancor più grande di
Mary Carson giovane, con i capelli rossi, il viso alquanto somigliante a quello della Regina Vittoria
giovane, con un rigido vestito nero a gonna scampanata, secondo la moda dell'epoca.
«Benissimo» disse Fee «ora possiamo trasferirci qui dal torrente. Rimetterò a nuovo le altre stanze
con comodo. Oh, non è bello avere denaro e una casa decente per la quale spenderlo?»
Circa tre giorni prima del trasloco, a un'ora tanto mattutina che il sole non era ancora sorto, i galli
nel pollaio stavano facendo allegramente chicchirichì.
«Disgraziati» disse Fee, avvolgendo le porcellane con giornali vecchi. «Non so che cosa credano di
aver fatto per cantare tanto! Non abbiamo un uovo in casa per la colazione, e tutti gli uomini sono
qui fino al termine del trasloco. Meggie, vai tu per me nel pollaio; io sono occupata.» Scrutò una
pagina ingiallita del Sydney Morning Herald, sbuffando mentre guardava un annuncio di busti a
vita di vespa. «Non so perché Paddy si ostini a voler comprare tutti i giornali; nessuno ha mai il
tempo di leggerli. Si accumulano troppo rapidamente per poter essere bruciati nella stufa. Guarda
questo! Risale a prima che venissimo ad abitare qui. Be', almeno fanno comodo per imballare.»
Era piacevole vedere la mamma così allegra, pensò Meggie, mentre si precipitava giù per gli scalini
dietro casa e attraversava l'aia polverosa. Sebbene tutti fossero logicamente impazienti di andare ad
abitare nella grande dimora, Ma' sembrava bramare quel momento come se avesse ricordato che
cosa significava vivere in una casa elegante. Com'era intelligente, che gusto perfetto aveva! Cose di
cui nessuno si era mai accorto prima, perché mancava sia il tempo, sia il denaro per farle emergere.
Meggie si strinse le braccia al seno, eccitata; Pa' aveva speso parte delle cinquemila sterline dal
gioielliere di Gilly per acquistare alla mamma una collana e orecchini di perle vere, e sugli
orecchini c'erano anche piccoli brillanti. Glieli avrebbe dati in occasione del loro primo pranzo nella
grande casa. Ora che aveva veduto il viso di sua madre liberato dal consueto severo distacco, era
impaziente di osservare quale espressione avrebbe avuto nel momento in cui le fossero state date le
perle. Da Bob ai gemelli, tutti i ragazzi erano in orgasmo per la stessa ragione, perché Pa' aveva
mostrato loro il grosso astuccio piatto di cuoio, aprendolo e rivelando i chicchi lattei opalescenti
sullo sfondo di velluto nero. La sbocciante felicità della madre li aveva colpiti profondamente; era
come assistere all'inizio di una buona pioggia sulla terra assetata. Fino a quel momento, non si
erano mai resi conto di quanto fosse stata infelice in tutti gli anni da quando la conoscevano.
Il pollaio era enorme e conteneva quattro galli e più di quaranta galline. Durante la notte, si
rifugiavano in una cadente baracca intorno al cui pavimento, meticolosamente scopato, si
allineavano cassette arancione piene di paglia per deporre le uova, mentre in fondo si trovavano
trespoli situati a varie altezze. Ma, durante il giorno, le galline si aggiravano chiocciando nel vasto
spiazzo recintato da una rete metallica. Quando Meggie aprì il cancelletto e si infilò dentro, le
chiocce si raggrupparono avidamente intorno a lei, pensando di avere il becchime, ma poiché lo
distribuiva ogni sera, la ragazza rise dei loro stupidi lazzi.
«Come chiocce, siete delle buone a niente, sul serio!» le rimproverò con severità, mentre frugava
nelle cassette. «Quaranta galline e appena quindici uova! Non bastano nemmeno per la colazione,
figurarsi per una torta. Bene, vi avverto sin d'ora... se non rimedierete presto, il ceppo per tagliarvi il
collo vi aspetta tutte quante, e questo vale anche per i signori del pollaio, non soltanto per le
consorti, quindi non drizzate la testa e non gonfiate le penne come se la cosa non vi riguardasse, bei
signori!»
Con le uova cautamente tenute entro il grembiule, Meggie corse di nuovo in cucina, cantando.
Fee sedeva sulla poltrona di Paddy e fissava una pagina dello Smith's Weekly, la faccia cerea,
muovendo le labbra. Meggie udì gli uomini camminare nelle altre stanze e Jims e Patsy, di sei anni,
che ridevano nei loro lettini; non dovevano mai alzarsi prima che gli uomini fossero usciti.
«Che cos'hai, Ma'?» domandò.
Fee non rispose, si limitò a fissare il vuoto dinanzi a sé con il labbro superiore imperlato di sudore,
e gli occhi colmi di una sofferenza disperatamente razionale, quasi stesse chiamando a raccolta
entro di sé ogni risorsa che possedeva per non urlare.
«Pappi! Pappi!» gridò Meggie in tono acuto, spaventata.
Il tono della sua voce lo fece accorrere mentre ancora si infilava la maglietta di flanella, seguito da
Bob, Jack, Hughie e Stu. Meggie additò ammutolita sua madre.
A Paddy parve che il cuore gli bloccasse la gola. Si chinò su Fee e prese tra le dita il polso inerte di
lei. «Che cosa c'è, cara?» le domandò, e nessuno dei suoi figli lo aveva mai udito esprimersi in un
tono così tenero; eppure, in qualche modo, sapevano che quello era il tono con il quale egli le
parlava quando loro non erano presenti.
Fee parve riconoscere quella voce particolare quanto bastava per emergere dallo stravolto stato di
trance, e i grandi occhi grigi guardarono la faccia di lui, così buona e logora.
«Qui» disse, additando un breve trafiletto in fondo alla pagina.
Stuart era andato a mettersi dietro la madre, posandole la mano con leggerezza sulla spalla; prima di
cominciare a leggere la notizia, Paddy sbirciò il figlio, guardandolo negli occhi così simili a quelli
di Fee, e annuì. Ciò che lo aveva aizzato alla gelosia in Frank non sarebbe mai riuscito a fare
altrettanto nel caso di Stuart; come se il loro affetto per Fee li unisse strettamente, invece di
separarli.
Paddy lesse a voce alta, adagio, e il suo tono di voce divenne sempre e sempre più triste. Il titolo, a
caratteri piccoli, diceva:
Pugile condannato all'ergastolo
«Francis Armstrong Cleary, di ventisei anni, pugile di professione, è stato oggi riconosciuto
colpevole, dal tribunale distrettuale di Goulburn, di avere assassinato Ronald Albert Cumming, di
anni 32, operaio, nello scorso luglio. La giuria è pervenuta al verdetto dopo aver deliberato per soli
dieci minuti, proponendo la condanna più severa che la Corte potesse infliggere. Si è trattato, ha
detto il giudice Fitz-Hugh-Cunneally, di un caso di lampante colpevolezza. Cumming e Cleary
avevano avuto un violento litigio nel bar dell'Hotel Harbor, il 23 luglio. Quella stessa sera, sul tardi,
il sergente Tom Beardsmore, della polizia di Goulburn, accompagnato da due agenti, si recò
all'Hotel Harbor, chiamatovi dal proprietario, il signor James Ogilvie. Nel vicolo dietro l'albergo, la
polizia trovò Cleary che sferrava calci alla testa di Cumming, ormai privo di sensi. Aveva i pugni
imbrattati di sangue e tra le dita ciuffi dei capelli di Cumming. Al momento dell'arresto, Cleary era
ubriaco, ma lucido. Fu accusato di aggressione e percosse, ma l'imputazione divenne di assassinio
dopo la morte di Cumming, il giorno seguente, all'ospedale del distretto di Goulburn, per lesioni
cerebrali. L'avvocato difensore, Arthur Whyte, ha sostenuto la tesi della non colpevolezza
dell'imputato per infermità mentale ma quattro medici, deponendo per la pubblica accusa, hanno
asserito inequivocabilmente che, in base a quanto dispone la legge MCNaughton, Cleary non poteva
essere considerato malato di mente. Nella sua allocuzione alla giuria, il giudice Fitz-Hugh-
Cunneally ha detto che non era questione di innocenza o colpevolezza, in quanto il verdetto
ovviamente poteva essere soltanto "colpevole", ma che la invitava a ben meditare sulle
raccomandazioni di clemenza o severità, poiché si sarebbe attenuto a esse. Al momento di
condannare Cleary, il giudice Fitz-Hugh-Cunneally ha definito il delitto "un esempio di barbarie
subumana" e ha espresso il proprio rincrescimento per il fatto che lo stato di ubriachezza
dell'imputato e la non premeditazione del delitto impedivano la condanna all'impiccagione; in
effetti, egli considerava le mani di Cleary un'arma mortale quanto una pistola o un coltello. Cleary è
stato condannato ai lavori forzati a vita e dovrà scontare la pena nel carcere di Goulburn, destinato
ai detenuti più violenti. Alla domanda se avesse qualcosa da dire, Cleary ha risposto: "Chiedo
soltanto che mia madre non venga avvertita."»
Paddy alzò gli occhi sull'orlo della pagina per vedere la data: 6 dicembre 1925. «È accaduto più di
tre anni fa» disse, fiocamente.
Nessuno gli rispose o si mosse, perché nessuno sapeva che cosa fare; da un'altra stanza della casa
giungevano le risatine allegre dei gemelli, le loro vocette acute che ciangottavano.
«Chiedo soltanto... che mia madre... non venga avvertita» mormorò Fee, in preda allo stordimento.
«E nessuno lo ha fatto! Oh, Dio! Mio povero, povero Frank!»
Paddy si asciugò le lacrime dalla faccia con il dorso della mano libera, poi si accosciò davanti a lei,
accarezzandole con dolcezza il grembo.
«Fee cara, fai le valigie. Andiamo da lui.»
Si alzò a mezzo, ma poi ricadde sulla poltrona, gli occhi, nel viso minuto e bianco, spalancati e fissi
come se fosse morta, le pupille enormi e rivestite da una pellicola dorata.
«Non posso andare da lui» disse, senza il benché minimo indizio di sofferenza, eppure facendo
sentire a tutti che la sofferenza era in lei. «Vedermi lo ucciderebbe. Oh, Paddy, lo ucciderebbe! Lo
conosco così bene... il suo orgoglio, la sua ambizione, la decisione di diventare una persona
importante. Lasciamo che sopporti da solo la vergogna, se così vuole. Lo hai letto. "Chiedo soltanto
che mia madre non venga avvertita." Dobbiamo aiutarlo a mantenere segreta la cosa. Come
potrebbe giovare, a lui o a noi, parlargli?»
Paddy piangeva ancora, ma non per Frank; per la vita che si era spenta sulla faccia di Fee, per la
morte che aveva negli occhi. Uno iettatore, ecco che cos'era sempre stato il ragazzo; un disastroso
apportatore di disgrazie, sempre frapposto tra Fee e lui, la ragione per cui lei si era sottratta al suo
cuore e al cuore dei suoi figli. Ogni volta che sembrava esservi un po' di felicità in serbo per Fee,
Frank gliela toglieva. Ma l'amore di Paddy per sua moglie era profondo e impossibile a sradicarsi
quanto quello di Fiona per Frank; non gli sarebbe più stato possibile servirsi del ragazzo come di un
capro espiatorio, non dopo quella sera alla canonica.
Pertanto disse: «Bene, Fee, se ritieni che sia preferibile non tentare di recarsi da lui, non andremo.
Eppure, vorrei sapere che sta bene, vorrei essere certo che, qualsiasi cosa sia possibile fare per
Frank, venga fatta. Se scrivessi a Padre de Bricassart e gli chiedessi di occuparsi del ragazzo?»
Gli occhi di Fiona non si ravvivarono, ma un'ombra di rosa le si diffuse sulle gote. «Sì, Paddy,
scrivigli. Ma spiegagli molto chiaramente come stanno le cose; non deve dire a Frank che noi
sappiamo. Forse sarà meno penoso per lui avere la certezza che ignoriamo tutto.»
Di lì a pochi giorni, Fee ritrovò quasi tutta la sua energia, e l'interessamento con il quale rimetteva a
nuovo la grande dimora la tenne occupata. Ma la sua placidità ridivenne severa, anche se meno
torva, incapsulata da una calma inespressiva. Sembrava avere più a cuore il futuro aspetto della casa
che il benessere della famiglia. Forse li credeva capaci di badare a se stessi spiritualmente, e
riteneva che la signora Smith e le cameriere si trovassero lì per occuparsi di loro materialmente.
Eppure, la scoperta della situazione di Frank aveva colpito tutti profondamente. I ragazzi più grandi
si affliggevano molto per la madre e trascorrevano notti insonni ricordandone il viso in quel
momento spaventoso. L'amavano, e la sua allegria, nelle poche settimane precedenti, aveva
consentito loro di intravedere un'immagine di lei che non dovevano più dimenticare e che faceva
nascere in essi il desiderio appassionato di farla rivivere. Se il padre era stato il perno intorno al
quale avevano girato le loro esistenze fino a quel momento, da allora in avanti accanto a lui posero
la madre. Cominciarono a trattarla con una sollecitudine tenera, assorta, che tutta l'indifferenza di
lei non riusciva a respingere. Da Paddy a Stu, i Cleary maschi cospirarono per far sì che Fee potesse
avere qualsiasi cosa desiderasse dalla vita, e pretesero che tutti si adoprassero a tale fine. Nessuno
doveva farle del male o addolorarla ancora. E quando Paddy le offrì le perle e lei le accettò con una
breve e inespressiva parola di ringraziamento, senza osservarle con piacere o con interesse, tutti
pensarono a quanto diversamente Fee avrebbe reagito se non fosse stato per Frank.
Se non si fossero trasferiti nella grande dimora, la povera Meggie avrebbe sofferto molto più di
quanto soffrì, poiché, pur senza ammetterla appieno nel loro clan esclusivamente maschile per la
protezione di Ma' (forse perché intuivano che la sua partecipazione era più riluttante della loro), sia
il padre, sia i fratelli maggiori si aspettavano che lei si addossasse tutti i compiti palesemente
ripugnanti per Fee. In effetti, la signora Smith e le cameriere aiutarono Meggie a sostenere il
fardello. Ripugnavano soprattutto a Fee i suoi due figlioli più piccoli, ma la signora Smith si
assunse tutta la responsabilità di badare a Jims e a Patsy, e con tanto ardore che Meggie non riuscì a
compassionarla, anzi, in un certo qual modo le fece piacere che i due bambini potessero finalmente
appartenere del tutto alla governante. Anche Meggie si affliggeva per sua madre, ma non certo con
tutto il cuore come gli uomini, perché la sua lealtà veniva posta a durissima prova; l'istinto della
maternità, in lei così forte, veniva profondamente offeso dalla crescente indifferenza di Fee nei
confronti di Jims e Patsy. Quando avrò bambini miei, si diceva, non amerò mai uno di loro più degli
altri.
Abitare nella grande dimora fu senza dubbio molto diverso. Dapprima parve strano a ognuno avere
una camera da letto tutta per sé, e alle donne parve ancora più strano non doversi sobbarcare ogni
sorta di faccenda domestica, in casa o fuori di casa. Minnie, Cat e la signora Smith sbrigavano, tra
tutte e tre, ogni cosa; facevano il bucato, stiravano, cucinavano e pulivano la casa, e ogni proposta
di aiutarle le scandalizzava. In cambio di cibo in abbondanza e di un piccolo compenso, una teoria
interminabile di vagabondi veniva segnata temporaneamente nei registri dell'allevamento, con la
qualifica di uomini di fatica: spaccavano la legna per i caminetti della dimora, si occupavano del
pollame e dei maiali, mungevano le vacche, aiutavano il vecchio Tom a curare i bei giardini,
facevano tutte le grosse pulizie.
Paddy aveva avuto uno scambio di lettere con Padre Ralph.
«Il reddito del patrimonio di Mary ammonta grosso modo a quattro milioni di sterline annui, grazie
al fatto che la Michar Limited è una società privata i cui capitali sono investiti quasi esclusivamente
nell'acciaio, nella marina mercantile e nelle miniere [scrisse il sacerdote]. Di conseguenza, quanto
ho assegnato a voi è una semplice goccia nel secchio Carson e non ammonta neppure a un decimo
degli utili annui dell'allevamento di Drogheda. Lei non deve neppure preoccuparsi per gli anni
cattivi, in quanto l'attivo dell'allevamento di Drogheda è tanto ingente che con i soli interessi potrò
pagarla per sempre, se necessario. Il denaro che lei riceverà, pertanto, non è più di quanto merita, e
non intacca minimamente gli utili della Michar Limited. Si tratta dei profitti dell'allevamento, non
di quelli della società. Io le chiedo soltanto di tenere onestamente aggiornati i registri, affinché
possano essere esaminati dai sindaci.»
Dopo aver ricevuto questa lettera, Paddy tenne una riunione di famiglia nel meraviglioso salotto,
una sera che tutti si trovavano in casa. Sedette, con gli occhiali a mezze lenti, cerchiati in acciaio, su
un'ampia poltrona color crema, i piedi comodamente appoggiati sulla vicina ottomana, la pipa in un
posacenere Waterford.
«Come è bello qui.» Sorrise, guardandosi attorno con piacere. «Credo che dovremmo ringraziare
Ma' per questo, non vi sembra, ragazzi?»
Vi furono mormorii di assenso da parte dei «ragazzi»; Fee chinò il capo là ove sedeva, su quella che
era stata la poltrona a conchiglia di Mary Carson, ora rivestita in seta marezzata color crema.
Meggie spinse i piedi sotto l'ottomana che aveva preferito a una poltrona e tenne gli occhi
ostinatamente fissi sulla calza che stava rammendando.
«Oh, dunque, Padre de Bricassart ha disposto ogni cosa ed è stato molto generoso» continuò Paddy.
«Ha depositato settemila sterline in banca a mio nome e ha aperto un libretto di risparmio per
ognuno di voi, con un deposito iniziale di duemila sterline. Io riceverò uno stipendio di quattromila
sterline annue come direttore dell'allevamento, e Bob avrà uno stipendio di tremila sterline annue
come vicedirettore. Tutti i ragazzi che lavorano - Jack, Hughie e Stu - saranno compensati con
duemila sterline all'anno, e i più piccoli riceveranno mille sterline annue per ciascuno finché non
saranno grandi abbastanza per decidere che cosa vorranno fare.
«Una volta cresciuti, l'allevamento garantirà a ognuno di loro un reddito annuo pari a quello di chi
lavora a Drogheda, anche se non vorranno restare qui. All'età di dodici anni, Jims e Patsy andranno
come convittori nel collegio Riverview di Sydney, e vi completeranno gli studi a spese della
proprietà.
«Ma' riceverà duemila sterline l'anno, e così Meggie. Le spese per la manutenzione della casa sono
state calcolate in cinquemila sterline annue, sebbene non sappia davvero perché mai Padre Ralph
pensi che occorra tanto. Nell'eventualità che vogliamo apportare modifiche importanti, dice lui. Ho
inoltre le sue istruzioni per quanto concerne i salari della signora Smith, di Minnie e di Cat, e devo
dire che è generoso. Gli altri salari li stabilirò io. Ma la mia prima decisione come direttore è quella
di assumere almeno altri sei guardiani delle greggi, affinché Drogheda possa essere mandata avanti
a dovere. L'allevamento è troppo vasto per un pugno di uomini.» E non aggiunse altro per quanto
concerneva i criteri con i quali sua sorella aveva amministrato la proprietà.
Nessuno di loro si era mai sognato di possedere tanto denaro; rimasero immobili e silenziosi,
sforzandosi di assimilare la loro grande fortuna.
«Non spenderemo mai nemmeno la metà di tutti questi soldi, Paddy» disse Fee. «Non ci ha lasciato
alcuna spesa da affrontare.»
Paddy la guardò con dolcezza. «Lo so, Ma'. Però è piacevole, non ti sembra, non doverci mai più
preoccupare per i quattrini?» Poi si schiarì la voce. «Be', a me pare che Ma' e Meggie, in
particolare, si troveranno con un po' di tempo libero» continuò. «Io non sono mai stato un granché
bravo con i numeri, però Ma' sa addizionare, sottrarre, dividere e moltiplicare come un'insegnante di
aritmetica. Sarà pertanto Ma' a tenere i registri di Drogheda, anziché lo studio di Harry Gough. Non
me ne ero mai reso conto, ma Harry aveva assunto un impiegato soltanto per tenere la contabilità
dell'allevamento e in questo momento è a corto di personale, per cui sarebbe ben contento di passare
tutto a noi. In effetti, è stato lui a osservare che Ma' sarebbe un'ottima contabile. Manderà qualcuno
da Gilly a insegnarti come si fa, Fee. A quanto pare, è piuttosto complicato. Dovrai far quadrare le
somme sui registri e sul libro cassa, tenere il giornale, registrare tutto, e così via. Ce n'è abbastanza
per tenerti occupata, ma la cosa non ti stancherà come cucinare e fare il bucato, non ti sembra?»
Meggie aveva già sulla punta della lingua un grido. «E io? Ho cucinato e fatto il bucato tanto
quanto Ma'!»
Fee stava sorridendo davvero, per la prima volta dopo la notizia di Frank. «Questo lavoro mi
piacerà, Paddy, sul serio. Farà sì che mi senta parte di Drogheda.»
«Bob ti insegnerà a guidare la nuova Rolls-Royce, perché toccherà a te andare a Gilly, in banca e
per parlare con Harry. Inoltre, sarà piacevole per te sapere che puoi recarti in automobile ovunque,
senza dover dipendere da nessuno. Siamo troppo isolati, qui. Ho sempre avuto l'intenzione di
insegnare a voi donne a guidare, ma prima non ce n'è mai stato il tempo. Sei d'accordo, Fee?»
«D'accordissimo, Paddy» rispose lei, lietamente.
«E ora, Meggie, dobbiamo pensare a te.»
Meggie posò calza e ago e alzò gli occhi sul padre con un misto di curiosità e di risentimento, certa
di sapere che cosa avrebbe detto: sua madre essendo occupata con la contabilità, a lei sarebbe
toccato il compito di dirigere l'andamento della casa.
«Non sopporterei di vederti diventare una signorinella oziosa e snob, come certe figlie di allevatori
che conosciamo» disse Paddy, con un sorriso che eliminò ogni disprezzo dalle sue parole. «Di
conseguenza, metterò al lavoro a tempo pieno anche te, piccola Meggie. Tu baderai ai recinti
interni... Borehead, Creek, Carson, Winnemurra e North Tank. Inoltre, ti occuperai anche dello
Home Paddock. Sarai responsabile dei cavalli da lavoro, quelli utilizzati e quelli a riposo. Quando si
riuniranno le greggi e nasceranno gli agnelli, lavoreremo tutti insieme, naturalmente; ma per il resto
sarai in grado di cavartela da sola, ritengo. Jack potrà insegnarti a servirti dei cani e ad adoperare la
frusta. Sei ancora una ragazza indiavolata, e così mi son detto che avresti preferito lavorare nei
pascoli anziché in casa» concluse, sorridendo ancor più di prima.
Risentimento e scontento erano volati fuori della finestra, mentre lui parlava; era, una volta di più, il
suo Pappi, che l'amava e pensava a lei. Come poteva esserle saltato in mente di dubitare tanto di
lui? Si vergognò a tal punto che volentieri si sarebbe punita conficcandosi in una gamba il grosso
ago da rammendo.
Il viso le splendeva. «Oh, Pappi, lo adorerò, questo lavoro!»
«E io, Pa'?» domandò Stuart.
«Le donne non hanno più bisogno di te in casa, per conseguenza tornerai nei recinti.»
«Benissimo, Pa'.» Il ragazzo guardò Fee con nostalgia, ma non disse niente.
Fee e Meggie impararono a guidare la nuova Rolls-Royce che era stata consegnata a Mary Carson
una settimana prima della sua morte, e Meggie imparò a far lavorare i cani mentre Fee imparava a
tenere i registri.
Se non fosse stato per la protratta assenza di Padre Ralph, Meggie si sarebbe sentita completamente
felice. Questo era ciò cui aveva sempre anelato: trovarsi nei pascoli a cavallo, fare il lavoro di un
mandriano. Ma la sofferenza a causa di Padre Ralph era sempre presente, e il ricordo del suo bacio
costituiva qualcosa da sognare, da tesoreggiare, da gustare di nuovo, mille volte. Tuttavia, il ricordo
era di gran lunga inferiore alla realtà; per quanto ci provasse, le vere sensazioni non potevano essere
evocate, e tornava soltanto una loro ombra, come una nube triste e tenue.
Quando egli scrisse per parlare loro di Frank, le sue speranze che il sacerdote potesse avvalersi della
cosa come di un pretesto per venire a Drogheda furono bruscamente infrante. La descrizione del
viaggio cui Padre Ralph si era sobbarcato per andare a far visita a Frank nel carcere di Goulburn
evitava accuratamente di accennare alla sofferenza che egli aveva provato e non parlava
minimamente della psicosi sempre più grave del giovane. Il prete aveva tentato invano di far
trasferire Frank nel manicomio Morisset per i criminali malati di mente; non era stato ascoltato da
nessuno. Di conseguenza, si limitava a dipingere un'immagine idealistica di Frank, rassegnato a
pagare le sue colpe nei confronti della società; e in un passo della lettera, ben sottolineato, diceva a
Paddy che Frank ignorava come la sua famiglia fosse informata. Il sacerdote si era limitato ad
assicurargli di averlo saputo dai giornali di Sydney, promettendogli inoltre di fare in modo che la
famiglia non lo sapesse mai. Dopodiché, aveva avuto l'impressione che Frank fosse molto più
calmo, diceva; e non aggiungeva altro.
Paddy parlava di vendere la cavalla saura di Padre Ralph. Meggie montava il castrone nero, più
sensibile al morso e di indole più docile.
«Oh, ti prego, Pappi, posso cavalcare anche la cavalla saura» lo supplicò Meggie. «Pensa come
sarebbe spaventoso se, dopo tutte le sue gentilezze nei nostri riguardi, Padre Ralph dovesse venire a
farci visita e constatasse che gli abbiamo venduto la giumenta!»
Paddy la fissò cogitabondo. «Meggie, non credo che il Padre tornerà.»
«Ma potrebbe venire! Non si sa mai!»
Gli occhi così simili a quelli di Fee furono troppo per lui; non seppe indursi a farla soffrire più di
quanto avesse già sofferto, povera piccola creatura. «E sta bene, allora, Meggie, terremo la
giumenta, ma accertati di montare con regolarità sia la cavalla, sia il castrone, perché non voglio un
cavallo grasso a Drogheda, è chiaro?»
Fino a quel momento, non le era piaciuto servirsi della cavalcatura di Padre Ralph, ma, da allora in
poi, alternò i due animali nelle scuderie, così da dare modo a entrambi di smaltire l'avena.
Era una gran bella cosa che la signora Smith, Minnie e Cat adorassero i gemelli, poiché, con
Meggie nei recinti e Fee che sedeva per ore al suo scrittoio, in salotto, i due bimbetti si divertivano
un mondo. Erano sempre tra i piedi, ma con tanta allegria e un buon umore così costante, che
nessuno sarebbe riuscito ad adirarsi con loro a lungo. La notte, nella sua piccola casa, la signora
Smith, convertita da tempo al cattolicesimo, si inginocchiava per recitare le preghiere con una
gratitudine così traboccante nel cuore da non riuscire a contenerla. Non aveva mai avuto figli suoi
che l'allietassero quando Rob era in vita, e per anni la grande dimora era rimasta senza bambini, con
il divieto, per giunta, alla servitù, di avere rapporti con chi abitava nelle case dei guardiani lungo il
torrente. Ma all'arrivo dei Cleary, parenti di Mary Carson, c'erano stati bambini, finalmente; e ora
Jims e Patsy abitavano addirittura nella dimora.
Era stato un inverno asciutto, e le piogge estive non vennero. Alta fino alle ginocchia e
lussureggiante, l'erba fulva inaridì sotto il sole cocente finché anche l'interno di ogni stelo non
divenne friabile. Per guardare i pascoli, bisognava socchiudere gli occhi e abbassare ben bene la
tesa del cappello sulla fronte; l'erba aveva finito con il diventare argentata come uno specchio, e
piccoli vortici a spirale si spostavano veloci tra baluginanti miraggi azzurri, spostando mucchietti di
foglie secche e di steli d'erba avvizziti.
Persino gli alberi erano inariditi, e la corteccia si staccava dai tronchi a strisce rigide che si
sgretolavano. Nessun pericolo, ancora, che le pecore morissero di fame... l'erba avrebbe resistito per
un altro anno almeno, forse di più... ma non faceva piacere a nessuno vedere tutto così asciutto.
Esisteva sempre la possibilità che non piovesse nemmeno l'anno seguente, o per due anni. Negli
anni buoni, avevano venticinque o trenta centimetri di precipitazioni, in un anno cattivo poco più di
dieci, o magari non pioveva affatto.
Nonostante la calura e le mosche, Meggie amava la vita nei pascoli ove metteva al passo la
giumenta saura dietro un gregge belante, mentre i cani si appiattivano sul terreno, la lingua
ciondolante, ingannevolmente disattenti. Ma bastava che una pecora balzasse fuori dal gregge ben
pigiato e il cane più vicino partiva di corsa; un fulmine di vendicatività, i denti aguzzi smaniosi di
azzannare qualche zampa sfortunata.
Meggie precedette a cavallo il gregge, un gradito sollievo dopo aver respirato il polverone delle
pecore per parecchi chilometri, e aprì il cancello del recinto. Aspettò con pazienza mentre i cani,
felici di mostrarle quel che sapevano fare, mordicchiavano e spronavano le pecore, costringendole a
passare. Più difficile era radunare e trasferire le greggi, poiché le stupide bestie sferravano calci o si
lanciavano alla carica, non di rado uccidendo un cane distratto; in quei momenti doveva intervenire
l'uomo, facendo la sua parte con la frusta, ma i cani amavano il pericolo. In ogni modo, trasferire le
greggi non era compito di Meggie; a questo provvedeva Paddy personalmente.
I cani non finivano mai di affascinarla; la loro intelligenza era fenomenale. Quasi tutti i cani di
Drogheda erano kelpies (Letteralmente «spiriti maligni», in scozzese.) [N.d.T.], dal ricco mantello
di un rossastro fulvo, con le zampe, il petto e le arcate sopraccigliari color crema, ma c'erano anche
i blu del Queensland, più grossi, con mantelli blu-grigi chiazzati di nero, e ogni possibile varietà di
incroci tra kelpies e «blu». Le femmine andavano in calore, venivano accoppiate scientificamente,
ingrossavano e figliavano; una volta svezzati e cresciuti, i cuccioli erano posti alla prova nei recinti
e, se dimostravano di essere capaci, li si teneva o li si vendeva, altrimenti gli si sparava.
Chiamati i cani con un fischio, Meggie chiuse il cancello sul gregge e diresse la cavalla saura verso
casa. Nei pressi si trovava un vasto bosco, eucalipti dalla corteccia fibrosa, eucalipti dalla corteccia
compatta, bossi neri, qualche wilga ai margini. Cavalcò all'ombra con sollievo e, avendo ora il
tempo di guardarsi attorno, lasciò vagare gli occhi qua e là con gioia. Tutti gli eucalipti erano
gremiti da una sorta di piccole cornacchie che ciangottavano e fischiavano parodiando gli uccelli
canterini, fringuelli volavano di ramo in ramo, due cacatua dalla cresta color zolfo se ne stavano
appollaiati, reclinando il capo da un lato e osservandola con gli occhietti ammiccanti; cutrettole
raspavano la terra in cerca di formiche, facendo dondolare l'assurda coda; corvi gracchiavano
luttuosamente: il loro era il verso più fastidioso di tutto il repertorio di canti della boscaglia, tanto
sembrava privo di gioia, desolato e in qualche modo tale da raggelare l'anima, come se parlasse di
carni putride, di carogne e tafani. Pensare che un corvo potesse cantare come un melifagide, un
uccello-campana (così veniva chiamato in Australia), era impossibile; verso e funzione si
armonizzavano perfettamente.
Inutile dirlo, c'erano mosche dappertutto; Meggie portava un velo sopra il cappello, ma le sue
braccia nude venivano tormentate costantemente e la giumenta saura non smetteva mai di frustarsi i
fianchi con la coda, le sue carni non finivano mai, nemmeno per un secondo, di fremere e di
guizzare. Meravigliava Meggie il fatto che, anche attraverso lo spessore del pelo e della pelle, i
cavalli potessero sentire qualcosa di così delicato e aereo come una mosca. Le mosche bevevano il
sudore, ecco perché tormentavano tanto cavalli e esseri umani; ma gli uomini non consentivano mai
a esse di fare quel che facevano alle pecore, per cui le mosche si servivano soltanto delle pecore per
uno scopo più intimo: deponevano le loro uova sulla lana del groppone, od ovunque la lana fosse
umida e sudicia.
L'aria vibrava dappertutto del ronzio delle api, ed era animata da vivide e fulminee libellule, in
cerca dei canali del pozzo artesiano, da farfalle squisitamente colorate e da falene diurne. La cavalla
capovolse con uno zoccolo un pezzo di legno putrido; Meggie ne fissò il lato inferiore e si sentì
accapponare la pelle. C'erano vermi, grassi e bianchi e schifosi, pidocchi del legno e lumache,
enormi millepiedi e ragni. Conigli selvatici balzavano fuori dalle loro tane e saettavano via, facendo
balenare il dorso nero, la coda bianca simile a un piumino da cipria, poi si voltavano a sbirciare, il
naso guizzante. Più avanti, un echidna interruppe la sua ricerca di formiche, preso dal panico
all'avvicinarsi di Meggie: cominciò a scomparire sotto un tronco enorme, scavando con le zampe
dai robusti artigli. I suoi movimenti, mentre scavava, erano buffoneschi, gli aculei crudeli
rimanevano appiattiti sul corpo per rendergli più facile infilarsi sottoterra, e il terriccio volava via a
grumi.
Meggie uscì dal bosco sulla pista principale che conduceva alla dimora. Uno strato di grigio
maculato ne rivestiva la polvere, uccelli galah che becchettavano insetti o vermi; ma, udendola
sopraggiungere, spiccarono il volo in massa. Fu come essere sommersa da un'ondata color rosa-
magenta; i petti e il lato inferiore delle ali degli uccelli la sorvolarono, e il grigio si tramutò
magicamente in un rosa carico. Se dovessi andarmene da Drogheda domani, pensò, per non tornare
mai più, nei miei sogni la rivedrei sommersa dai ventri rosa degli uccelli galah... La siccità deve
cominciare a essere grande anche lontano da qui; stanno arrivando i canguri, sempre più numerosi...
Uno stuolo enorme di canguri, forse duemila animali, era stato spaventato dai galah mentre brucava
pacificamente, e prese la fuga in lontananza con lunghi balzi aggraziati, che divoravano i chilometri
più rapidamente di ogni altro animale, tranne gli emù. I cavalli non riuscivano a stargli dietro.
Tra l'uno e l'altro di questi deliziosi momenti di attenzione alla natura, Meggie pensava a Ralph,
come sempre. Nel suo intimo, non aveva mai catalogato come infatuazione dell'adolescenza quel
che provava per lui, lo chiamava semplicemente amore, come facevano gli scrittori nei libri. I suoi
sintomi e i suoi stati d'animo non erano diversi da quelli di un'eroina di Ethel M. Dell. Né sembrava
giusto che un ostacolo artificioso come il sacerdozio potesse frapporsi tra lei e quel che voleva da
Ralph, vale a dire averlo come marito. Vivere con lui come Pappi con Ma', in una armonia tale che
egli l'avrebbe adorata come suo padre adorava sua madre. Non era mai sembrato a Meggie che
Fiona facesse molto per meritarsi l'adorazione del marito, eppure egli l'adorava. Di conseguenza,
Ralph avrebbe constatato ben presto come vivere con lei fosse di gran lunga meglio che vivere solo.
Meggie, infatti, non aveva ancora capito che il sacerdozio di Ralph era qualcosa cui egli non
avrebbe mai potuto rinunciare. Eppure, sapeva ch'era proibito avere come marito o come amante un
prete, ma aveva preso l'abitudine di aggirare l'ostacolo spogliando Ralph della sua veste religiosa.
L'istruzione impartitale in fatto di cattolicesimo non era mai arrivata al punto da prendere in esame
la natura dei voti sacerdotali; lei non sentiva alcuna necessità della religione, e perciò non aveva
mai approfondito la questione di sua iniziativa. Poiché non ricavava alcuna soddisfazione dalle
preghiere, Meggie ubbidiva alle leggi della Chiesa soltanto perché il non farlo significava bruciare
all'inferno per tutta l'eternità.
Nel sogno a occhi aperti di quel momento, si librò nella beatitudine di vivere con lui e dormire con
lui, come facevano Ma' e Pa'. Poi il pensiero della vicinanza di Ralph la eccitò e fece sì che si
agitasse irrequieta sulla sella; tradusse l'eccitazione, non disponendo di alcun altro criterio, in un
diluvio di baci. Anche cavalcare nei pascoli non aveva fatto progredire per nulla la sua educazione
sessuale, poiché il mero odore di un cane fiutato da lontano scacciava ogni desiderio di accoppiarsi
dalla mente di qualsiasi animale, e, come in tutti gli allevamenti, gli accoppiamenti indiscriminati
non erano consentiti. Quando agli arieti veniva data via libera tra le pecore di un determinato
recinto, Meggie riceveva l'ordine di recarsi altrove, e vedere un cane che ne montava un altro
significava per lei soltanto che era il momento di servirsi della frusta per separare la coppia e per
impedire che continuasse a «giocare».
Forse nessun essere umano ha la possibilità di giudicare che cosa sia peggio, se un anelito
rudimentale, con l'irrequietudine e l'irritabilità conseguenti, o un desiderio specifico, con la caparbia
volontà di soddisfarlo. La povera Meggie anelava, senza sapere affatto a che cosa, ma la spinta
fondamentale esisteva; e la trascinava inesorabilmente nella direzione di Ralph de Bricassart.
Pertanto lo desiderava, lo sognava, lo voleva; e si affliggeva perché, nonostante il suo proclamato
affetto per lei, egli le attribuiva così poca importanza da non venire mai a trovarla.
Nel bel mezzo dei suoi pensieri si fece avanti a cavallo Paddy che, come lei, tornava a casa
seguendo lo stesso sentiero; con un sorriso, Meggie tirò le redini della giumenta saura e aspettò di
essere raggiunta.
«Che bella sorpresa» disse Paddy, mettendo al passo il suo vecchio roano accanto alla cavalla di
mezza età della figlia.
«Già, davvero» disse lei. «Sono ancora più aridi i pascoli lontani?»
«Un po' più che qui, credo. Signore Iddio, non ho mai visto tanti canguri! La siccità dev'essere
tremenda dalle parti di Milparinka. Martin King proponeva una grande sparatoria, ma non vedo
come anche un esercito armato di mitragliatrici potrebbe ridurre il numero dei canguri in misura
sufficiente per accorgersi della differenza.»
Era così caro, così premuroso e indulgente e affettuoso; e le capitava di rado di trovarsi con lui
senza la presenza di almeno uno dei fratelli. Prima di poter cambiare idea, Meggie pose la domanda
che esprimeva il suo dubbio, il dubbio dal quale si sentiva rosicchiata e devastata nonostante tutta la
sua intima sicurezza.
«Pappi, perché Padre de Bricassart non viene mai a farci visita?»
«È molto occupato, Meggie» rispose Paddy, ma il suo tono di voce divenne circospetto.
«Ma anche i preti hanno un periodo di vacanza, no? Drogheda gli piaceva tanto. Sono certa che
vorrebbe trascorrere qui le sue vacanze.»
«Sotto un certo aspetto i sacerdoti hanno vacanze, Meggie, ma, sotto un altro, sono sempre
impegnati. Per esempio, ogni giorno della loro vita devono celebrare la Messa, anche quando sono
soli. Credo che Padre de Bricassart sia un uomo molto assennato e sappia che non è mai possibile
tornare indietro, a un modo di vivere ormai finito. Per lui, piccola Meggie, Drogheda fa parte del
passato. Se tornasse, non vi si troverebbe più bene come un tempo.»
«Vuoi dire che ci ha dimenticati» mormorò lei, con la voce fioca.
«No, non proprio. Se ci avesse dimenticati, non scriverebbe così spesso e non chiederebbe notizie di
ognuno di noi.» Si girò sulla sella, gli occhi azzurri compassionevoli. «Credo sia preferibile che non
torni mai più, e pertanto non lo incoraggio a pensarci invitandolo.»
«Pappi!»
Paddy si tuffò risoluto nelle acque torbide. «Ascolta, Meggie, fai male ad abbandonarti ai sogni sul
conto di un sacerdote, ed è ormai tempo che tu lo capisca. Hai conservato molto bene il tuo segreto,
credo che nessun altro, all'infuori di me, sappia che cosa provi per lui, ma le domande le hai sempre
rivolte a me, no? Non molte, ma abbastanza. E ora dammi retta, devi smettere di pensare a lui, hai
capito? Padre de Bricassart ha pronunciato sacri voti, io so che non ha assolutamente alcuna
intenzione di dimenticarli, e tu hai interpretato male il suo affetto nei tuoi riguardi. Era un uomo
fatto quando ti conobbe, e tu eri una bimbetta. Be', lui continua a considerarti una bambina ancor
oggi.»
Meggie non rispose, né la sua espressione mutò. Sì, pensò lui, è la figlia di Fee, e come.
Dopo qualche momento, lei disse, con la tensione nella voce:
«Ma potrebbe rinunciare a essere un prete. È solo che non ho avuto il modo di parlargliene.»
L'addolorato stupore sulla faccia di Paddy fu troppo autentico perché si potesse non credervi; e così
Meggie lo trovò più convincente delle parole di lui, per quanto veementi esse fossero.
«Meggie! Oh, buon Dio, ecco la conseguenza peggiore di questa vita nella boscaglia. Dovresti
essere a scuola, ragazza mia, e, se la zia Mary fosse morta prima, ti avrei spedita a Sydney in tempo
per almeno due anni di studi. Ma ormai sei troppo grande, non ti pare? Non vorrei che ridessero
della tua età, povera piccola Meggie.» Poi continuò più dolcemente, intervallando le parole per far
sì che assumessero una tagliente, lucida crudeltà, sebbene non avesse l'intenzione di essere crudele,
ma soltanto di disperdere le illusioni una volta per tutte. «Padre de Bricassart è un sacerdote,
Meggie. Non potrà mai, mai, smettere di esserlo, renditene conto. I voti che ha pronunciato sono
sacri, troppo solenni per poter essere infranti. Una volta che un uomo diventa prete, non può più
tornare indietro, e i suoi superiori, in seminario, si accertano nel modo più assoluto che si renda
conto di ciò cui si impegna con un giuramento, prima di giurare. L'uomo che pronuncia quei voti sa,
al di là di ogni ombra di dubbio, che, una volta pronunciati, non potranno essere infranti, mai. Padre
de Bricassart li ha pronunciati, e mai li infrangerà.» Paddy sospirò. «Ora sai, Meggie, non è vero? A
partire da questo momento, non hai più alcun pretesto per sognare a occhi aperti di Padre de
Bricassart.»
Erano giunti davanti alla dimora: senza dir parola, Meggie fece voltare la cavalla saura verso le
scuderie e lasciò che suo padre proseguisse solo. Per qualche tempo continuò a voltarsi e a
guardarla, ma, quando lei fu scomparsa al di là del recinto, spronò il roano e completò il tragitto al
piccolo galoppo, odiando se stesso e la necessità di dire quel che aveva detto. Maledetta la faccenda
uomo-donna! Sembrava ubbidire a una serie di regole in contraddizione con tutte le altre.
La voce di Padre Ralph de Bricassart era gelida, e, ciò nonostante, più cordiale dei suoi occhi, che
non si distoglievano mai dalla faccia pallida del giovane sacerdote, mentre pronunciava parole
severe e misurate.
«Non si è comportato come Nostro Signore Gesù Cristo richiede che si comportino i Suoi
rappresentanti sulla terra. Lei lo sa meglio, credo, di quanto possiamo saperlo noi che la
censuriamo, eppure devo biasimarla ugualmente a nome del suo Arcivescovo, che non è soltanto
suo fratello nel sacerdozio, ma anche il suo superiore. Gli deve l'ubbidienza assoluta, e non sta a lei
discuterne i sentimenti e le decisioni.
«Si rende realmente conto dell'ignominia che ha causato a se stesso, alla sua parrocchia e,
soprattutto, alla Chiesa che sostiene di amare più di ogni altro essere umano? Il voto della castità è
stato solenne e vincolante come tutti gli altri voti, e infrangerlo significa peccare gravemente. Lei
non vedrà mai più quella donna, naturalmente, ma noi abbiamo il dovere di aiutarla nelle lotte per
vincere la tentazione. Abbiamo pertanto disposto affinché parta immediatamente per la parrocchia
di Darwin, nel Territorio Settentrionale. Si recherà a Brisbane questa sera stessa con il rapido, e di là
proseguirà, sempre in treno, per Longreach. A Longreach salirà a bordo di un aereo della Qantas
diretto a Darwin. Qualcuno le sta preparando le valigie con i suoi effetti personali in questo stesso
momento e gliele farà trovare sul rapido prima della partenza, quindi non è affatto necessario che lei
torni nella sua parrocchia attuale.
«Ora vada nella cappella con Padre John e preghi. Rimarrà nella cappella fino al momento di recarsi
a prendere il treno. Per esserle di conforto e consolarla, Padre John l'accompagnerà fino a Darwin.
Può andare.»
Erano assennati e consapevoli, i sacerdoti preposti all'amministrazione della Chiesa: non avrebbero
consentito in alcun modo al peccatore di avere altri rapporti con la ragazza che si era preso come
amante. La cosa aveva fatto scandalo nella sua parrocchia, con ripercussioni imbarazzanti. Quanto
alla ragazza... che aspettasse pure, e cercasse di sapere e si meravigliasse. Da quel momento, fino
all'arrivo a Darwin, il sacerdote sarebbe stato sorvegliato dall'eccellente Padre John, il quale aveva
ordini precisi; in seguito, ogni lettera del colpevole spedita da Darwin sarebbe stata aperta, e non gli
sarebbe stata consentita alcuna telefonata interurbana. La sua amante non avrebbe mai saputo dove
fosse finito, né lui sarebbe stato in grado di dirglielo. E neppure avrebbe avuto modo di prendersi
un'altra amante. Darwin era una cittadina di frontiera, ove si poteva dire che non esistessero donne.
I voti che aveva pronunciato erano assoluti, non avrebbe mai potuto esserne esonerato; se era troppo
debole per badare a se stesso, bisognava che fosse la Chiesa a provvedere in sua vece.
Dopo aver veduto il giovane sacerdote e il cane da guardia assegnatogli uscire dalla stanza, Padre
Ralph lasciò il suo posto alla scrivania ed entrò nella stanza adiacente. L'Arcivescovo Cluny Dark
sedeva sulla solita poltrona, e, ad angolo retto rispetto a lui, si trovava, silenzioso, un altro uomo
con lo zucchetto e la fascia viola. L'Arcivescovo era un uomo robusto, con una zazzera di splendidi
capelli bianchi e occhi intensamente azzurri; un uomo pieno di vita, con un acuto senso
dell'umorismo, e un grande amore per la buona tavola. Il suo visitatore sembrava essere proprio
l'opposto: piccoletto e magro, con qualche rado ciuffo di capelli neri intorno allo zucchetto e, sotto
quei ciuffi, una faccia spigolosa e ascetica, dalla pelle giallognola, più scura là ove si radeva la
barba, e dai grandi occhi neri. Dimostrava qualsiasi età fra i trenta e i cinquant'anni; ne aveva
trentanove, vale a dire tre di più di Padre Ralph de Bricassart.
«Si accomodi, Padre, gradisca una tazza di tè» disse l'Arcivescovo, cordialmente. «Stavo
cominciando a pensare che avremmo dovuto mandarne a prendere un altro bricco. Ha congedato il
giovanotto con l'opportuno ammonimento e l'invito a comportarsi diversamente?»
«Sì, Eccellenza» si limitò a rispondere Ralph e sedette sulla terza poltrona intorno al tavolino da tè,
carico di tartine al cetriolo sottili come ostie, di pasticcini con glassature rosa e bianche, biscotti di
farina d'orzo caldi e imburrati, piatti di cristallo con marmellata e panna, un servizio da tè in argento
e tazze di porcellana Ainsley decorate con un delicato rivestimento di oro laminato.
«Gli episodi di questo genere sono incresciosi, mio caro Arcivescovo, ma anche noi, i sacerdoti
consacrati di Nostro Signore, siamo creature deboli, persino troppo umane. Nel mio cuore provo
una profonda compassione per lui, e questa sera pregherò affinché sia più forte in avvenire» disse il
visitatore.
Il suo accento era nettamente straniero, la voce sommessa, con un accenno di pronuncia sibilante
nelle «s». Di nazionalità italiana, aveva il titolo di Sua Eccellenza l'Arcivescovo Legato pontificio
presso la Chiesa Cattolica australiana, e si chiamava Vittorio Contini-Verchese. Il suo delicato
compito consisteva nel servire di collegamento tra la gerarchia australiana e il Vaticano; ciò
significava che era il sacerdote più importante in quella parte del mondo.
Prima di quella nomina, aveva logicamente sperato negli Stati Uniti d'America, ma poi,
ripensandoci, si era detto che l'Australia gli andava benissimo. Per popolazione, se non per
superficie, si trattava di un paese di gran lunga più piccolo, ma era altresì di gran lunga più
cattolico. Diversamente da quanto accadeva negli altri paesi di lingua inglese, in Australia l'essere
cattolico non era un handicap sociale, né il cattolicesimo rappresentava un impedimento per chi
aspirava a diventare un uomo politico, o un uomo d'affari, o un giudice. E l'Australia era un paese
ricco, che manteneva bene la Chiesa. Non esisteva per lui alcun pericolo di essere dimenticato da
Roma finché fosse rimasto in Australia.
Il Legato pontificio era un uomo assai sottile. I suoi occhi, al di sopra dell'orlo dorato della tazza,
fissavano non già l'Arcivescovo Cluny Dark, bensì Padre Ralph de Bricassart, che presto sarebbe
divenuto il suo segretario. Il fatto che l'Arcivescovo Cluny stimasse enormemente quel sacerdote
era ben noto, ma il Legato pontificio si stava domandando fino a qual punto avrebbe apprezzato lui
un uomo simile. Erano tutti così grandi e grossi, questi preti irlandesi-australiani, e torreggiavano di
molto rispetto alla sua statura; era così stanco di dover continuamente voltare la testa all'insù per
guardarli in faccia! I modi di Padre de Bricassart nei confronti del suo attuale superiore erano
perfetti: piacevoli, disinvolti, rispettosi ma da uomo a uomo, colmi di umorismo. Avrebbe, Padre
Ralph, saputo adattarsi alla collaborazione con un'altra persona? La consuetudine voleva che il
segretario del Legato pontificio venisse scelto tra i ranghi del clero italiano, ma Padre Ralph
interessava molto al Vaticano. Non soltanto aveva la curiosa caratteristica di essere personalmente
ricco (contrariamente a quanto riteneva il volgo, i suoi superiori non avevano il potere di privarlo
del denaro, né egli si era offerto spontaneamente di cederlo alla Chiesa), ma aveva apportato un
grande patrimonio al cattolicesimo. Di conseguenza era stato deciso dal Vaticano che il Legato
pontificio scegliesse come suo segretario Padre de Bricassart, per studiare il giovane e accertare
come fosse esattamente.
Un giorno, il Santo Padre avrebbe dovuto ricompensare la Chiesa australiana con una berretta
cardinalizia, ma il momento non era ancora giunto. Di conseguenza, spettava al Legato pontificio
studiare i giovani del gruppo d'età di Padre de Bricassart, e tra essi quest'ultimo era senza dubbio il
candidato più probabile. E sia pure. Che Padre de Bricassart desse prova del proprio valore con un
italiano per qualche tempo. L'esperimento sarebbe stato forse interessante. Ma non sarebbe potuto,
quell'uomo, essere un po' più piccolo di statura?
Mentre sorseggiava con piacere il tè, Padre Ralph rimase insolitamente silenzioso. Il Legato
pontificio notò che si era limitato a una piccola tartina triangolare, rinunciando alle altre leccornie,
ma che aveva bevuto, come se fosse assetato, quattro tazze di tè, senza zuccherarle né aggiungervi
latte. Bene, così diceva infatti il suo rapporto: nelle proprie abitudini di vita personali, il sacerdote
era notevolmente frugale, e il suo solo debole consisteva nella passione per le buone (e velocissime)
automobili.
«Il suo cognome è francese, Padre» osservò il Legato pontificio, sommessamente, «ma mi risulta
che lei è irlandese. Come mai? La sua famiglia è allora di origine francese?»
Padre Ralph scosse la testa sorridendo. «È un cognome normanno, Eccellenza, molto antico e
onorato. Sono il diretto discendente di un certo Ranulf de Bricassart, barone alla corte di Guglielmo
il Conquistatore. Nel 1066 invase l'Inghilterra con Guglielmo e uno dei suoi figli si impadronì di
terre inglesi. La famiglia prosperò con i sovrani normanni d'Inghilterra, e, in seguito, qualcuno
attraversò il Mare d'Irlanda ai tempi di Enrico IV e si stabilì nella zona sottoposta alla giurisdizione
inglese. Quando Enrico VIII sottrasse la Chiesa Inglese all'autorità di Roma, noi ci mantenemmo
fedeli a Guglielmo, il che significa che ritenemmo di dover restare leali nei confronti di Roma, e
non di Londra. Ma quando Cromwell istituì il Commonwealth, perdemmo terre e titoli, e né le une
né gli altri ci furono più restituiti. Carlo aveva suoi favoriti inglesi da compensare con terre
irlandesi. Non è infondato, sa, l'odio degli irlandesi contro gli inglesi.
«In ogni modo, ci rassegnammo a una relativa oscurità, sempre leali alla Chiesa e a Roma. Il mio
fratello maggiore possiede un prospero allevamento di cavalli nella contea Meath e spera di avere
un giorno un vincitore del Derby o del Grand National. Io sono il secondogenito, e una tradizione di
famiglia ha sempre voluto che il secondo figlio entrasse nella Chiesa, se aveva la vocazione. Sono
molto fiero del mio nome e del mio lignaggio. I de Bricassart hanno millecinquecento anni.»
Ah, questa era una buona cosa! Un antico nome aristocratico e un lungo passato di fedeltà alla
Chiesa, nonostante emigrazioni e persecuzioni.
«E il nome Ralph?»
«Una contrazione di Ranulf, Eccellenza.»
«Capisco.»
«Sentirò molto la sua mancanza, Padre» disse l'Arcivescovo Cluny Dark, ammonticchiando
marmellata e panna su un mezzo biscotto e ficcandoselo tutto in bocca.
Padre Ralph rise. «Lei mi costringe a un dilemma, Eccellenza! Eccomi qui, seduto tra il mio ex
superiore e il nuovo, e, se rispondo in modo da far piacere all'uno, non posso non dispiacere
all'altro. Ma posso dire che Sua Eccellenza mi mancherà, sebbene sia impaziente di servire lei,
Eccellenza?»
Si era espresso bene, una risposta diplomatica. L'Arcivescovo Contini-Verchese cominciò a pensare
che si sarebbe potuto trovare a suo agio con un simile segretario. Ma era di gran lunga troppo
avvenente, con quelle fattezze aristocratiche, lo splendido colorito, il corpo magnifico.
Padre Ralph ricadde nel silenzio e fissò il tavolino da tè senza vederlo. Stava vedendo il giovane
sacerdote che aveva appena punito, l'espressione in quegli occhi già tormentati, quando si era reso
conto che non gli avrebbero neppure consentito di dire addio alla sua ragazza. Buon Dio, e se si
fosse trattato di lui e della piccola Meggie? Essendo discreti, si poteva farla franca per qualche
tempo; per sempre se si limitavano le donne alle vacanze annue lontano dalla parrocchia. Ma chi
consentiva a una seria dedizione a qualche donna veniva inevitabilmente scoperto.
Giungevano momenti in cui soltanto inginocchiandosi sul pavimento di marmo della cappella, lì al
palazzo, fino a essere anchilosato dalla sofferenza fisica, riusciva a non prendere il primo treno per
tornare a Gilly e a Drogheda. Aveva detto a se stesso che era semplicemente vittima della solitudine,
che gli mancavano gli affetti umani conosciuti a Drogheda. Diceva a se stesso che niente era
cambiato quando aveva ceduto a una debolezza fuggevole e restituito il bacio di Meggie; che il suo
amore per lei continuava a essere confinato nei regni della piacevole fantasia. Non poteva
ammettere, infatti, che qualcosa fosse cambiato, e continuava a considerare Meggie una ragazzetta,
escludendo ogni immagine la quale potesse contraddire tale illusione.
Ma si sbagliava. La sofferenza non si era dileguata. Sembrava anzi intensificarsi, e in un modo più
gelido e più laido. In precedenza, la sua solitudine era stata un qualcosa di impersonale, ed egli non
aveva mai detto a se stesso che avrebbe potuto porvi rimedio la presenza di una qualsiasi altra
creatura. Ma ora la solitudine aveva un nome: Meggie. Meggie, Meggie, Meggie...
Emerse dalla fantasticheria e vide l'Arcivescovo Contini-Verchese fissarlo senza batter ciglio; i
grandi, oscuri occhi erano di gran lunga più pericolosamente onniscienti di quelli tondi e vividi del
suo attuale superiore. Di gran lunga troppo intelligente per simulare che la sua astrazione non fosse
stata causata da alcunché, Padre Ralph rivolse al futuro superiore uno sguardo penetrante quanto
quello con il quale veniva osservato, poi sorrise appena e fece spallucce, come per dire: ogni uomo
ha in sé la tristezza, e non è un peccato ricordare un dolore.
«Mi dica, Padre, l'improvviso ristagno economico ha nuociuto alla società che lei amministra?»
domandò, mellifluo, il prelato italiano.
«Fino a ora non abbiamo alcun motivo di preoccuparci, Eccellenza. Non è facile che la Michar
Limited sia toccata dalle fluttuazioni del mercato. Presumo che siano destinati a perdere soprattutto
i patrimoni investiti meno cautamente di quello della signora Carson. Naturalmente, l'allevamento
di Drogheda non è redditizio come un tempo; il prezzo della lana sta calando. Tuttavia, la signora
Carson era troppo intelligente per investire il suo denaro in imprese agricole; preferì la solidità del
metallo. Sebbene, a parer mio, questo sia un momento quanto mai favorevole per acquistare beni
immobili, e non soltanto allevamenti nel paese, ma anche case di abitazione e palazzi d'affari nelle
grandi città. I prezzi sono ridicolmente bassi, ma non potranno rimanere bassi in eterno. Non vedo
come potremmo perdere con le proprietà immobiliari negli anni a venire, se acquisteremo adesso.
Un giorno, la crisi economica finirà.»
«Perfetto» disse il Legato pontificio. Sicché, Padre de Bricassart non era soltanto un diplomatico,
ma anche un uomo d'affari! Roma avrebbe davvero fatto bene a tenere gli occhi su di lui.
9

Ma era il 1930, e Drogheda stava subendo in pieno le ripercussioni della crisi. In tutta l'Australia
c'erano uomini senza lavoro. Chi poteva rinunciava a pagare un affitto e a legarsi alla futilità di
cercare un lavoro quando non ce n'era. Abbandonati a cavarsela da soli, figli e mogli vivevano in
baraccamenti nei terreni municipali e facevano la coda per il sussidio; padri e mariti si erano dati al
vagabondaggio. Gli uomini mettevano le poche cose essenziali in una coperta, la legavano con
cinghie e se la caricavano in spalla prima di incamminarsi lungo le piste, sperando di poter ottenere
almeno un po' di cibo negli allevamenti che attraversavano, se non un lavoro. Vagabondare
nell'interno con un fagotto sulle spalle era sempre meglio che dormire nel Sydney Domain.
I generi commestibili erano scesi a prezzi bassissimi, e Paddy riempì sino a farli traboccare i
magazzini di Drogheda, nonché le dispense. Un uomo, quando arrivava a Drogheda, poteva star
certo che la bisaccia gli sarebbe sempre stata riempita. Lo strano era che la sfilata di vagabondi
cambiava continuamente; una volta rimpinzati con un buon pasto caldo e carichi di provviste per il
viaggio, gli uomini non tentavano affatto di trattenersi, ma proseguivano, in cerca di qualcosa che
soltanto loro sapevano. E, senza dubbio, non tutti gli allevamenti erano ospitali o generosi come
Drogheda, il che rendeva ancor più misterioso l'enigma: perché quegli uomini sembrassero non
voler rimanere. Forse la stanchezza e l'inesistenza di scopi, il non avere una casa né un luogo in cui
rifugiarsi, facevano sì che continuassero a vagabondare. Quasi tutti riuscivano a sopravvivere,
alcuni morivano e, se trovati, venivano seppelliti prima che i corvi e i maiali selvatici ne ripulissero
le ossa. L'interno era un'estensione enorme e solitaria.
Stuart, però, rimaneva di nuovo sempre in casa, e il fucile non distava mai molto dalla porta della
cucina. Gli abili guardiani di bestiame non mancavano, e sui registri di Paddy figuravano nove
scapoli che alloggiavano nelle vecchie baracche degli apprendisti, affinché a Stuart potesse essere
evitato il lavoro nei recinti. Fee smise di lasciare qua e là denaro in contanti e fece costruire da
Stuart una finta credenza per nascondere la cassaforte dietro l'altare della cappella. Pochi di quei
vagabondi erano uomini malvagi. I malvagi preferivano restare nelle città e nei grossi villaggi di
campagna, poiché l'esistenza sulle piste era troppo dura, troppo solitaria e offriva scarse occasioni ai
delinquenti. Ciò nonostante, nessuno biasimava Paddy se non intendeva correre rischi con le sue
donne; Drogheda era un nome assai conosciuto, e avrebbe potuto attrarre quei pochi elementi
indesiderabili in cammino sulle piste.
Quell'inverno portò alcuni violenti uragani, alcuni con diluvi d'acqua, altri senza, e, nella successiva
primavera e nell'estate, vennero piogge tanto copiose che l'erba a Drogheda crebbe abbondante e
alta come non mai.
Jims e Patsy studiavano le lezioni del corso per corrispondenza al tavolo di cucina della signora
Smith e, di tanto in tanto, chiacchieravano domandandosi come sarebbe stata la loro vita quando
fosse giunto il momento di andare al Riverview, il loro collegio. Ma la signora Smith diventava così
brusca e bisbetica, quando parlavano di queste cose, che i due ragazzi impararono a non accennare
alla loro partenza da Drogheda quando lei poteva udirli.
Tornò la siccità. L'erba alta fino alle cosce si disseccò completamente, cuocendosi e divenendo
friabile e argentea. Assuefatti, da dieci anni sulle pianure di terra nera, alle oscillazioni «oplà! ora-
si-sale, oplà, ora-si-scende», delle siccità e delle alluvioni, gli uomini facevano spallucce e
affrontavano ogni nuovo giorno come se fosse stato l'unico che potesse contare. E questo era vero:
quel che contava era sopravvivere tra un anno buono e quello successivo. Nessuno poteva prevedere
la pioggia. Esisteva un tale a Brisbane, un certo Inigo Jones, abbastanza abile nelle previsioni
meteorologiche a distanza di tempo, basate su una nuova teoria delle macchie solari; ma nelle
pianure di terra nera nessuno credeva molto a quanto aveva da dire. Le spose di Sydney e di
Brisbane si rivolgessero a lui per le previsioni del tempo; gli uomini delle pianure di terra nera si
sarebbero attenuti alla solita sensazione nelle ossa.
Durante l'inverno del 1932 tornarono le tempeste asciutte, insieme a un freddo intenso, ma l'erba
opulenta ridusse al minimo la polvere, e le mosche non risultarono numerose come sempre. Ciò non
consolava in alcun modo le pecore appena tosate, che rabbrividivano miseramente. La moglie di
Dominic O'Rourke, la quale abitava in una casa di legno, adorava ospitare visitatori giunti da
Sydney. Uno dei momenti culminanti del suo programma turistico consisteva in una puntata alla
dimora di Drogheda, per dimostrare agli ospiti che anche nelle pianure di terra nera alcune persone
vivevano con eleganza. E l'argomento delle conversazioni passava sempre a quelle gracili pecore
dall'aspetto di topi affogati, lasciate ad affrontare l'inverno senza il vello lungo da dodici a quindici
centimetri, che invece gli sarebbe cresciuto proprio con l'arrivo della calura estiva. Ma, come ebbe a
dire Paddy, con gravità, a uno di questi visitatori, la lana così veniva meglio. L'importante era la
lana, non le pecore. Non molto tempo dopo questa sua dichiarazione, il Sydney Morning Herald
pubblicò una lettera nella quale si chiedevano immediati provvedimenti legislativi per porre termine
a quella che veniva definita «crudeltà degli allevatori». La povera signora O'Rourke rimase
inorridita, ma Paddy rise fino ad avere i fianchi indolenziti.
«E meno male che lo stupido individuo non ha mai veduto un tosatore squarciare il ventre d'una
pecora e ricucirlo con un ago da imballaggio» la consolò lui. «Non vale la pena di prendersela,
signora. Nelle città non sanno come vive l'altra metà del genere umano e possono permettersi il
lusso di coccolare i loro animali come se fossero bambini. Qui è diverso. Da noi, lei non vedrà mai
un uomo, una donna o un bambino bisognosi di aiuto restare ignorati, mentre in città quelle stesse
persone che viziano le loro bestiole possono ignorare completamente l'invocazione di aiuto di un
essere umano.»
Fee alzò gli occhi. «Mio marito ha ragione, signora O'Rourke» disse. «Disprezziamo tutti ciò che
esiste in eccesso. Qui si tratta delle pecore, ma in città si tratta delle persone.»
Soltanto Paddy si trovava lontano nei pascoli, quel giorno d'agosto in cui scoppiò il grande uragano.
Smontò da cavallo, legò saldamente l'animale a un albero e sedette sotto un wilga ad aspettare che
la bufera passasse. Tremanti di paura, i suoi cinque cani gli si rannicchiarono accanto, mentre le
pecore che aveva avuto l'intenzione di trasferire in un altro recinto si disperdevano a gruppetti
innervositi, trotterellando senza meta in tutte le direzioni. E fu un uragano davvero terribile, che gli
risparmiò il peggio della sua furia finché il centro del mälström non venne a trovarsi direttamente
sopra di lui. Paddy si conficcò le dita nelle orecchie, chiuse gli occhi e pregò.
Non lontano da dove stava seduto, con le pendule foglie dell'albero wilga che cozzavano senza
riposo nel vento sempre più forte, si trovava un piccolo gruppo di ceppi e di tronchi, circondato da
erba alta. E al centro dello scheletrico e calcinato ammasso sorgeva un alto e massiccio eucaliptus,
morto, il cui nudo tronco svettava per dodici metri verso le nubi nere come la notte, assottigliandosi
sulla cima e formando una punta affilata e frastagliata.
Lo sbocciare di una fiammata azzurra, talmente luminosa da ferire gli occhi anche attraverso le
palpebre chiuse, fece sì che Paddy balzasse in piedi, ma soltanto per essere scaraventato al suolo
come un giocattolo dallo spostamento d'aria di un'esplosione enorme. Scostò la faccia dal terreno e
vide gli ultimi bagliori della saetta formare baluginanti aloni di un blu acceso e color viola
sull'intera lunghezza della morta lancia dell'eucaliptus; poi, con una rapidità tale da non dargli quasi
il tempo di capire che cosa stesse accadendo, tutto si incendiò. L'ultima goccia di umidità era
evaporata da tempo dai tessuti vegetali di quell'ammasso di tronchi e radici, e l'erba era dappertutto
alta e secca come carta. Come una sorta di tracotante risposta della terra al cielo, l'albero gigantesco
proiettò molto più in alto della sua estremità una colonna di fiamme, i tronchi e i ceppi nelle
vicinanze si incendiarono nello stesso momento e, formando una cerchia tutto attorno, alte
fiammate dilagarono nel vento turbinoso, avanzando in ogni direzione. Paddy non ebbe nemmeno il
tempo di arrivare al cavallo.
Il disseccato albero wilga prese fuoco e la resina racchiusa nel suo tenero cuore esplose verso
l'esterno. C'erano pareti compatte di fiamme in qualsiasi direzione Paddy guardasse; gli alberi
ardevano impetuosamente e l'erba sotto i suoi piedi bruciava crepitando e scoppiettando. Udì il
cavallo nitrire disperatamente, e il cuore gli si strinse per l'animale; non poteva lasciar morire la
povera bestia legata e indifesa. Un cane ululò, e l'ululato si trasformò in un urlo di strazio quasi
umano. Per un momento il cane fiammeggiò e danzò, torcia vivente, poi crollò nell'erba che ardeva.
Vi furono altri ululati mentre gli altri cani, fuggendo, venivano avviluppati dall'incendio dilagante,
più veloce, nel vento di tempesta, di qualsiasi creatura munita di zampe o di ali. Una meteora
saettante gli bruciò i capelli mentre, per un millesimo di secondo, egli rimaneva immobile,
domandandosi quale fosse il modo più sicuro per arrivare al cavallo; abbassò gli occhi e vide un
grosso cacatua arrostire ai suoi piedi.
All'improvviso Paddy si rese conto che questa era la fine. Non esisteva il modo di sottrarsi a
quell'inferno, né per lui, né per il cavallo. Nel momento stesso in cui lo pensava, un eucaliptus, alle
sue spalle, proiettò fiamme in tutte le direzioni mentre la resina contenuta in esso esplodeva. La
pelle sul braccio di Paddy si accartocciò e annerì, i capelli sul suo capo offuscati finalmente da
qualcosa di più luminoso.
Morire in questo modo è indescrivibile; poiché il fuoco penetra dall'esterno all'interno. Gli ultimi
organi ad andarsene, cotti infine al punto da non poter più funzionare, sono il cervello e il cuore.
Con gli abiti in fiamme, Paddy saltellò e capriolò urlando e urlando. E ogni grido fu il nome di sua
moglie.
Tutti gli altri uomini tornarono alla dimora di Drogheda prima dell'uragano, portarono le
cavalcature nel recinto dei cavalli e si diressero o verso la grande casa o verso gli alloggi degli
apprendisti. Nel salotto di Fee vividamente illuminato, con un ceppo che ardeva ruggendo nel
caminetto di marmo color crema e rosa, i ragazzi Cleary sedettero ascoltando il rombo della
tempesta, non più tentati come un tempo di andare fuori a guardare. L'odore pungente e
piacevolissimo del legno di eucaliptus che bruciava sulla grata e i dolci e le tartine sul carrello del tè
pomeridiano li tentavano troppo. Nessuno si aspettava che Paddy potesse tornare in tempo.
Verso le quattro, le nubi rotolarono lontano, in direzione est, e tutti, inconsciamente, respirarono
meglio. In qualche modo, era impossibile rilassarsi durante un uragano asciutto, sebbene ogni
edificio a Drogheda fosse munito di parafulmine. Jack e Bob si alzarono e uscirono per respirare
una boccata d'aria fresca, o così dissero, ma in realtà per rilasciare i polmoni troppo a lungo
compressi dal respiro trattenuto.
«Guarda!» esclamò Bob, additando a ovest.
Al di sopra degli alberi che circondavano lo Home Paddock andava espandendosi un vasto e
bronzeo drappo funebre di fumo, i cui margini erano lacerati a strisce dal forte vento.
«Gesù buono!» gridò Jack, rientrando in casa di corsa e precipitandosi al telefono.
«Al fuoco, al fuoco!» urlò nel ricevitore, mentre quelli che ancora si trovavano nella stanza si
voltavano a guardarlo a bocca aperta e subito dopo correvano fuori a guardare. «Un incendio a
Drogheda, e grande!» Poi riattaccò; non aveva bisogno di dire altro al centralino di Gilly e a tutti
coloro che lungo la linea per abitudine alzavano il ricevitore al primo tintinnio. Sebbene non vi
fosse mai stato un grande incendio nel distretto di Gilly da quando i Cleary erano arrivati a
Drogheda, tutti conoscevano la routine.
I ragazzi corsero a prendere i cavalli e i guardiani si riversarono fuori degli alloggi degli
apprendisti, mentre la signora Smith apriva con la chiave uno dei ripostigli e distribuiva a decine
sacchi di canapa. Il fumo si alzava a ovest e il vento soffiava da quella direzione; questo significava
che l'incendio si stava avvicinando alla grande dimora. Fee si tolse la lunga gonna, infilò un paio di
calzoni di Paddy, poi corse con Meggie verso le scuderie; ogni paio di mani capace di soffocare il
fuoco con un sacco sarebbe stato necessario.
Nella cucina, la signora Smith caricò la stufa e le cameriere cominciarono a staccare enormi pentole
dai ganci appesi al soffitto.
«Meno male che ieri è stato macellato un manzo» disse la governante. «Minnie, tieni, ecco la chiave
del ripostiglio dei liquori. Tu e Cat andate a prendere tutta la birra e il rum che abbiamo, poi
cominciate a fare pane senza lievito mentre io mi occupo dello stufato. E sbrigatevi, sbrigatevi!»
I cavalli, già innervositi dall'uragano, avevano fiutato il fumo e non si lasciavano sellare facilmente;
Fee e Meggie fecero indietreggiare i due purosangue agitati e irrequieti fuori della scuderia e nel
cortile per poter meglio mettere i finimenti. Mentre Meggie era alle prese con la giumenta saura,
due vagabondi giunsero correndo lungo il sentiero dalla strada di Gilly.
«Il fuoco, signora, il fuoco! Ha un paio di cavalli in più? Ci faccia dare qualche sacco.»
«Da quella parte, verso i recinti del bestiame. Buon Dio, spero che nessuno di voi venga sorpreso
dall'incendio laggiù!» esclamò Meggie, che non sapeva dove si trovasse suo padre.
I due uomini afferrarono i sacchi di canapa e le borracce con l'acqua consegnati loro dalla signora
Smith; Bob e gli altri erano partiti da cinque minuti. I due vagabondi li seguirono, e, ultime ad
andare, Fee e Meggie si lanciarono al galoppo verso il torrente, lo attraversarono e corsero nella
direzione del fumo.
Dietro di loro, Tom il giardiniere terminò di riempire la grossa autocisterna con la pompa collegata
al pozzo artesiano, poi avviò il motore. Non che qualsiasi quantità d'acqua, tranne una pioggia
diluviale, potesse spegnere un incendio come quello, ma l'acqua sarebbe stata necessaria per
mantenere bagnati i sacchi di canapa e chi li avrebbe manovrati. Mentre portava l'autocarro, in
prima, nel letto del torrente per risalire l'argine opposto si voltò a guardare un momento la casa
deserta del capo-guardiano, e le altre due case libere più avanti; quello era il ventre molle della
dimora, il solo punto in cui materiale infiammabile si trovasse abbastanza vicino agli alberi sull'altra
riva del torrente e potesse incendiarsi. Il vecchio Tom volse di nuovo lo sguardo a ovest, crollò il
capo prendendo una decisione improvvisa, e riuscì a riportare l'autocarro attraverso il letto del
torrente e su per l'argine, a marcia indietro. Non sarebbero mai riusciti a fermare quell'incendio nei
pascoli; avrebbero fatto ritorno lì. Sulla sommità dell'argine e accanto alla casa del capo-guardiano,
ove si era accampato, avvitò la manichetta alla cisterna e cominciò a saturare d'acqua l'abitazione,
poi si portò oltre, fino alle due case più piccole, e annaffiò anche quelle. Soltanto lì si sarebbe
potuto rendere utile: mantenendo quelle tre abitazioni così bagnate da impedire che si incendiassero.
Mentre Meggie cavalcava accanto a Fee, la minacciosa nube a ovest si ingrandì sempre più e
sempre e sempre più forte giunse sul vento l'odore di bruciato. Cominciava a far buio; animali in
fuga da occidente arrivavano, man mano più numerosi, attraverso il pascolo, canguri e maiali
selvatici, pecore e buoi spaventati, emù, conigli a migliaia. Bob stava lasciando i cancelli aperti, ella
notò, mentre passava dal Borehead al Billa-Billa, in quanto ogni recinto a Drogheda aveva un nome.
Ma le pecore erano così stupide che finivano contro un recinto e si fermavano poi a un metro dai
cancelli aperti senza mai vederli.
L'incendio aveva progredito per sedici chilometri, quando lo raggiunsero, e si stava allargando
lateralmente, lungo un fronte sempre più ampio di secondo in secondo. Poiché l'erba alta e secca e il
vento impetuoso facevano balzare il fuoco da un boschetto all'altro, fermarono i cavalli spaventati
che tentavano di impennarsi, e guardarono a ovest, impotenti. Inutile tentare di fermare l'incendio lì:
nemmeno un esercito ci sarebbe riuscito. Dovevano tornare alla dimora e difendere almeno quella,
se possibile. Già il fronte delle fiamme aveva un'ampiezza di otto chilometri; se non avessero
spronato a briglia sciolta le loro stanche cavalcature, sarebbero stati raggiunti e superati dal fuoco.
Era un guaio per le pecore, un disastro. Ma non ci si poteva far niente.
Il vecchio Tom stava continuando a irrorare le case lungo il torrente quando riattraversarono al
galoppo il sottile strato d'acqua del guado.
«Bravo, Tom!» urlò Bob. «Continua finché non farà troppo caldo perché tu possa restare, poi taglia
la corda in tempo, mi hai sentito? Niente eroismi. Sei più importante di qualche pezzo di legno e di
vetro.»
I giardini della dimora erano pieni di automobili, e altri fari stavano sobbalzando e proiettando i
loro fasci di luce lungo la strada di Gilly; un numeroso gruppo di uomini li aspettava quando Bob
entrò nel recinto dei cavalli.
«Quanto è vasto, Tom?» domandò Martin King.
«Troppo perché si possa combatterlo, credo» rispose Bob, disperato. «Secondo me, ha un fronte di
circa otto chilometri e, con questo vento, sta avanzando quasi alla stessa velocità di un cavallo al
galoppo. Non so se riusciremo a salvare la dimora, ma credo che Horry dovrebbe prepararsi a
difendere il suo allevamento. Sarà il primo a essere raggiunto dalle fiamme, perché non vedo
proprio come potremmo mai fermarle.»
«Be', è un pezzo che non avevamo un grande incendio. L'ultimo è stato nel '19. Organizzerò un
gruppo da mandare a Beel-Beel; comunque, siamo già in molti, e altri uomini stanno arrivando.
Gilly può schierare quasi cinquecento uomini contro gli incendi. Alcuni di noi rimarranno qui a
darvi una mano. Grazie a Dio, la mia proprietà è a ovest di Drogheda, non saprei proprio che altro
dire.»
Bob sorrise. «Sei di grande conforto, maledizione, Martin.»
Martin si guardò attorno. «Dov'è tuo padre, Bob?»
«A ovest dell'incendio, come Bugela. Si trovava nel recinto Wilga per riunire alcune pecore gravide,
e Wilga è situato almeno otto chilometri a ovest dal punto in cui è cominciato l'incendio, a quanto
ho potuto vedere.»
«Non sei preoccupato per altri uomini?»
«Non oggi, grazie a Dio.»
In un certo senso, era come trovarsi in guerra, pensò Meggie, entrando in casa: una fretta ben
dominata, la preoccupazione per i viveri e le bevande, la necessità di mantenersi forti e coraggiosi.
E la minaccia del disastro imminente. Gli uomini, man mano che arrivavano, andavano a ingrossare
le file di coloro che si trovavano già nello Home Paddock e stavano abbattendo i pochi alberi
cresciuti in prossimità del torrente o falciavano l'erba troppo alta lungo l'intero perimetro. Meggie
ricordò di aver pensato, la prima volta, quando era arrivata a Drogheda, quanto più bello avrebbe
potuto essere lo Home Paddock con un maggior numero di alberi, poiché, in confronto alla
ricchezza dei boschi tutt'attorno, appariva brullo e squallido. Ora capì il perché. Lo Home Paddock
non era altro che un gigantesco argine circolare contro gli incendi.
Tutti parlavano degli incendi cui aveva assistito Gilly nei settanta e più anni della sua esistenza.
Strano a dirsi, gli incendi non costituivano mai una minaccia grave durante le protratte siccità,
perché non esisteva erba a sufficienza, in quei periodi, per alimentarli a lungo. Proprio in periodi
come questo, invece, un anno o due dopo che piogge abbondanti avevano fatto crescere l'erba così
alta e infiammabile, Gilly aveva assistito ai grandi incendi, quelli che a volte ardevano per centinaia
di chilometri senza poter essere domati.
Martin King aveva assunto il comando dei trecento uomini rimasti a difendere Drogheda. Era
l'allevatore più anziano del distretto e aveva lottato contro gli incendi per cinquant'anni.
«Ho centocinquantamila acri a Bugela» disse «e nel 1905 perdetti tutte le pecore e tutti gli alberi.
Mi ci vollero quindici anni per riprendermi, e per qualche tempo pensai che non ci sarei riuscito,
perché la lana non fruttava molto a quei tempi, e nemmeno la carne di manzo.»
Il vento continuava a ululare, l'odore di bruciato si insinuava dappertutto. La notte era discesa, ma il
cielo a occidente appariva tremendamente luminoso e il fumo che andava abbassandosi cominciava
a farli tossire. Non molto tempo dopo, scorsero le prime fiamme, lingue enormi che guizzavano e si
contorcevano fino a un'altezza di trenta metri nel fumo, e alle loro orecchie giunse un suono
scrosciante, simile a quello di una folla sterminata, eccitata, a una partita di calcio. Gli alberi sul
lato ovest del bosco che circondava lo Home Paddock presero fuoco e avvamparono come una
parete compatta di fiamme; Meggie, mentre guardava pietrificata dalla veranda della grande casa,
poté vedere piccole sagome di pigmei, profili di uomini che, delineati contro l'incendio, si agitavano
e saltellavano come anime tormentate all'inferno.
«Meggie, vuoi rientrare e disporre questi piatti sulla credenza, figliola? Non siamo mica a un picnic,
sai!» disse la voce di sua madre.
Si voltò con riluttanza.
Due ore dopo, il primo turno di uomini spossati entrò in casa barcollando per arraffare cibi e
bevande, per ricuperare le energie esauste prima di tornare indietro a lottare contro l'incendio. Per
questo avevano sgobbato le donne dell'allevamento, per accertarsi che ci fossero stufato e pane non
lievitato, tè e rum e birra in abbondanza, anche per trecento uomini. In un incendio, ognuno faceva
ciò che sapeva fare, e questo significava che le donne dovevano cucinare per sostenere la superiore
forza fisica degli uomini. Le casse di liquori si vuotavano, una dopo l'altra, e venivano sostituite da
altre casse; neri di fuliggine e vacillanti di stanchezza, gli uomini rimanevano in piedi bevendo
abbondantemente, si ficcavano in bocca enormi pezzi di pane, vuotavano in fretta un piatto colmo
di stufato appena si era raffreddato, ingurgitavano d'un fiato un ultimo rum e tornavano a battersi
contro l'incendio.
Tra un andirivieni e l'altro dalla cucina esterna alla casa, Meggie osservava l'incendio, intimorita e
terrorizzata. A modo suo, era più bello di ogni altra cosa terrena, era una creatura del firmamento,
creatura di soli tanto remoti che la loro luce giungeva gelida, creatura di Dio e del demonio. Il
fronte delle fiamme aveva galoppato in direzione est, erano ormai completamente circondati e
Meggie riuscì a scorgere particolari che la luminosità intensa delle fiamme, mentre avanzava, non
aveva consentito di vedere. Vide tinte diverse, nero e arancione e rosso, bianco e giallo; il nero
profilo di un alto albero orlato da una sorta di crosta arancione che baluginava e splendeva; rosse
braci che galleggiavano e piroettavano come fantasmi pazzi nell'aria sovrastante; gialle pulsazioni
nel cuore spossato di alberi ormai carbonizzati; una doccia di turbinose faville cremisi mentre un
grosso eucaliptus esplodeva; improvvise lingue di fiamme bianco-arancione scaturite da qualcosa
che aveva resistito fino a quel momento, cedendo in ultimo la propria sostanza all'incendio. Il fuoco
nella notte era meraviglioso, ne avrebbe conservato il ricordo per tutta la vita.
Un crescere improvviso della velocità del vento costrinse tutte le donne ad arrampicarsi su per i
rami del glicine e sul tetto di argentea lamiera zincata, imbacuccate con sacchi, perché gli uomini si
trovavano, dal primo all'ultimo, nello Home Paddock. Munite di sacchi bagnati, le mani e le
ginocchia ustionate anche attraverso i sacchi che le proteggevano, spensero battendole le braci sul
tetto che friggeva, terrorizzate dalla possibilità di un cedimento delle lamiere sotto il peso delle
ceneri roventi, nel qual caso frammenti in fiamme sarebbero caduti sulle travi sottostanti. Ma il
peggio dell'incendio si trovava ormai sedici chilometri più a est, nel Beel-Beel.
La dimora di Drogheda era situata ad appena cinque chilometri dal confine est della proprietà,
quello più vicino a Gilly. Subito dopo veniva l'allevamento Beel-Beel, e ancora più a est si trovava
Narrengang. Quando la velocità del vento passò dai sessantacinque ai cento chilometri all'ora,
l'intero distretto si rese conto che nulla, tranne la pioggia, avrebbe potuto impedire all'incendio di
ardere per settimane e di ridurre a un deserto centinaia di chilometri quadrati di terre fertili.
Anche mentre le fiamme infuriavano di più, le case sul torrente avevano resistito, con Tom che,
come un indemoniato, riempiva l'autocisterna, irrorava con la manichetta, tornava a riempire e a
irrorare. Ma, non appena il vento aumentò, le case si incendiarono, e Tom si ritirò con l'autocarro,
piangendo.
«Faresti meglio a inginocchiarti e a ringraziare Dio perché il vento non ha rinforzato mentre il
fronte dell'incendio si trovava a ovest rispetto a noi» disse Martin King. «Se fosse accaduto questo,
sarebbe stata la fine non soltanto per la grande dimora, ma anche per noi. Gesù buono, spero che
siano tutti salvi a Beel-Beel!»
Fee diede a King un bicchiere colmo di rum puro; non era più giovane, ma aveva lottato per tutto il
tempo e aveva diretto le operazioni da maestro.
«È stupido» gli disse «ma quando sembrava che tutto fosse perduto, ho continuato a pensare alle
cose più assurde. Non ho pensato alla mia morte, né a quella dei miei figli, e nemmeno a questa
meravigliosa casa in rovina. Non mi veniva in mente altro che il mio cestino da lavoro, il maglione
lasciato a mezzo, la scatola di bottoni messi in disparte per anni, le forme per torte, a cuore, che
Frank mi fece anni fa. Come avrei potuto sopravvivere senza? Tutte le piccole cose, sa, le cose che
non possono essere sostituite o acquistate in un negozio.»
«È questo il modo di reagire della maggior parte delle donne, in effetti. Buffo, non è vero, come si
reagisce? Ricordo che nel 1905 mia moglie rientrò in casa di corsa, mentre io le urlavo dietro come
un pazzo, soltanto per prendere un telaio con non so quale ricamo.» Sorrise. «Ma riuscimmo a
fuggire in tempo, anche se perdemmo la casa. Quando costruii quella nuova, la prima cosa che fece
lei fu di finire il ricamo. Era uno di quei modelli antiquati, lei sa certo di cosa sto parlando. Con le
parole "Casa, dolce casa".» Posò il bicchiere vuoto, scuotendo la testa mentre pensava alle bizzarrie
delle donne. «Ora devo andare. Gareth Davies avrà bisogno di noi a Narrengang, e così, a meno che
non mi sbagli di grosso, anche Angus a Rudna Hunish.»
Fee impallidì. «Oh, Martin! Così lontano?»
«L'allarme è già stato dato, Fee. Booroo e Bourke si stanno preparando.»
Per altri tre giorni l'incendio infuriò verso est, su un fronte che continuava ad ampliarsi e ad
ampliarsi, poi vi fu una pioggia improvvisa e abbondante che si protrasse per quasi quattro giorni e
spense fino all'ultima brace. Ma le fiamme avevano percorso centosessanta chilometri, lasciando
dietro di sé una fascia carbonizzata e annerita larga trentadue chilometri, dal centro di Drogheda al
confine dell'ultima proprietà situata a est nel distretto di Gillanbone, Rudna Hunish.
Finché non cominciò a piovere, nessuno si aspettò di avere notizie di Paddy, poiché lo credevano al
sicuro al lato opposto della zona bruciata, isolato da loro a causa del calore del terreno e degli alberi
ancora in fiamme. Se l'incendio non avesse distrutto la linea telefonica, si disse Bob, avrebbero
ricevuto una telefonata da Martin King, poiché era logico che Paddy si fosse diretto a ovest,
rifugiandosi nella dimora di Bugela. Ma, quando pioveva ormai da sei ore, senza che Paddy si fosse
ancora fatto vivo, cominciarono a preoccuparsi. Per quasi quattro giorni avevano continuato a
rassicurare se stessi, dicendosi che non c'era motivo di stare in ansia, che ovviamente era soltanto
tagliato fuori e aveva deciso di aspettare finché non gli fosse stato possibile tornare a casa sua
anziché dirigersi a Bugela.
«Ormai dovrebbe essere arrivato» disse Bob, andando avanti e indietro nel salotto mentre gli altri lo
guardavano; ironico a dirsi, la pioggia aveva riportato un umido gelo nell'aria, e, una volta di più, un
vivido fuoco ardeva entro il caminetto di marmo.
«Che cosa ne dici, Bob?» domandò Jack.
«Dico che è ormai ora di andare a cercarlo. Potrebbe essere ferito, o magari appiedato e costretto a
una lunga marcia. Il suo cavallo potrebbe essere stato preso dal panico e averlo disarcionato; non è
escluso che possa essere immobilizzato in qualche posto, nell'impossibilità di camminare. Aveva
viveri per un giorno, ma non certo abbastanza per quattro, anche se non può essere ancora morto di
fame. È meglio non causare agitazione per il momento, e pertanto non richiamerò gli uomini da
Narrengang. Ma se non lo avremo trovato prima del cader della notte, arriverò a cavallo da Dominic
e domani metteremo in moto tutto il distretto. Dio, vorrei che quelli delle Poste si sbrigassero a
riattare le linee telefoniche!»
Fee stava tremando, aveva gli occhi febbrili, quasi selvaggi. «Mi infilerò un paio di calzoni» disse.
«Non sopporto di restare qui inerte.»
«Ma', resta a casa!» la esortò Bob.
«Se è ferito, potrebbe trovarsi ovunque, Bob, e chissà in quali condizioni. Hai mandato gli uomini a
Narrengang e siamo a corto di gente per un gruppo di ricerche. Se andrò con Meggie, noi due
insieme saremo in grado di affrontare qualsiasi cosa, mentre, se andrà soltanto Meggie, dovrà unirsi
a uno di voi, e questo significa sprecare lei, per non parlare di me.»
Bob si rassegnò. «E va bene, allora. Potrai montare il castrone di Meggie; lo hai già portato fino
all'incendio. Prendiamo tutti un fucile e munizioni in abbondanza.»
Attraversarono il torrente e si inoltrarono nel cuore di quel paesaggio bruciato. In nessun punto
rimaneva una sola traccia di verde o di rosso; non si vedeva altro che una distesa sconfinata di braci
nere e bagnate che continuavano a fumigare dopo ore e ore di pioggia. Ogni foglia di ogni albero
era ridotta a filamenti neri e arricciolati, e ove si era trovata l'erba poterono vedere piccoli fagotti
neri qua e là, pecore raggiunte dall'incendio, o, di quando in quando, mucchi più grossi che erano
stati manzi o maiali selvatici. Sulle loro facce le lacrime si mescolarono alla pioggia.
Bob e Meggie procedevano in testa alla piccola processione, con Jack e Hughie al centro, e Fee e
Stuart per ultimi. Fee e Stuart erano abbastanza sereni, la loro stessa vicinanza li confortava, non
parlavano e ognuno si accontentava della silenziosa compagnia dell'altro. A volte i cavalli si
avvicinavano, oppure scartavano allontanandosi alla vista di qualche nuovo orrore, che però
sembrava non influenzare gli ultimi due della colonna. Il fango rendeva lento e difficoltoso il
cammino, ma l'erba carbonizzata e impastata si stendeva sul terreno come una stuoia di fibra e
offriva punti di appoggio ai cavalli. Ogni pochi metri si aspettavano di vedere Paddy apparire sul
lontano e piatto orizzonte, ma il tempo passava e non compariva mai.
Con una stretta al cuore, si resero conto che l'incendio era cominciato molto più avanti di quanto
avessero immaginato, nel recinto Wilga. Le nubi tempestose dovevano aver mascherato il fumo
finché il fuoco non si era esteso per un lungo tratto. Il limite dell'incendio era stupefacente. Da un
lato di una linea nitidamente tracciata, non esisteva altro che una sorta di pece nera e lucente,
mentre, sull'altro lato, la terra era come l'avevano sempre conosciuta, fulva e azzurrognola e tetra
nella pioggia, ma viva. Bob si fermò e tornò indietro per parlare a tutti.
«Bene, cominceremo qui. Io andrò in direzione ovest partendo da questo punto; è la direzione più
probabile e sono il più robusto. Avete tutti munizioni in abbondanza? Benissimo. Se trovate
qualcosa, sparate tre colpi in aria e chi sentirà dovrà rispondere con un colpo. Poi aspettate.
Chiunque abbia sparato i tre colpi, ne sparerà altri tre cinque minuti dopo, e continuerà a sparare tre
colpi ogni cinque minuti. Quelli che sentiranno risponderanno ogni volta con un colpo.
«Jack, tu va' a sud, lungo il limite dell'incendio. Hughie, tu va' a sud-ovest. Io vado a ovest. Ma' e
Meggie, voi andate a nord-ovest. Stu, tu segui il limite dell'incendio verso nord. E procedete adagio
tutti quanti, per piacere. La pioggia non consente di vedere lontano, e in certi punti ci sono molti
tronchi d'albero. Chiamate spesso; potrebbe non vedervi, ma udirvi. Però ricordate, nessuno sparo a
meno che non troviate qualcosa, perché Pa' non aveva il fucile con sé e, se udisse uno sparo, ma
fosse fuor di portata di voce per rispondere, sarebbe spaventoso per lui.
«Buona fortuna, e che Dio ci benedica.»
Simili a pellegrini giunti all'ultimo bivio, si dispersero nella pioggia incessante e grigia,
allontanandosi sempre più l'uno dall'altro, divenendo sempre più piccoli, finché in ultimo non
scomparvero, ognuno nella direzione assegnatagli.
Stuart aveva percorso appena ottocento metri, quando notò che un boschetto di alberi bruciati si
trovava molto vicino alla linea di demarcazione dell'incendio. C'era un piccolo albero wilga, nero e
arricciolato come la zazzera di un negretto, e c'erano i resti di un grosso ceppo nei pressi del limite
carbonizzato. Ma vide il cavallo di Paddy, disteso a terra e fuso nel tronco di un grosso eucaliptus, e
due dei cani di Paddy, piccole carcasse nere e rigide, con tutte e quattro le zampe tese verso l'alto
come bastoni. Smontò da cavallo, affondando con gli stivali fino alle caviglie nel fango, e tolse il
fucile dal sostegno sulla sella. Mosse le labbra, pregando, mentre si avvicinava e scivolava sulle
viscide scorie. Se non fosse stato per il cavallo e per i cani, avrebbe potuto sperare in un vagabondo,
o in qualche povero viaggiatore sorpreso e intrappolato dall'incendio. Ma Paddy montava un cavallo
e aveva con sé cinque cani; nessuno sulla pista viaggiava a cavallo o aveva con sé più di un cane. E
inoltre, quella località era troppo lontana dai confini di Drogheda per poter pensare a guardiani o
altri uomini di Bugela spintisi a ovest. Più avanti, si trovavano altri tre cani carbonizzati; cinque in
tutto, cinque cani. Ora si rese conto che non ne avrebbe trovato un sesto, e non lo trovò.
Poi, non lontano dal cavallo, fino a quel momento nascosto da un tronco, ecco quello che era stato
un uomo. Non ci si poteva sbagliare. Luccicante e splendente nella pioggia, la nera cosa giaceva
supina, e aveva la schiena incurvata come un grande arco, per cui toccava il terreno soltanto con le
natiche e le spalle. Le braccia erano aperte ma flesse sui gomiti, come se implorassero il cielo, le
dita, con la carne che si staccava rivelando ossa carbonizzate, artigliavano e tentavano di afferrare il
vuoto. Anche le gambe erano divaricate e flesse all'altezza delle ginocchia, mentre la faccia, una
sorta di bolla, fissava senz'occhi, senza vederlo, il cielo.
Per un momento, lo sguardo limpido e onniveggente di Stuart indugiò sul padre e il giovane vide
non già il guscio sfigurato, ma l'uomo come era stato nella vita. Puntò il fucile verso il cielo, sparò
un colpo, ricaricò, sparò un secondo colpo, ricaricò e fece partire il terzo. Fiocamente, in
lontananza, udì uno sparo in risposta, poi più lontano, e molto debole, un secondo sparo. Ricordò
allora che lo sparo più vicino doveva essere stato quello di sua madre e di sua sorella. Si trovavano
a nord-ovest e lui si trovava a nord. Senza aspettare i cinque minuti stabiliti, infilò un'altra cartuccia
nella camera di scoppio, puntò il fucile a sud e sparò. Una pausa per ricaricare, quindi il secondo
colpo. Caricò di nuovo e sparò il terzo. Rimise il fucile a terra e rimase ritto guardando a sud, il
capo reclinato, in ascolto. Questa volta, la prima risposta giunse da ovest, lo sparo di Bob; la
seconda da Jack o da Hughie, e la terza da sua madre. Sospirò di sollievo; non voleva che le donne
lo raggiungessero per prime.
Non vide, così, il grosso cinghiale sbucar fuori di tra gli alberi a nord; lo fiutò. Grosso come una
vacca, con la mole massiccia del corpo che dondolava sulle zampe corte e possenti mentre
abbassava la testa raschiando il terreno bagnato e bruciato. Gli spari lo avevano disturbato, e
soffriva. I radi peli neri sul fianco erano bruciacchiati e la pelle era ustionata fino al vivo, e rosso-
fiamma; l'odore percepito da Stuart, mentre guardava a sud, era l'aroma piacevole della pelle di
porco rosolata, né più né meno come quello di un cosciotto arrosto appena tolto dal forno e
croccante dappertutto in superficie. Strappato dallo stupore alla sofferenza stranamente serena che
sembrava aver sempre conosciuto, Stuart voltò la testa nel momento stesso in cui si diceva che
doveva essere già stato lì, che quel posto zuppo e nero doveva essergli stato impresso in qualche
punto della mente sin dal giorno della nascita.
Si chinò e cercò a tastoni il fucile, ricordando che non era carico. Il cinghiale rimaneva immobile, i
piccoli occhi arrossati pazzi di dolore, le grandi zanne gialle affilate e incurvate all'insù a
semicerchio. Il cavallo di Stuart nitrì fiutando la bestia; la testa massiccia del cinghiale si voltò per
guardarlo, poi si abbassò mentre l'animale si apprestava alla carica. Nel concentrare l'attenzione sul
cavallo, Stuart intravide la sua unica possibilità, si chinò ratto ad afferrare il fucile, e aprì
fulmineamente l'otturatore mentre l'altra mano affondava nella tasca della giacca per prendere una
cartuccia. Tutto attorno scendeva la pioggia, soffocando ogni altro suono con il suo scroscio
incessante. Ma il cinghiale udì l'otturatore riportato indietro e, all'ultimo momento, modificò la
direzione della carica, dal cavallo a Stuart. Gli era quasi addosso quando la pallottola lo centrò in
pieno nel petto senza rallentarlo. Le zanne si sollevarono lateralmente e colpirono Stuart all'inguine.
Il giovane cadde e il sangue zampillò come da un rubinetto aperto, saturandogli i vestiti e
sprizzando sul terreno.
Voltandosi goffamente mentre cominciava a sentire la pallottola, il cinghiale tornò indietro per
affondargli di nuovo le zanne nel corpo, ma esitò, vacillò, barcollò. L'intera mole di settecento chili
piombò addosso a Stuart e gli schiacciò la faccia contro la nera melma. Per un momento le mani di
lui artigliarono il terreno a entrambi i lati, nel tentativo frenetico e futile di liberarsi; questo, dunque,
era ciò che aveva sempre saputo, per questo non aveva mai sperato, o sognato, o fatto progetti, si
era limitato a rimanere passivo e ad assorbire il mondo vivo così profondamente da non avere il
tempo di affliggersi per il suo fato in attesa. Pensò: Ma', Ma'! Non posso restare con te, Ma'!
nell'attimo stesso in cui il cuore gli scoppiava nel petto.
«Chissà perché Stu non ha sparato di nuovo?» domandò Meggie a sua madre, mentre trottavano
nella direzione di quelle prime due triple salve, nell'impossibilità di procedere più veloci sul fango,
e disperatamente ansiose.
«Si sarà detto, immagino, che avevamo già udito» rispose Fee. Ma nel profondo della mente stava
ricordando la faccia di Stuart quando si erano separati per continuare la ricerca in direzioni diverse;
stava ricordando la mano di lui tesa per stringere la sua, e il modo con il quale le aveva sorriso.
«Non possiamo distare molto, ormai» disse, e spinse il cavallo a un goffo, scivoloso, piccolo
galoppo.
Ma Jack era arrivato là per primo, e così Bob, e intercettarono le due donne mentre attraversavano
l'ultimo lembo di terra ancora viva, avvicinandosi al luogo in cui l'incendio della boscaglia era
cominciato.
«Non avvicinarti, Ma'» disse Bob, mentre lei smontava.
Jack si era diretto verso Meggie e le afferrò le braccia.
Le due paia di occhi grigi li fissarono, non tanto nello smarrimento o nel timore, quanto nella
certezza, come se non fossero state necessarie parole.
«Paddy?» domandò Fee, con una voce che non parve la sua.
«Sì. E Stu.»
Nessuno dei suoi due figli riuscì a guardarla.
«Stu? Stu! Che cosa vuoi dire, Stu? Oh, Dio, cosa c'è? Che cosa è accaduto? Non tutti e due... no!»
«Pa' è rimasto intrappolato nell'incendio; è morto. Stu deve aver disturbato un cinghiale, che lo ha
caricato. Gli ha sparato, ma l'animale gli è caduto addosso mentre stava morendo e lo ha soffocato.
Anche Stu è morto, Ma'.»
Meggie urlò e si dibatté, cercando di liberarsi dalla stretta delle mani di Jack, ma Fee rimase
immobile tra quelle sudicie e insanguinate di Bob, come se fosse diventata di sasso, gli occhi vitrei
come sfere di cristallo.
«È troppo» disse infine, e alzò gli occhi su Bob, la faccia ruscellante di pioggia e le ciocche di
capelli, intorno al collo, gocciolanti come canaletti dorati. «Lascia che vada da loro, Bob. Dell'uno
sono la moglie, dell'altro la madre. Non puoi tenermi lontana da loro... non hai il diritto di tenermi
lontana. Lasciami andare da loro.»
Meggie si era acquietata e rimaneva immobile tra le braccia di Jack, con il capo sulla sua spalla.
Mentre Fee si avvicinava al disastro allacciata alla vita dal braccio di Bob, Meggie li seguì con lo
sguardo, ma non tentò in alcun modo di raggiungerli. Hughie apparve tra i veli di pioggia che
offuscavano ogni cosa; con un cenno del capo, Jack indicò sua madre e Bob.
«Accompagnali, Hughie, resta con loro. Meggie e io torniamo a Drogheda per portare qui il carro.»
Lasciò andare Meggie e l'aiutò a montare sulla cavalla saura. «Vieni, Meggie; fa quasi buio. Non
possiamo lasciarli fuori tutta la notte sotto questa pioggia, e non se ne andranno finché non saremo
tornati.»
Risultò impossibile far muovere il carro pesante o qualsiasi altro mezzo munito di ruote sul fango;
in ultimo, Jack e il vecchio Tom incatenarono una lamiera ondulata dietro due cavalli da tiro, e Tom
condusse i cavalli mentre Jack lo precedeva con la più grossa lanterna che si trovasse a Drogheda.
Meggie rimase nella grande casa e sedette davanti al fuoco acceso in salotto, mentre la signora
Smith cercava di persuaderla a mangiare, il viso striato di lacrime nel vedere lo stato di choc della
fanciulla immobile e silenziosa, la sua incapacità di piangere. Quando udì bussare con il battente
alla porta di casa, si voltò e andò ad aprire domandandosi chi mai, in nome del Cielo, fosse riuscito
a passare nonostante il fango, e meravigliandosi, come sempre, della fulmineità con la quale le
notizie superavano i solitari chilometri tra gli allevamenti così lontani l'uno dall'altro.
Sulla veranda si trovava Padre Ralph, bagnato e infangato, in tenuta da equitazione, con una cerata.
«Posso entrare, signora Smith?»
«Oh, Padre, Padre!» gridò lei, e si gettò tra le braccia del sacerdote sbalordito. «Come lo ha
saputo?»
«Mi ha telegrafato la signora Cleary, una cortesia tra amministratrice e proprietario che ho molto
apprezzato. Ho avuto dall'Arcivescovo Contini-Verchese il permesso di venire. Che uomo!
Crederebbe che devo ripetermelo cento volte al giorno? Ho viaggiato in aereo. L'apparecchio si è
impantanato al momento dell'atterraggio, finendo con il muso in giù, per cui mi sono reso conto di
com'era il terreno prima ancora di averci messo piede. Cara, meravigliosa Gilly! Ho lasciato la
valigia a Padre Watty, alla canonica, e mi sono fatto dare un cavallo dal proprietario dell'Imperial, il
quale mi ha creduto pazzo, e ha scommesso con me una bottiglia di Johnny Walker, etichetta nera,
che non sarei mai riuscito a passare con questo fango. Oh, signora Smith, non pianga così! Mia
cara, non finirà il mondo soltanto per un incendio, per quanto grande e terribile possa essere stato!»
esclamò, sorridendo e battendole la mano sulla spalla scossa dai singhiozzi. «Suvvia, sto facendo
del mio meglio per sminuire la cosa, ma lei non fa del suo meglio per aiutarmi. Non pianga in
questo modo, la prego.»
«Allora non sa» singhiozzò lei.
«Che cosa? Cosa dovrei sapere? Che c'è... cos'è accaduto?»
«Il signor Cleary e Stuart sono morti.»
Il colore gli abbandonò la faccia; scostò con entrambe le mani la governante. «Dov'è Meggie?»
urlò.
«In salotto. La signora Cleary è ancora nei pascoli con i cadaveri. Jack e Tom sono partiti per
portarli qui. Oh, Padre, a volte, nonostante la mia fede, non posso fare a meno di pensare che Dio è
troppo crudele! Perché doveva prenderseli tutti e due?»
Ma Padre Ralph non era rimasto ad ascoltarla dopo aver saputo dove si trovava Meggie; era corso
nel salotto, togliendosi l'impermeabile di cerata mentre correva e lasciandosi dietro una scia d'acqua
melmosa.
«Meggie!» disse, avvicinandosi alla ragazza, inginocchiandosi accanto alla poltrona, prendendo le
mani gelide di Meg tra le sue bagnate, con fermezza.
Scivolò fuori dalla poltrona e gli strisciò tra le braccia; appoggiò il capo alla camicia zuppa e chiuse
gli occhi, così felice, nonostante la sofferenza, da desiderare che quel momento non avesse mai fine.
Ralph era venuto, si trattava del trionfo del suo potere su di lui, non aveva fallito.
«Sono bagnato, Meggie, tesoro: ti bagnerai anche tu» le bisbigliò, la gota contro i suoi capelli.
«Non importa. È venuto.»
«Sì, sono venuto. Volevo essere sicuro che tu fossi sana e salva. Avevo la sensazione di essere
necessario, dovevo vedere con i miei occhi. Oh, Meggie, tuo padre e Stu! Come è accaduto?»
«Pappi è rimasto intrappolato nell'incendio e Stu lo ha trovato. È stato ucciso da un cinghiale. Gli è
caduto addosso dopo che gli aveva sparato. Jack e Tom sono andati a prenderli per portarli qui.»
Il sacerdote non disse altro, ma la tenne stretta e la cullò come se fosse stata una bambina, finché il
calore del fuoco non gli ebbe asciugato in parte la camicia e i capelli, e sentì parte della rigidità
abbandonare la ragazza. Le mise allora la mano sotto il mento e le alzò il capo, costringendola a
guardarlo, poi, senza riflettere, la baciò. Fu un impulso confuso che non affondava le radici nel
desiderio; soltanto un'offerta istintiva, quando ebbe veduto che cosa si celava negli occhi grigi. Un
qualcosa di distaccato, un sacramento di tipo diverso. Le braccia di lei scivolarono sotto le sue per
incontrarsi dietro; egli non poté impedirsi di trasalire, anche se represse l'esclamazione di dolore.
Meggie indietreggiò un poco. «Che cosa c'è?»
«Devo essermi ammaccato le costole quando l'aereo è atterrato. Siamo rimasti impantanati sino alla
fusoliera nel caro, vecchio fango di Gilly, per cui l'atterraggio è stato alquanto violento. Io sono
finito appeso in equilibrio sulla spalliera del sedile davanti al mio.»
«Qua, vediamo.»
Con dita ferme, gli sbottonò la camicia umida, gliela sfilò dalle braccia, la sfilò dai calzoni. Sotto la
superficie della pelle liscia e abbronzata, un brutto livido viola si estendeva da un fianco all'altro
subito sotto la gabbia toracica; Meggie trattenne il respiro.
«Oh, Ralph! Sei venuto a cavallo sin da Gilly con questo? Come deve averti fatto soffrire! Ti senti
bene? Non ti sembra di svenire? Potrebbe esserci qualche lesione interna!»
«No, sto benissimo, e non ho sentito niente, a essere sincero. Ero così ansioso di arrivare qui, di
accertarmi che tu fossi salva, che, presumo, ho semplicemente eliminato la cosa dai miei pensieri.
Se ci fosse un'emorragia interna, me ne sarei accorto già da un pezzo, ormai, credo. Dio, Meggie,
no!»
Lei aveva abbassato la testa, e delicatamente, gli sfiorava con le labbra la pelle livida, facendogli
scivolare il palmo delle mani sul petto fino alle spalle, con una sensualità deliberata che lo
sconcertò. Affascinato, terrorizzato, con l'intenzione di liberarsi a ogni costo, il sacerdote scostò la
testa; ma, in qualche modo, riuscì soltanto a riavere la ragazza tra le braccia, come un serpente
strettamente avvolto intorno alla sua volontà. Il dolore venne dimenticato, la Chiesa venne
dimenticata, Dio venne dimenticato. Trovò la bocca di lei, l'aprì a forza, avidamente, desiderando di
lei sempre qualcosa di più, non riuscendo a tenerla stretta quanto bastava per placare l'impulso
spaventoso che gli stava crescendo dentro. Lei gli offrì il collo, si scoprì le spalle, là ove la pelle era
fresca, e più liscia e lucida della seta; era come affogare, affondare nel profondo, ansimante e
indifeso. L'essere mortale premeva su di lui, un peso immane che gli schiacciava l'anima,
sprigionando il vino amaro e scuro dei sensi con una piena improvvisa. Avrebbe voluto piangere; le
ultime gocce del desiderio colarono sotto il fardello dell'essere mortale, e strappò via le braccia
della ragazza dal proprio misero corpo e si accosciò sui calcagni, a testa bassa, e parve essere
completamente assorto nella contemplazione delle proprie mani che gli tremavano sulle ginocchia.
Meggie, che cosa mi hai fatto, che cosa potresti farmi, se te lo consentissi?
«Meggie, ti amo, ti amerò sempre. Ma sono un sacerdote, non posso... semplicemente, non posso!»
Si affrettò a mettersi in piedi, ricompose la blusa e abbassò gli occhi su di lui, con un sorriso
obliquo che servì soltanto a far maggiormente risaltare la diminuita sofferenza nei suoi occhi.
«Non preoccuparti, Ralph. Andrò a vedere se la signora Smith può prepararti qualcosa da mangiare,
poi ti porterò il linimento per i cavalli; è miracoloso per far guarire i lividi. Fa cessare il dolore
molto meglio di quanto possano i baci.»
«Funziona il telefono?» riuscì a dire lui.
«Sì. Hanno teso una linea provvisoria sugli alberi e hanno ristabilito il collegamento un paio d'ore
fa.»
Ma quando Meggie fu uscita, trascorsero alcuni minuti prima che riuscisse a calmarsi quanto
bastava per sedersi allo scrittoio di Fee.
«Voglio fare un'interurbana per favore, centralino. Parla Padre de Bricassart, a Drogheda... Oh
salve, Doreen, c'è ancora lei al centralino, vedo. È un piacere anche per me udire la sua voce. A
Sydney non si sa mai chi sia la centralinista; si tratta soltanto di una voce tediata. Voglio una
comunicazione urgente con Sua Eccellenza il Legato pontificio a Sydney. Il numero è XMCX-2324.
E, mentre aspetto la comunicazione con Sydney, mi passi Bugela, Doreen.»
Ebbe appena il tempo di riferire a Martin King quello che era accaduto prima di avere la
comunicazione con Sydney, ma poche parole a Bugela bastavano. Tutta Gilly lo avrebbe saputo da
Martin e da tutti coloro che ascoltavano le comunicazioni altrui sulla linea a circuito chiuso; chi
avesse voluto osare un tragitto a cavallo sul fango di Gilly sarebbe venuto ai funerali.
«Eccellenza? Qui è Padre de Bricassart... Sì, grazie, sono arrivato sano e salvo, ma l'aereo si è
impantanato sino alla fusoliera nel fango e dovrò tornare in treno. Nel fango, Eccellenza, f-a-n-g-o!
No, Eccellenza, tutte le strade, qui, diventano intransitabili quando piove. Ho dovuto viaggiare a
cavallo da Gillanbone a Drogheda; è il solo modo possibile, con la pioggia... Ecco perché le sto
telefonando, Eccellenza. È stato un bene che sia venuto. Devo aver avuto una sorta di
presentimento, suppongo... Sì, la situazione è tragica, molto tragica. Padraic Cleary e suo figlio
Stuart sono morti, l'uno carbonizzato dall'incendio, l'altro soffocato da un cinghiale... Un c-i-n-g-h-
i-a-l-e, cinghiale, Eccellenza, un maiale selvatico... Sì, ha ragione, parlano un inglese leggermente
bizzarro da queste parti.»
Lungo l'intera linea udiva esclamazioni soffocate da parte di coloro che ascoltavano la fioca
comunicazione, e non poté fare a meno di sorridere. Non si poteva urlare al telefono che tutti
dovevano finirla di ascoltare le conversazioni altrui... si trattava dell'unico divertimento collettivo
che Gilly potesse offrire ai suoi cittadini avidi di contatti umani... ma, se soltanto avessero
riagganciato, Sua Eccellenza l'Arcivescovo avrebbe avuto la possibilità di udire meglio. «Con il suo
permesso, Eccellenza, rimarrò per i funerali e per accertarmi che la vedova e gli altri figli siano
tranquilli. Sì, Eccellenza, grazie... Tornerò a Sydney non appena mi sarà possibile.»
Anche la centralinista stava ascoltando; Padre Ralph abbassò il gancio e parlò di nuovo
immediatamente. «Doreen, mi ridia Bugela, per piacere.» Conversò per qualche minuto con Martin
King, poi decise, poiché era il mese di agosto, col freddo dell'inverno, di celebrare i funerali di lì a
due giorni. Molte persone avrebbero voluto essere presenti e sarebbero state disposte a venire a
cavallo, ma si trattava di un tragitto lento e arduo.
Meggie tornò con il linimento, ma non si offrì di frizionarlo, si limitò a porgergli silenziosamente il
flacone. In tono brusco disse che la signora Smith gli avrebbe apparecchiato, di lì a un'ora, una cena
calda nella sala da pranzo piccola, per dargli il tempo di fare un bagno. Si rese spiacevolmente
conto che, in qualche modo, Meggie si sentiva delusa da lui, ma non capì come potesse pensare una
cosa simile, né su quali basi lo avesse giudicato. Sapeva che cos'era; perché quell'ira?
Nella grigia luce dell'alba, la piccola cavalcata di scorta alle salme giunse al torrente e si fermò.
Sebbene l'acqua fosse ancora contenuta entro gli argini, il Gillan si era tramutato in un vero e
proprio fiume in piena, dalla corrente vorticosa, profondo nove metri. Padre Ralph lo attraversò con
la cavalla saura, la stola intorno al collo, e gli strumenti della sua vocazione nella bisaccia da sella.
Poi, circondato da Fee, da Bob, da Jack, da Hughie e da Tom, tolse i sacchi dalle salme e si accinse
a somministrare l'estrema unzione. Dopo Mary Carson, più nulla poteva sconvolgerlo; ma non trovò
alcunché di ripugnante in Paddy e in Stu. Erano entrambi neri, ciascuno a suo modo, Paddy a causa
delle fiamme e Stu a causa del soffocamento, ma il prete li baciò entrambi con affetto e rispetto.
Per ventiquattro chilometri, la lamiera ondulata aveva vibrato e sobbalzato sul terreno, dietro i due
cavalli da tiro, sfregiando il fango con solchi profondi che sarebbero rimasti visibili ancora anni
dopo, anche nell'erba di altre stagioni. Ma ora sembrava che non potessero andare oltre; il torrente
vorticoso li tratteneva sull'altra riva, a un solo chilometro e mezzo di distanza da Drogheda.
Immobili, fissarono le cime degli alti eucalipti, chiaramente visibili anche nella pioggia.
«Ho un'idea» disse Bob, rivolgendosi a Padre Ralph. «Padre, lei è il solo qui ad avere un cavallo
fresco; e dovrà toccare a lei. Le nostre cavalcature ce la faranno appena una volta ad attraversare a
nuoto il torrente... sono spossate, dopo il fango e il freddo. Torni indietro, trovi dei fusti vuoti da
duecento litri e ne faccia chiudere i coperchi in modo che siano stagni e non possano aprirsi. Li
faccia saldare, se necessario. Ce ne occorreranno dodici, dieci come minimo, se non riuscirà a
trovarne di più. Dovranno essere legati tutti insieme e portati da questo lato del torrente. Li
assicureremo sotto la lamiera e la faremo galleggiare come una chiatta.»
Padre Ralph fece come gli era stato detto, senza obiettare; era un'idea migliore di tutte quelle che
aveva da proporre lui. Dominic O'Rourke, di Dibban-Dibban, era arrivato nel frattempo con due dei
suoi figli; si trattava di un vicino, non risiedeva lontano, secondo i criteri dell'interno. Quando Padre
Ralph gli ebbe spiegato che cosa occorreva fare, si misero tutti all'opera rapidamente, esplorando i
ripostigli in cerca di fusti vuoti, rovesciando fuori pula e avena da altri fusti, cercando i coperchi e
saldandoli ai fusti quando la ruggine non li aveva rovinati e sembrava probabile che potessero
resistere ai colpi della corrente. La pioggia continuava a cadere, a cadere. Non sarebbe cessata per
altri due giorni.
«Dominic, mi rincresce chiederglielo, ma quando quei poveretti arriveranno, saranno mezzo morti,
il funerale dovrà aver luogo domani e anche se l'impresa di pompe funebri a Gilly riuscisse a
preparare in tempo le bare, non si riuscirebbe mai a farle arrivare qui con il fango. Qualcuno di voi
non potrebbe costruirne un paio? Mi occorre un solo uomo che attraversi il torrente con me.»
I figli di O'Rourke annuirono, non volevano vedere come l'incendio avesse conciato Paddy, o il
cinghiale Stuart.
«Ci pensiamo noi, Pa'» disse Liam.
Trascinando i fusti dietro i cavalli, Padre Ralph e Dominic O'Rourke arrivarono al torrente e lo
attraversarono.
«C'è una cosa, Padre!» gridò Dominic. «Non dovremo scavare fosse in questo fango dannato! Un
tempo pensavo che Mary si stesse dando un po' troppe arie con quel mausoleo che aveva fatto
erigere, ma in questo momento, se fosse qui, la bacerei!»
«Troppo giusto!» urlò Padre Ralph.
Legarono i fusti sotto la lamiera ondulata, sei per ciascun lato, annodarono saldamente il sudario di
canapa, poi spinsero a nuoto nel torrente gli sfiancati cavalli da tiro, trascinandosi dietro la corda
che, in ultimo, avrebbe rimorchiato la zattera improvvisata. In groppa alle grosse bestie c'erano
Dominic e Tom; si fermarono in cima all'argine del torrente, dalla parte di Drogheda, e si voltarono
a guardare mentre le persone ancora sull'altra riva legavano la zattera e la spingevano in acqua. I
cavalli da tiro cominciarono ad avanzare, incitati con grida stridule da Tom e Dominic, mentre la
zattera galleggiava sull'acqua. Dondolò e oscillò pericolosamente, ma rimase a galla quanto bastava
per essere portata al sicuro sulla riva opposta; invece di perdere tempo per smantellarla, i due
improvvisati postiglioni continuarono a incitare i cavalli lungo il sentiero che conduceva alla grande
dimora e la lamiera, sostenuta dai fusti, scivolò sul fango meglio di prima.
Una rampa conduceva alle grandi porte del capannone della tosatura per le quali passavano le balle
di lana. Portarono la zattera con il suo fardello nell'enorme edificio vuoto che puzzava di pece, di
sudore, di lanolina e di sterco. Imbacuccate e avvolte in impermeabili di cerata, Minnie e Cat erano
venute dalla grande casa per il primo turno della veglia funebre e si inginocchiarono a ciascun lato
del catafalco di metallo, facendo scorrere tra le dita i chicchi dei rosari, alzando e abbassando la
voce in cadenze così note da non costare alcuna fatica alla memoria.
La casa si stava riempiendo. Erano arrivati Duncan Gordon da Each-Uisge, Gareth Davies da
Narrengang, Horry Hopeton da Beel-Beel, Eden Carmichael da Barcoola. Il vecchio Angus
MacMCQueen aveva fermato, con una bandierina rossa, uno dei lenti treni merci locali, arrivando
accanto al macchinista fino a Gilly, ove si era fatto prestare un cavallo da Harry Gough. In treno o
in sella, aveva percorso più di trecento chilometri di fango.
«Sono finito, Padre» disse in seguito Horry al sacerdote, mentre i sette uomini sedevano nella sala
da pranzo piccola divorando un pasticcio di carne e rognone. «L'incendio ha attraversato il mio
allevamento da un capo all'altro, senza lasciare in vita quasi una sola pecora o verde quasi un solo
albero. Per fortuna, questi ultimi anni sono stati buoni; non posso dire altro. Ho i mezzi per
acquistare altre pecore e, se questa pioggia continuerà, l'erba ricrescerà rapidamente. Ma Dio ci
scampi da un altro disastro del genere nei prossimi dieci anni, Padre, perché non avrei più alcun
risparmio con cui rifarmi.»
«Be', il tuo allevamento è più piccolo del mio, Horry» disse Gareth Davies, affondando il coltello
con evidente piacere nella crosta leggera e friabile del pasticcio della signora Smith. Nessun
disastro, per quanto grave, poteva togliere a lungo l'appetito agli allevatori della pianura di terra
nera; avevano bisogno di cibo per far fronte alle disgrazie. «Credo che la metà delle mie terre sia
stata devastata dall'incendio e, quel che è peggio, ho perduto i due terzi delle pecore. Padre,
abbiamo bisogno di preghiere.»
«Già» approvò il vecchio Angus. «Non dirò di essere stato colpito come Horry e Garry, Padre, ma il
disastro è stato abbastanza serio. Sessantamila acri di pascoli sono bruciati, e ho perduto la metà
delle pecore. I momenti come questi, Padre, mi fanno pentire di essermene andato da Skye quando
ero giovane.»
Padre Ralph sorrise. «È un rammarico fuggevole, Angus, e lei lo sa bene. Se ne andò da Skye per la
stessa ragione che indusse me ad andarmene da Clunamara. Il posto era troppo piccolo per lei.»
«Eh, sicuro. L'erica non brucia con belle fiammate alte come gli eucalipti, vero, Padre?»
Sarebbe stato uno strano funerale, pensò Padre Ralph, guardandosi attorno; le sole donne presenti
sarebbero state quelle di Drogheda; erano accorsi soltanto uomini. Aveva portato un'enorme dose di
laudano a Fee, dopo che era stata spogliata, asciugata dalla signora Smith e fatta coricare nel grande
letto, un tempo diviso con Paddy: e quando Fee aveva rifiutato di bere, piangendo istericamente, lui,
senza tanti complimenti, non si era peritato di turarle il naso e versarle in gola la pozione. Strano,
non aveva creduto che Fee potesse crollare in quel modo. L'effetto del laudano era stato rapido,
perché non toccava cibo da ventiquattro ore. Sapendo che dormiva profondamente, il sacerdote si
sentiva più tranquillo. Continuava però a tenere d'occhio Meggie; si trovava nella cucina, in quel
momento, e aiutava la signora Smith a far da mangiare. I ragazzi erano tutti a letto, talmente
spossati che a stento avevano potuto togliersi di dosso gli indumenti bagnati prima di crollare.
Quando Minnie e Cat ebbero terminato il loro turno della veglia funebre, Gareth Davies e suo figlio
Enoch ne presero il posto; gli altri si concessero riposi di un'ora e conversarono e mangiarono.
Nessuno dei giovani aveva raggiunto gli anziani nella sala da pranzo. Si trovavano tutti nella
cucina, in teoria per dare una mano alla signora Smith, ma in realtà per poter guardare Meggie.
Quando se ne rese conto, Padre Ralph si sentì al contempo irritato e sollevato. In fin dei conti, il
marito lo avrebbe scelto tra loro; doveva accadere inevitabilmente. Enoch Davies contava ventinove
anni ed era un «nero gallese», la qual cosa significava che aveva i capelli neri e gli occhi molto
scuri, un bell'uomo; Liam O'Rourke, un giovanotto di ventisei anni, aveva i capelli color sabbia e gli
occhi azzurri, come suo fratello Rory, di venticinque anni; Connor Carmichael somigliava sputato
alla sorella, sebbene, a trentadue anni, fosse più anziano di lei, ma poteva vantare un gran
bell'aspetto, anche se un po' arrogante; il meglio del mazzo, a giudizio di Padre Ralph, era il nipote
del vecchio Angus, Alastair, il più vicino a Meggie per l'età, ventiquattro anni; un caro giovane, con
i bellissimi, azzurri occhi scozzesi del nonno e i capelli già brizzolati, una caratteristica della
famiglia. Che la ragazza si innamorasse di uno di loro, lo sposasse e avesse i figli tanto desiderati!
Oh, Dio, Dio mio, se mi concederai questo, lietamente io sopporterò la sofferenza di amarla,
lietamente...
Non un fiore copriva quelle bare, e i vasi disposti tutto attorno nella cappella erano vuoti. I pochi
fiori sopravvissuti alla calura terribile dell'aria infuocata, due sere prima, erano stati distrutti dalla
pioggia e giacevano sul fango simili a farfalle morte. Non rimanevano né lo stelo di saggina, né una
rosa precoce. E tutti erano stanchi, così stanchi! Quelli che avevano cavalcato per chilometri e
chilometri sul fango, desiderosi di dimostrare la loro amicizia, erano stanchi; Padre Ralph era tanto
stanco che gli sembrava di muoversi in un sogno e continuava a distogliere lo sguardo dal viso
tirato e disperato di Fee, dall'espressione addolorata e adirata al contempo di Meggie, dalla comune
sofferenza dei tre giovani tanto legati gli uni agli altri, Bob, Jack e Hughie...
Non pronunciò alcun elogio funebre; fu Martin King a parlare brevemente, e in modo commovente,
a nome di tutti coloro che si trovavano lì riuniti, poi il sacerdote cominciò subito a celebrare la
Messa di Requiem. Aveva portato, inutile dirlo, il calice, i sacramenti e una stola, poiché nessun
prete si muoveva senza queste cose, quando andava a offrire consolazione o aiuto, ma non
disponeva dei paramenti e in casa non ce n'erano. Il vecchio Angus, però, passando per la canonica
di Gilly, si era ricordato di portare la veste nera da lutto di una Messa di Requiem, avvolta sulla
sella in una cerata. Di conseguenza, Padre Ralph vestiva nel modo adatto mentre la pioggia
scrosciava contro le finestre e tamburellava sul tetto di lamiera, due piani più in alto.
Poi uscirono, sotto la pioggia malinconica, e attraversarono il prato, reso rossiccio e bruciacchiato
dalla calura, verso il piccolo cimitero con la cancellata bianca. Questa volta ci furono persone
disposte a portare a spalla le semplici bare rettangolari, scivolando e slittando sul fango, sforzandosi
di vedere dove stavano andando con la pioggia che batteva loro negli occhi. E le campanelle sulla
tomba del cuoco cinese tintinnavano monotone: Hee Sing, Hee Sing, Hee Sing.
Finalmente, tutto ebbe termine. Gli ospiti ripartirono a cavallo, ingobbiti sotto gli impermeabili di
cerata, taluni contemplando disperati la prospettiva della rovina, altri ringraziando Dio perché si
erano sottratti all'incendio e alla morte. E Padre Ralph mise insieme le sue poche cose, sapendo di
doversene andare prima che la partenza gli divenisse impossibile.
Si recò a parlare con Fee che, seduta allo scrittoio, si contemplava ammutolita le mani.
«Fee, sarà coraggiosa?» le domandò, sedendo in modo da poterla vedere.
Si voltò verso di lui, così silenziosa e spenta sin nell'anima da fargli paura e da costringerlo a
chiudere gli occhi.
«Sì, Padre, sarò coraggiosa. Mi rimangono i libri, e cinque figli... sei tenendo conto di Frank.
Soltanto, presumo che non possiamo tener conto di Frank, le pare? Grazie anche per questo, non
potrò mai ringraziarla abbastanza. Mi è di tale conforto sapere che i suoi colleghi si occupano di lui,
cercano di rendergli la vita un po' più facile. Oh, se soltanto potessi vederlo, una volta sola!»
Era come un faro; da lei scaturivano lampi di sofferenza ogni volta che i suoi pensieri tornavano a
quel culmine di commozione, troppo grande per poter essere arginato. Un lampo enorme, e poi un
lungo periodo di nulla.
«Fee, voglio che lei pensi a una cosa.»
«Sì, a che cosa?» Era di nuovo buia.
«Mi sta ascoltando?» le domandò in tono aspro, preoccupato e, a un tratto, ancor più spaventato di
prima.
Per un lungo momento, la credette così rinchiusa in se stessa da non essere riuscito a penetrarla
neppure con il tono così aspro della voce, ma il faro tornò a splendere e le labbra di lei si
dischiusero. «Mio povero Paddy! Mio povero Stuart! Mio povero Frank!» Poi, una volta di più, si
assoggettò a quel ferreo dominio di se stessa, come se fosse decisa a prolungare i periodi di tenebre
fino a spegnere del tutto ogni luce nella sua vita.
Lasciò vagare lo sguardo sulla stanza e parve non riconoscerla. «Sì, Padre, la sto ascoltando.»
«Fee, e sua figlia? Non ricorda mai di avere una figlia?»
Gli occhi grigi si alzarono sulla sua faccia, vi indugiarono quasi pietosamente. «C'è qualche donna
che lo ricorda? Che cos'è una figlia? Soltanto un momento della sofferenza, una versione più
giovane di noi stesse, che farà tutte le cose già fatte da noi e verserà le stesse lacrime. No, Padre.
Cerco di dimenticare che ho una figlia... e, se penso a lei, è come se fosse uno dei miei figli. Una
madre ricorda soltanto i propri figli maschi.»
«Non versa mai lacrime, Fee? Le ho vedute una sola volta.»
«Non le vedrà mai più, perché ho esaurito le mie lacrime, in eterno.» Tremò in tutto il corpo. «Sa
una cosa, Padre? Due giorni fa ho scoperto quanto amavo Paddy, ma è stato come per ogni altra
cosa nella mia vita... troppo tardi. Troppo tardi per lui, troppo tardi per me. Se sapesse quanto ho
desiderato poterlo prendere tra le braccia, potergli dire che lo amavo! Oh, Dio, spero che nessun
altro essere umano debba mai soffrire quanto soffro io!»
Distolse lo sguardo da quel volto all'improvviso devastato, per dargli il tempo di ritrovare la calma,
e per dare a se stesso il tempo di cercar di capire l'enigma che era Fee.
«Nessun altro potrà mai provare il suo dolore.»
Un angolo della bocca di lei si sollevò in un sorriso austero. «Già. Questa è una consolazione, no?
Potrà non essere invidiabile, ma il mio dolore appartiene a me sola.»
«Vuole promettermi una cosa, Fee?»
«Se le fa piacere.»
«Si occupi di Meggie, non la dimentichi. La faccia andare ai balli, le faccia conoscere qualche
giovanotto, la incoraggi a pensare al matrimonio e a una famiglia sua. Ho notato che tutti i giovani
l'adocchiavano, oggi. Le dia il modo di incontrarli ancora in circostanze meno tristi di questa.»
«Come vuole lei, Padre.»
Sospirando, la lasciò alla contemplazione delle proprie esili mani bianche.
Meggie lo accompagnò nelle scuderie, ove il castrone baio del proprietario dell'Imperial si era
ingozzato di fieno e crusca, vivendo per due giorni in una sorta di paradiso equino. Padre Ralph gli
gettò sul dorso la logora sella del proprietario dell'albergo poi si chinò a stringere la sopraccinghia e
il sottopancia, mentre Meggie, addossata a una balla di paglia, lo contemplava.
«Padre, guardi che cosa ho trovato» disse, mentre lui terminava e si raddrizzava. Gli tese la mano;
le dita stringevano una rosa pallida, di un color grigio-roseo. «È la sola rimasta. L'ho trovata su un
cespuglio sotto il basamento delle cisterne, dietro la casa. Presumo che non sia stata bruciata come
le altre dal calore dell'incendio e sia rimasta riparata dalla pioggia. Così, l'ho colta per lei. È una
piccola cosa per ricordarmi.»
Prese il fiore sbocciato soltanto in parte, con la mano tutt'altro che ferma, e, immobile, lo
contemplò. «Meggie, non ho bisogno di alcun tuo ricordo, né ora né mai. Ti porto entro di me, lo sai
bene. Non mi sarebbe possibile nascondertelo, non sembra anche a te?»
«Ma a volte un oggetto ha qualcosa di più reale» insistette. «Può toglierlo da un cassetto e
contemplarlo, e ricordare, vedendolo, tutte le cose che altrimenti potrebbe dimenticare. L'accetti,
Padre, la prego.»
«Mi chiamo Ralph.» Aprì la valigetta dei sacramenti e ne tolse il grosso messale rilegato in preziosa
madreperla. Glielo aveva regalato il suo povero padre il giorno dell'ordinazione, tredici lunghi anni
prima. Le pagine si aprirono sul segnalibro, un largo e spesso nastro bianco; ne sfogliò parecchie
altre; posò la rosa in mezzo e chiuse il libro. «Vuoi un mio ricordo, Meggie, non è vero?»
«Sì.»
«Non te lo darò. Voglio che tu mi dimentichi, voglio che ti guardi attorno nel tuo mondo, e trovi un
uomo buono e gentile, e lo sposi, e abbia i bambini che desideri tanto. Sei nata per essere madre.
Non devi avvinghiarti a me, non è giusto. Io non potrò mai abbandonare la Chiesa; e ora sarò
completamente sincero con te, nel tuo interesse. Non voglio abbandonare la Chiesa perché non ti
amo come potrà amarti un marito, capisci? Dimenticami, Meggie!»
«Non vuole darmi un bacio d'addio?»
Per tutta risposta, egli si issò sul baio e lo diresse verso la porta prima di mettersi il vecchio cappello
di feltro. Gli occhi azzurri gli balenarono per un momento, poi il cavallo uscì sotto la pioggia e
cominciò a percorrere con riluttanza, scivolando, la pista che conduceva a Gilly. Meggie non tentò
di seguire il sacerdote, rimase nell'oscurità dell'umida scuderia, respirando gli odori di sterco di
cavallo e di fieno; le ricordarono la stalla nella Nuova Zelanda, e Frank.
Trenta ore dopo, Padre Ralph entrò nello studio del Legato pontificio, attraversò la stanza per
baciare l'anello, poi si lasciò cadere stancamente su una poltrona. Soltanto quando sentì quei begli
occhi onniscienti su di sé si rese conto dell'aspetto bizzarro che doveva avere, della ragione per cui
tante persone lo avevano fissato dopo che era disceso dal treno alla stazione centrale. Senza
ricordare la valigia che Padre Watt Thomas custodiva per lui alla canonica, era salito sul postale
notturno due minuti appena prima della partenza e aveva viaggiato per novecentosettanta chilometri
sul treno gelido, in camicia, calzoni al ginocchio e stivali, bagnato fradicio, senza mai nemmeno
accorgersi di aver freddo. Così, ora, abbassò gli occhi su se stesso con un sorriso malinconico, poi
guardò l'Arcivescovo.
«Mi scusi, Eccellenza, sono accadute tante di quelle cose che non ho nemmeno pensato quanto deve
essere strano il mio aspetto.»
«Non stia a scusarsi, Ralph.» A differenza del suo predecessore, l'Arcivescovo preferiva chiamare il
nuovo segretario con il nome di battesimo. «Mi pare che abbia un aspetto molto romantico ed
elegante. Soltanto un briciolo troppo secolare, non è d'accordo?»
«Senza alcun dubbio per quanto concerne il briciolo di secolarità. Riguardo al romanticismo e
all'eleganza, Eccellenza, è solo che lei non è abituato a vedere come ci si veste di solito a
Gillanbone.»
«Mio caro Ralph, se lei si mettesse in mente di vestirsi con tela di sacco e di coprirsi di cenere,
riuscirebbe a sembrare ugualmente romantico ed elegante! La tenuta da equitazione le si addice,
però, davvero. Quasi quanto la tonaca, e non sprechi fiato per dirmi di non aver mai pensato che la
facesse figurare meglio del nero abito talare. Lei ha un modo di muoversi singolare e quanto mai
attraente, e ha conservato la sua bella corporatura snella; credo che forse riuscirà a conservarla
sempre. Credo inoltre che, quando mi richiameranno a Roma, la condurrò con me. Mi divertirà
moltissimo osservare l'impressione che farà ai nostri tozzi e grassi prelati italiani. L'agile e bel
felino tra piccioni grassocci e spaventati.»
Roma! Padre Ralph si raddrizzò sulla poltrona.
«È stato molto penoso, Ralph?» continuò l'Arcivescovo, facendo scorrere ritmicamente la mano
lattea e inanellata sul serico dorso della sua gatta abissina che faceva le fusa.
«Terribile, Eccellenza.»
«Quelle persone, lei ha per loro un grande affetto.»
«Sì.»
«E le ama tutte ugualmente, o prova per alcune di loro qualcosa di più che per gli altri?»
Ma Padre Ralph era astuto per lo meno quanto il suo superiore, e ormai si trovava con lui da un
periodo di tempo sufficientemente lungo per sapere come ragionasse. Pertanto, parò la domanda
melliflua con una ingannevole franchezza, un espediente che, come aveva avuto modo di constatare,
placava all'istante i sospetti dell'Arcivescovo. A quell'intelligenza sottile e tortuosa non accadeva
mai di pensare che uno sfoggio di sincerità potesse essere più mendace di qualsiasi sotterfugio.
«Li amo tutti, ma, come ella dice, alcuni più di altri. Quella che amo di più è la giovane Meggie. Ho
sempre sentito una particolare responsabilità nei suoi riguardi perché la famiglia predilige a tal
punto i figli maschi da dimenticare la sua esistenza.»
«Quanti anni ha, questa Meggie?»
«Non lo so esattamente. Oh, immagino che debba essere sui vent'anni. Ma ho fatto promettere a sua
madre di alzare la testa dai registri almeno quanto basta per accertarsi che la ragazza vada a qualche
ballo e conosca qualche giovanotto. Se restasse bloccata a Drogheda, la sua sarebbe una vita
sprecata, un vero peccato.»
Non diceva altro che la verità; il fiuto indicibilmente sensibile dell'Arcivescovo se ne rese subito
conto. Sebbene avesse appena tre anni più del suo segretario, la sua carriera non era stata inceppata,
e, sotto molti aspetti, si sentiva incommensurabilmente più vecchio di quanto sarebbe mai accaduto
a Ralph; il Vaticano svuotava di una qualche essenza vitale chiunque fosse esposto a esso sin
dall'inizio, e Ralph possedeva quell'essenza vitale in abbondanza.
Meno vigile, l'Arcivescovo continuò a osservare il suo segretario e tornò a dedicarsi al gioco
interessante di scoprire quali fossero esattamente i moventi di Padre Ralph de Bricassart. A tutta
prima, aveva avuto la certezza che esistesse in lui una debolezza della carne, se non in una
direzione, almeno nell'altra. La bellezza stupefacente del volto e il corpo atletico dovevano farne
l'oggetto di molti desideri, troppi perché potesse continuare a essere innocente o ignaro. E, man
mano che il tempo passava, il Legato pontificio si era reso conto di avere, almeno in parte, ragione;
la consapevolezza esisteva senza alcun dubbio, ma aveva finito con il persuadersi che, al contempo,
esisteva anche una autentica innocenza. Di conseguenza, qualsiasi cosa potesse ardentemente
desiderare Padre Ralph, non si trattava di piaceri carnali. L'Arcivescovo gli aveva fatto frequentare
omosessuali abili e del tutto irresistibili per chi fosse un omosessuale; ma senza alcun risultato. Lo
aveva tenuto d'occhio mentre era in compagnia delle più belle donne del paese; ma senza alcun
risultato. Non un barlume di interessamento o di desiderio, anche quando non era minimamente
conscio di essere osservato. L'Arcivescovo, infatti, non sempre osservava di persona, e, quando si
serviva d'altri, ricorreva a sconosciuti.
Aveva cominciato a pensare che il debole di Padre Ralph consistesse nell'orgoglio di essere prete e
nell'ambizione; due sfaccettature che l'Arcivescovo capiva perché le possedeva egli stesso. La
Chiesa offriva mete agli uomini ambiziosi, come tutte le grandi istituzioni che si autoperpetuano.
Correva voce che Padre Ralph avesse frodato quei Cleary, sebbene sostenesse di amarli tanto, della
loro legittima eredità. Se le cose stavano realmente in questo modo, valeva la pena di tenerselo caro.
E come gli erano balenati, quei meravigliosi occhi azzurri, all'accenno a Roma! Forse era giunto il
momento di tentare un altro gambetto. Spinse avanti, pigramente, una pedina discorsiva, ma gli
occhi, sotto le palpebre grevi, erano molto penetranti.
«Ho ricevuto notizie dal Vaticano durante la sua assenza, Ralph» disse, spostando lievemente la
gatta. «Sheba mia, sei egoista, mi fai intorpidire le gambe.»
«Oh?» Padre Ralph stava affondando nella poltrona, e stentava molto a tenere aperti gli occhi.
«Sì, potrà andare a coricarsi, ma non prima di avere saputo la notizia che ho da darle. Poco tempo
fa, ho fatto avere al Santo Padre una lettera personale e privata, e la risposta mi è pervenuta oggi per
il tramite del mio amico, il Cardinale Monteverdi... chissà se discende dal musicista? Non ricordo
mai di domandarglielo. Oh, Sheba, perché ti ostini ad affondare le unghie, quando sei contenta?»
«Sto ascoltando, Eccellenza, ancora non mi sono addormentato» disse Padre Ralph, sorridendo.
«Non ci si può stupire se le piacciono tanto i gatti. È un gatto lei stesso.» Fece schioccare le dita.
«Su, vieni qua, Sheba, abbandonalo e vieni subito da me! È crudele.»
La gatta balzò giù immediatamente dal grembo viola, attraversò il tappeto e, delicatamente, balzò
sulle ginocchia del sacerdote, ove rimase facendo guizzare la coda e fiutando gli strani odori di
cavalli e di fango, affascinata. Gli occhi azzurri di Padre Ralph sorrisero a quelli castani
dell'Arcivescovo; entrambi gli uomini li tenevano socchiusi, entrambi non avrebbero potuto essere
più all'erta.
«Come fa a riuscirci?» domandò l'Arcivescovo. «I gatti non ubbidiscono mai a nessuno, ma Sheba
si precipita da lei come se le desse caviale e valeriana. Bestiola ingrata.»
«Sto aspettando, Eccellenza.»
«E mi punisce per questo, togliendomi la gatta. D'accordo, ha vinto, mi arrendo. Le succede mai di
perdere? Un interrogativo interessante. Le spettano delle congratulazioni, mio caro Ralph. In
avvenire porterà la mitra e la cappa, e ci si rivolgerà a lei come a Sua Eccellenza il Vescovo de
Bricassart.»
Notò con esultanza che queste parole gli avevano fatto spalancare gli occhi. Per una volta tanto,
Padre Ralph non tentò di dissimulare, o di nascondere, i suoi veri sentimenti. Si limitò a sorridere,
radiosamente.
Parte quarta 1933-1938 Luke
10

Fu stupefacente la rapidità con la quale la terra rimarginò le ferite; dopo una settimana, piccoli,
verdi virgulti d'erba già spuntavano dalla collosa palude, e, dopo due mesi, gli alberi arrostiti
stavano mettendo nuove foglie. Se gli uomini erano resistenti e ricchi di capacità di ripresa, ciò
accadeva perché la terra non consentiva loro di essere diversi; quelli che difettavano di coraggio o
non possedevano una capacità di fanatica sopportazione non restavano a lungo nel Grande Nord-
Ovest. Tuttavia, sarebbero occorsi anni prima che le cicatrici scomparissero del tutto. Molti strati di
corteccia avrebbero dovuto formarsi e staccarsi sotto forma di strisce, tipiche degli eucalipti, prima
che i tronchi degli alberi potessero ridiventare bianchi o rossi o grigi, e un certo numero di alberi
non si sarebbe rigenerato affatto, rimanendo nero e morto. Inoltre, per anni, gli scheletri degli alberi,
disintegrandosi, avrebbero rivestito le pianure, tramutati nella stuoia del tempo, coperti a poco a
poco dalla polvere e dalle impronte di piccoli zoccoli in marcia. E a ovest di Drogheda, i solchi
profondi nettamente incisi nel fango dagli spigoli di una bara improvvisata venivano additati da
vagabondi che conoscevano l'episodio ad altri vagabondi i quali lo ignoravano, finché in ultimo il
racconto non entrò a far parte del folklore delle pianure di terra nera.
Drogheda aveva perduto forse un quinto dei suoi pascoli nell'incendio, e venticinquemila pecore,
un'inezia per un allevamento dove, negli anni buoni, il numero complessivo degli ovini si era
avvicinato ai centoventicinquemila capi. Era del tutto inutile prendersela con la perfidia del fato, o
con l'ira di Dio, in qualsiasi modo gli interessati potessero decidere di considerare un disastro
naturale. La sola cosa da fare consisteva nel rimediare alle perdite e nel ricominciare daccapo. Non
si trattava della prima volta, e nessuno presumeva che sarebbe stata l'ultima.
Ma vedere i giardini della dimora di Drogheda brulli e bruni in primavera faceva male al cuore.
Nonostante la siccità, potevano sopravvivere, grazie alle cisterne per l'acqua di Michael Carson, ma,
in un incendio, niente sopravviveva. Persino il glicine non fiorì; nel momento in cui le fiamme si
erano avvicinate, i suoi teneri grappoli di fiori si stavano appena formando e il calore li aveva fatti
avvizzire. Le rose si erano disseccate, le viole del pensiero erano morte, le violacciocche
sembravano paglia, le fucsie nei luoghi in ombra non riuscivano più a riprendersi, i giacinti erano
stati soffocati, i piselli odorosi, avvizziti, non avevano più alcun profumo. L'acqua tolta dalle
cisterne durante l'incendio era stata sostituita dalle successive abbondanti piogge, e così tutti a
Drogheda sacrificarono il loro tempo libero, quasi inesistente, per aiutare il vecchio Tom a riportare
i giardini alla bellezza di un tempo.
Bob decise di attenersi alla politica di Paddy, quella di avere un maggior numero di uomini a
Drogheda, e assunse altri tre guardiani; Mary Carson aveva preferito non far figurare personale in
pianta stabile sui registri e assumere mano d'opera in più soltanto nei periodi in cui si radunavano le
greggi e in quelli della nascita degli agnelli e della tosatura, ma Paddy era persuaso che gli uomini
lavorassero meglio sapendo di aver un posto fisso, e d'altro canto la cosa, alla lunga, non faceva una
gran differenza. Quasi tutti i guardiani erano cronicamente affetti da prurito ai piedi e non si
trattenevano molto a lungo in nessun posto. Nelle nuove case, situate più indietro rispetto al
torrente, alloggiavano uomini sposati; il vecchio Tom aveva un nuovo e lindo villino di tre stanze
sotto un albero del pepe dietro il recinto dei cavalli, e ridacchiava con il compiacimento del
proprietario ogni volta che vi entrava. Meggie continuava a occuparsi di alcuni dei recinti più vicini,
e sua madre continuava a tenere i registri.
Fee si era assunta inoltre il compito di Paddy, la corrispondenza con il Vescovo Ralph, e, essendo
Fee, non gli parlava mai di niente, tranne che degli argomenti concernenti l'amministrazione
dell'allevamento. Meggie smaniava dal desiderio di impadronirsi delle lettere di Ralph, ma Fee si
affrettava a rinchiuderle in una cassetta d'acciaio subito dopo averle scorse. Dopo la scomparsa di
Paddy e di Stu, non esisteva più alcun modo di arrivare al suo cuore. Per quanto poi concerneva
Meggie, non appena partito Ralph, Fee aveva dimenticato completamente la promessa. Meggie
rispondeva agli inviti ai balli e alle feste con cortesi rifiuti; sua madre lo sapeva, ma non la
rimproverava mai, né le diceva che sarebbe dovuta andare. Liam O'Rourke coglieva ogni occasione
per venire a cavallo a Drogheda; Enoch Davies non faceva che telefonare, imitato da Connor
Carmichael e da Alastair MacMCqueen. Ma con ognuno di loro Meggie era assorta e brusca, al
punto da indurli a disperare che sarebbero mai riusciti a interessarla.
L'estate fu molto piovosa, ma gli acquazzoni non si protrassero abbastanza per causare inondazioni,
si limitarono a mantenere il terreno eternamente fangoso e il Barwon-Darling alto, ampio e
impetuoso per tutti i milleseicento chilometri del suo corso. Quando giunse l'inverno, continuarono
le sporadiche piogge; le raffiche rossastre erano d'acqua, non di polvere. E così la sfilata, per la crisi
economica, di uomini appiedati lungo le piste si diradò, poiché era un inferno arrancare sulle
pianure di terra nera nella stagione delle piogge, e, con il freddo che si aggiungeva all'umidità, la
polmonite infuriava tra chi non riusciva a dormire sotto un riparo.
Bob era preoccupato e cominciò a parlare di infezioni ai piedi delle pecore, se il maltempo fosse
continuato; le pecore merino non sopportano a lungo il terreno bagnato senza che gli si formi del
pus tra le unghie. La tosatura era stata quasi impossibile, poiché i tosatori non volevano toccare la
lana bagnata e, a meno che il fango non si fosse asciugato prima delle figliate, molti agnelli
sarebbero morti sul terreno zuppo e nel freddo.
Il telefono fece tintinnare il segnale per Drogheda, due squilli lunghi e uno breve. Fee rispose e si
voltò.
«Bob, è l'agenzia, per te.»
«Pronto, Jimmy; parla Bob... Sì, certo... Oh, bene! Le referenze sono tutte buone?... Benissimo,
mandalo pure a parlare con me... D'accordo, se è così bravo puoi dirgli che probabilmente otterrà il
posto, però prima voglio parlargli io; non mi va di decidere alla cieca e non mi fido delle
referenze... D'accordo, grazie. Salve.»
Bob si rimise a sedere. «Verrà un nuovo guardiano, un brav'uomo, stando a Jimmy. Ha lavorato a
ovest sulle pianure del Queensland, dalle parti di Longreach e Charleville. Ha fatto anche il
mandriano. Ha buone referenze e sembra che sia bravo in tutto. Sa cavalcare qualsiasi creatura
abbia quattro zampe e una coda, un tempo domava cavalli. E prima ha fatto anche il tosatore, un
tosatore fulmineo, dice Jimmy, più di duecentocinquanta pecore al giorno. Ma è proprio questo a
insospettirmi un po'. Perché un tosatore di prim'ordine dovrebbe essere disposto a lavorare con la
paga di guardiano? Non succede spesso che un bravo tosatore rinunci alla tosatura per la sella. Ci
farebbe comodo nei recinti, però, eh?»
Con il trascorrere degli anni, l'accento di Bob era divenuto sempre più strascicato e australiano, ma
in compenso le sue frasi sembravano più concise. Si stava avvicinando alla trentina, eppure, con
grande delusione di Meggie, non dava a vedere in alcun modo di essere colpito da qualcuna delle
ragazze da marito che conosceva alle poche feste cui un minimo di buona educazione li costringeva
a intervenire. In primo luogo, era penosamente timido, e, in secondo luogo, sembrava totalmente
assorbito dalla terra. Jack e Hughie, crescendo, gli somigliavano sempre e sempre più; li si sarebbe
potuti scambiare per tre gemelli quando sedevano insieme su una delle dure panchine di marmo, il
massimo che si consentissero in fatto di comodità domestiche. Sembrava che preferissero
accamparsi nei pascoli, e, quando dormivano in casa, si coricavano sul pavimento delle loro camere
da letto, timorosi che la morbidezza dei materassi potesse rammollirli. Il sole, il vento, la calura
avevano cotto la loro pelle chiara e lentigginosa facendole assumere una sorta di color mogano
maculato, nel quale i loro occhi azzurri splendevano chiari e tranquilli, con piccole rughe profonde
agli angoli che tradivano la contemplazione delle lontananze e dell'erba fulvo-argentea. Era quasi
impossibile arguire che età avessero, chi fosse di loro il più anziano e chi il più giovane. Avevano
tutti il naso romano di Paddy e la faccia alquanto brutta, ma un corpo migliore di quello di Paddy,
che si era incurvato e al quale si erano allungate le braccia a furia di tosare pecore per tanti anni. Il
loro fisico aveva invece la bellezza snella e disinvolta di chi cavalca. Ma non si struggevano né per
le donne, né per le comodità, né per i piaceri.
«È ammogliato, il nuovo che verrà?» domandò Fee, tracciando linee precise con un righello e la
penna intinta nell'inchiostro rosso.
«Non saprei, non l'ho domandato. Lo sapremo domani al suo arrivo.»
«Come verrà sin qui?»
«Lo porterà Jimmy; vuol dare un'occhiata a quei vecchi montoni nel Tankstand.»
«Bene, speriamo che, se lo assumi, si trattenga per un po'. Se non è ammogliato, se ne andrà tra
poche settimane, immagino. Sono dei disgraziati, i guardiani.»
Jims e Patsy stavano studiando come convittori al Riverview e giuravano che non sarebbero rimasti
in collegio un minuto di più dopo aver compiuto i quattordici anni, l'età fino alla quale era
obbligatorio frequentare le scuole. Non vedevano l'ora che giungesse il giorno in cui sarebbero
andati nei recinti con Bob, Jack e Hughie; il giorno in cui sarebbe stata di nuovo la famiglia a
mandare avanti Drogheda. La passione di famiglia per la lettura non contribuiva affatto a rendergli
più caro il collegio; un libro potevi portartelo dietro nella bisaccia da sella o in una tasca della
giacca e leggerlo all'ombra di un albero wilga, più piacevolmente che in un'aula dei gesuiti durante
la sosta di mezzogiorno. Il collegio era stato per loro un duro periodo di transizione. Le aule dalle
grandi finestre, gli spaziosi e verdi campi sportivi, l'opulenza dei giardini e tutte le altre comodità
non significavano niente per loro, così come li lasciava indifferenti Sydney con i suoi musei, le sale
da concerto e le gallerie d'arte. Facevano comunella con i figli di altri allevatori e trascorrevano le
ore libere anelando alla loro casa, o vantando la vastità e lo splendore di Drogheda, ascoltati da
orecchie reverenzialmente colpite e credule; tutti, a ovest di Burren Junction, avevano sentito
parlare della formidabile Drogheda.
Trascorsero parecchie settimane prima che Meggie vedesse il nuovo guardiano. Il nome di lui era
stato debitamente trascritto nei registri; si chiamava Luke O'Neill e già nella grande casa si parlava
del nuovo arrivato molto più di quanto accadesse di solito con gli altri guardiani. In primo luogo, si
era rifiutato di dormire negli alloggi degli apprendisti, e aveva preferito occupare l'ultima casa
libera sul torrente. In secondo luogo, si era presentato alla signora Smith, e godeva delle simpatie di
quest'ultima, sebbene di solito non fosse tenera con i guardiani. Meggie era parecchio incuriosita.
Poiché teneva la giumenta saura e il castrone nero nelle scuderie anziché nel recinto, e poiché quasi
sempre era costretta a partire al mattino più tardi degli uomini, accadeva che per lunghi periodi di
tempo non si imbattesse in alcuno dei loro dipendenti. Ma, infine, incontrò Luke O'Neill un
pomeriggio tardi, mentre il sole estivo avvampava rosso al di là degli alberi e le lunghe ombre
avanzavano verso il dolce oblio della notte. Lei stava rientrando dal recinto Borehead nella
direzione del guado, e lui veniva da sud-est, più da lontano, a sua volta diretto al guado.
Aveva il sole negli occhi e di conseguenza fu Meggie a vederlo per prima; cavalcava un grosso baio
bizzoso, dalla criniera e dalla coda nere. Lei conosceva bene quel cavallo, perché spettava a lei
occuparsi della rotazione dei cavalli da lavoro, e si era domandata come mai quella bestia non si
trovasse quasi mai nel recinto, ultimamente. Nessuno degli uomini la voleva, e chi poteva farne a
meno non la cavalcava. A quanto pareva, il nuovo guardiano se ne infischiava, e questo lasciava
capire che sapeva star bene in sella, perché tutti sapevano che il baio tendeva a impennarsi il
mattino presto, e tentava di mordere la testa di chi lo cavalcava non appena smontato.
Non riusciva facile valutare la statura di un uomo quando era a cavallo, poiché i guardiani
australiani si servivano di piccole selle inglesi prive dell'arcione posteriore tipico di quelle
americane, e cavalcavano con le ginocchia flesse e molto impettiti. Il nuovo arrivato sembrava alto,
ma, in qualche modo, la statura era tutta nel tronco, mentre le gambe sembravano
sproporzionatamente corte, per cui Meggie aspettò a giudicare. A differenza della maggior parte dei
guardiani, portava una camicia bianca e calzoni al ginocchio di fustagno bianco, anziché flanella
grigia e spigato grigio; una specie di dandy, si disse Meggie, divertita. Buon per lui, se non gli
costava fatica lavare e stirare continuamente.
«Buongiorno, signora!» gridò lui, mentre si avvicinavano, togliendosi il logoro, vecchio cappello di
feltro grigio e piazzandoselo poi di nuovo sulla nuca con un'inclinazione spavalda.
Ridenti occhi azzurri contemplarono Meggie con non celata ammirazione, quando lei gli si affiancò.
«Be', non è senz'altro la signora, e pertanto dev'essere la figlia» disse l'uomo. «Sono Luke O'Neill.»
Meggie farfugliò qualcosa, ma non volle guardarlo di nuovo, confusa e irritata al punto da non
riuscire a farsi venire in mente nessuna di quelle frasi che possono prestarsi a una conversazione
spicciola. Oh, non era giusto! Come osava, un altro uomo, avere gli stessi occhi e la stessa faccia di
Padre Ralph? Non gli somigliava, però, nel modo che aveva di guardarla; la sfrontata allegria era
qualcosa di tipicamente suo, e negli occhi non gli ardeva amore per lei; sin dal primo momento,
quando Padre Ralph si era inginocchiato nella polvere della piazza della stazione di Gilly, Meggie
aveva veduto l'amore nei suoi occhi. Guardare ora gli stessi occhi, e non vedere lui! Era una burla
crudele, un castigo.
Ignaro dei pensieri della compagna, Luke O'Neill tenne il baio riottoso affiancato alla contegnosa
giumenta di Meggie mentre sguazzavano attraverso il torrente, che ancora scorreva impetuoso dopo
tante piogge. La ragazza era una bellezza, e come! Quei capelli! Il color carota dei Cleary maschi
sembrava qualcosa di ben diverso nel caso di questa figliola. Se soltanto avesse alzato la testa,
dandogli modo di vederla meglio in viso! L'alzò proprio in quel momento, con un'espressione tale
sul volto da far sì che lui aggrottasse le sopracciglia, interdetto; non era come se lo odiasse,
precisamente, ma come se stesse cercando di vedere qualcosa senza riuscirvi, o come se avesse
veduto qualcosa e stesse augurandosi che così non fosse stato. O chissà che altro. Sembrava
sconvolta, comunque. Luke non era assuefatto a essere pesato sulla bilancia di una donna e trovato
manchevole. Catturato da una deliziosa trappola di capelli color oro-tramonto e di occhi grigi, il suo
interessamento si scontrava con il dispiacere e la delusione di lei. Continuava a guardarlo, la bocca
rosea lievemente dischiusa, una serica rugiada di sudore sul labbro superiore e sulla fronte, le
sopracciglia d'oro rosso inarcate in uno stupore inquisitivo.
L'uomo sorrise e rivelò gli stessi denti bianchi di Padre Ralph; eppure non si trattava del sorriso di
Padre Ralph. «Lo sa che sembra una bambina, tutta "oh!" e "ah!"?»
Meggie distolse lo sguardo. «Mi scusi, non avevo l'intenzione di fissarla. Mi ha ricordato qualcuno,
ecco tutto.»
«Mi fissi finché vuole. È sempre meglio che vederle soltanto il cocuzzolo della testa, per quanto
possa essere grazioso. Chi le ricordo?»
«Nessuno che conti. Soltanto, è strano vedere una persona familiare e al contempo tremendamente
estranea.»
«Come si chiama di nome, piccola Miss Cleary?»
«Meggie.»
«Meggie... Non è abbastanza dignitoso, non le si confà minimamente. Preferirei che si chiamasse
Belinda, o Madeline, ma se Meggie è il meglio che ha da offrire, lo accetterò. Di che cosa è il
diminutivo Meggie... di Margaret?»
«No, di Meghann.»
«Ah, questo le si addice molto di più! La chiamerò Meghann.»
«No, affatto!» scattò lei. «Lo detesto!»
Ma l'uomo si limitò a ridere. «Ha sempre fatto un po' troppo a modo suo, piccola Miss Meghann. Se
vorrò chiamarla Eustacia Sofronia Augusta lo farò, sa.»
Erano arrivati al recinto dei cavalli, lui scivolò giù dal baio, mollò, alla testa del cavallo, che aveva
tentato di scattare, un pugno sufficiente a riportarlo alla sottomissione, poi rimase immobile,
aspettando che lei gli tendesse le mani per essere aiutata a smontare. Meggie toccò invece con i
tacchi la giumenta saura e proseguì lungo il sentiero.
«Non mette la raffinata dama con i volgari cavalli da lavoro?» le gridò dietro.
«No di certo» rispose Meggie senza voltarsi.
Oh, non era giusto! Anche sulle sue gambe somigliava a Padre Ralph; altrettanto alto, altrettanto
largo di spalle e stretto di fianchi, e con un che della stessa grazia, seppure diversamente impiegata.
Padre Ralph si muoveva come un ballerino, Luke O'Neill come un ginnasta. Aveva i capelli
altrettanto folti e neri e ricciuti, gli occhi altrettanto azzurri, il naso altrettanto bello e diritto, la
bocca altrettanto ben tagliata. Eppure, non somigliava a Padre Ralph più di... più di... più di quanto
un eucaliptus chiaro, così alto e bianco e splendido, somigliasse a un eucaliptus blu, anch'esso alto e
chiaro e splendido.
Dopo quell'incontro casuale, Meggie tenne le orecchie aperte e ascoltò i pareri e i pettegolezzi sul
conto di Luke O'Neill. Bob e i ragazzi erano soddisfatti del suo lavoro e sembravano andare
d'accordo con lui. Persino Fee fece il nome di lui, conversando una sera, e osservò che era un gran
bell'uomo.
«Non ti ricorda qualcuno?» domandò pigramente Meggie, distesa a pancia in giù sul tappeto e
intenta a leggere un libro.
Fee rifletté per un momento. «Be', presumo che somigli un pochino a Padre de Bricassart. La stessa
struttura fisica, la stessa carnagione. Ma non è una somiglianza che salti agli occhi; sono troppo
diversi come uomini.
«Meggie, vorrei che tu sedessi su una poltrona come una signora, per leggere! Soltanto perché
indossi i calzoni da amazzone, non devi dimenticare del tutto il pudore.»
«Puah!» fece Meggie. «Come se qualcuno se ne accorgesse!»
Era ancora perplessa. Esisteva una somiglianza, ma gli uomini dietro i volti erano talmente diversi!
Meggie amava uno dei due e si risentiva trovando l'altro attraente. In cucina, scoprì che Luke era un
beniamino, e scoprì inoltre come mai poteva consentirsi il lusso di portare camicie bianche e calzoni
al ginocchio bianchi nei recinti; la signora Smith lavava e stirava per lui, vittima del suo fascino di
seduttore.
«Che bell'irlandese è quell'uomo!» sospirò Minnie, in estasi.
«È australiano» disse Meggie, provocatoria.
«Sarà nato qui, magari, cara Miss Meggie, ma con un cognome come O'Neill, suvvia, è irlandese
quanto i porci di Paddy, senza voler mancare di rispetto a quel santo di suo padre, Miss Meggie, che
possa riposare in pace e cantare insieme agli angeli! Il signor Luke non sarebbe irlandese, con quei
capelli neri e quegli occhi azzurri? Nei tempi antichi, gli O'Neill erano i re d'Irlanda.»
«Credevo che si trattasse degli O'Connor» disse Meggie.
I piccoli occhi tondi di Minnie ammiccarono. «Ah, be', Miss Meggie, il paese è grande, no?»
«Ma va' là! Ha pressappoco la stessa superficie di Drogheda! E O'Neill è un cognome Orange; non
me la dai a bere.»
«È vero. Ma si tratta di un grande nome irlandese ed esisteva prima che chiunque si sognasse gli
orangisti. È un nome delle parti dell'Ulster, per cui è logico che ci sia stato qualche orangista, non le
sembra? Ma prima ancora c'erano gli O'Neill di Clandeboy e gli O'Neill Mor, Miss Meggie cara.»
Meggie rinunciò alla battaglia. Minnie aveva perduto da tempo ogni tendenza feniana che potesse
aver avuto in passato, e riusciva a pronunciare la parola «Orange» senza che le venisse un colpo.
Circa una settimana dopo, Meggie incontrò di nuovo Luke O'Neill, giù al torrente. Sospettò che
l'avesse aspettata, ma senza sapere come regolarsi.
«Buonasera, Meghann.»
«Buonasera» disse, guardando diritto tra le orecchie della cavalla saura.
«C'è un ballo nel capannone della lana al Braich y Pwll, la sera di sabato prossimo. Ci verrà con
me?»
«Grazie per avermi invitata, ma non so ballare. Non avrebbe senso.»
«Le insegnerò io a ballare in due guizzi di coda d'agnello, quindi questo non è un ostacolo. E poiché
accompagnerò la sorella dell'allevatore, crede che Bob potrebbe prestarmi la vecchia Rolls-Royce,
se non la nuova?»
«Ho detto che non verrò!» esclamò lei, a denti stretti.
«Ha detto che non sa ballare, e io ho detto che le insegnerò. Non ha mai detto di non voler venire
con me, sapendo ballare, e così ho supposto che la difficoltà consistesse nel ballo, non in me. Vuole
rimangiarsi la parola?»
Esasperata, Meggie lo fissò con ferocia, ma lui si limitò a ridere di lei.
«È viziata marcia, giovane Meghann; sarebbe tempo che non facesse ogni cosa a modo suo.»
«Non sono viziata!»
«Suvvia, non la bevo! L'unica femmina, tutti quei fratelli intorno, tutta questa terra e i soldi, una
casa di lusso, la servitù! So che l'allevamento appartiene alla Chiesa cattolica, ma non è che i Cleary
siano degli squattrinati.»
Eccola, la grande differenza tra i due uomini, pensò lei, trionfante. Padre Ralph non si sarebbe mai
lasciato ingannare dalle apparenze, mentre quest'uomo non possedeva la sua sensibilità; non aveva
alcuna antenna che gli dicesse cosa si nascondeva sotto la superficie. Cavalcava attraverso la vita
senza la più pallida idea della sua complessità o delle sue sofferenze.
Sbalordito, Bob consegnò le chiavi della Rolls-Royce nuova senza un mormorio; aveva fissato Luke
per un momento, ammutolito, poi si era limitato a sorridere.
«Non avrei mai creduto che Meggie potesse andare a un ballo, ma accompagnacela pure, Luke, e mi
fa piacere. Credo che si divertirà, la povera cenerentola. Non ha mai molte distrazioni. Dovremmo
essere noi a portarla a ballare, ma, per una ragione o per l'altra, non lo facciamo mai.»
«Perché non viene anche lei, con Jack e Hughie?» domandò Luke, non contrario, apparentemente,
ad avere compagnia.
Bob scosse la testa, inorridito. «No, grazie. I balli non ci vanno molto a genio.»
Meggie indossava il vestito cenere-di-rose, non avendo altro da mettersi; non le era mai passato per
la mente di spendere parte delle sterline che si accumulavano in banca, depositate a nome suo da
Padre Ralph, per farsi fare vestiti adatti a feste e balli. Fino a quel momento era riuscita a rifiutare
tutti gli inviti, perché un fermo «no» scoraggiava facilmente uomini come Enoch Davies e Alastair
MacMCqueen. Non avevano la faccia tosta di Luke O'Neill.
Ma, mentre si contemplava allo specchio, pensò che avrebbe anche potuto recarsi a Gilly, la
settimana successiva, quando Ma' vi faceva la solita puntata, passare dalla vecchia Gert e ordinarle
qualche vestito nuovo.
Odiava, infatti, dover indossare il vestito rosa; se ne avesse posseduto un altro, sia pur soltanto
remotamente adatto, si sarebbe tolta di dosso questo in un lampo. Altri tempi, con un uomo diverso,
dai capelli neri; il vestito era così collegato all'amore e ai sogni, alle lacrime e alla solitudine, che
indossarlo per un individuo come Luke O'Neill sembrava una profanazione. Si era abituata a
nascondere quello che sentiva, a mostrarsi sempre calma ed esteriormente felice. L'autocontrollo le
stava crescendo sulla pelle più spesso della corteccia di un albero, e a volte, durante la notte,
pensava a sua madre e rabbrividiva.
Sarebbe diventata come Ma', isolata da ogni sentimento? Era cominciato così per Ma', nel passato,
ai tempi del padre di Frank? E che cosa avrebbe fatto Ma', in nome del Cielo, che cosa avrebbe
detto se avesse saputo che lei, Meggie, conosceva la verità per quanto concerneva Frank? Oh, quella
scenata nella canonica! Sembrava accaduta il giorno prima, Pappi e Frank che si affrontavano, e
Ralph che stringeva lei così forte da farle male. E i due, mentre urlavano quelle cose spaventose.
Tutto era stato chiarito. Una volta saputolo, Meggie aveva pensato che doveva sempre essersene
resa conto. Era ormai abbastanza grande per capire che i bambini nascevano facendo qualcosa di
più di quanto aveva creduto un tempo; doveva esserci qualche sorta di contatto fisico assolutamente
proibito tra persone non sposate. Quale onta e quale umiliazione doveva aver subito Ma' a causa di
Frank! Non ci si poteva stupire se era diventata così. Se la stessa cosa fosse accaduta a lei, pensava
Meggie, avrebbe preferito morire. Nei libri, soltanto le ragazze più umili e più volgari avevano
bambini fuori del matrimonio, eppure Ma' non era volgare, non poteva mai esserlo stata. Con tutto il
cuore, Meggie si augurava che Ma' potesse parlarle della cosa; o di avere lei il coraggio di
affrontare l'argomento. Forse, in qualche modo, sarebbe stata in grado di aiutarla. Ma', però, non era
una di quelle persone che possono essere avvicinate, né sarebbe mai stata lei a prendere l'iniziativa.
Meggie sospirò a se stessa nello specchio, e sperò che non le accadesse mai niente di simile.
D'altro canto era giovane; in momenti come quello, contemplandosi con il vestito color cenere-di-
rose, voleva provare qualcosa, voleva che la passione soffiasse su di lei come un vento impetuoso e
caldo. Non voleva tirare avanti come un piccolo automa per tutto il resto della vita; desiderava
cambiamento e vitalità e amore. Amore, e un marito, e bambini. A che cosa le giovava smaniare per
un uomo che non avrebbe mai potuto avere? Ralph non la voleva, non l'avrebbe mai voluta. Diceva
di amarla, ma non come l'avrebbe amata un marito. Perché era sposato con la Chiesa. Si
comportavano così, tutti gli uomini, amavano qualcosa di inanimato più di quanto potessero amare
una donna? No, senza dubbio non tutti gli uomini. Quelli difficili, forse, quelli complicati, con i loro
mari di dubbi e di obiezioni, con la loro razionalità. Ma dovevano esistere uomini più semplici,
uomini senz'altro capaci di amare una donna più di ogni altra cosa. Uomini come Luke O'Neill, per
esempio.
«Secondo me, lei è la più bella ragazza che abbia mai visto» disse Luke, mentre avviava la Rolls-
Royce.
I complimenti erano del tutto estranei all'esperienza di Meggie; lo sbirciò in tralice, stupita, e non
disse niente.
«Non è fantastico?» domandò Luke, per nulla turbato, in apparenza, dalla sua mancanza di
entusiasmo. «Basta inserire una chiave, premere un pulsante sul cruscotto, e la macchina parte.
Nessuna manovella da girare, non più la speranza che il dannato trabiccolo si metta in moto prima
di avere esaurito tutte le tue forze. Questo sì che è vivere, Meghann, senza alcun dubbio.»
«Non mi lascerà sola, vero?» gli domandò.
«Dio buono, no! È venuta con me, non è così? Questo significa che è mia per tutta la sera, e io non
intendo cedere a nessun altro la possibilità di stare con lei.»
«Quanti anni ha, Luke?»
«Trenta. E lei?»
«Ventitré.»
«Tanti così, eh? Sembra una bambina.»
«Non sono una bambina.»
«Oh-oh! È già stata innamorata, allora?»
«Una volta.»
«Tutto qui? A ventitré anni? Santo Dio! Io mi ero già innamorato e disamorato una dozzina di volte,
alla sua età.»
«Credo che sarebbe potuto accadere anche a me, ma conosco pochissime persone delle quali ci si
possa innamorare, a Drogheda. Lei è il primo guardiano, ch'io ricordi, ad avermi detto più di un
timido "salve".»
«Be', se non vuole andare ai balli perché non sa ballare, è logico che rimanga isolata qui, non le
sembra? Ma non si preoccupi, rimedieremo a questo in men che non si dica. Al termine di questa
sera saprà ballare, e tra poche settimane sarà una campionessa.» La sbirciò fuggevolmente. «Ma
non vorrà dirmi che qualcuno degli allevatori nelle altre proprietà non ha tentato di portarla a
ballare. I guardiani posso capirlo, lei è un gradino sopra le loro aspirazioni, ma qualcuno degli
alleva-pecore l'avrà pure guardata con gli occhi dolci, no?»
«Se sono un gradino al di sopra dei guardiani perché mi ha invitata?» ribatté lei.
«Oh, io ho tutta la faccia tosta di questo mondo.» Luke sorrise. «Andiamo, non cambi discorso,
adesso. Qualcuno, dalle parti di Gilly, deve pure averla invitata.»
«Qualcuno sì» ammise Meggie. «Ma in realtà non ho mai voluto andare. Lei mi ci ha costretta.»
«Allora sono tutti quanti più stupidi dei serpenti addomesticati. So riconoscere un bel pezzo di
ragazza, quando la vedo.»
Non era affatto sicura che le piacesse il suo modo di esprimersi, ma il guaio con Luke stava nel fatto
che non era facile fargli abbassare la cresta.
Tutti andavano ai balli nei capannoni della lana, dai figli e figlie degli allevatori ai guardiani e alle
loro mogli, se le avevano; e poi cameriere, governanti, e persone di tutte le età. Erano queste le
occasioni in cui le maestrine avevano modo di fraternizzare con gli impiegatucci dell'agenzia, con i
bancari, e con i veri coloni dell'interno, venuti dagli allevamenti.
Le belle maniere e l'eleganza riservate alle occasioni più ufficiali non si notavano affatto. Il vecchio
Mickey O'Brien veniva da Gilly per suonare il violino, e c'era sempre qualcuno a portata di mano
che sapeva suonare la fisarmonica a tasti o quella a bottoni, e tutti facevano a turno sostituendosi
come accompagnatori di Mickey, mentre l'anziano violinista sedeva per ore su un barile o su una
balla di lana suonando senza mai riposarsi, con il pendulo labbro inferiore che sbavava, perché non
aveva né il tempo né la pazienza di inghiottire la saliva; la cosa gli avrebbe impedito di mantenere il
ritmo.
Ma non si trattava delle stesse danze cui Meggie aveva assistito alla festa di compleanno di Mary
Carson. Queste erano energiche danze campagnole, i balli del granaio: gighe, polche, quadriglie,
danze scozzesi, mazurche, e danzando si toccavano appena fuggevolmente le mani del cavaliere,
oppure si piroettava selvaggiamente tra rudi braccia. Non esistevano né sensazioni di intimità, né
atmosfera sognante. Ognuno sembrava considerare il ballo un semplice espediente per disperdere le
frustrazioni; gli intrighi romantici nascevano meglio fuori di lì, lontano dal chiasso e dal trambusto.
Meggie si accorse ben presto che il suo robusto e avvenente accompagnatore le era molto invidiato.
Luke era il bersaglio di sguardi seducenti o languidi quasi quanto un tempo Padre Ralph, ma in
modo assai più palese. Come lo era stato un tempo Padre Ralph! Un tempo. Terribile dover pensare
a lui servendosi del piuccheperfetto, quasi fosse esistito in tempi remotissimi.
Mantenendo fede alla parola data, Luke la lasciò sola soltanto per i pochi momenti di cui ebbe
bisogno per fare una capatina al gabinetto. C'erano Enoch Davies e Liam O'Rourke, smaniosi di
prendere il suo posto accanto a lei. Ma lui non fornì loro la benché minima occasione di sostituirlo,
e Meggie, per quanto la concerneva, sembrava troppo stordita per rendersi conto che aveva il diritto
di essere invitata a ballare da altri uomini, a parte il suo accompagnatore. E, anche se non udì i
commenti della gente, li udì Luke, e rise in cuor suo. Che razza di maledetta faccia tosta aveva quel
tipo, un volgare guardiano, a soffiargli quella ragazza sotto il naso! Ma la disapprovazione lasciava
Luke del tutto indifferente. Le occasioni c'erano state anche per gli altri, e, se non avevano saputo
approfittarne, tanto peggio.
L'ultima danza era un valzer. Luke afferrò la mano di Meggie, le passò il braccio intorno alla vita e
la trasse a sé. Era un ballerino bravissimo. Non senza stupore, Meggie si accorse che non doveva
fare altro se non seguirlo dove lui la guidava. Ed era una sensazione straordinaria essere tenuta in
quel modo contro un uomo, sentirne i muscoli del petto e delle cosce, assorbirne il calore del corpo.
I brevi contatti con Padre Ralph erano stati così intensi che non aveva avuto il tempo di distinguere
tra le diverse sensazioni, e si era persuasa che quanto aveva provato tra le sue braccia non lo
avrebbe mai provato con nessun altro. Invece, sebbene tutto fosse completamente diverso, la
eccitava molto; il cuore le stava battendo più in fretta, e si rese conto che lui se n'era accorto da
come l'allacciò più strettamente, all'improvviso, e le appoggiò la gota ai capelli.
Mentre la Rolls-Royce ronzava durante il ritorno, percorrendo facilmente la pista disuguale e i tratti
senza pista, non parlarono molto. Braich y Pwll distava novantuno chilometri da Drogheda e
soltanto pascoli separavano i due allevamenti, senza che si vedesse mai una sola casa, senza che si
scorgesse una finestra illuminata, senza alcuna intromissione del genere umano. La collina che
attraversava diagonalmente Drogheda non era mai più alta di qualche decina di metri rispetto al
rimanente territorio, in nessun punto, ma arrivare sullo spartiacque era come trovarsi su una vetta
alpina. Luke fermò l'automobile, discese, e girò intorno alla macchina per aprire lo sportello a
Meggie. Discese accanto a lui, un po' tremante; avrebbe rovinato tutto cercando di baciarla?
Regnava un tale silenzio, erano così lontani da tutti! Uno steccato di legno quasi putrido si perdeva
da un lato nell'oscurità, e Luke, sostenendole il gomito con leggerezza, per accertarsi che non
incespicasse con le sue frivole scarpette, aiutò Meggie a inoltrarsi sul terreno disuguale, fra le tane
dei conigli selvatici. Poi lei si afferrò saldamente allo steccato, contemplò la pianura e rimase
ammutolita; dapprima per il terrore, poi, mentre il panico le si placava dentro, poiché lui non
accennava a toccarla, per lo stupore.
Quasi con la stessa chiarezza della luce solare, l'ancor scialba luminosità della luna faceva risaltare
vaste distese di lontananze, con l'erba che baluginava e si ondulava come un sospiro irrequieto,
argentea e bianca e grigia. Le foglie sugli alberi scintillavano a un tratto, quando il vento ne
rovesciava i lati lucidi, e vasti abissi sbadiglianti d'ombra si spalancavano sotto i boschi,
misteriosamente, come fauci del mondo sotterraneo. Alzando il capo, Meggie cercò di contare le
stelle e non vi riuscì; delicati come gocce di rugiada su una ragnatela circolare, i puntini luminosi
rifulgevano, si spegnevano, rifulgevano, si spegnevano, in un ritmo senza tempo come Dio.
Sembravano sospesi sopra di lei simili a una rete, così meravigliosi, così silenziosi, così attenti nel
frugarti l'anima, come occhi-gioielli di insetti resi brillanti da un fascio di luce, vacui per quanto
concerne l'espressione e infiniti nella loro capacità di vedere. I soli suoni erano quelli del vento
caldo sull'erba, degli alberi fruscianti, di un occasionale clic nel motore della Rolls che si
raffreddava, di un uccello sonnacchioso, in qualche punto lì attorno, che si lagnava perché avevano
disturbato il suo riposo; l'unico odore era il profumo fragrante e indefinibile della boscaglia.
Luke voltò le spalle alla notte, si tolse di tasca la borsa del tabacco e un libretto di cartine, poi
cominciò ad arrotolarsi una sigaretta.
«È nata da queste parti, Meghann?» domandò, strofinando avanti e indietro sul palmo, pigramente,
le striscioline di tabacco.
«No, sono nata nella Nuova Zelanda. Arrivammo a Drogheda tredici anni fa.»
Lui fece scivolare il tabacco nella guaina di carta, l'arrotolò abilmente tra pollice e indice, poi la
chiuse leccandola, spinse alcune striscioline di tabacco entro il tubetto con l'estremità di un
fiammifero, strofinò quest'ultimo e accese la sigaretta.
«Si è divertita questa sera, vero?»
«Oh, sì!»
«Mi piacerebbe accompagnarla a tutti i balli.»
«Grazie.»
Tacque di nuovo, fumando placidamente e guardando, al di là del tetto della Rolls-Royce, il
boschetto in cui l'uccello continuava a ciangottare querulo. Quando soltanto un piccolo residuo di
sigaretta gli rimase tra le dita macchiate di nicotina, Luke lo lasciò cadere al suolo e lo schiacciò
quasi irosamente con il tacco finché non fu ben certo di averlo spento. Nessuno spegne un
mozzicone di sigaretta con la stessa meticolosità di un australiano nella boscaglia.
Sospirando, Meggie voltò le spalle allo scenario illuminato dalla luna, e lui l'aiutò a risalire in
macchina. Era di gran lunga troppo scaltro per baciarla in quella fase iniziale, perché intendeva
sposarla; che fosse Meggie a desiderare di essere baciata, prima.
Ma vi furono altri balli mentre l'estate trascorreva e sempre più si logorava in un sanguigno,
polveroso splendore; a poco a poco, nella grande dimora si abituarono al fatto che Meggie si era
trovata un corteggiatore di gran bell'aspetto. I suoi fratelli evitarono le prese in giro, perché le
volevano bene e anche Luke riusciva abbastanza simpatico. Luke O'Neill era il lavoratore più
accanito che avessero mai assunto; non esisteva raccomandazione più efficace di questa. E poiché,
in cuor loro, sentivano di appartenere più alla classe lavoratrice che a quella dei proprietari, ai
fratelli Cleary non passava mai per la mente di giudicarlo con il criterio della sua indigenza. E Fee,
che avrebbe potuto pesarlo su una bilancia più sensibile, non era sufficientemente interessata a
farlo. In ogni modo, la placida persuasione di Luke, di essere diverso dalla media dei guardiani,
diede i suoi frutti; anche per questo veniva trattato come uno di famiglia.
Divenne un'abitudine per lui presentarsi dopo cena nella grande casa quando non trascorreva la
notte fuori, nei pascoli; dopo qualche tempo, Bob dichiarò che sarebbe stato stupido se avesse
continuato a cenare solo mentre c'era cibo in abbondanza alla tavola dei Cleary, e così cominciò a
mangiare con loro. In seguito, parve alquanto insensato costringerlo a percorrere un chilometro e
mezzo lungo il sentiero per andare a dormire, quando era così cortese da trattenersi a conversare
con Meggie fino a tardi, e pertanto venne invitato a trasferirsi in una delle piccole case degli ospiti,
dietro la grande dimora.
Meggie, ormai, pensava molto a lui, e non con disprezzo come all'inizio, quando seguitava a
paragonarlo a Padre Ralph. La vecchia piaga si stava rimarginando. Dopo qualche tempo, dimenticò
che Padre Ralph aveva sorriso in un determinato modo con la stessa bocca, mentre Luke sorrideva
in quest'altro modo; dimenticò che nei vividi occhi azzurri di Padre Ralph c'era stata una remota
placidità, mentre quelli di Luke splendevano di irrequieta passione. Era giovane e non aveva mai
realmente assaporato l'amore, se pure era riuscita a gustarlo per un momento o due. Voleva farselo
rotolare sulla lingua, aspirarne il bouquet nei polmoni, farlo piroettare fino allo stordimento nella
mente. Padre Ralph era adesso il Vescovo Ralph; non sarebbe mai, mai tornato a lei. L'aveva
venduta per tredici milioni di pezzi d'argento, e la cosa bruciava. Se non avesse pronunciato quella
frase, quella sera, vicino al pozzo artesiano, Meggie non si sarebbe posta alcun interrogativo, ma
l'aveva pronunciata, e dopo di allora, per innumerevoli notti lei era rimasta desta, domandandosi
interdetta che cosa avesse potuto voler dire.
E le mani le prudevano toccando la schiena di Luke, quando la teneva stretta ballando; era eccitata
da lui, dai contatti con il suo corpo, dalla sua incisiva vitalità. Oh, non provava mai per lui quello
scuro e liquido fuoco nelle ossa, non pensava mai che, se non lo avesse più riveduto, sarebbe
avvizzita, inaridendosi; non fremeva e non tremava mai perché lui la guardava. Ma aveva finito per
conoscere meglio uomini come Enoch Davies, Liam O'Rourke, Alastair MacMCqueen, man mano
che Luke la conduceva ad altri balli nel distretto, e nessuno di loro la turbava come Luke O'Neill.
Se erano abbastanza alti di statura per costringerla ad alzare gli occhi, risultava che non avevano gli
stessi occhi di Luke; oppure, se avevano gli stessi occhi, non ne avevano i bei capelli. In loro
mancava sempre qualcosa che non mancava in Luke, sebbene lei non sapesse esattamente che cosa
possedeva Luke di tanto raro. A parte il fatto che le ricordava Padre Ralph, cioè; e Meggie si
rifiutava di ammettere di non sentirsi attratta da qualcosa di meglio.
Parlavano molto, ma sempre di argomenti generici: la tosatura, la terra, le pecore, o che cosa lui
chiedeva alla vita, o magari dei luoghi che lui aveva veduto, o di qualche avvenimento politico. Di
quando in quando, Luke leggeva un libro, ma non era un lettore accanito come Meggie e, per
quanto ci si provasse, sembrava non riuscire a persuaderlo a leggere questo o quell'altro libro
soltanto perché le era sembrato interessante. Né egli scendeva mai, con la sua conversazione, a
profondità intellettuali; inoltre, particolare più interessante e più esasperante di ogni altro, non
lasciava mai intravedere il benché minimo interessamento all'esistenza di lei, né le domandava che
cosa chiedesse alla vita. A volte, Meggie anelava a parlare di cose molto più vicine al suo cuore
delle pecore o della pioggia, ma se incominciava un discorso di quel genere, Luke si dimostrava
abilissimo nel riportare la conversazione entro canali più impersonali.
Luke O'Neill era scaltro, presuntuoso, un lavoratore accanito e un uomo avido di ricchezza. Era
venuto al mondo in un tugurio di incannicciato rivestito di fango, esattamente sul tropico del
Capricorno, nei pressi della cittadina di Longreach, nel Queensland Occidentale. Suo padre era stato
la pecora nera di una famiglia irlandese prospera, ma incapace di perdonare; sua madre la figlia del
macellaio tedesco di Winton; quando aveva voluto a tutti i costi sposare Luke senior, a sua volta era
stata ripudiata. Nel tugurio si ammucchiavano dieci figli, nessuno dei quali possedeva un paio di
scarpe — non che le scarpe servissero molto nella torrida Longreach. Luke padre, che per vivere
tosava pecore, quando ne aveva voglia (ma, quasi sempre, la sola cosa che si sentisse di fare
consisteva nel bere rum), morì in un incendio del pub Blackall allorché il piccolo Luke aveva dodici
anni. E così, non appena gli fu possibile, Luke entrò egli stesso nel giro della tosatura delle pecore
come «garzone catramaro», spalmando catrame liquido sulle ferite frastagliate, quando un tosatore
sbagliava e tagliava la carne viva oltre al vello.
Di una cosa Luke non aveva mai avuto paura, del duro lavoro; prosperava sgobbando, come altri
uomini prosperano facendo tutto l'opposto. Se fosse così perché suo padre si era limitato a bazzicare
le bettole divenendo il buffone della cittadina, o perché aveva ereditato l'industriosità della madre
tedesca, nessuno si diede mai la pena di accertarlo.
Crescendo, venne promosso da garzone catramaro ad aiutante nella tosatura: correva avanti e
indietro raccogliendo i voluminosi velli man mano che volavano via sotto le cesoie dei tosatori,
formando mucchi che si gonfiavano come aquiloni e portandoli sul tavolo ove la lana veniva
sottoposta a una prima pulitura. Imparò così a pulire i velli, vale a dire a eliminarne le punte
incrostate di fango per poi portarli nelle tinozze che dovevano essere esaminate dal classificatore,
l'aristocratico della tosatura: l'uomo che, simile a un degustatore di vini o a un esperto di profumi,
non può essere addestrato alla cernita se non possiede un istinto innato per quel lavoro. E Luke non
possedeva l'istinto del classificatore; doveva specializzarsi nella pressatura o nella tosatura, se
voleva guadagnare di più, il che era senz'altro la sua ambizione. Possedeva la forza fisica per
manovrare la pressa, per comprimere i velli classificati in balle compatte, ma un tosatore veloce
poteva guadagnare molto di più.
Era ormai noto nel Queensland Occidentale come un gran lavoratore e non gli riuscì difficile farsi
assumere come apprendista tosatore. Con la grazia, la coordinazione, la forza fisica e la resistenza,
un uomo poteva diventare un tosatore veloce. Ben presto, Luke tosò le sue duecento e più pecore al
giorno per sei giorni alla settimana, e guadagnava una sterlina ogni cento pecore, e questo con le
strette cesoie che somigliavano a una lucertola boggi, per cui venivano chiamate boggis. Le grosse
cesoie della Nuova Zelanda, con i loro larghi denti e le robuste lame, erano illegali in Australia,
sebbene raddoppiassero il rendimento di un tosatore.
Si trattava di una fatica massacrante: dovere star chino, con la sua statura, stringendo una pecora tra
le ginocchia, e far passare il boggis sul corpo della pecora per tutta la sua lunghezza, così da liberare
il vello tutto in una volta, facendo in modo che si rendesse necessario il minor numero possibile di
secondi tagli, e abbastanza rasente alla pelle molle e bitorzoluta della pecora, per accontentare il
capo della tosatura. Luke non si curava del caldo, del sudore, della sete che lo costringeva a bere
una dozzina di litri d'acqua al giorno; e lo lasciavano indifferente persino le tormentose orde di
mosche, poiché era nato in un paese infestato dalle mosche. Così come lo lasciavano indifferente le
pecore che pure costituiscono un incubo per quasi tutti i tosatori; grosse, piccole, bagnate, piagate
dalle mosche, ne esistevano di tutti i tipi, ma erano tutte pecore merino, il che significava lana
dappertutto fino ai piedi ungulati e al naso, e una pelle bitorzoluta e fragile, che si muoveva come
carta scivolosa.
No, non era il lavoro in sé a infastidire Luke, perché, quanto più lavorava, tanto meglio si sentiva; a
esasperarlo erano lo strepito, il dover stare rinchiuso, il fetore. Non esisteva posto al mondo che
fosse un inferno come i capannoni della tosatura. E così, decise che voleva diventare il superbo
padrone, l'uomo che camminava avanti e indietro lungo le file dei tosatori curvi e guardava i velli di
sua proprietà mentre venivano tosati con quei movimenti uniformi e impeccabili.
Sulla sua poltrona di canne in fondo al capannone
con gli occhi dappertutto sta seduto il padrone.
Così diceva la vecchia canzone della tosatura, e questo Luke O'Neill decise di diventare. Il borioso
padrone, il capo, l'allevatore, il proprietario di pascoli. Non facevano per lui quell'eterno star chino
né le braccia allungate di chi tosa pecore per tutta la vita; voleva il piacere di lavorare all'aria aperta
e di vedere il denaro accumularsi da sé. Soltanto la prospettiva di diventare un tosatore primatista
avrebbe potuto trattenere Luke nei capannoni: essere uno di quei rarissimi uomini che riuscivano a
tosare più di trecento pecore al giorno, tutte in modo perfetto e servendosi di boggis stretti.
Riuscivano ad accumulare un patrimonio con le scommesse. Ma, purtroppo, era un po' troppo alto
di statura, e quei secondi in più che gli occorrevano per chinarsi e raddrizzarsi facevano tutta la
differenza tra tosatore di prim'ordine e tosatore primatista.
La mente di lui, con le sue limitazioni, si orientò verso un altro sistema per assicurarsi ciò che
bramava; press'a poco in questo stadio della sua vita, Luke scoprì quanto attraeva le donne. Il primo
tentativo lo aveva fatto come guardiano a Gnarlunga, in quanto quell'allevamento sarebbe stato
ereditato da una donna, abbastanza giovane e abbastanza carina. Ma, per un puro colpo di sfortuna,
da ultimo lei aveva preferito il jackaroo Pommy, le cui imprese bizzarre stavano diventando una
leggenda nella boscaglia. Da Gnarlunga, Luke passò a Bingelly e venne assunto per la doma dei
cavalli, ma continuò a tener d'occhio la dimora ove l'erede dell'allevamento, anziana e brutta, viveva
con il padre vedovo. Povera Dot, l'aveva quasi conquistata; ma in ultimo, assecondando i desideri
del padre, lei si era rassegnata a sposare l'arzillo sessuagenario proprietario dell'allevamento
confinante.
Quei due tentativi avevano impegnato più di tre anni della sua vita e si disse che venti mesi per
ereditiera erano troppo lunghi e tediosi. Gli conveniva di più viaggiare in lungo e in largo per
qualche tempo ed essere sempre in movimento, finché, grazie a un più vasto raggio d'azione, non
fosse riuscito a trovare un'altra possibilità promettente. Divertendosi enormemente, cominciò a
condurre le mandrie lungo le piste del bestiame nel Queensland Occidentale, lungo il Cooper e il
Diamantina, il Barcoo e il Buloo Overflow, fino all'estremo angolo occidentale del Nuovo Galles
del Sud. Aveva trent'anni ed era tempo di trovare l'oca la quale avrebbe deposto almeno una parte
delle uova d'oro che bramava.
Tutti avevano sentito parlare di Drogheda, ma Luke drizzò le orecchie quando seppe che c'era
un'unica figlia. Nessuna speranza che potesse ereditare l'allevamento, ma forse le avrebbero dato
una modesta dote di centomila acri intorno a Kynuna o a Winton. La regione intorno a Gilly era
bella ma troppo limitata e ricca di foreste, per i suoi gusti. Luke anelava all'enormità del lontano
Queensland Occidentale, ove l'erba si stendeva all'infinito e gli alberi erano, più che altro, qualcosa
che un uomo ricordava vagamente di aver visto più a est. Soltanto l'erba, sempre e sempre e sempre,
all'infinito, senza un inizio né una fine, là un uomo era fortunato se riusciva ad allevare una pecora
per ogni dieci acri di terra. Infatti, a volte l'erba non c'era affatto, c'era soltanto un piatto deserto di
terra nera, screpolata e assetata. L'erba, il sole, la calura, le mosche; a ogni uomo il suo paradiso, e
questo era il paradiso che voleva Luke O'Neill.
Era riuscito a sapere il resto della storia di Drogheda da Jimmy Strong, l'agente che gli aveva dato
un passaggio in macchina, quel primo giorno, ed era stato un brutto colpo scoprire che Drogheda
apparteneva alla Chiesa cattolica. Tuttavia, si era ormai reso conto di quanto poche e lontane l'una
dall'altra fossero le eredi di grandi proprietà. E quando Jimmy Strong continuò a parlare, dicendo
che l'unica figlia possedeva un bel gruzzolo in contanti tutto suo e aveva parecchi fratelli che
l'adoravano, decise di attuare il suo piano.
Ma, sebbene avesse stabilito da un pezzo che lo scopo della sua vita consisteva nei centomila acri
dalle parti di Kynuna o di Winton, e sebbene continuasse a perseguirlo con zelo immutato, la verità
era che egli amava in cuor suo il denaro liquido assai più di ciò che, in ultimo, avrebbe potuto
dargli; non il possesso della terra, né il potere che ne conseguiva, ma la prospettiva di vedere un
susseguirsi di cifre tonde sul suo libretto in banca, intestato a lui. Non Gnarlunga né Bingelly aveva
bramato così disperatamente, ma il loro valore in contanti. Un uomo che a tutti i costi avesse voluto
diventare un padrone non si sarebbe mai accontentato di Meggie Cleary, la quale non possedeva
terre. Né avrebbe amato la fatica di lavorare duramente come lavorava Luke O'Neill.
Il ballo nel salone del Santa Croce, a Gilly, era il tredicesimo cui Luke aveva accompagnato Meggie
in altrettante settimane. Come scoprisse dove avevano luogo, e in qual modo riuscisse a procurarsi
gli inviti, Meggie era troppo ingenua per poterlo supporre; comunque, ogni sabato, regolarmente,
Luke chiedeva a Bob le chiavi della Rolls-Royce e la conduceva in qualche posto entro un raggio di
duecentoquaranta chilometri.
Quella sera faceva freddo mentre, appoggiata allo steccato, Meggie contemplava il paesaggio illune;
e sotto i piedi poteva sentire lo scricchiolio del gelo. Stava arrivando l'inverno. Luke l'allacciò con
un braccio e la trasse contro il proprio fianco.
«Sei gelata» disse. «Sarà meglio che ti riporti a casa.»
«No, ora sto bene, mi sto riscaldando» rispose lei, con il fiato corto.
Sentì un mutamento in Luke, un mutamento nel braccio tenuto mollemente e impersonalmente sulla
sua schiena. Ma era piacevole appoggiarsi a lui, sentire il calore irradiato dal suo corpo, la struttura
diversa della sua corporatura. Anche attraverso la giacca di lana lavorata a maglia era conscia della
mano di Luke che si stava muovendo, adesso, a piccoli cerchi carezzevoli, un massaggio esitante e
interrogativo. Se a quel punto gli avesse detto che era infreddolita, lui si sarebbe fermato; se non
avesse detto niente, egli avrebbe considerato il suo silenzio un tacito permesso di continuare.
Meggie era giovane e desiderava intensamente assaporare a dovere l'amore. Luke era il solo uomo,
a parte Ralph, che la interessasse, perché dunque non accertare come sarebbero stati i suoi baci?
Soltanto, bisognava che fossero diversi! Non dovevano essere come i baci di Ralph!
Scambiando il silenzio di lei per acquiescenza, Luke le mise l'altra mano sulla spalla, la fece voltare
verso di sé e abbassò la testa. Era questa, in realtà, la sensazione che dava una bocca? Ah, ma si
trattava semplicemente di una sorta di pressione! E come si sarebbe dovuta regolare, per fargli
capire che la gradiva? Mosse le labbra sotto le sue e subito si augurò di non averlo fatto. La
pressione si intensificò; egli aprì la bocca, con i denti e la lingua la costrinse a dischiudere le labbra,
e le fece scorrere la lingua sul palato. Rivoltante. Perché tutto era sembrato così diverso quando
l'aveva baciata Ralph? Allora, non si era accorta affatto che fosse umido e lievemente nauseante; a
quanto pareva, non aveva pensato affatto, si era semplicemente aperta per lui come uno scrigno
quando la mano ben nota ne tocca la molla segreta. Che cosa stava facendo Luke, in nome del
Cielo? E perché lei sentiva il proprio corpo sussultare in quel modo, aderire a quello di lui, mentre
con i pensieri avrebbe voluto a tutti i costi sottrarglisi?
Luke aveva trovato il punto sensibile nel suo fianco, e vi premeva su le dita per farla contorcere;
sino a quel momento lei non si sentiva precisamente entusiasta. Interrompendo il bacio, Luke le
premette con foga la bocca sul lato del collo. Questo parve piacerle di più; portò in alto le mani
intorno a lui e ansimò, ma, quando lui fece scivolare le labbra verso il basso sulla gola mentre, al
contempo, con una mano tentava di scostarle il vestito dalla spalla, Meggie lo spinse via
energicamente e indietreggiò rapida.
«Ora basta, Luke!»
L'abbraccio l'aveva delusa, colmandola quasi di un senso di ripugnanza. Luke ne era ben
consapevole quando l'aiutò a risalire in macchina e arrotolò una necessarissima sigaretta.
Immaginava di essere un grande amatore, nessuna ragazza si era mai lagnata fino ad allora... ma,
d'altro canto, non erano state ragazze raffinate come Meggie. Persino Dot MacMCPherson,
l'ereditiera di Bingelly, di gran lunga più ricca di Meggie, era rozza come un sacco, non aveva
frequentato alcun elegante collegio a Sydney e tutte quelle balle. Nonostante il suo aspetto, Luke
era press'a poco allo stesso livello del lavoratore rurale medio, in fatto di esperienza sessuale;
sapeva ben poco della meccanica, a parte ciò che dava piacere a lui, e ignorava completamente la
teoria. Le numerose ragazze con le quali aveva fatto l'amore non si erano mostrate esitanti
nell'assicurargli che ci provavano gusto, ma questo significava che egli doveva basarsi su dati di
carattere personale, e non sempre sinceri, oltretutto. Le ragazze accettavano una relazione sperando
nel matrimonio quando l'uomo era avvenente e gran lavoratore, e, di conseguenza, tendevano a
mentire spudoratamente pur di fargli piacere. E niente poteva far più piacere a un uomo del sentirsi
dire che era un amante più abile di tutti gli altri. Luke non immaginava nemmeno quanti uomini,
oltre a lui, fossero stati abbindolati con quella menzogna.
Sempre pensando all'anziana Dot, che aveva ceduto e fatto come voleva suo padre dopo essere stata
rinchiusa da lui per una settimana nell'alloggio dei tosatori insieme a una carcassa infestata dalle
mosche, Luke si limitò mentalmente a far spallucce. Meggie sarebbe stata una noce dura da
rompere, e non poteva permettersi di spaventarla o disgustarla. Gli spassi e i giochi amorosi
dovevano aspettare, ecco tutto. L'avrebbe conquistata come lei ovviamente desiderava, con fiori e
premure, senza troppi brancicamenti e solleticamenti.
Per qualche momento regnò un silenzio imbarazzante, poi Meggie sospirò e si rilassò contro la
spalliera del sedile.
«Mi dispiace, Luke.»
«Dispiace anche a me. Non volevo offenderti.»
«Oh, no, non mi hai offesa, davvero! Presumo di non esserci molto abituata... Ero spaventata, non
offesa.»
«Oh, Meghann!» Tolse una mano dal volante e la mise su quelle di lei, intrecciate. «Senti, non stare
a crucciarti per questo. Sei una ragazzina, e io ho avuto troppa fretta. Dimentichiamocene.»
«Sì, non pensiamoci più» disse Meggie.
«Lui non ti aveva mai baciata?» domandò Luke, incuriosito.
«Chi?»
C'era stata un'ombra di paura nella sua voce? Ma perché avrebbe dovuto avere la paura nella voce?
«Hai detto di essere stata innamorata, una volta, e allora ho pensato che la sapessi già lunga.
Scusami, Meghann. Avrei dovuto rendermi conto che, circondata come sei dalla tua famiglia, potevi
riferirti soltanto a una passioncella dell'adolescenza per qualcuno il quale nemmeno si accorgeva di
te.»
Sì! Sì! Sì! Pensasse pure questo! «Hai perfettamente ragione, Luke. È stata soltanto la passioncella
di una ragazzetta.»
Davanti alla casa, egli la trasse di nuovo a sé e le diede un bacio dolce e indugiante, senza la
faccenda della bocca aperta e della lingua; non vi fu una vera e propria reazione da parte di Meggie,
ma ovviamente la cosa le piacque; Luke si diresse verso la casa degli ospiti persuaso di non avere
compromesso le proprie possibilità.
Meggie si trascinò a letto e giacque desta, contemplando il soffice e rotondo alone proiettato dalla
lampada sul soffitto. Bene, aveva accertato una cosa: non esisteva alcunché nei baci di Luke che le
ricordasse quelli di Ralph. E una o due volte, verso la fine, aveva sentito un barlume di sgomenta
eccitazione, quando le dita di Luke le si erano conficcate nel fianco e lui l'aveva baciata sul collo.
Inutile paragonare Luke a Ralph, e non sapeva neppure più con certezza se volesse provarci. Meglio
dimenticare Ralph; non avrebbe mai potuto essere suo marito. Luke sì.
Quando Luke la baciò per la terza volta, Meggie si comportò molto diversamente. Erano andati a
una festa meravigliosa a Rudna Hunish, ai limiti del territorio che Bob aveva delimitato per le loro
gite, e la serata aveva avuto un andamento perfetto sin dall'inizio. Luke, in gran forma, era stato così
allegro e scherzoso, durante il tragitto di andata, da farla ridere continuamente a più non posso, poi,
durante tutto il ricevimento, le aveva prodigato affetto e cortesie. E sì che Miss Carmichael
sembrava assolutamente decisa a toglierglielo! Prendendo l'iniziativa, come non avevano mai osato
fare Alastair MacMCqueen e Enoch Davies, si era appiccicata a loro, civettando apertamente con
Luke, costringendolo, per rispettare le buone maniere, a invitarla a ballare. Si trattava di un
ricevimento elegante, le danze erano quelle di un salone da ballo, e Luke aveva invitato Miss
Carmichael a ballare un valzer lento. Ma, immediatamente dopo, era tornato da Meggie, senza dir
niente, ma alzando gli occhi al soffitto così da non lasciare in lei il minimo dubbio riguardo al fatto
che giudicava Miss Carmichael una scocciatrice. E Meggie lo aveva apprezzato per questo, poiché
dal lontano giorno della fiera di Gilly, quando il piacere di trovarsi con Ralph le era stato guastato
da quella signorina, non la poteva soffrire. Non aveva mai dimenticato come Padre Ralph l'avesse
ignorata per portare in braccio una ragazzetta al di là della pozzanghera; ora, quella sera, Luke si
stava comportando nello stesso modo. Oh, bravo! Sei splendido, Luke!
Il tragitto di ritorno era molto lungo e faceva un gran freddo. Luke aveva scroccato un pacchetto di
panini imbottiti e una bottiglia di champagne al vecchio Angus MacMCQueen, e quando si
trovarono a circa due terzi da casa fermò la macchina. Le automobili munite di impianto di
riscaldamento erano estremamente rare in Australia, allora come oggi, ma la Rolls-Royce lo aveva;
e quella notte lo gradivano molto, perché sul terreno si trovava uno strato di brina spesso cinque
centimetri.
«Oh, non è bello poter fare a meno del cappotto in una notte come questa?» Meggie sorrise,
accettando il piccolo bicchiere d'argento a cannocchiale, colmo di champagne, offertole da Luke, e
affondando i denti in un panino al prosciutto.
«Sì, è vero. Sei così bella questa sera, Meghann.»
Qual era il segreto del colore dei suoi occhi? Il grigio non era di solito un colore che gli piacesse,
troppo anemico, ma, guardando gli occhi grigi di Meggie, avrebbe potuto giurare che contenessero
tutti i colori della gamma blu dello spettro, violetto e indaco e la tinta del cielo in una giornata
serena e limpida, e il verde-muschio scuro e un accenno di giallo fulvo. Inoltre, splendevano come
morbide pietre preziose semi-opache, incorniciati da quelle lunghe ciglia incurvate che luccicavano
come se fossero state immerse nell'oro. Portò avanti la mano e con delicatezza le passò la punta
dell'indice sulle ciglia di un occhio, poi si guardò il dito.
«Ma Luke! Che cosa c'è?»
«Non ho saputo resistere alla tentazione di vedere se hai un vasetto di polvere d'oro sul tavolino. Sai
una cosa? Sei la sola ragazza ch'io abbia conosciuto con oro autentico nelle ciglia.»
«Oh!» Le toccò ella stessa, si guardò il dito e rise. «È vero. Non viene via affatto!» Lo champagne
le stava solleticando il naso e le spumeggiava nello stomaco; si sentiva meravigliosamente felice.
«E inoltre ciglia di vero oro che hanno la stessa forma del tetto di una chiesa, e i più splendidi
capelli di vero oro... Mi aspetto sempre di sentirli duri come metallo, e invece sono soffici e fini
come quelli di una bambina... E la più bella bocca del mondo, fatta apposta per i baci...»
Immobile, lo fissava con quella tenera bocca rosa lievemente dischiusa, come quando si erano
incontrati la prima volta; Luke si sporse e le tolse di mano il bicchiere.
«Credo che ti farebbe bene ancora un po' di champagne» disse, riempiendolo.
«Devo ammettere che è piacevole fare una sosta e concedersi un po' di riposo dopo i sobbalzi della
pista. E grazie per aver pensato di chiedere al signor MacMCQueen i panini e lo champagne.»
Il motore della grossa Rolls-Royce ronfava dolcemente nel silenzio, l'aria calda si riversava quasi
silenziosamente attraverso gli sfiatatoi; due tipi diversi di suoni cullanti. Luke sciolse il nodo della
cravatta e se la tolse; sbottonò il colletto della camicia. Avevano gettato entrambi le giacche sul
sedile posteriore; tenevano troppo caldo, sull'automobile.
«Oh, che bellezza! Non so chi abbia inventato le cravatte, sostenendo poi che un uomo è elegante
soltanto se le porta; ma, qualora dovessi incontrarlo, lo strozzerei con la sua invenzione.»
Si voltò bruscamente, abbassò la faccia verso la sua e parve far combaciare esattamente il profilo
arrotondato delle labbra di lei contro il proprio, come due frammenti di un puzzle; sebbene non la
stringesse né la toccasse in alcun altro punto, Meggie si sentì incatenata a Luke e seguì con la testa
il movimento di lui mentre si adagiava all'indietro, trascinandola sul proprio petto. Poi egli le portò
le mani sulla nuca per meglio lavorare su quella bocca che rispondeva in modo stupefacente, da
stordire; per svuotarla. Sospirando, si abbandonò ed escluse ogni altra sensazione, a proprio agio,
finalmente, con quelle seriche labbra di bambina che infine si adattavano alle sue. Gli insinuò un
braccio intorno al collo, gli affondò dita tremanti nei capelli, mentre il palmo dell'altra mano si
posava sulla pelle liscia e abbronzata alla base della gola di lui. Questa volta Luke non si affrettò,
sebbene se lo fosse sentito erigere e indurire prima ancora di averle dato il secondo bicchiere di
champagne, soltanto guardandola. Senza liberarle il capo, le baciò le gote, gli occhi chiusi, le
sopracciglia, poi tornò alle gote perché erano così seriche, tornò alla bocca perché la sua forma
infantile lo faceva impazzire, lo aveva fatto impazzire sin dal primo giorno.
E c'era il collo, il piccolo incavo alla base, la pelle della spalla, così delicata e fresca e asciutta...
Incapace di fermarsi, quasi fuori di sé per la paura che fosse lei a volerlo fermare, le tolse una mano
dalla nuca e fece scivolar fuori delle asole i bottoni disposti in una lunga fila sul dietro del vestito, le
sfilò dal vestito le braccia ubbidienti, poi abbassò le bretelline lente della sottoveste di seta. La
faccia affondata tra il collo e la spalla di Meggie, fece scorrere le punte delle dita sulla schiena nuda
e sentì i suoi piccoli fremiti spaventati, i capezzoli improvvisamente duri. Spinse la faccia più in
giù, con le labbra dischiuse, premendo, finché non si chiusero intorno alla carne tesa e increspata.
Vi indugiò con la lingua per un minuto di stordimento, poi afferrò con le mani, in preda a una
tormentata voluttà, il fondo della schiena di Meggie, e succhiò, mordicchiò, baciò, succhiò...
L'antico, eterno impulso che prediligeva, e che non falliva mai. Era così piacevole, piacevole,
piacevole, piacevole! Non gridò, si limitò a fremere per un momento sconvolgente, diluviale, e
inghiottì il grido nelle profondità della gola.
Come un poppante sazio, lasciò che il capezzolo gli sfuggisse, con un plop, dalla bocca, posò un
bacio di sconfinato amore e di gratitudine sul lato del seno, poi giacque del tutto immobile, tranne
l'ansimare del respiro. Sentì la bocca di lei tra i capelli, la mano di lei sotto la camicia, e a un tratto
parve riscuotersi, e aprì gli occhi. Bruscamente, si drizzò a sedere, le riportò sulle spalle le bretelline
della sottoveste, poi il vestito, e, con destrezza, fece rientrare nelle asole tutti i bottoni.
«Faresti meglio a sposarmi, Meghann» disse, gli occhi teneri e ridenti. «Credo che i tuoi fratelli non
approverebbero per niente quello che abbiamo appena fatto.»
«Sì, anch'io credo che farei bene a sposarti» approvò Meggie, le palpebre abbassate, un rossore
delicato sulle gote.
«Diciamoglielo domattina.»
«Perché no? Quanto prima sarà, tanto meglio.»
«Sabato prossimo ti porterò in macchina a Gilly. Andremo a parlare con Padre Thomas... immagino
che tu preferisca sposarti in chiesa... ci accorderemo per le pubblicazioni, e ti comprerò un anello di
fidanzamento.»
«Grazie, Luke.»
Bene, era fatta. Aveva impegnato se stessa, non poteva più tornare indietro. Di lì a poche settimane,
o dopo il periodo occorrente per le pubblicazioni, avrebbe sposato Luke O'Neill. Sarebbe stata... la
signora O'Neill! Che strano! Perché aveva detto di sì? Perché lui disse che dovevo, lui disse che
dovevo sposarmi. Ma perché? Per evitare un pericolo a se stesso? Per proteggere se stesso o me?
Ralph de Bricassart, a volte credo di odiarti...
L'abbraccio sull'automobile era stato stupefacente e sconvolgente. Niente di simile alla prima volta.
Un così gran numero di splendide e terrificanti sensazioni. Oh, il contatto delle mani di Luke! Quel
tormentarle i seni che aveva irradiato in lei cerchi sempre più ampi! E Luke lo aveva fatto proprio
nel momento in cui la sua coscienza stava drizzando la testa per gridare che lui la stava spogliando,
che avrebbe dovuto schiaffeggiarlo, fuggire. Quasi tramortita dallo champagne, dalla scoperta che
era delizioso essere baciata quando la cosa veniva fatta per bene, quel primo avido, ingordo
succhiarle il seno l'aveva paralizzata, aveva tacitato il buon senso, la coscienza, ogni proposito di
fuga. Le sue spalle si erano scostate dal petto di lui, i suoi fianchi erano sembrati afflosciargli
contro, le cosce e quella zona innominabile tra esse venivano sbattute con forza dalle mani convulse
di Luke contro una sporgenza del corpo di Luke dura come la roccia, ed ella aveva semplicemente
desiderato di restare così fino all'ultimo dei suoi giorni, scossa sin nell'anima, colma di un vuoto,
anelando... Anelando a che cosa? Non lo sapeva. Nel momento in cui l'aveva scostata da sé, si era
ribellata all'idea di staccarsi da lui, sarebbe stata capace addirittura di gettarglisi addosso come una
selvaggia. Ma questo aveva suggellato la sua decisione di sposare Luke O'Neill. Per non parlare
della sua persuasione che le avesse fatto la cosa in seguito alla quale i bambini cominciavano a
crescere.
Nessuno rimase molto stupito dalla notizia e nessuno si sognò di obiettare. La sola cosa a
meravigliarli fu l'inflessibile rifiuto da parte di Meggie di scrivere al Vescovo Ralph per avvertirlo,
la sua quasi isterica ripulsa della proposta di Bob di invitare a Drogheda il Vescovo Ralph e di dare
una grande festa nuziale. No, no, no! aveva gridato a tutti. Lei, Meggie, che non alzava mai la voce.
A quanto pareva, era offesa per il fatto che non era mai venuto a trovarli; il suo matrimonio
riguardava soltanto lei, sostenne, e se Ralph non aveva avuto il tatto di venire a Drogheda soltanto
per rivederli, non intendeva imporgli un obbligo al quale non avrebbe potuto sottrarsi.
Così, Fee promise di non dire una parola nelle lettere che gli scriveva; sembrava del tutto
indifferente a una cosa o all'altra, né si sarebbe detto che la interessasse la scelta del marito fatta da
Meggie. Tenere la contabilità di un allevamento grande come Drogheda era un lavoro che
l'assorbiva completamente. Le registrazioni di Fee sarebbero state utili a uno storico, come
descrizione perfetta della vita in un allevamento di ovini, poiché non si riducevano semplicemente a
cifre e registri. Ogni spostamento di ogni gregge era minuziosamente descritto, così come i
cambiamenti stagionali, le condizioni meteorologiche di ogni giorno, e persino l'ora alla quale la
signora Smith serviva la cena. Le annotazioni nel diario relative al 22 luglio 1934, una domenica,
dicevano: «Cielo sereno, non una nube, temperatura all'alba quindici gradi sotto zero. Oggi niente
Messa. Bob è a casa, Jack si trova a Murrimbah con due guardiani. Hughie è a West Dam con un
guardiano; "Barile di birra" sta conducendo i castroni di tre anni da Budgin a Winnemurra.
Temperatura alta alle ore quindici, un grado sotto zero. Pressione barometrica immutata. Vento da
ovest. Menù a cena: manzo salato, patate lesse, carote e cavoli, poi budino di prugne. Meghann
Cleary sposerà il signor Luke O'Neill, guardiano, sabato 25 agosto, nella chiesa della Santa Trinità,
a Gillanbone. Alle ore ventuno, temperatura discesa a dodici gradi sotto zero, luna all'ultimo
quarto.»
11

Luke comprò a Meggie un anello di fidanzamento con brillanti, modesto ma assai grazioso, con le
due pietre gemelle da un quarto di carato incastonate in due cuoricini di platino. Le pubblicazioni
annunciarono che il matrimonio sarebbe stato celebrato a mezzogiorno di sabato 25 agosto nella
chiesa della Santa Trinità. Alla cerimonia avrebbe fatto seguito un pranzo intimo all'Hotel Imperial,
al quale, naturalmente, erano state invitate anche la signora Smith, Minnie e Cat, sebbene Jims e
Patsy fossero stati lasciati a Sydney, avendo Meggie dichiarato con fermezza che non vedeva il
motivo di far fare ai gemelli un viaggio di novecentosessanta chilometri allo scopo di assistere a una
cerimonia per loro incomprensibile. Le erano pervenute le loro lettere di congratulazioni; quella di
Jims lunga, confusa e puerile, quella di Patsy di appena quattro parole: «Un mucchio di fortuna». I
gemelli conoscevano Luke, avendo cavalcato con lui nei pascoli di Drogheda durante le vacanze.
La signora Smith si affliggeva perché Meggie voleva a tutti i costi una cerimonia semplicissima;
aveva sperato di vedere l'unica femmina della famiglia sposarsi a Drogheda tra sventolii di bandiere
e armonie di cembali, con giorni e giorni di festeggiamenti. Ma Meggie era tanto contraria che
rifiutò persino di indossare il vestito nuziale; si sarebbe sposata in abito a giacca e con un
normalissimo cappellino, che in seguito le sarebbero serviti anche per il viaggio di nozze.
«Tesoro, ho deciso dove condurti per la nostra luna di miele» disse Luke, lasciandosi cadere sulla
poltrona di fronte alla sua, la domenica successiva a quella in cui avevano fatto i progetti per le
nozze.
«Dove?»
«Nel Queensland settentrionale. Mentre eri dalla sarta, ho parlato con certi uomini nel bar
dell'Imperial e mi hanno detto che si può guadagnare parecchio nella regione delle canne, se uno è
robusto e non ha paura delle fatiche.»
«Ma Luke, tu hai già un buon posto qui!»
«Un uomo non si sente a suo agio vivendo sulle spalle dei parenti d'acquisto. Voglio guadagnare
abbastanza per comprare un allevamento nel Queensland occidentale, e voglio acquistarlo prima di
essere troppo vecchio per lavorare. Non è facile, per chi non ha studiato, trovare un lavoro che
renda in tempo di crisi, ma nel Queensland settentrionale manca la mano d'opera e posso
guadagnare almeno dieci volte più della paga di un guardiano a Drogheda.»
«Facendo che cosa?»
«Tagliando canne da zucchero.»
«Tagliando canne da zucchero? Ma è un lavoro da coolies!»
«No, sbagli, i coolies non sono abbastanza robusti per cavarsela bene come i bianchi, e del resto, sai
bene quanto me che la legge australiana vieta di far venire negri o gialli per adibirli a lavori da
schiavi o per farli lavorare con paghe inferiori a quelle dei bianchi, togliendo così il pane di bocca a
noi. Mancano i tagliatori di canne, e le paghe sono fantastiche. Non molti uomini sono grossi o forti
abbastanza per tagliare le canne da zucchero. Ma io posso farcela. Il lavoro non mi ucciderà!»
«Questo significa che dovremmo stabilirci nel Queensland.»
Guardò, oltre la spalla di lui, e al di là della fila di finestre, Drogheda: gli eucalipti chiari, lo Home
Paddock, gli alberi più lontani. Non vivere a Drogheda! Risiedere in qualche località ove il Vescovo
Ralph non avrebbe mai potuto trovarla, essere legata all'estraneo seduto di fronte a lei così
irrevocabilmente da non poter tornare indietro mai più... Gli occhi grigi si posarono sulla faccia
vivida e impaziente di Luke e diventarono più belli, ma inequivocabilmente più tristi. Lui si limitò a
intuirlo; non c'erano lacrime in quegli occhi, le palpebre non si abbassarono, né si abbassarono gli
angoli della bocca. D'altro canto, non lo interessavano le sofferenze di Meggie, quali che fossero,
perché non aveva alcuna intenzione di lasciarla divenire così importante per lui da essere costretto
ad accettare il fardello delle sue pene. Ovviamente, Meggie era un trofeo per un uomo che aveva
tentato di sposare Dot MacMCPherson, di Bingelly, ma la sua desiderabilità fisica e la sua indole
docile non facevano che intensificare la sorveglianza di Luke sul proprio cuore. Nessuna donna,
nemmeno una creatura soave e bella come Meggie Cleary, avrebbe mai conquistato un tal potere su
di lui da dirgli che cosa doveva fare.
«Meghann, io sono un uomo all'antica» disse.
Lo fissò interdetta. «Ah, sì?» mormorò, e il tono della voce parve voler dire: «Ha qualche
importanza?»
«Sì» rispose lui. «Credo che quando un uomo e una donna si sposano, tutto ciò che appartiene alla
moglie debba passare al marito. Come si faceva un tempo con la dote. So che tu hai un po' di denaro
e ti dico sin d'ora che, quando ci sposeremo, dovrai passarlo a me per iscritto. È giusto che tu sappia
come la penso finché sei nubile e puoi decidere se approvi o no.»
Meggie non si era mai sognata di pensare che avrebbe tenuto per sé quei soldi; aveva
semplicemente supposto che, quando si fossero sposati, il denaro sarebbe appartenuto a Luke, non a
lei. Tutte le donne australiane, tranne le più colte e le più sofisticate, venivano educate in modo da
ritenersi più o meno un bene mobile del marito, e ciò era particolarmente vero per Meggie. Paddy
aveva sempre comandato a bacchetta Fee e i suoi figli, e, dopo la morte di lui, Fee ne aveva
considerato Bob il successore. All'uomo appartenevano il denaro, la casa, la moglie e i figli, e
Meggie non aveva mai posto in dubbio tali diritti.
«Oh!» esclamò. «Non sapevo che fosse necessario mettere per iscritto queste cose, Luke. Pensavo
che quanto è mio sarebbe automaticamente divenuto tuo dopo il matrimonio.»
«Un tempo era così, ma quegli stupidi arruffoni a Canberra hanno cambiato tutto concedendo il
diritto di voto alle donne. Io voglio che tutto sia molto chiaro tra noi, Meghann, e pertanto ti dico
sin d'ora come staranno le cose.»
Rise. «Per me va benissimo, Luke. Non me ne importa.»
Accettava la situazione da buona moglie all'antica; Dot non avrebbe ceduto così facilmente.
«Quanto denaro hai?» le domandò.
«In questo momento quattordicimila sterline. Ogni anno se ne aggiungono altre duemila.»
Lui si lasciò sfuggire un sibilo. «Quattordicimila sterline! Perdiana! Sono un mucchio di soldi,
Meghann. È meglio che li amministri io. Possiamo parlare con il direttore della banca la settimana
prossima; e ricordami di accertarmi che in avvenire tutto venga versato a mio nome. Non toccherò
un penny del denaro, questo lo sai. Servirà dopo, per acquistare il nostro allevamento. Per qualche
anno dovremo lavorare duramente tutti e due e mettere da parte ogni penny che guadagneremo. Sei
d'accordo?»
Meggie annuì. «Sì, Luke.»
Una semplice dimenticanza da parte di Luke per poco non mandò a monte il matrimonio durante i
preparativi. Non era cattolico. Quando venne a saperlo, Padre Watty alzò le mani inorridito.
«Buon Dio, Luke, perché non me lo ha detto prima? Adesso dovremo mettercela tutta per
convertirla e battezzarla prima delle nozze!»
Luke fissò Padre Watty, stupefatto. «Chi ha mai detto di volersi convertire, Padre? Per me va
benissimo non essere niente, ma, se la cosa la preoccupa, scriva pure che appartengo a una setta
qualsiasi, anche a quella degli Holy Rollers, o qualunque altra cosa le venga in mente. Ma cattolico
non mi farà diventare.»
Invano lo esortarono. Luke si rifiutò di prendere in considerazione anche soltanto per un momento
la possibilità di convertirsi. «Non ho niente contro il cattolicesimo o l'Eire e penso che i cattolici
nell'Ulster siano maltrattati. Ma sono un orangista e non un voltagabbana. Se fossi cattolico e
voleste farmi convertire al protestantesimo, mi regolerei nello stesso modo. È all'essere un
voltagabbana che sono contrario, non all'essere un cattolico. Di conseguenza, dovrà fare a meno di
me nel suo gregge, Padre, e non rimane altro da dire.»
«Allora non può sposarsi!»
«Perché no, in nome del Cielo? Se lei non vuole unirci in matrimonio, non vedo perché dovrebbe
fare obiezioni il reverendo della Chiesa d'Inghilterra; e anche il giudice di pace, Harry Gough, non
avrebbe niente da ridire.»
Fee fece un sorrisetto acidulo, ricordando i suoi contrasti con Paddy e il prete; ma era stata lei ad
avere la meglio.
«Però, Luke, io devo sposarmi in chiesa!» protestò Meggie, timorosa. «Altrimenti, vivrei nel
peccato!»
«Be', per quanto mi concerne, vivere nel peccato è molto meglio che essere un voltagabbana» disse
Luke, nel quale, a volte, esistevano strane contraddizioni; per quanto ci tenesse al denaro di Meggie,
una cieca caparbietà non gli consentiva di cedere.
«Oh, finiamola con tutte queste sciocchezze!» disse Fee, rivolta non a Luke, ma al sacerdote.
«Regolatevi come facemmo Paddy e io e basta con le discussioni! Padre Thomas può unirvi in
matrimonio nella canonica, se non vuole profanare la sua chiesa!»
La fissarono tutti, meravigliati, ma l'espediente riuscì; Padre Watkin cedette e si rassegnò a sposarli
nella canonica, anche se rifiutò di benedire l'anello.
Quella parziale sanzione della Chiesa lasciò in Meggie la sensazione di peccare, ma non così
gravemente da dover finire all'inferno, e l'anziana Annie, la governante della canonica, fece del suo
meglio affinché lo studio di Padre Watty somigliasse il più possibile a una chiesa, sistemandovi
grandi vasi di fiori e molti candelabri d'ottone. Ma fu una cerimonia che li fece sentire tutti a
disagio, perché il sacerdote, molto dispiaciuto, lasciò capire di essersi rassegnato soltanto per
evitarsi l'imbarazzo di un matrimonio secolare altrove. Non ci fu la Messa nuziale, non ci fu la
benedizione.
Comunque, era fatta. Meggie divenne la signora O'Neill, in partenza per il Queensland e per una
luna di miele che sarebbe stata ritardata alquanto dal tempo necessario per arrivarci. Luke non volle
trascorrere la notte di sabato all'Imperial, perché il treno della linea secondaria di Goondiwindi
partiva solo una volta la settimana, il sabato sera, per la coincidenza con il treno postale
Goondiwindi-Brisbane, la domenica. Sarebbero così arrivati a Brisbane lunedì, in tempo per
prendere il rapido di Cairns.
Il treno per Goondiwindi era gremito. Non poterono consentirsi alcuna intimità e rimasero seduti
tutta la notte perché non esistevano vagoni letto. Un'ora dopo l'altra, il convoglio sferragliò
procedendo verso nord-ovest con la sua marcia capricciosa e svogliata, facendo fermate
interminabili ogni volta che al macchinista saltava in mente di prepararsi il tè, o di farsi una
chiacchierata con un mandriano, o di consentire a un gregge di pecore di attraversare le rotaie.
«Chissà perché pronunciano (Goon)diwindi come se fosse (Gun)diwindi?» domandò Meggie,
distrattamente, nella spaventosa sala d'aspetto della stazione, dipinta nel solito classico verde, con le
dure panche di legno scuro, unico luogo pubblico aperto a Goondiwindi di domenica. Povera
Meggie, era nervosa e si sentiva a disagio.
«Cosa ne so io?» sospirò Luke, che non aveva voglia di parlare, e per giunta era affamato. Essendo
domenica, non riuscirono a bere nemmeno una tazza di tè; soltanto la fermata per la colazione del
postale diretto a Brisbane, lunedì mattina, consentì loro di riempirsi lo stomaco e di placare la sete.
Poi, a Brisbane, dalla stazione di South Bris, dovettero attraversare la città per portarsi alla stazione
di Roma Street, dalla quale partivano i treni per Cairns. Lì Meggie scoprì che Luke aveva prenotato
due posti di seconda classe, e non nel vagone letto.
«Luke, non siamo a corto di denaro!» esclamò, stanca ed esasperata. «Se hai dimenticato di andare
in banca, io ho nella borsetta cento sterline che mi ha dato Bob. Perché non hai prenotato uno
scompartimento letto di prima classe?»
La fissò stupefatto. «Ma sono appena tre notti e tre giorni di viaggio fino a Dungloe! Perché buttar
via denaro per il vagone letto, visto che siamo entrambi giovani, sani e forti? Startene seduta su un
treno per qualche tempo non ti ucciderà, Meghann! Sarebbe tempo, ormai, che ti rendessi conto di
avere sposato un semplice lavorante e non un dannato proprietario!»
Così Meggie si abbandonò nel posto accanto al finestrino che Luke le aveva trovato e appoggiò il
mento tremante alla mano, per guardar fuori, affinché lui non vedesse le lacrime. Le aveva parlato
come si può parlare a una bambina irresponsabile, e stava cominciando a domandarsi se per caso la
considerasse davvero così. C'era in lei un inizio di ribellione, ma molto piccolo, e inoltre il suo
feroce orgoglio le vietava l'indegnità di un litigio. Disse invece a se stessa che lei era la moglie di
quell'uomo, e questo doveva costituire per lui una novità alla quale non poteva essere abituato.
Bisognava dargli tempo. Avrebbero vissuto insieme, doveva cucinargli i pasti, rammendargli i
vestiti, occuparsi di lui, mettere al mondo i suoi figli, essere una buona moglie. Bisognava che
ricordasse quanto Pa' aveva stimato Ma', quanto l'aveva adorata. Doveva dargli tempo.
Si stavano recando in una cittadina chiamata Dungloe, appena ottanta chilometri prima di Cairns,
l'ultima stazione, la più settentrionale, della linea ferroviaria che seguiva l'intera costa del
Queensland. Più di milleseicento chilometri di binari a scartamento ridotto, e i vagoni che
dondolavano e beccheggiavano su e giù, e tutti i posti dello scompartimento occupati, senza mai la
possibilità di coricarsi o distendersi almeno in parte. Sebbene le campagne fossero di gran lunga più
popolate dei dintorni di Gilly, e di gran lunga più pittoresche, Meggie non riusciva a trovare in se
stessa il benché minimo interessamento.
Le doleva il capo, non riusciva a trattenere il cibo nello stomaco e la calura era molto, molto
peggiore di quella che avesse mai sofferto a Gilly. Aveva il bel vestito di seta rosa, messo per le
nozze, insudiciato dalla fuliggine che penetrava dai finestrini, la pelle era resa viscida da un sudore
che non voleva saperne di evaporare; e inoltre, sensazione più esasperante di qualsiasi disagio
materiale, stava quasi per odiare Luke. Apparentemente per nulla stanco o innervosito dal viaggio,
egli sedeva disinvolto e conversava con due uomini diretti a Cardwell. Le sole volte che sbirciò
dalla sua parte lo fece per alzarsi, sporgersi oltre di lei con tanta noncuranza da costringerla a tirarsi
indietro, e lanciare un giornale arrotolato a qualche gruppo di uomini avidi di notizie e laceri, che,
con mazze di ferro, aspettavano accanto ai binari e gridavano:
«Giornali! Giornali!»
«Manovali addetti alla manutenzione della linea ferroviaria» spiegò la prima volta, e poi si rimise a
sedere.
Sembrava persuaso che Meggie fosse felicissima e comodissima come lui e che il paesaggio
saettante della pianura costiera l'affascinasse. Mentre Meggie si limitava a fissarlo senza vederlo,
odiandolo ancor prima di avervi posto piede.
A Cardwell, i due uomini discesero, e Luke si recò nella bottega di pesce fritto e patatine, al lato
opposto della strada di fronte alla stazione; tornò indietro con un pacco avvolto in carta di giornale.
«Dicono che il pesce di Cardwell deve essere gustato per crederci, Meghann, amor mio. È il pesce
migliore del mondo. Qua, assaggiane un po'. È la prima volta che hai modo di apprezzare il cibo
genuino del "Bananaland". Credi a me, non esistono altri posti come il Queensland.»
Meggie sbirciò gli unti pezzi di pesce avvolti nella pastella, si portò il fazzoletto alla bocca e si
precipitò nella toletta. Luke stava aspettando nel corridoio quando uscì, qualche tempo dopo, bianca
in faccia e tremante.
«Che cosa c'è? Non stai bene?»
«Non mi sono sentita bene da quando siamo partiti da Goondiwindi.»
«Dio buono! Perché non me lo hai detto?»
«Perché, non te ne sei accorto?»
«Mi sembrava che stessi benissimo.»
«Quanto manca, ancora?» domandò lei, rinunciando.
«Da tre a sei ore, più o meno. Non rispettano molto gli orari, qui. C'è posto in abbondanza, adesso
che quei due sono discesi; coricati e mettimi i piedini in grembo.»
«Oh, non parlarmi come se fossi una bimbetta!» scattò stizzita. «Mi sentirei molto meglio se fossero
discesi due giorni fa a Bundaberg!»
«Andiamo, Meghann, fai la brava! Siamo quasi arrivati. Mancano soltanto Tully e Innisfail, e poi
saremo a Dungloe.»
Era il pomeriggio tardi quando scesero dal treno, Meggie avvinghiandosi disperatamente al braccio
di Luke, troppo orgogliosa per confessare che non riusciva a stare in equilibrio. Lui chiese al
capostazione il nome di un albergo per lavoratori, sollevò le valigie e uscì in istrada, seguito da
Meggie che barcollava come se fosse stata ubriaca.
«È appena in fondo all'isolato sull'altro lato della strada» la consolò lui. «L'edificio bianco a due
piani.»
Sebbene la loro camera fosse piccola e piena fino a traboccare di grossi mobili vittoriani, parve un
paradiso a Meggie, che crollò su un lato del letto a due piazze.
«Dormi un po' prima di cena, amore. Io vado fuori a orizzontarmi» disse Luke, uscendo dalla stanza
fresco e riposato come la mattina delle nozze. Si erano sposati sabato e adesso era il tardo
pomeriggio di giovedì; per cinque giorni avevano viaggiato seduti su treni affollati, soffocando nel
fumo delle sigarette e nella fuliggine.
Il letto oscillava con movimenti monotoni allo sferragliare delle ruote d'acciaio sugli scambi, ma
Meggie affondò il capo nel guanciale con gratitudine, e dormì e dormì.
Qualcuno le aveva tolto le scarpe e le calze, coprendola inoltre con il lenzuolo; Meggie si mosse,
aprì gli occhi e si guardò attorno. Luke sedeva sul davanzale della finestra, con un ginocchio
sollevato, fumando. Il movimento sul letto fece sì che si voltasse a guardarla. Sorrise.
«Bella sposa sei tu! Eccomi qui, in impaziente attesa della luna di miele, e mia moglie cade in
letargo per quasi due giorni. Ero un po' preoccupato non riuscendo a svegliarti, ma l'albergatore ha
detto che alle donne capita così, il viaggio in treno e l'umidità. Ha detto di lasciarti smaltire la
stanchezza dormendo. Come ti senti, adesso?»
Venne a sedersi sulla sponda del letto, massaggiandole il braccio con un gesto di pentimento. «Mi
dispiace, Meggie, sul serio. Non ho pensato al fatto che sei una donna. Non sono abituato ad avere
una moglie, ecco tutto. Hai appetito, tesoro?»
«Sono affamata. Ti rendi conto che non mangio da quasi una settimana?»
«Allora perché non fai il bagno, ti metti un vestito nuovo e vieni fuori a dare un'occhiata a
Dungloe?»
C'era un ristorante cinese accanto all'albergo, e Luke vi condusse Meggie a farle gustare per la
prima volta i cibi orientali. Era tanto affamata che qualsiasi cosa le sarebbe sembrata ottima, ma
quei piatti erano superbi. Né si curò di sapere se fossero fatti con code di topo e pinne di pescecane
e interiora di galline, come correva voce a Gillanbone, ove esisteva un solo ristorante gestito da
greci, che servivano bistecche e patatine fritte. Luke aveva portato dall'albergo, in un sacchetto di
carta, due bottiglie di birra e volle a tutti i costi fargliene bere un bicchiere, sebbene la birra non le
piacesse.
«Vacci piano con l'acqua, all'inizio» la consigliò. «La birra non ti farà venire il corri-corri.»
Poi la prese sottobraccio e la condusse a spasso per Dungloe tutto fiero, come se la piccola cittadina
fosse stata una sua proprietà. Luke era nato nel Queensland. Che posto era Dungloe! Aveva un
aspetto e un carattere tutti diversi da quelli delle cittadine dell'ovest. In quanto a dimensioni,
equivaleva probabilmente a Gilly, ma invece di essere disposta lungo la via principale, Dungloe era
costruita a isolati quadrati e ordinati, con tutte le case e tutti i negozi verniciati di bianco, e non di
marrone. Le finestre erano sportelli di legno che giravano intorno a un asse orizzontale,
presumibilmente per fare entrare la brezza. Tutte le volte che si poteva farne a meno, non c'erano i
tetti: il cinematografo si riduceva a uno schermo, quattro pareti di pannelli mobili, e tante file di
sedie pieghevoli di tela.
Un'autentica giungla assediava la cittadina alla periferia. I rampicanti invadevano ogni cosa... si
arrampicavano su per i pali, sopra i tetti, sui muri. C'erano alberi che spuntavano in mezzo alle
strade o attraverso le case. Sarebbe stato impossibile stabilire chi fosse venuto prima, se gli alberi o
le case: l'impressione dominante era quella di una crescita di vegetazione incontrollata e frenetica.
Palme da cocco più alte e più diritte degli eucalipti di Drogheda facevano ondeggiare le loro fronde
sullo sfondo del cielo di un blu intenso, liquido; ovunque Meggie guardasse, c'erano vampate di
colori. Non si trattava di una regione rossiccia e grigia. Ogni tipo di albero sembrava essere in
fiore... fiori viola, arancione, scarlatti, rosa, azzurri, bianchi.
C'erano molti cinesi con pantaloni di seta nera, scarpe minuscole nere e bianche, calze bianche,
camicie bianche con il colletto da Mandarini, e i codini giù per la schiena. Uomini e donne
sembravano tutti così uguali che a Meggie riusciva difficile distinguerli. Quasi tutte le attività
commerciali della cittadina sembravano trovarsi nelle mani dei cinesi; su un grande magazzino, di
gran lunga più opulento di qualsiasi negozio potesse vantare Gilly, figurava un nome cinese: Da Ah
Wong, diceva l'insegna.
Tutte le case erano costruite in cima a pali molto alti, un po' come la vecchia abitazione del capo-
guardiano a Drogheda. Questo per facilitare al massimo la circolazione dell'aria, spiegò Luke, e per
impedire alle termiti di far crollare le case un anno dopo che erano state costruite. Alla sommità di
ciascun palo c'era un disco di latta a forma di imbuto voltato verso il basso; le termiti non possono
piegare il corpo al centro e, di conseguenza, non riuscivano ad arrampicarsi oltre l'ostacolo di latta
fino al legname della casa vera e propria. Naturalmente, banchettavano con i pali, ma, non appena
un palo era tutto traforato, veniva tolto e sostituito con uno nuovo. Molto più semplice e meno
costoso che costruire una casa nuova. Quasi tutti i giardini sembravano una giungla, con bambù e
palmizi, come se gli abitanti avessero rinunciato al tentativo di mantenere l'ordine nei fiori.
Gli uomini e le donne la scandalizzarono. Per andare a pranzo e passeggiare con Luke, Meggie si
era vestita come imponevano le costumanze: scarpette dal tacco alto, calze di seta, sottoveste di
seta, ampio vestito di seta, con cintura e le maniche fino ai gomiti. Sul capo portava un ampio
cappello di paglia, aveva le mani guantate. E a irritarla soprattutto fu la sensazione imbarazzante —
stando a come la gente la fissava — di essere lei a vestire in modo indecente!
Gli uomini si aggiravano a piedi nudi, a gambe nude e quasi tutti a torso nudo, senza indossare altro
che sudici calzoncini kaki. I pochi che si coprivano la metà superiore del corpo indossavano
canottiere, non camicie. Le donne erano ancor peggio. Alcune portavano vestiti di cotone ridotti al
minimo e ovviamente senza biancheria sotto; non avevano le calze e ciabattavano con sandali
malconci. Ma, nella grande maggioranza, si limitavano a corti calzoncini, andavano a piedi nudi e si
coprivano il seno con indecenti, esigue camiciole senza maniche. Dungloe era una cittadina, non
una spiaggia, eppure ecco che i suoi abitanti di razza bianca passeggiavano sfrontatamente mezzi
nudi.
C'erano biciclette dappertutto, a centinaia; alcune automobili, e nemmeno un cavallo. Sì, tutto molto
diverso da Gilly. E faceva caldo, caldo, caldo. Passarono accanto a un termometro che,
incredibilmente, segnava appena trentadue gradi; a Gilly, con quaranta gradi, sembrava facesse più
fresco. A Meggie pareva di muoversi attraverso aria compatta, che il suo corpo dovesse muoversi,
tagliare del burro, e aveva l'impressione, respirando, che i polmoni le si riempissero d'acqua.
«Luke, non resisto più! Possiamo tornare all'albergo, per piacere?» ansimò, dopo meno di un
chilometro e mezzo.
«Se vuoi. Stai sentendo l'umidità. Di rado scende sotto il novanta per cento, in inverno o in estate, e
la temperatura di rado si abbassa sotto i trenta gradi o sale al di sopra dei trentasei. Non esistono
grandi variazioni stagionali, ma in estate i monsoni fanno salire l'umidità al cento per cento durante
tutti quei mesi infuocati.»
«Piove in estate, non in inverno?»
«Piove per tutto l'anno. I monsoni soffiano sempre, e quando non abbiamo i monsoni, abbiamo gli
alisei di sud-est. Anche quelli portano molta pioggia. A Dungloe le precipitazioni annue variano da
duecentocinquanta a settecentocinquanta centimetri.»
Settecentocinquanta centimetri di pioggia all'anno! E la povera Gilly andava in estasi per trentadue
principeschi centimetri di precipitazioni, mentre lì, a tremiladuecento chilometri di distanza, ne
cadevano anche settecentocinquanta centimetri.
«Di notte non fa più fresco?» domandò Meggie mentre arrivavano all'albergo; le notti afose di Gilly
sembravano sopportabili, in confronto a quel bagno di vapore.
«Non molto, ma ti ci abituerai.» Aprì la porta della loro camera e si scostò per farla entrare. «Io
scendo nel bar a bere una birra, ma tornerò tra mezz'ora. Questo dovrebbe concederti tempo a
sufficienza.»
Alzò fulmineamente gli occhi sul viso di lui, sorpresa. «Sì, Luke.»
Dungloe si trovava diciassette gradi a sud dell'equatore, per cui la notte scendeva come un colpo di
tuono; a un certo momento sembrava che il sole stesse appena cominciando a tramontare, e, un
momento dopo, si diffondevano fitte tenebre, dense e calde come melassa. Quando Luke tornò,
Meggie aveva spento la luce e si era messa a letto coperta fino al mento dal lenzuolo. Ridendo, egli
si chinò, glielo strappò di dosso e lo gettò sul pavimento.
«Fa già abbastanza caldo, amore! Non avremo bisogno del lenzuolo.»
Lo udì camminare qua e là, vide l'ombra vaga di lui mentre si spogliava. «Ti ho messo il pigiama
sul tavolino da toletta» bisbigliò.
«Il pigiama? Con un clima simile? So che a Gilly avrebbero un colpo pensando a un uomo che non
portasse il pigiama, ma qui siamo a Dungloe! E tu ti sei messa davvero la camicia da notte?»
«Sì.»
«Allora toglitela. Il dannato aggeggio sarà soltanto un inciampo, del resto.»
Annaspando e contorcendosi, Meggie riuscì a sfilarsi la camicia di batista che la signora Smith
aveva ricamato così amorevolmente per la sua prima notte di nozze; era lieta dell'oscurità, troppo
fitta perché lui potesse vederla. Luke aveva ragione. Si stava molto più freschi giacendo nudi e
lasciandosi accarezzare il corpo dalla brezza che penetrava attraverso le finestre. Ma il pensiero di
un altro corpo caldo nel letto accanto a lei era sconfortante.
Le molle cigolarono; Meggie sentì pelle umida toccarle il braccio e trasalì. Luke si girò sul fianco,
la prese tra le braccia e la baciò. A tutta prima rimase inerte e passiva, sforzandosi di non pensare a
quella bocca spalancata e alla lingua indecente che sondava, ma poi cominciò a dibattersi per
liberarsi, non volendo la vicinanza nella calura, non volendo essere baciata, non volendo Luke. Non
era affatto come quella notte sulla Rolls-Royce, al ritorno da Rudna Hunish. Le sembrava di non
sentire niente in Luke che pensasse a lei, e inoltre una qualche parte di Luke esercitava una
pressione insistente contro le sue cosce, mentre una mano, dalle unghie taglienti e quadrate, le
affondava nelle natiche. La paura divenne terrore e Meggie fu travolta, non soltanto fisicamente,
dalla forza e dalla decisione di lui, dall'assenza di ogni tenerezza. A un tratto la lasciò andare, si
drizzò a sedere e parve annaspare con se stesso, tendendo e tirando qualcosa.
«Meglio stare sul sicuro» ansimò. «Sdraiati supina, è il momento. No, non così! Allarga le gambe,
santo Dio! Non sai proprio niente?»
No, no, Luke, non farlo! avrebbe voluto gridare. Questo è orribile, è osceno, qualsiasi cosa tu mi
stia facendo non può essere consentita dalle leggi della Chiesa o degli uomini! Egli le si sdraiò
addosso, sollevò i fianchi e la frugò con una mano, afferrandole con l'altra tanto saldamente i capelli
che lei non osava muoversi. Guizzando e sobbalzando a causa della cosa estranea tra le gambe,
cercò di fare come Luke voleva, allargò ancor più le gambe, ma lui era molto pesante e i muscoli
dell'inguine le causarono gli spasimi dei crampi. Anche attraverso le brume sempre più scure della
paura e della spossatezza sentì il raccogliersi di una qualche forza formidabile; quando Luke la
penetrò, un lungo grido acuto le sfuggì dalle labbra.
«Chiudi il becco» ringhiò, le tolse la mano dai capelli e gliela piazzò sulla bocca. «Che cosa vuoi
combinare, vuoi far pensare a tutti in questo maledetto albergo che ti stia assassinando? Sta' ferma e
non ti farà più male del necessario! Sta' ferma, sta' ferma!»
Meggie lottò come un'ossessa per liberarsi di quella cosa spaventosa, dolorosa, ma il peso di Luke
la inchiodava, la mano le premeva sulla bocca e la sofferenza continuò e continuò. Del tutto
asciutta, perché non era stata eccitata, si sentiva raschiare e raspare i tessuti dal preservativo ancor
più asciutto, mentre egli affondava e si sollevava, sempre più rapidamente, e il respiro cominciava a
sibilargli tra i denti, poi un cambiamento lo immobilizzò, lo fece fremere e deglutire
spasmodicamente. Il dolore divenne un sordo indolenzimento e, misericordiosamente, Luke rotolò
giù da lei per giacere supino e ansimante.
«La prossima volta sarà meglio per te» riuscì a dire. «La prima volta è sempre dolorosa per la
donna.»
Allora perché non hai avuto la decenza di dirmelo prima? avrebbe voluto ringhiare Meggie, ma non
possedeva neppur più la forza di pronunciare queste parole, era troppo assorta nel desiderio di
morire. Non soltanto a causa del dolore, ma anche perché aveva scoperto di essere priva di ogni
identità per lui, di essere soltanto uno strumento.
La seconda volta risultò altrettanto dolorosa e così la terza; esasperato, perché si aspettava che il
disagio di lei (pensava fosse disagio) scomparisse magicamente dopo la prima volta, e non
riuscendo a capire, di conseguenza, come mai continuasse a dibattersi e a gridare, Luke si adirò, le
voltò le spalle e si addormentò. Con i capelli bagnati dalle lacrime che le striavano le gote, Meggie
giacque supina augurandosi la morte, o almeno la vita di un tempo a Drogheda.
Si era riferito a questo, Padre Ralph, anni addietro, accennandole al passaggio nascosto in rapporto
con il mettere al mondo bambini? Bel modo di scoprire che cosa aveva voluto dirle! Non poteva
stupirsi se aveva preferito non spiegarsi più chiaramente. Eppure a Luke quella ginnastica era
piaciuta tanto da indurlo a ripeterla per tre volte in rapida successione. Ovviamente a lui la cosa non
faceva alcun male. E anche per questo si sorprese a odiare Luke e a odiare la faccenda.
Spossata, e indolenzita a tal punto che un semplice movimento la torturava, Meggie si spostò a poco
a poco dalla sua parte del letto voltando le spalle a Luke e pianse contro il guanciale. Non riuscì ad
addormentarsi. Luke dormiva così profondamente che i suoi piccoli, timidi movimenti non gli
modificavano nemmeno il ritmo del respiro. Dormiva placidamente, senza russare né agitarsi, e
Meggie, aspettando l'alba tardiva, pensò che se si fosse trattato soltanto di dormire insieme, avrebbe
potuto trovare piacevole stare con lui. Poi l'alba spuntò, rapida e senza gioia, com'era accaduto con
l'oscurità; parve strano, ora, non udire i galli cantare, e tutti gli altri suoni di Drogheda al risveglio,
con le pecore, i cavalli, i maiali e i cani.
Luke si destò e si girò verso di lei; si sentì baciare sulla spalla, ed era tanto stanca e in preda a una
tale nostalgia della casa, che dimenticò il pudore e non si curò di coprirsi.
«Suvvia, Meghann, fatti guardare» le ordinò, mettendole una mano sull'anca. «Voltati, da brava
bambina.»
Quel mattino, sembrava che più nulla rivestisse importanza; Meggie si girò, trasalendo, e giacque
supina, guardandolo con occhi spenti. «Non mi piace il nome Meghann», disse, la sola forma di
protesta che le venne in mente. «Vorrei che tu mi chiamassi Meggie.»
«Meggie non mi va. Ma se Meghann ti dispiace davvero tanto, ti chiamerò Meg.» Lo sguardo di lui
passò sognante sul suo corpo. «Che belle forme hai.» Le toccò un seno, con il capezzolo roseo
piatto e floscio. «Specie queste.» Dopo aver messo i guanciali uno sull'altro, si appoggiò a essi e
sorrise. «Vieni Meg, baciami. Tocca a te adesso fare all'amore con me, e forse così ti piacerà di più,
eh?»
Non voglio baciarti mai più finché vivrò, pensò lei, guardando il corpo lungo e ricco di muscoli,
l'intrico di peli scuri sul petto; scendevano fino al ventre come una linea sottile e poi si allargavano
formando un cespuglio dal quale sporgeva il germoglio ingannevolmente piccolo e innocente che
poteva causare tanto dolore. Che gambe pelose aveva! Meggie era cresciuta con uomini che non si
spogliavano mai nemmeno un po' alla presenza dell'altro sesso, ma le camicie dal colletto aperto
lasciavano intravedere toraci pelosi quando faceva caldo. Erano tutti uomini dalla carnagione
chiara, che non le ripugnavano; quest'uomo bruno era forestiero, repellente. Padre Ralph aveva
capelli altrettanto neri, ma lei ricordava bene quel suo torace liscio, abbronzato, glabro.
«Fa' come ti ho detto, Meg! Baciami!»
Sporgendosi, lo baciò; egli le mise le mani a coppa intorno ai seni, la costrinse a continuare a
baciarlo, le afferrò una mano e la spinse in giù contro il proprio inguine. Spaventata, Meggie staccò
la bocca riluttante da quella di lui per guardare quanto aveva sotto la mano, il coso che cambiava e
cresceva.
«Oh, per piacere, Luke, non di nuovo!» gridò. «Per piacere, non di nuovo! Ti prego, ti prego!»
Gli occhi azzurri la scrutarono, interrogativi. «Fa così male? E va bene, lo faremo in un altro modo,
ma, per amor di Dio, cerca di dimostrare un po' di entusiasmo!»
Issatala sopra di sé, le divaricò le gambe, le sollevò le spalle e si attaccò al seno come aveva fatto
sull'automobile, la notte in cui si era impegnata a sposarlo. E Meggie, almeno fisicamente,
sopportò; questa volta non si era introdotto in lei, e pertanto il dolore si riduceva a quello causato
dal semplice movimento. Che strane creature erano gli uomini, spossarsi in quella faccenda come se
fosse stata la cosa più piacevole del mondo. Era disgustoso, una derisione dell'amore. Se non fosse
stato per la speranza che tutto questo potesse culminare con un bambino, Meggie si sarebbe rifiutata
recisamente di prestarsi ancora a una simile ginnastica.
«Ti ho trovato un lavoro» disse Luke, durante la colazione nella sala da pranzo dell'albergo.
«Cosa? Prima che abbia avuto modo di rendere graziosa la nostra casa, Luke? Prima ancora che
abbiamo una casa?»
«Non ha scopo prendere in affitto una casa, Meg. Io taglierò canne da zucchero, è già tutto deciso. Il
miglior gruppo di tagliatori del Queensland è formato da svedesi, polacchi e irlandesi agli ordini di
un tizio a nome Arne Swenson, e mentre tu smaltivi la stanchezza del viaggio dormendo, sono
andato a parlargli. È un uomo che viene subito al dunque, e è disposto a mettermi alla prova. Questo
significa che vivrò nei loro alloggi. Tagliamo canne per sei giorni alla settimana, dall'alba al
tramonto; non solo, ma ci spostiamo avanti e indietro lungo la costa, ovunque ci sia del lavoro.
Quello che guadagnerò dipenderà da quante canne da zucchero riuscirò a tagliare, e, se dimostrerò
di essere bravo abbastanza per restare nel gruppo di Arne, riuscirò a intascare più di venti sterline
alla settimana. Venti sterline alla settimana! Riesci a immaginarlo?»
«Stai cercando di dirmi che non vivremo insieme, Luke?»
«Non possiamo, Meg! Gli altri uomini non hanno donne negli alloggi, e a che cosa ti servirebbe
abitare sola in una casa? Tanto vale che lavori anche tu; sarà tutto denaro guadagnato per il nostro
allevamento.»
«Ma dove alloggerò? Che genere di lavoro posso fare? Non ci sono greggi da sorvegliare, qui.»
«No, purtroppo. Ecco perché ti ho trovato un lavoro con alloggio, Meg. Avrai vitto e alloggio gratis
e non dovrai spendere un soldo per mantenerti. Lavorerai come cameriera a Himmelhoch, la
piantagione di Ludwig Mueller. È il più importante coltivatore di canne da zucchero del distretto, e
sua moglie è invalida, non può mandare avanti la casa per suo conto. Ti condurrò là domattina.»
«Ma quando ti vedrò, Luke?»
«Le domeniche. Luddie sa che sei sposata; non si dispiacerà se scomparirai alla domenica.»
«Ma bene! Hai organizzato le cose in modo soddisfacente per te, non c'è che dire, vero?»
«Credo di sì. Oh, Meg, diventeremo ricchi! Lavoreremo sodo, risparmieremo fino all'ultimo penny,
e non ci vorrà molto prima che possiamo acquistare il più bell'allevamento del Queensland
Occidentale. Ci sono le quattordicimila sterline che ho depositato nella banca di Gilly, le altre
duemila che mi verranno accreditate ogni anno e le milletrecento e più sterline annue che possiamo
guadagnare tra tutti e due. Non ci vorrà molto, amore, te lo prometto. Sorridi e sopporta per me, eh?
Perché accontentarci di una casa in affitto se, quanto più duramente lavoreremo adesso, tanto più
presto potrai guardarti attorno nella tua cucina?»
«Se è quello che vuoi.» Meggie abbassò gli occhi sulla borsetta. «Luke, le hai prese tu le mie cento
sterline?»
«Le ho depositate in banca. Non puoi andare in giro con tutto quel denaro, Meggie.»
«Ma le hai prese tutte! Non ho più un penny! E per le piccole spese?»
«Perché, in nome del cielo, dovresti aver bisogno di denaro per le piccole spese? Domattina sarai a
Himmelhoch e laggiù non potrai spendere niente. Il conto dell'albergo lo pagherò io. Sarebbe ora
che ti rendessi conto di avere sposato un lavoratore, Meg, e di non essere più la figlia viziata del
proprietario, con denaro da gettar via. Mueller verserà la tua paga direttamente sul mio conto in
banca, e il denaro rimarrà là insieme al mio. Io non lo spendo per me, Meg, lo sai. Nessuno di noi
due lo toccherà, è per il nostro avvenire, per il nostro allevamento.»
«Sì, capisco. Sei molto ragionevole, Luke. Ma se dovessi avere un bambino?»
Per un momento fu tentato di dirle la verità, di dirle che non avrebbero avuto bambini finché
l'allevamento non fosse divenuto una realtà, ma un qualcosa nell'espressione di lei lo indusse a
cambiare idea.
«Bene, attraverseremo quel ponte quando ci arriveremo, eh? Preferirei che non ci fossero bambini
finché non avremo l'allevamento, e quindi speriamo di non averne.»
Né una casa, né denaro, né bambini. E nemmeno il marito, del resto. Meggie si mise a ridere. Luke
rise a sua volta e levò in un brindisi la tazza del tè.
«Ai preservativi» disse.
La mattina dopo, si recarono a Himmelhoch con l'autobus locale, un vetusto Ford senza cristalli ai
finestrini e con posti per dodici passeggeri. Meggie si sentiva meglio perché Luke l'aveva lasciata in
pace dopo che gli era stato offerto il seno, e la cosa era sembrata piacergli quanto quell'altra, più
orribile. Per quanto ci tenesse ad avere bambini, aveva esaurito la sua scorta di coraggio. La prima
domenica in cui non fosse più indolenzita, disse a se stessa, sarebbe stata disposta a ritentare. Forse
un bambino era già in viaggio e avrebbe potuto evitare per sempre quei contatti, a meno che non ne
avesse desiderato altri. Con gli occhi più luminosi, si guardò attorno interessata mentre l'autobus
percorreva scoppiettando la rossa strada di terra battuta.
Era un paesaggio da togliere il respiro, infinitamente diverso da quello di Gilly; dovette ammettere
che esistevano lì una bellezza e una grandiosità assenti a Gillanbone. Si vedeva che l'acqua non
mancava mai. Il suolo aveva lo stesso colore del sangue appena versato, un rosso scarlatto, e le
canne da zucchero formavano un contrasto perfetto con i campi a maggese: lunghi pennacchi di un
verde vivido che ondeggiavano quattro, sei metri sopra gambi color chiaretto, spessi come il braccio
di Luke. In nessun altro paese al mondo, proclamò Luke, le canne crescevano così alte e tanto
ricche di zucchero; il loro rendimento era il più elevato che si conoscesse. Quel suolo di un rosso
vivido aveva uno spessore di oltre trenta metri ed era così saturo degli elementi nutritivi ideali che
le canne non potevano non essere perfette. E in nessun altro paese del mondo le canne da zucchero
venivano tagliate dai bianchi, con il dinamismo avido di denaro della loro razza.
«Saresti abile, come oratore improvvisato nei giardini pubblici, Luke» disse Meggie ironica.
La sbirciò in tralice, sospettosamente, ma si astenne dai fare commenti perché l'autobus si era
fermato sul margine della strada per farli scendere.
Himmelhoch era una grande casa bianca sul cocuzzolo di una collina, circondata da palme da
cocco, da banani e da bellissimi palmizi più piccoli le cui fronde si spiegavano come grandi ventagli
simili a code di pavone. Un folto di bambù alti dodici metri proteggeva dai monsoni più impetuosi
di nord-ovest; la casa, sebbene situata in alto sulla collina, poggiava ugualmente su pali di quattro
metri e mezzo.
Luke le portò la valigia; Meggie arrancò accanto a lui su per la strada rossa, ansimante, ma sempre
correttamente con scarpette e calze e il cappello che le si afflosciava intorno al viso. Il barone delle
canne da zucchero non c'era, ma sua moglie si fece avanti sulla veranda, mentre loro salivano gli
scalini, equilibrandosi appoggiata a due bastoni. Sorrideva; guardandone la faccia buona e gentile,
Meggie si sentì subito meglio.
«Avanti, avanti!» disse la signora, con uno spiccato accento australiano.
Poiché si era aspettata una voce tedesca, Meggie si sentì incommensurabilmente rallegrata. Luke
posò la valigia, scambiò una stretta di mano, quando la signora ebbe tolto la destra dal bastone, poi
si precipitò giù per gli scalini, non volendo perdere l'autobus di ritorno. Arne Swenson sarebbe
passato a prenderlo davanti al pub alle dieci.
«Come si chiama di nome, signora O'Neill?»
«Meggie.»
«Oh, è grazioso. Io mi chiamo Anne e preferirei che mi chiamasse Anne. Mi sono sentita così sola,
qui, da quando la mia ragazza mi ha lasciata un mese fa; ma non è facile trovare buon personale, e
così ho battagliato per conto mio. Siamo soltanto in due, Luddie e io, non abbiamo figli. Spero che
le piacerà vivere con noi, Meggie.»
«Sono certa che mi piacerà, signora Mueller... Anne.»
«Mi consenta di farle vedere la sua stanza. Ce la fa a portare la valigia? Io non sono tanto in grado
di sollevare pesi.»
La stanza era arredata in modo austero, come il resto della casa, ma dava sull'unico lato ove la vista
non fosse impedita da qualche sorta di frangivento. Era lo stesso lato della veranda del soggiorno,
che a Meggie parve molto nudo, con mobili di canna senza tendaggi e senza stoffe.
«Fa semplicemente troppo caldo, qui, per il velluto o il chintz» spiegò Anne. «Ci accontentiamo di
poltroncine di vimini, e ci copriamo con il minimo consentito dalla decenza. Dovrò insegnarle
queste cose, o morirà. È davvero troppo coperta.»
Quanto a lei, indossava una camiciola dalla scollatura profonda, senza maniche, e un paio di
calzoncini corti dai quali le sue povere gambe contorte sporgevano vacillanti. In men che non si
dica, Meggie venne a trovarsi vestita nello stesso modo, con indumenti prestatile dalla signora
Mueller, finché non fosse riuscita a persuadere Luke a comprarle vestiti nuovi. Fu umiliante dover
spiegare che non le era consentito avere spiccioli; ma, per lo meno, la necessità di subire questa
umiliazione attenuò il suo imbarazzo di esser mezza nuda.
«Be', senza dubbio lei fa figurare i miei calzoncini meglio di me» disse Anne, poi continuò a
impartirle allegramente istruzioni. «Sarà Luddie a portarle la legna da ardere; non dovrà spaccarla
lei, né trascinarla su per gli scalini. Vorrei che avessimo la corrente elettrica, come nelle località più
vicine a Dunny, ma il governo è più lento di una settimana piovosa. Forse l'anno prossimo la linea
arriverà fino a Himmelhoch, ma fino ad allora dovremo sopportare la spaventosa cucina economica
a legna, ho paura. Però vedrà, Meggie! Non appena ci daranno la corrente, avremo fornelli elettrici,
la luce elettrica e un frigorifero!»
«Sono abituata a farne senza.»
«Sì, ma là da dove viene lei il clima è asciutto. Qui è molto, molto peggio. Temo soltanto che la sua
salute possa soffrirne. Succede spesso, alle donne che non sono di queste parti, è un qualcosa nel
sangue. Ci troviamo alla stessa latitudine sud come Bombay e Rangoon a nord, sa; questa regione
non si confà né agli uomini né alle bestie, a meno che non vi siano nati.» Sorrise. «Oh, che piacere
averla qui! Lei e io ci divertiremo un mondo! Le piace leggere? Luddie e io abbiamo la passione
della lettura.»
Meggie si illuminò in viso. «Oh, sì!»
«Splendido! L'aiuterà a sentire un po' meno la mancanza di quell'uomo robusto e bello che è suo
marito.»
Meggie non rispose. Sentire la mancanza di Luke? Ed era bello? Si disse che, se anche non lo
avesse riveduto mai più, sarebbe stata perfettamente felice. Solo che si trattava di suo marito, la
legge stabiliva che doveva vivere con lui. Lo aveva sposato a occhi aperti; non poteva incolpare
nessuno all'infuori di se stessa. E forse, una volta messo da parte il denaro, e quando l'allevamento
nel Queensland occidentale fosse divenuto una realtà, ci sarebbe stato il tempo perché Luke e lei
potessero vivere insieme, sistemarsi, conoscersi reciprocamente, andare d'accordo.
Non era un uomo malvagio, e nemmeno odioso; ma viveva da solo da tanto di quel tempo che non
sapeva più come dividere se stesso con un'altra persona. E inoltre era un uomo semplice,
spietatamente animato da un solo scopo, senza tormenti. Quello che desiderava era una cosa
concreta, anche se si trattava di un sogno: una ricompensa positiva che avrebbe avuto, senza dubbio,
grazie a fatiche incessanti e a sacrifici dolorosi. Per questo meritava rispetto. Nemmeno per un
momento Meggie pensava che Luke potesse spendere il denaro per concedersi dei lussi; quanto le
aveva detto era vero. Il denaro sarebbe rimasto in banca.
Il guaio era che lui non aveva né tempo né voglia di capire una donna; sembrava non sapere che le
donne erano diverse e abbisognavano di cose che non occorrevano a lui, così come lui necessitava
di cose che non occorrevano a loro. Bene, avrebbe potuto andar peggio. Luke avrebbe potuto farla
lavorare per una donna di gran lunga più fredda e meno premurosa di Anne Mueller. Sulla sommità
di quella collina, non le sarebbe accaduto niente di male. Ma, oh, era così lontana da Drogheda!
Quest'ultima riflessione le balenò nella mente quando ebbero finito di fare il giro della casa e
rimasero in piedi insieme sulla veranda del soggiorno, contemplando Himmelhoch, i grandi campi
di canne da zucchero. Le canne piumate che ondeggiavano nel vento, di un verde sempre
scintillante, lustrato dalla pioggia, scendevano su un lungo versante fino alle rive di un immenso
fiume, di gran lunga più ampio del Barwon, fasciato dalla giungla. Al di là del fiume
ricominciavano le coltivazioni di canna, quadrati di un verde velenoso, inframmezzati da sanguigni
campi a maggese, finché, ai piedi di un'alta montagna, le coltivazioni non cessavano e tornava a
dominare la giungla. Dietro il cono della montagna, più lontano, svettavano altri picchi, e si
perdevano purpurei all'orizzonte. Il cielo era di un azzurro più ricco e più denso di quello dei cieli di
Gilly, con banchi di nubi gonfie, bianche e compatte, e tutti i colori avevano un che di vivido e di
intenso.
«Quello è il monte Bartle Frere» disse Anne, additando il picco isolato. «Milleottocento metri
d'altezza sulla pianura, che è al livello del mare. Dicono che sia tutto stagno, ma non c'è speranza di
sfruttarlo, a causa della giungla.»
Il vento greve e pigro portava un odore forte e nauseante che Meggie non aveva mai smesso di
tentare di scacciarsi dalle narici, sin da quando era scesa dal treno. Un odore simile a quello della
putrefazione, eppure diverso; insopportabilmente dolciastro e penetrante, una presenza tangibile che
sembrava non scemare mai, per quanto impetuoso potesse soffiare il vento.
«L'odore che sente è quello della melassa» disse Anne, avendo notato le narici dilatate di Meggie;
accese una sigaretta Ardath.
«È disgustoso.»
«Lo so. Per questo fumo. Ma fino a un certo punto ci si abituerà, anche se, diversamente da quasi
tutti gli odori, non scompare mai completamente. Un giorno dopo l'altro, l'odore della melassa c'è
sempre.»
«Che cosa sono gli edifici sul fiume con le ciminiere nere?»
«Quella è la fabbrica. Lavorano la canna, producono zucchero grezzo. Quello che rimane, i residui
asciutti delle canne senza zucchero, si chiama bagasse. Sia lo zucchero grezzo sia il bagasse
vengono trasportati al sud, a Sydney, per un'ulteriore raffinazione. Dallo zucchero grezzo ricavano
melasse, sciroppo chiaro, sciroppo scuro, zucchero bruno, zucchero raffinato e glucosio liquido.
Con il bagasse fanno pannelli fibrosi per l'edilizia, simili alla masonite. Niente va sprecato,
assolutamente niente. Ecco perché, anche con questa crisi, coltivare la canna da zucchero è ancora
un lavoro redditizio.»
Arne Swenson era alto un metro e ottantacinque, esattamente la stessa statura di Luke, e altrettanto
bello. Il suo corpo aveva assunto un colore dorato scuro, a furia di essere esposto al sole, e i capelli
di un giallo vivido formavano una massa di riccioli tutto intorno al capo; le belle fattezze svedesi
somigliavano a tal punto a quelle di Luke, che non si stentava a capire quanto sangue norvegese
fosse filtrato nelle vene degli scozzesi e degli irlandesi.
Luke aveva rinunciato ai calzoni al ginocchio e alla camicia bianca a favore dei calzoni corti.
Insieme a Arne salì su un vetusto e asmatico camioncino modello T che si diresse nei pressi di
Goondi, dove il gruppo stava tagliando canne. La bicicletta di seconda mano acquistata da Luke si
trovava sul pianale, insieme alla valigia. Luke moriva dalla voglia di cominciare a lavorare.
Gli altri uomini avevano tagliato canne sin dall'alba e non alzarono la testa quando Arne
sopraggiunse dalla direzione degli alloggi, con Luke a rimorchio. L'uniforme consisteva in
calzoncini corti, stivali con spesse calze di lana, e cappelli di canapa. Gli occhi socchiusi, Luke fissò
gli uomini intenti al lavoro. Una polvere nera come il carbone li copriva dalla testa ai piedi e,
mescolata al sudore, formava striature di un rosa vivido sui toraci, le braccia, le schiene.
«Fuliggine e terriccio delle canne» spiegò Arne. «Dobbiamo bruciarle prima di poterle tagliare.»
Si chinò per prendere due attrezzi, ne diede uno a Luke e tenne l'altro. «Questo è un coltello da
canne» disse, sollevando il suo. «Con questo si tagliano le canne da zucchero. È molto facile, se si
sa come fare.» Sorrise, si accinse a una dimostrazione, e fece sembrare la cosa di gran lunga più
semplice di quanto probabilmente fosse in realtà.
Luke fissò lo strumento micidiale che stringeva nel pugno e che non somigliava affatto a un
machete delle Indie Occidentali. La lama si ampliava a formare un grande triangolo, invece di
restringersi in punta, ed era munita, a uno dei due vertici, di un gancio minaccioso, simile allo
sperone di un gallo.
«Il machete è troppo piccolo per la canna da zucchero del Queensland settentrionale» disse Arne, al
termine della dimostrazione. «Questo è il giocattolo adatto, te ne renderai conto. Mantienilo affilato,
e buona fortuna.»
Poi si allontanò verso la propria zona, lasciando Luke immobile e indeciso per un momento. Ma,
dopo un attimo, fece spallucce e si mise al lavoro. Entro pochi minuti aveva capito perché
lasciavano quella fatica agli schiavi e alle razze non abbastanza sofisticate per rendersi conto che ci
si poteva guadagnare da vivere in modi meno faticosi; come la tosatura, pensò con bieco umorismo.
Bisognava chinarsi, tagliare a colpi ripetuti, raddrizzarsi, afferrare saldamente il gambo, farlo
scivolare per tutta la sua lunghezza tra le mani staccandone le foglie, gettarlo indietro in modo da
formare una catasta ordinata insieme agli altri, passare alla canna successiva, chinarsi, tagliare,
raddrizzarsi, aggiungere al mucchio...
Le canne brulicavano di animaletti e insetti: topi, telequ, scarafaggi, rospi, ragni, serpenti, vespe,
mosche e api. Tutte le creature che potevano mordere perfidamente o pungere causando bruciori
intollerabili erano ben rappresentate. Per questo motivo i tagliatori bruciavano prima le canne,
preferendo la sporcizia del lavoro su piante semicarbonizzate ai tormenti delle canne verdi e piene
di vita. Ciò nonostante, venivano ugualmente morsicati, punti e tagliati. Se non fosse stato per gli
stivali, i piedi di Luke si sarebbero trovati in condizioni peggiori di quelle delle mani, ma nessun
tagliatore portava mai i guanti. Rallentavano il ritmo del lavoro e il tempo era denaro. Inoltre, i
guanti avevano un che di effeminato.
Al tramonto, Arne diede l'alt e venne a vedere come se la fosse cavata Luke.
«Ehi, amico, mica male!» gridò, rifilandogli una pacca sulla schiena. «Cinque tonnellate; non c'è
male, per essere il primo giorno!»
Gli alloggi non distavano molto, ma la notte tropicale calò così all'improvviso che quando vi
arrivarono faceva buio. Prima di entrare, si misero nudi, tutti insieme, sotto la doccia comune,
quindi entrarono nella baracca ove il tagliatore di turno come cuciniere quella settimana aveva
preparato sul tavolo montagne delle sue specialità. Quel giorno si trattava di bistecche con patate,
focacce e sfoglia con marmellata; gli uomini si gettarono sul cibo e lo trangugiarono tutto, fino
all'ultima briciola, voracemente.
Due file di brandine si fronteggiavano lungo i lati della lunga baracca di lamiera ondulata;
sospirando e bestemmiando contro le canne da zucchero con una originalità che anche un bovaro
avrebbe potuto invidiare, gli uomini si gettarono completamente nudi sulle lenzuola sudicie,
accostarono le zanzariere facendole scorrere sugli anelli e pochi momenti dopo dormivano, sagome
vaghe dietro le tende di garza.
Arne trattenne Luke. «Fammi vedere le mani.» Esaminò i tagli sanguinanti, le vesciche, i gonfiori
delle punture. «Prima disinfettale, poi spalmaci su questo unguento. E se vuoi seguire un consiglio,
frizionale con olio di cocco tutte le sere. Hai le mani grosse: se ti resisterà la schiena, diventerai un
abile tagliatore. Tra una settimana ci avrai fatto l'abitudine e non sarai più così indolenzito.»
Ogni muscolo dello splendido corpo di Luke era tormentato da un singolo e diverso dolore; non
sentiva altro che un'enorme e straziante sofferenza. Con le mani unte e bendate, si distese sulla
branda assegnatagli, accostò la zanzariera e chiuse gli occhi su un mondo di piccole tane soffocanti.
Se avesse immaginato che cosa lo aspettava, non si sarebbe mai sognato di sprecare con Meggie la
sua forza vitale; Meggie era divenuta un'idea avvizzita, indesiderata e sgradita nel fondo dei suoi
pensieri, un qualcosa di archiviato. Sapeva che non avrebbe mai più avuto un briciolo di energia per
lei fino a quando fosse rimasto lì a tagliare canne da zucchero.
Gli occorse davvero una settimana per incallirsi e arrivare al minimo di otto tonnellate al giorno che
Arne pretendeva dagli uomini del suo gruppo. Poi si accinse a diventare più bravo di Arne. Voleva
una quota maggiore degli utili, magari diventare socio. Ma soprattutto, voleva per sé l'espressione
che affiorava sulla faccia di tutti quando guardavano Arne; Arne veniva considerato qualcosa di
simile a un Dio perché era il più abile tagliatore del Queensland, vale a dire, probabilmente, il
migliore del mondo. Quando si recavano nella cittadina, il sabato sera, gli uomini del posto non gli
offrivano mai abbastanza rum e birra, e le donne gli frullavano attorno come colibrì. Esistevano
molte cose in comune tra Arne e Luke. Erano entrambi vanesi, a entrambi piaceva destare un'intensa
ammirazione femminile, ma l'ammirazione era il massimo cui arrivassero. Non avevano niente da
dare alle donne; davano tutto alle canne da zucchero.
Per Luke, quel lavoro aveva una bellezza e dava una sofferenza che gli sembrava di aver aspettato
per tutta la vita. Chinarsi e raddrizzarsi e di nuovo chinarsi nel rituale senza fine significava
partecipare a un qualche mistero situato al di là della portata degli uomini comuni. Poiché, come
Arne gli aveva insegnato, tagliare canne da zucchero in modo superbo significava far parte di una
élite, il gruppo di lavoratori più scelto del mondo; poteva sentirsi fiero ovunque si trovasse, sapendo
che quasi nessuno avrebbe resistito nemmeno un giorno nei campi di canne. Il Re d'Inghilterra non
era migliore di lui, e il Re d'Inghilterra lo avrebbe ammirato, conoscendolo. Poteva guardare con
compatimento e disprezzo medici, avvocati, pennivendoli, proprietari di terre. Tagliare canne da
zucchero come facevano i bianchi avidi di denaro... questo era il grande traguardo.
Sedeva sulla sponda della branda; sentiva i muscoli del braccio nodosi, duri, che si gonfiavano, si
contemplava i palmi delle mani callosi e coperti di cicatrici, si guardava le lunghe gambe
abbronzate e robuste, e sorrideva. Un uomo che riusciva a far quel mestiere e non soltanto a
sopravvivere, ma a gioirne, era un uomo. E si domandava se il Re d'Inghilterra avrebbe potuto dire
altrettanto.
Trascorsero quattro settimane prima che Meggie rivedesse Luke. Ogni domenica, si incipriava il
naso sudato e lucido, indossava un grazioso vestito di seta - sebbene avesse rinunciato al purgatorio
delle sottovesti e delle calze - e aspettava suo marito, che non veniva mai. Anne e Luddie Mueller
non dicevano niente, si limitavano a osservare l'animazione di lei dileguarsi, man mano che ogni
domenica la oscurava drammaticamente, come il sipario che cala su un palcoscenico vividamente
illuminato e vuoto. Non che desiderasse, precisamente, Luke; si trattava soltanto del fatto che Luke
le apparteneva, o che lei gli apparteneva, o comunque si potesse meglio definire la cosa.
Immaginare che Luke nemmeno la pensasse mentre lei passava giorni e settimane avendo in mente
soltanto lui la colmava d'ira, di frustrazione, di amarezza, di umiliazione, di sofferenza. Per quanto
avesse odiato quelle due notti nell'albergo di Dunny, almeno allora era riuscita a dominare nella
mente di Luke; ora si sorprendeva a desiderare di essersi mozzata la lingua con i denti pur di non
gridare di dolore. Era questa la ragione, naturalmente. La sua sofferenza aveva fatto sì che Luke si
stancasse di lei, rovinandogli tutto il piacere. Dall'ira contro Luke, contro l'indifferenza di Luke al
suo dolore, passò al rimorso, e finì con l'incolpare soltanto se stessa.
La quarta domenica non si diede la pena di vestirsi, si limitò ad andare avanti e indietro in cucina a
piedi nudi, in calzoncini e camiciola, per preparare una colazione calda a Luddie e Anne, che una
volta alla settimana apprezzavano quella stramberia. Al rumore di passi sugli scalini dell'ingresso di
servizio, voltò le spalle alla pancetta che sfrigolava nel tegame; e, per un momento, si limitò a
fissare l'uomo grande e grosso e peloso sulla soglia. Luke? Quello era Luke? Sembrava fatto di
pietra, disumano. Ma la strana figura attraversò la cucina, le diede un bacio schioccante e sedette al
tavolo. Lei ruppe altre uova nel tegame e aggiunse altra pancetta.
Anne Mueller entrò, sorrise compìta, infuriata però in cuor suo con quell'uomo. Miserabile
individuo, che cosa aveva in mente, trascurare così a lungo una donna appena sposata?
«Sono lieta di vedere che s'è ricordato di avere una moglie» disse. «Venga sulla veranda, si metta a
tavola con Luddie e con me, e faremo colazione tutti insieme. Aiuti Meggie a portare la pancetta e
le uova. Io posso reggere il porta tosti tra i denti.»
Ludwig Mueller era australiano di nascita, ma il retaggio tedesco traspariva chiaramente: la
carnagione accesa, incapace di tener testa alla birra e al sole contemporaneamente, la testa grigia e
quadrata, gli scialbi occhi azzurri di uomo del Baltico. Lui e la moglie apprezzavano molto Meggie,
e si ritenevano fortunati di averla potuta assumere al loro servizio. Soprattutto Luddie era grato,
perché aveva notato quanto fosse più felice Anne da quando la testolina dorata splendeva nella casa.
«Come va il taglio, Luke?» domandò, ammonticchiandosi uova e pancetta sul piatto.
«Se dicessi che mi piace, mi crederebbe?» rise Luke, riempiendosi il piatto a sua volta.
Gli occhi scaltri di Luddie si posarono sulla bella faccia e annuirono. «Oh, sì, lei ha il tipo giusto di
temperamento, e anche la corporatura adatta, credo. Questo lavoro la fa sentire migliore degli altri,
superiore agli altri uomini.» Catturato dai campi di canne da zucchero che aveva ereditato, lontano
dagli ambienti accademici, e senza alcuna possibilità di scambiare l'una cosa con l'altra, Luddie era
un ardente studioso della natura umana; leggeva grossi tomi rilegati in marocchino, con nomi sul
dorso come Freud e Jung, Huxley e Russell.
«Cominciavo a pensare che non sarebbe più venuto a trovare Meggie» disse Anne, spalmando con
un pennello burro semifluido sul crostino abbrustolito; soltanto in quel modo potevano gustare il
burro, lì, ma era sempre meglio che niente.
«Ecco, Arne e io abbiamo deciso di lavorare anche le domeniche per qualche tempo. Domani
partiremo per Ingham.»
«Questo significa che la povera Meggie non la vedrà spesso.»
«Meg capisce. Non durerà per più di un paio di anni e avremo un'interruzione durante l'estate. Arne
dice che in quel periodo riuscirà a trovarmi lavoro alle Raffinerie, a Sydney, e potrei condurre
Meggie con me.»
«Perché deve lavorare così duramente, Luke?» domandò Anne.
«Devo mettere insieme il denaro per acquistare una proprietà a ovest, dalle parti di Kynuna. Meg
non gliene ha parlato?»
«Temo che la nostra Meggie non sia molto portata per le confidenze. Ce ne parli lei, Luke.»
Ascoltarono tutti e tre, osservando il gioco mutevole delle espressioni sulla faccia forte e
abbronzata, lo splendere di quegli occhi molto azzurri; da quando era venuto, prima di colazione,
Meggie non aveva detto una parola a nessuno. Lui continuò a parlare e a parlare della regione
meravigliosa «dietro l'aldilà»: l'erba, i grossi, grigi uccelli brolga che delicatamente saltellavano
sulla polvere dell'antica strada di Kynuna, le migliaia e migliaia di canguri in fuga, il sole ardente e
asciutto.
«E un giorno, una grossa fetta di tutto questo apparterrà a me. Anche Meg ha contribuito con
qualche quattrinello, e, al ritmo con il quale stiamo lavorando, non ci vorranno più di quattro o
cinque anni. Potremmo riuscirci anche prima se io mi accontentassi di una proprietà più misera, ma,
sapendo quanto posso guadagnare tagliando canne da zucchero, sono tentato di resistere più a lungo
e di acquistare terre decenti.» Si sporse in avanti, con le grosse mani sfregiate dalle cicatrici intorno
alla tazza di tè. «Lo sapete che ho quasi superato Arne, l'altro ieri? Undici tonnellate di canne ho
tagliato, in un giorno!»
Il fischio di Luddie fu sinceramente ammirato, e i due uomini cominciarono a parlare di rendimenti.
Meggie sorseggiò il tè forte e scuro, senza latte. Oh, Luke! Prima aveva parlato di un paio d'anni,
adesso erano quattro o cinque, e chi mai poteva sapere a che periodo più lungo si sarebbe riferito la
volta successiva? Luke amava quel lavoro, impossibile sbagliarsi. Avrebbe rinunciato, quando fosse
venuto il momento? Ne sarebbe stato capace? E inoltre, lei era disposta ad aspettare per accertarlo?
I Mueller erano molto buoni, e non si stava certo ammazzando di fatica, ma, se doveva vivere senza
marito, preferiva Drogheda. Durante tutto quel mese a Himmelhoch non si era sentita realmente
bene nemmeno un giorno; non le andava di mangiare, aveva dolorosi attacchi di diarrea, sembrava
assediata dal letargo e non riusciva a scrollarselo di dosso. E siccome era abituata a godere di una
salute perfetta, quei vaghi malesseri la spaventavano.
Dopo colazione, Luke l'aiutò a lavare i piatti, poi la condusse a fare una passeggiata fino al campo
di canne da zucchero più vicino, parlando continuamente delle canne e di quello che si provava
tagliandole, del piacere di vivere all'aria aperta, di quanto erano simpatici gli uomini nel gruppo di
Arne e della differenza tra la tosatura delle pecore e quel lavoro, di gran lunga migliore.
Si voltarono e tornarono indietro su per la collina; Luke la guidò nello spazio squisitamente fresco
sotto la casa, tra i pali che la sostenevano. Anne lo aveva trasformato in una serra, disponendo
verticalmente tubi di terracotta di dimensioni e altezze diverse, poi riempiendoli di terra e
seminandovi piante che ora se ne riversavano pendule: orchidee di ogni tipo e di ogni colore, felci,
piante esotiche rampicanti o a cespuglio. Il terreno era soffice e odoroso di trucioli di legna; dai
travi in alto pendevano grandi cestini di fil di ferro, traboccanti di felci, od orchidee, o tuberose;
c'erano muschi che crescevano entro nidi di corteccia applicati ai pali; alla base dei tubi erano state
piantate magnifiche begonie, dalle decine di vivide tinte. Era, quello, il rifugio prediletto di Meggie,
il solo posto di Himmelhoch che preferisse a Drogheda. A Drogheda, infatti, non si sarebbe mai
potuto sperare di far crescere tante piante in così poco spazio; non esisteva, laggiù, abbastanza
umidità nell'aria.
«Non è meraviglioso, qui, Luke? Non credi che magari, dopo un paio d'anni, potremmo prendere in
affitto una piccola casa per me? Sto morendo dalla voglia di provarmi a fare anch'io qualcosa di
simile.»
«Per quale ragione, in nome di Dio, dovresti voler abitare sola in una casa? Qui non siamo a Gilly,
Meg, siamo in uno di quei posti nei quali una donna sola non è al sicuro. Ti trovi molto meglio qui,
credimi. Non sei felice in questa casa?»
«Sono felice quanto si può esserlo in casa d'altri.»
«Senti, Meg, dovrai accontentarti di quello che hai adesso, finché non ci trasferiremo all'ovest. Non
possiamo buttar via soldi per l'affitto di una casa e perché tu viva negli agi, e, ciò nonostante,
risparmiare. Hai capito?»
«Sì, Luke.»
Era così sconvolto che non fece quanto aveva avuto l'intenzione di fare conducendola sotto la casa,
vale a dire baciarla. Si limitò invece a rifilarle una pacca noncurante sul di dietro, un po' troppo
dolorosa per essere proprio noncurante, poi si incamminò lungo la strada, verso la bicicletta che
aveva lasciato appoggiata a un albero. Piuttosto che gettar via soldi per l'autobus si era rassegnato a
pedalare per trentadue chilometri, e ora avrebbe dovuto pedalare altrettanto tornando indietro.
«Povera piccola» disse Anne a Luddie. «Lo ammazzerei!»
Gennaio venne e passò; era il mese più fiacco dell'anno per i tagliatori di canne da zucchero, ma
Luke non si fece vivo. Aveva mormorato qualcosa a proposito della sua intenzione di condurre
Meggie a Sydney, e invece ci andò con Arne. Arne era scapolo e aveva una zia che possedeva una
casa a Rozelle, raggiungibile a piedi (non si pagava il biglietto del tram e si risparmiava) dalle
Raffinerie di Zucchero. Entro quelle gigantesche mura di cemento, simili a una fortezza sulla
collina, un tagliatore di canne che avesse conoscenze poteva trovare lavoro. Luke e Arne si
mantennero in forma ammonticchiando sacchi di zucchero e nuotando o facendo il surf nelle ore
libere.
Lasciata a Dungloe con i Mueller, Meggie sudò per tutta «la piovosa», come veniva chiamata la
stagione dei monsoni. La stagione «asciutta» andava da marzo a novembre, e, in quella parte del
continente, non era precisamente asciutta, ma pur sempre paradisiaca in confronto alla «piovosa».
Durante «la piovosa», i cieli si spalancavano, né più né meno, e vomitavano acqua, non per tutto il
giorno, ma a intermittenza; e, tra un diluvio e l'altro, la terra fumigava, grandi nubi di vapori bianchi
si alzavano dalle canne, dal suolo, dalla giungla, dalle montagne.
Man mano che il tempo passava, Meggie desiderava sempre e sempre più una casa. Il Queensland
del Nord, ormai lo sapeva, non avrebbe mai potuto fare per lei. In primo luogo, il clima non le si
confaceva, forse perché aveva trascorso quasi tutta la vita in regioni asciutte; e poi, odiava la
solitudine, l'ostilità, quella sensazione di sordo letargo. Odiava la prolificità degli insetti e dei rettili,
che tramutava ogni notte in un cimento contro rospi giganteschi, tarantole, scarafaggi, topi; niente
sembrava riuscire a escluderli dalla casa, e lei ne era terrorizzata. Erano così enormi, così
aggressivi, così famelici. Ma, più di ogni altra cosa, odiava il dunny, che nel gergo locale non
soltanto significava «latrina», ma era altresì il diminutivo di Dungloe, con somma gioia del
popolino, il quale seguitava a scherzare con doppi sensi volgari. Comunque, un dunny di Dunny ti
faceva rivoltare lo stomaco per lo schifo; infatti, a causa del clima soffocante, le buche nel terreno
erano fuori questione, perché potevano causare epidemie di tifo e di altre infezioni intestinali.
Invece di essere una buca nel terreno, un dunny di Dunny era una latta incatramata che puzzava e,
riempiendosi, finiva con il brulicare di vermi e larve disgustose. Una volta alla settimana, la latta
veniva tolta e sostituita con un'altra vuota, ma una volta alla settimana era troppo poco.
L'anima stessa di Meggie si ribellava contro la noncurante rassegnazione locale a queste cose, che
venivano considerate normali; anche un'intera esistenza trascorsa nel Queensland del Nord non
sarebbe riuscita a riconciliarla con esse. Eppure, sgomenta, lei si diceva che probabilmente avrebbe
dovuto aspettare una vita, o almeno fino a quando Luke non fosse stato troppo anziano per
continuare a tagliare canne da zucchero. Ma per quanto anelasse a Drogheda e la sognasse, era
troppo orgogliosa per indursi a confessare alla famiglia che suo marito la trascurava; piuttosto che
ammettere una cosa simile, avrebbe accettato la condanna a vita, diceva a se stessa, quasi con
ferocia.
Passarono i mesi, passò un anno e il tempo continuò a scorrere, avvicinando il termine del secondo
anno. Soltanto la costante bontà dei Mueller riuscì a far sì che Meggie rimanesse a Himmelhoch,
tentando sempre di risolvere il proprio dilemma. Se avesse scritto a Bob, chiedendogli il denaro per
il viaggio di ritorno, lui glielo avrebbe spedito con un vaglia telegrafico, ma la povera Meggie non
sapeva decidersi a rivelare ai suoi che Luke la teneva senza un penny nella borsetta. Il giorno in cui
avesse rivelato questo, sarebbe stato il giorno in cui avrebbe lasciato Luke per non tornare mai più
con lui, e ancora non si era decisa a compiere un simile passo: il carattere sacro delle promesse
matrimoniali, la speranza di poter avere un giorno un bambino, la posizione di Luke come marito e
padrone del suo destino, tutto nell'educazione di lei congiurava per impedirle di abbandonarlo. Poi,
c'erano le cose che scaturivano dalla sua stessa indole: l'orgoglio caparbio e fiero, e il
convincimento tormentoso che la colpa di quella situazione fosse tanto sua quanto di Luke. Se non
ci fosse stato in lei qualcosa che non andava, lui si sarebbe comportato molto diversamente.
Lo aveva veduto sei volte nei diciotto mesi dell'esilio, e spesso, sebbene inconsapevole
dell'esistenza di un fenomeno come l'omosessualità, pensava che in realtà Luke avrebbe dovuto
sposare Arne, in quanto senza dubbio viveva con Arne e sembrava preferire la compagnia di Arne.
Erano diventati soci e vagabondavano avanti e indietro lungo i milleseicento chilometri di costa,
seguendo i tagli delle canne da zucchero, vivendo, a quanto pareva, soltanto per lavorare. E Luke,
quando si decideva a venirla a trovare, non tentava alcuna sorta di contatto intimo, si limitava a
starsene seduto per un'ora o due a conversare con Luddie e Anne, conduceva sua moglie a fare una
passeggiata, le dava un bacio amichevole, e ripartiva.
Loro tre, Luddie, Anne e Meggie, trascorrevano tutte le ore libere leggendo. A Himmelhoch esisteva
una libreria molto meglio fornita dei pochi scaffali di Drogheda, una libreria contenente volumi più
eruditi e di gran lunga più stimolanti, e Meggie, leggendo, imparò molte cose.
Una domenica di giugno del 1936, Luke e Arne arrivarono insieme, molto soddisfatti di se stessi.
Erano venuti, dissero, per far divertire Meggie: l'avrebbero portata a un ceilidh.
A differenza della tendenza generale dei vari gruppi etnici in Australia, quella di disperdersi e di
divenire prettamente australiani, le varie nazionalità nella penisola del Queensland del Nord
cercavano quasi ferocemente di conservare le rispettive tradizioni: i cinesi, gli italiani, i tedeschi, e
gli scozzesi-irlandesi erano i quattro gruppi che formavano il grosso della popolazione. E quando
gli scozzesi organizzavano un ceilidh, ogni scozzese nel raggio di chilometri e chilometri correva.
Con vivo stupore di Meggie, Luke e Arne indossavano gonnellini scozzesi, ed erano, pensò, quando
riuscì a respirare di nuovo, assolutamente magnifici. Niente è più virile, su un uomo virile, del
gonnellino, poiché esso oscilla con un fluente dondolare di pieghe sul dietro e rimane del tutto
immobile sul davanti, con la borsa coperta di pelo che serve di protezione all'inguine, e, sotto l'orlo
a metà ginocchio, robuste e belle gambe fasciate da calze quadrettate, e scarpe a fibbia. Faceva di
gran lunga troppo caldo per lo sciarpone di lana a scacchi e per il giubbetto; si erano accontentati di
camicie bianche, sbottonate sino a metà petto, con le maniche rimboccate sopra i gomiti.
«Che cos'è un ceilidh?» domandò lei, mentre si avviavano.
«È una parola gaelica, vuol dire riunione, ballo.»
«Ma perché, in nome del Cielo, vi siete messi i gonnellini?»
«Non ci lascerebbero entrare se non li portassimo, e poi siamo molto conosciuti in tutti i ceilidh tra
Bris e Cairns.»
«Ah, sì, eh? Immagino che ci andiate spessissimo, perché altrimenti non ce lo vedo proprio Luke
spendere soldi per un gonnellino. Non è così, Arne?»
«Un uomo deve pure concedersi qualche distrazione» disse Luke, in tono lievemente difensivo.
Il ceilidh si svolgeva in un granaio, un tugurio che sembrava sul punto di crollare, nel bel mezzo
delle paludi di mangrovie suppuranti intorno alla foce del fiume Dungloe. Oh, che regione era mai
quella per i fetori! pensò Meggie in preda alla disperazione, con le narici frementi, aggredite da un
nuovo odore indescrivibilmente disgustoso. Melassa, muffa, latrine, e ora le mangrovie. Tutti i
putridi fetori della costa condensati in un unico puzzo.
Manco a dirlo, ogni uomo che arrivava indossava il gonnellino; man mano che entravano e si
guardavano attorno, Meggie capì quanto doveva sentirsi scialba la pavona quando veniva
abbacinata dalla vivida sfarzosità del maschio. Le donne rimanevano in ombra, quasi come se non
fossero esistite, un'impressione che continuò a intensificarsi con il trascorrere della serata.
I due suonatori di cornamusa dell'orchestrina, con gonnellini anche loro, stavano in piedi su una
pedana traballante in fondo allo stanzone e si esibivano in un'allegra danza scozzese, le zazzere
color sabbia, il sudore che colava a rivoletti sulle facce accese.
Alcune coppie stavano danzando, ma quasi tutto lo strepito sembrava provenire da un gruppo di
uomini che si passavano bicchieri contenenti senza dubbio whisky scozzese. Meggie venne sospinta
in un angolo insieme a numerose altre donne e si accontentò di restarsene lì a guardare affascinata.
Nessuna donna indossava il gonnellino del clan, perché le scozzesi in realtà non lo portano e si
limitano ad avvolgersi nello sciarpone, ma faceva troppo caldo per drappeggiarsi sulle spalle quel
tessuto pesante. Di conseguenza si limitavano tutte a indossare gli sciatti vestitucci di cotone del
Queensland settentrionale, che sfiguravano accanto ai gonnellini degli uomini. C'erano il rosso
acceso e il bianco del clan Menzies, gli allegri nero e giallo del clan MacMCLeod di Lewis, la
vivida complessità del clan Ogilvy, i bei rossi, grigi e neri del clan MacMCPherson. Luke indossava
il gonnellino del clan MacMCNeil, Arne quello del clan Sassenach. Meraviglioso!
Luke e Arne erano ovviamente molto noti e apprezzati. Quante volte avevano preso parte a quelle
riunioni senza di lei, allora? E come mai era saltato loro in mente di condurla lì quella sera? Sospirò
e si addossò alla parete.
Le altre donne la stavano adocchiando incuriosite, e osservavano soprattutto gli anelli che aveva
all'anulare; quanto a Luke e Arne, venivano fatti oggetto di molta ammirazione femminile, mentre
lei destava l'invidia delle donne. Mi domando che cosa penserebbero se gli dicessi che quel pezzo
d'uomo bruno, vale a dire mio marito, è venuto a trovarmi esattamente due volte negli ultimi otto
mesi e non si trova mai con me con l'idea di portarmi a letto. Ma guardali, i due amiconi, gli
altezzosi bellimbusti degli Highlands! E nessuno dei due è scozzese, si limitano a fingere di esserlo
perché sanno di avere un aspetto sensazionale con il gonnellino e amano trovarsi al centro
dell'attenzione. Oh, magnifica coppia di impostori! Siete troppo innamorati di voi stessi per sentire
la necessità di essere amati da qualcun altro.
A mezzanotte, le donne vennero relegate in piedi intorno alle pareti; i suonatori attaccarono «Caber
Feidh» e le danze serie cominciarono. Per tutto il resto della sua vita, ogni volta che avesse udito il
suono di una cornamusa, Meggie sarebbe stata riportata in quel granaio. Persino il turbinare di un
gonnellino avrebbe operato la magia; c'era quel fondersi sognante di suoni e di immagini, di vita e
di vivida vitalità, che crea ricordi così penetranti, così incantevoli, da non poter essere dimenticati
mai più.
Le spade incrociate vennero poste sul pavimento; due uomini con il gonnellino del clan
MacMCDonald di Sleat alzarono le braccia sopra il capo, agitarono le mani come ballerini classici,
e, con estrema gravità, come se in ultimo le spade dovessero essergli affondate nel petto,
cominciarono a saltellare con delicatezza tra le lame.
Un urlo acuto e stridulo lacerò le note briose e ondeggianti delle cornamuse e il motivo divenne
«Tutti i berretti blu al di là del confine», le spade furono brandite e ogni uomo nello stanzone prese
a danzare, mentre le braccia si intrecciavano e si scioglievano e i gonnellini turbinavano. Reels,
strathspeys, Higland flings; si esibirono in tutte le danze scozzesi, i piedi che tuonavano sul
pavimento di legno destando echi fra i travi del soffitto, le fibbie delle scarpe che rifulgevano; e
ogni volta che il ritmo cambiava, qualcuno gettava la testa all'indietro, lanciava quel grido stridulo e
ululato, e scatenava altre grida emesse da altre gole esuberanti. Mentre le donne stavano a guardare,
dimenticate.
Erano quasi le quattro del mattino quando il ceilidh terminò; fuori li aspettava non già l'aria
frizzante e gelida di Blair Atholl o di Skye, ma il torpore di una notte tropicale, con una luna grande
e greve che si trascinava tra le solitudini stellate del firmamento, mentre ovunque incombevano i
fetidi miasmi delle mangrovie. Eppure, mentre ripartivano sull'ansimante vetusta Ford di Arne,
l'ultima cosa udita da Meggie fu il lamento man mano più fioco di «Fiori della foresta», che
augurava buon ritorno a casa ai festanti.
A casa! Dov'era la casa?
«Be', ti sei divertita?» domandò Luke.
«Mi sarei divertita di più se avessi ballato di più» rispose lei.
«Cosa? A un ceilidh? Piantala, Meg! Soltanto gli uomini dovrebbero ballare, e quindi siamo stati
molto gentili con voi donne, facendovi fare qualche giro.»
«A me sembra che soltanto gli uomini facciano un monte di cose, soprattutto se sono piacevoli e
divertenti.»
«Be', allora scusami!» disse Luke, sostenuto. «Mi ero detto che avrebbe potuto farti piacere un po'
di distrazione, ecco perché ti ho portata con noi. Non ero mica obbligato, sai! E se non mi sei grata
non ti condurrò più con me.»
«Probabilmente, non avevi alcuna intenzione di farlo, del resto» ribatté Meggie. «Non ti piace
accogliermi nella tua vita. Ho imparato molte cose in queste ultime ore, ma non credo siano quelle
che tu intendevi insegnarmi. Sta diventando sempre più difficile ingannarmi, Luke. In effetti, sono
stufa di te, dell'esistenza che conduco, di tutto!»
«Sccc!» sibilò lui, scandalizzato. «Non siamo soli!»
«Allora vieni solo!» scattò lei. «Quando mai ho il modo di vederti da solo per più di pochi minuti?»
Arne fermò la macchina ai piedi della collina di Himmelhoch, sorridendo a Luke comprensivo.
«Va', compare» disse. «Accompagnala su; io ti aspetterò qui. Non ho fretta.»
«Parlo seriamente, Luke» disse Meggie, non appena Arne non poté più udirli. «Il tarlo rode, mi
senti? So di aver promesso di ubbidirti, ma tu hai promesso di amarmi e di aver cura di me, quindi
siamo entrambi bugiardi! Voglio tornare a casa mia, a Drogheda!»
Lui pensò alle duemila sterline all'anno e al fatto che non sarebbero più state depositate a suo nome.
«Oh, Meg!» disse, smarrito. «Ascolta, tesoro, non sarà per sempre, te lo prometto! E quest'estate ti
condurrò a Sydney con me, parola di un O'Neill! La zia di Arne ha un appartamento che si renderà
libero a casa sua, e potremo abitarci per tre mesi e spassarcela un mondo! Sopportami ancora per un
anno mentre taglierò canne, poi acquisteremo la proprietà e ci sistemeremo, eh?»
La luna gli illuminò la faccia; sembrava sincero, turbato, ansioso, pentito. E somigliava moltissimo
a Ralph de Bricassart.
Meggie si placò, perché continuava a volere i suoi figli. «Va bene» disse. «Ancora un anno. Ma
dovrai mantenere la promessa per quanto concerne Sydney, Luke, quindi ricordatene!»
12

Una volta al mese, Meggie scriveva doverosamente una lettera a Fee, a Bob e ai ragazzi, piena di
descrizioni del Queensland settentrionale, accuratamente allegra, senza mai accennare a una
qualsiasi divergenza tra lei e Luke. Ancora e sempre l'orgoglio. Per quanto ne sapevano a Drogheda,
i Mueller erano amici di Luke presso i quali lei si trovava a pensione, perché Luke viaggiava molto.
Il suo sincero affetto per la coppia traspariva da ogni parola che scriveva sul loro conto, per cui, a
Drogheda, nessuno si preoccupava. Si affliggevano soltanto perché lei non tornava mai a casa per
qualche giorno. Ma come avrebbe potuto dire che non aveva il denaro per il viaggio senza dir loro,
altresì, quale disastro fosse diventato il matrimonio con Luke?
Di tanto in tanto, trovava il coraggio di inserire una domanda casuale sul Vescovo Ralph e, ancor
più di rado, Bob ricordava di riferirle quel poco che veniva a sapere da Fee del Vescovo. Poi giunse
una lettera che parlava quasi soltanto di lui.
«È arrivato un giorno inaspettatamente, Meggie» diceva la lettera di Bob «con l'aria di essere un po'
sconvolto e giù di corda. Devo dire che è rimasto malissimo non trovandoti qui. Era furente perché
non gli avevamo detto di te e di Luke, ma quando Ma' ha spiegato che eri stata tu a fissarti di non
dirglielo, ha taciuto e non ha pronunciato più una sola parola. Ma mi è sembrato che tu gli mancassi
più di quanto avrebbe potuto mancargli uno qualsiasi di noi, e presumo che questo sia del tutto
naturale perché tu hai sempre passato più tempo con lui che con noi tutti, e, secondo me, continua a
considerarti la sua sorellina. Si aggirava per la casa come se stentasse a credere che tu non saresti
saltata fuori all'improvviso, pover'uomo. Non avevamo nemmeno fotografie da mostrargli, e, finché
lui non chiese di vederle non avevo nemmeno mai pensato quanto sia strano che non fosse stata
scattata nessuna fotografia alle tue nozze. Ha domandato se aspettassi un bambino, e ho risposto che
ritenevo di no. Non aspetti un bambino, vero, Meggie? Quanto tempo è passato da quando ti
maritasti? Quasi due anni? Dev'essere così, perché siamo in luglio. Il tempo vola, eh? Spero che tu
abbia presto bambini, perché, secondo me, il Vescovo sarebbe contento di saperlo. Volevo dargli il
tuo indirizzo, ma ha detto che non gli sarebbe servito perché andrà per qualche tempo ad Atene, in
Grecia, con l'Arcivescovo per il quale lavora. Ha un nome italiano lungo quattro metri, e non riesco
mai a ricordarlo. Pensa che viaggeranno in aereo! Perdinci! In ogni modo, quando ha saputo che tu
non ti trovavi a Drogheda e non avresti potuto tenergli compagnia, non si è trattenuto a lungo, si è
limitato a fare una o due galoppate, ha celebrato la Messa per noi ogni giorno, ed è ripartito sei
giorni dopo.»
Meggie posò la lettera. Ralph sapeva, sapeva! Finalmente sapeva. Che cosa aveva pensato, fino a
qual punto era stato addolorato dalla notizia? E perché l'aveva spinta a fare una cosa simile? La sua
situazione non era affatto migliorata. Lei non amava Luke, non lo avrebbe mai amato. Luke non era
altro che un surrogato, un uomo che poteva darle figli simili a quelli che avrebbe potuto avere con
Ralph de Bricassart. Oh, Dio, che disastro!
L'Arcivescovo Contini-Verchese preferì alloggiare in un albergo secolare piuttosto che
nell'appartamento offertogli in un palazzo della Chiesa ortodossa di Atene. La sua missione era
delicatissima e di una certa importanza; esistevano questioni in sospeso da tempo da discutere con i
più alti prelati della Chiesa ortodossa greca, in quanto il Vaticano aveva per l'ortodossia greca e
russa un affetto che non avrebbe mai potuto avere per il protestantesimo. In fin dei conti, le
ortodossie erano scismi, non eresie; i loro Vescovi, come quelli di Roma, si ricollegavano a San
Pietro con una linea ininterrotta.
L'Arcivescovo sapeva che la missione affidatagli era una sorta di esame diplomatico, un punto
d'appoggio per arrivare a più grandi cose a Roma. Una volta di più, la sua conoscenza delle lingue
aveva costituito un vantaggio, poiché era stata la capacità di parlare scorrevolmente il greco a far
pendere la bilancia a suo favore. Lo avevano fatto venire addirittura dall'Australia, ordinandogli di
viaggiare in aereo.
Ed era impensabile che partisse senza il Vescovo de Bricassart, poiché, con il trascorrere degli anni,
aveva finito con il fare sempre più conto su quell'uomo stupefacente. Un Mazarino, davvero un
Mazarino. Sua Eccellenza ammirava il Cardinale Mazarino assai più di quanto ammirasse il
Cardinale Richelieu, e, di conseguenza, il paragone equivaleva a un'altissima lode. Ralph era tutto
ciò che la Chiesa apprezzava nei suoi massimi esponenti. La sua teologia era conservatrice, e così
l'etica che professava; aveva un'intelligenza fulminea e sottile, il volto non tradiva nulla di ciò che
passava nei pensieri; e inoltre possedeva il dono squisito di sapere esattamente come rendersi
gradito a coloro che frequentava, li stimasse o li odiasse, andasse d'accordo con loro o no. Non era
un adulatore, era un diplomatico. Se l'attenzione delle gerarchie vaticane fosse stata richiamata
ripetutamente su di lui, avrebbe fatto senza dubbio carriera. E ciò non poteva non far piacere a Sua
Eccellenza Contini-Verchese, perché l'Arcivescovo non voleva perdere di vista Ralph de Bricassart.
Faceva molto caldo, ma il Vescovo Ralph gradiva l'aria secca di Atene dopo l'umidità di Sydney.
Camminando rapidamente, come sempre in stivali, calzoni al ginocchio e sottana, percorse a lunghi
passi la rampa che conduce all'Acropoli, attraverso i severi Propilei, accanto all'Eretteo, e ancora
più in alto fino al Partenone, e poi giù verso il muro più oltre.
Là, con il vento che gli scompigliava gli scuri riccioli, ormai leggermente brizzolati, intorno alle
orecchie, rimase in piedi e contemplò la bianca città fino alle vivide alture e al limpido Mare Egeo
dallo stupefacente colore acquamarina. Subito sotto di lui si trovava la Plaka, con i caffè sui tetti
delle case e le colonie di bohémiens, mentre da un lato un grande teatro lambiva la roccia. In
lontananza si vedevano colonne romane, forti di crociati e castelli veneziani, mai però una traccia
dei turchi. Che popolo straordinario, i greci. Odiavano a tal punto la razza dalla quale erano stati
governati per settecento anni che, una volta liberati, non avevano lasciato in piedi una sola moschea
o un solo minareto. E avevano origini così antiche, abbondavano di un così ricco retaggio! I
normanni erano barbari coperti di pelli d'animali quando Pericle rivestiva di marmi la sommità della
rocca; e Roma non era che un rozzo villaggio.
Soltanto adesso, a quasi diciottomila chilometri di distanza, Ralph riusciva a pensare a Meggie
senza aver voglia di piangere. Ciò nonostante, i monti lontani si offuscarono per un momento prima
che riuscisse a dominare la commozione. Come poteva incolparla, se era stato lui a dirle di
maritarsi? Aveva capito immediatamente perché Meggie era stata così decisa a non avvertirlo: non
voleva che conoscesse suo marito, né che entrasse a far parte della sua nuova vita. Naturalmente, in
cuor suo aveva supposto che, chiunque potesse sposare, sarebbe rimasta a Gillanbone, se non nella
stessa Drogheda; che avrebbe continuato a vivere ove la sapeva al sicuro, esente da preoccupazioni
e da pericoli. Ma ormai capiva come questa fosse l'ultima cosa che Meggie potesse desiderare. No,
aveva dovuto andarsene, e fino a quando lei e questo Luke O'Neill fossero rimasti insieme, non
sarebbe tornata. Bob diceva che stavano risparmiando per acquistare una proprietà nel Queensland
occidentale, e questa notizia era stata come il rintocco di una campana a morto. Meggie non
intendeva tornare mai più. Per lui, voleva essere morta.
Ma sei felice, Meggie? È buono tuo marito con te? Lo ami, questo Luke O'Neill? Che tipo di uomo
è, se hai voltato le spalle a me per lui? Che cos'ha di straordinario, un comune guardiano, per esserti
piaciuto più di Enoch Davies, o Liam O'Rourke, o Alastair MacMCqueen? Forse perché io non lo
conoscevo, perché io non potevo fare confronti? Lo hai fatto per torturare me, Meggie, per
vendicarti di me? Ma perché non ci sono figli? Che cosa ha in mente quell'uomo, per viaggiare
avanti e indietro nello Stato come un vagabondo, lasciandoti presso amici? Non ci si può stupire se
non hai avuto un bambino, non rimane con te abbastanza a lungo. Meggie, perché? Perché hai
sposato questo Luke O'Neill?
Voltatosi, scese dall'Acropoli e percorse le vie affollate di Atene. Indugiò nei mercati all'aperto
intorno a via Euripidou, affascinato dalla gente, dalle enormi ceste di kalamaria e di pesce che
puzzava al sole, dalle verdure, e dalle sgargianti pantofole appese l'una accanto all'altra. Le donne lo
divertivano, il loro spudorato e scoperto tubare con lui, il retaggio di una civiltà fondamentalmente
diversa dalla sua puritana. Se quella sfacciata ammirazione fosse stata lussuriosa (non gli venne in
mente alcun termine più efficace), lo avrebbe posto in grave imbarazzo! ma l'accettava nello spirito
con il quale era intesa, come un complimento alla sua straordinaria bellezza fisica.
L'albergo si trovava nella piazza Omonia, era molto lussuoso e carissimo. L'Arcivescovo Contini-
Verchese, seduto su una poltrona, accanto alle finestre che davano sul balcone, stava meditando;
quando il Vescovo Ralph entrò, voltò la testa e sorrise.
«Giusto in tempo, Ralph. Vorrei pregare.»
«Credevo che fosse già tutto deciso. Sono sorte improvvise complicazioni, Eccellenza?»
«Non di questo genere. Ho ricevuto oggi una lettera del Cardinale Monteverdi, che mi comunica i
desideri del Santo Padre.»
Il Vescovo Ralph sentì una tensione alle spalle, un curioso formicolio della pelle intorno alle
orecchie. «Mi dica.»
«Non appena i colloqui saranno terminati - e sono terminati - dovrò proseguire per Roma. Là
riceverò la berretta cardinalizia, e là continuerò il mio lavoro, alle dirette dipendenze di Sua
Santità.»
«Mentre io?»
«Lei diverrà l'Arcivescovo de Bricassart e tornerà in Australia a prendere il mio posto come Legato
pontificio.»
Il formicolio della pelle intorno alle orecchie si tramutò in un caldo rossore, la testa gli girò. Lui,
non italiano, Legato del Papa! Era inaudito! Oh, poteva starne certo, sarebbe ancora divenuto il
Cardinale de Bricassart!
«Naturalmente, prima dovrà far pratica e ricevere istruzioni a Roma. Ci vorranno circa sei mesi,
durante i quali io sarò al suo fianco per presentarla a coloro che mi onorano della loro amicizia.
Voglio farglieli conoscere, Ralph, perché giungerà il momento in cui la richiamerò per aiutarmi nel
mio lavoro al Vaticano.»
«Eccellenza, non potrò mai ringraziarla abbastanza! La devo soltanto a lei, questa grande
occasione.»
«Dio mi ha voluto abbastanza intelligente per capire quando un uomo è troppo capace per poter
essere lasciato nell'oscurità, Ralph! E ora inginocchiamoci e preghiamo. Dio è molto buono.»
Il rosario e il messale si trovavano sul tavolino lì accanto; il Vescovo Ralph prese il rosario con la
mano tremante e fece cadere il messale sul pavimento. Cadde aperto al centro. L'Arcivescovo, che
era più vicino, lo raccattò e guardò incuriosito la forma, sottile come carta velina e rossiccia, che era
stata un tempo una rosa.
«Ma è straordinario! Perché la conserva? È un ricordo di casa sua, o forse di sua madre?» Gli occhi,
che vedevano attraverso l'astuzia e la dissimulazione, lo stavano fissando, e mancava il tempo di
mascherare la commozione, o l'apprensione.
«No.» Con un sorriso simile a una smorfia. «Non mi occorrono ricordi di mia madre.»
«Ma questa rosa deve avere una grande importanza per lei, se la conserva tanto affettuosamente tra
le pagine del libro che le è più caro. Che cosa le dice?»
«Parla di un amore puro come quello che ho per Dio, Vittorio. Può soltanto onorare il libro.»
«Questo lo avevo arguito, perché la conosco. Ma l'amore, pone forse in pericolo quello per la
Chiesa?»
«No, per la Chiesa l'ho abbandonata, e sempre l'abbandonerò. Sono andato così lontano al di là di
lei, non potrò tornare indietro mai più.»
«Così mi spiego finalmente la sua tristezza! Caro Ralph, non è penoso come crede, non lo è
davvero. Lei nella vita farà un gran bene a molte persone, sarà amato da molte persone. E la
ragazza, avendo l'amore contenuto in un ricordo fragrante come questo, non ne sentirà mai la
mancanza. Perché lei ha conservato l'amore insieme alla rosa.»
«Credo che non lo capisca affatto.»
«Oh, sì. Se l'ha amata in questo modo, allora non può non essere abbastanza donna per capire.
Altrimenti lei l'avrebbe dimenticata e da un pezzo si sarebbe liberato di questa reliquia.»
«Vi sono stati momenti in cui soltanto ore e ore trascorse in ginocchio mi hanno impedito di
abbandonare il mio posto, di tornare da lei.»
L'Arcivescovo si sollevò dalla poltrona e andò a inginocchiarsi accanto all'amico, quell'uomo
splendido che amava come aveva amato poche cose oltre al Dio e alla Chiesa per lui indivisibili.
«Non se ne andrà, Ralph, e lo sa bene. Appartiene alla Chiesa, sempre le è appartenuto e sempre le
apparterrà. La sua vocazione è autentica. Ora pregheremo, e io aggiungerò la Rosa alle mie
preghiere, per tutta la vita. Il buon Dio ci manda molti dolori e molte sofferenze nel cammino verso
la vita eterna. Dobbiamo imparare a sopportarle, io quanto lei.»
Alla fine di agosto, Meggie ricevette una lettera di Luke nella quale le diceva di essere ricoverato
nell'ospedale di Townsville con il morbo di Weil; ma non correva alcun pericolo e presto sarebbe
stato dimesso.
«Sembra dunque che non dobbiamo aspettare il termine dell'anno per prenderci una vacanza, Meg.
Non posso ricominciare a tagliar canne da zucchero finché non sarò guarito al cento per cento, e il
modo migliore di guarire consiste nel concedermi una vera vacanza. Di conseguenza, passerò a
prenderti tra circa una settimana. Andremo al lago Eacham, sul pianoro Atherton, per un paio di
settimane, finché non mi sarò ristabilito abbastanza per rimettermi al lavoro.»
Meggie stentò a crederlo, e non capì se desiderasse o no ritrovarsi con lui, ora che la possibilità si
presentava. Sebbene la sofferenza mentale avesse impiegato molto più tempo per guarire di quella
fisica, il ricordo dei cimenti della luna di miele nell'albergo di Dunny era stato respinto fuori dei
suoi pensieri per così lungo tempo da aver perduto la capacità di terrorizzarla; e, a furia di leggere,
aveva capito meglio, ormai, che gran parte di quegli inconvenienti era stata causata dall'ignoranza,
la sua e quella di Luke. Oh, buon Dio, ti prego, fa' che questa vacanza ci porti un bambino! Se
soltanto avesse potuto avere un bambino da amare, tutto sarebbe stato più facile. Ad Anne non
sarebbe dispiaciuto un bambino per casa, ne sarebbe stata felice. Ed era così anche per Luddie.
Cento volte glielo avevano detto, sperando che Luke si trattenesse almeno una volta abbastanza a
lungo per cambiare la vita vuota e senza affetti di sua moglie.
Quando riferì loro il contenuto della lettera ne furono lietissimi, ma, pur senza dirglielo, rimasero
scettici.
«Come è certo che le uova sono uova, quel miserabile troverà qualche pretesto per partire senza di
lei» disse Anne a Luddie.
Luke si era fatto prestare chissà dove un'automobile, e passò a prendere Meggie nelle prime ore del
mattino. Era magro, rugoso e giallognolo come se fosse stato messo sottaceto. Spaventata, Meggie
gli passò la valigia e salì accanto a lui.
«Che cos'è il morbo di Weil, Luke? Hai detto che non correvi alcun pericolo, ma a me sembra che tu
sia stato molto grave.»
«Oh, è soltanto una specie di itterizia che quasi tutti i tagliatori di canne da zucchero si beccano
prima o poi. La trasmettono i topi delle canne e ce la buschiamo attraverso un taglio o una ferita. Mi
sento in forma, quindi non sono stato tanto gravemente malato come certi altri che l'hanno presa. I
medicastri dicono che quanto prima sarò di nuovo sano come un pesce.»
Quando ebbero risalito una grande gola invasa dalla giungla, la strada li condusse nell'entroterra; un
fiume gonfio tuonava e scrosciava più in basso e a un certo punto una magnifica cascata si riversava
dall'alto, proprio al di sopra della strada. Passarono tra il dirupo e l'obliquo getto d'acqua, sotto un
arco bagnato, scintillante di luci e ombre fantastiche. E, man mano che salivano, l'aria diventava
fresca, squisitamente fredda. Meggie aveva dimenticato quanto le giovasse l'aria frizzante. La
giungla si protendeva verso di loro, così impenetrabile che nessuno osava mai avventurarvisi. Per la
massima parte rimaneva invisibile sotto la massa dei rampicanti ricchi di foglie che festonavano gli
alberi, dall'una all'altra chioma, ininterrotti, come uno sconfinato drappo di verde velluto disteso
sulla foresta. Sotto quelle gronde vegetali, Meggie intravedeva splendidi fiori e farfalle
meravigliose, ragnatele simili a ruote di carro, con grossi ed eleganti ragni maculati immobili al
centro, funghi favolosi che invadevano i tronchi rivestiti di muschio, uccelli dalle lunghe code,
come strascichi rossi o fulvi.
Il lago Eacham si trovava nel punto più alto del pianoro, idillico in quell'ambiente intatto. Prima che
scendesse la notte, uscirono sulla terrazza della loro pensione, per contemplare l'immota distesa
d'acqua. Meggie voleva vedere gli enormi pipistrelli fruttivori chiamati volpi volanti scendere
ruotando, come precursori del giorno del giudizio, e dirigersi a migliaia verso i luoghi ove
trovavano il cibo. Erano mostruosi e ripugnanti, ma stranamente pavidi e del tutto inoffensivi.
Vederli sopraggiungere nel cielo di metallo fuso, a stormi compatti e pulsanti, era uno spettacolo
imponente. Meggie non si lasciava mai sfuggire l'occasione di osservarli dalla veranda di
Himmelhoch.
E fu un paradiso affondare in un letto soffice e fresco, senza dover giacere immobili fino ad aver
impregnato le lenzuola di sudore, per poi spostarsi con cautela in un altro punto, sapendo che quello
di prima non si sarebbe mai asciugato. Luke tolse dalla valigia un pacchetto piatto, marrone, ne
tolse una manciata di piccoli oggetti rotondi e li dispose in fila sul comodino.
Meggie si sporse per prenderne uno ed esaminarlo. «Che cos'è, in nome del Cielo?» domandò.
«Un preservativo.» Aveva dimenticato la sua decisione di due anni prima, la decisione di non dirle
che si serviva di contraccettivi. «Me li metto prima di penetrarti. Altrimenti potrei seminare un
bambino, e non possiamo permettercelo finché non avremo un posto nostro.» Sedeva nudo sulla
sponda del letto, ed era magro, con le costole e le anche sporgenti. Ma i suoi occhi azzurri
splendettero quando si sporse ad afferrarle la mano che stringeva il preservativo. «Ci siamo quasi,
Meg, manca poco! Credo che con altre cinquemila sterline potremo acquistare la più bella proprietà
esistente a ovest di Charters Towers.»
«Allora è come se tu l'avessi già» disse lei, in un tono di voce molto calmo. «Posso scrivere al
Vescovo de Bricassart e chiedergli la somma in prestito. Non ci farà pagare alcun interesse.»
«Nemmeno per sogno!» scattò Luke. «Maledizione, Meg, dov'è il tuo orgoglio? Lavoreremo per
avere quello che sarà nostro, non chiederemo prestiti! Non ho mai dovuto un penny a nessuno per
tutta la vita, e non intendo cominciare adesso.»
Quasi non lo udì mentre lo fissava irosamente attraverso una bruma di un rosso scarlatto. In vita sua
non era mai stata così infuriata! Impostore, bugiardo, egoista! Come osava farle cose simili,
defraudarla di un figlio, cercare di farle credere che aveva tutte le intenzioni di diventare allevatore?
Aveva trovato la nicchia che faceva per lui, con Arne Swenson e le canne da zucchero.
Celando l'ira così abilmente da stupire se stessa, tornò a dedicare la propria attenzione al dischetto
di gomma che aveva in mano. «Parlami di questi cosi, di questi preservativi. Come possono
impedirmi di avere un bambino?»
Luke venne a mettersi in piedi dietro di lei e il contatto dei loro corpi la fece fremere; di eccitazione,
pensò lui; di disgusto, sapeva Meggie.
«Non sai proprio niente, Meg?»
«No» mentì. Ma stava dicendo la verità, almeno per quanto concerneva i preservativi; non ricordava
di averne mai letto nei libri.
Le mani di lui si trastullarono con i suoi seni, solleticandoli. «Vedi, quando vengo, spruzzo... non
so... una roba, e se mi trovo dentro di te senza nessuna protezione quella roba rimane là. Se ci resta
abbastanza a lungo, o abbastanza spesso, nasce un bambino.»
Sicché era così! Si infilava l'aggeggio, come una pelle su una salsiccia! L'impostore!
Spenta la luce, la tirò sul letto e, di lì a non molto, cercò brancolando il suo aggeggio antibambini:
lo udì causare gli stessi suoni che le erano riusciti incomprensibili nella camera da letto dell'albergo
di Dunny. Ora sapeva, però, che si stava mettendo il preservativo. L'imbroglione! Ma come aggirare
l'ostacolo?
Sforzandosi di non lasciargli capire quanto le facesse male, lo sopportò. Perché doveva essere così
doloroso, se si trattava di una cosa naturale?
«Non è piacevole, vero, Meg?» domandò lui, dopo. «Devi essere spaventosamente piccola se
continua a farti soffrire tanto, anche dopo la prima volta. Be', non ricomincerò. Non ti dispiace se lo
faccio sul tuo seno, vero?»
«Oh, che cosa importa?» disse stancamente. «Se vuoi dire che non stai per farmi male, per me va
bene!»
«Potresti anche essere un po' più entusiasta, Meg!»
«A quale scopo?»
Ma lui stava ricominciando a eccitarsi; erano due anni che non aveva più avuto tempo né energie
per queste cose. Oh, era piacevole trovarsi con una donna, sollazzarsi in modo eccitante e proibito.
Non si sentiva affatto sposato con Meg, la cosa non era diversa da una scopata nel recinto dietro la
taverna di Kynuna, o dal metterlo alla superba e altezzosa Miss Carmichael contro il muro del
capannone della tosatura. Meggie aveva bei seni, sodi a furia di cavalcare, proprio come piacevano
a lui, e francamente preferiva farsela tra le mammelle, perché gli piaceva la sensazione del proprio
pene non fasciato dal preservativo compresso entro le loro curve. I preservativi riducevano
parecchio la sensibilità di un uomo, ma non metterli quando glielo infilava significava andare in
cerca di guai.
Brancolando, esercitò una trazione sulle sue natiche e la fece sdraiare su di sé, poi prese tra i denti
un capezzolo e lo sentì gonfiarsi e indurirsi contro la lingua. Un grande disprezzo nei suoi riguardi
si era impadronito di Meggie; che creature ridicole erano gli uomini, grugnire e succhiare e
affaticarsi da matti per quel che ne ricavavano. Luke si stava eccitando di più, le brancicava la
schiena e le natiche, succhiava a più non posso, come un gattino troppo cresciuto che di nascosto
fosse tornato alla madre. Cominciò a muovere i fianchi in modo ritmico e sussultante e, sdraiata
goffamente su di lui, perché le riusciva troppo odioso tentare di aiutarlo, Meggie sentì la punta del
pene non protetto scivolarle tra le gambe.
Poiché non stava partecipando all'atto, era perfettamente padrona dei propri pensieri. E in quel
momento ebbe l'idea. Il più adagio e il più furtivamente possibile, lo manovrò in modo da piazzarlo
proprio contro la parte più dolente di se stessa; poi, traendo un gran respiro per farsi coraggio, a
denti stretti, si abbassò con violenza sul pene, facendolo penetrare. Ma, anche se le fece male, fu
una sofferenza assai più sopportabile. Senza la protezione di gomma, il membro era più scivoloso,
si introduceva più facilmente, ed ella lo tollerava assai meglio.
Luke aprì gli occhi, tentò di respingerla, ma oh, Dio! Era incredibile senza il preservativo; non
aveva mai posseduto una donna a pelle nuda, non si era mai reso conto dell'enorme differenza che
faceva. Era così vicino al momento culminante, talmente eccitato, che non seppe indursi a
respingerla con sufficiente energia, e, in ultimo, l'allacciò con le braccia, incapace di continuare a
trastullarsi con i seni. Sebbene non ritenesse virile gridare, non poté impedire che il grido gli
sfuggisse, e in seguito la baciò teneramente.
«Luke?»
«Cosa?»
«Perché non possiamo fare in questo modo ogni volta? Così non ti dovresti mettere il preservativo.»
«Non avremmo dovuto farlo nemmeno questa volta, Meg, figurarsi poi altre volte. Mi trovavo
proprio dentro di te, quando sono venuto.»
Meg si sporse su di lui, accarezzandogli il petto. «Ma non capisci? Ti sto seduta addosso! Non
rimane dentro affatto, scorre di nuovo fuori! Oh, Luke, ti prego! È molto più bello, così, non fa
quasi affatto male. Sono sicura che non ci sia pericolo, perché lo sento scorrere fuori. Ti prego!»
Quale essere umano a questo mondo avrebbe potuto resistere alla tentazione di un nuovo piacere
perfetto, offertogli in modo così plausibile? Come Adamo, Luke annuì perché, a questo punto, era
di gran lunga meno bene informato di Meggie.
«Presumo che ci sia del vero in quello che dici, e anche per me è più piacevole quando non opponi
resistenza. Va bene, Meg, d'ora in poi faremo così.»
E, nell'oscurità, sorrise, soddisfatta. Poiché non tutto lo sperma era uscito. Non appena aveva sentito
Luke afflosciarsi e uscire da lei, aveva irrigidito tutti i muscoli interni in un nodo, gli era scivolata
di dosso sdraiandosi supina, flettendo le ginocchia e accavallando le gambe con noncuranza,
trattenendo in sé ciò che era rimasto con ogni briciola della sua determinazione. Oh-oh, mio bel
gentiluomo, ti servirò io a dovere! Aspetta e vedrai, Luke O'Neill! Avrò un bambino, anche se
dovesse uccidermi!
Lontano dalla calura e dall'umidità della pianura costiera, Luke si ristabilì rapidamente. Poiché
mangiava bene, riguadagnò il peso perduto e la sua pelle si liberò del colore giallognolo e
malaticcio, tornando alla consueta abbronzatura. Con l'esca di una Meggie avida e docile nel
proprio letto, non fu difficile persuaderlo a protrarre le due settimane inizialmente previste, facendo
sì che divenissero dapprima tre, e poi quattro. Ma, dopo un mese, si ribellò. «Non ci sono più
giustificazioni, Meg. Sto di nuovo bene come prima. Rimaniamo qui in ozio sul tetto del mondo,
come un re e una regina, spendendo denaro. Arne ha bisogno di me.»
«Non vuoi proprio ripensarci, Luke? Se davvero tu volessi, potresti averlo subito, l'allevamento.»
«Andiamo avanti ancora un po' come adesso, Meg.»
Non voleva ammetterlo, naturalmente, ma aveva nel sangue il richiamo delle canne da zucchero, lo
strano fascino esercitato su certi uomini dalle fatiche che assorbono tutte le loro energie. Fino a
quando le sue forze di uomo giovane avessero retto, Luke sarebbe rimasto fedele alle canne. In una
sola cosa poteva sperare Meggie: costringerlo a cambiare idea dandogli un figlio, l'erede della
proprietà nei dintorni di Kynuna.
Così, tornò a Himmelhoch per aspettare e sperare. Dio, ti prego, ti prego, fa' che abbia un bambino!
Un bambino risolverebbe tutto, quindi, ti prego, fa' che nasca un bambino. E il bambino risultò
essere stato concepito. Quando lo disse a Anne e a Luddie, furono sopraffatti dalla gioia. Luddie, in
particolare, dimostrò di essere un tesoro. Preparò gli abitini più squisiti a punto smock e ricamati,
due arti nelle quali Meggie non aveva mai avuto il tempo di impratichirsi, e così, mentre lui infilava
un ago minuscolo in tessuti delicati, con le sue mani callose e magiche, Meggie aiutò Anne a
preparare la camera per il bambino.
Il solo guaio stava nel fatto che la gravidanza era difficile, e Meggie non avrebbe saputo dire se a
causa della calura o della sua infelicità. Le nausee mattutine si protraevano per tutto il giorno e
continuarono ancora a lungo dopo che sarebbero dovute cessare; sebbene fosse magra, cominciò a
soffrire molto a causa di un eccesso di liquido nei tessuti, e inoltre la pressione del sangue salì al
punto da mettere in apprensione il dottor Smith. Dapprima consigliò il ricovero nell'ospedale di
Cairns per il resto della gravidanza; ma, dopo aver riflettuto a lungo sulla situazione di lei, lontana
dal marito e senza amici, decise che si sarebbe trovata meglio con Luddie e con Anne, i quali le
erano così affezionati. Tuttavia, per le ultime tre settimane dalla gravidanza, sarebbe dovuta
assolutamente andare a Cairns.
«E cerchi di convincere il marito ad andare a trovarla!» urlò il medico a Luddie.
Meggie aveva scritto immediatamente per dire a Luke che era incinta, con la consueta persuasione
femminile che, il non-desiderato essendo divenuto una realtà irrefutabile, Luke si sarebbe lasciato
travolgere da un entusiasmo incontenibile. La sua lettera di risposta distrusse tutte queste illusioni.
Luke era furibondo. Per quanto lo concerneva, diventare padre significava soltanto che avrebbe
avuto due bocche inutili da sfamare, anziché nessuna. Fu una pillola amara da mandar giù, ma
Meggie la inghiottì; non poteva fare diversamente. Ormai il nascituro la legava a lui strettamente
quanto l'orgoglio.
Ma si sentiva indisposta, indifesa, del tutto priva di affetto; persino il bambino non l'amava, non
avrebbe voluto essere concepito o non voleva nascere. Sentiva entro di sé le proteste della
minuscola e debole creatura contro la necessità di venire al mondo. Se fosse riuscita a sopportare il
viaggio di tremiladuecento chilometri in ferrovia per tornare a casa, sarebbe partita, ma il dottor
Smith scosse recisamente la testa. «Si metta in treno per una settimana o più, sia pure a tappe, e
questa sarà la fine del bambino.» Per quanto delusa e infelice, Meggie non voleva fare
consapevolmente nulla che potesse nuocere alla sua creatura. Eppure, man mano che il tempo
passava, l'entusiasmo e la brama di avere un esserino suo da amare si avvizzivano in lei; il
bambino-incubo sembrava diventare più greve, più risentito.
Il dottor Smith disse che sarebbe dovuta andare a Cairns prima del previsto; non era certo che
Meggie potesse sopravvivere al parto a Dungloe, ove esisteva soltanto una piccola infermeria senza
personale medico interno. La pressione del sangue era recalcitrante, il fluido nei tessuti continuava
ad aumentare; parlò di tossiemia e di eclampsia, altri paroloni medici che spaventarono Anne e
Luddie e li indussero ad approvare, per quanto desiderassero veder nascere il bambino a
Himmelhoch.
Alla fine di maggio, mancavano appena quattro settimane al parto; quattro settimane prima che
Meggie potesse liberarsi del fardello intollerabile, dell'ingrato bambino. Stava cominciando a
odiarla, quella stessa creatura che aveva tanto desiderato prima di sapere quali sofferenze le sarebbe
costata. Perché aveva supposto che Luke desiderasse il bambino, una volta saputo come la sua
esistenza fosse divenuta una realtà? Nulla nell'atteggiamento o nel comportamento di lui, dopo il
matrimonio, lo aveva lasciato arguire.
Era ormai tempo che riconoscesse il disastro, che rinunciasse al suo stupido orgoglio e tentasse di
salvare il possibile dalle rovine. Si erano sposati per tutte le ragioni sbagliate: lui per il denaro, lei
per sottrarsi a Ralph de Bricassart, pur tentando di restare legata al sacerdote. Non era mai esistito
l'amore, tra loro, e soltanto l'amore avrebbe potuto aiutare Meggie e Luke a sormontare le enormi
difficoltà determinate dai loro diversi scopi e desideri.
Strano a dirsi, sembrava che non riuscisse mai a odiare Luke, mentre si sorprendeva sempre più
spesso a odiare Ralph de Bricassart. Eppure, tutto sommato, Ralph era stato di gran lunga più buono
e più leale con lei di Luke. Non una sola volta l'aveva incoraggiata a sognarlo in qualsiasi ruolo,
tranne quello del prete e dell'amico, poiché, anche nelle due occasioni in cui si erano baciati,
l'iniziativa era stata di Meggie.
Perché se la prendeva tanto con lui, allora? Perché odiava Ralph e non Luke? Avrebbe dovuto
piuttosto incolpare i propri timori e le proprie incapacità, l'enorme risentimento che provava perché
lui l'aveva sempre respinta mentre lei lo amava e lo desiderava tanto. E avrebbe dovuto incolpare lo
stupido impulso dal quale era stata indotta a sposare Luke O'Neill. Un tradimento di se stessa e di
Ralph. Non importava se non le sarebbe mai stato possibile sposarlo, dormire con lui, avere figli
suoi. Non importava se lui non la voleva e non l'aveva voluta. Restava il fatto che era lei a volere
Ralph, e non avrebbe mai dovuto accontentarsi di meno.
Ma, anche rendendosi conto dei propri torti, non poteva rimediare. Aveva pur sempre sposato Luke
O'Neill, ed era di Luke O'Neill il bambino nel suo ventre. Come avrebbe potuto essere felice
pensando al figlio di Luke O'Neill, se lui stesso non lo voleva? Povera creaturina. Per lo meno,
dopo la nascita, sarebbe stato un essere umano, e in quanto tale avrebbe potuto amarlo. Ma... che
cosa non avrebbe dato per avere un figlio di Ralph de Bricassart? Era impossibile, irrealizzabile.
Serviva un'istituzione che pretendeva tutto da lui, anche quella parte della quale non sapeva che
farsi, la sua virilità. Questo la Madre Chiesa richiedeva da lui come sacrificio al proprio potere in
quanto istituzione, e in tal modo lo sprecava, estirpava da lui il suo stesso essere, faceva in modo
che, quando si fosse fermato, sarebbe stato cancellato in eterno. Ma un giorno la Chiesa avrebbe
dovuto pagare per la propria avidità. Un giorno non vi sarebbero stati altri Ralph de Bricassart,
perché avrebbero apprezzato la propria virilità quanto bastava per rendersi conto che pretenderla, da
parte della Chiesa, era un sacrificio inutile, non aveva assolutamente alcun senso...
A un tratto Meggie si alzò e arrancò faticosamente nel soggiorno verso Anne, intenta a leggere una
copia clandestina del romanzo proibito di Norman Lindsay, Redheap, godendone assai palesemente
ogni parola vietata.
«Anne, credo che il tuo desiderio stia per essere esaudito.»
Anne alzò gli occhi distrattamente. «Come, cara?»
«Telefona al dottor Smith. Sto per avere questo misero bambino qui e subito.»
«Oh, Dio mio! Va' in camera da letto e coricati... non nella tua camera da letto, nella nostra!»
Maledicendo i capricci del fato e la caparbietà dei bambini, il dottor Smith si affrettò a partire da
Dungloe con la sua scassata automobile; sul sedile posteriore si trovava la levatrice con il maggior
numero possibile di attrezzature infermieristiche.
«Ha avvertito il marito?» domandò a Anne, salendo di corsa gli scalini seguito dalla levatrice.
«Ho spedito un telegramma. Meggie è in camera mia; mi son detta che ci sarebbe stato più spazio.»
Zoppicando dietro il medico, Anne entrò nella camera da letto. Meggie giaceva con gli occhi
spalancati e non tradiva in alcun modo il dolore, se non con un occasionale movimento spasmodico
delle mani e un inarcarsi del corpo. Voltò la testa per sorridere a Anne, e Anne vide che aveva gli
occhi colmi di paura.
«Sono contenta di non essere andata a Cairns» disse Meggie. «Mia madre non si è mai fatta
ricoverare in ospedale per partorire, e Pa' disse una volta che aveva sofferto terribilmente per Hal.
Ma sopravvisse, e così sopravvivrò io. Noi donne Cleary siamo dure a morire.»
Erano trascorse alcune ore quando il dottore raggiunse Anne sulla veranda.
«È una faccenda lunga e dolorosa, per quel donnino. Il primo bambino nasce di rado con facilità,
ma questo non è nella posizione normale, e lei continua a spingere senza approdare a niente. Se si
trovasse a Cairns, avrebbero potuto sottoporla a un cesareo, ma qui neanche a parlarne. Dovrà
partorire per suo conto.»
«È in sé?»
«Oh, sì. È una piccola, prode creatura, non grida e non si lamenta. Le migliori di solito soffrono di
più, a parer mio. Continua a domandarmi se Ralph non è ancora arrivato e io devo mentirle
parlandole del Johnstone in piena. Ma suo marito non si chiama Luke?»
«Infatti.»
«Hmmmm! Be', forse chiede di questo Ralph, chiunque egli sia, perché il pensiero di Luke non le
dà alcun conforto, eh?»
«Luke è un bastardo.»
Anne si sporse, le mani appoggiate sulla ringhiera della veranda. Un tassì stava arrivando lungo la
strada di Dunny e aveva voltato su per il viale d'accesso di Himmelhoch. Con la sua vista acuta,
scorse un uomo dai capelli neri sul sedile posteriore, e si lasciò sfuggire un'esclamazione di sollievo
e di gioia.
«Non credo ai miei occhi, ma penso che Luke si sia ricordato finalmente di avere una moglie!»
«Sarà meglio che torni dalla partoriente e lasci a lei il compito di accoglierlo, Anne. Non dirò niente
a Meggie, nel caso non si trattasse del marito. Se è il marito, gli offra una tazza di tè e lasci i liquori
forti per dopo. Ne avrà bisogno.»
Il tassì si fermò. Non senza stupore di Anne, l'autista discese e aprì lo sportello al passeggero. Joe
Castiglione, il proprietario dell'unico tassì di Dunny, non era portato di solito a simili cortesie.
«Himmelhoch, Eccellenza» disse, inchinandosi profondamente.
Un uomo dalla lunga e fluente tonaca nera discese, aveva una fascia viola di raso intorno alla vita.
Quando si voltò, Anne credette, per un momento di stordito stupore, che Luke O'Neill volesse farle
uno scherzo. Poi vide che si trattava di un uomo molto diverso, di almeno dieci anni più anziano di
Luke. Dio mio! pensò, mentre la figura aggraziata saliva gli scalini due alla volta. È il più bell'uomo
che abbia mai veduto! Un Arcivescovo, nientemeno! Ma che cosa può volere, un Arcivescovo
cattolico, da due anziani luterani come Luddie e me?
«La signora Mueller?» domandò, sorridendole dall'alto della sua statura con occhi azzurri cortesi e
freddi. Come se avesse veduto molte cose per non vedere le quali sarebbe stato disposto a dare tutto
l'oro del mondo, e da molto tempo fosse riuscito a reprimere ogni sentimento.
«Sì, sono Anne Mueller.»
«Io sono l'Arcivescovo Ralph de Bricassart, il Legato di Sua Santità in Australia. Mi risulta che la
moglie di Luke O'Neill alloggia con lei.»
«Sì, signore.» Ralph? Ralph? Era quest'uomo Ralph?
«Sono un suo vecchissimo amico. Potrei parlarle, per favore?»
«Be', sono certa che ne sarebbe felicissima, Arcivescovo» - no, non era questo il modo giusto di
rivolgersi a lui, non si diceva Arcivescovo, si diceva Eccellenza, come Joe Castiglione - «in
circostanze più normali, ma in questo momento Meggie ha le doglie, e il parto si presenta
difficilissimo.»
Vide allora che egli non era riuscito affatto a reprimere i sentimenti, li aveva soltanto disciplinati
come cani abietti, scacciandoli nel fondo dei suoi pensieri. Aveva gli occhi così intensamente
azzurri che vi si sentì affogare, e quanto scorse in essi in quel momento la indusse a domandarsi
cosa fosse Meggie per lui, e cosa egli fosse per Meggie.
«Sapevo che era accaduto qualcosa! Già da un pezzo sentivo che qualcosa non andava, ma di
recente il cruccio era divenuto un'ossessione. Dovevo venire e vedere personalmente. La prego, mi
consenta di vederla! Se vuole un motivo, sono un sacerdote.»
Anne non aveva avuto alcuna intenzione di negarglielo. «Mi segua, Eccellenza, da questa parte,
prego.» E, mentre arrancava adagio tra i due bastoni, continuò a domandarsi: è pulita e in ordine la
casa? Ho spolverato? Ci siamo ricordati di gettar via quel cosciotto d'agnello andato a male, o c'è
dappertutto odore di carne putrida? Che razza di momento ha scelto, un uomo importante come
costui, per venire! Luddie, non toglierai mai quel grasso deretano dal trattore, decidendoti a
rientrare? Il ragazzo dovrebbe averti trovato da ore!
Il prelato passò accanto al dottor Smith e alla levatrice, come se non fossero esistiti, per cadere in
ginocchio accanto al letto e cercare la mano della partoriente.
«Meggie!»
Si districò dal sogno spaventoso nel quale era scivolata, indifferente a tutto, e vide il volto diletto
accanto al suo, i folti capelli neri ormai brizzolati alle tempie, le belle fattezze aristocratiche un
pochino più marcate, più pazienti, se possibile, e gli occhi azzurri che contemplavano i suoi con
amore e desiderio. Come aveva mai potuto confondere Luke con lui? Non esisteva nessuno che gli
somigliasse, non sarebbe mai esistito, per quanto la concerneva; e aveva tradito tutto ciò che
provava nei suoi riguardi! Luke era il lato opaco dello specchio; Ralph era splendido come il sole, e
altrettanto remoto. Oh, che bellezza vederlo!
«Ralph, aiutami» disse.
Le baciò la mano appassionatamente. Poi se la tenne contro la gota. «Sempre, Meggie, lo sai.»
«Prega per me e per il bambino. Se qualcuno può salvarci, quello sei tu. Sei molto più vicino di noi
a Dio. Nessuno ci vuole, nessuno ci ha mai voluti, nemmeno tu.»
«Dov'è Luke?»
«Non lo so, e non me ne importa.» Chiuse gli occhi e voltò la testa da un lato e dall'altro sul
guanciale, ma le dita tra le dita di lui stringevano forte, non volevano lasciarlo andare.
Poi il dottor Smith lo toccò sulla spalla. «Eccellenza, credo che dovrebbe uscire, adesso.»
«Se la sua vita dovesse essere in pericolo, mi chiamerà?»
«Immediatamente.»
Luddie era finalmente arrivato dai campi di canne da zucchero, frenetico non vedendo nessuno e
non osando entrare nella camera da letto.
«Anne, sta bene?» domandò mentre sua moglie usciva con l'Arcivescovo.
«Fino a ora sì. Il dottore non vuole impegnarsi, ma credo che speri. Luddie, abbiamo un ospite. Ti
presento l'Arcivescovo Ralph de Bricassart, un vecchio amico di Meggie.»
Più esperto della moglie, Luddie si piegò su un ginocchio e baciò l'anello sulla mano che gli venne
offerta. «Si accomodi, Eccellenza, parli con Anne. Io andrò a mettere sul fuoco il bricco per il tè.»
«Sicché, lei è Ralph» disse Anne, appoggiando i bastoni a un tavolino di bambù mentre il prelato le
sedeva di fronte, con le pieghe della tonaca che gli cadevano intorno e i lucidi stivali neri da
cavallerizzo chiaramente visibili, in quanto aveva accavallato le gambe. Un atteggiamento
effeminato per un uomo, ma si trattava di un sacerdote e pertanto la cosa non rivestiva molta
importanza; eppure, c'era in lui qualcosa di intensamente virile, gambe accavallate o no.
Probabilmente non era tanto anziano quanto lei lo aveva giudicato prima; forse nei primi anni della
quarantina. Che spreco, con un uomo così mirabilmente bello!
«Sì, sono Ralph.»
«Da quando le doglie sono cominciate, Meggie ha continuato a chiedere di qualcuno di nome
Ralph. Devo ammettere che ero interdetta. Non ricordo che abbia mai accennato a un Ralph prima
d'ora.»
«No, non avrebbe mai fatto il mio nome.»
«Come ha conosciuto Meggie? Da quanto tempo la conosce?»
Il prelato sorrise amaramente e unì le mani magre, bellissime, così da formare il tetto a sesto acuto
di una chiesa. «Conosco Meggie da quando aveva dieci anni ed era sbarcata soltanto da pochi
giorni, proveniente dalla Nuova Zelanda. Sarebbe l'assoluta verità dire che ho conosciuto Meggie
nelle alluvioni, negli incendi e nella carestia emotiva, nella morte e nella vita. Quanto abbiamo
dovuto sopportare! Meggie è lo specchio nel quale sono costretto a contemplare la mia condizione
mortale.»
«Lei l'ama!» Il tono di Anne era sorpreso.
«L'amerò sempre.»
«È una tragedia per entrambi.»
«Avevo sperato che lo fosse soltanto per me. Mi parli di lei, mi dica che cosa le è accaduto dopo il
matrimonio. Non la vedo da molti anni, e mi sono sempre preoccupato per lei.»
«Glielo dirò, ma soltanto dopo che sarà stato lei a parlarmi di Meggie. Oh, non mi riferisco a cose
personali, soltanto al genere di vita che conduceva prima di venire a Dunny. Non sappiamo
assolutamente niente, Luddie e io, tranne che risiedeva in qualche località nei pressi di Gillanbone.
Vogliamo sapere di più, perché l'amiamo molto. Ma non ha mai voluto dirci nulla... per orgoglio,
credo.»
Luddie portò un vassoio con tè e biscotti e sedette mentre il sacerdote dava loro un'idea di quella
che era stata la vita di Meggie prima del matrimonio con Luke.
«Non lo avrei mai supposto, nemmeno in un milione di anni! Pensare che Luke O'Neill ha avuto la
sfrontatezza di toglierla a tutto questo e di farla lavorare come cameriera! E la faccia tosta che la sua
paga di cameriera venisse versata sul suo conto in banca! Lo sa che la povera creatura non ha mai
avuto un penny nella borsetta, da spendere per sé, da quando si trova qui? Il Natale scorso, dissi a
Luddie di darle un premio in contanti, ma ormai aveva bisogno di tante di quelle cose che spese
tutto in un giorno, e da noi non ha mai voluto accettare altro.»
«Non compatisca Meggie per questo» disse l'Arcivescovo Ralph, con un tono di voce lievemente
aspro. «Non credo che compianga se stessa, e certo non perché non ha denaro. Il denaro le ha dato
ben poca felicità, in fin dei conti, no? Sa a chi rivolgersi, qualora non possa farne a meno. Io direi
che la manifesta indifferenza di Luke le ha fatto più male del non avere un penny. Mia povera
Meggie!»
Tra tutti e due, Anne e Luddie, descrissero quale era stata l'esistenza della giovane sposa, mentre
l'Arcivescovo de Bricassart, sempre con le mani unite, contemplava le belle fronde a ventaglio di un
palmizio, fuori. Non una sola volta un muscolo gli guizzò sulla faccia, o vi fu un mutamento nei
begli occhi assenti. Aveva imparato molte cose, da quando era segretario del Cardinale Contini-
Verchese.
Terminato il racconto, sospirò e volse lo sguardo verso le loro facce ansiose. «Bene, sembra che
dobbiamo aiutarla noi, poiché Luke non è disposto a farlo. Se Luke davvero non la vuole, Meggie si
troverebbe meglio qualora tornasse a Drogheda. So che loro non vogliono perderla, ma, nel suo
interesse, cerchino di persuaderla a tornare a casa. Da Sydney manderò un assegno per lei, così da
evitarle l'imbarazzo di chiedere denaro al fratello. Poi, una volta tornata a Drogheda, potrà dire ai
suoi quello che vorrà.» Sbirciò la porta della camera da letto e si agitò irrequieto. «Buon Dio, fa' che
il bambino nasca!»
Ma il parto ebbe luogo soltanto quasi ventiquattr'ore dopo, quando Meggie era quasi stata uccisa
dallo sfinimento e dalle sofferenze. Il dottor Smith le aveva somministrato abbondanti dosi di
laudano, essendo pur sempre quello il rimedio migliore, secondo il suo antiquato parere; Meggie
sembrava precipitare lungo spirali di incubi nei quali oscure cose entro di lei e fuori di lei
laceravano e dilaniavano, artigliavano e sputavano, ululavano e gemevano e gridavano. A volte, la
faccia di Ralph si metteva a fuoco per un momento fuggevole, poi scompariva di nuovo, travolta da
una marea di dolore; ma il ricordo di lui indugiava, e, finché lui vigilava, Meggie sapeva che né lei
né il bambino sarebbero morti.
Concedendosi una sosta - mentre la levatrice se la sbrigava da sola — per mandar giù un boccone e
un bicchierino di rum, e per accertarsi che nessuno dei suoi altri pazienti fosse così sconsiderato da
voler andare all'altro mondo, il dottor Smith ascoltò sul conto di Meggie tutto ciò che Anne e
Luddie ritennero opportuno dirgli.
«Ha ragione, Anne» osservò poi. «Tutto quell'andare a cavallo è probabilmente una delle ragioni
delle attuali difficoltà. L'abbandono della sella da amazzoni è stato un guaio per le donne che
devono cavalcare molto. L'altra posizione sviluppa muscoli controproducenti.»
«Credevo che queste fossero fisime da vecchie comari» osservò l'Arcivescovo, blando.
Il dottor Smith gli scoccò un'occhiata risentita. Non gli piacevano i sacerdoti cattolici, li riteneva
tutti quanti stupidi e ipocriti.
«La pensi come vuole» replicò. «Ma mi dica una cosa, Eccellenza: dovendo scegliere tra la vita di
Meggie e quella del bambino, che cosa suggerirebbe la sua coscienza?»
«La Chiesa è inflessibile su questo punto, dottore. Non si deve mai fare alcuna scelta. Il bambino
non può essere ucciso per salvare la madre, né si deve uccidere la madre per salvare il bambino.»
Poi ricambiò, altrettanto malignamente, il sorriso del dottor Smith. «Ma se si dovesse arrivare a
questo, dottore, non esiterei a dirle: salvi Meggie, e al diavolo il bambino.»
Il dottor Smith rimase a bocca aperta, poi rise e gli batté la mano sulla schiena. «Bravo! Stia
tranquillo, non riferirò a nessuno quello che ha detto. Fino a ora, però, il bambino è vivo e non vedo
a che cosa gioverebbe ucciderlo.»
Ma Anne stava pensando tra sé e sé: mi domando che cosa avrebbe risposto, Arcivescovo, se il
bambino fosse stato suo.
Circa tre ore dopo, mentre il sole del pomeriggio malinconicamente scendeva verso la mole
nebulosa del monte Bartle Frere, il dottor Smith uscì dalla camera da letto.
«Bene, è finita» disse con una certa soddisfazione. «Meggie ha una strada lunga da fare, ma si
rimetterà, Dio volendo. Quanto al bambino, è una femminuccia pelle e ossa di due chili e tre etti,
con un gran testone ciondolante e un caratterino che si confà ai più velenosi capelli rossi ch'io abbia
mai veduto su un neonato. Non si riuscirebbe a farla fuori nemmeno con una scure, quella
creaturina, e io lo so perché ci ho quasi provato.»
Giubilante, Luddie sturò la bottiglia di champagne che aveva preparato, e tutti e cinque rimasero in
piedi con i bicchieri traboccanti; prete, medico, levatrice, proprietario terriero e invalida brindarono
alla salute e alla felicità della madre e della sua strillante e gracile creaturina. Era il primo giugno, il
primo giorno dell'inverno australiano.
Un'infermiera era arrivata per sostituire la levatrice, e si sarebbe trattenuta fino a quando Meggie
non fosse stata dichiarata completamente fuori pericolo. Il medico e la levatrice se ne andarono,
mentre Anne, Luddie e l'Arcivescovo entravano nella camera da letto per vedere la puerpera.
Sembrava così minuscola e sciupata, nel letto matrimoniale, che l'Arcivescovo Ralph fu costretto a
riporre un nuovo e diverso dolore nel subcosciente, per ripescarlo in seguito, esaminarlo e
sopportarlo. Meggie, mia dilaniata ed esausta Meggie... ti amerò sempre, ma non posso darti ciò che
ti ha dato Luke O'Neill, per quanto a malincuore.
La piagnucolante briciola di umanità responsabile di tutto questo giaceva in una culla di vimini
contro la parete opposta, del tutto indifferente alla loro attenzione mentre la circondavano e la
contemplavano. Strillò il suo risentimento e continuò a strillare. In ultimo, l'infermiera la sollevò,
culla compresa, e la portò nella stanza che era stata preparata per lei.
«I polmoni li ha sanissimi, senza dubbio.» L'Arcivescovo Ralph sorrise, sedette sulla sponda del
letto, e prese la mano di Meggie.
«Non credo che le piaccia molto la vita» disse lei, sorridendo a sua volta. Com'era invecchiato!
Sano e snello come sempre, ma incommensurabilmente più vecchio. Voltò la testa verso Anne e
Luddie e tese loro l'altra mano. «Miei cari, buoni amici! Come avrei fatto senza di voi? Avete avuto
notizie da Luke?»
«È arrivato un telegramma nel quale dice che è troppo occupato per poter venire, ma ti augura
buona fortuna.»
«È molto, da parte sua.»
Anne si chinò rapida a baciarle la gota. «Ora ti lasceremo a conversare con l'Arcivescovo, cara.
Sono certa che avrete molte cose da dirvi.» Appoggiandosi a Luddie, fece cenno all'infermiera, che
fissava a bocca aperta il prelato quasi stentasse a credere ai propri occhi. «Venga, Nettie, venga a
prendere una tazza di tè con noi. Se Meggie avrà bisogno di lei, Sua Eccellenza glielo farà sapere.»
«Come la chiamerai, la tua vociante figliola?» domandò Ralph, mentre la porta si chiudeva e
rimanevano soli.
«Justine.»
«È un nome bellissimo, ma perché lo hai scelto?»
«L'ho letto non so più dove e mi è piaciuto.»
«Non la vuoi, Meggie?»
Il viso le si era rimpicciolito e sembrava tutta occhi; erano morbidi e colmi di una luce nebulosa,
non di odio, ma nemmeno di amore. «Presumo di volerla. Sì, la voglio. Ho tramato abbastanza per
averla. Ma, mentre ero incinta di lei, non sentivo niente nei suoi riguardi, se non che era la bambina
a non volere me. Credo che Justine non sarà mai mia, né di Luke, né di nessun altro. Credo che
apparterrà sempre e soltanto a se stessa.»
«Devo andare, Meggie» disse con dolcezza.
Gli occhi divennero ora più duri, più luminosi; la bocca si contorse in una piega sgradevole. «Me lo
aspettavo! È buffo che gli uomini nella mia vita taglino tutti la corda, no?»
Ralph trasalì. «Non essere amareggiata, Meggie. Non sopporto di lasciarti così. In passato,
qualunque cosa potesse accaderti, conservavi sempre la tua dolcezza, ed è questa la cosa che trovo
più preziosa in te. Non cambiare, non diventare aspra per questo. Dev'essere terribile, lo so, pensare
che Luke è così indifferente da aver preferito non venire, ma non cambiare. Non saresti più la mia
Meggie.»
Eppure, continuò a fissarlo quasi come se lo odiasse. «Oh, finiscila, Ralph! Non sono la tua
Meggie! Non lo sono mai stata! Non mi hai voluta, mi hai mandata tu da lui, da Luke. Per chi mi
hai presa, per una specie di santa, o di monaca? Be', non lo sono! Sono una creatura umana
normale, e tu hai rovinato la mia esistenza! Per anni e anni ti ho amato, non ho desiderato altri che
te, e ti ho aspettato... ho fatto del mio meglio per dimenticarti, ma poi ho sposato un uomo che mi
sembrava somigliasse un poco a te, e anche lui non mi vuole, né ha bisogno di me. È troppo
chiedere a un uomo di essergli necessaria, di esserne desiderata?»
Cominciò a singhiozzare, poi si dominò; aveva sul viso rughe sottili di sofferenza che gli riuscivano
del tutto nuove; non erano, quelle, lo sapeva, rughe che il riposo e il ritorno della salute potessero
far scomparire.
«Luke non è un uomo malvagio, e non è nemmeno odioso» continuò. «È un uomo, semplicemente.
Siete tutti gli stessi, grosse falene pelose che si riducono in pezzi cercando di raggiungere una
stupida fiamma dietro un vetro così trasparente da impedire ai vostri occhi di scorgerlo. E, se
riuscite a penetrare al di là del vetro e a volare entro la fiamma, cadete bruciati e morti. Mentre
intanto, continuamente, fuori, nella notte fresca, ci sono cibo, e amore, e piccole falene da
possedere. Ma lo vedete tutto questo, lo volete? No! È sempre la fiamma ad attrarvi e battete contro
il vetro fino a tramortirvi, oppure morite bruciati!»
Non seppe che cosa dirle, perché questo era un aspetto di lei che non aveva mai veduto. Era sempre
esistito, o nasceva dalle sue terribili pene e dall'abbandono? Meggie, dire cose simili? Quasi non udì
quel che diceva, tanto era sconvolto sentendola parlare in quel modo, e, di conseguenza, non capì
che tutto scaturiva dalla sua solitudine e dal suo rimorso.
«Rammenti la rosa che mi desti la sera in cui partii da Drogheda?» le domandò con tenerezza.
«Sì, me ne rammento.» La vitalità era scomparsa dalla sua voce, la luce dura le si era spenta negli
occhi. Lo fissavano, ora, come un'anima senza speranze, inespressivi e vitrei quanto quelli di sua
madre.
«Ce l'ho ancora, nel messale. E ogni volta che vedo una rosa di quel colore penso a te. Ti amo,
Meggie. Tu sei la mia rosa, la più bella immagine umana e il più bel pensiero della mia vita.»
Di nuovo gli angoli della bocca di lei si incurvarono verso il basso, di nuovo negli occhi le
splendette quella ferocia tesa e brillante, con i riflessi dell'odio. «Un'immagine, un pensiero!
Un'immagine e un pensiero umani! Sì, è vero, io non sono altro per te! E tu non sei altro che uno
sciocco romantico sognatore, Ralph de Bricassart! Non hai idea di quello che è la vita più della
falena alla quale ti ho paragonato! Non ci si può stupire se sei diventato un sacerdote! Se tu fossi un
uomo come tutti gli altri, non sapresti affrontare gli aspetti normali della vita, non più di un uomo
mediocre come Luke!
«Dici di amarmi, ma non hai nemmeno la più pallida idea di cos'è l'amore; ti limiti a pronunciare
parole che hai imparato a memoria perché pensi abbiano un bel suono! Una cosa non riesco a
capire, perché voi uomini non siate riusciti a fare completamente a meno delle donne — come vi
piacerebbe, non è così? Dovreste escogitare un modo per sposarvi tra voi, e sareste divinamente
felici!»
«Meggie, non dire così! Ti prego, no!»
«Oh, vattene! Non voglio più vederti! E hai dimenticato una cosa, per quanto concerne le tue
preziose rose, Ralph... hanno pericolose spine a uncino!»
Uscì dalla stanza senza voltarsi.
Luke non si diede mai la pena di rispondere al telegramma con il quale lo avevano informato che
era l'orgoglioso padre di una bambina di due chili e tre etti a nome Justine. Pian piano, Meggie si
ristabilì e la bambina cominciò a prosperare. Forse, se avesse potuto allattarla, sarebbe riuscita a
stringere un rapporto più stretto con la gracile e irascibile creaturina, ma non aveva una sola goccia
di latte nei seni abbondanti che a Luke era tanto piaciuto succhiare. Questa è un'ironica giustizia,
pensava. Doverosamente, cambiava e sfamava con il biberon l'esserino dalla faccia rossa e dalla
testa rossa, così come imponevano le costumanze, aspettando sempre l'inizio di una qualche
emozione meravigliosa e dilagante. Ma non provava mai niente, non sentiva alcun desiderio di
coprire di baci il viso minuscolo, o di mordicchiare le piccole dita, o di fare una qualsiasi delle mille
sciocche cose che le madri amano fare con i loro bambini. La bambina non sembrava sua, e non
voleva la madre o non ne aveva bisogno, più di quanto ella la volesse. La bambina, la bambina!
Non ricordava nemmeno di chiamarla per nome.
Luddie e Anne non sospettavano neppure che Meggie non adorasse Justine, e che provasse per lei
meno di quanto avesse provato per uno qualsiasi dei suoi fratellini. Ogni volta che Justine piangeva,
Meggie si precipitava a prenderla in braccio, la cullava, e non era mai esistita bambina più asciutta e
meglio tenuta. Lo strano stava nel fatto che Justine sembrava non voler essere presa in braccio o
cullata; si acquietava molto più in fretta se veniva lasciata sola.
Man mano che il tempo passava, il suo aspetto migliorò. La pelle perdette il rossore e assunse
quella trasparenza venata di azzurro che si accompagna spesso ai capelli rossi; le piccole braccia e
le gambe si riempirono, divenendo piacevolmente grassocce. I capelli cominciarono ad arricciarsi e
a infoltirsi, e ad assumere, definitivamente, lo stesso colore acceso della zazzera del nonno Paddy.
Tutti aspettavano ansiosamente di vedere che colore avrebbero avuto gli occhi; Luddie
scommetteva che sarebbero stati azzurri come quelli del padre, Anne puntava sul grigio della madre,
Meggie non aveva opinioni. Ma gli occhi di Justine erano decisamente come i suoi, e snervanti, a
dir poco. Quando la bambina aveva sei settimane, cominciarono a cambiare, e, entro la nona
settimana, assunsero il colore e il taglio definitivi. Nessuno aveva mai veduto occhi come quelli.
Intorno all'orlo esterno dell'iride si trovava un cerchio di un grigio molto scuro; la descrizione
migliore che si potesse farne era una sorta di bianco scuro. Si trattava di occhi che sembravano
inchiodare e far sentire a disagio, occhi disumani, un po' come gli occhi di una cieca; ma, con il
trascorrere del tempo, divenne manifesto che Justine ci vedeva benissimo.
Sebbene non ne avesse parlato, il dottor Smith si era preoccupato a causa delle dimensioni della
testa della bambina alla nascita, e continuò a osservarla attentamente durante i primi sei mesi di
vita; si era domandato, specie dopo aver veduto quegli strani occhi, se per caso Justine non fosse
affetta dalla malattia che egli continuava a chiamare «acqua nel cervello», sebbene i moderni testi di
medicina la denominassero idrocefalia. Ma risultò poi che Justine non soffriva di alcun genere di
disfunzione o malformazione cerebrale, aveva semplicemente la testa molto grossa, e, crescendo, il
resto vi si adeguò, più o meno.
Luke continuava a non farsi vivo. Meggie gli aveva scritto ripetutamente, ma lui non rispondeva e
non veniva a conoscere sua figlia. In un certo senso, ne era lieta; non avrebbe saputo che dirgli e
riteneva che Luke non sarebbe rimasto affatto incantato dalla creaturina che era la sua figliola. Se
Justine fosse stata un maschio grosso e robusto, forse si sarebbe intenerito, ma Meggie era
ferocemente lieta che così non fosse. Justine costituiva la prova vivente del fatto che il grande Luke
O'Neill non era perfetto, poiché, se lo fosse stato, senza dubbio avrebbe generato soltanto maschi.
La bambina fioriva più di Meggie e si riprese più rapidamente dal trauma e dal cimento della
nascita. A quattro mesi, smise di piangere tanto e cominciò a divertirsi mentre giaceva nella culla,
trastullandosi con le file di palline colorate infilate alla sua portata e cercando di afferrarle. Ma non
sorrideva mai a nessuno, nemmeno sotto forma delle smorfiette da ruttino.
«La piovosa» cominciò presto, in ottobre, e fu una piovosa piovosissima. L'umidità aumentò fino al
cento per cento, e tale rimase; ogni giorno, per ore, la pioggia scrosciava e sferzava le piante intorno
a Himmelhoch, sciogliendo il suolo scarlatto, inzuppando le canne, colmando l'ampio e profondo
fiume Dungloe, ma senza farlo traboccare, perché il Dungloe aveva un corso così breve che le sue
acque si scaricavano in mare con sufficiente rapidità. Mentre Justine giaceva nella culla,
contemplando il mondo attraverso quei suoi strani occhi, Meggie, immobile e spenta, guardava il
Bartle Frere scomparire dietro un muro di fitta pioggia, e poi riapparire.
Il sole rispuntava e faceva sì che spirali di nebbia scaturissero dal terreno, le canne da zucchero
bagnate scintillavano e rifulgevano come prismi sfaccettati, e il fiume sembrava un grande serpente
dorato. Subito dopo, sospeso nella volta del cielo, si materializzava un duplice arcobaleno, perfetto
per tutta la lunghezza del suo arco, talmente ricco di colori, contro le nubi di un blu-scuro
imbronciato, da fare impallidire qualsiasi cosa tranne il paesaggio del Queensland del Nord. Ma
poiché quello era il Queensland del Nord, nulla veniva reso scialbo dall'etereo splendore e Meggie
credeva di capire perché le campagne di Gillanbone fossero così rossicce e grigie; il Queensland del
Nord aveva usurpato anche la loro parte della tavolozza.
Un giorno, ai primi di dicembre, Anne uscì sulla veranda e sedette accanto a Meggie, osservandola.
Come era dimagrita e spenta! Persino i bei capelli dorati sembravano opachi.
«Meggie, non so se ho sbagliato, ma ormai è fatta, e voglio che tu mi ascolti prima di dire no.»
Distolse lo sguardo dai due arcobaleni, sorridendo. «Hai un tono così solenne, Anne! Cos'è che
devo ascoltare?»
«Luddie e io siamo preoccupati per te. Non ti sei rimessa del tutto dopo la nascita di Justine, e ora
che siamo nella "piovosa", hai una cera ancor peggiore. Non ti nutrì abbastanza e stai dimagrendo.
Non ho mai pensato che questo clima ti si confacesse, ma fino a quando non è accaduto niente che ti
buttasse giù sei riuscita a farcela. Ora, però, riteniamo che tu sia indisposta e che, se non si correrà
ai ripari, finirai con l'ammalarti sul serio.»
Trasse un respiro. «Così, un paio di settimane fa, ho scritto a una mia amica dell'agenzia turistica e
ti ho prenotato una vacanza. E non cominciare a protestare a causa della spesa; non intaccherà le
risorse di Luke, né le nostre. L'Arcivescovo ci ha mandato un assegno per una somma molto ingente
destinata a te, e tuo fratello ne ha spedito un altro per te e la bambina... credo che intendesse
invitarti a tornare a casa per qualche tempo, da parte di tutti, a Drogheda. Dopo averne parlato,
Luddie e io abbiamo deciso che la cosa migliore da farsi consisterebbe nello spendere una parte
della somma per consentirti un periodo di vacanza. Non credo, però, che tornare a casa a Drogheda
sarebbe la vacanza ideale. Luddie e io riteniamo che tu abbia bisogno soprattutto di un periodo di
riflessione. Senza Justine, senza di noi, senza Luke, senza Drogheda. Hai mai vissuto sola, Meggie?
Sarebbe tempo che tu lo facessi. Così, ti abbiamo prenotato per due mesi un villino sull'isola
Matlock, dai primi di gennaio ai primi di marzo. Luddie e io baderemo a Justine. Sai bene che non
le accadrà niente, ma, se dovesse esserci il benché minimo inconveniente, ti avvertiremo
immediatamente; l'isola è collegata con la rete telefonica, e non ti occorrerebbe molto tempo per
tornare qui.»
Il doppio arcobaleno era scomparso, e così il sole; stava per piovere di nuovo.
«Anne, se non ci foste stati tu e Luddie, in questi ultimi tre anni, sarei impazzita. Lo sai bene. A
volte, di notte, mi sveglio domandandomi che cosa sarebbe stato di me se Luke mi avesse messa
con persone meno buone. Voi mi avete voluto più bene di Luke.»
«Sciocchezze! Se Luke ti avesse messa con persone meno comprensive, saresti tornata a Drogheda,
e chissà? Forse sarebbe stata la soluzione migliore.»
«No. Non è stata piacevole, questa faccenda con Luke, ma era di gran lunga meglio per me
rimanere qui e dimenticarmene lavorando.»
La pioggia stava cominciando ad avanzare sui campi di canne man mano più offuscati, cancellando
ogni cosa dietro il proprio margine, come una grigia mannaia.
«Hai ragione, non sto bene» continuò Meggie. «Non mi sono più sentita bene dopo il concepimento
di Justine. Ho cercato di tenermi su, ma si arriva a un punto, presumo, in cui manca l'energia per
continuare. Oh, Anne, sono così stanca e scoraggiata! Non so essere neppure una buona madre con
Justine, eppure le devo almeno questo. Sono stata io a farla nascere; non lo ha chiesto lei. Ma,
soprattutto, mi sento avvilita perché Luke non vuole nemmeno darmi la possibilità di renderlo
felice. Non vuole vivere con me, né consentirmi di creargli una casa. Non vuole figli. Io non lo
amo... non l'ho mai amato come una donna dovrebbe amare il proprio marito, e forse lui lo ha
intuito. Forse, se lo avessi amato, si sarebbe comportato diversamente. Come posso incolparlo?
Devo incolpare soltanto me stessa, credo.»
«Tu ami l'Arcivescovo, vero?»
«Oh, da quando ero una bimbetta! E sono stata dura con lui quando è venuto qui. Povero Ralph!
Non avevo alcun diritto di dirgli quello che gli ho detto, perché non mi ha mai incoraggiata, sai.
Spero che abbia avuto il tempo di rendersi conto che soffrivo, ed ero sfinita, e terribilmente infelice.
Riuscivo a pensare una sola cosa, che la bambina avrebbe dovuto appartenere a lui di diritto, e
invece non sarebbe stata mai sua, non avrebbe mai potuto esserlo. Non è giusto! I preti protestanti
possono ammogliarsi, perché i cattolici no? E non venire a dirmi che i pastori protestanti non si
curano del loro gregge quanto i sacerdoti cattolici, perché non ti crederei. Ho conosciuto sacerdoti
cattolici senza cuore e pastori protestanti meravigliosi. Ma, a causa del celibato dei preti, sono stata
costretta ad allontanarmi da Ralph, a farmi una famiglia e una vita con qualcun altro; ad avere la
figlia di un altro. E vuoi sapere una cosa, Anne? Questo è un peccato disgustoso quanto quello che
commetterebbe Ralph venendo meno ai voti o ancora di più. Detesto il principio della Chiesa
secondo il quale il fatto ch'io amo Ralph, o il fatto che egli ama me, è una colpa!»
«Allontanati per qualche tempo, Meggie. Riposati, mangia, dormi e smetti di crucciarti. Poi, forse,
al tuo ritorno, riuscirai in qualche modo a persuadere Luke ad acquistare l'allevamento, invece di
limitarsi a parlarne. So che non lo ami, ma, ne sono persuasa, se te ne desse anche soltanto una
mezza possibilità potresti essere felice con lui.»
Gli occhi grigi avevano lo stesso colore della pioggia che scrosciava compatta tutto attorno alla
casa; le due donne avevano alzato la voce sin quasi a gridare per potersi udire a vicenda nonostante
lo strepito incredibile sul tetto di lamiera.
«Ma il guaio è proprio questo, Anne! Quando Luke e io andammo ad Atherton, mi resi conto che lui
non avrebbe mai abbandonato le canne da zucchero finché fosse stato abbastanza forte per tagliarle.
Ama la vita, l'ama sul serio. Gli piace trovarsi con uomini forti e indipendenti come lui; gli piace
vagabondare da un posto all'altro. È sempre stato un vagabondo, ora che ci penso. E, quanto all'aver
bisogno di una donna per il suo piacere, se non per altro, è troppo spossato dalle fatiche. Inoltre...
come posso esprimermi? Luke è uno di quegli uomini che se ne infischiano se mangiano su una
cassa da imballaggio e dormono sul pavimento. Non lo capisci? Non si può far leva su di lui come
su un uomo che ama le cose belle, perché gli sono del tutto indifferenti. A volte penso che le
disprezzi addirittura. Tutto ciò che è bello e grazioso è effeminato e potrebbe fare di lui un
rammollito. Non ho assolutamente niente di allettante che mi permetta di strapparlo al suo attuale
modo di vivere.»
Sbirciò spazientita il tetto della veranda, come se si fosse stancata di gridare. «Non so se sarò forte
abbastanza per sopportare la solitudine di chi non ha una casa per i prossimi dieci o quindici anni,
Anne, o per tutto il tempo che occorrerà a Luke prima di sfiancarsi. È bello stare qui con voi; non
voglio che tu mi giudichi un'ingrata. Ma voglio una casa e una famiglia! Voglio che Justine abbia
fratelli e sorelle, voglio poter spolverare i miei mobili, voglio poter cucire tende da mettere alle mie
finestre, voglio poter cucinare sui miei fornelli, per il mio uomo. Oh, Anne! Io sono soltanto una
donna comunissima; non sono ambiziosa, né intelligente, né colta, lo sai bene. Voglio soltanto un
marito, dei figli, la mia casa. E un po' di amore da qualcuno!»
Anne prese il fazzoletto, si asciugò gli occhi e cercò di ridere. «Che sentimentali siamo noi due! Ma
ti capisco, Meggie, davvero. Sono sposata con Luddie da dieci anni, gli unici anni realmente felici
della mia vita. A cinque anni ebbi la paralisi infantile, e mi lasciò conciata così. Ero persuasa che
nessuno mi avrebbe mai degnata di uno sguardo. E infatti, Dio sa che fu così. Quando conobbi
Luddie, avevo trent'anni e insegnavo per vivere. Lui aveva dieci anni meno di me e pertanto non
potei prenderlo sul serio quando disse che mi amava e voleva sposarmi. Che cosa terribile, Meggie,
rovinare l'esistenza di un uomo giovanissimo! Per cinque anni, lo trattai con il peggiore sfoggio di
perfidia che tu possa immaginare, ma lui continuava a tornare per essere ancor più maltrattato. Così
lo sposai, e da allora sono stata felice. Luddie dice di esserlo, ma non ne sono tanto sicura. Ha
dovuto rinunciare a molte cose, compresi i figli, e ormai sembra più anziano di me, pover'uomo.»
«È la vita, Anne, e il clima.»
L'acquazzone cessò improvvisamente com'era cominciato, il sole si affacciò, gli arcobaleni
tornarono a risplendere con tutta la loro luminosità nel cielo fumigante, e il monte Bartle Frere
spuntò lilla tra le nubi.
Meggie riprese a parlare. «Partirò. Vi sono molto grata per averci pensato; probabilmente è quello
che mi occorre. Ma sei certa che Justine non vi peserà troppo?»
«Buon Dio, no! Luddie ha già predisposto ogni cosa. Anna Maria, la ragazza che lavorava qui con
me prima della tua venuta, ha una sorella minore, Annunziata, che vuole fare l'infermiera a
Townsville. Ma non compirà i sedici anni fino a marzo e terminerà le scuole tra pochi giorni. Così,
durante la tua assenza, verrà qui. Anche lei è un'esperta, come madre adottiva; ci sono orde di
bambini nel clan dei Tesoriero.»
«L'isola Matlock. Dove si trova?»
«Nelle immediate prossimità del canale Whitsunday, sulla Grande Barriera Corallina. È un luogo
molto tranquillo e solitario, frequentato, nella maggior parte dei casi, da coppie in luna di miele,
credo. Villini invece di un albergo... sai. Non dovrai andare a tavola in una sala da pranzo affollata,
né essere cortese con un mucchio di gente alla quale preferiresti magari non rivolgere la parola. E,
in questa stagione, l'isola è quasi deserta per il pericolo dei cicloni estivi. "La piovosa" non si fa
sentire, laggiù, eppure sembra che durante l'estate nessuno voglia recarsi sulla scogliera corallina.
Probabilmente perché quasi tutti quelli che ci vanno arrivano da Sydney o da Melbourne e l'estate,
laggiù, è splendida e non induce a partire. Ma, nei mesi di giugno, luglio e agosto, quelli del sud
prenotano con tre anni di anticipo.»
13

L'ultimo giorno del 1937, Meggie prese il treno diretto a Townsville. La vacanza non era ancora
cominciata, ma si sentiva già meglio perché si era lasciata alle spalle il fetore di melassa che
ammorbava Dunny. Il più grande centro abitato del Queensland settentrionale, Townsville, era una
prospera cittadina con alcune migliaia di abitanti che risiedevano in bianche case di legno poggiate
su pali. L'immediata coincidenza fra treno e battello non le lasciò il tempo di guardarsi attorno, ma,
in un certo senso, non le dispiacque doversi precipitare al molo senza avere il tempo di pensare;
dopo il viaggio spaventoso attraverso il mare di Tasmania, sedici anni prima, non affrontava con
piacere una traversata di trentasei ore su una nave molto più piccola della Vahiné.
Ma fu completamente diverso, uno scivolare bisbigliante su acque vitree, e ora aveva ventisei anni,
non dieci. Si trovavano nella calma di vento tra due cicloni, il mare era esausto; sebbene fosse
appena mezzogiorno, Meggie abbandonò il capo sul guanciale e dormì senza sogni finché un
cameriere di bordo non la destò, alle sei della mattina dopo, portandole una tazza di tè e un vassoio
di semplici biscotti.
Sul ponte si vedeva una nuova Australia, diversa una volta di più. Nel cielo sconfinato e limpido,
delicatamente incolore, una luminosità rosea e perlacea andava diffondendosi adagio verso l'alto
dall'orlo orientale dell'oceano, e, in ultimo, il sole spuntò all'orizzonte e la luce perdette il rossore da
poppante e si tramutò nel giorno. La nave fendeva silenziosa acque prive di colorazione accanto allo
scafo, talmente trasparenti da consentire allo sguardo di penetrare fino a grotte viola e di vedere le
sagome di vividi pesci saettar via. In lontananza, il mare era di un color verde-acquamarina,
chiazzato da macchie vino-scuro là ove alghe o coralli rivestivano il fondo, e da ogni parte
sembrava che le isole continuassero a crescere spontaneamente con palmizi sulle spiagge di sabbia
bianca brillante, simili a cristalli nella silice — isole fasciate dalla giungla e montuose, oppure
piatte e cespugliose, non molto più alte del livello dell'acqua.
«Quelle piatte sono le vere isole coralline» spiegò un uomo dell'equipaggio. «Se sono a forma di
anello e racchiudono una laguna, sono atolli, ma se sono semplicemente scogliere caotiche sorte dal
mare, si chiamano cay. Le isole montuose sono vere cime di montagne, ma anche quelle sono
circondate da scogliere coralline, con le lagune.»
«Dov'è l'isola Matlock?» domandò Meggie.
L'uomo la fissò incuriosito; una donna sola che andava in vacanza in un'isola come Matlock, fatta
per le coppie in luna di miele, sembrava una contraddizione in termini. «Stiamo attraversando
adesso il Passaggio Whitsunday, poi faremo rotta verso il bordo della scogliera che dà sul Pacifico.
Il lato di Matlock verso l'oceano è martellato dai grandi cavalloni che percorrono centinaia di
chilometri venendo dal profondo Pacifico, come treni, scrosciando tanto che uno non riesce a
pensare. Se lo immagina, cavalcare la stessa onda per quasi duecento chilometri?» Il marinaio
sospirò malinconicamente. «Arriveremo a Matlock prima del tramonto, signora.»
E, un'ora prima del tramonto, la piccola nave si aprì un varco beccheggiando attraverso il risucchio
della risacca la cui spuma si levava come una torreggiante parete di bruma nel cielo a oriente. Un
pontile che poggiava su esili pali tremava per ottocento metri attraverso una scogliera lasciata
scoperta dalla bassa marea, e, dietro, si scorgeva un'alta e frastagliata linea costiera, piuttosto
deludente per le aspettative di Meggie in fatto di splendori tropicali. Un uomo anziano l'aspettava,
l'aiutò a scendere dalla nave sul pontile e si fece consegnare le sue valigie da un marinaio.
«Piacere, signora O'Neill» la salutò. «Sono Rob Walter. Spero che suo marito possa trovare il tempo
di raggiungerla, nonostante tutto. Non troverà molta compagnia a Matlock, in questa stagione; non
è, in realtà, una località di soggiorno estiva.»
Percorsero insieme il pontile dalle assi malferme; il corallo lasciato allo scoperto dalla bassa marea
sembrava fuso nel sole morente, e il mare pauroso era tutto un tumulto di spuma cremisi.
«La marea è bassa, altrimenti il viaggio sarebbe stato più movimentato. Vede quella nebbia a est?
Quello è il margine della Grande Barriera Corallina. Qui a Matlock vi restiamo attaccati con i denti;
sentirà l'isola scuotersi continuamente sotto i colpi delle ondate.» La aiutò a salire su un'automobile.
«Questo è il lato sopravvento di Matlock... ha un aspetto un po' desertico e sgradevole, vero? Ma
aspetti di aver veduto il lato sottovento! È uno spettacolo, davvero.»
Partirono con la velocità noncurante che era logica da parte dell'unica automobile esistente a
Matlock, percorrendo una stretta strada di scricchiolante corallo, tra palmizi e un fitto sottobosco,
con un alto colle che si levava da un lato, a cinque o sei chilometri di distanza, sulla spina dorsale
dell'isola.
«Oh, come è bello!» esclamò Meggie.
Erano venuti a trovarsi su un'altra strada, che correva tutt'attorno alle curve spiagge sabbiose sul
lato della laguna, a forma di falce di luna. Molto lontano, si vedevano altre candide spume, là ove
l'oceano si frangeva con pizzi abbacinanti contro il margine esterno della scogliera; ma, al di qua
dell'abbraccio di corallo, l'acqua era placidamente immota, uno specchio di argento levigato, color
bronzo.
«L'isola è larga sei chilometri e mezzo e lunga circa tredici chilometri» spiegò la guida. Passarono
accanto a un edificio bianco, irregolare, con una veranda profonda e finestre simili a vetrine di
negozi. «L'emporio» disse l'uomo, con un gesto ampio, da proprietario. «Abito qui con mia moglie,
che non è troppo contenta dell'arrivo di una donna sola, posso anche dirglielo. Crede che mi lascerò
sedurre, così si è espressa. Per fortuna, l'agenzia ha detto che lei voleva una tranquillità e un silenzio
assoluti, e così mia moglie si è calmata un po' quando le ho assegnato il villino più lontano che
abbiamo. Non c'è anima viva da quelle parti; la sola coppia che si trova qui alloggia al lato opposto.
Potrà passeggiare anche nuda... e nessuno la vedrà. Mia moglie non mi perderà mai di vista finché
lei rimarrà qui. Quando avrà bisogno di qualcosa, dovrà soltanto alzare il ricevitore del telefono, e
io gliela porterò. Sarebbe assurdo venire a piedi sin qui. E, faccia o non faccia piacere a mia moglie,
passerò da lei una volta al giorno, al tramonto, tanto per accertarmi che stia bene. Meglio che a
quell'ora si faccia trovare nel villino... e sia decentemente vestita, nell'eventualità che la mia metà
voglia accompagnarmi.»
Di un solo piano, con tre stanze, il villino aveva la propria insenatura privata di spiaggia bianca, tra
due speroni della montagna che si gettavano in mare, e lì la strada terminava. L'interno era molto
semplice, ma comodo. Nell'isola esisteva un generatore elettrico, per cui nel villino si trovavano un
piccolo frigorifero, la luce elettrica, il telefono promesso, e persino una radio. Il water aveva lo
scarico, il bagno l'acqua corrente; più comodità moderne di quante ne esistessero a Drogheda o a
Himmelhoch, pensò Meggie, divertita. Facile capire che quasi tutti i frequentatori dell'isola
venivano da Sydney o da Melbourne, ed erano così assuefatti alla civiltà da non poterne più fare a
meno.
Rimasta sola mentre Rob tornava di corsa dalla sospettosa consorte, Meggie vuotò la valigia e
osservò il proprio regno. Il grande letto a due piazze era di gran lunga più morbido di quanto lo
fosse stato il suo letto matrimoniale. Ma, d'altro canto, quello era considerato un autentico paradiso
per le lune di miele e sembrava logico che i clienti pretendessero anzitutto un letto decente; i
frequentatori dell'albergo di Dunny erano di solito troppo ubriachi per protestare contro le molle che
uscivano dagli elastici. Trovò sia il frigorifero sia gli armadietti ben riforniti di provviste, e, sulla
credenza, vide un grande cestino colmo di banane, melograne, ananassi e manghi. Non c'era motivo
per cui non dovesse dormir bene, e mangiare altrettanto bene.
Nel corso della prima settimana, Meggie parve non fare altro che mangiare e dormire; non si era
resa conto di quanto fosse stanca e non aveva capito che era il clima di Dungloe a toglierle
l'appetito. Nel bellissimo letto dormiva appena si sdraiava, per dieci o dodici ore di fila, e il cibo
esercitava su di lei un richiamo che non aveva più avvertito dai tempi di Drogheda. Si sarebbe detto
che mangiasse in ogni momento, non appena si destava, e addirittura portava i manghi in bagno. A
dire il vero, una vasca da bagno sembrava essere il posto più logico in cui mangiare manghi, poiché
il loro succo colava dappertutto. Siccome la sua minuscola spiaggia si trovava all'interno della
laguna, il mare era liscio come uno specchio, del tutto esente da correnti e assai poco profondo.
Tutte cose che le facevano un gran piacere, perché non sapeva nuotare. Ma, in un'acqua tanto salsa
che sembrava quasi sostenerla, cominciò a fare esperimenti, e quando riusciva a stare a galla per
dieci secondi di seguito era felice. La sensazione di riuscire a liberarsi dall'attrazione della terra
faceva sì che anelasse a sapersi muovere con la stessa disinvoltura di un pesce.
E così, se pure la solitudine la infastidiva, questo accadeva soltanto perché le sarebbe piaciuto che
qualcuno le insegnasse a nuotare. A parte questo, star sola le sembrava meraviglioso. Quanto aveva
avuto ragione Anne! Sempre, per tutta la sua vita, c'era stata gente in casa. Non vedere nessuno le
dava un tale sollievo, era una fonte di tale serenità! Non si sentiva affatto sola; non le mancavano né
Anne, né Luddie, né Justine, né Luke, e inoltre, per la prima volta dopo tre anni, non anelò a
Drogheda. Il vecchio Rob non turbava mai la sua solitudine; si limitava ad avvicinarsi sulla strada
con l'automobile scoppiettante, ogni sera al tramonto, per accertarsi che i suoi cenni amichevoli di
saluto non fossero un segnale di soccorso, poi faceva l'inversione di marcia e ripartiva con la
consorte sorprendentemente graziosa che, torva, montava di guardia. Una volta telefonò per dirle
che avrebbe portato la coppia ospite dell'albergo a fare una gita sulla barca dal fondo di vetro;
voleva essere della partita?
Fu come aver comprato il biglietto d'ingresso a un pianeta del tutto nuovo, scrutare attraverso la
lastra di cristallo quel mondo brulicante e squisitamente fragile, ove forme delicate venivano
sostenute e fatte galleggiare dall'intimità affettuosa dell'acqua. Il corallo vivo, scoprì Meggie, non
era sfarzosamente tinto come sul banco dei souvenirs nell'emporio. Aveva morbide sfumature rosee,
o beige, o blu-grigie, e intorno a ogni protuberanza o diramazione ondulava un meraviglioso
arcobaleno di colori, simile a un'aura visibile. Grandi anemoni di mare, larghi trenta centimetri,
facevano fluttuare frange di tentacoli blu o rossi o arancione o viola; bivalvi bianchi e scanalati,
grandi come rocce, invitavano gli esploratori incauti a dare un'occhiata al loro interno, lasciando
intravedere la tentazione di cose colorate e in movimento di tra gli orli piumati; rossi ventagli di
pizzo si agitavano nei venti dell'acqua; nastri di alghe di un verde vivido danzavano liberi, alla
deriva. Non una delle quattro persone sulla barca si sarebbe minimamente stupita vedendo una
sirena, un balenare di seni levigati, il guizzante luccichio di una coda, nubi di capelli pigramente
fluttuanti, il sorriso seducente che incanta i marinai. Ma i pesci! Simili a gioielli viventi,
sfrecciavano a migliaia e migliaia, tondi come lanterne cinesi, affusolati come proiettili, ammantati
da colori che splendevano di vita e di quella qualità frazionatrice della luce dovuta alla presenza
dell'acqua, taluni incendiati da squame d'oro e scarlatte, taluni di un fresco e argenteo azzurro, taluni
simili a brandelli di stoffa più vistosi dei pappagalli. C'erano aguglie dal becco sottile come un ago,
pesci-rospo dal muso schiacciato, barracuda dai denti taglienti; celata entro una grotta sottomarina,
intravidero una cernia dalle fauci cavernose, e, a un certo momento, scorsero uno snello e grigio
squalo-nutrice che parve impiegare un'eternità per passare silenziosamente sotto di loro.
«Ma non si preoccupino» disse Rob. «Ci troviamo troppo a sud, qui, per i veri squali; sulla
scogliera, di pericoloso c'è solo il pesce-pietra. Non camminino mai sulle scogliere di corallo senza
le scarpe.»
Sì, Meggie fu lieta di essere andata. Ma non desiderò ripetere la gita, né fare amicizia con la coppia
accompagnata da Rob. Si immergeva in mare, e passeggiava, e restava sdraiata al sole. Strano a
dirsi, non sentiva neppure la mancanza di libri da leggere, perché c'era sempre qualcosa di
interessante da osservare.
Aveva seguito il consiglio di Rob e non si vestiva più. A tutta prima, tendeva a comportarsi come il
coniglio selvatico che fiuta zaffate di dingo nella brezza, e si precipitava al riparo udendo lo
schianto secco di una radice o il tonfo di una noce di cocco caduta da qualche palmizio, come un
colpo di cannone. Ma, dopo parecchi giorni di solitudine, cominciò a persuadersi che nessuno si
sarebbe avvicinato e che, davvero, come aveva detto Rob, quello era un regno assolutamente
privato. La timidezza sembrava sprecata. E percorrendo i sentieri, sdraiandosi sulla sabbia,
sguazzando nell'acqua tiepida e salata cominciò a sentirsi come un animale nato e cresciuto in
gabbia, che all'improvviso venga lasciato libero in un mondo mite, assolato, spazioso, accogliente.
Lontana da Fee, dai fratelli, da Luke, dal dominio spietato e sconsiderato al quale era stata
assoggettata per tutta la vita, Meggie scoprì il puro ozio; e un intero caleidoscopio di nuovi pensieri
intrecciò e sciolse ricami inediti nella sua mente. Per la prima volta in vita sua, non calava il proprio
io conscio in preoccupazioni di lavoro di qualche genere. Stupita, si rese conto che il lavoro fisico è
il blocco più efficace che gli esseri umani possano erigere contro l'attività esclusivamente mentale.
Anni prima, Padre Ralph le aveva domandato a che cosa pensasse, e la sua risposta era stata: «A
Pappi e a Ma', a Bob, a Jack, a Hughie, a Stu, ai gemelli, a Frank, a Drogheda, alla casa, al lavoro,
alle piogge.» Non aveva detto «a te», sebbene Ralph fosse sempre il primo dell'elenco. Ora
bisognava aggiungere Justine, Luke, Luddie e Anne, le canne da zucchero, la nostalgia di casa, le
piogge. E sempre, naturalmente, il sollievo, l'ancora di salvezza che trovava nei libri. Ma tutto era
accaduto e passato come un intrico confuso di ceppi e catene senza alcun rapporto tra loro; senza
alcun insegnamento, senza alcuna possibilità per lei di mettersi tranquillamente a sedere e di
riflettere, domandandosi chi fosse esattamente Meggie Cleary, Meggie O'Neill. Che cosa voleva?
Per quale ragione riteneva di essere venuta al mondo? Si affliggeva perché non era andata a scuola:
era un vuoto che non sarebbe mai riuscita a colmare, per quanto tempo potesse avere a sua
disposizione. Tuttavia, ora disponeva di un po' di tempo, ora godeva la tranquillità, la pigrizia di un
ozioso benessere fisico; poteva distendersi sulla sabbia e provare a pensare.
Bene, c'era Ralph. E rise ironicamente, con disperazione. Non era il punto giusto da cui cominciare,
ma, in un certo senso, Ralph era come Dio, tutto cominciava e finiva con lui. Dal giorno in cui si era
inginocchiato nel polveroso tramonto sulla piazza della stazione di Gilly per prenderle la mano tra
le sue, Ralph esisteva, e, anche se non lo avesse più riveduto fino all'ultimo dei suoi giorni,
sembrava probabile che l'estremo pensiero prima di scendere nella tomba sarebbe stato per lui.
Come era spaventoso che una sola persona potesse significare tanto, tante cose diverse.
Che cosa aveva detto a Anne? Che le sue necessità e i suoi desideri erano molto comuni... un
marito, figli, una casa sua. Qualcuno da amare. Sembrava che non fosse chiedere molto; in fin dei
conti, la maggior parte delle donne aveva tutto questo. Ma quante delle donne che lo avevano erano
realmente soddisfatte? Meggie pensava che lei lo sarebbe stata, soddisfatta, in quanto le era così
difficile averlo.
Rassegnati, Meggie Cleary. Meggie O'Neill. Il qualcuno che vuoi tu è Ralph de Bricassart, e non
puoi averlo. Eppure, come uomo, sembra che ti abbia rovinata per chiunque altro. Sta bene, allora.
Supponi di non poter avere né un uomo, né quel qualcuno che ami. Dovrai amare dei bambini, e
l'affetto che riceverai dovrà venirti da questi bambini. Il che, a sua volta, significa Luke, e i figli di
Luke.
Oh, buon Dio, buon Dio! No, non buon Dio! Che cosa ha mai fatto Dio per me, se non privarmi di
Ralph? Non siamo in rapporti molto buoni, Dio e io. E sai una cosa, Dio? Tu non mi fai più paura
come un tempo. Quanto Ti temevo! Quanto temevo il Tuo castigo! Per tutta la vita ho camminato
sul filo del rasoio, per paura di Te. E che cosa ho avuto in compenso? Non un briciolo di più di
quanto mi sarebbe toccato se avessi violato ogni Tuo comandamento. Sei un impostore, Dio, un
demone della paura. Ci tratti come bambini, facendoci penzolare davanti il castigo. Ma tu non mi
spaventi più. Perché dovrei odiare non già Ralph, ma Te. La colpa è tutta Tua, non del povero
Ralph. Ralph vive nella paura di Te, come ho sempre fatto io. E che Ralph abbia potuto amare Te è
una cosa incomprensibile. Non capisco che cosa ci sia in Te da amare.
Eppure, come posso smettere di amare un uomo che ama Dio? Per quanto ci provi, sembra che non
possa riuscirci. Ralph è la luna, e io sto piangendo per avere la luna. Bene, devi semplicemente
smettere di piangere per avere la luna, Meggie O'Neill, tutto si riduce a questo. Dovrai accontentarti
di Luke, e dei figli di Luke. Dovrai svezzare Luke, volente o nolente, dalle maledette canne da
zucchero, e vivere con lui ove non esistono nemmeno alberi. Dirai al direttore della banca di Gilly
che i tuoi futuri redditi dovranno essere accreditati a te e li spenderai per avere agi e comodità, gli
agi e le comodità che Luke non si sognerebbe mai di darti. Li spenderai per educare come si deve i
figli di Luke e accertarti che non gli manchi mai niente.
E non rimane altro da dire, Meggie O'Neill. Io sono Meggie O'Neill, non Meggie de Bricassart.
Suona persino ridicolo, Meggie de Bricassart. Dovrei farmi chiamare Meghann de Bricassart, e ho
sempre odiato il nome Meghann. Oh, la finirò mai di dolermi perché non saranno i figli di Ralph?
Questo è il punto, no? Dillo a te stessa, più e più volte. La tua vita appartiene a te, Meggie O'Neill, e
non la sciuperai sognando un uomo e figli che non potrai mai avere.
Ecco! Ecco quello che devi dire a te stessa! Inutile pensare a quello che è stato, a quello che deve
essere sepolto. Soltanto l'avvenire conta, e l'avvenire appartiene a Luke, ai figli di Luke. Non
appartiene a Ralph de Bricassart. Lui è il passato.
Meggie si rotolò sulla sabbia e pianse come non aveva più pianto dall'età di tre anni: alti gemiti, e
soltanto granchiolini e uccelli ad ascoltare la sua desolazione.
Anne Mueller aveva scelto deliberatamente l'isola Matlock, proponendosi di mandarvi Luke non
appena le fosse stato possibile. Subito dopo la partenza di Meggie, spedì un telegramma a Luke,
dicendogli che Meggie aveva disperatamente bisogno di lui, e pregandolo di venire. Per indole, non
era portata a intromettersi nella vita altrui, ma amava e compassionava Meggie, e adorava la
bisbetica, capricciosa creaturina che Meggie aveva partorito e Luke generato. Justine doveva avere
una casa, e avere entrambi i genitori. Sarebbe stato doloroso per lei vederla partire, ma questo era
pur sempre meglio della situazione attuale.
Luke arrivò due giorni dopo. Stava recandosi allo zuccherificio di Sydney, e pertanto quel
cambiamento di itinerario non gli avrebbe fatto perdere troppo tempo. Era ora che vedesse la
bambina; se si fosse trattato di un maschio, sarebbe venuto subito dopo la nascita, ma la notizia che
era una femmina lo aveva deluso moltissimo. Se proprio Meggie ci teneva tanto ad avere figli, che
almeno i marmocchi fossero in grado di mandare avanti, un giorno, l'allevamento di Kynuna. Le
femmine non servivano a un bel niente; si limitavano a mandare un uomo in miseria e, una volta
cresciute, se ne andavano e lavoravano per qualcun altro invece di restare, come i maschi, a dare
una mano al vecchio padre nei suoi ultimi anni.
«Come sta Meg?» domandò, salendo sulla veranda. «Non è malata, spero?»
«Spera? No, non è malata. Le spiegherò tutto tra un minuto. Ma prima venga a vedere la sua
bellissima bambina.»
Contemplò la piccola, divertito e interessato, ma non emotivamente commosso, parve a Anne.
«Ha gli occhi più strani che abbia mai visto» disse. «Mi domando di chi siano.»
«Meggie dice che, a quanto le risulta, non li ha nessuno nella sua famiglia.»
«Nemmeno nella mia. Chissà a quali antenati somiglia, questa buffa creaturina. Non ha l'aria molto
felice, vero?»
«Come potrebbe avere un'aria felice?» sbottò Anne, e, torva, si lasciò trasportare dall'ira. «Non ha
mai veduto suo padre, non ha una vera casa, e non è molto probabile che ce l'abbia prima di
crescere, se lei continuerà in questo modo!»
«Sto risparmiando, Anne!» protestò lui.
«Storie! So quanto denaro ha! Amici miei a Charters Towers mi spediscono il quotidiano locale, di
tanto in tanto, e così ho letto annunci di proprietà in vendita molto più vicine di Kynuna e di gran
lunga più fertili. Siamo in piena crisi economica, Luke! Lei potrebbe acquistare una bellezza di
allevamento per molto meno della somma che ha in banca, e lo sa benissimo!»
«Ma è proprio per questo! C'è la crisi, e a ovest delle montagne c'è stata una dannata, terribile
siccità, dal mese di giugno in poi. È il secondo anno che non piove affatto, nemmeno una goccia.
Scommetto che in questo momento ne risentono le conseguenze anche a Drogheda, immagini
dunque quale può essere la situazione dalle parti di Winton e di Blackall! No, credo proprio che
dovrò aspettare.»
«Aspettare che il prezzo della terra salga in una buona stagione piovosa? Suvvia, Luke! È questo il
momento di acquistare! Con le duemila sterline all'anno di Meggie garantite, potrà resistere anche
per una siccità di dieci anni! Si limiti a non allevare bestiame nella proprietà. Tiri avanti con le
duemila sterline annue di Meggie finché non verranno le piogge, e poi inizi l'allevamento.»
«Non sono ancora disposto a rinunciare alle canne da zucchero» disse lui, caparbio, sempre fissando
gli strani occhi chiari di sua figlia.
«E questa è la verità, finalmente, no? Perché non lo ammette, Luke? Lei non vuole condurre
l'esistenza di un uomo sposato; preferisce vivere come adesso, duramente, tra uomini,
ammazzandosi di fatica, né più né meno come ogni uomo australiano su due. Che cos'ha questo
fottuto paese, per cui gli uomini, qui, preferiscono stare con altri uomini invece di avere una vera
vita familiare, con la moglie e i figli? Se è la vita degli scapoli quello che vogliono realmente,
perché diavolo tentano il matrimonio, si può sapere? Lo sa quante mogli abbandonate ci sono nella
sola Dunny, poverette che vivono a stento e cercano di tirar su i figli senza il padre? Oh, sta
tagliando canne da zucchero, ma tornerà, sa, è solo questione di poco tempo. Ah! E a ogni
distribuzione della posta, aspettano il postino accanto al cancelletto di casa, sperando che il bastardo
mandi un po' di denaro. Ma quasi sempre non ricevono niente, e soltanto qualche volta qualche
soldo... non abbastanza, ma qualcosa per mandare avanti la baracca!»
Stava tremando di rabbia, i dolci occhi castani le balenavano. «Sa, ho letto nel Brisbane Mail che
l'Australia ha la più alta percentuale di mogli abbandonate in tutto il mondo civilizzato! La sola
cosa nella quale superiamo ogni altro paese... Non le sembra un primato del quale possiamo essere
fieri?»
«Ci vada piano, Anne! Io non ho abbandonato Meg. È al sicuro e non sta morendo di fame. Che
cosa le ha preso, Anne?»
«Sono stufa di come sta trattando sua moglie, ecco che cosa mi ha preso! Per amor di Dio, Luke,
cerchi di crescere, e si sobbarchi le sue responsabilità per qualche tempo! Ha moglie e una
bambina! Dovrebbe dar loro una casa... essere un marito e un padre, non un dannato estraneo!»
«Lo farò, lo farò! Ma per il momento non posso; devo continuare a tagliar canne da zucchero per un
altro paio di anni, così da sentirmi le spalle al sicuro. Non voglio dover dire che tiro avanti a spese
di Meg, come accadrebbe fino a quando le cose non andassero meglio.»
Anne scoprì i denti in una smorfia sprezzante. «Oh, balle! L'ha sposata per il suo denaro, no?»
Uno scuro rossore gli si diffuse a chiazze sulla faccia abbronzata. Ma non alzò gli occhi su di lei.
«Ammetto che il denaro mi ha influenzato, ma l'ho sposata perché mi piaceva più di tutte le altre.»
«Le piaceva! E quanto ad amarla?»
«Amore! Che cos'è l'amore? Soltanto una finzione della fantasia delle donne, ecco tutto.» Voltò le
spalle alla culla e a quegli occhi che lo turbavano, dubitando che una creaturina con occhi come
quelli non fosse in grado di capire quanto veniva detto. «E, se ha finito di farmi la predica, dov'è
Meg?»
«Non stava bene. L'ho allontanata di qui per qualche tempo. Oh, non si faccia prendere dal panico!
Non con il suo denaro. Speravo di poterla persuadere a raggiungerla, ma vedo che è impossibile.»
«È fuori questione. Arne e io ripartiamo per Sydney stanotte.»
«Che cosa dovrò dire a Meggie, quando tornerà?»
Luke fece spallucce, morendo dalla voglia di andarsene. «Mi è indifferente. Oh, le dica di
pazientare ancora per un po'. Ora che ha cominciato a restare incinta, non mi dispiacerebbe avere un
figlio maschio.»
Sostenendosi con un braccio contro la parete, Anne si chinò sulla culla di vimini e prese in braccio
la bambina, poi riuscì ad arrancare fino al letto e a sedervisi; Luke non accennò affatto ad aiutarla, o
a prendere la bambina; sembrava alquanto intimorito da sua figlia.
«Se ne vada, Luke! Lei non merita quello che ha. Sono stanca di vedermela davanti agli occhi.
Torni al suo dannato Arne, alle maledette canne da zucchero e al lavoro che spezza la schiena!»
Sulla soglia, si soffermò. «Com'è che l'ha chiamata? Ho dimenticato il nome.»
«Justine, Justine, Justine!»
«Un nome stupido, maledizione» disse lui, e uscì.
Anne mise Justine sul letto e scoppiò in lacrime. Dio maledica tutti gli uomini, tranne Luddie! Dio
li maledica! Era forse il lato tenero, sentimentale, quasi donnesco di Luddie, a renderlo capace di
amare? E Luke, per caso, aveva ragione? L'amore era soltanto una finzione della fantasia
femminile? O si trattava di qualcosa che potevano sentire soltanto le donne, o soltanto gli uomini
che rinchiudevano in sé una donna in germe? Nessuna donna sarebbe mai riuscita a trattenere Luke,
nessuna donna lo avrebbe mai legato a sé. Ciò che voleva, nessuna donna al mondo avrebbe potuto
darglielo.
Ma, il giorno dopo, si era calmata, e non pensava più di aver tentato invano. Era arrivata quel
mattino una cartolina illustrata di Meggie, che parlava con entusiasmo dell'isola Matlock e diceva
quanto si sentisse bene. Qualcosa di buono era stato ottenuto. Meggie cominciava a sentirsi meglio.
Sarebbe tornata una volta diminuito l'impeto dei monsoni, e avrebbe potuto affrontare la propria
vita. Anne però decise di non dirle di Luke.
E così Nancy, diminutivo di Annunziata, portò Justine sulla veranda, mentre Anne zoppicava con
tutto ciò che occorreva alla bambina entro un cestino tenuto tra i denti: pannolini di ricambio, il
borotalco, e giocattoli. Sedette su una poltroncina di canne, tolse la bambina a Nancy e cominciò ad
allattarla con il biberon pieno di Lactogen riscaldato da Nancy. Com'era piacevole, la vita era molto
piacevole; aveva fatto del suo meglio per aprire gli occhi a Luke, e, se non ci era riuscita, per lo
meno questo avrebbe significato che Meggie e Justine sarebbero rimaste a Himmelhoch ancora per
qualche tempo. Non dubitava affatto che, in ultimo, Meggie si sarebbe resa conto dell'impossibilità
di salvare il suo matrimonio e avrebbe fatto ritorno a Drogheda. Ma lei aveva paura di quel giorno.
Un'automobile sportiva inglese rossa uscì rombando dalla strada di Dunny e risalì il lungo viale
d'accesso sulla collina; era nuova e lussuosa, aveva la capote abbassata e fissata con cinghie di
cuoio, lo scappamento di acciaio inossidabile, e la vernice scarlatta risplendeva. Per qualche
momento non riconobbe l'uomo che volteggiò al di sopra del basso sportello, in quanto indossava la
tenuta del Queensland settentrionale, un paio di calzoncini e niente altro. Parola mia, è un gran
bell'uomo! pensò, osservandolo con apprezzamento, e un ricordo le guizzò nella mente mentre
saliva gli scalini due alla volta. Vorrei che Luddie non mangiasse tanto, un po' della snellezza di
costui gli gioverebbe. Ah, be', non si tratta di un giovincello... che meravigliose tempie argentee...
ma non ho mai visto un tagliatore di canne così in forma.
Poi, quando gli occhi placidi e remoti fissarono i suoi, lo riconobbe.
«Dio mio!» esclamò, e lasciò cadere il biberon.
Lo ricuperò, glielo diede, e si appoggiò alla ringhiera della veranda, voltato verso di lei. «Non si
preoccupi. La tettarella non ha toccato il pavimento; può continuare ad allattare la bambina.»
La piccola stava cominciando ad agitarsi. Anne le ficcò la tettarella in bocca e riuscì a ritrovare il
fiato sufficiente per parlare. «Ah, be', Eccellenza, questa sì che è una sorpresa!» Il suo sguardo
indugiò su di lui, divertito. «Devo dire che non ha precisamente l'aspetto di un Arcivescovo. Non
che lo abbia mai avuto, anche con la veste regolamentare. Immagino sempre che gli Arcivescovi di
qualsiasi confessione siano grassi e pieni di sé.»
«Per il momento non sono un Arcivescovo, ma soltanto un prete che si gode meritate vacanze,
quindi può chiamarmi Ralph. È stato questo esserino a causare tante sofferenze a Meggie, l'ultima
volta che fui qui? Posso prenderla io? Credo di riuscire a tenere il biberon con l'angolazione giusta.»
Sedette sulla poltroncina accanto a quella di Anne, prese bambina e biberon e continuò ad allattare,
le gambe accavallate con noncuranza.
«Meggie l'ha poi chiamata Justine?»
«Sì.»
«Mi piace. Buon Dio, guardi il colore dei capelli! Come quelli del nonno, in tutto e per tutto.»
«Dice così anche Meggie. Spero che alla povera creaturina non venga in seguito qualche milione di
lentiggini, ma temo che sarà così.»
«Be', anche Meggie è rossa di capelli, in un certo qual modo, eppure non è affatto lentigginosa.
Sebbene la pelle di Meggie abbia una grana differente e un colore diverso, più opaco.» Posò il
biberon vuoto, si mise la bambina seduta su un ginocchio, voltata verso di lui, la chinò in avanti
facendole fare un salamelecco e cominciò a massaggiarle ritmicamente ed energicamente la schiena.
«Tra i miei altri compiti, devo visitare gli orfanotrofi cattolici, e quindi sono abituato ai bambini.
Madre Gonzaga, nell'orfanotrofio che prediligo, lo dice sempre: questo è il solo modo per far ruttare
un bambino. Tenerlo contro la spalla non gli fa flettere sufficientemente il corpo, l'aria non riesce a
sfuggire tanto facilmente, e, quando sfugge, di solito è mescolata anche a un bel po' di latte. In
questo modo invece il bambino è piegato nel mezzo e ciò trattiene il latte lasciando sfuggire il gas.»
Come per dimostrare che aveva ragione, Justine ebbe una serie di enormi rutti, ma senza sbavare
latte. Ralph rise, continuò a massaggiarla, e, quando non accadde altro, la sistemò meglio nella
piega del braccio. «Che occhi favolosamente esotici. Magnifici, vero? Si poteva star certi che
Meggie avrebbe avuto una bambina fuori del comune.»
«Non per cambiare discorso, ma che genitore sarebbe stato lei, Padre!»
«Mi piacciono tutti i bambini, piccoli e grandicelli, mi sono sempre piaciuti. È molto più facile per
me godermeli, in quanto non ho tutti i doveri sgradevoli dei padri.»
«No, non è per questo. È perché lei somiglia un poco a Luddie. Ha in sé qualcosa di femminile.»
A quanto pareva Justine, di solito così isolazionista, ricambiava la simpatia; si era addormentata.
Ralph si sistemò più comodamente e tolse dalla tasca dei calzoncini un pacchetto di Capstan.
«Qua, le dia a me. Gliel'accendo io, la sigaretta.»
«Dov'è Meggie?» domandò, togliendole di tra le dita la sigaretta accesa. «Grazie. Oh, mi scusi, ne
prenda una anche lei, prego.»
«Non è qui. Non si era più ristabilita dopo il travaglio del parto, e "la piovosa" è stata la goccia che
ha fatto traboccare il vaso. Così, Luddie e io abbiamo deciso di allontanarla per due mesi. Tornerà il
primo marzo, fra sette settimane.»
Non appena ebbe parlato, Anne si accorse del mutamento intervenuto in lui; come se ogni suo
scopo, e la promessa di un qualche particolarissimo piacere, si fosse dileguato all'improvviso.
Trasse un lungo respiro. «Questa è la seconda volta che vengo a salutarla e non la trovo... Prima di
andare ad Atene, e adesso. Rimasi assente per un anno, allora, e avrei potuto restar via molto più a
lungo; ma sul momento non lo sapevo. Non ero più stato a Drogheda dopo la morte di Paddy e di
Stu, eppure, quando giunse il momento di partire, mi resi conto che non potevo andarmene
dall'Australia senza aver riveduto Meggie. Ma si era sposata, non era più là. Avrei voluto cercarla,
ma sapevo che non sarebbe stato leale nei confronti di Meggie o di Luke. Questa volta sono venuto
sapendo di non poter nuocere a ciò che non esiste.»
«Dove sta per andare?»
«A Roma, in Vaticano. Il Cardinale Contini-Verchese ha sostituito il Cardinale Monteverdi,
deceduto non molto tempo fa. E mi ha chiesto di raggiungerlo, come sapevo che avrebbe fatto. È un
grande riconoscimento, e anche di più. Non posso rifiutare.»
«Per quanto tempo rimarrà via?»
«Oh, per moltissimo tempo, credo. Si parla di guerra, in Europa, anche se da qui tutto sembra così
remoto. La Chiesa, a Roma, ha bisogno di tutti i suoi diplomatici e, grazie al Cardinale Contini-
Verchese, io sono considerato un diplomatico. Mussolini ha stretto un'alleanza con Hitler - ogni
simile ama il suo simile - e, in qualche modo, il Vaticano deve conciliare due ideologie opposte, il
cattolicesimo e il fascismo. Non sarà facile. Io parlo benissimo il tedesco; ho imparato il greco
mentre mi trovavo ad Atene e l'italiano quando ero a Roma. Parlo inoltre correntemente il francese e
lo spagnolo.» Sospirò. «Sono sempre stato portato per le lingue, e ho volutamente coltivato questo
dono. Era inevitabile che venissi trasferito.»
«Bene, Eccellenza, a meno che il piroscafo non salpi domani, potrà ancora vedere Meggie.»
Le parole saltarono fuori prima che Anne si fosse concessa il tempo di riflettere; perché Meggie non
avrebbe dovuto vederlo ancora una volta, prima della partenza di lui, specie se, come sembrava, la
sua assenza sarebbe stata molto lunga?
Ralph aveva voltato la testa verso di lei. Quegli occhi azzurri bellissimi e remoti erano molto
intelligenti e difficilmente si tradivano. Oh, sì, era un diplomatico nato! Capiva esattamente ciò che
lei gli stava dicendo, e si rendeva conto di ogni movente nel fondo dei suoi pensieri. Anne si
sorprese ad aspettare con il fiato corto la risposta, ma per molto tempo Ralph non disse niente, si
limitò a contemplare le canne color smeraldo al di là del fiume, dimenticando la bambina che aveva
in braccio. Affascinata, Anne ne contemplò il profilo, la curva delle palpebre, il naso diritto, le
labbra sigillate, il mento deciso. Quali forze stava schierando in se stesso, mentre contemplava il
paesaggio? Quali complicati equilibri tra amore, desiderio, dovere, opportunità, forza di volontà,
brama, stava bilanciando nella propria mente, e quali di queste considerazioni si contrapponevano
alle altre? La mano di lui portò la sigaretta alle labbra; Anne vide le dita tremare, e silenziosamente
si lasciò sfuggire il respiro dai polmoni. Ralph non era indifferente, dunque.
Per forse dieci minuti, non disse niente. Anne gli accese un'altra Capstan e gliela porse per sostituire
il mozzicone spento. Fumò anche quella seconda sigaretta, una boccata dopo l'altra, senza mai
distogliere lo sguardo dai monti lontani e dalle nubi monsoniche che si abbassavano nel cielo.
«Dov'è?» domandò poi, in un tono di voce normalissimo, lanciando il mozzicone oltre la ringhiera
della veranda, come aveva fatto con il primo.
Dalla risposta di lei sarebbe dipesa la sua decisione, toccò ora a Anne pensare. Era giusto spingere
altri esseri umani su una strada che conduceva non si sapeva dove o a che cosa? La sua lealtà
andava tutta a Meggie; a dire il vero, non le importava un fico di quello che sarebbe accaduto a
quest'uomo. A modo suo, non era migliore di Luke. Dedito a qualche ambizione maschile, senza
mai trovare il tempo o la volontà di anteporvi una donna; correva per inseguire un qualche sogno
che, con ogni probabilità, esisteva soltanto nella sua mente esaltata. Quel sogno non aveva più
sostanza del fumo della fabbrica, che si disperdeva nell'aria greve, satura dell'odor di melassa. Ma
era ciò che voleva, e avrebbe sperperato se stesso e la propria vita per inseguirlo.
Non aveva perduto il proprio buon senso, qualsiasi cosa Meggie potesse significare per lui — e
Anne stava cominciando a credere che egli amasse Meggie più di ogni altra cosa al mondo, tranne
quel suo strano ideale; non avrebbe posto in pericolo la possibilità di stringere saldamente nelle
proprie mani, un giorno, quel che voleva. No, nemmeno per lei. Di conseguenza, se gli avesse
risposto che Meggie si trovava in qualche affollato albergo turistico, ove avrebbero potuto
riconoscerlo, non sarebbe andato. Nessuno sapeva meglio di lui come egli non fosse il tipo che può
passare inosservato tra la folla. Anne si passò la punta della lingua sulle labbra e ritrovò la voce.
«Meggie si trova in un cottage dell'isola Matlock.»
«Dove?»
«L'isola Matlock. È una località di soggiorno vicinissima al Passaggio Whitsunday, e sembra fatta
apposta per la solitudine. Inoltre, in questa stagione non vi si trova quasi anima viva.» Non seppe
resistere alla tentazione di aggiungere: «Non si preoccupi, nessuno la vedrà!»
«Molto rassicurante.» Con grande dolcezza porse a Anne la bambina addormentata. «Grazie» disse,
andando verso la scala. Poi si voltò, con una supplica alquanto patetica nello sguardo. «Ha preso un
grosso granchio» disse. «Voglio soltanto vederla, niente più di questo. Non coinvolgerò mai Meggie
in qualcosa che possa porne in pericolo l'anima immortale.»
«O la sua, eh? Allora farà meglio a presentarsi là come Luke O'Neill; l'aspettano. In questo modo
non darà luogo ad alcuno scandalo, né per Meggie, né per se stesso.»
«E se Luke dovesse arrivare?»
«Non c'è pericolo. È andato a Sydney e non tornerà fino a marzo. Soltanto da me avrebbe potuto
sapere che Meggie si trova a Matlock, e io non gliel'ho detto, Eccellenza.»
«Meggie si aspetta l'arrivo di Luke?»
Anne sorrise maliziosamente. «Oh, per carità, no.»
«Non le farò alcun male» insistette. «Voglio soltanto rivederla per breve tempo, ecco tutto.»
«Lo so bene, Eccellenza. Ma sta di fatto che le nuocerebbe assai meno se volesse di più» disse
Anne.
Quando la vecchia automobile di Rob arrivò scoppiettante lungo la strada, Meggie si trovava sulla
veranda del cottage, con la mano alzata per far capire che tutto andava bene e non aveva bisogno di
niente. Rob fermò il macinino nel solito posto prima dell'inversione di marcia, ma, prima che
tornasse indietro, un uomo in calzoncini corti, camicia e sandali saltò giù dalla macchina, con una
valigia in mano.
«Arrivederci, signor O'Neill» gridò Rob ripartendo.
Ma Meggie non avrebbe mai potuto confondersi tra i due uomini, tra Luke O'Neill e Ralph de
Bricassart. Quello non era Luke: anche da lontano, e nella luce che rapidamente andava dileguando,
non si lasciò ingannare. Rimase in piedi ammutolita e aspettò, mentre si avvicinava lungo il
sentiero, Ralph de Bricassart. Aveva deciso che la voleva, tutto sommato. Non poteva esserci alcun
altro motivo, se l'aveva raggiunta in un luogo come quello, facendosi passare per Luke O'Neill.
Niente in lei sembrava funzionare, né le gambe, né la mente, né il cuore. Quell'uomo era Ralph,
venuto a reclamarla; perché non sentiva niente? Come mai non si stava precipitando lungo il
sentiero tra le sue braccia? Così infinitamente lieta di rivederlo che nessun'altra cosa al mondo
poteva più contare? Quello era Ralph, e lei non aveva mai voluto altro dalla vita; non le era forse
occorsa più di una settimana soltanto per tentar di cancellare dalla propria mente questa verità? Dio
lo maledicesse, Dio lo maledicesse! Perché diavolo doveva venire lì, proprio quando stava
finalmente cominciando a toglierselo dai pensieri, se non dal cuore? Oh, tutto sarebbe ricominciato
daccapo! Stordita, sudata, adirata, rimase legnosamente in attesa, contemplando la figura aggraziata
che andava ingrandendo.
«Ciao, Ralph» disse a denti stretti.
«Ciao, Meggie.»
«Porta dentro la valigia. Gradiresti una tazza di tè bollente?» Mentre parlava, lo precedette nel
soggiorno, sempre senza guardarlo.
«Sarebbe piacevole» rispose, imbarazzato quanto lei.
La seguì nella cucina e stette a guardarla mentre inseriva la spina del fornellino, riempiva la teiera al
boiler posto sopra l'acquaio, e si dava da fare togliendo tazze e piattini dalla credenza. Quando gli
porse la grossa scatola da due chili di pastine da tè Arnotts, egli ne tolse due manciate e le mise in
un vassoio. Il bricco bolliva. Meggie versò l'acqua calda fuori della teiera, vi mise il tè e la riempì
con acqua bollente. Mentre portava il vassoio e la teiera, lui la seguì con le tazze e i piattini nel
soggiorno.
Le tre stanze erano state costruite in fila, una dopo l'altra; la camera da letto dava su un lato del
soggiorno e la cucina sull'altro, mentre il bagno si trovava più in là. Questo significava che il villino
aveva due verande, una verso la strada e l'altra verso la spiaggia. E ciò, a sua volta, implicava che
entrambi avevano qualcosa di giustificabile da contemplare, senza doversi guardare a vicenda.
L'oscurità della notte era calata con la subitaneità dei tropici, ma l'aria, al di là delle porte scorrevoli
spalancate, sembrava colma dello sciabordio dell'acqua, dello scroscio lontano della risacca contro
la scogliera e delle folate intermittenti di vento dolce e caldo.
Sorseggiarono il tè in silenzio, senza che nessuno dei due riuscisse a toccare una pastina, e il
silenzio si protrasse anche dopo il tè, mentre lui volgeva lo sguardo verso di lei, e Meggie teneva gli
occhi fissi sull'agitarsi nel vento di un piccolo palmizio, oltre la porta della veranda che dava sulla
strada.
«Che cos'hai, Meggie?» le domandò Ralph, con tanta dolcezza e tenerezza che il cuore le martellò
frenetico. L'anelito dell'uomo adulto per la bimbetta. Non era venuto a Matlock per vedere la donna.
Era venuto in cerca della bambina. Amava la bambina, non la donna. La donna l'aveva odiata sin
dal momento in cui si era affacciata alla vita.
Gli occhi di lei si volsero e si alzarono verso i suoi, stupiti, offesi, furenti; anche ora, anche ora!
Mentre il tempo rimaneva sospeso, lo fissò in questo modo, ed egli fu costretto a scorgere,
sbalordito, con il respiro trattenuto, la donna adulta in quegli occhi limpidi come cristallo. Gli occhi
di Meggie. Oh, Dio, gli occhi di Meggie!
Era stato sincero, parlando con Anne Mueller; voleva soltanto rivederla, niente di più. Sebbene
l'amasse, non era venuto per diventarne l'amante. Soltanto per vederla, per parlarle, per esserle
amico, per dormire sul divano nel soggiorno, tentando, una volta di più, di disseppellire le radici
dell'eterno fascino che esercitava su di lui, in quanto pensava che soltanto se avesse potuto vederle a
nudo, sarebbe riuscito a conquistare i mezzi spirituali per sradicarle.
Era stato difficile adattarsi a una Meggie con i seni, la vita sottile, i fianchi; ma c'era riuscito perché,
quando la guardava negli occhi, là splendeva la sua Meggie, come l'alone di luce della lampada in
un santuario. Una mente e uno spirito dalla cui attrazione non si era mai liberato sin dalla prima
volta in cui l'aveva conosciuta, e sempre immutati in quel corpo cambiato, cambiato in modo da
sgomentarlo; e, vedendole negli occhi la prova del fatto che la mente e lo spirito si perpetuavano,
riusciva ad accettare il corpo modificato, e a disciplinare l'attrazione che provava per esso.
E, scrutando i propri sogni e i propri desideri, non aveva mai dubitato che volesse comportarsi nello
stesso modo, finché, dopo la nascita di Justine, Meggie non gli si era avventata contro come una
gatta provocata. Ma anche allora, una volta spentesi in lui l'ira e la tortura, aveva attribuito quel
comportamento alle sofferenze attraverso le quali era passata, sofferenze spirituali più che fisiche.
Ma ora, vedendola finalmente qual era, riusciva a precisare fino al secondo il momento il cui
Meggie si era tolta le lenti dell'adolescenza per mettersi quelle di una donna: l'interludio nel
cimitero di Drogheda, dopo la festa di compleanno di Mary Carson. Quando le aveva spiegato
perché non potesse essere particolarmente premuroso con lei, in quanto la gente avrebbe potuto
crederlo interessato a lei come un uomo. Lo aveva guardato con qualcosa negli occhi che non era
riuscito a capire, distogliendo poi lo sguardo. E quando aveva riportato lo sguardo su di lui, la strana
espressione era scomparsa. Da quel momento in poi, ora lo capiva, lo aveva pensato sotto una luce
diversa; non era stata, la sua, una debolezza fuggevole, quando lo aveva baciato, per tornare poi a
pensare a lui come in passato, come egli la pensava. Dal canto suo, aveva perpetuato le proprie
illusioni, le aveva alimentate, riponendole, come meglio poteva, nel proprio immutabile sistema di
vita, portandole come un cilicio. Mentre, per tutto il tempo, Meggie continuava a decorare il suo
amore per lui con oggetti femminili.
Ralph doveva confessarlo, l'aveva desiderata fisicamente sin dal momento del loro primo bacio, ma
il desiderio non lo aveva mai ossessionato quanto l'amore; considerava il desiderio e l'amore
separati e diversi, non sfaccettature della stessa cosa. Lei, povera creatura fraintesa, non era mai
stata vittima di una simile follia.
In quel momento, se fosse esistita una qualsiasi possibilità di andarsene dall'isola Matlock, egli
sarebbe fuggito da Meggie come Oreste dalle Erinni. Ma non gli era possibile lasciare l'isola, ed
ebbe il coraggio di restare alla presenza di lei invece di camminare senza meta, in modo assurdo,
nella notte. Che cosa posso fare, come mi è possibile riparare in qualche modo? Io l'amo davvero!
E, se l'amo, questo deve essere per come è adesso. Sono gli aspetti femminili che ho sempre amato
in lei, la sopportazione del fardello. E dunque, Ralph de Bricassart, togliti i paraocchi, vedila qual è
realmente e non com'era tanto tempo fa. Sedici anni fa, sedici anni incredibilmente lunghi... Io ho
quarantaquattro anni e lei ne ha ventisei: nessuno di noi due è più un bambino, ma io sono di gran
lunga il più immaturo.
Lo hai dato per dimostrato non appena io sono disceso dall'automobile di Rob, non è così, Meggie?
Hai creduto che mi fossi arreso, finalmente. E, prima ancora che tu avessi tempo di riprendere fiato,
ho dovuto dimostrarti quanto sbagliavi. Ho lacerato il tessuto delle tue illusioni come se fosse stato
un sudicio, vecchio straccio. Oh, Meggie! Che cosa ti ho fatto? Come ho potuto essere così cieco,
così totalmente egocentrico? Non ho ottenuto niente, venendo a trovarti, tranne che tagliarti a
pezzettini. In tutti questi anni, abbiamo amato in senso opposto.
Continuava a fissarlo negli occhi, e i suoi occhi si stavano colmando di vergogna, di umiliazione;
ma, man mano che le espressioni si susseguivano sulla faccia di lui, fino all'ultima di disperata
compassione, parve rendersi conto dell'enormità del proprio errore, di quanto fosse orribile. E non
solo; ma anche del fatto che Ralph sapeva di quell'errore.
Va', fuggi! Fuggi, Meggie, vattene di qui con quel brandello di orgoglio che ti ha lasciato! Non
appena lo ebbe pensato, agì di conseguenza, balzò in piedi e fuggì.
Prima che fosse arrivata sulla veranda lui la raggiunse, e l'impeto della corsa gliela fece piroettare
contro con tanta forza che barcollò. Non contò più niente, nulla contò più, la battaglia estenuante
per conservare l'integrità della propria anima, il lungo conculcare il desiderio con la volontà; in
pochi attimi, Ralph aveva vissuto intere esistenze. Tutta quella forza mantenuta inattiva,
addormentata, e alla quale occorreva soltanto la detonazione di un contatto per scatenare un caos nel
quale la mente era asservita alla passione, e la volontà della mente si estingueva nella volontà del
corpo.
Le braccia di lei gli salirono intorno al collo, le sue braccia la cinsero alla schiena, spasmodiche;
Ralph abbassò la testa, cercò alla cieca con la bocca la bocca di Meggie, la trovò. Quella bocca non
più indesiderata, non più un ricordo sgradito, ma reale. Le braccia di Meggie che lo stringevano
come se non avesse sopportato di lasciarlo andar via; il modo con il quale sembrava perdere persino
la sensazione delle proprie ossa. Quanto era tenebrosa, come la notte, un intrico di ricordi e desideri,
di ricordi indesiderati e di desideri sgraditi. Gli anni durante i quali doveva aver anelato a questo,
anelato a lei e negato il potere di lei, impedendo a se stesso persino di pensare a Meggie come a una
donna!
Fu lui a portarla sul letto, o ci andarono insieme? Gli sembrava di avercela portata sulle braccia, ma
non poteva esserne certo; seppe soltanto che lei era lì sul letto, che lui era lì sul letto, che aveva la
pelle di Meggie sotto le mani, che la sua pelle era sotto quella di Meggie. Oh, Dio! Meggie,
Meggie! Come hanno potuto crescermi sin dall'infanzia insegnandomi a crederti una profanazione?
Il tempo smise di ticchettare e cominciò a fluire, lo inondò fino a non avere più alcun significato,
soltanto una profondità di dimensione più reale del tempo reale. Sentiva Meggie eppure non la
sentiva, non era come un'entità separata; voleva renderla definitivamente e per sempre una parte di
sé, un innesto che fosse lui stesso, non una simbiosi che riconoscesse in lei una creatura a sé. Mai
più avrebbe conosciuto le spinte verso l'alto dei seni, del ventre e delle natiche, le pieghe e le
fenditure intermedie. Era realmente fatta per lui, perché era stato lui a crearla, per sedici anni
l'aveva foggiata e modellata, senza rendersi conto di quel che faceva, e tanto meno del perché. E
dimenticò che l'aveva sempre gettata via, che un altro uomo le aveva mostrato la fine di ciò che lui
stava cominciando e che sempre era stato riservato a lui, poiché rappresentava la sua caduta, la sua
rosa; la sua creazione. Era un sogno dal quale non si sarebbe destato mai più, finché fosse stato un
uomo, con il corpo di un uomo. Oh, buon Dio! So, so! Ora so perché l'ho sempre conservata in me
come un'idea e come una bambina, per molto tempo dopo che era cresciuta al di là della bambina e
al di là dell'idea; ma perché è necessario impararlo in questo modo?
Infatti, capiva finalmente come ciò che aveva anelato a essere non fosse un uomo. Non un uomo,
mai un uomo; qualcosa di gran lunga più grande, qualcosa che trascendeva il fato di un mero uomo.
Eppure, nonostante tutto, il suo fato lo aveva lì, sotto le mani: fremeva e si accendeva con lui, che
era il suo uomo. Un uomo, per sempre un uomo. Buon Dio, non avresti potuto allontanare questo da
me? Sono un uomo, non potrò mai essere Dio; è stata un'illusione, questa vita alla ricerca della
divinità. Siamo tutti uguali, noi sacerdoti, anelando a essere Dio? Abiuriamo il solo atto che
inconfutabilmente ci dimostra uomini.
Avvolse le braccia intorno a lei e la contemplò con gli occhi pieni di lacrime vedendo il viso
immoto, fiocamente illuminato, osservando la bocca come un bocciolo di rosa dischiudersi,
ansimare, divenire una O indifesa di stupefatto piacere. Le braccia e le gambe di lei gli erano
attorno, corde vive che lo legavano a Meggie, e sericamente, scivolosamente lo torturavano; le
appoggiò il mento alla spalla, appoggiò la gota alla morbidezza di quella di lei e si abbandonò
all'impulso, che fa impazzire ed esaspera, di un uomo alle prese con il fato. La sua mente vacillò,
scivolò, divenne completamente buia e luminosa fino ad abbacinarlo; per un momento venne a
trovarsi entro il sole, poi la luminosità si attenuò, diventò grigia e scomparve. Questo significava
essere un uomo. Non poteva essere di più. Ma non fu questa la causa della sofferenza. La sofferenza
fu nel momento ultimo, nel momento finito, nella vuota, desolata consapevolezza: l'estasi è
fuggevole. Non sopportava di lasciarla andare, non ora che l'aveva posseduta; era stato lui stesso a
crearla per sé. E così si avvinghiò a lei come l'uomo che affoga in un mare solitario si avvinghia a
una trave, e, di lì a non molto, galleggiando, alzandosi ancora su una marea che rapidamente
diveniva familiare, soccombette a quel fato imperscrutabile che è dell'uomo.
Che cos'era il sonno? si domandò Meggie. Una benedizione, una tregua dalla vita, una eco della
morte, un fastidio imperioso? Qualsiasi cosa fosse, egli vi si era abbandonato e giaceva con un
braccio su di lei, e il capo accanto alla sua spalla, possessivo anche nel sonno. Era stanca a sua
volta, ma non avrebbe consentito a se stessa di dormire. In qualche modo, sentiva che, se avesse
allentato la presa sulla propria consapevolezza, lui avrebbe potuto non essere più lì, quando fosse
ridivenuta cosciente. In seguito avrebbe potuto dormire, una volta destatosi Ralph, non appena la
sua bocca bella e contegnosa avesse pronunciato le prime parole. Che cosa le avrebbe detto? Si
sarebbe rammaricato? Gli aveva dato un piacere che valesse quanto egli aveva abbandonato? Per
tanti anni si era battuto contro il piacere, e l'aveva costretta a battersi con lui; difficilmente poteva
indursi a credere che Ralph avesse abbassato le braccia, finalmente, ma vi erano state cose dette da
lui, durante la notte e nel pieno della sua sofferenza, che cancellavano quel lungo diniego.
Meggie era supremamente felice, più felice di quanto riuscisse a ricordare d'essere mai stata. Dal
momento in cui l'aveva trascinata indietro dalla porta, tutto era stato un poema fisico, una faccenda
di braccia e mani e pelle ed estremo godimento. Ero fatta per lui, e soltanto per lui... Ecco perché mi
sentivo così insignificante con Luke! Trascinata oltre i limiti della sopportazione sulla marea del
proprio corpo, una sola cosa era riuscita a pensare, che dargli tutto il possibile le era più necessario
della vita stessa. Non doveva mai pentirsene, mai! Oh, la sofferenza di Ralph! Vi erano stati
momenti in cui le era sembrato di recepirla effettivamente come una sofferenza sua. La qual cosa
aveva soltanto contribuito al piacere; esisteva una certa giustizia nella sofferenza di lui.
Era desto. Lo guardò negli occhi e vide nel loro azzurro lo stesso amore che l'aveva accesa, che le
aveva dato uno scopo per la prima volta dopo la fanciullezza; e, insieme all'amore, una grande, cupa
stanchezza. Non uno sfinimento del corpo, ma dell'anima.
Stava pensando che, in tutta la vita, non si era mai destato con un'altra persona nello stesso letto; in
un certo qual modo, questo era un fatto più intimo dell'atto sessuale che aveva preceduto il
risveglio, era un'attestazione deliberata di legami emotivi, un attaccamento a lei. Leggero e vuoto
come l'aria, satura di salsedine e di odori di vegetazione imbevuta di sole, Ralph vagò per qualche
tempo sulle ali di un diverso genere di libertà: il sollievo di aver rinunciato all'imperativo di lottare
contro di lei, la pace dopo aver perduto una guerra lunga, incredibilmente cruenta, nel constatare
che la resa era di gran lunga più dolce delle battaglie. Ah, ma ti ho combattuta bene, Meggie!
Eppure, da ultimo, devo mettere insieme non i tuoi frammenti, ma i brandelli smembrati di me
stesso.
Fosti posta nella mia vita per dimostrarmi quanto falso, quanto presuntuoso sia l'orgoglio di un prete
della mia specie; come Lucifero, aspiravo a ciò che appartiene soltanto a Dio, e, come Lucifero,
sono caduto. Ho conosciuto la castità, l'ubbidienza, anche la povertà, prima di Mary Carson. Ma,
fino a stamane, non avevo mai conosciuto l'umiltà. Buon Dio, se Meggie non significasse niente per
me, sarebbe più facile sopportare, ma a volte penso di amarla molto più di quanto ami Te, e anche
questo fa parte del Tuo castigo. Di lei non dubito. Ma di Te? Un'illusione, un fantasma, una burla.
Come posso amare una burla? Eppure, è così.
«Se riuscissi a mettere insieme le energie necessarie, andrei a nuotare, e poi farei colazione» disse,
cercando disperatamente qualcosa da dire, e la sentì sorridere contro il proprio petto.
«Comincia a farti una nuotata, e intanto io preparerò la colazione. E non è necessario mettersi
qualcosa addosso, qui. Non viene mai nessuno.»
«Un vero paradiso!» Fece scivolare le gambe giù dal letto, si drizzò a sedere e si stiracchiò. «È una
splendida mattinata. Mi domando se sia un presagio.»
Già la sofferenza della separazione, semplicemente perché era sceso dal letto. Distesa, lo guardò
mentre si avvicinava alle porte scorrevoli che davano sulla spiaggia, usciva e si soffermava. Ralph
si voltò, tese la mano.
«Vieni con me? Possiamo fare colazione insieme.»
Alta la marea, sommersa la scogliera, caldo il primo sole, ma l'irrequieta brezza estiva era fresca;
l'erba ruvida esplorava la sabbia sbriciolantesi, diversa dalla solita sabbia, ove granchiolini e altri
animaluzzi scorrazzavano dopo aver trovato il cibo.
«Ho la sensazione di non aver mai veduto il mondo prima d'ora» disse, guardandosi attorno con gli
occhi spalancati.
Meggie gli afferrò la mano; aveva ricevuto la Visitazione, e trovava quel seguito assolato più
incomprensibile della sognante realtà della notte. Indugiò con lo sguardo su di lui, soffrendo. Il
tempo sembrava essere fuori della mente, un mondo diverso.
E pertanto disse: «Non questo mondo. Come avresti potuto? Questo è il nostro mondo, finché
durerà.»
«Com'è Luke?» le domandò lui, mentre facevano colazione.
Reclinò il capo, riflettendo. «Non ti somiglia tanto fisicamente come solevo pensare, perché a quei
tempi mi mancavi di più, non mi ero ancora abituata a fare a meno di te. Lo sposai, credo, perché mi
ricordava te. In ogni modo, avevo deciso di sposare qualcuno, e lui superava gli altri con tutta la
testa e le spalle. Non mi riferisco al valore, o alla bellezza, o a una qualsiasi delle cose che si ritiene
le donne trovino desiderabili in un marito. Soltanto in un certo modo che non saprei precisare.
Tranne forse dicendo che è come te. Anche lui non ha bisogno delle donne.»
La faccia gli si contorse. «È così che mi vedi, Meggie?»
«Sinceramente? Credo di sì. Non capirò mai il perché, ma credo che sia così. C'è qualcosa di
radicato, in Luke e in te, che pensa che aver bisogno di una donna sia un indizio di debolezza. Non
mi riferisco all'andare a letto con una donna, mi riferisco alla necessità, alla vera necessità.»
«E, credendo questo, puoi ancora volerci?»
Alzò le spalle e sorrise con una traccia di pietà. «Oh, Ralph! Non dico che non sia importante, e
senza dubbio mi ha causato molta infelicità, ma le cose stanno così. Sarei una sciocca se mi
sprecassi nel tentativo di sradicare quel qualcosa che avete tu e Luke, poiché non può essere
sradicato. Il meglio che possa fare è sfruttare la debolezza, non ignorarne l'esistenza. Perché anch'io
ho desideri e necessità. E, a quanto pare, desidero e mi sono necessari uomini come te e Luke,
altrimenti non mi sarei rovinata come ho fatto per voi due. Avrei sposato un uomo buono, gentile,
semplice, come mio padre, qualcuno che mi volesse e avesse bisogno di me. Ma c'è un qualcosa di
Sansone in ogni uomo, credo. Solo che, negli uomini come te e Luke, è più pronunciato.»
Non sembrava si fosse offeso; stava sorridendo. «Come sei saggia, Meggie!»
«Questa non è saggezza, Ralph. È soltanto buon senso. Non sono affatto una persona molto
assennata, e lo sai. Ma pensa ai miei fratelli. Dubito che i più anziani, almeno, si ammoglieranno
mai, o avranno anche soltanto amichette. Sono terribilmente schivi, terrorizzati dal potere che una
donna potrebbe avere su di loro, e assolutamente legati a Ma'.»
I giorni si susseguirono ai giorni, le notti si susseguirono alle notti. Anche le copiose piogge furono
belle; camminare nudi sotto la pioggia e ascoltarla sul tetto di lamiera, calda e ricca di carezze come
il sole. E, quando il sole splendeva, continuavano a passeggiare, oziavano sulla spiaggia, nuotavano;
poiché Ralph le stava insegnando a nuotare.
A volte, quando non sapeva di essere osservato, Meggie lo guardava e disperatamente cercava di
imprimersi il suo volto nella mente, ricordando come, nonostante l'affetto che aveva avuto per
Frank, con il trascorrere degli anni l'immagine di lui, il suo aspetto si fossero offuscati. Ecco gli
occhi di Ralph, il naso, la bocca, le stupefacenti brizzolature argentee sui capelli neri, il corpo lungo
e forte che aveva conservato la snellezza e la tensione della gioventù, ma che pure si era un po'
appesantito, aveva perduto elasticità. E poi lui si voltava, la sorprendeva intenta a osservarlo, e negli
occhi gli si affacciava un'espressione di ossessionata sofferenza, di condanna. Capiva l'implicito
messaggio, o credeva di capirlo; Ralph doveva ripartire, doveva tornare alla Chiesa e ai suoi doveri.
Mai più con lo stesso spirito di prima, forse, ma più capace di servirla. Poiché soltanto chi è
scivolato e caduto conosce le difficoltà del cammino.
Un giorno, quando il sole si era abbassato nel cielo quanto bastava per insanguinare il mare e
colorare di un giallo brumoso la sabbia di corallo, si voltò verso di lei mentre giacevano sulla
spiaggia.
«Meggie, non sono mai stato così felice, o così infelice.»
«Lo so, Ralph.»
«Sì, credo che tu lo sappia. È perché ti amo? Tu non sei molto diversa dalle donne comuni, Meggie,
eppure non sei affatto comune. L'ho sempre intuito, in tutti questi anni? Dev'essere così, presumo.
La mia passione per i capelli tizianeschi! Non immaginavo di certo dove mi avrebbe condotto. Ti
amo, Meggie.»
«Te ne vai?»
«Domani. Devo. Il piroscafo salpa per Genova tra meno di una settimana.»
«Per Genova?»
«Vado a Roma. Per molto tempo, forse per tutto il resto della mia vita. Non lo so.»
«Non preoccuparti, Ralph, ti lascerò andare senza fare storie. Anche la mia vacanza è quasi finita.
Lascerò Luke, e tornerò a Drogheda.»
«Oh, santo Cielo! Non per questo, non a causa mia?»
«No, naturalmente no» mentì lei. «Avevo già deciso prima del tuo arrivo. Luke non mi vuole e non
ha bisogno di me; non gli mancherò minimamente. Ma ho bisogno di una casa, di qualcosa che mi
appartenga, e ora penso che Drogheda sarà sempre il luogo fatto per me. Non è giusto che la povera
Justine cresca in una casa ove io sono la cameriera, sebbene sappia che Anne e Luddie non mi
considerano una cameriera. Ma io mi ritengo una cameriera, e coi mi vedrà Justine, quando sarà
abbastanza grande per capire che non ha una casa normale. In un certo senso, una casa normale non
le piacerà mai, ma io devo fare per lei tutto quello che posso. Di conseguenza, tornerò a Drogheda.»
«Ti scriverò, Meggie.»
«No, non scrivermi. Credi che abbia bisogno di lettere, dopo tutto questo? Non voglio niente tra noi
che possa metterti in pericolo, farti cadere nelle mani di persone senza scrupoli. Quindi nessuna
lettera. Se per caso tu venissi in Australia, sarebbe logica e normale una tua visita a Drogheda, ma ti
invito, Ralph, a riflettere a lungo, prima. Vi sono due soli luoghi al mondo nei quali tu appartieni a
me prima che a Dio... qui a Matlock, e a Drogheda.»
La prese tra le braccia e la strinse, accarezzandole i capelli luminosi. «Meggie, vorrei con tutto il
cuore poterti sposare e non dovermi più separare da te. Non voglio lasciarti... E, in un certo senso,
non potrò più liberarmi di te. Vorrei non essere venuto a Matlock. Ma non possiamo essere diversi
da come siamo, e forse è meglio così. So cose di me che non avrei mai saputo o affrontato se non
fossi venuto qui. È preferibile battersi contro il noto anziché contro l'ignoto. Ti amo. Ti ho sempre
amata, e sempre ti amerò. Ricordalo.»
Il giorno dopo, Rob apparve per la prima volta da quando aveva accompagnato Ralph e aspettò
paziente mentre loro due si dicevano addio. Ovviamente, non si trattava di una coppia di sposini,
poiché egli era venuto dopo di lei e se ne andava prima. E nemmeno poteva trattarsi di amanti.
Erano sposati, glielo si leggeva in faccia. Ma si amavano molto, moltissimo. Come lui e sua moglie:
una grande differenza di età, dipendeva da questo un buon matrimonio.
«Arrivederci, Meggie.»
«Arrivederci, Ralph. Abbi cura di te.»
«Sì. Anche tu.»
Si chinò per baciarla; nonostante la sua ferma decisione, gli si avvinghiò, ma, quando lui le staccò le
mani dal proprio collo, Meggie le mise rigidamente dietro la schiena e le tenne là.
Ralph salì sull'automobile e, mentre Rob si apprestava a fare l'inversione di marcia, sedette; poi
guardò fisso dinanzi a sé attraverso il parabrezza senza voltarsi una sola volta. Erano rari gli uomini
capaci di questo, si disse Rob, senza aver mai sentito parlare di Orfeo. Viaggiarono in silenzio
attraverso la pioggia e giunsero finalmente sul lato di Matlock ove si trovava il lungo pontile.
Mentre si scambiavano una stretta di mano, Rob guardò in faccia l'altro, meravigliandosi. Non
aveva mai veduto occhi così umani, o così tristi. Il distacco era svanito per sempre dallo sguardo
dell'Arcivescovo Ralph.
Quando Meggie tornò a Himmelhoch, Anne capì immediatamente che l'avrebbe perduta. Sì, era
sempre la stessa Meggie... ma lo era molto più intensamente, in qualche modo. Qualsiasi cosa
l'Arcivescovo Ralph potesse aver detto a se stesso prima di recarsi a Matlock, sull'isola le cose si
erano svolte come voleva Meggie, finalmente, e non come voleva lui. Ed era tempo.
Meggie prese Justine tra le braccia, come se soltanto adesso capisse che cosa significava averla, e
rimase in piedi cullando la creaturina mentre si guardava attorno nella stanza, sorridendo. I suoi
occhi incontrarono quelli di Anne; così vivi, così splendenti di commozione, che Anne sentì i propri
riempirsi di lacrime della stessa felicità.
«Non potrò mai ringraziarti abbastanza, Anne.»
«Sciocchezze, per che cosa?»
«Per avermi mandato Ralph. Devi aver saputo che il suo arrivo mi avrebbe decisa a lasciare Luke, e
per questo ti ringrazio tanto di più, cara. Oh, non puoi avere idea di quello che hai fatto per me!
Avevo deciso che sarei rimasta con Luke, sai. Ora invece tornerò a Drogheda e non me ne
allontanerò mai più.»
«Non sopporto di vederti partire, e ancor meno sopporto di perdere Justine, ma sono ugualmente
lieta per tutte e due, Meggie. Luke non ti darebbe mai altro che infelicità.»
«Sai dove si trova?»
«È tornato dallo zuccherificio. Sta tagliando canne da zucchero vicino a Ingham.»
«Dovrò andare da lui, e dirglielo. E, per quanto la sola idea mi riesca insopportabile, dovrò dormire
con lui.»
«Cosa?»
Gli occhi splendettero. «Sono in ritardo di due settimane con il mestruo, e non ho mai tardato di un
solo giorno. L'unica altra volta accadde quando ero rimasta incinta di Justine. Sono incinta, Anne,
so di esserlo!»
«Dio mio!» Anne fissò Meggie a bocca aperta, come se non l'avesse mai veduta prima di allora; e
forse era davvero così. Si leccò le labbra e balbettò: «Potrebbe essere un falso allarme.»
Ma Meggie scosse la testa, recisamente. «Oh, no, sono incinta. Certe cose si sanno e basta.»
«Sei un bel demonietto» mormorò Anne.
«Oh, Anne, non essere cieca! Non capisci che cosa significa questo? Ralph non potrò mai averlo, ho
sempre saputo che non avrei potuto averlo mai. E ora invece lo ho, lo ho!» Rise, stringendo a sé
Justine con tanta forza, da far temere a Anne che la bambina si mettesse a strillare, e invece, strano a
dirsi, non fu così. «Ho avuto quella parte di Ralph che la Chiesa non potrà mai avere, quella parte di
lui che si tramanda di generazione in generazione. Attraverso di me egli continuerà a vivere, perché
io so che metterò al mondo un maschio. E questo suo figlio avrà figli, i quali a loro volta avranno
altri figli... Riuscirò ugualmente a sconfiggere Dio. Ho amato Ralph sin da quando avevo dieci anni,
e presumo che continuerei ad amarlo anche se dovessi campare fino a cent'anni. Ma egli non mi
appartiene, mentre questo bambino sarà mio. Mio, Anne, mio!»
«Oh, Meggie!» disse Anne, smarrita.
La passione si spense, e così l'esultanza; divenne, una volta di più, la Meggie familiare, tranquilla e
dolce, ma con il sottile filo d'acciaio in sé, con la capacità di sopportare molto. Anne però divenne
cauta, e si domandò che cosa avesse fatto mandando Ralph de Bricassart all'isola Matlock. Era mai
possibile che una persona cambiasse tanto? Quel sottile filo d'acciaio doveva essere sempre esistito,
così ben nascosto da consentire soltanto di rado di sospettarne la presenza. E c'era qualcosa di più
d'un sottile filo d'acciaio in Meggie; era tutta d'acciaio.
«Meggie, se mi vuoi un po' di bene, mi faresti il favore di ricordare una cosa?»
Gli occhi grigi formarono piegoline agli angoli. «Ci proverò!»
«Mi sono letta quasi tutti i libri di Luddie nel corso degli anni, quando avevo finito i miei. Specie
quelli con le antiche storie greche, perché mi affascinano. Dicono che i greci hanno una parola per
tutto, e che non esiste situazione umana la quale non sia stata descritta dai greci.»
«Lo so, ho letto anch'io alcuni libri di Luddie.»
«Allora non ricordi? I greci dicono che è un peccato contro gli dei amare qualcuno al di là di ogni
limite della ragione. E rammenti? Dicono che quando qualcuno viene così amato, gli dei si
ingelosiscono e lo colpiscono nella pienezza della sua fioritura. Si può ricavarne una lezione,
Meggie. È un'empietà amare troppo.»
«Empietà, Anne, ecco la parola-chiave! Io non amerò il figlio di Ralph empiamente, ma con la
purezza della Madonna.»
Gli occhi castani di Anne erano molto tristi. «Ah, ma lei amò con purezza? L'oggetto del suo amore
venne stroncato nella pienezza della fioritura, non è così?»
Meggie rimise Justine nella culla. «Quello che dovrà essere, sarà. Ralph non posso averlo, suo figlio
sì. Sento... oh, come se esistesse uno scopo nella mia vita, tutto sommato! Questa è stata la cosa
peggiore degli ultimi tre anni e mezzo, Anne. Stavo cominciando a pensare che la mia esistenza non
avesse alcuno scopo.» Sorrise con animazione e decisione. «Proteggerò questo bambino in tutti i
modi possibili, per quanto possa costarmi. E per prima cosa, nessuno, Luke compreso, dovrà poter
mai insinuare che non abbia diritto al solo nome che io posso dargli. Il solo pensiero di andare a
letto con Luke mi fa star male, ma lo farò. Dormirei anche con il demonio, se ciò potesse favorire
l'avvenire del bambino. Poi tornerò a Drogheda e spero che non vedrò Luke mai più.» Voltò le
spalle alla culla. «Verrete a trovarci, tu e Luddie? A Drogheda c'è sempre posto per gli amici.»
«Una volta all'anno, tutti gli anni, finché ci vorrai. Luddie e io vogliamo veder crescere Justine.»
Soltanto il pensiero del figlio di Ralph sostenne il vacillante coraggio di Meggie mentre la piccola
littorina dondolava e sobbalzava lungo gli interminabili chilometri verso Ingham. Se non fosse stato
per la nuova vita che era certa stesse crescendo in lei, andare a letto di nuovo con Luke avrebbe
rappresentato l'ultimo peccato commesso contro se stessa, ma, per il figlio di Ralph, avrebbe
davvero firmato un patto anche con il demonio.
Dal punto di vista pratico, non sarebbe neppure stato facile, lo sapeva. Ma aveva predisposto i
propri piani con tutta la preveggenza possibile, e, strano a dirsi, con l'aiuto di Luddie. Non era
riuscita a nascondergli un granché; era troppo scaltro, e inoltre Anne gli confidava sempre ogni
cosa. Aveva guardato Meggie malinconicamente, scuotendo la testa, poi si era accinto a darle alcuni
eccellenti consigli. Nessuno aveva accennato, naturalmente, al vero scopo del viaggio di lei, ma
Luddie, come quasi tutte le persone che leggono tomi massicci, sapeva sommare due più due.
«Non dovrai dire a Luke che lo lascerai quando sarà logorato a furia di tagliare canne da zucchero»
osservò Luddie, con delicatezza. «E inoltre sarà di gran lunga preferibile avvicinarlo quando è di
buon umore, non ti sembra? La cosa migliore è fargli visita un sabato sera, o una domenica, dopo
che sarà stato il suo turno di cucinare per una settimana. Corre voce che Luke sia il miglior cuoco
tra i tagliatori di canne... Imparò a cucinare quando faceva il garzone nei capannoni della tosatura, e
i tosatori sono ancor più schizzinosi dei tagliatori di canne. Questo significa che cucinare non lo
infastidisce, capisci? Probabilmente, trova la cosa facile e semplice come abbattere un albero.
Quello, dunque, è il momento, Meggie. Dagli la notizia quando si sentirà perfettamente in forma,
dopo una settimana di cucina.»
Da qualche tempo a quella parte, sembrava a Meggie che i giorni in cui poteva arrossire fossero
ormai remotissimi; guardò Luddie negli occhi senza che le gote le si tingessero menomamente di
rosa.
«Potresti accertare qual è la settimana nella quale tocca a Luke cucinare, Luddie? O, se a te non è
possibile, potrei accertarlo io in qualche modo?»
«Oh, è facile» rispose lui, allegramente. «Ho sempre modo di conoscere le voci che circolano. Lo
accerterò.»
Era il pomeriggio inoltrato di un sabato quando Meggie entrò nell'albergo di Ingham che sembrava
più rispettabile. Tutte le cittadine del Queensland settentrionale erano rinomate per una cosa:
avevano alberghi e locande ai quattro angoli di ogni isolato. Lasciò la valigetta in camera sua, poi
tornò nel vestibolo poco accogliente, in cerca del telefono. Nella cittadina si trovava una squadra
della Lega di Rugby, per una partita di allenamento prima del campionato, e i corridoi erano pieni di
giocatori seminudi e completamente ubriachi che, vedendola apparire, applaudirono e l'accolsero
con manate affettuose sulla schiena e sul di dietro. Quando riuscì a servirsi del telefono, stava
tremando di paura; tutto, di quell'impresa, sembrava un cimento. Ma, nonostante il baccano, e le
facce ebbre che le si affollavano intorno, riuscì a mettersi in comunicazione con la fattoria di Braun,
ove il gruppo di Luke stava tagliando canne, e a chiedere di riferire a Luke che sua moglie si
trovava a Ingham e voleva parlargli. Constatando quanto era spaventata, l'albergatore l'accompagnò
fino alla sua stanza e aspettò di aver udito la chiave girare nella toppa.
Meggie si addossò alla porta, resa inerte dal sollievo. Anche a costo di non toccare più cibo fino al
ritorno a Dunny, non si sarebbe azzardata nella sala da pranzo. Per fortuna, l'albergatore le aveva
assegnato la camera vicina al gabinetto delle signore, per cui le sarebbe stato possibile compiere
quel breve tragitto quando fosse stato necessario. Non appena pensò che le gambe l'avrebbero
sorretta, si avvicinò al letto, barcollando, e vi sedette, a capo chino, guardandosi le mani che
tremavano.
Per tutto il viaggio aveva pensato al modo migliore di procedere, e tutto in lei gridava: rapidamente,
rapidamente! Fino a quando non era andata ad abitare a Himmelhoch, non aveva mai letto
descrizioni di una seduzione, ma anche adesso, armata di parecchi brani da antologia, non confidava
troppo nella propria capacità di seduzione. Eppure, doveva fare proprio questo, poiché sapeva che,
non appena avesse cominciato a parlare con Luke, tutto sarebbe finito. La sua lingua smaniava dalla
voglia di dirgli che cosa pensasse realmente di lui. Ma ancor più di questo la consumava il desiderio
di tornare a Drogheda con il figlio di Ralph al sicuro.
Rabbrividendo nell'aria afosa e zuccherosa, si spogliò e si distese sul letto, gli occhi chiusi,
costringendosi a non pensare ad altro che alla necessità di mettere al sicuro il figlio di Ralph.
I giocatori di rugby non infastidirono affatto Luke, quando entrò solo nell'albergo, verso le nove;
ma, d'altro canto, erano ormai completamente partiti quasi tutti, e i pochi che ancora si reggevano in
piedi avevano la mente troppo obnubilata dall'alcool per vedere più in là dei boccali di birra.
Le previsioni di Luddie erano state esattissime; al termine del turno di una settimana come
cuciniere, Luke si sentiva riposato, avido di un cambiamento e pieno di buona volontà. Quando il
figlio minore di Braun gli aveva riferito la comunicazione di Meggie, agli alloggi stava lavando gli
ultimi piatti della cena e si proponeva di recarsi a Ingham in bicicletta, per unirsi ad Arne e agli
amici nella solita baldoria del sabato sera. La possibilità di trovarsi con Meggie rappresentava
un'alternativa molto gradevole; dai tempi di quella vacanza sull'Atherton, si era sorpreso, di quando
in quando, a desiderarla, nonostante la spossatezza fisica. Soltanto l'orrore che provava all'idea che
ricominciasse con la solfa «mettiamo-su-casa» lo aveva tenuto lontano da Himmelhoch ogni volta
che si trovava nelle vicinanze di Dunny. Ma questa volta era stata Meggie a venire da lui, e l'idea di
passare la notte insieme a sua moglie non gli dispiaceva affatto. Pertanto, terminò in fretta e furia di
lavare i piatti ed ebbe la fortuna di trovare un passaggio su un autocarro, dopo che aveva pedalato
per sette od ottocento metri. Ma ora, mentre portava a piedi la bicicletta dal punto in cui l'autocarro
lo aveva fatto scendere all'albergo ove alloggiava Meggie, parte dell'aspettativa si dileguò. Tutte le
farmacie erano chiuse, e lui non aveva nemmeno un preservativo. Si fermò, fissò una vetrina piena
di tavolette di cioccolato, mangiate dalle tarme e alterate dalla calura, e di tafani morti, poi fece
spallucce. Pazienza, avrebbe dovuto correre il rischio. Sarebbe stato soltanto per quella notte, e, se
fosse nato un bambino, con un po' di fortuna si sarebbe trattato di un maschio, questa volta.
Meggie trasalì nervosamente quando udì bussare; discese dal letto e si avvicinò a piedi nudi alla
porta.
«Chi è?» domandò.
«Luke» le giunse la voce di lui.
Girò la chiave nella toppa, socchiuse appena l'uscio, e si mise dietro a esso quando Luke,
spingendo, lo aprì di più. Non appena fu entrato, tornò a chiuderlo, sbattendolo, e rimase lì in piedi
alzando gli occhi su di lui. Egli la contemplò; guardò i seni che erano più grossi, più tondi, allettanti
come non mai, i capezzoli non più di un rosa pallido, ma di un ricco rosso scuro, dopo la nascita
della bambina. Se aveva bisogno di stimoli, quelli che vide risultarono sufficienti; si sporse per
prenderla tra le braccia e la portò sul letto.
Quando il giorno spuntò, Meggie non aveva ancora pronunciato una parola, sebbene fosse riuscita a
portare Luke a un culmine di febbrile desiderio, quale egli non aveva mai provato prima di allora.
Ora giaceva discosta da lui e si sentiva stranamente separata da quell'uomo.
Luke si destò, si stiracchiò voluttuosamente, sbadigliò, si schiarì la gola. «Come mai sei venuta a
Ingham, Meg?» domandò.
Lei voltò la testa; lo fissò con occhi spalancati e sprezzanti.
«Ebbene, per quale ragione ti trovi qui?» ripeté Luke, irritato.
Nessuna risposta, soltanto quello stesso sguardo fermo, pungente, quasi che non volesse darsi la
pena di rispondere. Ed era ridicolo, dopo quella notte.
Poi dischiuse le labbra; sorrise. «Sono venuta a dirti che torno a casa mia a Drogheda» rispose.
Per un momento non le credette, poi la guardò meglio in viso e constatò che diceva sul serio, e
come. «Perché?» domandò.
«Ti avevo detto che cosa sarebbe accaduto se non mi avessi portata a Sydney.»
Lo stupore di lui fu assolutamente sincero. «Ma, Meg! Questa è una storia di diciotto mesi fa! E ti
ho concesso una vacanza! Quattro settimane che mi sono costate l'occhio della testa, maledizione,
sull'Atherton! Non mi sarei potuto permettere di condurti per giunta a Sydney!»
«Dopo di allora sei stato a Sydney altre due volte, e tutte e due le volte senza di me.»
«Oh, cribbio!»
«Che taccagno sei, Luke» continuò con dolcezza. «Hai avuto da me ventimila sterline, denaro che
mi appartiene di diritto, eppure lesini le poche misere sterline che ti sarebbe costato condurmi a
Sydney. Tu e il tuo denaro! Mi dai la nausea.»
«Non l'ho toccato» si difese lui debolmente. «È ancora tutto là, fino all'ultimo penny, e ce n'è anche
di più.»
«Sì, hai ragione, a tua disposizione in banca, ove sempre rimarrà. Non hai nessuna intenzione di
spenderlo, vero? Vuoi adorarlo, come il vitello d'oro. Ammettilo, sei uno spilorcio. E che
imperdonabile idiota, per giunta! Trattare tua moglie e tua figlia come non ti sogneresti mai di
trattare due cani, ignorarne l'esistenza, per non parlare dei loro desideri! Bastardo presuntuoso,
vanitoso ed egoista!»
Bianco in faccia, tremante, cercò di parlare; vedere Meg rivoltarglisi contro, specie dopo quella
notte, era come essere morsicato a morte da una farfalla. L'ingiustizia delle sue accuse lo sbigottiva,
ma non sembrava ci fosse modo di farle capire la purezza dei suoi moventi. Con mentalità
femminile, Meg vedeva soltanto ciò che era manifesto; non riusciva ad apprezzare il grande
progetto che si celava dietro il suo comportamento.
Pertanto disse: «Oh, Meg!» nei toni dello smarrimento, della disperazione, della rassegnazione.
«Non ti ho mai maltrattata» soggiunse. «No, questo è certo! Nessuno potrebbe mai affermare che io
sia stato crudele con te. Nessuno! Hai avuto cibo a sufficienza, un tetto sopra il capo, non hai
sofferto il freddo...»
«Ah, sì» lo interruppe lei «questo te lo concedo, non ho mai avuto più caldo in vita mia.» Poi scosse
la testa e rise. «Ma a che serve? Parlare con te è come rivolgersi a un muro di mattoni.»
«Potrei dire anch'io la stessa cosa!»
«Dillo pure» esclamò Meggie, gelida, scendendo dal letto e infilandosi le mutande. «Non divorzierò
da te» soggiunse «non voglio risposarmi. Ma se fossi tu a volere il divorzio, sai dove trovarmi. In
teoria sono io a essere in colpa, no? Ti sto abbandonando... o almeno tale sarebbe il punto di vista
dei tribunali in questo paese. Tu e il giudice potrete piangere l'uno sulla spalla dell'altro, deplorando
le perfidie e l'ingratitudine delle donne.»
«Non ti ho mai abbandonata.»
«Puoi tenerti le mie ventimila sterline, Luke. Ma non avrai da me un solo penny di più. Ogni futuro
reddito lo spenderò per mantenere Justine, e forse un altro bambino, se sarò fortunata.»
«Ah, è così» fece lui. «La sola cosa che volevi era un altro dannato bambino, vero? Per questo sei
venuta sin qui... un canto del cigno, un piccolo dono da me, per portarlo a Drogheda! Un altro
maledetto marmocchio, non me! Di me ti sei sempre infischiata, è così? Per te io sono soltanto uno
stallone! Cristo, che imbroglio!»
«È quello che sono quasi tutti gli uomini per quasi tutte le donne» disse lei, malignamente. «Tu fai
affiorare il peggio che c'è in me, Luke, sotto più aspetti di quanto potrai mai capire. Ma sta' allegro!
In questi tre anni e mezzo ti ho fatto guadagnare più delle canne da zucchero. Se nascerà un altro
bambino, la cosa non ti riguarderà. A partire da questo momento non voglio vederti mai più, mai
finché vivrò.»
Era ormai vestita. Mentre prendeva la borsetta e la valigetta lasciata accanto alla porta, si voltò, la
mano sulla maniglia.
«Consentimi di darti un piccolo consiglio, Luke. Nel caso che ti trovassi un'altra donna, quando
sarai troppo vecchio e troppo stanco per dedicarti ancora alle canne da zucchero. Non sai
assolutamente baciare. Apri troppo la bocca, vorresti inghiottire una donna intera, come un pitone.
Un po' di saliva può andare, sì, ma non un diluvio.» Si passò la mano, perfidamente, sulla bocca.
«Mi fai venir voglia di vomitare! Luke O'Neill, il grande sono-tutto-io! Tu sei uno zero!»
Quando se ne fu andata, si sedette sulla sponda del letto e fissò a lungo la porta chiusa. Poi alzò le
spalle e cominciò a vestirsi. Non era una faccenda lunga, nel Queensland del Nord. Soltanto un paio
di calzoncini. Se si fosse affrettato, avrebbe potuto tornare agli alloggi con Arne e i ragazzi. Caro,
vecchio Arne. Caro, vecchio compagno. Gli uomini erano stupidi. Il sesso è un conto, ma gli amici
sono tutt'altra cosa.
Parte quinta 1938-1953 Fee
14

Volendo evitare che qualcuno sapesse del suo ritorno, Meggie viaggiò per Drogheda sull'autocarro
postale, insieme al vecchio Bluey Williams, con Justine in una cesta sul sedile accanto a lei. Felice
di rivederla, Bluey era ansioso di sapere che cosa avesse fatto in quegli ultimi quattro anni; ma,
mentre stavano avvicinandosi alla dimora, tacque, poiché intuì il suo desiderio di tornare a casa in
silenzio.
Tornare al rossiccio e all'argento, alla polvere, a quella purezza e a quella frugalità meravigliose che
tanto mancavano nel Queensland settentrionale. Nessuna vegetazione lussureggiante, qui, nessuna
putrefazione affrettata per far posto a nuove piante; soltanto una lenta, ruotante inevitabilità, come
quella delle costellazioni. Canguri, più numerosi che mai. Adorabili, piccoli, simmetrici alberi
wilga, tondi e matronali, quasi timidi. E galah, che sorvolavano, a ondate di ventri rosa, l'autocarro.
Emù in corsa. Conigli selvatici, che balzavano via dalla strada, sollevando sfrontati sbuffi di
polvere. Scheletri calcinati di alberi morti, tra l'erba. Miraggi di boschetti sull'estremo, curvo
orizzonte, quando giunsero nella pianura di Dibban-Dibban; e soltanto le linee azzurre e ondulate
alla base lasciavano capire che quegli alberi non erano reali. Il suono che le era tanto mancato e per
il quale non avrebbe mai creduto di provare nostalgia: corvi che gracchiavano desolati. Brumosi,
rossicci veli di polvere frustati sulla piana dall'asciutto vento d'autunno, simili a pioggia sudicia. E
l'erba, l'erba di un beige-argento del Grande Nord-ovest, l'erba che si perdeva fino al cielo come una
benedizione.
Drogheda, Drogheda! Gli eucalipti chiari e i sonnacchiosi, giganteschi alberi del pepe, ronzanti di
api. Recinti ed edifici di arenaria di un giallo burro, il prato di un verde forestiero intorno alla
grande casa, fiori d'autunno in giardino, campanule e zinnie, astri e dalie, calendule e crisantemi, e
rose, rose. La ghiaia del cortile dietro casa; la signora Smith in piedi a bocca aperta e poi ridente e
piangente, Minnie e Cat che accorrevano, le vecchie braccia rinsecchite come catene intorno al suo
cuore. Poiché Drogheda era la casa, e lì Meggie aveva il cuore, per sempre.
Fee uscì per sapere che cosa fosse tutto quel trambusto.
«Ciao, Ma', sono tornata a casa.»
Gli occhi grigi non mutarono, ma, più cresciuta com'era nello spirito, Meggie capì. Ma' era
contenta; soltanto, non sapeva come dimostrarlo.
«Hai lasciato Luke?» domandò Fee, ritenendo ovvio che la signora Smith e le cameriere avessero lo
stesso suo diritto di sapere.
«Sì. Non tornerò mai più con lui. Non voleva una casa, né i suoi figli, né me.»
«I suoi figli?»
«Sì. Sto per avere un altro bambino.»
Ooh e aah da parte delle cameriere, e Fee espresse il proprio parere in quel tono misurato sotto il
quale si celava la letizia.
«Se non ti vuole, allora hai fatto bene a tornare a casa. Possiamo badare noi a te, qui.»
La sua vecchia stanza, che dava sullo Home Paddock, sul giardino. E una stanza adiacente alla sua
per Justine, e per l'altro bambino, quando fosse venuto al mondo. Oh, era così bello ritrovarsi a
casa!
Anche Bob fu lieto di vederla. Somigliava sempre più a Paddy, stava diventando un po' curvo e
rinsecchito, man mano che il sole gli cuoceva la pelle e gli asciugava le ossa. Aveva la stessa dolce
fermezza di carattere, ma, forse perché non era mai stato il padre di una famiglia numerosa, gli
mancava l'aria paterna di Paddy. E somigliava a Fee. Taciturno, chiuso in se stesso, non era tipo da
esprimere quel che sentiva e quel che pensava. Doveva essere ormai sui trentacinque anni, pensò
Meggie, improvvisamente stupita, e ancora non aveva preso moglie. Poi giunsero Jack e Hughie,
due copie conformi di Bob senza la sua autorità; e, con timidi sorrisi, le diedero il benvenuto. Sì,
doveva essere così, rifletté; sono così timidi a causa della terra, perché la terra non richiede
loquacità, né raffinatezze sociali. Richiede soltanto ciò che loro le danno, amore inespresso e fedeltà
assoluta.
Gli uomini Cleary erano tutti a casa, quella sera, per scaricare un autocarro di granturco che Jims e
Patsy avevano portato da Gilly.
«Non ho mai veduto un tempo così asciutto, Meggie» disse Bob. «Mai pioggia in due anni, non una
sola goccia. E i conigli selvatici sono un flagello peggiore dei canguri; divorano più erba delle
pecore e dei canguri insieme. Stiamo tentando di distribuire foraggio, ma sai come sono le pecore.»
Meggie sapeva anche troppo bene come fossero le pecore. Bestie idiote, incapaci di imparare anche
soltanto i rudimenti della sopravvivenza. Il sia pur piccolo cervello che l'animale originario doveva
aver posseduto si era completamente atrofizzato in queste aristocratiche lanose. Le pecore non
volevano mangiare altro che erba o foglie tagliate dai cespugli del loro ambiente naturale. Ma non
esisteva mano d'opera sufficiente per tagliare tanto fogliame da sfamare centomila pecore.
«Ne deduco che posso esservi utile?» domandò.
«Se puoi! Renderai libero un uomo da adibire al taglio dei cespugli, Meggie, se vorrai andare a
cavallo nei recinti interni come un tempo.»
Mantenendo la parola, i gemelli erano tornati definitivamente a casa. A quattordici anni avevano
detto addio per sempre al Riverview poiché, per loro, tornare sulle pianure di terra nera sarebbe
stato sempre troppo tardi. Già somigliavano a Bob, Jack e Hughie adolescenti, in quella che a poco
a poco stava sostituendo l'antiquata tenuta di saia e di flanella grigia come uniforme dell'allevatore
nel Grande Nord-ovest: calzoni al ginocchio bianchi di fustagno, camicia bianca, un cappello di
feltro basso di cupola e a larga tesa e stivaletti alla caviglia con elastici sui lati, senza tacchi.
Soltanto il pugno di aborigeni meticci, nel quartiere povero di Gilly, scimmiottava i cow-boy del
West americano, con fantasiosi stivali dai tacchi alti, ed enormi cappelloni Stetson. Per l'uomo delle
pianure di terra nera, quel modo di vestire era una inutile affettazione, l'aspetto di una civiltà
diversa. Non si poteva camminare nella boscaglia con stivali dai tacchi alti, ed era spesso necessario
inoltrarsi a piedi nella boscaglia. Inoltre, i grandi cappelli Stetson tenevano troppo caldo e
pesavano.
La giumenta saura e il castrone nero erano morti entrambi, la scuderia era vuota. Meggie insistette
nel dire che si sarebbe accontentata senz'altro di un cavallo da lavoro, ma Bob si recò da Martin
King per acquistare due dei suoi cavalli mezzo-purosangue, una cavalla color crema, dalla criniera e
dalla coda nere, e un castrone sauro dalle lunghe gambe. Chissà per quale motivo, la perdita della
vecchia giumenta saura colpì Meggie più della separazione da Ralph, una reazione ritardata; come
se la morte della cavalla avesse posto più chiaramente in risalto la partenza di lui. Ma fu
piacevolissimo trovarsi di nuovo nei pascoli, cavalcare con i cani, mangiare la polvere di un belante
gregge di pecore, osservare il cielo, gli uccelli, il terreno.
La siccità era tremenda. L'erba, a Drogheda, aveva sempre potuto sopravvivere alle siccità che
Meggie ricordava, ma questa sembrava diversa. L'erba cresceva a chiazze, e, tra un ciuffo e l'altro,
si vedeva il terreno, screpolato da una rete sottile di fessure beanti come bocche inaridite. E di
questo si doveva ringraziare soprattutto i conigli selvatici. Nei quattro anni dell'assenza di Meggie si
erano improvvisamente moltiplicati in misura del tutto irragionevole, sebbene fossero stati già
troppo numerosi molti anni prima. Solo che, quasi da un giorno all'altro, il loro numero era arrivato
molto al di là del punto di saturazione. Li si vedeva dappertutto, e divoravano l'erba tanto preziosa.
Meggie imparò a disporre trappole per conigli, sebbene non potesse sopportare, in un certo qual
modo, di vedere le miti, piccole creature maciullate tra denti d'acciaio, ma anche lei era troppo
creatura della terra per non fare quello che andava fatto. Uccidere in nome della sopravvivenza non
costituiva una crudeltà.
«Dio faccia imputridire l'immigrato inglese con la nostalgia della patria, che per primo si fece
spedire conigli dall'Inghilterra!» esclamava Bob, amareggiato.
I conigli non facevano parte dell'originaria fauna australiana e quell'importazione, suggerita da
motivi sentimentali, aveva sconvolto completamente l'equilibrio ecologico del continente, mentre
così non era accaduto con le pecore e con i bovini, giacché erano stati allevati con criteri scientifici
sin dal momento del loro arrivo. Non esisteva alcun predatore australiano che potesse arginare la
moltiplicazione dei conigli selvatici, e le volpi importate non prosperavano. L'uomo doveva fare la
parte di un predatore innaturale, ma gli uomini erano troppo pochi, e i conigli troppo numerosi.
Meggie, quando ingrossò troppo per poter continuare ad andare a cavallo, trascorse le giornate in
casa, con la signora Smith, con Minnie e con Cat, cucendo o lavorando a maglia per la creaturina
che si agitava entro di lei. Il bambino (pensava sempre alla creatura come al «bambino») sembrava
far parte del suo essere come non era mai accaduto con Justine; Meggie non soffriva né di nausee né
di malinconie, e aspettava avidamente il momento di partorire. Forse, in parte, l'ignara responsabile
di ciò era Justine; adesso che l'esserino dagli occhi scialbi stava cambiando e, da abulica poppante,
si trasformava in una bambina estremamente intelligente, Meggie si sorprendeva a esserne
affascinata. Molto tempo era trascorso da quando Justine l'aveva lasciata indifferente, e adesso
Meggie anelava a prodigare amore a sua figlia, ad abbracciarla, a baciarla, a ridere con lei. Vedersi
cortesemente respingere era uno shock, eppure Justine reagiva in questo modo a ogni approccio
affettuoso.
Quando Jims e Patsy erano tornati dal Riverview, la signora Smith aveva creduto di poterli
riprendere sotto le proprie ali, ed era rimasta delusa constatando che rimanevano la maggior parte
del tempo nei pascoli. Così aveva rivolto il proprio affetto alla piccola Justine, ma soltanto per
sentirsi fermamente esclusa come Meggie. Sembrava che Justine non volesse essere abbracciata,
baciata, o fatta ridere.
Aveva cominciato a camminare e a parlare presto, a nove mesi. Una volta in grado di reggersi in
piedi e padrona di un linguaggio molto articolato, si era sentita autonoma e padrona di fare
esattamente quello che voleva. Non che fosse turbolenta o assumesse atteggiamenti tracotanti; era
semplicemente fatta di un metallo durissimo. Meggie non sapeva niente in fatto di geni e di
ereditarietà, ma, se avesse avuto qualche cognizione al riguardo, le sarebbe stato possibile riflettere
sulle conseguenze di incroci tra i Cleary, gli Armstrong e gli O'Neill. Non poteva non derivarne un
miscuglio umano formidabile.
Ma a sgomentare, soprattutto, era il fatto che Justine si rifiutava ostinatamente di sorridere e di
ridere. Tutti coloro che si trovavano a Drogheda facevano l'impossibile per esibirsi in lazzi che
destassero in lei almeno un sorriso, ma senza alcun risultato. In fatto di innata solennità, superava
sua nonna.
Il primo ottobre, quando Justine aveva sedici mesi esatti, nacque a Drogheda il figlio di Meggie.
Anticipò di quasi quattro settimane, e nessuno lo aspettava; vi furono due o tre forti contrazioni, le
acque si ruppero e il bambino venne aiutato a venire alla luce dalla signora Smith e da Fee pochi
minuti dopo che avevano chiamato il medico per telefono. Per Meggie non vi fu quasi il tempo
richiesto dalla dilatazione. Il dolore fu minimo, e il cimento terminò così rapidamente da farle quasi
pensare che non fosse esistito. Nonostante i punti resi necessari dal fatto che il bambino era stato
così precipitoso nel venire alla luce, Meggie si sentiva meravigliosamente bene. La montata lattea
era stata del tutto assente nel caso di Justine, ma ora aveva i seni colmi fino a traboccare. Non
occorrevano, questa volta, né biberon, né scatole di Lactogen.
E il bambino era così splendido! Lungo e snello, con un ciuffo di capelli color lino sul cocuzzolo
del piccolo cranio perfetto e vividi occhi azzurri che non davano l'impressione di dover
minimamente cambiare in seguito. Come avrebbero potuto assumere un altro colore? Erano gli
occhi di Ralph, così come aveva le mani di Ralph, il naso e la bocca di Ralph, persino i piedi di
Ralph. Meggie era abbastanza priva di scrupoli per apprezzare che Luke somigliasse molto a Ralph
per struttura, carnagione, fattezze. Ma le mani, il modo con il quale crescevano le sopracciglia, la
peluria dell'attaccatura a punta dei capelli al centro della fronte, la forma delle dita delle mani e dei
piedi; tutti questi particolari ripetevano in modo identico le particolarità di Ralph e non ricordavano
affatto quelle di Luke. Meglio augurarsi che nessuno ricordasse quale dei due uomini le possedeva.
«Hai deciso come chiamarlo?» domandò Fee. Il bambino sembrava affascinarla.
Meggie, sorreggendo il bambino, la osservò, e si sentì invadere da una sensazione di gratitudine.
Ma' avrebbe amato di nuovo; oh, forse non come aveva voluto bene a Frank, ma, per lo meno,
sarebbe stata in grado di sentire di nuovo qualcosa.
«Lo chiamerò Dane.»
«Che nome bizzarro! Come mai? È un nome di famiglia degli O'Neill? Credevo che tu avessi
chiuso, con gli O'Neill.»
«Non ha niente a che vedere con Luke. Questo è il nome del bambino e di nessun altro. Odio i nomi
di famiglia; è come voler appiccicare qualcosa di estraneo, che appartiene a qualcun altro, a una
nuova creatura. Ho chiamato Justine Justine soltanto perché quel nome mi piaceva, e chiamerò
Dane Dane per la stessa ragione.»
«Be', ha un suono simpatico» riconobbe Fee.
Meggie trasalì. Aveva i seni troppo pieni. «Meglio che tu lo dia a me, Ma'. Oh, spero proprio che sia
affamato! E spero che il vecchio Blue si ricordi di portare il tira-latte. Altrimenti dovrete andare in
macchina a Gilly per acquistarlo.»
Il bambino era affamato; si attaccò a lei con tanto impeto, che la piccola bocca gommosa le fece
male. Contemplandolo, osservando gli occhi chiusi con le ciglia scure dorate in punta, le
sopracciglia piumose, le minuscole gote guizzanti, Meggie lo amò così intensamente che
quell'amore esasperato parve più doloroso di quanto potesse mai esserlo il suo succhiare.
Mi basta; deve bastarmi, non avrò mai di più. Ma, per Dio, Ralph de Bricassart, per quel Dio che tu
ami più di me, non saprai mai che cosa ho rubato a te... e a Lui. Non ti dirò mai di Dane. Oh,
bambino mio! Si spostò contro i guanciali per sistemarlo più comodamente nella piega del braccio,
e per poter contemplare meglio il viso minuscolo e perfetto. Bambino mio! Appartieni a me, e non ti
cederò mai a nessuno. Meno che mai a tuo padre, il quale è prete e non può riconoscerti. Non è
meraviglioso?
Il piroscafo ormeggiò a Genova ai primi di aprile. L'Arcivescovo Ralph sbarcò in un'Italia nella
quale esplodeva la primavera mediterranea, e prese il treno per Roma. Se lo avesse richiesto,
sarebbero venuti a prenderlo e lo avrebbero portato in macchina, ma paventava di sentire la Chiesa
racchiuderglisi attorno di nuovo; voleva rimandare il più possibile quel momento. La Città Eterna.
Era davvero questo, pensò, contemplando attraverso i finestrini del tassì i campanili e le cupole, le
piazze disseminate di piccioni, le fontane ambiziose, le colonne romane la cui base affondava
profondamente nei secoli. Ah, ma per lui queste erano tutte cose superflue. La sola cosa che
contasse era un'altra parte di Roma, il Vaticano, con i suoi sontuosi saloni pubblici e le sue tutt'altro
che sontuose stanze private.
Un monaco domenicano dalle vesti nere e color crema lo condusse lungo alti corridoi di marmo, tra
sculture in bronzo e in pietra degne di un museo, accanto a grandi dipinti nello stile di Giotto, di
Raffaello, del Botticelli, dell'Angelico. Si trovava nelle sale pubbliche di un grande Cardinale, e
senza dubbio la ricca famiglia Contini-Verchese aveva contribuito generosamente per abbellire
l'ambiente nel quale viveva il suo augusto rampollo.
In una sala avorio e oro, arricchita di colori dagli arazzi e dai dipinti, con tappeti e mobili francesi, e
ovunque pennellate cremisi, sedeva il Cardinale Contini-Verchese. Le piccole mani lisce, su un dito
delle quali splendeva l'anello con rubino, vennero tese verso di lui in un gesto di benvenuto; lieto di
poter tenere gli occhi bassi, l'Arcivescovo Ralph attraversò la stanza, si inginocchiò e prese la mano
per baciare l'anello. Poi poggiò la gota alla mano, sapendo di non poter mentire, sebbene ne avesse
avuto l'intenzione sino al momento in cui aveva sfiorato con le labbra quel simbolo del potere
spirituale e dell'autorità temporale.
Il Cardinale mise l'altra mano sulla spalla china, congedando il monaco con un cenno del capo, poi,
mentre la porta si chiudeva silenziosamente, la mano salì dalla spalla ai capelli, indugiò nella loro
folta oscurità, li scostò con tenerezza dalla fronte. Erano cambiati; presto non sarebbero più stati
neri, ma color ferro. La spina dorsale incurvata si irrigidì, le spalle indietreggiarono, e l'Arcivescovo
Ralph guardò direttamente in faccia il suo superiore.
Ah, vi era stato un mutamento! La bocca si era ritratta, conosceva la sofferenza e sembrava più
vulnerabile; gli occhi, così meravigliosi per il colore e il taglio, erano completamente diversi dagli
occhi che il prelato ricordava come se non si fossero mai allontanati materialmente da lui. Il
Cardinale aveva sempre fantasticato che gli occhi di Gesù fossero stati azzurri e identici a quelli di
Ralph: calmi, distaccati da ciò che Egli vedeva, e di conseguenza capaci di accogliere tutto, di
capire tutto. Ma forse era stata una fantasticheria. Come era possibile provare qualcosa per il genere
umano e soffrire personalmente, senza che ciò trasparisse dagli occhi?
«Suvvia, Ralph, si accomodi.»
«Eminenza, desidero confessarmi.»
«Dopo, dopo. Prima parleremo, e in inglese. Ci sono orecchie dappertutto, di questi tempi, ma,
grazie al nostro buon Gesù, non orecchie che conoscano l'inglese. Si accomodi, Ralph, la prego. Oh,
che piacere riaverla qui! Mi sono mancati i suoi assennati consigli, la sua razionalità, la sua
compagnia perfetta. Non mi hanno dato alcun collaboratore che mi piaccia anche soltanto la metà di
lei.»
Sentì che la sua mente già si adattava alle formalità, sentì i pensieri stessi, nella mente, adattarsi a
un fraseggiare più ampolloso; Ralph de Bricassart sapeva come tutto di un uomo potesse essere
modificato dalle compagnie frequentate, soprattutto il modo di esprimersi. Non si addiceva a quelle
orecchie la disinvolta scorrevolezza dell'inglese familiare. Pertanto sedette di fronte all'esile figura
fasciata dal moiré scarlatto, quel colore mutevole eppure non mutevole, tale da far sì che gli orli si
fondessero con lo sfondo circostante invece di risaltare contro di esso.
La disperata stanchezza che aveva conosciuto per settimane parve scostarglisi un poco dalle spalle;
si domandò perché avesse tanto paventato quell'incontro, pur sapendo con certezza in cuor suo che
sarebbe stato capito e perdonato. Ma non si trattava di questo, non si trattava affatto di questo. Era il
suo rimorso per aver fallito, per essere stato inferiore a quanto aveva aspirato a essere, per aver
deluso un uomo che si era sempre interessato a lui ed era stato enormemente buono, un vero amico.
Il rimorso per dover apparire dinanzi a quella pura presenza, non più puro egli stesso.
«Ralph, siamo sacerdoti, ma siamo anche qualcos'altro prima di questo, qualcosa che eravamo
prima di diventare sacerdoti, e cui non possiamo sottrarci nonostante la nostra intransigenza. Siamo
uomini, con le debolezze e i difetti degli uomini. Niente che lei possa dirmi riuscirebbe a modificare
le impressioni che mi sono formato sul suo conto durante gli anni trascorsi insieme, niente di quanto
potrebbe dirmi riuscirebbe a farmi pensare meno bene di lei, o far sì che la stimassi meno. Per molti
anni mi sono reso conto che lei si era sottratto a questa consapevolezza della nostra debolezza
intrinseca, della nostra umanità, ma sapevo che vi sarebbe arrivato, come accade a tutti noi. Anche
al Santo Padre, che è il più umile e il più umano di tutti.»
«Sono venuto meno ai voti, Eminenza. Questo non può essere perdonato facilmente. È un
sacrilegio.»
«Trasgredì al voto della povertà anni or sono, quando accettò il lascito della signora Mary Carson.
Rimangono dunque la castità e l'ubbidienza, non è così?»
«Allora ho trasgredito a tutti e tre i voti, Eminenza.»
«Vorrei che mi chiamasse Vittorio, come un tempo! Non sono scandalizzato, Ralph, né deluso.
Tutto è come Nostro Signore Gesù Cristo vuole, e io credo che lei dovesse apprendere una grande
lezione, e non avrebbe potuto apprenderla in modo meno distruttivo. Dio è misterioso, le Sue
ragioni trascendono la nostra misera capacità di comprensione. Ma credo che quanto lei ha fatto non
sia stato fatto alla leggera, che lei non abbia gettato via i voti come se non rivestissero alcun valore.
La conosco molto bene. So che è orgoglioso, molto innamorato dell'idea di essere un sacerdote,
molto consapevole della sua intransigenza. È possibile che lei avesse bisogno di questa particolare
lezione per diminuire tale orgoglio, per capire che è in primo luogo un uomo, e, di conseguenza,
non proprio intransigente come crede. Non è così?»
«Sì, mancavo di umiltà, e, in un certo senso, aspiravo, credo, a essere Dio stesso. Ho peccato nel
modo più terribile e inescusabile. Non posso perdonare me stesso, come è dunque possibile che osi
sperare nel perdono divino?»
«L'orgoglio Ralph, l'orgoglio! Non spetta a lei perdonare, ancora non lo capisce! Soltanto Dio può
perdonare. Soltanto Dio! Ed Egli perdonerà, se esiste un pentimento sincero. Ha perdonato peccati
più gravi, commessi da santi di gran lunga più grandi, sa, nonché da scellerati di gran lunga
peggiori. Crede che il principe Lucifero non sia stato perdonato? Fu perdonato nel momento stesso
della sua ribellione. Il suo fato di padrone dell'inferno lo ha voluto lui stesso, non è opera di Dio. E
non lo disse, forse? "Meglio governare all'inferno che servire in Cielo!" Poiché non riuscì a
sormontare l'orgoglio; non sopportò di sottomettere la propria volontà alla Volontà di Qualcun altro,
anche se quel Qualcuno era Dio stesso. Non voglio vederla commettere lo stesso errore, mio
carissimo amico. L'umiltà era l'unica dote che le mancasse, ed è proprio quella dote che fa un
grande santo... o un grand'uomo. Finché lei non affiderà a Dio la questione del perdono, non avrà
conquistato la vera umiltà.»
Il forte viso si contorse. «Sì, so che ha ragione. Devo accettare quello che sono senza obiettare, ma
soltanto sforzarmi di essere migliore senza orgoglio per ciò che sono. Mi pento, e pertanto
confesserò e aspetterò il perdono. Mi pento sinceramente, amaramente.» Sospirò; e gli occhi di lui
tradirono il conflitto che le parole misurate non potevano tradire, non in quella stanza.
«Eppure, Vittorio, in un certo senso non mi rimaneva altro da fare. O rovinare quella donna, o
assumere la rovina su di me. Sul momento parve non esservi alcuna possibilità di scelta, perché io
l'amo. Non era stata sua la colpa se io non avevo voluto che l'amore arrivasse al piano fisico. Il
destino di lei divenne più importante del mio, vede. Fino a quel momento, avevo sempre pensato in
primo luogo a me stesso, ritenendomi più importante di lei, perché io ero un sacerdote, ed ella un
essere inferiore. Ma mi resi conto che ero responsabile di quello che lei è... Avrei dovuto lasciarla in
pace quando era una bambina, ma non lo feci. La conservai nel mio cuore, ed ella lo sapeva. Se
davvero l'avessi strappata dal mio cuore, si sarebbe resa conto anche di questo, e sarebbe diventata
una persona ch'io non avrei potuto influenzare.» Sorrise. «Come vede, ci sono molte cose di cui mi
devo pentire. Ho tentato una mia piccola creazione personale.»
«È stato con la Rosa?»
Il capo si reclinò all'indietro; l'Arcivescovo Ralph contemplò il soffitto decorato, con le modanature
dorate e la lumiera barocca di Murano. «Avrebbe mai potuto essere un'altra? È il mio solo tentativo
di creazione.»
«E sarà felice, la Rosa? Non le ha nuociuto, facendole questo, più che rifiutandosi a lei?»
«Non lo so, Vittorio, vorrei saperlo! Sul momento parve essere la sola cosa possibile. Non posseggo
la preveggenza di Prometeo, e il coinvolgimento emotivo fa sì che l'uomo sia un misero giudice.
Inoltre, è semplicemente... accaduto! Ma credo che forse le occorresse più di ogni altra cosa quello
che le ho dato, il riconoscimento della sua identità come donna. Non intendo dire con questo che lei
non sapesse di essere una donna. Intendo dire che non lo sapevo io. Se l'avessi conosciuta per la
prima volta già donna, tutto avrebbe potuto essere diverso, ma la conobbi bambina, per molti anni.»
«Sembra piuttosto presuntuoso, Ralph, e non ancora pronto per il perdono. È doloroso, non è vero?
Il fatto di essere stato così umano da cedere a debolezze umane. La cosa avvenne davvero in un tale
spirito di nobile autosacrificio?»
Stupito, fissò i liquidi occhi neri, si vide riflesso in essi come due manichini minuscoli, dalle
dimensioni insignificanti. «No» disse. «Sono un uomo, e, in quanto uomo, ho trovato un piacere in
lei che non mi sognavo potesse esistere. Non sapevo che una donna potesse dare simili sensazioni, o
potesse essere la fonte di una gioia così profonda. Avrei voluto non lasciarla mai, non soltanto per il
suo corpo, ma perché mi piaceva, semplicemente, essere con lei... parlarle, non parlarle, mangiare
quello che cucinava, sorriderle, condividere i suoi pensieri. Mi mancherà finché avrò vita.»
C'era qualcosa, nella faccia giallognola e ascetica, che inspiegabilmente gli ricordava la faccia di
Meggie in quel momento della separazione; la vista di un fardello spirituale che veniva rimosso, la
risolutezza di un'indole senz'altro capace di andare avanti nonostante i fardelli, le pene, le
sofferenze. Chi aveva conosciuto, prima? Il Cardinale fasciato di seta rossa, la cui sola inclinazione
umana sembrava essere la sua languida gatta abissina?
«Non posso pentirmi di quello che ho avuto con lei in questo modo» continuò Ralph, poiché Sua
Eminenza non parlò. «Mi pento di avere trasgredito a voti solenni e impegnativi quanto la mia vita.
Non potrò mai più accostarmi ai miei doveri sacerdotali nella stessa luce, con lo stesso zelo. Di
questo mi pento amaramente. Ma Meggie?» L'espressione sulla sua faccia, quando pronunciò il
nome, indusse il Cardinale Vittorio a voltarsi per lottare contro i propri pensieri.
«Pentirmi di Meggie significherebbe assassinarla.» Ralph, stancamente, si passò la mano sugli
occhi. «Non so se questo sia molto chiaro, o anche soltanto se si avvicini a dire quello che intendo.
Sembra che non riesca mai a esprimere in modo adeguato quello che sento per Meggie.» Si protese
in avanti dalla poltrona, mentre il Cardinale tornava a voltarsi, e vide le due immagini gemelle di se
stesso diventare un po' più grandi. Gli occhi di Vittorio erano come specchi; riflettevano quel che
vedevano e non consentivano mai di intravedere quello che passava dietro a essi. Gli occhi di
Meggie erano esattamente l'opposto: profondi e profondi e profondi, fino all'anima sua. «Meggie è
una benedizione. È una cosa sacra per me, un diverso genere di sacramento.»
«Sì, capisco» sospirò il Cardinale. «È un bene che lei senta questo. Agli occhi di Nostro Signore
credo che ciò attenuerà il grande peccato. Nel suo interesse, lei farebbe meglio a confessarsi con
Padre Giorgio, non con Padre Guillermo. Padre Giorgio non fraintenderà i suoi sentimenti e il suo
ragionamento. Vedrà la verità. Padre Guillermo è meno percettivo e potrebbe trovare discutibile il
suo pentimento.» Un lieve sorriso passò sulla bocca sottile, come una parvenza d'ombra. «Anche
loro sono uomini, Ralph, quelli che ascoltano le confessioni dei grandi. Non lo dimentichi mai,
finché vivrà. Soltanto nel sacerdozio si comportano come urne contenenti Dio. Sotto ogni altro
aspetto, sono uomini. E il perdono che concedono viene da Dio, ma le orecchie che ascoltano e
giudicano appartengono a uomini.»
Bussarono con discrezione alla porta; il Cardinale rimase seduto in silenzio e seguì con lo sguardo il
vassoio del tè che veniva portato su un tavolo intarsiato.
«Vede, Ralph? Dopo il periodo trascorso in Australia, ho preso l'abitudine del tè pomeridiano. Lo
preparano molto bene nella mia cucina, anche se all'inizio non ne erano capaci.» Alzò la mano
mentre l'Arcivescovo Ralph si accingeva ad avvicinarsi alla teiera. «Ah, no! Lo verserò io stesso.
Mi diverte fare la parte della padrona di casa.»
«Ho veduto molte camicie nere nelle vie di Genova e di Roma» disse l'Arcivescovo Ralph, mentre
osservava il Cardinale Vittorio versare il tè.
«Le speciali coorti del Duce. Ci aspettano tempi molto difficili, mio Ralph. Il Santo Padre è
inflessibile nel pretendere che non vi sia alcuna frattura tra la Chiesa e il governo secolare
dell'Italia, e ha ragione anche in questa come in ogni altra cosa. Qualsiasi cosa possa accadere,
dobbiamo restare liberi di servire tutti i nostri figli, anche se una guerra dovesse dividerli e farli
combattere gli uni contro gli altri in nome di un Dio cattolico. Da qualsiasi parte possano schierarsi
i nostri cuori e i nostri sentimenti, dobbiamo sforzarci sempre di mantenere la Chiesa lontana dalle
ideologie politiche e dalle dispute internazionali. Ho voluto che lei tornasse con me perché posso
essere certo che la sua faccia non tradirà quello che pensa la mente, qualunque cosa possano vedere
gli occhi, e perché lei possiede la migliore intelligenza diplomatica nella quale io mi sia mai
imbattuto.»
L'Arcivescovo Ralph sorrise malinconicamente. «Favorirà la mia carriera nonostante quello che
sono, vero? Mi domando che cosa sarebbe stato di me se non l'avessi conosciuta.»
«Oh, sarebbe diventato l'Arcivescovo di Sydney, una carica piacevole, e importante» disse Sua
Eminenza, con un aureo sorriso. «Ma il cammino che seguiamo nella vita non è nelle nostre mani.
Ci conoscemmo perché così doveva essere, così come è destinato che lavoriamo insieme, adesso,
per il Santo Padre.»
«Non scorgo il successo al termine del cammino» disse l'Arcivescovo Ralph. «Credo che il risultato
sarà quello che è sempre il risultato dell'imparzialità. Nessuno ci amerà, e tutti ci condanneranno.»
«Questo lo so, e lo sa Sua Santità. Ma non possiamo fare altro. E nulla ci impedisce di pregare in
privato per la rapida caduta del Duce e del Führer, non le sembra?»
«Pensa davvero che ci sarà la guerra?»
«Non vedo alcuna possibilità di evitarla.»
La gatta di Sua Eminenza sbucò fuori dall'angolo assolato ove aveva dormito, e balzò, un po'
goffamente perché era vecchia, sul grembo scarlatto e luccicante.
«Ah, Sheba! Saluta il tuo vecchio amico Ralph, che solevi preferire a me.»
I satanici occhi gialli osservarono altezzosi l'Arcivescovo Ralph, e si chiusero. Entrambi gli uomini
risero.
15

A Drogheda c'era la radio. Il progresso era finalmente arrivato a Gillanbone sotto forma di una
stazione radiofonica della Australian Broadcasting Commission, e finalmente, in fatto di
divertimento collettivo, qualcosa gareggiava con la linea telefonica a circuito chiuso. La radio di per
sé era un oggetto assai brutto, racchiuso in una scatola di noce appoggiata su uno squisito stipo da
salotto e alimentato da una batteria per automobile nascosta dentro il mobile.
Tutte le mattine la signora Smith, Fee e Meggie l'accendevano per sentire le notizie del distretto di
Gillanbone e il bollettino meteorologico; tutte le sere Fee e Meggie ascoltavano il notiziario
nazionale della MCMCABC. Come era strano essere collegati istantaneamente con l'Esterno; sentir
parlare di alluvioni, incendi, piogge in ogni parte della nazione, dell'Europa inquieta e della politica
australiana, facendo a meno di Bluey Williams e dei suoi giornali invecchiati.
Quando il notiziario nazionale di venerdì primo settembre annunciò che Hitler aveva invaso la
Polonia, c'erano in casa soltanto Fee e Meggie, e nessuna delle due prestò attenzione. Al riguardo, si
erano fatte ipotesi per mesi; e, d'altro canto, l'Europa si trovava agli Antipodi. Non aveva niente a
che vedere con Drogheda, che era il centro dell'universo. Ma domenica 3 settembre tutti gli uomini
rientrarono dai pascoli per ascoltare la Messa celebrata da Padre Watty Thomas, e gli uomini si
interessavano all'Europa. Né Fee né Meggie avevano pensato di riferire loro la notizia di venerdì, e
Padre Watty, che avrebbe potuto parlarne, ripartì in fretta diretto a Narrengang.
Come sempre, quella sera la radio venne accesa per ascoltare il notiziario nazionale. Ma, invece dei
toni incisivi e assolutamente oxfordiani dell'annunciatore, si udì la voce garbata e
inequivocabilmente australiana del Primo ministro, Robert Gordon Menzies.
«Compatrioti australiani, ho il triste dovere di informarvi ufficialmente che, in seguito
all'ostinazione della Germania nell'invadere la Polonia, la Gran Bretagna ha dichiarato la guerra, e
che, di conseguenza, anche l'Australia si trova in guerra...
«È logico presumere che l'ambizione di Hitler non sia quella di unire tutto il popolo tedesco sotto un
solo capo, ma di assoggettare tutti quei paesi che possono essere conquistati con la forza. Se ciò
dovesse continuare, non potrebbero sussistere la sicurezza in Europa né la pace nel mondo...
Indubbiamente, ove si trova la Gran Bretagna, là si trovano i popoli di tutto il mondo di lingua
inglese...
«La nostra capacità di resistenza e quella della Madre Patria saranno meglio garantite mantenendo il
ritmo della produzione, continuando nelle nostre imprese e nei nostri affari, mantenendo
l'occupazione e, con ciò, la nostra forza. So che, nonostante la commozione di tutti, l'Australia è
pronta ad arrivare sino in fondo.
«Possa Dio, nella Sua misericordia, concedere al mondo di essere liberato al più presto da questo
flagello.»
Seguì, nel salotto, un lungo silenzio, interrotto dalla voce metallica di Neville Chamberlain che
parlava ai popoli di lingua inglese mediante un collegamento a onde corte. Fee e Meggie
guardarono i loro uomini.
«Contando Frank, siamo in sei» disse Bob, nel silenzio. «Tutti noi, tranne Frank, ci troviamo qui
nell'allevamento, e questo significa che non ci consentiranno di arruolarci. Dei nostri attuali
guardiani, ritengo che sei vorranno andare sotto le armi e due preferiranno rimanere.»
«Io voglio andare!» esclamò Jack, con gli occhi splendenti.
«Anch'io!» disse Hughie, avidamente.
«E anche noi» disse Jims, a nome del taciturno Patsy.
Ma tutti guardarono Bob, che era il capo.
«Dobbiamo essere ragionevoli» disse. «La lana è un prodotto utile per la guerra e non soltanto per
l'industria dell'abbigliamento. Viene impiegata nella produzione di munizioni e di esplosivi, e per
ogni sorta di cose strane che certo non immaginiamo neppure. Inoltre, alleviamo bestiame che
fornisce carne e dalle nostre pecore si ricavano pellami, colla, sego, lanolina... tutti prodotti di utilità
bellica.
«Di conseguenza, non possiamo partire e lasciare che Drogheda vada in rovina, quali che possano
essere le nostre aspirazioni. Con una guerra in corso, sarà molto difficile sostituire i guardiani che
perderemo. La siccità è arrivata al terzo anno, stiamo tagliando il sottobosco per evitare gli incendi
e i conigli selvatici ci fanno impazzire. Per il momento, il nostro dovere è quello di restare qui a
Drogheda; non è molto entusiasmante in confronto al combattimento, ma è necessario. Faremo tutti
del nostro meglio qui.»
Le facce maschili si erano rabbuiate, quelle femminili illuminate.
«E se la guerra durasse più a lungo di quanto pensi il vecchio Bob Ghisa Grezza?» domandò
Hughie, dando al Primo ministro il suo nomignolo nazionale.
Bob rifletté intensamente e la sua faccia, cotta dalle intemperie, si riempì di rughe. «Se la situazione
peggiorerà e la guerra continuerà a lungo, allora credo che, finché avremo due guardiani, potremo
fare a meno di due Cleary, ma soltanto se Meggie sarà disposta a tornare in sella e a occuparsi dei
recinti interni. Sarebbe spaventosamente faticoso e, in tempi buoni, non avremmo alcuna possibilità
di farcela; ma con questa siccità credo che cinque uomini e Meggie, lavorando sette giorni alla
settimana, potrebbero mandare avanti Drogheda. In ogni modo, questo significa chiedere molto a
Meggie, con due bambini piccoli.»
«Se sarà necessario, Bob, bisognerà farlo» disse Meggie. «Alla signora Smith non dispiacerà
contribuire, occupandosi di Justine e di Dane. Quando giudicherai che sarò indispensabile per
mantenere a pieno ritmo la produzione di Drogheda, comincerò a cavalcare nei recinti interni.»
«Allora siamo noi i due di cui si può fare a meno» disse Jims, sorridendo.
«No, siamo Hughie e io» si affrettò a dire Jack.
«Di diritto dovrebbe toccare a Jims e a Patsy» osservò lentamente Bob. «Siete i più giovani e
inesperti come allevatori, mentre come soldati saremmo tutti ugualmente inesperti. Ma per il
momento avete appena sedici anni, ragazzi.»
«Prima che la situazione peggiori ne avremo diciassette» sostenne Jims. «Dimostriamo più della
nostra età, e ci arruoleranno senz'altro se avremo una tua lettera controfirmata da Harry Gough.»
«Be', per il momento non partirà nessuno. Vediamo piuttosto se riusciremo a far produrre di più
Drogheda, nonostante la siccità e i conigli selvatici.»
Meggie uscì silenziosamente dal salotto e salì nella camera dei bambini. Dane e Justine dormivano,
ognuno nel suo lettino verniciato di bianco. Passò accanto alla figlia e si chinò sul figlio,
contemplandolo a lungo.
«Grazie a Dio, sei soltanto un bambino» mormorò.
Trascorse quasi un anno prima che la guerra si intromettesse nel piccolo universo di Drogheda, un
anno durante il quale, a uno a uno, i guardiani se ne andarono, i conigli selvatici continuarono a
moltiplicarsi, e Bob lottò valorosamente per fare in modo che i registri dell'allevamento fossero
degni dello sforzo bellico. Ma, ai primi di giugno del 1940, giunse la notizia che il Corpo di
spedizione inglese era stato fatto sgombrare dal teatro di operazioni europeo, a Dunquerque; i
volontari per il Secondo Corpo Imperiale Australiano accorsero a migliaia nei centri di
reclutamento, e tra essi vi furono Jims e Patsy.
Quattro anni di lavoro a cavallo nei pascoli, con ogni tempo, avevano fatto perdere ai gemelli
l'aspetto di adolescenti, plasmandoli con la pacatezza senza età delle minuscole pieghe agli angoli
esterni degli occhi, e delle rughe dal naso alla bocca. Presentarono le lettere e furono arruolati senza
commenti. Gli uomini della boscaglia erano graditi. Di solito sparavano bene, conoscevano
l'importanza dell'eseguire gli ordini, ed erano resistenti alle fatiche.
Jims e Patsy si erano arruolati a Dubbo, ma dovevano essere addestrati nella base di Ingleburn, nei
dintorni di Sydney, per cui tutti li accompagnarono al postale della notte. Cormac Carmichael, il
figlio minore di Eden, si trovava sullo stesso treno per la stessa ragione, diretto, come risultò, alla
stessa base. E così, le due famiglie li sistemarono comodamente in uno scompartimento di prima
classe, e rimasero lì goffamente, desiderose di piangere, di baciare i loro ragazzi e avere qualcosa di
rincuorante da ricordare, ma paralizzate dal riserbo tutto inglese nei confronti delle espansioni. La
grossa locomotiva a vapore C-36 fischiò lugubremente, e il capostazione suonò il fischietto.
Meggie si protese per posare timidamente un bacio sulle guance dei fratelli, poi fece altrettanto con
Cormac, che sembrava la copia esatta del suo fratello maggiore, Connor; Bob, Jack e Hughie
strinsero tre diverse giovani mani; la signora Smith, in lacrime, fu la sola ad abbandonarsi ai baci e
agli abbracci cui tutti anelavano. Eden Carmichael, con la moglie e la figlia che stava ormai
invecchiando, ma che era ancora bella, fecero altrettanto. Poi tutti discesero sul marciapiede, mentre
i vagoni cozzavano contro i respingenti e il treno partiva adagio adagio.
«Arrivederci, arrivederci!» gridarono tutti, e agitarono grandi fazzoletti bianchi finché il treno non
fu altro che una scia di fumo nelle baluginanti lontananze del tramonto.
Insieme, come avevano chiesto, Jims e Patsy vennero assegnati alla nuova, e soltanto in parte
addestrata, Nona Divisione Australiana e si imbarcarono per l'Egitto agli inizi del 1941, giusto in
tempo per essere coinvolti nella rotta a Bengasi. Appena arrivato, il generale Erwin Rommel aveva
influito col suo formidabile peso sulle alterne sorti della guerra, dando l'avvio al primo
capovolgimento di direzione nei grandi e ciclici movimenti pendolari avanti e indietro attraverso
l'Africa Settentrionale. E, mentre le altre forze inglesi, di fronte al nuovo Afrika Korps, ripiegavano
ignominiosamente verso l'Egitto, la Nona Divisione Australiana ebbe l'ordine di occupare e tenere
Tobruk, un avamposto nel territorio conquistato dall'Asse. Una sola cosa rese attuabile il piano, il
fatto che Tobruk continuasse a essere accessibile dal mare e potesse essere rifornita finché le navi
inglesi erano in grado di incrociare nel Mediterraneo. I Topi di Tobruk vi rimasero rintanati per otto
mesi, e sostennero un'azione dopo l'altra, mentre Rommel, di quando in quando, scagliava contro di
loro tutte le forze disponibili senza riuscire a sloggiarli.
«Lo sapete perché siete qui?» domandò il soldato semplice Col Stuart, leccando la cartina della
sigaretta e arrotolandola pigramente.
Il sergente Bob Malloy spinse indietro il berretto quanto bastava per poter vedere, al di sotto della
visiera, colui che aveva posto la domanda. «No, merda» disse sorridendo; era quella una domanda
che veniva posta spesso.
«Be', è sempre meglio che imbiancare ghette nella dannata prigione di rigore» disse il soldato
semplice Jims Cleary, abbassando un po' di più i calzoncini corti del gemello Patsy, per poter
appoggiare più comodamente la testa sul ventre caldo e soffice di lui.
«Già, ma in prigione nessuno continua a spararti addosso» obiettò Col, lanciando il fiammifero
spento contro una lucertola che si crogiolava al sole.
«Questo lo so, bello mio» disse Bob, riabbassando il berretto in modo che gli facesse ombra sugli
occhi. «Ma preferisco sentirmi sparare addosso che crepare di noia fottuta.»
Erano comodamente sistemati in una trincea asciutta e ghiaiosa, subito di fronte alle mine e agli
sbarramenti di filo spinato che isolavano l'angolo sud-ovest del perimetro; al lato opposto, Rommel
si aggrappava ostinatamente al suo unico lembo del territorio di Tobruk. Una grossa mitragliatrice
Browning calibro 50 condivideva la trincea insieme a loro, e accanto all'arma erano ordinatamente
disposte le cassette delle munizioni, ma nessuno sembrava molto attivo, o interessato alla possibilità
di un attacco. I fucili erano appoggiati a una parete della trincea, e le baionette luccicavano
nell'accecante sole di Tobruk. Le mosche ronzavano dappertutto, ma i quattro uomini venivano
dalla boscaglia australiana, per cui Tobruk e l'Africa Settentrionale non avevano potuto riservare
loro sorprese, in fatto di calura, mosche, polvere.
«Meno male che siete gemelli, Jims» disse Col, scagliando sassi contro la lucertola, che non pareva
disposta a muoversi. «Sembrate due finocchi, sempre intrecciati insieme.»
«La tua è soltanto gelosia» sorrise Jims, accarezzando il ventre di Patsy. «Patsy è il miglior
guanciale di Tobruk.»
«Eh già, fa comodo a te, ma al povero Patsy? Avanti, Harpo, di' qualcosa!» lo stuzzicò Bob.
Patsy sorrise scoprendo i suoi denti candidi, ma, come sempre, tacque. Tutti avevano cercato di
farlo parlare, ma nessuno ci era mai riuscito, a parte qualche indispensabile sì o no; per
conseguenza, quasi tutti lo chiamavano Harpo, il nome del muto tra i fratelli Marx.
«Avete saputo le ultime?» domandò Col, a un tratto.
«Quali?»
«I Matilda del Settimo sono stati fatti a pezzi dagli ottantotto, a Halfaya. I soli cannoni nel deserto
abbastanza potenti per demolire un Matilda. Hanno trapassato quei grossi piglia-in-culo di carri
armati come una dose di sale inglese.»
«Oh, senti, contamene un'altra» fece Bob, scettico. «Io sono sergente e a me non arriva mai
nemmeno un bisbiglio, tu sei un marmittone e sai sempre tutto. Be', compare, se vuoi saperlo, i
mangiapatate non hanno niente che possa annientare una brigata di Matilda.»
«Mi trovavo nella tenda di Morshead, a portare un dispaccio del comandante quando l'ha detto la
radio, ed è vero» sostenne Col.
Per un poco, nessuno parlò; a ogni soldato, in un avamposto assediato come Tobruk, era
indispensabile credere implicitamente che il suo esercito fosse abbastanza potente per toglierlo da
quella situazione. La notizia riferita da Col li aveva demoralizzati, perché nessun militare a Tobruk
prendeva Rommel alla leggera. Avevano resistito ai suoi tentativi di annientarli perché erano
sinceramente persuasi che il combattente australiano non avesse pari al mondo eccezion fatta per i
gurkha, e, se la fiducia costituisce i nove decimi della forza, senza dubbio essi avevano dato prova
di essere formidabili.
«Dannati inglesi» disse Jims. «Quello che ci serve nell'Africa Settentrionale è un maggior numero
di australiani.»
Il coro di consensi venne interrotto da un'esplosione che, sul margine della trincea, annientò la
lucertola e fece balzare i quattro uomini verso la mitragliatrice e i fucili.
«È una fottuta granata italiana, tutta schegge ma senza potenza» disse Bob con un sospiro di
sollievo. «Se si fosse trattato di un regalino di Hitler, staremmo già suonando l'arpa tutti e quattro,
questo è certo, e a te non piacerebbe mica tanto, vero, Patsy?»
All'inizio dell'Operazione Crusader, la Nona Divisione Australiana venne sgombrata via mare e
trasferita al Cairo, dopo un logorante e sanguinoso assedio che sembrava non essere servito a
niente. Tuttavia, mentre la Nona si rintanava a Tobruk, i reparti sempre più numerosi di truppe
inglesi nell'Africa Settentrionale avevano formato l'Ottava Armata, con un nuovo comandante, il
generale Bernard Law Montgomery.
Fee aveva una piccola spilla d'argento a forma di sole nascente, l'emblema dell'Australian Imperial
Force; più in basso, sospesa a due catenelle, portava una sbarretta d'argento sulla quale aveva fatto
applicare due stelle d'oro, una per ciascuno dei figli sotto le armi. La spilla dimostrava che anch'ella
stava dando il suo modesto contributo alla patria: Meggie, non avendo né il marito né un figlio
militari, non poteva portare la spilla. Le era pervenuta una lettera da Luke che la informava che
avrebbe continuato a tagliare canne da zucchero; riteneva che le avrebbe fatto piacere, se per caso
avesse temuto che potesse arruolarsi. A quanto pareva, non ricordava una sola parola di quanto
Meggie gli aveva detto quel mattino nell'albergo di Ingham. Ridendo stancamente e scuotendo la
testa, ella aveva lasciato cadere la lettera nel cestino della carta straccia di Fee domandandosi se sua
madre si crucciasse a causa dei due figli sotto le armi. Che cosa pensava, in realtà, della guerra? Ma
Fee non diceva mai una parola, sebbene si mettesse la spilla ogni giorno e la portasse per tutto il
giorno.
Talora arrivava una lettera dall'Egitto, e quando veniva aperta andava in pezzi perché le forbici del
censore l'avevano riempita di buchi rettangolari, là ove erano stati scritti nomi di località o di
reggimenti. Leggere quelle lettere significava, praticamente, sforzarsi di dedurre molto dal nulla;
esse servivano, comunque, a uno scopo che lasciava in ombra tutti gli altri: finché arrivavano, i
ragazzi continuavano a vivere.
Non c'erano state piogge. Sembrava che anche gli elementi cospirassero per avvizzire la speranza,
poiché il 1941 era il quinto anno di una siccità disastrosa. Meggie, Bob, Jack, Hughie e Fee
disperavano. Il conto in banca di Drogheda era abbastanza pingue per consentire di acquistare tutto
il foraggio necessario a mantenere in vita le pecore, ma la maggior parte non voleva mangiarne.
Ogni gregge aveva un capo naturale, chiamato Giuda; soltanto persuadendo i Giuda a mangiare, si
poteva sperare che anche le altre pecore si nutrissero, eppure, a volte, persino la vista dei Giuda che
masticavano sembrava non essere abbastanza convincente a indurre le altre stupide bestie a
emularli.
Così, anche Drogheda aveva la sua parte di spargimento di sangue, sebbene si trattasse di una cosa
odiosa. L'erba era scomparsa completamente, il terreno sembrava un deserto screpolato, interrotto
soltanto da boschetti grigi e rossicci. Erano tutti armati di coltelli, oltre che di fucili; quando
vedevano un animale a terra, senza occhi a causa dei corvi, qualcuno gli squarciava la gola per
evitargli una lunga agonia. Bob acquistò un maggior numero di bovini e li foraggiò, per sostenere lo
sforzo bellico di Drogheda. Non si poteva ricavarne alcun utile, tenuto conto dei prezzi del foraggio,
in quanto le zone agricole più vicine erano state duramente colpite dall'assenza di piogge quanto
quelle della pastorizia, e i raccolti si riducevano quasi a zero. Tuttavia, da Roma era pervenuto
l'ordine di fare tutto il possibile, indipendentemente dai costi.
Meggie odiava soprattutto il tempo che doveva impiegare lavorando nei recinti. Drogheda era
riuscita a trattenere uno solo dei suoi guardiani, e, fino a quel momento, nessuno aveva sostituito gli
altri: la grande carenza australiana era sempre consistita nella scarsità di mano d'opera. Di
conseguenza, a meno che Bob non notasse la sua irritabilità e la sua stanchezza e non le concedesse
la domenica libera, Meggie lavorava nei pascoli per sette giorni alla settimana. Ma se Bob le
consentiva di riposare la domenica, questo significava che toccava a lui sgobbare di più, quindi lei
si sforzava di non tradire lo sgomento. Non le accadeva mai di pensare che avrebbe potuto rifiutarsi
di fare il lavoro di un guardiano, adducendo a pretesto i due bambini. Erano ben curati, e Bob aveva
bisogno di lei molto più di loro. Meggie non era abbastanza intuitiva per rendersi conto che anche i
due piccoli avevano bisogno di lei; giudicava egoistico il proprio desiderio di stare con loro mentre
erano affidati a mani sicure e affettuose. Sì, si trattava di un desiderio egoistico, soleva dirsi. E non
possedeva quella sorta di fiducia in se stessa che avrebbe potuto farle capire come, agli occhi dei
bambini, ella fosse tanto speciale quanto loro lo erano per lei. E così cavalcava nei recinti e, per
settimane e settimane di seguito, andava a vederli soltanto dopo che erano stati messi a letto, la sera.
Ogni volta che Meggie guardava Dane, sembrava che il cuore le si capovolgesse. Era uno splendido
bambino; anche gli estranei per le vie di Gilly lo notavano quando Fee lo portava nella cittadina.
Aveva un'espressione sempre sorridente, la sua indole era una curiosa combinazione di placidità e di
profonda e salda felicità, sembrava avere acquisito grande serenità, una consapevolezza di se stesso
senza quelle difficoltà nelle quali si imbattono di solito i bambini, poiché di rado commetteva errori
e niente riusciva a esasperarlo o a sconcertarlo. Per sua madre, la somiglianza con Ralph era a volte
addirittura spaventosa, ma, a quanto pareva, nessun altro lo notava. Ralph aveva lasciato Gilly da
molto tempo, e, sebbene Dane avesse le sue stesse fattezze e la stessa struttura fisica, esisteva una
grande differenza, che poteva confondere. Non aveva i capelli neri come Ralph, ma di un oro
pallido; non il colore del frumento o del tramonto, ma il colore dell'erba di Drogheda, un oro che
tendeva al grigio argento e al fulvo.
Sin dal momento in cui aveva posto gli occhi su di lui, Justine adorò suo fratello. Niente era troppo
bello per Dane, niente costava troppi sacrifici, pur di accontentarlo o di fargli un dono. Quando
cominciò a camminare, Justine non si scostò mai dal suo fianco, e di questo Meggie fu molto lieta
perché temeva che la signora Smith e le cameriere fossero ormai troppo anziane per tener bene
d'occhio il bambino. In una delle sue rare domeniche libere, Meggie prese in grembo la figlioletta e
le parlò molto seriamente della necessità di badare a Dane.
«Io non posso restare in casa a sorvegliarlo personalmente» disse «quindi tutto dipende da te,
Justine. È il tuo fratellino e devi sempre badare a lui e accertarti che non si cacci nei pericoli e non
combini disastri.»
Gli occhi chiari erano molto intelligenti, senza quell'attenzione intermittente e distratta tipica di una
bimba di quattro anni. «Non preoccuparti, mammina» disse con vivacità. «Lo sorveglierò sempre io
in vece tua.»
«Vorrei poterlo fare io stessa» sospirò Meggie.
«Io no» replicò la bambina, con un'aria di sufficienza. «Mi piace avere Dane tutto per me. Quindi
non stare a crucciarti. Non lascerò mai che gli succeda qualcosa.»
Meggie non trovò la promessa consolante, sebbene si sentisse alquanto rassicurata. Quella precoce
briciola di donna le avrebbe rubato il figlio e lei non poteva evitarlo. Lavorava di nuovo nei pascoli
mentre Justine sorvegliava fedelmente Dane. Soppiantata dalla sua stessa figliola, che era un
mostro. Da chi aveva preso, in nome del Cielo? Non da Luke, non da lei, non da Fee.
Almeno, ora sorrideva e rideva. Aveva dovuto arrivare all'età di quattro anni prima di scorgere il
lato buffo delle cose; e ciò lo si doveva probabilmente a Dane, che aveva sempre riso sin dalla
primissima infanzia. E siccome lui rideva, rideva anche lei. I due figli di Meggie imparavano l'uno
dall'altro, continuamente. Ma era esasperante constatare che potevano far così bene a meno della
madre. Quando questa disgraziata guerra sarà finita, pensava Meggie, Dane sarà troppo grande per
provare per me quello che dovrebbe. Si sentirà sempre più vicino a Justine. Perché ogni volta che
credo di essere finalmente riuscita a dominare la mia esistenza, accade qualcosa? Non ho voluto io
questa guerra e questa siccità, eppure le ho avute.
Forse era un bene che a Drogheda ci fossero tante difficoltà. Se la situazione fosse stata meno
difficile, Jack e Hughie sarebbero corsi immediatamente ad arruolarsi. Ma stando così le cose, non
potevano fare altro che rassegnarsi e salvare il possibile dalla siccità, che sarebbe stata chiamata la
Grande Siccità. Milioni di chilometri quadrati di colture e di pascoli ne erano colpiti, dalla regione
meridionale di Victoria ai pascoli Mitchell del Territorio Settentrionale, ove l'erba cresceva alta sino
alla vita.
Ma la guerra rivaleggiava con la siccità nell'attrarre l'attenzione di tutti. Con i gemelli nell'Africa
Settentrionale, la famiglia seguiva con ansia dolorosa la campagna militare, man mano che gli
eserciti avanzavano e indietreggiavano in Libia. I Cleary appartenevano alla classe lavoratrice e, di
conseguenza, erano ardenti sostenitori dei laburisti e odiavano il governo di allora, liberale di nome,
ma conservatore di fatto. Quando, nell'agosto del 1941, Robert Gordon Menzies si dimise,
ammettendo di non poter governare, i Cleary esultarono, e quando, il 3 ottobre, il leader laburista
John Curtin venne incaricato di formare il governo, quella fu la più bella notizia mai pervenuta da
anni a Drogheda.
Per tutto il 1940 e il 1941 l'inquietudine a causa del Giappone era andata aumentando, specie dopo
che Roosevelt e Churchill avevano bloccato i rifornimenti di petrolio. L'Europa era molto lontana e
Hitler avrebbe dovuto far percorrere ai suoi eserciti diciannovemila chilometri per invadere
l'Australia, ma il Giappone era l'Asia, faceva parte del pericolo giallo sospeso come una spada di
Damocle sui territori ricchi, deserti, scarsamente popolati del continente australiano. Di
conseguenza, nessuno in Australia si stupì quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbor; stavano
semplicemente aspettando che la cosa avvenisse, in un punto o nell'altro. All'improvviso, la guerra
si fece molto vicina, e avrebbe potuto persino battere alle porte di casa. Nessun grande oceano
separava l'Australia dal Giappone, bensì soltanto grosse isole e piccoli mari.
Il giorno di Natale del 1941, Hong Kong cadde; ma i giapponesi non sarebbero mai riusciti a
prendere Singapore, dissero tutti con sollievo. Poi giunsero le notizie degli sbarchi giapponesi nella
Malesia e nelle Filippine; la grande base navale all'estremità della penisola malese puntava i propri
enormi cannoni dalle traiettorie piatte verso il mare, e teneva pronta la flotta. Ma l'8 febbraio del
1942, i giapponesi attraversarono l'angusto stretto di Johore, sbarcarono sul lato nord dell'isola di
Singapore e si avvicinarono alla città dietro i cannoni impotenti. Singapore cadde senza nemmeno
aver combattuto.
Poi, grandi notizie! Tutte le truppe australiane nell'Africa Settentrionale sarebbero rientrate in
patria. Il Primo ministro Curtin cavalcò senza sgomentarsi i marosi dell'ira di Churchill e sostenne
che l'Australia, per gli australiani, aveva la precedenza. La Sesta e Settima divisione australiane si
imbarcarono rapidamente ad Alessandria; la Nona, che ancora si stava riprendendo al Cairo dalle
ferite infertele a Tobruk, doveva seguirle non appena si fossero rese disponibili altre navi. Fee
sorrise. Meggie era delirante di felicità. Jims e Patsy sarebbero tornati a casa.
Ma non tornarono. Mentre la Nona aspettava le navi trasporto truppe, le sorti alterne della guerra
volsero di nuovo a favore dell'Asse e l'Ottava Armata iniziò la ritirata da Bengasi. Il Primo ministro
Churchill si accordò con il Primo ministro Curtin. La Nona Divisione Australiana sarebbe rimasta
nell'Africa Settentrionale in cambio dell'invio di una divisione americana che avrebbe difeso
l'Australia. Poveri soldati, sbalestrati qua e là, in seguito a decisioni prese in uffici che non
appartenevano neppure ai loro paesi! Concedi di qua, prendi di là.
Fu un duro colpo per l'Australia scoprire che la Madre Patria toglieva dal nido tutti i pulcini
dell'Estremo Oriente, sia pure a una chioccia grassa e promettente come il continente australiano.
La notte del 23 ottobre 1942 regnava un gran silenzio nel deserto. Patsy si spostò leggermente,
trovò suo fratello nelle tenebre, e si appoggiò come un bambino alla sua spalla. Il braccio di Jims lo
allacciò; i due giovani sedettero insieme, senza parlare. Il sergente Bob Malloy diede di gomito al
soldato semplice Col Stuart e sogghignò.
«I due finocchi.»
«Va' a farti fottere anche tu» disse Jims.
«Andiamo, Harpo, di' qualcosa» mormorò Col.
Patsy gli rivolse un sorriso angelico, a malapena visibile nell'oscurità, aprì la bocca e ululò una
eccellente imitazione del verso di Harpo Marx. Tutti, nel raggio di parecchi metri, sibilarono a Patsy
di piantarla; era un all'erta che imponeva il silenzio assoluto.
«Cribbio, questa attesa mi ammazza» sospirò Bob.
Patsy parlò con un urlo: «È il silenzio ad ammazzarmi!»
«Fottuto impostore da baraccone, ti ammazzerò io!» gracidò Col afferrando la baionetta.
«In nome di Dio, finitela» bisbigliò il capitano. «Chi è quel dannato idiota che urla?»
«Patsy» disse in coro una mezza dozzina di voci.
Lo scoppio di risate galleggiò rassicurante sui campi minati e si spense nel fiume di bestemmie
pronunciate a bassa voce dal capitano. Il sergente Malloy sbirciò l'orologio: la lancetta dei minuti
stava segnando in quel momento le ventuno e quaranta.
Ottocentottantadue cannoni e obici inglesi parlarono tutti insieme. Il cielo vacillò, il terreno parve
sollevarsi ed espandersi e non smise di vibrare, poiché i tiri di sbarramento continuarono e
continuarono senza che il volume di fuoco, tale da far vacillare la mente, diminuisse anche soltanto
per un secondo. Inutile ficcarsi le dita nelle orecchie: i tuoni rimbombanti ti raggiungevano
attraverso il suolo e penetravano sino al cervello tramite le ossa. Quelli che dovevano essere gli
effetti sul fronte di Rommel, le truppe della Nona, nelle loro trincee, potevano soltanto immaginarli.
Di solito si riusciva a distinguere questo o quell'altro tipo o calibro di cannoni, ma quella notte le
loro gole d'acciaio formavano un coro perfettamente armonizzato e continuarono a tuonare man
mano che i minuti passavano.
Il deserto venne illuminato, a questo punto, non già dalla luce del giorno, ma dal fuoco del sole
stesso; una vasta e gonfia nube di polvere si sollevò, simile a fumo vorticoso, per centinaia di metri,
resa incandescente dai lampi delle granate e delle mine che esplodevano, dalle fiamme guizzanti di
massicci depositi di munizioni, dagli incendi. Tutti i pezzi di cui Montgomery disponeva sparavano
contro i campi minati... cannoni, obici, mortai. E tutte le munizioni di cui Montgomery disponeva
venivano impiegate, con la rapidità di cui erano capaci i sudati serventi ai pezzi, schiavi che
alimentavano le fauci delle loro armi come uccelli frenetici possono ingozzare un gigantesco
cuculo; le canne dei cannoni si arroventarono, l'intervallo tra il rinculo e il ricaricamento si accorciò
sempre più, man mano che gli artiglieri venivano trascinati dal loro stesso impeto. Impazziti, si
esibivano nella loro danza frenetica e stereotipata intorno ai pezzi di grosso calibro.
Era bellissimo, meraviglioso... il momento culminante nella vita di un artigliere, quello che egli
vive e rivive nei propri sogni, desto o dormendo, per il resto della sua monotona esistenza; anelando
di tornare indietro nel tempo, a quei quindici minuti con i cannoni di Montgomery.
Silenzio. Un silenzio mortale, assoluto, che si frangeva come onde sui timpani placati; un silenzio
intollerabile. Le dieci meno cinque, precise. La Nona balzò in piedi e avanzò fuori dei
trinceramenti, nella terra di nessuno, inastando le baionette, afferrando i caricatori, togliendo le
sicure, controllando le borracce, le razioni, gli orologi, gli elmetti, assicurandosi che i lacci degli
scarponi fossero ben annodati, accertando la posizione di coloro che portavano le mitragliatrici. Ci
si vedeva bene, nei bagliori infernali degli incendi e della sabbia incandescente, fusa e tramutata in
vetro, ma il drappo funebre di polvere rimaneva sospeso tra il nemico e loro erano al sicuro. Per il
momento. Al margine dei campi minati si fermarono, aspettarono.
L'ora stabilita, al secondo. Il sergente Malloy portò il fischietto alle labbra e soffiò con forza,
diffondendo lo stridulo segnale lungo le file della compagnia, a dritta e a manca; il capitano urlò
l'ordine di avanzare. Su un fronte di oltre tre chilometri, la Nona entrò nei campi minati, e
l'artiglieria riprese a sparare dietro a essa, tuonando. Vedevano dove stavano andando come se fosse
stato giorno, poiché gli obici, sparando a distanza ravvicinata, facevano esplodere i proiettili pochi
metri più avanti. Ogni tre minuti, il tiro veniva allungato di altri cento metri; si avanzava per quei
cento metri pregando che si trattasse soltanto di mine anticarro, o che le mine S, le mine antiuomo,
fossero state eliminate dai cannoni di Montgomery. C'erano ancora tedeschi e italiani sul campo,
avamposti con mitragliatrici, con pezzi d'artiglieria di piccolo calibro, cannoni da 50 mm, mortai. A
volte, un uomo metteva il piede su una mina S inesplosa, e riusciva a vedere la fiammata sprizzar
fuori dalla sabbia prima di essere spaccato in due.
Non c'era il tempo di pensare, non c'era il tempo di far niente tranne correre come granchi
all'unisono con l'artiglieria, cento metri ogni tre minuti, pregando. Frastuono, lampi, polvere, fumo,
terrore che ti tramutava in acqua le budella. A volte, nelle minuscole pause tra due tiri di
sbarramento, udivi il remoto, magico suono di una cornamusa nell'aria rovente e granulosa. Sulla
sinistra della Nona Australiana, il Cinquantunesimo Highlanders avanzava attraverso i campi minati
con un suonatore di cornamusa accanto a ogni comandante di compagnia. Per uno scozzese, il
suono della cornamusa che lo trascinava in battaglia costituiva l'allettamento più dolce del mondo, e
per un australiano era molto amichevole, consolante. Ma a un tedesco o a un italiano faceva
accapponare la pelle.
La battaglia continuò per dodici giorni, e dodici giorni sono una battaglia lunghissima. La Nona fu a
tutta prima fortunata; subì perdite relativamente lievi attraverso i campi minati e nei primi giorni di
incessante avanzata sul territorio di Rommel.
«Sai, preferisco trovarmi qui e farmi sparare piuttosto che essere un geniere» disse Col Stuart,
appoggiandosi alla vanga.
«Non saprei, compare; credo che stiano meglio loro» grugnì il suo sergente. «Aspettano dietro
quelle fottute linee finché noi non abbiamo sbrigato tutto il lavoro, poi vengono avanti con i loro
dannati spazzamine e sgombrano dei bei sentierini per i fottuti carri armati.»
«La colpa non è dei carri, Bob; è degli alti papaveri che li impiegano» disse Jims, spianando la terra
intorno all'orlo del suo tratto della nuova trincea, con la vanga di piatto. «Cribbio, però, vorrei che si
decidessero a tenerci nello stesso posto almeno per un po' di tempo! Ho scavato più terra in questi
ultimi cinque giorni, di un dannato formichiere.»
«Continua a scavare, bello» disse Bob, incomprensivo.
«Ehi, guardate!» gridò Col, additando il cielo.
Diciotto bombardieri leggeri della MCMCRAF sorvolarono la valle in perfetta formazione di volo,
sganciando i loro grappoli di bombe tra tedeschi e italiani, con micidiale precisione.
«Maledettamente bello» commentò il sergente Bob Malloy, alzando la testa e il lungo collo verso il
cielo.
Tre giorni dopo, era morto; una enorme scheggia di shrapnel gli aveva staccato il braccio e una
metà del fianco durante una nuova avanzata, ma nessuno ebbe il tempo di fermarsi, se non per
togliere il fischietto da quello che restava della sua bocca. Gli uomini stavano cadendo come
mosche, adesso, troppo stanchi per essere vigili e fulminei come all'inizio, ma quel po' di miserabile
e desertico terreno che occupavano riuscivano a conservarlo nonostante i violenti contrattacchi della
crema di un magnifico esercito. Per loro, tutto si riduceva ormai a un ottuso, caparbio rifiuto di farsi
sconfiggere.
La Nona respinse von Sponeck e Lungerhausen mentre i mezzi corazzati sfondavano a sud, e in
ultimo Rommel venne sconfitto. L'8 novembre cercava di riorganizzarsi al di là del confine egiziano
e Montgomery rimaneva padrone di tutto il campo. Una vittoria tattica molto importante, una
seconda Alamein; Rommel era stato costretto ad abbandonare molti dei suoi carri armati, cannoni e
materiale. Poteva cominciare l'Operazione Torch, esercitando la sua spinta verso est dal Marocco e
dall'Algeria con maggiori probabilità di successo. C'era ancora molta combattività nella Volpe del
Deserto, ma aveva lasciato sul terreno di El Alamein gran parte della sua tracotanza. La più grande
e più decisiva battaglia del teatro di operazioni nord-africano era stata combattuta e il
feldmaresciallo visconte Montgomery di Alamein ne era il vincitore.
La seconda Alamein fu il canto del cigno per la Nona Divisione Australiana nell'Africa
Settentrionale. Gli uomini sarebbero infine rientrati in patria per affrontare i giapponesi nella Nuova
Guinea. A partire dal marzo 1941 erano rimasti più o meno ininterrottamente in prima linea, dopo
esservi giunti male addestrati ed equipaggiati; ma ora tornavano con una fama superata soltanto
dalla Quarta Divisione indiana. E insieme alla Nona partirono Jims e Patsy, sani e salvi.
Naturalmente, venne loro concessa una licenza per tornare a Drogheda. Bob andò a Gilly per
aspettarli all'arrivo del treno di Goondiwindi, in quanto la base della Nona si trovava a Brisbane e la
divisione, dopo essersi addestrata nella giungla, sarebbe partita per la Nuova Guinea. Quando la
Rolls-Royce percorse il viale d'accesso, tutte le donne erano sul prato, in attesa, Jack e Hughie un
po' più indietro, ma altrettanto ansiosi di rivedere i fratelli minori. Era un giorno di festa, anche se
ogni pecora rimasta in vita a Drogheda fosse stramazzata morta.
Anche quando l'automobile si fu fermata e loro due discesero, nessuno si mosse. Sembravano così
diversi! Due anni nel deserto avevano rovinato la loro prima uniforme e adesso ne indossavano una
nuova, color verde-giungla, e sembravano due estranei. In primo luogo, si sarebbe detto che fossero
cresciuti di parecchi centimetri, come infatti era; gli ultimi due anni dello sviluppo li avevano
vissuti lontano da Drogheda, e, in quei due anni, si erano lasciati indietro i fratelli maggiori. Non
più ragazzi, ma uomini, e non già uomini dello stampo di Bob-Jack-Hughie; gli stenti, l'euforia
della battaglia e lo spettacolo della morte li avevano trasformati come Drogheda non sarebbe mai
riuscita a fare. Erano stati prosciugati e oscurati dal sole africano fino ad assumere un color mogano
e a liberarsi di ogni stratificazione dell'adolescenza. Sì, non si stentava a credere che quei due
uomini dalle semplici uniformi con i berretti inclinati sull'orecchio sinistro e il distintivo
dell'MCMCAIF, il sole nascente, avessero ucciso loro simili. Glielo si leggeva negli occhi, azzurri
come quelli di Paddy, ma più tristi e privi di dolcezza.
«Ragazzi miei! Ragazzi miei!» gridò la signora Smith, correndo verso di loro, la faccia striata dalle
lacrime. No, non importava quello che avevano fatto, né quanto erano cambiati, continuavano a
essere gli stessi bambini che aveva lavato, cui aveva cambiato i pannolini, gli stessi bambini che
aveva nutrito, e ai quali aveva asciugato le lacrime e baciato le piccole ferite, per guarirle. Ma le
ferite che ora portavano, la signora Smith non aveva il potere di guarirle.
Poi tutti li circondarono, dimenticando il riserbo inglese, ridendo, piangendo, e persino la povera
Fee batté loro la mano sulle spalle sforzandosi di sorridere. Dopo la signora Smith, venne la volta di
baciarli per Meggie, per Minnie, per Cat; Ma', quanto a lei, li abbracciò timidamente, e Jack e
Hughie strinsero loro la mano in silenzio. Quelli di Drogheda non avrebbero mai saputo che cosa
significava tornare a casa, non avrebbero mai potuto sapere quanto quel momento era stato
desiderato, anelato.
E come mangiarono, i gemelli! «Il rancio non è mai stato così!» dissero ridendo. Torte fiabesche
rosa e bianche, biscotti imbevuti di cioccolata e avvolti nella noce di cocco, budini, panna delle
mucche di Drogheda. Ricordando la capacità del loro stomaco di un tempo, la signora Smith si
persuase che sarebbero rimasti a letto per una settimana, ma, finché non mancava il tè per mandar
giù ogni cosa, i due giovani sembravano non avere alcuna difficoltà di carattere digestivo.
«È un po' diverso dal pane wog, eh, Patsy?»
«Uh-uh.»
«Che cosa significa wog?» domandò la signora Smith.
«Wog vuol dire arabo, e wop italiano, giusto, Patsy?»
«Uh-uh.»
Era strano. Parlavano, o almeno Jims parlava, per ore dell'Africa Settentrionale: le città, la gente, il
cibo, il museo del Cairo, la vita a bordo di una nave trasporto truppe, e al campo. Ma, per quante
domande venissero loro poste, rispondevano soltanto in modo vago, e cercando di cambiare
discorso, riguardo a come erano stati i veri combattimenti, a quello che era accaduto a Gazala, a
Bengasi, a Tobruk, a El Alamein. In seguito, una volta terminata la guerra, le donne avrebbero
constatato continuamente la stessa cosa: l'uomo che era venuto a trovarsi nel pieno della battaglia
non apriva mai la bocca per parlarne, rifiutava di iscriversi alle associazioni e ai circoli di reduci,
non voleva aver niente a che fare con le istituzioni che perpetuavano il ricordo della guerra.
Drogheda offrì un ricevimento in loro onore. Anche Alastair MacMCqueen aveva fatto parte della
Nona ed era tornato in patria, e così, naturalmente, vi fu una festa a Rudna Hunish. I due figli
minori di Dominic O'Rourke facevano parte della Sesta nella Nuova Guinea, e perciò, sebbene non
potessero essere presenti, Dibban-Dibban offrì un ricevimento. Ogni famiglia di allevatori del
distretto che avesse un figlio in uniforme volle festeggiare il ritorno dei tre ragazzi della Nona.
Donne e ragazze li assediavano, ma gli eroi Cleary tornati in patria cercavano di evitare ogni
occasione, più spaventati di quanto lo fossero mai stati su qualsiasi campo di battaglia.
In effetti, Jims e Patsy sembravano non voler avere niente a che fare con le donne; e si
avvinghiavano a Bob, a Jack e a Hughie. A tarda sera, dopo che le donne erano andate a coricarsi, si
trattenevano a conversare con i fratelli costretti a restare in patria, e aprivano i loro cuori piagati e
sofferenti. E percorrevano a cavallo i pascoli dell'inaridita Drogheda, ormai al settimo anno di
siccità, lieti di essere di nuovo in borghese.
Sebbene così devastata e torturata, a Jims e a Patsy la terra sembrava ineffabilmente bella; le pecore
erano consolanti, le rose tardive in giardino mandavano un profumo paradisiaco. Volevano assorbire
tutto così profondamente da non poterlo dimenticare più, perché avevano affrontato la loro prima
partenza molto alla leggera; non avevano avuto idea di quello che li aspettava. La prossima partenza
sarebbe stata diversa, avrebbero fatto tesoro di ogni momento, per ricordarlo e averlo caro, e
avrebbero portato via rose e steli della sempre più scarsa erba di Drogheda compressi nei portafogli.
Con Fee erano gentili e comprensivi, ma con Meggie, con la signora Smith, con Minnie e Cat, erano
molto affettuosi, molto teneri. Erano state loro le vere madri.
A deliziare soprattutto Meggie era il bene che volevano a Dane; giocavano e ridevano con lui per
ore, lo portavano a fare gite a cavallo, lo facevano rotolare sul prato. Justine sembrava spaventarli;
ma, d'altro canto, erano goffi e imbarazzati con qualsiasi femmina che non conoscevano bene
quanto le donne più anziane. Justine era furiosamente gelosa di loro, ma più che altro era gelosa di
come monopolizzavano la compagnia di Dane, perché ciò significava che lei non aveva più nessuno
con cui giocare.
«È un ometto fantastico, Meggie» le disse Jims un giorno, quando ella uscì sulla veranda; sedeva su
una poltroncina di vimini, osservando Patsy e Dane che giocavano sul prato.
«Sì, è proprio una bellezza, vero?» Lei sorrise, sedendo in modo da poter vedere il fratello minore.
Aveva gli occhi lucidi dalla tenerezza; anche loro erano stati i suoi figlioletti. «Che cos'hai, Jims?
Non puoi dirmelo?»
Egli volse lo sguardo sulla sorella, infelice per qualche profonda sofferenza, ma scosse la testa,
come se non provasse nemmeno la tentazione di parlare. «No, Meggie. Non è una cosa che possa
mai dire a una donna.»
«E come ti regolerai quando tutto questo sarà finito e ti sposerai? Non vorrai dirlo nemmeno a tua
moglie?»
«Noi, sposarci? Non credo. La guerra toglie tutte le idee di questo genere a un uomo. Smaniavamo
dalla voglia di partire, ma adesso la sappiamo più lunga. Se ci sposassimo, avremmo figli; e che
scopo ci sarebbe? Vederli crescere perché poi vengano mandati a fare quello che abbiamo fatto noi,
a vedere quello che abbiamo veduto noi?»
«No, non dire così!»
Jims seguì lo sguardo di lei e contemplò Dane, che rideva felice perché Patsy lo stava tenendo
capovolto a testa in giù.
«Non consentirgli mai di andarsene da Drogheda, Meggie. A Drogheda non può accadergli niente di
male.»
L'Arcivescovo de Bricassart corse lungo il bellissimo e alto corridoio, indifferente alle facce stupite
che si voltavano a guardarlo; irruppe nella stanza del Cardinale e si fermò di colpo. Sua Eminenza
stava conversando con Monsieur Papée, l'ambasciatore del governo polacco in esilio presso la Santa
Sede.
«Ah, Ralph! Che cosa c'è?»
«È accaduto, Vittorio. Mussolini è stato defenestrato.»
«Gesù buono! Lo sa, il Santo Padre?»
«Ho telefonato io stesso a Castel Gandolfo, anche se la radio dovrebbe annunciarlo da un momento
all'altro. Mi ha avvertito per telefono un amico dal quartier generale tedesco.»
«Spero proprio che il Santo Padre abbia pronte le valigie» disse Monsieur Papée, con una lieve,
assai lieve, esultanza.
«Potrebbe uscire di là se lo camuffassimo come un francescano questuante, ma non altrimenti»
scattò l'Arcivescovo Ralph. «Kesselring ha completamente ed ermeticamente accerchiato la città.»
«Non se ne andrebbe in ogni caso» osservò il Cardinale Vittorio.
Monsieur Papée si alzò. «Devo congedarmi, Eminenza. Sono il rappresentante di un governo che è
nemico della Germania. Se Sua Santità non è al sicuro, non lo sono nemmeno io. Esistono
documenti nella mia stanza che devo eliminare.»
Affettato e preciso, diplomatico fino alla punta delle dita, lasciò soli i due prelati.
«Era qui a intercedere per il suo popolo perseguitato?»
«Sì. Pover'uomo, soffre tanto per la sua gente.»
«E noi no?»
«Certo che sì, Ralph! Ma la situazione è più difficile di quanto egli sappia.»
«La verità vera è che non viene creduto.»
«Ralph!»
«Be', non è forse vero? Il Santo Padre ha trascorso gli anni giovanili a Monaco; là si innamorò dei
tedeschi, e continua ad amarli, nonostante tutto. Se gli venissero poste sotto gli occhi delle prove
come quei poveri cadaveri torturati, direbbe che devono essere stati i russi a fare cose simili. Non i
suoi tanto cari tedeschi, mai un popolo colto e civile come loro!»
«Ralph, lei non fa parte della Compagnia di Gesù, ma si trova qui perché ha giurato personalmente
fedeltà al Santo Padre. Ha il sangue caldo dei suoi antenati irlandesi e normanni, ma, la supplico, sia
ragionevole! A partire dallo scorso settembre abbiamo aspettato soltanto che la scure si abbattesse,
pregando Dio di far restare il Duce a tutelarci dalle rappresaglie tedesche. Adolf Hitler ha una
curiosa vena di contraddizione nella sua personalità, poiché sa che due sono i suoi nemici, eppure
desidera, purché sia possibile, salvarli: l'Impero inglese e la Santa Chiesa Cattolica di Roma. Ma
allorché vi è stato costretto, ha fatto del suo meglio per annientare l'Impero britannico. Crede forse
che non annienterebbe anche noi, se lo spingessimo a farlo? Una sola parola di denuncia da parte
nostra riguardo a ciò che sta accadendo in Polonia, e senza dubbio ci distruggerebbe. Inoltre, quale
vantaggio terreno crede che conseguiremmo, denunciando gli avvenimenti di Polonia, amico mio?
Non disponiamo di eserciti, non abbiamo soldati. Le rappresaglie sarebbero immediate, e il Santo
Padre verrebbe inviato a Berlino, come egli teme. Non ricorda il Papa fantoccio ad Avignone, tanti
secoli fa? Vuole che il nostro Papa divenga un fantoccio a Berlino?»
«Mi scusi, Vittorio, ma io non sono di questo parere. Dico che dobbiamo denunciare Hitler, urlare
dai tetti la sua barbarie! Se ci farà fucilare, moriremo da martiri, e questo sarà ancor più efficace.»
«Di solito lei non è ottuso, Ralph! Non ci farebbe affatto fucilare! Si rende conto bene quanto noi
dell'impatto di un martirio. Il Santo Padre verrebbe portato a Berlino, e noi saremmo mandati
furtivamente in Polonia. In Polonia, Ralph, in Polonia! Vuole morire in Polonia, ancor meno utile di
quanto possa esserlo qui adesso?»
L'Arcivescovo Ralph sedette, strinse le mani tra le ginocchia e fissò, ribelle, fuori della finestra, le
colombe in volo, dorate nel sole al tramonto, verso i loro ripari. A quarantanove anni, era più magro
di un tempo, e stava invecchiando splendidamente, come faceva quasi ogni cosa.
«Ralph, noi siamo quello che siamo. Uomini, ma in primo luogo sacerdoti.»
«Non fu così che lei elencò le precedenze, al mio ritorno dall'Australia, Vittorio.»
«Intendevo una cosa diversa, allora e lo sa bene. Ma lei sta facendo il difficile. Voglio dire, adesso,
che non possiamo pensare come uomini. Dobbiamo pensare come sacerdoti, perché questo è
l'aspetto più importante della nostra vita. In qualsiasi modo possiamo pensare o qualsiasi cosa
vogliamo fare come uomini, la nostra fedeltà deve andare alla Chiesa e non a un potere temporale!
Noi dobbiamo essere leali soltanto nei confronti del Santo Padre! Lei ha pronunciato il voto
dell'ubbidienza, Ralph! Vuole infrangerlo di nuovo? Il Santo Padre è infallibile in tutto ciò che
concerne il bene della Chiesa di Dio.»
«Si sbaglia! Il suo giudizio è prevenuto. Tutte le sue energie si concentrano nella lotta contro il
comunismo. Egli vede la Germania come il più grande nemico del comunismo, come l'unico vero
fattore che possa impedire la diffusione del comunismo all'ovest. Vuole che Hitler rimanga
saldamente in sella in Germania, così come era lieto che Mussolini governasse l'Italia.»
«Mi creda, Ralph, ci sono cose che lei ignora. Egli è il Papa, e infallibile! Se lei nega questo, nega
la sua stessa fede!»
La porta venne aperta con discrezione, ma frettolosamente.
«Eminenza, il generale Kesselring.»
Entrambi i prelati si alzarono, e le loro divergenze scomparvero dai volti distesi e sorridenti.
«Che piacere, Eccellenza. Non vuole accomodarsi? Gradirebbe un tè?»
La conversazione si svolgeva in tedesco, poiché molti degli alti prelati in Vaticano parlavano questa
lingua. Il Santo Padre amava parlare e ascoltare il tedesco.
«Grazie, Eminenza, sì, lo gradirei. In nessun altro luogo a Roma è possibile avere un tè così
superbamente inglese.»
Il Cardinale Vittorio sorrise innocentemente. «È un'abitudine che presi quando ero Legato pontificio
in Australia, e alla quale, nonostante la mia innata italianità, non ho saputo rinunciare.»
«E lei, Monsignore?»
«Io sono irlandese, Herr General. Anche gli irlandesi crescono con l'abitudine al tè.»
Il generale Albert Kesselring si comportava sempre da uomo a uomo con l'Arcivescovo de
Bricassart; in confronto agli scaltri e melliflui prelati italiani egli era riposante, un uomo senza
sottigliezze né furbizie, schietto.
«Come sempre, Monsignore, mi stupisce la purezza del suo accento tedesco» lo complimentò.
«Ho orecchio per le lingue, Herr General; un talento che, come tutti gli altri, non merita di essere
lodato.»
«Che cosa possiamo fare per lei, Eccellenza?» domandò il Cardinale, soavemente.
«Presumo che abbiano ormai saputo della sorte del Duce.»
«Sì, Eccellenza, siamo informati.»
«Allora si renderanno conto della ragione per la quale mi trovo qui. Per assicurare che tutto va bene
e per chiedere se non vorrebbero trasmettere la comunicazione a coloro che trascorrono l'estate a
Castel Gandolfo. Io sono talmente occupato, in questo momento, che mi è impossibile recarmi
personalmente a Castel Gandolfo.»
«La comunicazione sarà trasmessa. È tanto impegnato?»
«Naturale. Lei certamente si rende conto che questo è ormai un paese nemico per noi tedeschi.»
«Questo, Herr General? Qui non ci troviamo su territorio italiano, e nessuno è un nemico, qui,
tranne i malvagi.»
«Le chiedo scusa, Eminenza. Naturalmente mi riferivo all'Italia, non al Vaticano. Ma, per quanto
concerne l'Italia, dovrò agire come mi ordina il Führer. L'Italia sarà occupata, e le mie truppe, fino a
ora qui presenti come alleate, diventeranno forze di polizia.»
L'Arcivescovo Ralph, comodamente seduto, e con l'aria di non aver mai sostenuto una battaglia
ideologica in vita sua, osservava attentamente il visitatore. Sapeva, Kesselring, quello che stava
facendo il suo Führer in Polonia? Come poteva non saperlo?
Il Cardinale Vittorio atteggiò la faccia a un'espressione ansiosa. «Caro generale, ma non nella stessa
Roma, certo? Ah, no! Roma, con la sua storia, le sue inestimabili opere d'arte? Se farà affluire
truppe entro i sette colli, avremo combattimenti, distruzioni. La supplico, non questo!»
Il generale Kesselring parve a disagio. «Spero che non si dovrà arrivare a tanto, Eminenza. Ma
anch'io sono legato da un giuramento, anch'io eseguo ordini. Devo fare ciò che vuole il mio
Führer.»
«Ma si adoprerà per noi, Herr General? La prego, deve! Alcuni anni fa mi trovavo ad Atene» si
affrettò a dire l'Arcivescovo Ralph, sporgendosi in avanti, gli occhi incantevolmente grandi, un
ciuffo di capelli brizzolati sulla fronte; sapeva benissimo di riuscire simpatico al generale, e ne
approfittava senza rimorsi. «È mai stato ad Atene, signore?»
«Sì, ci sono stato» rispose il generale, asciutto.
«Allora sono certo che conosce i fatti. Saprà come siano occorsi uomini appartenenti a tempi
relativamente moderni per distruggere i monumenti dell'Acropoli, Herr General. Roma rimane
quello che è sempre stata, un monumento eretto a duemila anni di cure, di attenzione, di affetto. La
prego, la supplico! Non metta in pericolo Roma!»
Il generale lo fissò con stupita ammirazione; l'uniforme figurava benissimo su di lui, ma non meglio
di quanto figurasse la veste talare, con la sua nota di color porpora imperiale, sull'Arcivescovo
Ralph. Anch'egli aveva l'aspetto di un soldato, con il corpo asciutto e bello di un soldato e il volto di
un angelo. Così doveva essere stato l'Arcangelo Michele; non un leccato adolescente del
Rinascimento, ma un uomo maturo e perfetto, che aveva amato Lucifero, si era battuto contro di lui,
aveva bandito Adamo ed Eva, uccidendo il serpente e ponendosi alla destra di Dio. Si faceva
un'idea del proprio aspetto? Era davvero un uomo da ricordare.
«Farò del mio meglio, Monsignore, glielo prometto. Fino a un certo punto la decisione dipende da
me, lo riconosco. Sono, come lei sa, un uomo civile. Ma lei sta chiedendo molto. Se dichiarerò
Roma città aperta, questo significherà che non potrò farne saltare i ponti né tramutarne i palazzi in
fortezze, e ciò potrebbe costituire, da ultimo, uno svantaggio per la Germania. Quali garanzie avrò
che Roma non mi ripagherà con il tradimento, se sarò generoso nei suoi riguardi?»
Il Cardinale Vittorio increspò le labbra e rivolse suoni simili a schiocchi di baci alla sua gatta, che
era adesso un'elegante siamese; sorrise dolcemente, e guardò l'Arcivescovo. «Roma non
ripagherebbe mai la bontà con il tradimento, Herr General. Sono certo che, quando troverà il tempo
di far visita a coloro i quali trascorrono l'estate a Castel Gandolfo, riceverà le stesse assicurazioni.
Qui, Kheng-see, dolcezza mia! Ah, che adorabile femmina sei!» Con le mani la premette sul
grembo scarlatto, l'accarezzò.
«Una bestiola fuori del comune, Eminenza.»
«Un'aristocratica, Herr General. Sia l'Arcivescovo, sia io, abbiamo nomi antichi e venerabili, ma, in
confronto al lignaggio di Kheng-see, il nostro non è niente. Le piace il suo nome? Significa fiore di
seta, in cinese. Le si addice, non le sembra?»
Il tè era arrivato e veniva servito; tacquero tutti finché la sorella laica non fu uscita dalla stanza.
«Non si pentirà della decisione di dichiarare Roma città aperta, Eccellenza» disse l'Arcivescovo
Ralph al nuovo padrone dell'Italia, con un sorriso soave. Poi si voltò verso il Cardinale, rinunciando
al fascino come a un mantello lasciato cadere, poiché non era necessario con quell'uomo diletto.
«Eminenza, desidera fare da padrona di casa, o spetterà a me questo onore?»
«Padrona di casa?» domandò il generale Kesselring, inespressivo.
Il Cardinale Contini-Verchese rise. «È un piccolo scherzo tra noi celibi. Chi versa il tè è "la padrona
di casa". Un modo di dire inglese, Herr General.»
Quella sera l'Arcivescovo Ralph era stanco, irrequieto, nervoso. Sembrava che non riuscisse a far
nulla per contribuire alla cessazione di quella guerra, a parte le trattative per la conservazione delle
antichità, e aveva finito con l'odiare appassionatamente l'inerzia del Vaticano. Sebbene fosse per
natura un conservatore, a volte la cautela di coloro che occupavano le più alte posizioni nella Chiesa
lo esasperava in modo intollerabile. A parte le umili suore e gli umili preti che svolgevano mansioni
da servi, erano settimane che non parlava con un uomo comune, con qualcuno che non avesse
interessi politici spirituali o militari da promuovere. Persino pregare sembrava riuscirgli meno
facile, in quel periodo, e si sarebbe detto che Dio si trovasse ad anni luce di distanza, come se si
fosse appartato per lasciare mano libera alle Sue creature umane nel distruggere il mondo che aveva
creato per loro. Gli occorreva, si disse Ralph, una dose abbondante di Meggie e di Fee, o una dose
abbondante di qualcuno che non fosse interessato alle sorti del Vaticano o di Roma.
Discese per la scala privata nella grande basilica di San Pietro, ove lo aveva condotto il suo
cammino senza meta. Le porte venivano chiuse in quei tempi, non appena scendeva l'oscurità: un
indizio della calma inquieta che gravava su Roma, più significativo dei gruppi di tedeschi, dalle
uniformi grigie, aggirantisi per le vie. Un fioco e spettrale bagliore illuminava l'immensa e deserta
abside; i suoi passi echeggiarono cavernosi sul pavimento di pietra, per poi cessare e fondersi con il
silenzio quando si genuflesse dinanzi all'altar maggiore, e quindi ricominciare. Subito dopo, tra un
suono e l'altro di un passo, udì un respiro affannoso. Accese la lampadina tascabile che aveva in
mano e ne puntò il fascio luminoso nella direzione del suono, non tanto spaventato quanto
incuriosito. Questo era il suo mondo; poteva difenderlo dalla paura.
Il pennello di luce passò su quello che egli considerava ormai il più bell'esempio di scultura di tutto
il creato: la Pietà di Michelangelo. Sotto le immobili e meravigliose figure, si trovava un altro volto,
fatto non di marmo ma di carne, scavato dalle ombre e simile al volto della morte.
«Ciao» disse l'Arcivescovo, sorridendo.
Non ebbe risposta, ma vide che l'uniforme dell'uomo era quella di un soldato semplice della fanteria
tedesca; il fatto che si trattasse di un tedesco non aveva alcuna importanza.
«Wie geht's?» domandò, sempre sorridendo.
Un movimento fece sì che il sudore, su una fronte ampia e intellettuale, brillasse all'improvviso
nell'oscurità.
«Bist du krank?» domandò allora, sospettando che il ragazzo - poiché non era più di un ragazzo —
non si sentisse bene.
La voce scaturì, finalmente. «Nein.»
L'Arcivescovo Ralph posò la lampadina tascabile sul pavimento, si fece avanti, mise la mano sotto
il mento del soldato e lo costrinse ad alzare la faccia per fissare gli occhi scuri, ancor più scuri nelle
tenebre.
«Che cosa c'è?» domandò in tedesco, e rise. «Ecco!» continuò, sempre in tedesco. «Tu non lo sai,
ma questo è sempre stato il compito più importante della mia vita... domandare alla gente che cosa
c'è. E, consentimi di dirtelo, è una domanda che mi ha cacciato in un sacco di guai, ai miei tempi.»
«Sono venuto per pregare» disse il ragazzo, con una voce troppo profonda per la sua età, e uno
spiccato accento bavarese.
«Che cosa è accaduto, ti hanno chiuso dentro?»
«Sì, ma non è questo che conta.»
L'Arcivescovo riprese la lampadina tascabile. «Be', non puoi restare qui tutta la notte, e io non ho la
chiave per aprire le porte. Vieni con me.» Cominciò a tornare indietro verso la scala privata che
conduceva al palazzo papale, parlando in tono sommesso e dolce. «Anch'io ero venuto a pregare, in
effetti. Grazie al tuo Alto Comando, questa è stata una giornata alquanto sgradevole. Lassù, cioè...
Dovremo sperare che il personale del Santo Padre non mi creda in arresto, ma si renda conto che
sono io a fare da scorta, non tu.»
In seguito, camminarono per altri dieci minuti in silenzio, lungo corridoi, attraverso cortili e giardini
e atrii, su per scaloni; il giovane tedesco non sembrava affatto impaziente di allontanarsi dal fianco
del suo protettore, poiché gli restava vicino. Infine l'Arcivescovo aprì una porta, fece entrare il
compagno in un salottino arredato umilmente, con il minimo indispensabile, accese una lampada e
chiuse la porta.
Rimasero in piedi fissandosi a vicenda, ora che ci vedevano. Il soldato tedesco scorse un uomo alto
di statura, con un bel viso e occhi perspicaci, azzurri; l'Arcivescovo Ralph scorse un bambino
infagottato nell'uniforme che tutta l'Europa trovava paurosa e minacciosa. Un bambino: non poteva
avere più di sedici anni, senza alcun dubbio. Magro e di statura media, aveva una struttura che
prometteva robustezza e forza; le braccia erano lunghissime. La faccia aveva fattezze alquanto
italiane, bruna e nobile, attraente all'estremo; grandi occhi di un castano scuro, con lunghe ciglia
nere, e magnifici capelli neri ondulati. Non esisteva alcunché di consueto o di comune in lui, tutto
sommato, anche se la sua parte nella guerra era umilissima; sebbene avesse anelato a parlare con un
uomo medio e comune, l'Arcivescovo era interessato.
«Siedi» disse al ragazzo, avvicinandosi a uno stipo e togliendone una bottiglia di Marsala. Versò un
po' di vino in due bicchieri, ne porse uno al ragazzo, e portò il suo fino alla poltrona dalla quale
avrebbe potuto osservare comodamente le fattezze incantevoli. «Sono ridotti al punto di dover
arruolare bambini per le loro battaglie?» domandò, accavallando le gambe.
«Non lo so» rispose il ragazzo. «Io mi trovavo in un orfanotrofio e quindi mi avrebbero preso presto
in ogni caso.»
«Come ti chiami, figliolo?»
«Rainer Moerling Hartheim» rispose lui, pronunciando il nome con molto orgoglio.
«Un nome magnifico» disse il prelato, con gravità.
«Sì, non è vero? L'ho scelto io stesso. Mi chiamavano Rainer Schmidt, all'orfanotrofio, ma quando
sono andato sotto le armi l'ho modificato, adottando il nome che avevo sempre desiderato.»
«Sei orfano?»
«Le suore dicevano che ero un figlio dell'amore.»
L'Arcivescovo Ralph si sforzò di non sorridere; il ragazzo aveva una tale dignità, e una tale
padronanza di se stesso, ora che era stato abbandonato dalla paura! Ma che cosa lo aveva
spaventato? La possibilità di non essere trovato, e di rimanere chiuso nella basilica?
«Perché avevi tanta paura, Rainer?»
Il ragazzo sorseggiò il Marsala guardingo, poi alzò gli occhi con un'aria soddisfatta. «Buono, è
dolce.» Si sistemò più comodamente sulla poltrona. «Volevo vedere San Pietro perché le suore ce
ne parlavano sempre, ce ne mostravano fotografie. Così, quando ci hanno trasferiti a Roma, sono
stato contento. Siamo arrivati stamane. Non appena ho potuto, sono venuto.» Si accigliò. «Ma non è
stato come mi aspettavo. Credevo di sentirmi più vicino a Nostro Signore, trovandomi nella Sua
chiesa. Invece, era soltanto enorme e fredda e non l'ho sentito.»
L'Arcivescovo Ralph sorrise. «So che cosa vuoi dire. Ma, sai, San Pietro in realtà non è una chiesa.
Non come lo sono quasi tutte le chiese. San Pietro è la chiesa. Mi occorse molto tempo per
abituarmici, rammento.»
«Volevo pregare per due cose» disse il ragazzo, facendo di sì con la testa per lasciar capire che
aveva udito, ma che non voleva sentirsi dire questo.
«Per le cose che ti spaventano?»
«Sì. Pensavo che trovarmi a San Pietro potesse giovarmi.»
«Quali sono le cose che ti spaventano, Rainer?»
«Che decidano ch'io sono un ebreo, e che il mio reggimento venga mandato in Russia.»
«Capisco. Non ci si può stupire se hai paura. Esiste davvero la possibilità che ti dichiarino ebreo?»
«Be', mi guardi!» si limitò a dire il ragazzo. «Quando stavano scrivendo le mie particolarità fisiche,
dissero che avrebbero dovuto controllare. Non so se possano o no, ma le suore, presumo, potrebbero
sapere più di quello che rivelarono a me.»
«Se è così, non parleranno» lo rassicurò Ralph, consolante. «Capiranno il perché delle domande.»
«Lo crede davvero? Oh, lo spero!»
«Ti turba l'idea di avere sangue ebreo nelle vene?»
«Il sangue che ho non conta» disse Rainer. «Sono nato tedesco, questa è la sola cosa importante.»
«Solo che loro non si prospettano la cosa in questo modo, vero?»
«No.»
«E la Russia? Puoi fare a meno di preoccuparti per la Russia adesso, senza dubbio. Ti trovi a Roma,
nella direzione opposta.»
«Stamane ho udito dire dal nostro comandante che potrebbero ancora mandarci in Russia,
nonostante tutto. Le cose non stanno andando bene, laggiù.»
«Sei un bambino» disse l'Arcivescovo Ralph, brusco. «Dovresti essere a scuola.»
«Non ci sarei in ogni caso, ormai.» Il ragazzo sorrise. «Ho sedici anni, e quindi lavorerei.» Sospirò.
«Mi sarebbe piaciuto continuare ad andare a scuola. Imparare è importante.»
L'Arcivescovo si mise a ridere, poi si alzò e tornò a riempire i bicchieri. «Non badare a me, se rido,
Rainer. Mi sto comportando in modo assurdo. Sono soltanto pensieri, che si susseguono uno dopo
l'altro. Questa è l'ora che dedico ai pensieri. Non sono un grande anfitrione, vero?»
«È perfetto» disse il ragazzo.
«Oh, dunque» disse l'Arcivescovo, rimettendosi a sedere. «Spiega te stesso, Rainer Moerling
Hartheim.»
Una strana fierezza trasparì dalla faccia giovanile. «Sono tedesco, e cattolico. Voglio fare della
Germania un paese in cui razza e religione non significhino persecuzione, e dedicherò la mia vita a
questo scopo, se vivrò.»
«Pregherò per te... perché tu viva e riesca.»
«Davvero?» domandò il ragazzo, timidamente. «Pregherebbe davvero per me, personalmente,
ricordando il mio nome?»
«Certo. In effetti, tu mi hai insegnato una cosa. Che, nella mia vocazione, posso disporre di una sola
arma... la preghiera. Non posso fare altro.»
«Chi è lei?» domandò Rainer, mentre il vino cominciava a fargli battere le palpebre,
sonnacchiosamente.
«Sono l'Arcivescovo Ralph de Bricassart.»
«Oh! Credevo che fosse un semplice prete!»
«Sono un semplice prete. Niente di più.»
«Stringerò un patto con lei!» disse il ragazzo, gli occhi scintillanti. «Preghi per me, Padre, e, se
vivrò abbastanza a lungo per ottenere quello che voglio, tornerò a Roma per dimostrarle che cosa
avranno ottenuto le sue preghiere.»
Gli occhi azzurri gli sorrisero con tenerezza. «Sta bene, il patto è concluso. E quando verrai, ti dirò
come saranno state esaudite secondo me le mie preghiere.» Si alzò. «Resta lì, piccolo uomo
politico. Ti troverò qualcosa da mangiare.»
Conversarono finché l'alba non risplendette intorno alle cupole e ai campanili e le ali dei piccioni
non cominciarono a frullare fuori della finestra. Poi l'Arcivescovo condusse l'ospite attraverso gli
appartamenti ufficiali del palazzo, osservando con delizia il suo timore reverenziale, e lo fece uscire
nell'aria frizzante e fresca. Sebbene non lo sapesse, il ragazzo dallo splendido nome doveva davvero
andare in Russia, portando con sé un ricordo stranamente dolce e rassicurante: il ricordo del fatto
che a Roma, nella Chiesa di Nostro Signore, un uomo pregava per lui, personalmente, ogni giorno.
Quando la Nona fu pronta per essere imbarcata e trasferita nella Nuova Guinea, tutto era ormai
finito, tranne i rastrellamenti. Scontente, le migliori divisioni della storia militare australiana
poterono soltanto sperare che vi fosse gloria da mietere altrove, inseguendo i giapponesi attraverso
l'Indonesia. Guadalcanal aveva annientato tutte le speranze del Giappone di arrivare all'Australia.
Eppure, come i tedeschi, essi cedevano lentamente, a malincuore. Sebbene le loro risorse fossero
ridotte allo stremo e i loro eserciti si stessero sfasciando per mancanza di rinforzi e rifornimenti,
facevano pagar caro agli americani e agli australiani ogni metro di terreno riconquistato.
Ritirandosi, i giapponesi abbandonarono comunque Buna, Gona, Salamaua, e risalirono la costa
settentrionale fino a Lae e Finschafen.
Il 5 settembre 1943, la Nona Divisione venne sbarcata subito a est di Lae. Il caldo era soffocante,
l'umidità del cento per cento, e pioveva ogni pomeriggio, sebbene mancassero ancora due interi
mesi alla «piovosa». La minaccia della malaria costringeva tutti a prendere l'Atebrina, e le piccole
compresse gialle facevano star male gli uomini come se fossero stati davvero malarici. Già la
costante umidità faceva sì che scarpe e calze fossero sempre bagnate; i piedi diventavano spugnosi,
la pelle tra le dita si ulcerava e sanguinava. Le morsicature degli insetti e delle zanzare si
infiammavano e si infettavano.
A Port Moresby avevano veduto in quali misere condizioni si trovassero gli indigeni della Nuova
Guinea; e, se quegli uomini non riuscivano a sopportare il clima senza ammalarsi di framboesia, di
beri-beri, di malaria, di polmonite, di infermità croniche della pelle, di fegato e milza ingrossati, non
restavano molte speranze per i bianchi. A Port Moresby esistevano anche superstiti di Kokoda,
vittime non tanto dei giapponesi quanto della Nuova Guinea, emaciati, coperti di piaghe, deliranti
per la febbre. La polmonite, a duemilasettecento metri di altezza ove si gelava dal freddo con le
sottili uniformi tropicali, aveva fatto dieci volte più vittime dei giapponesi. Un fango liquido e
appiccicoso, foreste che non sembravano di questo mondo e nelle quali, una volta discesa l'oscurità,
baluginava il freddo, spettrale e fioco bagliore dei funghi fosforescenti, dirupi che dominavano un
viluppo inestricabile di radici esposte a nudo, per cui chiunque passasse di là era un bersaglio ideale
per i cecchini. Tutto ciò non avrebbe potuto essere più diverso dall'Africa Settentrionale, e gli
uomini della Nona non si dispiacquero affatto di essere rimasti a combattere nelle due battaglie di
Alamein, invece di trovarsi sulla pista di Kokoda.
Lae era una cittadina costiera, tra pascoli ricchi di foreste, lontana dalle altezze di tremilatrecento
metri che si raggiungevano nell'interno, e di gran lunga più salubre, come campo di battaglia, di
Kokoda. Poche case costruite all'europea, un distributore di benzina e un gruppo di capanne
indigene. I giapponesi erano come sempre risoluti, ma poco numerosi e malconci, logorati dalla
Nuova Guinea quanto gli australiani contro i quali si erano battuti, e altrettanto minati dalle
malattie. Dopo i massicci concentramenti di fuoco e l'estrema meccanizzazione del Nord Africa,
sembrava strano non vedere mai un mortaio né un pezzo di artiglieria da campagna; soltanto fucili
Owen, con la baionetta sempre inastata. A Jims e a Patsy piaceva il combattimento a corpo a corpo,
amavano avvicinarsi insieme al nemico, proteggersi a vicenda. Si trattava però di un tracollo
tremendo dopo l'Afrika Korps, quanto a questo non sussistevano dubbi. Ometti quelli che, a quanto
pareva, portavano tutti gli occhiali e avevano i denti sporgenti. Privi di un qualsiasi aspetto
marziale.
Due settimane dopo lo sbarco della Nona a Lae, non esistevano più giapponesi. Era, per la
primavera della Nuova Guinea, una giornata splendida. Con l'umidità ridotta del venti per cento,
con il sole che splendeva in un cielo improvvisamente azzurro, anziché vaporosamente bianco, e
con lo spartiacque che si elevava verde, viola e lilla al di là della cittadina. La disciplina si era
rilassata, e tutti sembravano concedersi una vacanza, per giocare al cricket, per passeggiare qua e là,
e stuzzicare gli indigeni facendoli ridere affinché mostrassero le gengive rosse e sdentate, risultato
della masticazione del betel. Jims e Patsy stavano camminando tra l'erba alta fuori dell'abitato,
perché ricordava loro Drogheda; aveva lo stesso colore argenteo e fulvo, ed era alta come quella di
Drogheda dopo una stagione di piogge abbondanti.
«Non ci vorrà molto, ormai, per tornare a casa, Patsy» disse Jims. «Abbiamo messo in fuga i gialli,
oltre che i mangia-patate. A casa, Patsy, di nuovo a Drogheda! Non vedo l'ora di esserci.»
«Già» disse Patsy.
Camminavano spalla contro spalla, molto più vicini di quanto fosse ammissibile tra uomini normali;
di tanto in tanto si toccavano vicendevolmente, senza rendersene conto, come un uomo tocca il
proprio corpo, per liberarsi da un leggero prurito, o per accertarsi di essere ancora tutto di un pezzo.
Com'era piacevole sentire il vero tepore del sole sulla faccia, invece di avere l'impressione di
sciogliersi in un bagno turco! Di quando in quando alzavano la faccia verso il cielo e dilatavano le
narici per assorbire il profumo della calda luce sull'erba simile a quella di Drogheda, e per sognare
di ritrovarsi già là, diretti verso un albero wilga nell'aria abbacinata di mezzogiorno e sdraiarsi nel
colmo della calura a leggere un libro o appisolarsi. Rotolarsi, sentire la terra amica e meravigliosa
attraverso la pelle, sentire un cuore possente battere là sotto, in qualche punto, come il cuore di una
madre contro il bambino addormentato.
«Jims, guarda! Un pappagallino di Drogheda!» esclamò Patsy, talmente sorpreso da rinunciare al
mutismo.
Forse i pappagallini verdi esistevano anche nella regione di Lae, ma lo stato d'animo della giornata
e quel memento del tutto inaspettato della casa scatenarono a un tratto una selvaggia esultanza in
Patsy. Ridendo, sentendo l'erba solleticargli le gambe nude, si mise a inseguire l'uccello
strappandosi il berretto dalla testa e tendendolo, come se davvero credesse di poter catturare il
pappagallo che svaniva. Sorridente, Jims rimase immobile a guardarlo.
Suo fratello era forse lontano un venti metri quando la mitragliatrice falciò l'erba intorno a lui,
facendola volar via da ogni parte; Jims lo vide alzare le braccia, piroettare su se stesso, per cui le
braccia parvero tendersi come in un gesto di supplica. Dalla vita alle ginocchia era tutto vivido
sangue, sangue vitale.
«Patsy! Patsy!» urlò Jims; sentendo le pallottole in ogni cellula del proprio corpo, sentendosi egli
stesso svuotare, morire.
Aprì le gambe in una enorme falcata, prendendo lo slancio per correre, poi la prudenza militare
ebbe il sopravvento e si gettò lungo disteso tra l'erba, proprio mentre la mitragliatrice riapriva il
fuoco.
«Patsy, Patsy, stai bene?» gridò stupidamente, poiché aveva veduto il sangue.
Eppure, incredibilmente, «Sì» giunse una fioca risposta.
Centimetro per centimetro, Jims si trascinò avanti tra l'erba fragrante, ascoltando il vento e i fruscii
del proprio progredire.
Quando fu giunto accanto al fratello, gli appoggiò il capo alla spalla nuda e pianse.
«Piantala» disse Patsy. «Non sono ancora morto.»
«Quanto è grave la ferita?» domandò Jims, abbassandogli i calzoncini impregnati di sangue e
vedendo carne zuppa di sangue, rabbrividendo.
«Non ho l'impressione di essere in punto di morte, a ogni modo.»
Apparvero uomini da ogni parte, i giocatori di cricket ancora con i parastinchi e i guantoni;
qualcuno tornò indietro a prendere una barella mentre gli altri si accingevano a eliminare l'arma al
lato opposto della radura.
La distrussero con più spietatezza del solito, perché tutti erano affezionati a Harpo. Se gli fosse
accaduto qualcosa, Jims non sarebbe più stato lo stesso.
Una giornata splendida; il pappagallino era scomparso da un pezzo, ma altri uccelli trillavano e
cinguettavano impavidi, tacitati soltanto dalla sparatoria.
«Patsy è maledettamente fortunato» disse l'ufficiale medico a Jims qualche tempo dopo. «Deve
avere in corpo una dozzina di pallottole, ma lo hanno colpito quasi tutte alle cosce. Le due o tre più
in alto sembrano essere penetrate nell'osso pelvico o nel muscolo. A quanto posso arguire, ha le
budella intatte, e così la vescica. C'è solo una cosa...»
«Ebbene, quale?» lo incitò Jims, impaziente; stava ancora tremando ed era blu intorno alla bocca.
«È difficile dirlo con certezza, in questo momento, e io non sono un genio della chirurgia come certi
tipi di Moresby. Loro potranno dirti molto di più. Ma l'uretra è stata lesionata, e così molti dei
minuscoli nervi nel perineo. Sono quasi certo che si possa rimetterlo in sesto come nuovo, eccezion
fatta, forse, per i nervi. I nervi non guariscono troppo bene, sfortunatamente.» Si schiarì la voce.
«Insomma, sto cercando di dire che potrebbe non avere mai più molta sensibilità nella zona
genitale.»
Jims abbassò la testa e fissò il terreno attraverso una vitrea parete di lacrime. «Per lo meno è vivo»
disse.
Gli venne concessa una licenza per recarsi in aereo a Port Moresby con il fratello e per trattenervisi
finché Patsy non fosse stato dichiarato fuori pericolo. Le ferite erano poco meno che miracolose. Le
pallottole si erano sparpagliate dappertutto sulla parte bassa dell'addome, senza penetrarla. Ma
l'ufficiale medico della Nona aveva avuto ragione; la sensibilità della parte bassa della pelvi
risultava gravemente menomata. Fino a qual punto avrebbe potuto ricuperarla, nessuno se la sentiva
di dirlo.
«Non ha molta importanza» disse Patsy, dalla barella sulla quale veniva portato in aereo a Sydney.
«Non ci ho mai tenuto molto ad ammogliarmi, del resto. E ora abbi cura di te, Jims, capito? Mi
spiace da matti di doverti lasciare.»
«Avrò cura di me, Patsy. Cribbio!» sogghignò Jims, stringendo forte la mano del fratello. «Pensa un
po', dover trascorrere il resto della guerra senza il mio miglior camerata. Ma scriverò e ti dirò come
sarà. Salutami la signora Smith e Meggie e Ma' e i fratellini, eh? In fondo, sei fortunato a tornare a
Drogheda.»
Fee e la signora Smith si recarono in aereo a Sydney per aspettare l'apparecchio americano che
portava Patsy da Townsville; Fee si trattenne soltanto per pochi giorni, ma la signora Smith prese
alloggio in un albergo nella Randwick, vicino all'ospedale militare Principe di Galles. Patsy vi
rimase per tre mesi. Il suo contributo alla guerra era finito. La signora Smith aveva versato molte
lacrime; ma c'erano anche parecchie ragioni per essere riconoscenti. In un certo senso non avrebbe
mai potuto vivere una vita piena, ma sarebbe stato in grado di fare ogni altra cosa: cavalcare,
camminare, correre. Il matrimonio non sembrava essere il pallino dei Cleary, del resto. Quando fu
dimesso dall'ospedale, Meggie venne da Gilly con la Rolls-Royce e le due donne lo sistemarono sul
sedile posteriore, tra coperte e riviste, pregando Dio che facesse loro ancora una grazia: il ritorno a
casa anche di Jims.
16

Soltanto dopo che il plenipotenziario dell'Imperatore Hirohito ebbe firmato la resa ufficiale del
Giappone, il distretto di Gillanbone si persuase che la guerra era finalmente terminata. La notizia
giunse una domenica, il 2 settembre del 1945, vale a dire sei anni esatti dopo l'inizio dei conflitto.
Sei anni di sofferenze. E quanti posti vuoti che non sarebbero stati occupati mai più: Rory, il figlio
di Dominic O'Rourke, John, il figlio di Horry Hopeton, Cormac, il figlio di Eden Carmichael. Il
figlio minore di Ross MacMCQueen non avrebbe più camminato; il figlio di Anthony King, David,
avrebbe camminato, ma senza vedere dove stesse andando; il figlio di Paddy Cleary, Patsy, non
avrebbe mai avuto figli. E c'erano quelli le cui ferite non erano visibili, ma con cicatrici altrettanto
profonde: coloro che erano partiti allegramente, impazienti e sorridenti, ma che avevano fatto
ritorno a casa spenti, e parlavano poco, e ridevano di rado. Chi avrebbe potuto prevedere, all'inizio,
che la guerra avrebbe avuto una simile durata e imposto tanti sacrifici?
Quella di Gillanbone non era una comunità particolarmente superstiziosa, ma anche il più cinico dei
suoi abitanti rabbrividì, domenica 2 settembre. Poiché, lo stesso giorno in cui la guerra ebbe
termine, terminò anche la più lunga siccità nella storia dell'Australia. Per quasi dieci anni non vi
erano state precipitazioni di una qualche utilità, ma quel giorno oscure nubi invasero il cielo a
banchi spessi centinaia di metri, e si aprirono tuonando e riversando sulla terra assetata trecento
millimetri di pioggia. Venticinque millimetri di pioggia possono non porre termine alla siccità,
poiché potrebbero non essere seguiti da altre precipitazioni, ma trecento millimetri di pioggia
significano erba.
Meggie, Fee, Bob, Jack, Hughie e Patsy, in piedi sulla veranda, osservarono l'acquazzone
nell'oscurità, aspirando il profumo intollerabilmente soave della pioggia sulla terra riarsa e
polverosa. Cavalli, pecore, buoi e maiali divaricarono le gambe per non scivolare sul terreno che si
ammorbidiva e lasciarono che l'acqua si riversasse sui loro corpi guizzanti; quasi tutti erano nati
dopo che un diluvio come quello aveva inondato il loro mondo. Nel cimitero, la pioggia lavò la
polvere, rese bianca ogni cosa, ripulì le ali aperte del blando angelo botticelliano. Nel torrente si
ingolfò un'onda di piena, il cui impeto ruggente si unì al tamburellare dell'acquazzone che tutto
imbeveva. Pioggia, pioggia! Pioggia. Come una benedizione prodigata da qualche mano enorme e
imperscrutabile, da lungo tempo negata e finalmente concessa. La pioggia benedetta, meravigliosa.
Poiché pioggia significava erba, e l'erba era vita.
Apparve una lanugine di un verde pallido. Spinse i suoi steli minuscoli verso il cielo, si ramificò,
divenne di un verde più scuro man mano che cresceva, poi si scolorì e si ispessì, trasformandosi
nell'erba verde-argentea di Drogheda, alta fino alle ginocchia. Lo Home Paddock assunse l'aspetto
di un campo di frumento, che ondeggiava a ogni sbuffo di vento, e nei giardini intorno alla grande
dimora esplosero i colori, si aprirono grossi bocciuoli, gli eucalipti tornarono improvvisamente a
essere bianchi e verde-limone dopo essere stati insudiciati per nove anni dalla polvere. Poiché,
sebbene la pazzesca proliferazione di cisterne per l'acqua, voluta da Michael Carson, fosse stata
sufficiente a mantenere in vita i giardini della casa, la polvere si era posata lo stesso su ogni foglia e
su ogni petalo. E un'antica leggenda aveva dimostrato di essere vera: Drogheda disponeva
realmente di acqua bastante per farle sormontare dieci anni di siccità, ma soltanto nell'ambito della
dimora.
Bob, Jack, Hughie e Patsy tornarono nei recinti e cominciarono a studiare il modo migliore di
ripopolare l'allevamento; Fee svitò il tappo di un flacone d'inchiostro nero, nuovo di zecca, e
riavvitò selvaggiamente quello del flacone di inchiostro rosso; Meggie intravide la fine imminente
delle sue fatiche in sella, poiché, di lì a non molto, Jims sarebbe tornato a casa, e inoltre
cominciavano a presentarsi uomini in cerca di lavoro.
Dopo nove anni rimanevano pochissime pecore e pochissimi bovini, tranne i riproduttori pregiati, il
nucleo dell'allevamento, arieti e tori che venivano sempre tenuti in appositi recinti e foraggiati a
mano con qualsiasi tempo. Bob si recò all'est, sulle cime del Western Slopes, ad acquistare pecore di
buona razza in allevamenti non così duramente provati dalla siccità. Jims tornò a casa. Otto
guardiani figurarono sul ruolino paga di Drogheda. Meggie appese la sella nella scuderia.
E, non molto tempo dopo, ricevette una lettera di Luke, la seconda da quando lo aveva lasciato, che
diceva:
«Non ci vorrà ancora molto, ormai, credo. Qualche anno ancora nelle piantagioni di canne da
zucchero dovrebbe farmi arrivare in porto. La vecchia schiena mi duole un po', adesso, ma posso
ancora tagliare canne insieme ai migliori, otto o nove tonnellate al giorno. Arne e io abbiamo dodici
altre squadre che tagliano per noi, formate tutte da bravi uomini. Il denaro sta affluendo facilmente,
l'Europa ha bisogno di tutto lo zucchero che possiamo produrre. Io sto guadagnando più di
cinquemila sterline all'anno e le risparmio quasi tutte. Non ci vorrà molto, ormai, Meg, prima che
mi sistemi dalle parti di Kynuna. Forse, quando mi sarò sistemato, tu vorrai tornare con me. Ti ho
dato il marmocchio che volevi? È buffo quanto ci tengano le donne ad avere figli. È stato questo in
realtà, credo, a dividerci, eh? Fammi sapere come stai e in che modo Drogheda ha superato la
siccità. Tuo,
Luke
Fee uscì sulla veranda, dove Meggie sedeva con la lettera in mano, contemplando distrattamente il
verde smagliante dei prati intorno alla dimora.
«Che cosa dice Luke?»
«Le stesse cose di sempre, Ma'. Non è cambiato affatto. Continua a dire che taglierà ancora per
qualche tempo quelle dannate canne da zucchero, e a parlare dell'allevamento che avrà un giorno
dalle parti di Kynuna.»
«Credi che lo acquisterà davvero?»
«Penso di sì, un giorno.»
«Torneresti con lui, Meggie?»
«Nemmeno tra un milione di anni.»
Fee sedette su una poltroncina di canna, accanto a sua figlia, e la spostò in modo da poter vedere
bene Meggie. In lontananza, uomini urlavano, martelli battevano; finalmente le verande e le finestre
al primo piano della dimora venivano chiuse con fitte reti metalliche per tener fuori le mosche. Per
anni Fee si era opposta, caparbia. Per quante potessero essere le mosche, le linee della casa non
sarebbero mai state rovinate da antiestetiche zanzariere. Ma, quanto più la siccità continuava, tanto
più le mosche aumentavano, finché, due settimane prima delle piogge, Fee non aveva ceduto e
incaricato un'impresa di isolare tutti gli edifici dell'allevamento, non soltanto la dimora, ma anche
tutti gli edifici annessi e gli alloggi del personale.
Dell'elettricità, però, non voleva saperne, sebbene sin dal 1915 esistesse un generatore, un
«somaro», come lo chiamavano i tosatori, per fornire energia al capannone della tosatura. Drogheda
senza la dolce luce diffusa delle lampade a petrolio? Impensabile! Tuttavia c'era una delle nuove
cucine a gas che funzionava con bombole, e avevano inoltre adottato una dozzina di nuovi
frigoriferi a kerosene. L'industria australiana non era ancora passata alla produzione del tempo di
pace, ma, prima o poi, i nuovi elettrodomestici sarebbero arrivati.
«Meggie, perché non divorzi da Luke e non ti risposi?» domandò Fee, a un tratto. «Enoch Davies
non esiterebbe un secondo a chiederti, non ha mai guardato nessun'altra.»
I begli occhi di Meggie osservarono meravigliati la madre. «Santo Cielo, Ma', credo proprio che tu
mi stia parlando da donna a donna!»
Fee non sorrise, sorrideva di rado. «Be', se ormai non sei una donna, non lo sarai più. Direi che hai
dimostrato di esserlo. E si vede che io sto invecchiando; mi sento portata alla loquacità.»
Meggie rise, felice per la confidenza di sua madre, e timorosa di distruggere quel nuovo stato
d'animo. «È la pioggia, Ma'. Dev'essere stata la pioggia. Oh, non è meraviglioso rivedere l'erba a
Drogheda, e prati verdi intorno alla casa?»
«Sì. Ma tu stai evitando di rispondere alla mia domanda. Perché non divorzi da Luke e non ti
risposi?»
«Lo vietano le leggi della Chiesa.»
«Bubbole!» esclamò Fee, ma con dolcezza. «Una metà di te viene da me, e io non sono cattolica.
Non cercare di darmela a bere, Meggie. Se davvero tu ci tenessi a maritarti, divorzieresti da Luke.»
«Sì, presumo di sì. Ma non voglio rimaritarmi. Sono felicissima con i miei bambini e con
Drogheda.»
Una risatina assai simile alla sua echeggiò tra i cespugli ornamentali lì accanto, le cui pendule
campanelle scarlatte celavano chi era stato a ridere.
«Ma sentilo! È Dane! Lo sai che alla sua età sa cavalcare bene quanto me?» Meggie si sporse.
«Dane! Che cosa stai combinando? Esci immediatamente di lì!»
Il bambino strisciò fuori di sotto il cespuglio più vicino, le mani piene di terra nera, con nere
macchie sospette tutto intorno alla bocca.
«Mammina! Lo sapevi che la terra ha un buon sapore? Davvero, mammina, sul serio!»
Si avvicinò e rimase in piedi davanti a lei; a sette anni, era alto, snello, robusto ma aggraziato, e la
pelle del suo viso ricordava lo smalto delicato della porcellana.
Apparve anche Justine e venne a metterglisi accanto. Pure lei era alta, ma magra più che snella, e
coperta di lentiggini. Si stentava a vedere come fossero le sue vere fattezze sotto le grandi chiazze
brune, ma i suoi occhi snervanti continuavano a essere scialbi come nell'infanzia, e le sopracciglia e
le ciglia color sabbia erano troppo chiare per poter spiccare tra le lentiggini. Trecce del rosso acceso
di Paddy tumultuavano con una massa di riccioli ribelli intorno al viso, che faceva pensare a un
folletto. Nessuno avrebbe potuto dire che fosse una bella bambina, ma nessuno poteva non
accorgersi di lei, non soltanto a causa degli occhi, ma anche perché possedeva una straordinaria
forza di carattere. Severa, schietta, irriducibilmente cerebrale, a otto anni Justine si curava ben poco
di quel che gli altri pensassero di lei, come nella prima infanzia. Una sola persona le era molto cara:
Dane. Continuava ad adorarlo, e continuava a considerarlo sua proprietà.
E questo aveva causato molti scontri tra lei e sua madre. Era stato un brutto colpo per Justine
quando Meggie, riposta la sella, aveva ricominciato a essere una madre. In primo luogo sembrava
che Justine non avesse bisogno della mamma, in quanto era persuasa di avere ragione in ogni cosa.
Né era una di quelle bambine che sentono il bisogno di una confidente, o di affettuosa
approvazione. Per quanto la concerneva, Meggie era soprattutto una persona che ostacolava il
piacere datole da Dane. Andava molto più d'accordo con la nonna, che era proprio una di quelle
creature che Justine apprezzava di tutto cuore: manteneva le distanze e presumeva che anche gli
altri avessero un po' di buon senso.
«Glielo avevo detto di non mangiare la terra» esclamò ora la bambina.
«Be', non morirà per questo, Justine, ma non può nemmeno fargli bene.» Meggie si rivolse al figlio.
«Dane, perché?»
Il bambino studiò gravemente la domanda. «Era lì, e così l'ho mangiata. Se facesse male, non
dovrebbe anche avere un sapore cattivo? Invece è buona!»
«Non necessariamente» lo interruppe Justine, altezzosa. «Non ti capisco, Dane, proprio non ti
capisco. Certe cose che hanno il migliore dei sapori sono le più velenose.»
«Dinne una!» la sfidò lui.
«La melassa!» esclamò lei, trionfante.
Dane si era sentito molto male dopo aver trovato un barattolo di melassa nella dispensa della
signora Smith, e averla mangiata tutta. Ammise di essere stato toccato, ma controbatté. «Sono
ancora qui, e dunque non può essere poi tanto velenosa.»
«Soltanto perché hai vomitato. Se non avessi vomitato, saresti morto.»
Questo era incontrovertibile. Lui e sua sorella avevano press'a poco la stessa statura, e così egli
infilò il braccio, amichevolmente, sotto quello di Justine e insieme si diressero saltellando attraverso
il prato verso la loro casa in miniatura, costruita dagli zii secondo le loro istruzioni, tra i penduli
rami di un albero del pepe. Il pericolo delle api aveva fatto sì che gli adulti fossero contrari a quel
luogo, ma era poi risultato che i bambini avevano ragione. Le api coabitavano con loro
amichevolmente. Infatti, dicevano i bambini, gli alberi del pepe erano i più simpatici di tutti, molto
intimi. Avevano un odore fragrante e asciutto, e i loro grappoli di minuscoli globuli rosei si
sbriciolavano in friabili e pungenti fiocchi rosa quando venivano schiacciati nella mano.
«Sono così diversi l'uno dall'altra, eppure vanno tanto d'accordo» osservò Meggie. «La cosa non
finisce mai di stupirmi. Credo di non averli mai visti litigare, sebbene non riesca a capire come
Dane possa evitare i litigi con un tipo deciso e cocciuto come Justine.»
Ma Fee aveva qualcos'altro in mente. «Signore Iddio, è il ritratto vivente di suo padre» disse,
osservando Dane che si chinava sotto le fronde più basse dell'albero del pepe e scompariva.
Meggie si sentì gelare, una reazione riflessa che, sebbene sentisse dire la stessa cosa da anni, ancora
non l'aveva abbandonata. Era soltanto il suo senso di colpa, naturalmente. La gente si riferiva
sempre a Luke. Perché no? Esistevano somiglianze fondamentali tra Luke O'Neill e Ralph de
Bricassart. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva mai a essere del tutto naturale quando udiva
fare commenti sulla somiglianza di Dane col padre.
Sospirò con studiata noncuranza. «Credi, Ma'?» domandò e, con noncuranza, fece dondolare il
piede. «Per quanto mi concerne, non riesco mai a vederlo. Dane non somiglia affatto a Luke per
l'indole o l'atteggiamento nei confronti della vita.»
Fee rise. Parve quasi un nitrito, ma era un'autentica risata. Schiariti dall'età e dalla minaccia della
cataratta, i suoi occhi si posarono sulla faccia stupita di Meggie, severi e ironici. «Mi prendi per una
stupida, Meggie? Non mi riferisco a Luke O'Neill. Voglio dire che Dane è il ritratto vivente di
Ralph de Bricassart.»
Piombo. Meggie sentì che il piede le era diventato di piombo. Cadde sulle piastrelle spagnole; tutto
il suo corpo, di piombo, si afflosciò, e il cuore, di piombo, entro il petto, lottò contro il proprio peso
enorme, per battere. Batti, maledizione a te, batti! Devi continuare a battere per mio figlio!
«Come, Ma'!» Anche la sua voce sembrava di piombo. «Oh bella, Ma', che cosa straordinaria da
dire! Padre Ralph de Bricassart?»
«Quante persone conosci che portano questo nome? Luke O'Neill non ha mai generato quel
ragazzo; Dane è figlio di Ralph de Bricassart. Lo capii non appena lo tolsi fuori da te, quando
nacque.»
«Allora... perché non hai detto qualcosa? Perché aspettare che lui abbia sette anni per muovere
un'accusa così pazzesca e infondata?»
Fee allungò le gambe e con grazia le accavallò all'altezza delle caviglie. «Sto invecchiando,
finalmente, Meggie. E le cose non mi addolorano più tanto come un tempo. Quale benedizione può
essere la vecchiaia! È così bello vedere Drogheda rivivere, che mi sento meglio anche dentro di me
per questo. Per la prima volta da anni ho voglia di parlare.»
«Bene, devo dire che quando ti va di parlare sai davvero come scegliere gli argomenti! Ma', non hai
assolutamente alcun diritto di dire una cosa simile. Non è vero!» esclamò Meggie, disperatamente,
non sapendo bene se sua madre volesse torturarla o commiserarla.
A un tratto, la mano di Fee si portò avanti, si posò sul ginocchio di Meggie, e Fee sorrise... non
amaramente, o con disprezzo, ma con curiosa comprensione. «Non mentire a me, Meggie. Menti
con chiunque altro sotto il sole, ma non mentire a me. Niente potrà mai persuadermi che fu Luke
O'Neill a generare quel ragazzo. Non sono stupida, ho gli occhi. Non c'è nulla di Luke in lui, non c'è
mai stato perché non poteva esserci. Dane è il ritratto del prete. Guardagli le mani, e come gli
crescono i capelli a punta al centro della fronte, e la struttura della faccia, le sopracciglia, la bocca.
Persino il modo di muoversi. Ralph de Bricassart, Meggie, Ralph de Bricassart.»
Meggie si arrese, e l'enormità del suo sollievo trasparì dal modo con il quale sedeva, rilassata,
adesso, sciolta. «L'espressione remota degli occhi. È questo che io noto, soprattutto. È così
manifesto? Lo sanno tutti, Ma'?»
«No di certo» dichiarò Fee, recisamente. «La gente non guarda più in là del colore degli occhi, della
forma del naso, dell'aspetto in generale. Che somiglia abbastanza a quello di Luke. Io l'ho capito
perché ho osservato te e Ralph de Bricassart per anni. Gli sarebbe bastato farti cenno con il mignolo
e saresti corsa da lui, quindi lascia stare il tuo "è contro le leggi della Chiesa" quando si tratta di
divorziare. Non vedevi l'ora di violare una legge della Chiesa di gran lunga più seria di quella
concernente il divorzio. Spudorata, Meggie, ecco che cosa sei stata. Una spudorata!» Una nota di
durezza le si insinuò nella voce. «Ma lui era un uomo cocciuto. Aveva deciso di essere un sacerdote
perfetto, e tu venivi di gran lunga al secondo posto. Oh, che idiozia! Non gli è servito a niente, non
è così? Era solo questione di tempo prima che accadesse qualcosa.»
Al di là dell'angolo della veranda, qualcuno lasciò cadere un martello, e si lasciò sfuggire una
sequela di bestemmie; Fee trasalì, rabbrividì. «Santo Cielo, come sarò contenta quando avranno
finito con quelle zanzariere!» Poi tornò sull'argomento. «Credevi di avermi ingannata quando non
volesti che Ralph de Bricassart celebrasse il tuo matrimonio con Luke? Io sapevo. Avresti voluto
che lui fosse lo sposo, non il sacerdote officiante. Poi, quando venne a Drogheda prima di partire
per Atene, e tu non stavi qui, capii che, prima o poi, sarebbe stato costretto a venire a cercarti. Si
aggirava per la casa smarrito come un bambino alla fiera di Sydney. Sposare Luke fu la mossa più
scaltra che tu abbia fatto, Meggie. Finché seppe che ti stavi struggendo per lui, Ralph non ti volle,
ma, non appena divenisti la donna di un altro, manifestò tutti i classici sintomi di chi vuole impedire
ad altri di godersi ciò cui egli non può arrivare. Naturalmente, si era persuaso che il suo affetto per
te avesse la stessa purezza della neve vergine, ma restava il fatto che di te non poteva fare a meno.
Tu gli eri necessaria come nessun'altra donna nel suo passato e, presumo, nel suo futuro. Strano»
continuò Fee, realmente interdetta. «Mi sono sempre domandata che cosa vedesse in te, in nome del
Cielo, ma suppongo che le madri siano sempre un po' cieche per quanto concerne le loro figlie,
finché non invecchiano troppo per continuare a essere gelose della gioventù. Così è con te nei
riguardi di Justine, come è stato con me nei tuoi riguardi.»
Si appoggiò alla spalliera della poltroncina, dondolandosi appena, gli occhi socchiusi, ma continuò
a osservare Meggie come uno scienziato può osservare qualche esemplare.
«Qualsiasi cosa vedesse in te» continuò «la vide sin dalla prima volta che ti conobbe, e non smise
mai di incantarlo. La cosa più difficile che dovette affrontare fu la tua crescita, ma l'affrontò la volta
che venne qui e seppe come tu fossi partita, come ti fossi maritata. Povero Ralph! Non gli restava
altro da fare che cercarti. E ti trovò, non è così? Lo capii quando tornasti a casa prima della nascita
di Dane. Poiché avevi avuto Ralph de Bricassart, non ti era più necessario restare con Luke.»
«Sì» sospirò Meggie. «Ralph mi trovò. Ma questo non poteva risolvere niente per noi due, ti pare?
Sapevo che non sarebbe mai stato disposto a rinunciare a Dio. Per questo motivo ero decisa ad
avere la sola parte di lui che mi sarebbe mai potuta appartenere. Suo figlio. Dane.»
«È come ascoltare un'eco» disse Fee, con la sua risata rugginosa. «Avrei potuto dire io le stesse
parole.»
«Frank?»
La poltroncina raschiò; Fee si alzò, camminò sulle piastrelle, tornò indietro e fissò intensamente sua
figlia. «Bene, bene! Pan per focaccia, eh, Meggie? Da quanto tempo lo sai, tu?»
«Sin da quando ero una bimbetta. Sin da quella volta che Frank fuggì.»
«Suo padre aveva già moglie. Era molto più anziano di me, un importante uomo politico. Se ti
dicessi come si chiamava, te ne renderesti conto. Ci sono vie che hanno il suo nome in tutta la
Nuova Zelanda, e anche una o due cittadine, forse. Ma, tanto per dargli un nome, lo chiamerò
Pakeha. È la parola maori che significa "uomo bianco", ma può andare. È morto, ormai,
naturalmente. In me c'è una traccia di sangue maori, ma il padre di Frank era maori per metà. In
Frank lo si vedeva perché aveva ereditato il sangue maori da entrambi. Oh, come amai quell'uomo!
Forse era il richiamo del sangue, non lo so. Un bell'uomo. Un uomo robusto, con una zazzera di
capelli neri, e gli occhi neri più vividi e ridenti che possano esistere. Era tutto ciò che Paddy non
poteva essere... colto, sofisticato, affascinante. Io me ne innamorai alla follia. E credetti che non
avrei mai amato nessun altro; continuai a cullarmi in questa illusione così a lungo che me ne liberai
troppo tardi, troppo tardi!» La voce le mancò. Si voltò a contemplare il giardino. «Ho molte colpe,
Meggie, credimi.»
«Per questo, allora, volevi bene a Frank più che a tutti noi» disse Meggie.
«Credevo che così fosse, perché lui era il figlio di Pakeha e gli altri appartenevano a Paddy.» Si
rimise a sedere e si lasciò sfuggire un gemito strano, luttuoso. «Così, la storia si ripete. Risi dentro
di me quando vidi Dane, te lo assicuro.»
«Ma', sei una donna straordinaria!»
«Tu credi?» La poltroncina cigolò; ella si sporse in avanti. «Consentimi di bisbigliarti un piccolo
segreto, Meggie. Straordinaria, o semplicemente comune, sono una donna molto infelice. Per una
ragione o per l'altra, sono stata infelice dal giorno in cui conobbi Pakeha. Quasi sempre per colpa
mia. Lo amavo, ma quello che egli mi fece non dovrebbe accadere ad alcuna donna. E poi ci fu
Frank... continuai ad avvinghiarmi a Frank e a ignorare tutti voi. A ignorare Paddy, il quale era la
cosa migliore che mi fosse mai capitata. Ma non me ne rendevo conto. Ero troppo impegnata nel
paragonarlo a Pakeha. Oh, gli ero grata, e non potevo non capire che brav'uomo fosse...» Fece
spallucce. «Oh, be', è tutta acqua passata. Volevo dirti che hai sbagliato, Meggie. Lo sai, non è
vero?»
«No, affatto. A mio modo di vedere, è la Chiesa a sbagliare, pretendendo anche questo dai suoi
sacerdoti.»
«È strano che pensiamo sempre alla Chiesa al femminile. Tu hai rubato l'uomo di un'altra donna,
Meggie, né più né meno come me.»
«Ralph non aveva assolutamente alcun legame con alcuna donna, eccettuata me. La Chiesa non è
una donna, Ma', è una cosa, un'istituzione.»
«Non darti la pena di cercare di giustificarti con me. So già tutto. Anch'io la pensavo come te, un
tempo. Il divorzio, per lui, era fuori questione. Si trattava del primo esponente della sua razza che
avesse conseguito la grandezza politica; doveva scegliere tra me e il suo popolo. Quale uomo
avrebbe potuto resistere a una simile occasione di essere nobile? Proprio come il tuo Ralph scelse la
Chiesa, no? Così mi dissi: non importa, avrò da lui quello che posso avere, avrò almeno suo figlio
da amare.»
Ma, a un tratto, Meggie fu troppo impegnata nell'odiare sua madre per poterla compatire, fu troppo
impegnata nel risentirsi a causa dell'allusione che l'accusava di aver combinato un disastro
altrettanto grande. Pertanto disse: «Solo che io ti ho superata di gran lunga in sottigliezza, Ma'. Mio
figlio ha un nome che nessuno può togliergli, compreso Luke.»
Il respiro di Fee sibilò tra i denti. «Disgustoso! Oh, quanto sai essere falsa, Meggie! Una
santarellina, eh? Bene, mio padre mi comprò un marito per dare un nome a Frank e liberarsi di me.
Scommetto che questo non lo sapevi! Lo sapevi? Come l'hai saputo?»
«Questo è affar mio.»
«La pagherai, Meggie. Credi a me, dovrai pagare. Non te la passerai liscia più di quanto abbia
potuto passarmela liscia io. Io ho perduto Frank nel modo peggiore che possa toccare a una madre;
non mi è nemmeno consentito vederlo, e lo desidero tanto... Aspetta! Anche tu perderai Dane.»
«No, se potrò evitarlo. Tu hai perduto Frank perché non poteva andare d'accordo con Pa'. Io mi sono
accertata che Dane non venisse imbrigliato da un padre. Lo imbriglierò io, invece, a Drogheda.
Perché credi che stia già facendo di lui un guardiano? A Drogheda sarà al sicuro.»
«Lo è stato Pa', forse? Lo è stato Stuart? Non esistono luoghi sicuri. E non riuscirai a trattenere
Dane, se vorrà andarsene. Pa' non riuscì a imbrigliare Frank. Proprio così. Frank non poteva essere
imbrigliato. E se credi che tu, una donna, potrai imbrigliare il figlio di Ralph de Bricassart, farai
meglio a cambiare idea. È logico, del resto, no? Se nessuna di noi due è riuscita a trattenere il padre,
come possiamo sperare di trattenere il figlio?»
«Potrò perdere Dane in un solo modo: se tu non terrai la bocca chiusa, Ma'. E ti avverto: prima ti
ucciderei.»
«Non preoccuparti, non vale la pena di farsi impiccare per me. Il tuo segreto è al sicuro. Io sono
soltanto una spettatrice interessata. Sì, proprio così, non sono altro: una spettatrice.»
«Oh, Ma'! Che cosa può averti ridotta così? Perché sei così, tanto riluttante a dare?»
Fee sospirò. «Avvenimenti svoltisi anni prima che tu nascessi» disse in tono patetico.
Ma Meggie agitò il pugno con veemenza. «Oh, no, non è vero! Dopo quello che mi hai appena
detto? Non te la caverai mai più con me continuando a fustigare quel cavallo morto! Storie, storie,
storie! Mi senti, Ma'? Ci hai sguazzato per tutta la vita, come una mosca nello sciroppo!»
Fee le rivolse un ampio sorriso, sinceramente soddisfatta. «Un tempo pensavo che avere una figlia
femmina non fosse importante come avere figli maschi, ma mi sbagliavo. Io ti godo, Meggie, come
non potrò mai godere i miei figli. Una femmina è una tua pari. I maschi non lo sono, sai. Sono
solamente pupazzi indifesi che mettiamo in piedi soltanto per poterli buttare giù a nostro piacere.»
Meggie la fissò con gli occhi spalancati. «Sei spietata. Ma dimmi, allora, in che cosa sbagliamo?»
«Nascendo» rispose Fee.
Gli uomini stavano tornando in patria a migliaia e migliaia, si liberavano delle uniformi kaki e dei
berretti, per indossare di nuovo abiti civili. E il governo laburista, ancora in carica, rivolse la propria
attenzione alle grandi proprietà delle pianure occidentali e ad alcuni dei più grandi allevamenti
meno lontani. Non era giusto che tanta terra appartenesse a una sola famiglia, mentre uomini che
avevano fatto il loro dovere per l'Australia avevano bisogno di spazio per sistemarsi e al paese
occorreva uno sfruttamento più intensivo del suolo. Sei milioni di persone popolavano una
superficie vasta come quella degli Stati Uniti d'America, ma soltanto un pugno di questi sei milioni
di individui possedeva vaste estensioni di territorio. Le più grandi proprietà dovevano essere
suddivise, dovevano cedere parte della loro superficie ai reduci di guerra.
Bugela passò da centocinquantamila acri a settantamila; due reduci ebbero quarantamila acri per
ciascuno da Martin King. Rudna Hunish aveva un'estensione di centoventimila acri e, di
conseguenza, Ross MacMCQueen perdette sessantamila acri, che andarono ad altri due reduci. E
così via. Naturalmente, il governo compensò gli allevatori, anche se con cifre più basse di quelle
che le terre avrebbero fruttato sul libero mercato. E fu doloroso. Oh, se fu doloroso. Nessun
ragionamento riuscì a prevalere a Canberra. Le proprietà vaste come Bugela e Rudna Hunish
dovevano essere frazionate. Ovviamente, nessun uomo aveva bisogno di tanto terreno, in quanto nel
distretto di Gilly esistevano molti prosperi allevamenti con una superficie inferiore ai cinquantamila
acri.
Ma ancor più dolorosa fu la consapevolezza che, questa volta, i reduci sembravano voler
perseverare. Dopo la prima guerra mondiale, quasi tutti i grandi allevamenti erano stati
analogamente frazionati ma con pessimi risultati, in quanto i neoallevatori non avevano alcuna
esperienza; e, a poco a poco, i proprietari avevano riacquistato gli acri loro sottratti, a prezzi
rovinosi per i reduci scoraggiati. Questa volta, però, il governo era deciso ad addestrare e preparare
a proprie spese i nuovi allevatori.
Quasi tutti i proprietari di terre erano iscritti al Country Party e, per principio, odiavano il governo
laburista in quanto lo identificavano con le classi impiegatizie delle città industriali, con i sindacati,
e con gli inetti intellettuali marxisti. La cosa più esasperante fu il constatare che i Cleary, i quali,
come era risaputo, votavano per il partito laburista, non avrebbero dovuto rinunciare a un solo acro
della formidabile estensione di Drogheda. Poiché l'allevamento apparteneva alla Chiesa cattolica,
era esonerato dal frazionamento. Gli urli di protesta giunsero fino a Canberra, ma vennero ignorati.
Fu un durissimo colpo per gli allevatori che avevano sempre creduto di essere il gruppo più potente
della nazione quanto a influenza politica constatare che chi deteneva lo scettro del potere a
Canberra potesse fare ciò che più gli piaceva, o quasi. L'organizzazione dell'Australia era
fortemente centralizzata, e i governi dei vari Stati non avevano virtualmente alcun potere.
Così, come un gigante in un mondo di lillipuziani, Drogheda continuò a esistere, con tutto il suo
quarto di milione di acri.
Le piogge venivano e cessavano, talora sufficienti, talora troppo abbondanti, talora troppo scarse,
ma non vi fu più, grazie a Dio, un altro flagello come la grande siccità. A poco a poco il numero
delle pecore aumentò e la qualità della lana migliorò, superando quella dei tempi pre-siccità, il che
non era una cosa da poco. Produrre capi selezionati era di moda. La gente parlava di Haddon Rig,
vicino a Warren, e cominciava a emulare il suo proprietario, Max Falkiner, nel presentare i migliori
arieti e le più belle pecore alla Royal Easter Show di Sydney. Il prezzo della lana cominciò a salire,
dapprima gradualmente, per poi arrivare alle stelle. L'Europa, gli Stati Uniti e il Giappone erano
avidi di ogni fiocco di buona lana che l'Australia fosse in grado di produrre. Altri paesi vendevano
lana più ruvida per stoffe pesanti, tappeti, feltri; ma soltanto le lunghe e seriche fibre delle merino
australiane potevano dar luogo a tessuti così fini da scivolare tra le dita come l'erba del prato più
soffice. E quel tipo di lana raggiungeva il culmine della qualità sulle pianure di terra nera a nord-
ovest del Nuovo Galles del Sud e a sud-ovest del Queensland.
Fu come se, dopo tanti anni di tribolazioni, fosse arrivata la giusta ricompensa. Gli utili di Drogheda
aumentarono al di là di ogni immaginazione. Milioni di sterline ogni anno. Fee sedeva alla sua
scrivania irradiando contentezza e Bob assunse altri due guardiani. Se non fosse stato per i conigli
selvatici, la situazione dell'allevamento si sarebbe potuta definire ideale, ma i conigli continuavano
a essere un flagello, come sempre.
Nella grande dimora la vita divenne a un tratto molto piacevole. Le zanzariere avevano escluso le
mosche da ogni ambiente, e adesso che erano state applicate e tutti avevano finito con l'abituarsi al
loro aspetto, ognuno si domandava come avessero potuto sopravvivere senza di esse. Infatti, la loro
antiesteticità era compensata in molti modi: potevano, per esempio, consumare i pasti al fresco sulla
veranda, quando faceva molto caldo, sotto il fogliame del glicine.
Le zanzariere piacevano anche alle raganelle. Erano piccole creature, verdi, con delicate e brillanti
sfumature d'oro. Con le loro zampe a ventosa, si arrampicavano all'esterno delle fini reti metalliche
e, immobili, fissavano i commensali, solenni e dignitose. Improvvisamente, una spiccava un salto,
afferrava una falena quasi più grossa di lei, e tornava all'immobilità, con la falena che batteva le ali
disperatamente, fuori per due terzi dalla bocca troppo ingombra. Dane e Justine si divertivano a
calcolare il tempo che impiegava una raganella a inghiottire completamente una grossa falena,
fissandoli con aria grave attraverso la zanzariera, e inghiottendo un pezzetto di falena ogni dieci
minuti. L'insetto sopravviveva a lungo, e spesso continuava a zampettare anche quando l'ultima
estremità dell'ala scompariva entro la bocca.
«Perdiana! Che brutta fine!» ridacchiava Dane. «Pensa un po', essere ancora vivo per metà, mentre
l'altra metà di te è già stata digerita!»
Avide letture - la passione di Drogheda - avevano fatto sì che i due O'Neill, già in tenera età,
conoscessero un gran numero di vocaboli. Erano intelligenti, svegli e si interessavano a tutto.
Trovavano la vita particolarmente piacevole. Disponevano di ponies purosangue, che crescevano
insieme a loro; sopportavano con pazienza le lezioni per corrispondenza al tavolo verde di cucina
della signora Smith; si divertivano nella casa in miniatura sotto l'albero del pepe; avevano gatti,
cani, persino un goanna, che camminava mirabilmente al guinzaglio e rispondeva quando veniva
chiamato. Il loro beniamino prediletto era un minuscolo porcellino roseo, intelligente quanto un
cane, chiamato Iggle-Piggle.
Lontani dall'affollamento delle grandi città, si ammalavano di rado, e mai di raffreddori o di
influenza. Meggie era terrorizzata dalla paralisi infantile, dalla difterite, da tutto ciò che avrebbe
potuto avventarsi su di loro dal nulla e portarli via, per cui i due bambini vennero vaccinati con tutti
i vaccini disponibili.
Quando Dane aveva dieci anni e Justine undici, furono mandati entrambi in collegio a Sydney,
Dane al Riverview, come esigeva la tradizione, e Justine al Kincoppal. Allorché li fece salire per la
prima volta sull'aereo, Meggie rimase a guardare mentre i loro pallidi visetti, coraggiosamente
composti, guardavano fuori di un finestrino, e i fazzoletti venivano sventolati. Prima di allora non si
erano mai allontanati da casa. Avrebbe desiderato moltissimo accompagnarli, vedere con i suoi
occhi come sarebbero stati sistemati, ma tutti le si erano messi contro con tanta decisione che aveva
finito con il rassegnarsi. Da Fee a Jims e a Patsy, tutti erano del parere che se la sarebbero cavata
molto meglio da soli.
«Non li viziare» diceva Fee, con severità.
Ma, invero, le parve di essere due persone diverse mentre il DMCc-3 decollava in un nuvolone di
polvere e oscillava nell'aria baluginante. Le si stava spezzando il cuore per la partenza di Dane, e al
contempo era lieta al pensiero di separarsi da Justine. Non esisteva alcuna ambivalenza nei suoi
sentimenti per Dane; la sua indole allegra e placida dava e accettava affetto con la stessa naturalezza
con cui si respira. Ma Justine era un amabile, orribile mostro. Non si poteva non amarla, perché
c'era molto da amare: la sua forza, la sua lealtà, la sua fiducia in se stessa... ma il guaio stava nel
fatto che ella non consentiva mai a Meggie di provare la meravigliosa sensazione di essere
necessaria. Non era socievole, non amava scherzare, aveva la pessima abitudine di demolire tutti, e
più che altro sua madre. Meggie trovava in lei molte delle stesse cose che la esasperavano in Luke,
ma Justine, per lo meno, non era tirchia. E di questo bisognava ringraziare Dio.
Una linea aerea con un gran numero di voli significava che tutte le vacanze di Dane e Justine, anche
quelle più brevi, potevano essere trascorse a Drogheda. Tuttavia, dopo un periodo iniziale di
adattamento, entrambi i bambini si trovarono bene in collegio. Dane aveva sempre la nostalgia di
casa, dopo un ritorno a Drogheda, ma Justine si abituò a Sydney come se ci avesse sempre vissuto,
e trascorreva il tempo a Drogheda anelando a tornare in città. I gesuiti del Riverview erano
soddisfattissimi; Dane risultava essere un allievo meraviglioso, in aula e nei campi sportivi. Le
suore del Kincoppal, d'altro canto, erano tutt'altro che soddisfatte; nessuna bambina con gli occhi
penetranti e la lingua tagliente di Justine avrebbe mai potuto sperare di riscuotere simpatie e di
essere benvoluta. Una classe più avanti, ella era probabilmente un'allieva migliore di Dane, ma
soltanto in aula.
Il Sydney Morning Herald del 4 agosto 1952 fu un numero molto interessante. In prima pagina di
rado figurava più di una fotografia, di solito al centro, per illustrare la notizia importante del giorno.
E, quel 4 agosto, la fotografia era uno splendido ritratto di Ralph de Bricassart.
«L'Arcivescovo Ralph de Bricassart, attuale assistente del Segretario di Stato della Santa Sede, è
stato oggi creato Cardinale da Sua Santità Pio XII.
«Ralph Raoul, Cardinale de Bricassart, ha percorso una lunga e illustre carriera nella Chiesa
Cattolica Romana in Australia, dal suo arrivo, subito dopo essere stato ordinato sacerdote, nel luglio
del 1919, alla partenza per il Vaticano, nel marzo del 1938.
«Nato il 23 settembre 1893, nella Repubblica d'Irlanda, il Cardinale de Bricassart è il secondogenito
di una famiglia che discende dal barone Ranulf de Bricassart, giunto in Inghilterra al seguito di
Guglielmo il Conquistatore. Per una tradizione familiare, il Cardinale de Bricassart entrò a far parte
della Chiesa. In seminario a diciassette anni, una volta ordinato sacerdote fu inviato in Australia. I
primi mesi li trascorse come segretario del defunto Vescovo Michael Clabby, nella diocesi di
Winnemurra.
«Nel giugno del 1920 divenne parroco della parrocchia di Gillanbone, nel nord-ovest del Nuovo
Galles del Sud. Fu creato Monsignore e rimase a Gillanbone fino al dicembre del 1928. Divenne poi
segretario privato di Sua Eccellenza l'Arcivescovo Cluny Dark, e infine segretario privato del
Legato pontificio, Sua Eminenza il Cardinale Contini-Verchese. In quel periodo fu creato Vescovo.
Quando il Cardinale Contini-Verchese venne trasferito a Roma per iniziare la sua luminosa carriera
in Vaticano, il Vescovo de Bricassart fu creato Arcivescovo e tornò in Australia da Atene, egli stesso
come Legato pontificio. Mantenne questa importante carica fino al suo trasferimento a Roma, nel
1938; da allora, la sua ascesa nella gerarchia della Chiesa Cattolica Romana è stata spettacolare.
Corre voce che ora, all'età di cinquantotto anni, sia uno dei pochi uomini che contribuiscono
attivamente alla politica papale.
«Un inviato del Sydney Morning Herald ha parlato ieri con alcuni ex parrocchiani del Cardinale de
Bricassart nel distretto di Gillanbone. Egli è ricordato da tutti e con molto affetto. Quel ricco
distretto di allevatori di pecore è, per la massima parte, cattolico.
«"Padre de Bricassart fondò l'Associazione Bibliofila Santa Croce della Boscaglia" ci ha detto il
signor Harry Gough, sindaco di Gillanbone. "Fu – soprattutto per quei tempi - un importante
servizio pubblico, splendidamente finanziato, all'inizio, dalla defunta signora Carson, e, dopo la
morte di lei, dallo stesso Cardinale, che non ha mai dimenticato le nostre necessità."
«"Padre de Bricassart era il più bell'uomo ch'io abbia mai veduto" ha detto la signora Fiona Cleary,
che amministra attualmente Drogheda, uno dei più vasti e più prosperi allevamenti del Nuovo
Galles del Sud. "Mentre si trovava a Gilly, fu di grande conforto spirituale per i suoi parrocchiani, e
in particolare per noi a Drogheda che, come lei sa, appartiene ora alla Chiesa Cattolica. Durante le
alluvioni ci aiutava a spostare le greggi, durante gli incendi veniva in nostro soccorso, sia pur
soltanto per seppellire le vittime. Era, in effetti, un uomo straordinario sotto ogni aspetto e
possedeva più fascino di qualsiasi persona io abbia mai conosciuto. Si capiva che era fatto per
grandi cose. Lo ricordiamo bene, sebbene ci abbia lasciati da più di vent'anni. Sì, credo si possa
dire, in tutta sincerità, che egli continua a mancare moltissimo ad alcune persone nel distretto di
Gilly."
«Durante la guerra, l'allora Arcivescovo de Bricassart ha servito lealmente e instancabilmente Sua
Santità, e si attribuisce a lui il merito di aver persuaso il Feldmaresciallo Albert Kesselring a
dichiarare Roma città aperta, dopo che l'Italia si era schierata tra i nemici della Germania. Firenze,
che invano chiese lo stesso privilegio, perdette molti dei suoi tesori, restituiti in seguito soltanto
perché la Germania era stata sconfitta. Nel periodo immediatamente successivo al termine del
conflitto, il Cardinale de Bricassart aiutò migliaia di profughi a trovare asilo in altri paesi e fu
particolarmente energico nel favorire il piano di immigrazione in Australia.
«Sebbene per nascita egli sia irlandese, e sebbene, a quanto pare, non voglia far sentire il suo
ascendente in quanto Cardinale de Bricassart in Australia, riteniamo che, in vasta misura, l'Australia
possa a buon diritto rivendicare questo grande uomo come un suo figlio.»
Meggie restituì il giornale a Fee e sorrise malinconicamente alla madre.
«Ci si deve congratulare con lui, come hai detto al cronista dello Herald. Ma questo non lo hanno
stampato, eh? Sebbene abbiano pubblicato quasi alla lettera il tuo piccolo elogio. Che lingua
tagliente hai. Ora, per lo meno, so da chi l'ha presa Justine. Mi domando quante persone saranno
così scaltre da leggere tra le righe di quanto hai detto.»
«Lui lo sarà, in ogni caso, se le leggerà.»
«Chissà se si ricorda di noi?» sospirò Meggie.
«Senza alcun dubbio. In fin dei conti, trova ancora il tempo di amministrare personalmente
Drogheda. Certo che si ricorda di noi, Meggie. Come potrebbe dimenticare?»
«È vero, non avevo pensato a Drogheda. Noi ci troviamo qui, da dove provengono gli utili, no?
Dev'essere molto soddisfatto. Con la nostra lana a una sterlina per libbra, nelle aste, le rendite di
Drogheda, quest'anno, devono aver fatto sfigurare anche le miniere d'oro. Altro che Toson d'Oro!
Più di quattro milioni di sterline, soltanto con la tosatura delle pecore.»
«Non essere cinica, Meggie, non ti si addice» disse Fee; i suoi modi nei riguardi della figlia, in quel
periodo, sebbene spesso blandamente caustici, erano temperati dal rispetto e dall'affetto. «Ce la
siamo cavati abbastanza bene, no? Non dimenticare che veniamo pagati tutti gli anni, siano buoni o
cattivi. E inoltre, Ralph non ha versato centomila sterline a Bob, come premio, e a noi
cinquantamila? Se domani ci cacciasse da Drogheda, potremmo permetterci di acquistare Bugela,
anche con i prezzi inflazionati che ha oggi la terra. E quanto ha dato ai tuoi figli? Migliaia e
migliaia di sterline. Sii giusta nei suoi riguardi.»
«Ma i miei figli non lo sanno e non dovranno saperlo. Dane e Justine cresceranno con la
convinzione di doversi fare strada da soli, senza l'aiuto del caro Ralph Raoul, Cardinale de
Bricassart. Strano che il suo secondo nome sia Raoul! Molto normanno, non ti sembra?»
Fee si alzò, si avvicinò al fuoco e gettò sulle fiamme la prima pagina dello Herald. La faccia di
Ralph Raoul, Cardinale de Bricassart, fremette, la fissò ammiccando, poi si accartocciò.
«Che cosa farai se tornerà qui, Meggie?»
Meggie sbuffò. «È molto improbabile.»
«Potrebbe tornare» disse Fee, enigmatica.
E Ralph tornò, in dicembre. In gran segreto, senza che nessuno lo sapesse, guidando personalmente
un'automobile sportiva Aston Martin sin da Sydney. Non una parola sulla sua presenza in Australia
era apparsa sulla stampa, per cui nessuno a Drogheda aveva la più pallida idea che potesse arrivare.
Quando l'automobile si fermò nello spiazzo inghiaiato accanto alla casa, non c'era nessuno, lì
attorno, e, a quanto pareva, nessuno lo aveva veduto arrivare, poiché nessuno uscì sulla veranda.
Egli aveva sentito i chilometri, a partire da Gilly, in ogni cellula del corpo, mentre aspirava gli odori
della boscaglia, delle pecore, dell'erba asciutta che splendeva irrequieta al sole. Canguri ed emù,
galah e goanna, milioni di insetti che ronzavano e si agitavano, formiche che marciavano attraverso
la strada in fitte colonne, grasse pecore dappertutto. Amava tanto quei luoghi, perché, curiosamente,
si conformavano a ciò che egli amava in ogni cosa; il trascorrere degli anni sembrava quasi non
sfiorarli.
L'unica diversità era costituita dalle zanzariere, ma notò divertito che Fee non aveva fatto chiudere
la grande veranda che dava sulla strada di Gilly, ma solo le finestre che davano sulla veranda. Aveva
avuto ragione, naturalmente; una vasta estensione di rete metallica avrebbe rovinato le linee di
quella splendida facciata georgiana. Quanto vivevano gli eucalipti? Dovevano essere stati trapiantati
dal «cuore dell'interno», ottant'anni prima. I rami più alti delle buganvillee erano una massa
invadente color rame e viola.
Era già estate; mancavano due settimane a Natale, e le rose di Drogheda erano al culmine della
fioritura. C'erano rose dappertutto, rosa e bianche e gialle, cremisi come il sangue che sprizza dal
cuore, scarlatte come la veste di un Cardinale. Tra il glicine, per il momento verde, rose rampicanti
sonnecchiavano rosa e bianche, pendevano dal tetto della veranda e giù per la rete metallica,
aderivano amorosamente alle imposte scure del primo piano, protendevano sarmenti oltre a esse,
verso il cielo. I sostegni delle cisterne erano nascosti dalle rose, ormai, e così le cisterne stesse. E un
colore dominava ovunque tra le rose, un pallido rosa-grigio. Cenere di rose? Sì, così si chiamava
quel colore. Doveva essere stata Meggie a piantarle, non poteva non essere stata lei.
Udì la risata di Meggie, e rimase immobile, completamente terrorizzato, poi costrinse i propri piedi
ad andare nella direzione del suono, ridottosi ormai a deliziosi trilli argentini. Proprio come soleva
ridere da bambina. Ecco da dove veniva il suono! Era laggiù, dietro un grande ammasso di rose di
un rosa-grigio, accanto a un albero del pepe. Scostò i gruppi di fiori con la mano, inebriato dal loro
profumo e da quelle risa.
Ma Meggie non era lì, c'era soltanto un ragazzo accosciato sul prato lussureggiante e intento a
stuzzicare un porcellino rosa, che stupidamente gli correva incontro, poi galoppava via e tornava
indietro. Ignaro di essere osservato, il ragazzo arrovesciò il capo splendente e rise. La stessa risata
di Meggie. Senza volerlo, il Cardinale Ralph lasciò ricadere le rose e si fece avanti, noncurante
delle spine. Il ragazzo, sui tredici o quattordici anni, appena nella pre-pubertà, alzò gli occhi stupito;
il maialino strillò, arrotolò la coda e fuggì.
Era scalzo, e indossava soltanto un vecchio paio di calzoncini kaki; aveva la pelle di un bruno-
dorato e serica, e un corpo snello, le spalle quadrate, i muscoli ben sviluppati dei polpacci e delle
cosce, il ventre piatto e i fianchi stretti. Aveva i capelli un po' troppo lunghi e mollemente ricciuti,
esattamente dello stesso colore attenuato dell'erba di Drogheda, e gli occhi, ombreggiati da ciglia
folte e nere, erano intensamente azzurri. Sembrava un angelo fuggito dal Paradiso.
«Salve» disse, sorridendo.
«Salve» disse il Cardinale Ralph, trovando impossibile resistere al fascino di quel sorriso. «Chi
sei?»
«Sono Dane O'Neill» rispose il ragazzo. «E lei chi è?»
«Mi chiamo Ralph de Bricassart.»
Dane O'Neill. Era il figlio di Meggie, allora. Dunque ella non aveva lasciato Luke, era tornata con
lui, e aveva messo al mondo quel meraviglioso fanciullo che avrebbe potuto essere suo, se lui non
avesse sposato prima la Chiesa. Quanti anni aveva avuto, quando si era sposato con la Chiesa? Non
molti più del ragazzo. Se avesse aspettato, il ragazzo avrebbe potuto senz'altro essere suo. Che
assurdità, Cardinale de Bricassart! Se tu non avessi sposato la Chiesa, saresti rimasto in Irlanda ad
allevare cavalli, e non avresti mai conosciuto il tuo fato, non avresti mai conosciuto Drogheda o
Meggie Cleary.
«Posso esserle utile?» domandò il ragazzo, educatamente, alzandosi in piedi con l'agile grazia di
Meggie.
«Tuo padre si trova qui, Dane?»
«Mio padre?» Le sopracciglia scure, finemente disegnate, si aggrottarono. «No, non è qui, non è
mai stato qui.»
«Oh, capisco. C'è tua madre, allora?»
«È a Gilly, ma tornerà presto. In casa c'è la nonna, però. Vuole parlare con lei? Posso
accompagnarla.» Gli occhi, azzurri come fiordalisi, lo fissarono, dapprima spalancati, poi socchiusi.
«Ralph de Bricassart. L'ho già sentita nominare. Oh! Il Cardinale de Bricassart! Eminenza, mi
scusi! Sono stato ineducato senza volerlo.»
Sebbene Ralph avesse rinunciato alle vesti clericali a favore degli stivali, dei calzoni al ginocchio e
di una camicia bianca, portava sempre al dito l'anello con rubino che non doveva mai essere tolto
finché fosse stato in vita. Dane O'Neill si inginocchiò, prese la mano esile del Cardinale Ralph tra le
sue, altrettanto esili, e baciò l'anello con riverenza.
«Non preoccuparti, Dane. Non sono qui come il Cardinale de Bricassart. Sono qui come un amico
di tua madre e di tua nonna.»
«Mi scusi, Eminenza, avrei dovuto riconoscere il suo nome appena l'ho udito. Parliamo abbastanza
spesso di lei, qui. Soltanto che lo ha pronunciato in un modo un po' diverso, e il nome di battesimo
mi ha sviato. Mia madre sarà contenta di vederla, lo so.»
«Dane, Dane, dove sei?» chiamò una voce impaziente, molto profonda e incantevolmente rauca.
I rami spioventi dell'albero del pepe si separarono e una ragazza sui quindici anni si chinò, poi si
raddrizzò. Ralph capì immediatamente chi ella fosse, da quegli occhi stupefacenti. La figlia di
Meggie. Coperta di lentiggini grosse come monetine da un penny, con un viso aguzzo, dai
lineamenti minuti, diversa in modo deludente da Meggie.
«Oh, salve. Chiedo scusa. Non sapevo che avessimo un ospite. Sono Justine O'Neill.»
«Jussy, questi è il Cardinale de Bricassart!» bisbigliò Dane. «Baciagli l'anello!»
Gli occhi che sembravano ciechi balenarono disprezzo. «Sei davvero picchiato per la religione,
Dane» disse la ragazza, senza darsi la pena di abbassare la voce. «Baciare un anello non è igienico;
non lo farò. Del resto, come sappiamo che costui è il Cardinale de Bricassart? A me sembra un
allevatore all'antica. Sai, come il signor Gordon.»
«Lo è, lo è!» insistette Dane. «Ti prego, Jussy, sii buona! Sii buona per me!»
«Sarò buona, ma soltanto per te. Però non gli bacerò l'anello, nemmeno per farti piacere. È
disgustoso. Come posso sapere chi lo ha baciato prima? Potrebbe aver avuto il raffreddore.»
«Puoi fare a meno di baciarmi l'anello, Justine. Mi trovo qui in vacanza; per il momento non sono
un Cardinale.»
«Meglio così, perché, glielo dico francamente, io sono atea» asserì placida la figlia di Meggie
Cleary. «Dopo quattro anni al Kincoppal, penso che la religione sia tutta un mucchio di balle.»
«Hai il diritto di pensarla come vuoi» disse il Cardinale Ralph, sforzandosi disperatamente di
sembrare dignitoso e serio come lei. «Posso andare a cercare la nonna?»
«Naturale. Ha bisogno di noi?» domandò Justine.
«No, grazie. Conosco la strada.»
«Bene.» Ella si voltò verso il fratello, che ancora guardava a bocca aperta il visitatore. «Su, vieni,
Dane, dammi una mano. Avanti, vieni!»
Ma, sebbene Justine lo stesse trascinando per un braccio, Dane continuò a seguire con lo sguardo la
figura alta e diritta del Cardinale che scompariva dietro le rose.
«Sei proprio uno scemo, Dane. Che cosa c'è di tanto speciale in lui?»
«È un Cardinale!» esclamò. «Pensa un po'! Un vero Cardinale, in carne e ossa, a Drogheda!»
«I Cardinali» disse Justine «sono i Principi della Chiesa. Forse hai ragione, è davvero straordinario.
Ma quell'uomo non mi piace.»
Dove mai poteva trovarsi Fee, se non alla sua scrivania? Egli entrò nel salotto scavalcando una
finestra, ma per far ciò bisognava aprire una zanzariera. Fee doveva averlo udito, eppure continuò a
lavorare, la schiena curva, i bei capelli dorati divenuti di un argento cremoso. A stento Ralph
ricordò che ormai doveva avere settantadue anni.
«Salve, Fee» disse.
Quando ella alzò il capo, vide il mutamento intervenuto in lei, sebbene non potesse sapere con
certezza quale ne fosse l'esatta natura; c'era sempre l'indifferenza, ma c'erano numerose altre cose.
Come se Fee si fosse raddolcita e indurita contemporaneamente, e fosse divenuta più umana, ma
umana alla maniera di Mary Carson. Dio, quelle matriarche di Drogheda! Sarebbe accaduto anche a
Meggie, quando fosse venuto il suo turno?
«Salve, Ralph» disse lei, come se egli entrasse ogni giorno scavalcando la finestra. «Che piacere
vederla.»
«È un piacere anche per me.»
«Non sapevo che fosse in Australia.»
«Non lo sa nessuno. Ho alcune settimane di vacanza.»
«Sarà nostro ospite, spero.»
«E di chi altri?» Lo sguardo di lui passò sulle magnifiche pareti e indugiò sul ritratto di Mary
Carson. «Sa, Fee, il suo gusto è impeccabile, infallibile. Questa stanza può rivaleggiare con
qualsiasi ambiente del Vaticano. Quegli ovali neri con le rose sono un colpo di genio.»
«Oh, grazie! Cerchiamo di fare umilmente del nostro meglio. Personalmente, preferisco la sala da
pranzo; l'ho fatta modificare, dopo l'ultima volta che venne qui. In rosa, bianco e verde. A sentirlo,
sembra orribile, ma aspetti di averla veduta. Anche se poi non so davvero perché mi applico a
queste cose. La casa è sua, no?»
«No, finché rimarrà un Cleary in vita, Fee» disse lui, sommessamente.
«Davvero consolante. Bene, lei ha fatto strada dai tempi di Gilly, no? Ha letto l'articolo dello Herald
sulla sua promozione?»
Egli trasalì. «Sì. Le si è affilata la lingua, Fee.»
«Sì, e, oltretutto, la cosa mi diverte. Per quanti anni sono rimasta chiusa in me stessa, senza mai dire
una parola! Non sapevo cosa perdevo.» Sorrise. «Meggie è andata a Gilly, ma tornerà presto.»
Dane e Justine entrarono scavalcando una finestra.
«Nonna, possiamo andare a cavallo fino al pozzo artesiano?»
«Conoscete le regole. Niente equitazione se non siete autorizzati personalmente da vostra madre.
Mi dispiace, ma questi sono i suoi ordini. E che fine hanno fatto le vostre buone maniere? Venite
avanti e presentatevi al nostro ospite.»
«Li ho già conosciuti.»
«Oh.»
«Ma non dovresti essere in collegio?» disse Ralph a Dane, sorridendo.
«Non in dicembre, Eminenza. Abbiamo due mesi di vacanza... le vacanze estive.»
Era rimasto assente per troppi anni; aveva dimenticato che i ragazzi dell'emisfero australe si
godevano le lunghe vacanze estive nei mesi di dicembre e gennaio.
«Rimarrà qui a lungo, Eminenza?» domandò Dane, sempre affascinato.
«Sua Eminenza rimarrà con noi fino a quando potrà, Dane» disse sua nonna «ma credo che troverà
un po' fastidioso sentirsi dar continuamente dell'Eminenza. Come potrete chiamarlo? Zio Ralph?»
«Zio!» esclamò Justine. «Sai bene che in famiglia nessuno vuol esser chiamato zio, nonna! I nostri
zii li chiamiamo semplicemente Bob, Jack, Hughie, Jims e Patsy. Quindi lui dovremo chiamarlo
Ralph!»
«Non essere così villana, Justine! Dove sono finite le tue buone maniere?» la rimproverò Fee.
«No, Fee, va benissimo così. Preferirei davvero che tutti mi chiamassero semplicemente Ralph» si
affrettò a dire il Cardinale. Perché lo aveva tanto in antipatia, quella ragazzina bizzarra?
«Non potrei mai!» balbettò Dane. «Non potrei chiamarla semplicemente Ralph!»
Il Cardinale attraversò la stanza, appoggiò le mani sulle sue spalle nude e sorrise, con gli occhi
azzurri molto buoni e vividi nel salotto in penombra. «Certo che puoi, Dane. Non è un peccato.»
«Vieni via, Dane, torniamo alla nostra casetta» gli ordinò Justine.
Il Cardinale Ralph e suo figlio si voltarono verso Fee e la guardarono insieme.
«Dio ci scampi!» disse Fee. «Va', Dane, va' fuori a giocare, eh?» Poi batté le mani. «Vuoi filare?» Il
ragazzo corse via e Fee si voltò verso i registri. Il Cardinale Ralph ebbe compassione di lei e
annunciò che sarebbe andato in cucina. Quanto poco era cambiata la grande dimora! Sempre
illuminata con lampade a petrolio, ovviamente. Sempre odorosa di cera d'api e di grandi mazzi di
rose.
Si trattenne a lungo a conversare con la signora Smith e le cameriere. Erano molto invecchiate
durante la sua assenza, ma, in un certo senso, la vecchiaia si addiceva più a loro che a Fee. Felici.
Ecco che cos'erano. Autenticamente, quasi perfettamente felici. Povera Fee, che felice non era.
Questo lo rese impaziente di vedere Meggie, di constatare se lei fosse felice.
Ma quando uscì dalla cucina, Meggie non era ancora tornata, e così, per far passare il tempo, si
incamminò verso il torrente. Com'era tranquillo il cimitero! C'erano sei targhe di bronzo nel
mausoleo, né più né meno come l'ultima volta. Doveva fare in modo che seppellissero anche lui lì;
doveva ricordarsi di impartire le istruzioni necessarie, una volta tornato a Roma. Vicino al mausoleo
vide due nuove tombe, quella del vecchio Tom, e quella della moglie di uno dei guardiani, che
figurava sui libri paga da tempo immemorabile. Doveva essere una sorta di primato. La signora
Smith riteneva che l'uomo continuasse a restare con loro perché sua moglie era sepolta lì.
L'ombrello del cuoco cinese era completamente scolorito dopo tanti anni di sole feroce;
dall'originario rosso imperiale era passato, attraverso tutti gli stadi che egli ricordava, all'attuale
bianco-roseo, un colore quasi simile al «cenere di rose». Meggie, Meggie. Sei tornata con lui dopo
di me, gli hai dato un figlio.
Faceva molto caldo; si alzò un po' di vento, smosse i salici piangenti lungo il torrente e fece suonare
alle campanelline sull'ombrello del cuoco cinese il loro luttuoso, argentino motivo: Hee Sing, Hee
Sing. Tankstand Charlie Era Un Brav'Uomo. Anche questa scritta aveva finito col cancellarsi, era
praticamente indecifrabile. Be', meglio così. I cimiteri dovrebbero affondare nel seno della Madre
Terra, perdere il loro carico umano sotto un diluvio di tempo, finché tutto non sia scomparso e
soltanto l'aria possa ricordare, sospirando. Non voleva essere seppellito in una cripta del Vaticano,
tra uomini come lui. No. Lì, tra persone che avevano realmente vissuto.
Mentre si voltava, intravide lo sguardo glauco dell'angelo di marmo. Alzò una mano, lo salutò, poi
guardò, oltre l'erba, nella direzione della grande casa. Ed ecco che lei stava venendo, Meggie.
Snella, dorata, con calzoni da cavallerizza e una camicetta bianca, esattamente come era vestito lui,
e un cappello di feltro grigio, da uomo, piazzato sulla nuca, e stivali marrone. Come un ragazzo,
come il figlio di lei che avrebbe dovuto essere suo figlio. Era un uomo, ma, quando lo avessero
sepolto lì, come gli altri, non sarebbe rimasto niente ad attestarlo.
Ella venne avanti, scavalcò la cancellata bianca, gli si fece così vicina che poté vederne soltanto gli
occhi, quegli occhi grigi, quegli occhi pieni di luce che non avevano perduto la bellezza, né la loro
presa sul suo cuore. Gli gettò le braccia al collo, e lui sentì di avere di nuovo il proprio destino nelle
mani, era come se non si fosse mai allontanato da lei; quella bocca viva sotto la sua, non un sogno:
così a lungo desiderata, così a lungo. Un genere diverso di sacramento, scuro come la terra, senza
nulla a che vedere con il cielo.
«Meggie, Meggie» disse, la faccia nei suoi capelli, le braccia intorno a lei, il cappello di lei
sull'erba.
«Sembra non avere importanza, vero? Niente mai cambia» ella disse, gli occhi chiusi.
«No, niente cambia» approvò lui, credendoci.
«Qui siamo a Drogheda, Ralph. Ti avevo avvertito, a Drogheda appartieni a me, non a Dio.»
«Lo so. Lo ammetto. Ma sono venuto ugualmente.» La trasse sull'erba. «Perché, Meggie?»
«Perché, cosa?» Con la mano gli stava accarezzando i capelli, più bianchi di quelli di Fee, ormai,
ma sempre folti, sempre belli.
«Perché sei tornata con Luke? Perché gli hai dato un figlio?» egli domandò, nel tono della gelosia.
L'anima di lei guardò attraverso le lucenti finestre grigie e gli sottrasse i propri pensieri, velandoli.
«Mi ci costrinse» disse Meggie, blanda. «Fu una sola volta. Ma ebbi Dane, e pertanto non mi
dispiace. Dane vale tutto quello che sopportai per averlo.»
«Scusami, non avevo il diritto di domandartelo. Fui io a darti a Luke, del resto, non è così?»
«È vero, è così.»
«È un ragazzo meraviglioso. Somiglia a Luke?»
Ella sorrise dentro di sé, strappò uno stelo d'erba, gli infilò la mano sotto la camicia, contro il petto.
«In realtà no. Nessuno dei miei figli somiglia molto a Luke o a me.»
«Li amo perché sono tuoi.»
«Sei sentimentale, come sempre. La vecchiaia ti si addice, Ralph. Sapevo che sarebbe stato così, e
speravo di poter avere il modo di constatarlo. Sono trent'anni che ti conosco! Sembrano trenta
giorni.»
«Trent'anni? Tanti così?»
«Ho quarantun anni, mio caro, quindi non posso sbagliare.» Si rimise in piedi. «Ufficialmente sono
stata mandata per condurti in casa. La signora Smith sta apparecchiando uno splendido tè in tuo
onore, e in seguito, quando farà un po' più fresco, avremo cosciotto di maiale arrosto, con una
quantità di ciccioli.»
Egli cominciò a camminare accanto a lei, adagio. «Tuo figlio ride esattamente come te, Meggie. La
sua risata è stata il primo suono umano che ho udito a Drogheda. Credevo che fossi tu. Sono venuto
a cercarti e ho trovato lui, invece.»
«Sicché Dane è stato la prima persona che hai veduto qui.»
«Be', sì, direi.»
«Che cosa hai pensato di lui, Ralph?» ella domandò, avidamente.
«Mi è piaciuto. Come avrebbe potuto non piacermi, se è tuo figlio? Ma mi sono sentito attratto da
lui molto fortemente, assai più che da tua figlia. E anch'io non le riesco simpatico.»
«Justine potrebbe essere la mia adorata bambina, ma è un mostro. Ho imparato a bestemmiare nella
vecchiaia soprattutto grazie a Justine. E a te, un poco. E a Luke, un poco. E alla guerra, un poco.
Strano come tutte queste cose si assommino.»
«Sei molto cambiata, Meggie.»
«Davvero?» La bocca soffice, piena, si incurvò in un sorriso. «Non credo, in realtà. È soltanto il
Grande Nord-Ovest che mi logora, togliendomi uno strato dopo l'altro, come i sette veli di Salomè.
O come una cipolla; Justine preferirebbe esprimersi così. Non c'è poesia, in quella bambina. No,
sono sempre la stessa Meggie, Ralph, soltanto più nuda.»
«Forse è così.»
«Ah, ma tu sì, sei cambiato, Ralph.»
«In che modo, Meggie mia?»
«Come se il piedistallo dondolasse a ogni brezza fuggevole, e come se la veduta di lassù fosse una
delusione.»
«È vero.» Egli rise silenziosamente. «E pensare che una volta ebbi la temerità di giudicarti per nulla
fuori del comune! Mi rimangio quelle parole. Tu sei l'unica donna, Meggie. L'unica!»
«Che cosa è accaduto?»
«Non lo so. Ho forse scoperto che anche gli idoli della Chiesa hanno i piedi d'argilla? Ho venduto
me stesso per un piatto di lenticchie? Sto afferrando il nulla?» Aggrottò le sopracciglia, come se
soffrisse. «Sì, in nuce, forse si tratta di questo. Sono un mucchio di clichés. Il Vaticano è un vecchio
mondo bisbetico e pietrificato.»
«Io ero più reale, ma tu non hai mai saputo rendertene conto.»
«Non potevo fare altro, davvero! Sapevo da che parte sarei dovuto andare, ma non mi era possibile.
Con te avrei potuto essere un uomo migliore, anche se meno augusto. Ma non mi fu assolutamente
possibile, Meggie. Oh, vorrei poter fartelo capire!»
La mano di lei gli scivolò lungo il braccio nudo, con tenerezza. «Caro Ralph, lo capisco. Lo so, lo
so... Ognuno di noi ha qualcosa in sé che non vuole essere negato, anche a costo di farci urlare che
vogliamo morire. Siamo quello che siamo, ecco tutto. Come l'antica leggenda celtica dell'uccello
con la spina nel petto, che canta fino a spaccarsi il cuore e muore. Perché non può farne a meno, vi è
costretto. Possiamo renderci conto che sbagliamo ancor prima di sbagliare, ma la consapevolezza
non può né influenzare, né modificare l'esito, non è così? Tutti intonano la loro piccola canzone,
persuasi che sia la canzone più meravigliosa del mondo. Non capisci? Creiamo le nostre stesse
spine, e non ci soffermiamo mai a tener conto del costo. Possiamo soltanto subire la sofferenza e
dire a noi stessi che ne valeva la pena.»
«È questo che non capisco. La sofferenza.» Le sbirciò la mano, posata con tanta dolcezza sul suo
braccio, e che pure lo faceva soffrire in modo così intollerabile. «Perché la sofferenza, Meggie?»
«Domandalo a Dio, Ralph» disse Meggie. «È Lui l'esperto in fatto di dolore, no? È stato Lui a fare
di noi quello che siamo. Ha creato l'universo. Per conseguenza, ha creato anche il dolore.»
Bob, Jack, Hughie, Jims e Patsy vennero a casa per la cena, in quanto era la sera di un sabato.
L'indomani Padre Watty sarebbe dovuto arrivare per celebrare la Messa, ma Bob gli telefonò e disse
che non avrebbe trovato nessuno in casa. Una spudorata menzogna per assicurare l'anonimato al
Cardinale Ralph. I cinque Cleary maschi somigliavano come non mai a Paddy, più anziani, più lenti
nel parlare, fermi e resistenti come la terra. E quanto bene volevano a Dane! I loro sguardi
sembravano non abbandonarlo mai, lo seguirono persino quando uscì dalla stanza per andare a
coricarsi. Non era difficile capire che vivevano in attesa del giorno in cui sarebbe stato grande
abbastanza per unirsi a loro nel mandare avanti Drogheda.
Il Cardinale Ralph aveva scoperto, inoltre, il motivo dell'ostilità di Justine. Dane si era incapricciato
di lui, pendeva dalle sue labbra, cercava di restargli sempre accanto; e lei era ovviamente gelosa.
Quando i ragazzi furono saliti di sopra, Ralph guardò coloro che restavano: i fratelli, Meggie, Fee.
«Fee, trascuri la sua scrivania per un momento» disse. «Venga a sedersi con noi. Voglio parlare a
tutti.»
Fee si conservava ancora bene e non aveva perduto la snellezza delle forme, aveva soltanto i seni un
po' più flaccidi, la vita lievemente meno sottile; un mutamento dovuto più alla vecchiaia che a vera
e propria obesità. Silenziosa, sedette su una delle ampie poltrone color crema, di fronte al Cardinale,
con Meggie da un lato e i fratelli sulle panche di pietra lì accanto.
«Si tratta di Frank» egli disse.
Il nome rimase sospeso tra loro, e parve echeggiare in lontananza.
«Che cosa ha da dirci di Frank?» domandò Fee, compostamente.
Meggie posò il lavoro a maglia, guardò sua madre, poi il Cardinale Ralph. «Parli, Ralph» disse in
tono incalzante, incapace di sopportare la compostezza di sua madre per un solo momento di più.
«Frank ha scontato quasi trent'anni di carcere, ve ne rendete conto?» disse il Cardinale. «So che i
miei incaricati vi hanno tenuto al corrente, come eravamo d'accordo, ma li avevo pregati di non
tormentarvi inutilmente. Francamente, non vedevo come avrebbe potuto giovare a Frank, o a voi,
conoscere i particolari strazianti della sua solitudine e della sua disperazione, perché nessuno di noi
avrebbe potuto comunque fare niente. Credo che Frank sarebbe stato liberato già da alcuni anni, se
non si fosse fatto una reputazione di violenza e di instabilità durante i primi anni nella prigione di
Goulburn. Anche durante la guerra, quando alcuni detenuti vennero liberati e arruolati, ciò a lui fu
negato.»
Fee smise di fissarsi le mani e alzò gli occhi. «È la sua indole irascibile» disse, spassionatamente.
Il Cardinale parve incontrare qualche difficoltà nel trovare le parole giuste; mentre le cercava, la
famiglia lo osservò con un misto di paura e di speranza, sebbene non fosse il benessere di Frank a
preoccuparla.
«Deve avervi lasciati molto interdetti la ragione per cui sono tornato in Australia dopo tanti anni»
disse infine il Cardinale Ralph, senza guardare Meggie. «Non sempre ho seguito la vostra vita, e lo
so. Dal giorno in cui vi conobbi, ho sempre pensato anzitutto a me stesso, ho anteposto me stesso a
voi. E quando il Santo Padre premiò le mie fatiche a favore della Chiesa con la porpora cardinalizia,
domandai a me stesso se avrei potuto rendere alla famiglia Cleary un servigio che, in qualche modo,
potesse farle capire quanto mi stava a cuore.» Trasse un profondo respiro e fissò Fee, non Meggie.
«Sono tornato in Australia per vedere che cosa avrei potuto fare a favore di Frank. Ricorda, Fee, la
volta che le parlai, dopo la morte di Paddy e di Stu? Fu vent'anni fa, e non sono mai riuscito a
dimenticare l'espressione dei suoi occhi. Tanta energia e tanta vitalità schiacciate.»
«Sì» disse Bob, in tono brusco, senza distogliere lo sguardo da sua madre. «Sì, è così.»
«Frank sarà liberato» disse il Cardinale. «Soltanto in questo modo avrei potuto dimostrarvi quanto
mi state a cuore.»
Se si era aspettato che un improvviso, abbacinante lampo di luce scaturisse dalle lunghe tenebre di
Fee, rimase molto deluso; a tutta prima, non vi fu più che un fioco barlume, e forse il peso dell'età
non avrebbe mai consentito che brillasse in tutto il suo splendore. Ma negli occhi dei figli di Fee
egli vide quella luce in tutta la sua intensità, e lo pervase un senso della propria missione quale non
aveva più sentito da quella volta, durante la guerra, in cui aveva parlato con il giovane soldato
tedesco dal nome imponente.
«Grazie» disse Fee.
«Lo ospiterete volentieri qui a Drogheda?» domandò ai Cleary figli.
«Questa è casa sua. È qui che dovrebbe essere» rispose Bob, indirettamente.
Annuirono tutti per esprimere il loro assenso, tranne Fee, che sembrava assorta in una visione tutta
sua.
«Non è più lo stesso Frank» continuò il Cardinale Ralph, con dolcezza. «Prima di venire qui gli ho
fatto visita nella prigione di Goulburn per dargli la notizia, e gli ho rivelato che tutti a Drogheda
avevano sempre saputo cosa gli era successo. Se vi dirò che non se l'è presa a male, questo potrà
darvi un'idea del cambiamento intervenuto in lui. Si è dimostrato semplicemente... grato. Ed è così
ansioso di rivedere la sua famiglia, specie lei, Fee...»
«Quando lo libereranno?» domandò Bob, dopo essersi schiarito la voce, mentre la contentezza per
sua madre veniva ovviamente alle prese con il timore di quello che sarebbe potuto accadere al
ritorno di Frank.
«Tra una settimana o due. Arriverà col treno postale della notte. Volevo che venisse in aereo, ma ha
detto di preferire il treno.»
«Patsy e io andremo ad aspettarlo alla stazione» si offrì Jims con entusiasmo, poi si rabbuiò in viso.
«Oh! Non sappiamo che aspetto abbia!»
«No» disse Fee. «Ci andrò io, da sola. La vecchiaia non mi ha ancora rimbambita. Sono ancora in
grado di guidare la macchina fino a Gilly.»
«Ma' ha ragione» approvò Meggie con fermezza, prevenendo un coro di proteste da parte dei
fratelli. «Lasciate che Ma' gli vada incontro da sola. È lei che deve vederlo per prima.»
«Bene, ora ho del lavoro da sbrigare» disse Fee, bruscamente, alzandosi e avvicinandosi alla
scrivania.
I cinque fratelli si alzarono tutti insieme. «E io credo che per noi sia l'ora di coricarci» disse Bob,
sbadigliando ostentatamente. Sorrise con timidezza al Cardinale Ralph. «Sarà come ai bei tempi,
sentirla celebrare la Messa per noi, domattina.»
Meggie piegò il lavoro a maglia, lo mise via e si alzò. «Le auguro anch'io la buonanotte, Ralph.»
«Buonanotte, Meggie.» La seguì con lo sguardo mentre usciva dal salotto, poi si voltò verso la
schiena ingobbita di Fee. «Buonanotte, Fee.»
«Come, scusi? Ha detto qualcosa?»
«Le ho augurato la buonanotte.»
«Oh! Buonanotte, Ralph.»
Lui non voleva salire di sopra così subito dopo Meggie. «Andrò a fare una passeggiata prima di
coricarmi, credo. Sa una cosa, Fee?»
«No.» Il tono della voce era assente.
«Lei non mi incanta nemmeno per un momento.»
Ella sbuffò una risata, un suono irreale. «Ah, no? Me lo domando.»
La tarda sera, e le stelle. Le stelle del sud, che ruotavano nel firmamento. Aveva perduto per sempre
la presa sulle stelle, sebbene fossero ancora lì, troppo remote per riscaldare, troppo remote per
consolare. Più vicine a Dio, che era un qualcosa di inafferrabile tra esse. Per molto tempo rimase in
piedi a contemplarle, ascoltando il vento tra gli alberi, sorridendo.
Non volendo passare accanto a Fee, si servì della rampa di scale in fondo alla casa; la lampada sulla
scrivania di lei era ancora accesa, e vide la sua sagoma curva, intenta al lavoro. Povera Fee. Quanto
doveva paventare l'idea di andare a letto; ma forse, dopo il ritorno di Frank, tutto sarebbe stato più
facile. Forse.
In cima alle scale, il silenzio gli venne incontro denso; una lampada di cristallo, su un tavolinetto
nel corridoio, diffondeva un fioco alone di luce, baluginando mentre la brezza della notte faceva
gonfiare le tende della finestra. Egli passò accanto alla lampada e i suoi passi sul tappeto spesso non
fecero alcun rumore.
La porta della stanza di Meggie era spalancata e illuminava il corridoio di luce ancora più intensa;
Ralph si accostò la porta alle spalle e la chiuse a chiave. Ella aveva indossato un'ampia veste da
camera e sedeva su una poltroncina accanto alla finestra, contemplando, fuori, l'invisibile Home
Paddock; ma voltò la testa a guardarlo mentre andava verso il letto e si sedeva sulla sponda.
Lentamente Meggie si alzò e gli si avvicinò.
«Qua, ti aiuterò a cavarti gli stivali. È questa la ragione per cui non metto mai gli stivali alti. Non è
possibile toglierli senza il cavastivali, e i cavastivali li rovinano.»
«Hai scelto deliberatamente questo colore, Meggie?»
«Cenere di rose?» Gli sorrise. «È sempre stato il mio colore prediletto. Non stona con quello dei
capelli.»
«Eri così sicura che sarei venuto da te, Meggie?»
«Te l'ho detto. A Drogheda appartieni a me. Se non fossi stato tu a venire, sarei venuta io da te,
stanne certo.» Gli sfilò la camicia dalla testa, e per un momento, con una sensibilità voluttuosa, gli
posò la mano sulla schiena nuda; poi si avvicinò alla lampada e la spense mentre lui appoggiava i
suoi vestiti sulla spalliera di una sedia. Ralph la udì muoversi e togliersi la vestaglia. E domani
celebrerò la Messa! Ma questo è domani, e la magia è scomparsa da un pezzo. Rimangono ancora la
notte, e Meggie. L'ho desiderata. Anche lei è un sacramento.
Dane era deluso. «Credevo che portasse una tonaca rossa!» disse.
«A volte la porto, Dane, ma soltanto entro le mura del palazzo. Fuori, porto una tonaca nera con una
fascia rossa, come questa.»
«Ha davvero un palazzo?»
«Sì.».
«È pieno di candelabri?»
«Sì, ma anche Drogheda ne è piena.»
«Oh, Drogheda!» fece Dane, con disgusto. «Scommetto che i nostri sono piccoli, in confronto ai
suoi. Mi piacerebbe vedere il suo palazzo, e lei con la tonaca rossa.»
Il Cardinale Ralph sorrise. «Chissà, Dane? Forse un giorno mi vedrai.»
Il ragazzo aveva sempre, nel fondo degli occhi, una curiosa espressione, un'espressione remota.
Quando si voltò, mentre celebrava la Messa, il Cardinale Ralph la vide intensificata, ma non la
riconobbe, ne sentì, semplicemente, la familiarità. Nessun uomo vede se stesso in uno specchio
come realmente è, né alcuna donna.
Luddie e Anne Mueller dovevano arrivare per Natale, come tutti gli anni. La grande casa era piena
di gente allegra, impaziente di festeggiare il più bel Natale da anni. Minnie e Cat canticchiavano,
lavorando, la faccia paffuta della signora Smith si increspava di sorrisi, Meggie cedeva Dane al
Cardinale Ralph senza fare commenti, diversamente da sua figlia, e Fee sembrava molto più felice,
meno incollata alla scrivania. Gli uomini coglievano ogni pretesto per rientrare tutte le sere, in
quanto, dopo una cena a tarda ora, il salotto ronzava di conversazioni, e la signora Smith aveva
preso l'abitudine di preparare uno spuntino a mezzanotte: formaggio fuso su crostini abbrustoliti,
pasticcini al burro appena sfornati e biscotti all'uva passa. Il Cardinale Ralph protestava, dicendo
che tutto quel buon cibo lo faceva ingrassare, ma, dopo tre giorni all'aria aperta di Drogheda, tra la
famiglia di Drogheda e con il cibo di Drogheda, sembrava cominciare a liberarsi dall'aspetto
alquanto smagrito e sparuto che aveva avuto al suo arrivo.
Il quarto giorno, faceva molto caldo. Il Cardinale Ralph era andato con Dane a radunare un gregge
di pecore, Justine se ne stava sola e imbronciata sotto l'albero del pepe, e Meggie si riposava su una
sdraia di canne sulla veranda. Sentiva di avere le ossa molli, sazie, ed era molto felice. Una donna
può far benissimo a meno dell'amore per molti anni di seguito, ma, quando si tratta dell'unico uomo,
la cosa è meravigliosa. Quando stava con Ralph, ogni parte di lei viveva, tranne quella che
apparteneva a Dane; il guaio era che, quando stava con Dane, ogni parte di lei viveva tranne quella
che apparteneva a Ralph. Soltanto quando entrambi erano presenti contemporaneamente, come in
quei giorni, si sentiva del tutto completa. D'altro canto, sembrava logico. Dane era suo figlio, ma
Ralph era il suo uomo.
Ciononostante, una cosa turbava la sua felicità: Ralph non aveva capito. Di conseguenza, la bocca
di lei rimaneva chiusa sul suo segreto. Se lui non era capace di rendersene conto, perché avrebbe
dovuto dirglielo? Che cosa aveva mai fatto per meritare che lei glielo dicesse? E il fatto che l'avesse
potuta credere, sia pur soltanto per un momento, capace di tornare con Luke di sua spontanea
volontà era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Non meritava di saperlo, se poteva
pensare questo di lei. A volte, Meggie sentiva gli occhi scialbi e ironici di Fee su di sé, e ricambiava
lo sguardo, imperturbabile. Fee capiva davvero. Capiva il quasi-odio, il risentimento, il desiderio di
vendicarsi degli anni di solitudine. Uno che inseguiva arcobaleni, ecco cos'era Ralph de Bricassart,
e perché mai lei avrebbe dovuto fargli dono dell'arcobaleno più squisito d'ogni altro, di suo figlio?
Che ne restasse privo. Che soffrisse, senza mai sapere di soffrire.
Il telefono squillò il segnale per Drogheda. Meggie ascoltò pigramente, poi, rendendosi conto che
sua madre doveva trovarsi altrove, si alzò con riluttanza e andò a rispondere.
«La signora Fiona Cleary, per favore» disse una voce di uomo.
Quando Meggie ebbe detto chi era, Fee tornò e prese il ricevitore.
«Parla Fiona Cleary» disse, e rimase in piedi in ascolto, e il colore le defluì a poco a poco dalla
faccia, rendendola identica a come era stata nei giorni successivi alla morte di Paddy e di Stu:
minuscola e vulnerabile. «Grazie» disse poi, e riattaccò.
«Che cosa c'è, Ma'?»
«Frank è stato liberato. Arriverà nel pomeriggio, con il postale notturno.» Consultò l'orologio.
«Dovrò partire tra poco; sono le due passate.»
«Lascia che venga con te» propose Meggie, così traboccante della propria felicità, da non
sopportare di vedere sua madre delusa; intuiva, infatti, che quell'incontro non sarebbe stato pura
gioia per Fee.
«No, Meggie, me la caverò benissimo da sola. Occupati tu di tutto, e rimanda la cena fino al mio
ritorno.»
«Non è meraviglioso, Ma'? Frank torna a casa in tempo per Natale!»
«Sì» disse Fee. «È meraviglioso.»
Potendo approfittare dell'aereo, nessuno viaggiava più sul postale notturno, e così, quando il
convoglio ebbe sferragliato per i novecentosessanta chilometri da Sydney, facendo scendere
passeggeri - quasi tutti di seconda classe - in questo o in quell'altro piccolo centro, rimasero ben
poche persone da portare fino a Gilly.
Il capostazione conosceva di vista la signora Cleary, ma non si sarebbe mai sognato di attaccare
discorso con lei; si limitò a seguirla con lo sguardo mentre scendeva gli scalini di legno del
cavalcavia e la lasciò sola, rigidamente in piedi, sull'alto marciapiede. Era anziana ma sempre
elegante, pensò: vestito e cappello all'ultima moda, e scarpe dai tacchi alti. Un bel corpo, non molte
rughe sul viso per una signora della sua età, il che stava a dimostrare quanto poteva giovare a una
donna la vita comoda degli allevatori.
Frank riconobbe sua madre più in fretta di quanto fosse stato riconosciuto da lei, anche se ella non
tardò a riconoscerlo con il cuore. Frank aveva cinquantadue anni, e durante la sua assenza era
passato dalla gioventù all'età di mezzo. L'uomo in piedi nel tramonto di Gilly era troppo magro,
quasi scarno; aveva i capelli tagliati a spazzola, indossava vestiti informi che pendevano su un
corpo che, nonostante la piccola statura, dava un'impressione di forza, e le sue belle mani
stringevano con forza la tesa di un cappello di feltro grigio. Non era curvo, né aveva un'aria
malaticcia, ma continuava a rigirarsi il cappello tra le mani con un'aria indifesa e sembrava non
aspettarsi che qualcuno fosse venuto a prenderlo.
Fee, dominandosi, percorse a passi rapidi il marciapiede.
«Ciao, Frank» disse.
Egli alzò gli occhi, che un tempo splendevano e balenavano tanto, e che ora erano infossati nella
faccia di un uomo che stava invecchiando. Non parevano affatto gli occhi di Frank. Ma, mentre
contemplavano Fee, un'espressione straordinaria vi affiorò, un'espressione ferita, estremamente
indifesa, supplichevole come quella di un moribondo.
«Oh, Frank!» disse lei, e lo prese tra le braccia. «Va tutto bene, va tutto bene» sussurrò, e poi, ancor
più dolcemente: «Va tutto bene!»
Dapprima egli sedette afflosciato e silenzioso sull'automobile, ma, mentre la Rolls-Royce
accelerava e usciva dalla cittadina, cominciò a interessarsi a quanto lo circondava, e guardò fuori
del finestrino.
«Sembra tutto esattamente identico» bisbigliò.
«Immagino di sì. Il tempo passa adagio, qui.»
Attraversarono il rumoroso ponte di assi di legno, gettato sul fiume sottile e melmoso lungo il quale
si allineavano salici piangenti e il cui letto rimaneva quasi completamente a secco, tra un intrico di
radici e ghiaia, con pozze che formavano immobili chiazze rossicce ed eucalipti che crescevano
dappertutto sulle distese sassose.
«Il Barwon» disse lui. «Non avrei mai creduto di poterlo rivedere.»
Dietro di loro si alzava un'enorme nube di polvere, davanti a loro la strada si perdeva diritta come
un'esercitazione di prospettiva attraverso la sconfinata, erbosa pianura priva di alberi.
«La strada è nuova, Ma'?» Frank sembrava disperatamente ansioso di trovare argomenti di
conversazione, di far sì che la situazione sembrasse normale.
«Sì, l'hanno costruita da Gilly a Milparinka subito dopo la fine della guerra.»
«Avrebbero potuto asfaltarla, invece di lasciare la solita terra battuta.»
«A che scopo? Siamo abituati a mangiare polvere, qui, e pensa quanto sarebbe costato fare una
massicciata abbastanza resistente per non essere portata via dal fango. La nuova strada è rettilinea,
la mantengono in buone condizioni, e taglia fuori tredici dei nostri ventisette cancelli. Ne
rimangono soltanto quattordici, tra Gilly e la grande dimora; aspetta e vedrai come li abbiamo
modificati, Frank. Non sono più cancelli che occorre aprire e chiudere.»
La Rolls salì una rampa verso un cancello di acciaio che si sollevò pigramente; non appena
l'automobile fu passata ed ebbe percorso qualche altro metro sulla pista, il cancello si abbassò,
richiudendosi.
«Le meraviglie non finiscono mai!» disse Frank.
«Siamo stati il primo allevamento da queste parti a installare questi cancelli automatici a rampa...
soltanto tra la strada di Milparinka e la casa, naturalmente. I cancelli dei recinti devono ancora
essere aperti e richiusi a mano.»
«Be', immagino che chi li ha inventati debba averne aperti e chiusi parecchi ai suoi tempi, eh?»
sorrise Frank; era la prima volta che sorrideva.
Poi ricadde nel silenzio, e per conseguenza sua madre si concentrò nella guida, non desiderando
forzarlo. Quando passarono sotto l'ultimo cancello ed entrarono nello Home Paddock, lui trattenne
udibilmente il respiro.
«Avevo dimenticato quanto fosse bella» disse.
«È la nostra casa» disse Fee. «Ne abbiamo sempre avuto cura.»
Portò la Rolls-Royce nell'autorimessa, poi tornò indietro con lui verso la grande dimora, ma questa
volta Frank portò egli stesso la valigia.
«Preferisci una stanza nella grande casa, Frank, o un villino degli ospiti tutto per te?» domandò sua
madre.
«Mi sistemerò in un villino, grazie.» Gli occhi esausti si soffermarono sul suo viso. «Sarà piacevole
poter stare lontano dalla gente» spiegò. E questo fu il suo solo accenno al carcere.
«Sì, credo che ti ci troverai meglio» disse Fee, precedendolo nel salotto. «La grande casa è piena
zeppa, per il momento; abbiamo qui il Cardinale, Dane e Justine stanno trascorrendo qui le vacanze
e Luddie e Anne Mueller arriveranno dopodomani per Natale.» Tirò il cordone del campanello per
ordinare il tè e silenziosamente fece il giro della stanza, accendendo le lampade a petrolio.
«Luddie e Anne Mueller?» domandò lui.
Fee si fermò, mentre regolava uno stoppino, e lo guardò. «È passato molto tempo, Frank. I Mueller
sono amici di Meggie.» Dopo aver regolato in modo soddisfacente la lampada, sedette sulla
poltrona a conchiglia. «Si cena tra un'ora, ma prima prenderemo una tazza di tè. Devo togliermi
dalla bocca la polvere della strada.»
Frank sedette goffamente sull'orlo di una delle ottomane rivestite in seta color crema e contemplò
con un'espressione reverenziale il salotto. «Sembra molto diverso dai tempi della zia Mary.»
Fee sorrise. «Be', sì, lo credo.»
Poi Meggie entrò e fu più difficile rendersi conto del fatto che Meggie era diventata una donna
matura, di quanto lo fosse stato vedere vecchia sua madre. Mentre sua sorella lo abbracciava e lo
baciava, Frank distolse la faccia, si fece piccolo entro la giacca troppo ampia, e cercò con lo
sguardo, al di là di Meggie, Fee, che lo fissava dalla poltrona come per dire: non preoccuparti, tutto
tornerà presto alla normalità, devi soltanto pazientare un po'. Un minuto dopo, mentre ancora stava
sforzandosi di trovare qualcosa da dire a quell'estranea, sopraggiunse la figlia di Meggie: una
ragazza alta, magra, che sedette rigidamente, lisciando con le grosse mani le pieghe del vestito, gli
occhi chiari fissi ora su un volto, ora sull'altro. Era più avanti negli anni di quanto lo fosse stata
Meggie quando lui se n'era andato di casa, pensò. Il figlio di Meggie entrò con il Cardinale e andò a
sedersi sul pavimento accanto alla sorella, un ragazzo bellissimo, serenamente distaccato.
«Frank, è meraviglioso che tu sia qui» disse il Cardinale Ralph, stringendogli la mano, poi si voltò
verso Fee, con il sopracciglio sinistro inarcato. «Una tazza di tè? Ottima idea.»
I fratelli Cleary entrarono insieme nella stanza, ma fu molto penoso, perché non lo avevano
perdonato affatto. Frank sapeva perché: per quanto aveva fatto soffrire la mamma. Ma non sapeva
che cosa avrebbe potuto dire per far capire loro qualcosa, né sarebbe stato capace di descrivere la
sua sofferenza, la sua solitudine, e tanto meno di chiedere perdono. La sola che contasse davvero
era sua madre, e lei non aveva mai pensato che ci fosse qualcosa da perdonare.
Fu il Cardinale a tentar di tenere insieme la serata, ad animare la conversazione a tavola, e, dopo
cena, di nuovo in salotto, a chiacchierare con disinvoltura diplomatica e facendo in modo che anche
Frank potesse intervenire.
«Bob, volevo domandartelo da quando sono arrivato... dove si nascondono i conigli selvatici?»
disse il Cardinale. «Ho veduto milioni di tane, ma quasi mai un coniglio.»
«I conigli sono tutti morti» rispose Bob.
«Morti?»
«Esatto. Di una malattia chiamata mixomatosi. Tra i conigli e gli anni di siccità, nel
millenovecentoquarantasette l'Australia era quasi finita come una delle massime nazioni produttrici.
Eravamo ridotti alla disperazione» disse Bob, appassionandosi all'argomento e lieto di poter parlare
di qualcosa che escludesse Frank.
Ma, proprio adesso, Frank, senza volerlo, provocò l'ostilità del fratello dicendo: «Sapevo che la
situazione era grave, ma non fino a questo punto.» Poi si appoggiò alla spalliera della poltrona e
sperò di aver fatto piacere al Cardinale dando il suo piccolo contributo alla conversazione.
«Be', non sto esagerando, mi creda!» esclamò Bob, piccato; come poteva saperlo Frank?
«Che cosa accadde?» si affrettò a domandare il Cardinale.
«Due anni fa, l'Organizzazione per le ricerche scientifiche e industriali del Commonwealth iniziò un
programma sperimentale nella regione di Victoria inoculando ai conigli questo virus. Non so
nemmeno bene che cosa sia un virus, ma penso si tratti di una specie di germe. Comunque, lo
chiamavano virus della mixomatosi. A tutta prima, la malattia parve non diffondersi molto, anche se
tutti i conigli che ne erano colpiti morivano. Ma, un anno dopo i primi esperimenti, cominciò a
estendersi come un incendio della prateria; pensano che siano le zanzare a diffonderla, ma devono
entrarci in qualche modo anche i cardi zafferano. E, da allora, i conigli sono morti a milioni e
milioni, la malattia li ha né più né meno cancellati. A volte capita di vederne qualcuno malato, con
enormi gonfiori dappertutto sul muso; sono mostruosi. Comunque, il risultato è stato meraviglioso,
Ralph, sul serio. Nessun altro animale può prendersi la mixomatosi, nemmeno quelli strettamente
imparentati con i conigli. E così, grazie agli scienziati dell'Organizzazione, il flagello dei conigli
selvatici non esiste più.»
Il Cardinale Ralph fissò Frank. «Ti rendi conto di che si tratta, Frank? Eh?»
Il povero Frank scosse la testa, augurandosi che tutti quanti gli consentissero di restare
nell'anonimato.
«Si tratta di guerra batteriologica su vasta scala. Io mi domando se il resto del mondo sappia che qui
in Australia, tra il 1949 e il 1952, venne combattuta una guerra batteriologica contro una
popolazione di miliardi di individui, una guerra che riuscì a sterminarli. Bene! La cosa è fattibile,
no? Non si tratta semplicemente di giornalismo scandalistico, ma di realtà scientifica. Ormai
possono anche seppellire le bombe atomiche e all'idrogeno. So che bisognava farlo, che era
assolutamente necessario, e probabilmente si tratta del meno celebrato tra i grandi conseguimenti
scientifici. Ma ciò non toglie che la cosa sia anche terrificante.»
Dane aveva seguito attentamente la conversazione. «Guerra batteriologica? Non ne ho mai sentito
parlare. Che cos'è esattamente, Ralph?»
«I termini sono nuovi, Dane, ma io sono un diplomatico del Vaticano, e purtroppo devo tenermi al
corrente, anche per quanto concerne parole come "guerra batteriologica". In sostanza, significano
mixomatosi. Vale a dire, produrre un germe specificamente capace di uccidere o di paralizzare una
sola specie di esseri viventi.»
Per nulla imbarazzato, Dane si fece il segno della croce e si appoggiò alle ginocchia di Ralph de
Bricassart. «Faremmo bene a pregare, non è così?»
Il Cardinale abbassò lo sguardo sul suo capo biondo e sorrise.
Se Frank riuscì ad adattarsi alla vita di Drogheda, il merito fu di Fee che, nonostante la rigida
opposizione degli altri fratelli Cleary, continuò a comportarsi come se il maggiore dei suoi figli si
fosse assentato soltanto per breve tempo e non avesse mai disonorato la famiglia o profondamente
addolorato sua madre. Silenziosamente, senza darlo troppo a vedere, lo sistemò nella nicchia che
egli sembrava voler occupare, lontano dai fratelli. Né lo incoraggiò a ritrovare, almeno in parte, la
vitalità del passato. Non esisteva più, infatti; Fee se ne era resa conto non appena lo aveva veduto
sul marciapiede della stazione di Gilly. L'aveva inghiottita un'esistenza dei cui aspetti egli si
rifiutava di parlare con lei. Il massimo che Fee potesse fare per suo figlio consisteva nel renderlo
felice il più possibile, e, senza dubbio, il modo per riuscirvi consisteva nell'accettare il Frank di ora
come il Frank di sempre.
Era escluso che potesse lavorare nei recinti, poiché i suoi fratelli non lo volevano, né egli desiderava
quel genere di esistenza che aveva sempre odiato. Gli piaceva vedere le cose che crescevano e Fee,
pertanto, gli affidò i giardini intorno alla dimora e lo lasciò in pace. E, a poco a poco, i fratelli
Cleary si abituarono a riavere Frank in famiglia, e cominciarono a capire che la minaccia al loro
benessere da lui un tempo rappresentata non sussisteva più. Niente avrebbe potuto cambiare ciò che
la madre provava per lui; sia che si trovasse in carcere, o a Drogheda, Fee continuava ad avere per
Frank gli stessi sentimenti. L'importante era che averlo a Drogheda la rendeva felice. Frank non si
intrometteva nelle loro esistenze; era, né più né meno, quello di sempre.
Eppure, per Fee non era una gioia riavere Frank a casa; come avrebbe potuto esserlo? Vederlo ogni
giorno costituiva, semplicemente, un tipo di dolore diverso da quello del non vederlo affatto. La
sofferenza terribile di avere sotto gli occhi una vita rovinata, un uomo rovinato! Colui che era il
prediletto tra i suoi figli, e che doveva aver sopportato sofferenze inimmaginabili.
Un giorno, quando Frank si trovava a casa da circa sei mesi, Meggie entrò nel salotto e trovò sua
madre che, seduta, fissava, al di là delle ampie finestre, Frank intento a potare le grandi siepi di rose
lungo il viale d'accesso. Fee voltò la testa e un qualcosa nel suo viso controllato e calmo fece sì che
Meggie si portasse le mani al cuore.
«Oh, Ma'!» disse, indifesa.
Fee la guardò, crollò il capo e sorrise. «Non ha importanza, Meggie» disse.
«Se soltanto potessi fare qualcosa!»
«Puoi. Comportati semplicemente come hai sempre fatto. Ti sono molto grata. Sei divenuta una mia
alleata.»
Parte sesta 1954-1965 Dane
17

«Bene» disse Justine a sua madre. «Ho deciso che cosa farò.»
«Credevo che tutto fosse già stabilito. Storia dell'arte all'Università di Sydney. Non era così?»
«Oh, è stato soltanto un falso scopo per tenerti buona mentre studiavo i miei piani. Ma ora tutto è
deciso e quindi posso dirtelo.»
Meggie alzò il capo dal lavoro al quale era intenta: stava ritagliando piccole sagome a forma di
abete nella pasta per i biscotti; la signora Smith era malata e loro davano una mano in cucina.
Osservò sua figlia con un'espressione stanca, spazientita, indifesa. Che cosa si poteva fare con una
creatura come Justine? Anche se avesse annunciato che intendeva prendere il treno per andare a fare
la prostituta in un bordello di Sydney, Meggie non sarebbe riuscita a dissuaderla.
«Avanti, parla» disse. E continuò a ritagliare biscotti.
«Farò l'attrice.»
«Farai cosa?»
«L'attrice.»
«Mio Dio!» Gli abeti vennero di nuovo abbandonati. «Senti, Justine, non mi piace fare la
guastafeste e, davvero, non voglio offenderti, ma credi di essere... insomma, credi di possedere le
doti fisiche necessarie per diventare un'attrice?»
«Oh, Ma'!» esclamò Justine, disgustata. «Non una diva del cinema... un'attrice! Non voglio
dimenare i fianchi e mettere in mostra i seni e fare sporgere le labbra umide! Voglio recitare.» Stava
mettendo pezzi di manzo magro nel barile del sale. «Ho abbastanza denaro per tirare avanti
imparando quel qualsiasi mestiere che possa scegliere, no?»
«Sì, grazie al Cardinale de Bricassart.»
«Allora è tutto deciso. Studierò recitazione con Albert Jones, al Culloden Theatre, e ho scritto
all'Accademia d'arte drammatica di Londra chiedendo che mi mettano in lista d'attesa.»
«Ma sei proprio sicura, Jussy?»
«Sicurissima. Lo so da molto tempo.» L'ultimo pezzo di manzo insanguinato venne immerso sotto
la superficie della soluzione per la salatura. Justine rimise il coperchio sul barile con un tonfo.
«Ecco fatto! Spero di non dover più vedere un pezzo di manzo finché vivrò!»
Meggie le porse una teglia di biscotti. «Mettili in forno, ti spiace? Regolalo a duecento gradi. Devo
dire che i tuoi propositi mi sorprendono. Credevo che le ragazzette desiderose di diventare attrici
recitassero continuamente, ma la sola parte che ti abbia mai veduta recitare è stata quella di te
stessa.»
«Oh, Ma', ecco che ricominci daccapo e confondi le dive cinematografiche con le attrici! Sei
proprio un caso disperato!»
«Be', le dive del cinema non sono attrici?»
«Di una classe di gran lunga inferiore. A meno che prima non abbiano recitato in teatro, cioè. Voglio
dire, anche Laurence Olivier di quando in quando interpreta un film.»
Sul tavolino da toletta di Justine c'era una fotografia di Laurence Olivier con autografo; Meggie si
era limitata a pensare che si trattasse di un'infatuazione giovanile, ma ora ricordò di aver pensato
che Justine dimostrava almeno di avere buon gusto. Le amiche che a volte invitava a casa per
qualche giorno di solito conservavano e prediligevano fotografie di Tab Hunter e Rory Calhoun.
«Continuo a non capire» disse Meggie scuotendo la testa. «Un'attrice!»
Justine fece spallucce. «Be', in quale altro posto potrei strillare e urlare e ululare, se non su un
palcoscenico? Qui non posso fare nessuna di queste cose, e nemmeno a scuola, o in qualsiasi altro
luogo! A me piace strillare e urlare e ululare, maledizione!»
«Ma sei così brava in disegno, Jussy! Perché non diventare una pittrice?»
Justine voltò le spalle all'enorme cucina a gas e puntò il dito sull'indicatore della bombola. «Devo
dire al garzone di cucina di cambiare le bombole; sono quasi vuote. Per oggi basteranno, però.» Gli
occhi chiari osservarono Meggie con compatimento. «Sei così poco pratica, Ma', davvero. Credevo
che fossero i figli a non prendere in considerazione gli aspetti pratici di una carriera. Lascia che te
lo dica: non voglio morire di fame in una soffitta e diventare famosa una volta morta. Voglio
godermi un po' di celebrità finché sono ancora viva, e sistemarmi molto bene finanziariamente.
Pertanto, dipingerò come hobby e reciterò per guadagnarmi da vivere. Che ne dici?»
«Hai un reddito che ti viene da Drogheda, Jussy» disse Meggie, disperatamente, trasgredendo al
voto di tacere a qualsiasi costo. «Non dovresti mai morire di fame in una soffitta. Se preferisci
dipingere, non ci sono difficoltà. Puoi farlo.»
Justine la fissò, all'erta, interessata. «Quanto ho, Ma'?»
«Tanto che, se tu volessi, non dovresti mai lavorare.»
«Che barba! Finirei per chiacchierare al telefono e giocare a bridge; almeno, è così che si
comportano le madri di quasi tutte le mie compagne di scuola. Perché, naturalmente, abiterei a
Sydney, non a Drogheda. Sydney mi piace molto più di Drogheda.» Un bagliore di speranza le
passò nello sguardo. «Ho abbastanza per farmi togliere le lentiggini con quella nuova terapia
elettrica?»
«Direi di sì. Ma perché?»
«Perché allora qualcuno potrebbe vedermi la faccia, ecco perché.»
«Mi sembrava di aver capito che l'aspetto non ha importanza per un'attrice.»
«Quello che è troppo è troppo, Ma'. Queste lentiggini sono una tortura.»
«Sei proprio certa che non preferiresti diventare una pittrice?»
«Certissima, grazie.» Justine si esibì in una breve danza. «Calcherò le scene, signora Worthington!»
«Come sei riuscita a farti accettare al Culloden?»
«Ho fatto un'audizione.»
«E ti hanno presa?»
«La fiducia che riponi in tua figlia è commovente, Ma'. Naturale che mi hanno presa! Sono superba,
sai. Un giorno diventerò famosissima.»
Meggie sbatté del colorante verde per dolci in una tazza di glassatura, e cominciò a spargere il tutto
sui biscotti a forma di abete già cotti. «È tanto importante per te, Justine? La fama?»
«Direi di sì.» Versò lo zucchero sul burro quasi liquefattosi nel recipiente; sebbene la cucina a gas
avesse sostituito la cucina a legna, faceva molto caldo. «Sono assolutamente, ferreamente decisa a
diventare famosa.»
«Non vuoi maritarti?»
Justine assunse un'espressione beffarda. «Nemmeno per sogno, accidenti! Trascorrere la mia vita
pulendo nasi mocciosi e culi sporchi? Fare salamelecchi a un uomo che non vale nemmeno la metà
di me, sebbene si creda migliore? Ah-ah-ah, io no di certo!»
«Francamente, dai il capogiro! Dove hai imparato a esprimerti in questo modo?»
Justine cominciò a rompere uova, rapidamente e con destrezza, in una grande scodella, con una sola
mano. «Nel mio signorile collegio per signorine, naturalmente.» Sbatté impietosamente le uova con
un frullino. «In realtà, eravamo un branco di ragazze molto per bene, molto colte. Non tutte le
combriccole di stupide femmine adolescenti possono apprezzare la delicatezza di una strofetta
latina:
C'era un romano di Vinidium
la cui camicia era fatta di iridium;
quando gliene domandarono la ragione,
«Id est» rispose il volpone
«bonum maledictum praesidium.»
Le labbra di Meggie guizzarono: «Mi odierò per avertelo domandato, ma cos'è che disse il
romano?»
«È un'ottima protezione, maledizione.»
«Tutto qui? Credevo che fosse qualcosa di molto peggio. Mi stupisci. Ma, per tornare a quello che
stavamo dicendo, cara la mia figliola, nonostante i tuoi tentativi di cambiare discorso, cos'è che non
va, secondo te, nel matrimonio?»
Justine imitò la rara risata di sua nonna, simile a un nitrito, una risata ironica. «Ma'! Questa poi!
Proprio tu vieni a farmi una domanda simile?»
Meggie sentì il sangue affluirle sotto la pelle, e abbassò gli occhi sulla teglia di piccoli abeti verde
smeraldo. «Non essere impertinente, anche se ormai sei donna.»
«Non è strano?» domandò Justine. «Non appena uno si azzarda sul territorio riservato severamente
ai genitori, diventa impertinente. Mi sono limitata a dire: proprio tu vieni a farmi una domanda
simile? E ho tutti i diritti di dirlo, dannazione! Questo non significa necessariamente insinuare che
tu sia una donna fallita, o una peccatrice, o peggio. In realtà, credo che tu abbia dato prova di
considerevole buon senso liberandoti di tuo marito. A che cosa ti serviva un marito? Ci sono state
tonnellate di influenza maschile per i tuoi figli, con tanti fratelli tra i piedi! E inoltre hai abbastanza
denaro per vivere. Sono d'accordo con te! Il matrimonio va bene per gli scemi.»
«Sei proprio come tuo padre!»
«Un'altra scappatoia. Ogni volta che qualcosa non va, divento "proprio" come mio padre. Be', ti
credo sulla parola, quanto a questo, visto che non ho mai posto gli occhi su quel gentiluomo.»
«Quando partirai?» domandò Meggie, ridotta alla disperazione.
Justine sorrise. «Non vedi l'ora di liberarti di me, eh? Non importa, Ma', non te ne faccio
minimamente una colpa. Il fatto è che non posso farne a meno, mi piace scandalizzare la gente,
specie te. Che ne diresti di portarmi domani all'aeroporto?»
«Facciamo dopodomani. Domani ti porterò in banca. Sarà meglio che tu sappia quanto possiedi. E,
Justine...»
Justine stava aggiungendo farina e impastando con abilità, ma alzò gli occhi, avendo udito il
mutamento nella voce di sua madre. «Dimmi?»
«Se per caso ti trovassi in difficoltà, torna a casa, ti prego. Ci sarà sempre posto per te a Drogheda,
voglio che te ne ricordi. Niente di quanto potresti fare sarebbe mai così grave da impedirti di tornare
a casa tua.»
Lo sguardo di Justine si raddolcì. «Grazie, Ma'. Sotto sotto, non sei poi una cattiva vecchia
bisbetica, vero?»
«Vecchia?» balbettò Meggie. «Non sono vecchia. Ho appena quarantatré anni!»
«Santo Cielo, tanti così?»
Meggie lanciò un biscotto e colpì Justine sul naso. «Disgraziata!» rise. «Che mostro sei! Ora mi
sembra di avere cent'anni.»
Sua figlia sorrise.
In quel momento Fee entrò per vedere come stessero andando le cose in cucina; Meggie ne accolse
l'arrivo con sollievo.
«Ma', lo sai che cosa mi ha appena detto Justine?»
Gli occhi di Fee non erano più in grado di vedere nulla, a parte lo sforzo supremo di tenere i registri,
ma l'intelligenza dietro quelle pupille offuscate restava acuta come sempre.
«Come potrei sapere quello che ti ha appena detto Justine?» domandò blanda, osservando i biscotti
verdi con un lieve brivido.
«Sai, a volte ho l'impressione che tu e Jussy mi nascondiate piccoli segreti; ora, mia figlia ha appena
finito di darmi la notizia, e tu arrivi, come non capita mai.»
«Mmmmmmm. Sono più buoni che belli» commentò Fee, mangiucchiando. «Te lo assicuro,
Meggie, non incoraggio mai tua figlia a cospirare con me alle tue spalle. Che cosa hai combinato
adesso, Justine, per scombussolare tua madre?» domandò, rivolgendosi alla ragazza che stava
mettendo il morbido impasto in forme imburrate e cosparse di farina.
«Ho detto a Ma' che voglio diventare un'attrice, nonna, tutto qui.»
«Tutto qui, eh? È vero, o è soltanto uno dei tuoi scherzi di dubbio gusto?»
«Oh, è vero. Sto per cominciare al Culloden.»
«Bene, bene, bene» disse Fee, addossandosi al tavolo e osservando ironicamente sua figlia. «Non è
stupefacente che i figlioli abbiano una loro volontà, Meggie?»
Meggie non rispose.
«Disapprovi, per caso, nonna?» ringhiò Justine, pronta a impegnare battaglia.
«Io? Disapprovare? Non è affar mio quello che vuoi fare della tua vita, Justine. E, del resto, credo
che diventerai una brava attrice.»
«Davvero?» balbettò Meggie.
«Certo che lo diventerà» disse Fee. «Justine non è il tipo da prendere decisioni avventate, vero,
ragazza mia?»
«No» sorrise Justine, scostandosi da un occhio una ciocca di capelli umidi. Meggie la osservò
mentre fissava sua nonna con un affetto che sembrava non riservasse mai a lei.
«Sei una brava ragazza, Justine» dichiarò Fee, e finì di mangiare il biscotto che aveva cominciato ad
assaggiare con così scarso entusiasmo. «Non è niente male. Ma preferirei una glassatura bianca.»
«Non è possibile coprire di glassatura bianca gli alberi» la contraddisse Meggie.
«Certo che è possibile, trattandosi di abeti; potrebbe essere neve» disse sua madre.
«Ormai è troppo tardi. Sono di un verde-vomito» rise Justine.
«Justine!»
«Ahiahi! Scusami, Ma', non volevo offenderti. Dimentico sempre che sei delicata di stomaco.»
«Non sono delicata di stomaco» esclamò Meggie, esasperata.
«Sono venuta a vedere se è possibile avere una tazza di tè» le interruppe Fee, accostando una sedia
e accomodandosi. «Metti il bricco sul fuoco, Justine, da brava.»
Anche Meggie sedette. «Credi davvero che una carriera simile possa andare per Justine, Ma'?»
domandò in tono ansioso.
«Perché non dovrebbe?» rispose Fee, osservando sua nipote intenta a celebrare il rituale del tè.
«Potrebbe trattarsi di un entusiasmo passeggero.»
«È un entusiasmo passeggero, Justine?» domandò Fee.
«No» rispose decisa Justine, disponendo piattini e tazze sul vecchio tavolo di cucina verde.
«Prendi un vassoio per i biscotti, Justine, non servirli nella teglia» disse Meggie, lasciandosi guidare
dalla forza dell'abitudine, «e, per amor del cielo, non mettere in tavola tutto il bidone del latte,
versane un po' nella lattiera.»
«Sì, Ma', scusa, Ma'» rispose Justine, guidata a sua volta dalla forza dell'abitudine. «Però, in cucina,
tutte queste storie mi sembrano inutili. Così, non dovrei fare altro che rimettere al loro posto gli
avanzi e sciacquare un paio di piattini in più.»
«Fa' come ti ho detto, è molto più gradevole.»
«Per tornare al discorso di prima» continuò Fee «credo che non sia proprio il caso di stare a
discutere. Secondo me, dovremmo consentire a Justine di tentare, e credo che, con ogni probabilità,
se la caverà molto bene.»
«Vorrei poterne essere altrettanto sicura» disse Meggie, imbronciata.
«Hai dissertato sulla fama e sulla gloria, Justine?» domandò la nonna.
«Fanno parte del quadro» rispose la ragazza, mettendo sul tavolo, con un gesto di sfida, la vecchia
teiera marrone da cucina e sedendosi in fretta. «E ora non brontolare, Ma'. Non servirò il tè in
cucina nella teiera d'argento, è deciso.»
«Questa teiera va benissimo» sorrise Meggie.
«Oh, che buono! Non c'è niente di meglio di una tazza di tè» sospirò Fee, sorseggiando. «Justine,
perché ti ostini a presentare così male le cose a tua madre? Sai benissimo che non è questione di
fama e di gloria. È una questione di personalità, no?»
«Di personalità, nonna?»
«Certo, di personalità. Recitare è quello che senti di essere destinata a fare, non è così?»
«Sì.»
«E allora, non avresti potuto prospettare la cosa in questo modo a tua madre? Perché turbarla con un
mucchio di assurdità sfrontate?»
Justine fece spallucce, bevve il tè e spinse la tazza vuota verso sua madre per averne dell'altro.
«Non so» disse.
«Non-lo-so» la corresse Fee. «Sulla scena pronuncerai le parole come si deve, spero. Ma è per la tua
personalità che vuoi fare l'attrice, vero?»
«Presumo di sì» rispose Justine, con riluttanza.
«Oh, sempre il cocciuto, testardo orgoglio dei Cleary! Guai a te, Justine, se non imparerai a
dominarlo. La solita, stupida paura di essere derisa, o presa in giro. Anche se non riesco a capire
perché tu pensi che tua madre debba essere così crudele.» Batté la mano sulla schiena di Justine.
«Vedi di cedere un po', Justine. Collabora.»
Ma la ragazza scosse la testa e disse: «Non posso.»
Fee sospirò. «Bene, per quello che può giovarti, bambina, hai la mia benedizione.»
«Grazie, nonna, ti sono grata.»
«Allora sii così cortese da dimostrare la tua gratitudine in modo concreto andando a cercare lo zio
Frank e dicendogli che il tè lo aspetta in cucina, per piacere.»
Justine uscì e Meggie fissò Fee.
«Ma', sei stupefacente, sul serio.»
Fee sorrise. «Be', devi ammettere che non ho mai cercato di dire a nessuno dei miei figli quello che
dovevano fare.»
«No, mai» riconobbe Meggie, con tenerezza. «E te ne eravamo grati.»
Per prima cosa, non appena tornata a Sydney, Justine si fece togliere le lentiggini. Non fu una cosa
da poco, purtroppo; ne aveva tante che sarebbero occorsi quasi dodici mesi, e poi avrebbe dovuto
ripararsi dal sole per tutto il resto della vita, altrimenti le sarebbero tornate. La seconda cosa che
fece fu di trovarsi un appartamento, un'impresa non facile a Sydney, in quel periodo in cui la gente
preferiva costruire case unifamiliari e considerava un anatema vivere in massa in condominii. Ma,
in ultimo, riuscì a trovare un appartamentino di due stanze sulla Neutral Bay, in una delle antiche ed
enormi dimore vittoriane sul mare, suddivise in squallidi, piccoli appartamenti quando i proprietari
avevano attraversato tempi difficili. La pigione era di cinque sterline e dieci scellini la settimana,
pigione spropositata tenendo conto del fatto che il bagno e la cucina erano in comune. Ciò
nonostante, Justine si ritenne più che soddisfatta. Sebbene fosse stata abituata tanto bene a casa, non
possedeva spiccati istinti domestici.
Abitare nei Bothwell Gardens fu di gran lunga più affascinante che imparare recitazione al
Culloden, ove la vita sembrava consistere nel tenersi nascosti dietro le quinte e nell'osservare altre
persone che provavano, comparendo in scena soltanto di rado, e imparando a mente battute e battute
di Shakespeare, Shaw e Sheridan.
Compreso quello di Justine, nella dimora dei Bothwell Gardens esistevano sei appartamenti oltre a
quello della signora Devine, la padrona di casa. La signora Devine era una londinese di
sessantacinque anni con il vezzo di sospirare lamentosamente, di avere gli occhi sporgenti e un
grande disprezzo per l'Australia e gli australiani, sebbene fosse tutt'altro che aliena dal derubarli. La
cosa che soprattutto sembrava premerle nella vita era sapere quanto costassero il gas e la corrente
elettrica, e la sua più grande debolezza era il vicino di appartamento di Justine, un giovane inglese
che sfruttava allegramente la propria nazionalità.
«Non esito a dare alla vecchia oca qualche solleticatina, quando ci abbandoniamo alle
reminiscenze» disse il giovanotto a Justine. «In questo modo evito che mi rompa le scatole. A voi
ragazze non è consentito far funzionare radiatori elettrici nemmeno durante l'inverno ma a me ne ha
dato uno, e io posso farlo funzionare anche per tutta l'estate, se per caso mi saltasse in mente di
adoperarlo.»
«Porco» disse Justine, spassionatamente.
Si chiamava Peter Wilkins, ed era un commesso viaggiatore. «Venga da me qualche volta, e le
offrirò un'ottima tazza di tè» le gridò dietro, un po' scosso da quegli occhi chiari e misteriosi.
Justine accettò l'invito, stando bene attenta a non scegliere uno di quei momenti nei quali la signora
Devine si aggirava gelosamente nei pressi, e finì con l'abituarsi a respingere Peter. Gli anni di
equitazione e di lavoro a Drogheda l'avevano resa notevolmente forte, e non esitava a ricorrere ai
colpi sotto la cintola.
«Dio ti maledica, Justine!» ansimò Peter, una volta, asciugandosi lacrime di dolore dagli occhi.
«Mollala, figliola! Dovrai pure perderla, la verginità, una volta o l'altra, sai! Qui non siamo
nell'Inghilterra vittoriana, nessuno pretende che tu la tenga in serbo per il matrimonio.»
«Non ho nessuna intenzione di tenerla in serbo per il matrimonio» rispose lei, aggiustandosi il
vestito. «Soltanto, non so ancora bene a chi dovrà toccare l'onore, ecco tutto.»
«Mica sei così bella da meritare che ti si descriva nelle lettere a casa!» scattò lui perfidamente;
Justine gli aveva fatto male sul serio.
«No, lo so bene. Cavolo, Peter. Non riuscirai a farmi male con le parole. E ci sono mucchi di uomini
disposti ad andare a letto con qualsiasi donna, purché sia vergine.»
«E anche mucchi di donne. Tieni d'occhio l'appartamento sulla facciata.»
«Oh, lo so, lo so» disse Justine.
Le due ragazze dell'appartamento sulla facciata erano lesbiche, e avevano accolto lietamente l'arrivo
di Justine, finché non si erano rese conto che lei non soltanto non era interessata, ma nemmeno
incuriosita. A tutta prima, non era stata nemmeno ben sicura di quello cui stavano mirando, ma poi,
quando glielo avevano detto apertamente, si era limitata a un'alzata di spalle, per nulla colpita. Così
dopo un periodo di adattamento, aveva finito col diventare la depositaria dei loro segreti, la loro
confidente neutrale, il loro porto durante ogni tempesta; pagò la cauzione a Billie per farla uscire
dal carcere, portò Bobbie all'ospedale Mater perché le facessero una lavanda gastrica dopo un litigio
particolarmente violento con Billie e si rifiutò di prendere le parti dell'una o dell'altra quando
all'orizzonte spuntarono a turno Pat, Al, Georgie e Ronnie. Sembrava una sorta di vita emotiva
molto insicura, si diceva. Gli uomini erano abbastanza insopportabili, ma, per lo meno, avevano il
sapore della diversità.
Così, tra il Culloden, la casa dei Bothwell Gardens e le ragazze conosciute ai tempi del Kincoppal,
Justine aveva un gran numero di amici ed era una buona amica lei stessa. Non confidava mai i suoi
guai, come facevano gli altri con lei; aveva Dane, per questo, sebbene le poche difficoltà che
ammetteva di incontrare non sembrassero tormentarla. La caratteristica che soprattutto affascinava i
suoi amici era una straordinaria autodisciplina, come se fosse stata abituata sin dalla fanciullezza a
non consentire alle circostanze di influenzare la sua serenità.
Una cosa soprattutto incuriosiva quelli che considerava suoi amici: quando e come si sarebbe decisa
a perdere la verginità; ma lei non aveva fretta.
Arthur Lestrange era l'attor giovane di Albert Jones che aveva resistito più a lungo, sebbene avesse
già festeggiato malinconicamente il quarantesimo compleanno l'anno prima dell'arrivo di Justine al
Culloden. Aveva un bel fisico, era un attore costante, sul quale si poteva far conto, e la sua faccia
bella e virile, circondata da un alone di riccioli biondi, strappava sempre applausi al pubblico.
Durante il primo anno non notò Justine, che taceva sempre e faceva esattamente come le veniva
detto. Ma al termine del corso, la cura contro le lentiggini era terminata, e il suo viso cominciò a
risaltare contro lo scenario.
Senza le lentiggini e con l'aggiunta del trucco che le scuriva le sopracciglia e le ciglia, era una
ragazza graziosa, che assomigliava vagamente a un elfo. Non aveva ereditato la bellezza vistosa di
Luke O'Neill, né quella squisita della madre. Il suo corpo era passabile anche se non spettacolare,
forse un po' troppo esile. Soltanto i vividi capelli rossi facevano sempre spicco. Ma sulla scena
sembrava completamente diversa e riusciva a far credere alla gente di essere bella come Elena di
Troia, oppure orrenda come una strega.
Arthur la notò per la prima volta durante un periodo di insegnamento, quando Justine doveva
recitare un passo di Lord Jim di Conrad, ricorrendo ad accenti diversi. Fu veramente straordinaria;
comprese l'entusiasmo di Albert Jones e perché le dedicasse tanto tempo. Era una mima nata, ma
anche molto più di questo: riusciva a caratterizzare ogni parola che pronunciava. E poi c'era la voce,
una mirabile dote naturale per qualsiasi attrice: profonda, sonora, penetrante.
E così, quando Arthur la vide seduta, con una tazza di tè in mano e un libro aperto sulle ginocchia,
andò a sederlesi accanto.
«Cosa stai leggendo?»
Ella alzò gli occhi, sorrise. «Proust.»
«Non lo trovi un po' noioso?»
«Proust noioso? No di certo, a meno che non si possano soffrire i pettegolezzi. Perché non è altro
che questo, sai: un terribile, vecchio pettegolo.»
Provò la sensazione sgradevole che la ragazza stesse assumendo nei suoi riguardi un atteggiamento
di condiscendenza intellettuale, ma la perdonò. La colpa era soltanto della sua estrema giovinezza.
«Ti ho sentita recitare Conrad. Sei stata splendida.»
«Grazie.»
«Se andassimo a prendere il caffè insieme, qualche volta, e parlassimo dei tuoi progetti?»
«Se ti fa piacere» rispose lei, tornando a dedicarsi a Proust.
Arthur era lieto di essersi accordato per il caffè, piuttosto che per una cena; sua moglie lo teneva
sempre d'occhio, e inoltre una cena implicava una gratitudine che non sapeva bene se Justine fosse
disposta a manifestare. Tuttavia, mantenne la casuale promessa e la condusse in un buio, piccolo
locale in fondo a Elizabeth Street, ove poteva essere ragionevolmente certo che sua moglie non
avrebbe mai pensato di andarlo a cercare.
Come per una forma di autodifesa, Justine aveva imparato a fumare, stanca di sembrare sempre
eccessivamente virtuosa rifiutando le sigarette che le venivano offerte. Quando si furono messi a
sedere, tolse un pacchetto nuovo di sigarette dalla borsetta e sbucciò con cura la parte superiore del
cellophane dal lato apribile della scatola, accertandosi che il resto continuasse a fasciare tutta la
rimanente parte del pacchetto. Arthur osservò divertito e interessato la sua meticolosità.
«Perché darsi tanta pena, in nome del Cielo? Strappalo via tutto e basta, Justine.»
«Ma non sarebbe una cosa ordinata!»
Egli prese il pacchetto e ne accarezzò riflessivo l'involucro intatto. «Be', se fossi un discepolo
dell'eminente Sigmund Freud...»
«Se tu fossi un discepolo di Freud, che cosa diresti?» Alzò gli occhi, vide la cameriera che aspettava
in piedi accanto a loro. «Un cappuccino, prego.»
Il fatto che avesse ordinato di sua iniziativa irritò Arthur; ma lasciò correre, intento com'era a
inseguire il pensiero balenatogli nella mente. «Un caffè, prego. E ora, per tornare a quello che stavo
dicendo di Freud, mi domando che cosa penserebbe di questo. Potrebbe dire...»
Justine gli tolse di mano il pacchetto, lo aprì, prese una sigaretta e l'accese senza dargli il tempo di
cercare i fiammiferi. «Ebbene?»
«Penserebbe che tu preferisci mantenere intatte le membrane, non ti pare?»
La risata di lei gorgogliò nell'aria fumosa e fece sì che parecchie teste si voltassero incuriosite. «Ah,
sì? Ma non è questo un modo tortuoso per domandarmi se sono ancora vergine, Arthur?»
Egli fece schioccare la lingua, esasperato. «Justine! Vedo che, tra le altre cose, dovrò insegnarti
l'arte sottile della tergiversazione.»
«Tra le altre cose, Arthur?» Justine appoggiò i gomiti al tavolino, gli occhi scintillanti nella
penombra.
«Ebbene, cos'è che devi imparare?»
«Sono molto ben preparata, in realtà.»
«In tutto?»
«Santo Cielo, sei molto bravo nel sottolineare le parole, vero? Benissimo, dovrò tener presente
come hai pronunciato queste.»
«Vi sono cose che possono essere imparate soltanto con l'esperienza diretta» disse lui,
sommessamente, tendendo la mano per spostarle un ricciolo dietro l'orecchio.
«Davvero? Io ho sempre trovato più che sufficiente l'osservazione.»
«Ah, ma che cosa mi dici quando si tratta dell'amore?» E pronunciò quella parola con profonda
delicatezza. «Come puoi impersonare Giulietta senza sapere che cos'è l'amore?»
«Hai segnato un punto. Sono d'accordo con te.»
«Sei mai stata innamorata?»
«No.»
«Sai niente dell'amore?» Questa volta, anziché la parola «amore», sottolineò la parola «niente».
«Proprio niente.»
«Ah! Allora Freud avrebbe avuto ragione, eh?»
Prese il pacchetto delle sigarette e ne fissò l'involucro di cellophane, sorridendo. «In certe cose,
forse.»
Fulmineo, lui afferrò il fondo del cellophane, lo sfilò dal pacchetto e lo tenne in mano, poi,
drammaticamente, lo appallottolò e lo lasciò cadere nel posacenere, ove crepitò e si contorse,
espandendosi. «Mi piacerebbe insegnarti che cosa significa essere donna, se possibile.»
Per un momento Justine non disse nulla, intenta a osservare i movimenti del cellophane nel
posacenere, poi strofinò un fiammifero e, con cautela, lo accostò al cellophane. «Perché no?»
domandò alla breve vampata. «Già, perché no?»
«Dovrà essere una cosa divina, con chiaro di luna e rose e un corteggiamento appassionato, oppure
breve e penetrante, come una freccia?» declamò lui, la mano sul cuore.
Rise. «Suvvia, Arthur. Per quanto mi concerne, spero che sia lunga e penetrante. Ma niente chiaro di
luna, né rose, per piacere. Il mio stomaco non è fatto per un corteggiamento appassionato.»
Arthur la fissò un po' malinconicamente, scuotendo la testa. «Oh, Justine! Lo stomaco di tutti è fatto
per un corteggiamento appassionato... anche il tuo, giovane vestale dal sangue freddo. Un giorno...
aspetta e vedrai... anelerai a essere corteggiata.»
«Puah!» Si alzò. «Vieni, Arthur, facciamo quello che deve essere fatto, prima ch'io cambi idea.»
«Subito? Questa sera?»
«Perché no, in nome del Cielo? Ho tutto il denaro che occorre per una camera d'albergo, se tu sei al
verde.»
L'Hotel Metropole non distava molto; percorsero le vie sonnacchiose e lei tenne il braccio infilato
intimamente sotto quello di Arthur, ridacchiando. Era troppo tardi per chi aveva cenato fuori e
troppo presto perché la gente fosse già uscita dai teatri, per cui c'erano poche persone in giro,
soltanto gruppetti di marinai americani di alcune navi da guerra in porto, e gruppi di ragazze che
guardavano le vetrine tenendo d'occhio i marinai. Nessuno badava a loro, il che fece molto comodo
ad Arthur. Entrò in una farmacia mentre Justine lo aspettava fuori, e ne uscì sorridendo
allegramente.
«Adesso siamo bene attrezzati, amor mio.»
«Che cosa hai comprato? Dei preservativi?»
Lui fece una smorfia. «No di certo. Mettersi un preservativo è come venire avvolti in una pagina di
Selezione... un condensato di banalità. No, mi sono procurato una certa gelatina. Ma tu come sai dei
preservativi, a proposito?»
«Dopo essere stata per sette anni in un collegio cattolico? Cosa credi che facessimo? Che
pregassimo?» Sogghignò. «Ammetto che non facevamo un granché, ma parlavamo di tutto.»
Il signore e la signora Smith osservarono il loro regno che non era poi male per un albergo di
Sydney, a quei tempi. L'epoca degli Hilton doveva ancora venire. La camera era molto vasta, con
una vista superba sul Sydney Harbor Bridge. Non c'era bagno, naturalmente, ma un catino e una
brocca su un tavolinetto dal piano di marmo che si armonizzavano con gli enormi relitti di mobili
vittoriani.
«Bene, che cosa devo fare, adesso?» domandò lei, riaccostando le tende. «È una bellissima vista,
no?»
«Sì. Quanto a quello che devi fare adesso, ti togli le mutande, naturalmente.»
«Niente altro?» volle sapere Justine, maliziosa.
Arthur sospirò. «Togliti tutto, Justine! Con la sensazione pelle contro pelle la cosa è molto più
piacevole.»
Precisa e svelta, ella si liberò dei vestiti, senza un'ombra di timidezza, si distese sul letto e allargò le
gambe. «Va bene così, Arthur?»
«Dio buono!» fece lui, piegando con cura i pantaloni: sua moglie li esaminava sempre per vedere se
fossero spiegazzati.
«Cosa? Che cosa c'è?»
«Sei una rossa autentica, eh?»
«Che cosa ti aspettavi, piume viola?»
«Le facezie non creano la giusta atmosfera, tesoro, quindi smettila immediatamente.» Tirò in dentro
la pancia, si voltò, si diresse verso il letto pavoneggiandosi e vi salì, poi cominciò a darle piccoli
baci esperti sul viso, sul collo, sulla mammella sinistra. «Mmmmmmmm, come sei bella.»
L'allacciò con le braccia. «Ecco. Non è piacevole?»
«Presumo di sì. Sì, è molto piacevole.»
Calò il silenzio, interrotto soltanto dagli schiocchi dei baci e da occasionali mormorii. C'era un
enorme e antico tavolino da toletta di fronte al letto, il cui specchio inclinato ancora rifletteva
l'arena dell'amore, a opera di qualche precedente occupante della stanza con inclinazioni erotiche.
«Spegni la luce, Arthur.»
«Tesoro, no! Lezione numero uno. Non esiste aspetto dell'amore che non sopporti la luce.»
Avendo eseguito i massaggi preparatori con le dita, e spalmato la gelatina là ove doveva trovarsi,
Arthur riuscì a introdursi tra le gambe di Justine. Un po' indolenzita, anche se del tutto a suo agio, e
sentendosi, anche se non trascinata fino all'estasi, alquanto materna, Justine guardò oltre la spalla di
Arthur e al di là del letto, nello specchio.
Accorciate dalla prospettiva, le loro gambe sembravano irreali, con quelle oscuramente pelose di lui
compresse tra le sue, lisce e liberate dalle lentiggini; tuttavia, la maggior parte dell'immagine
riflessa dallo specchio consisteva nelle natiche di Arthur che, mentre egli manovrava, si dilatavano e
si contraevano, e saltellavano su e giù, con due ciuffi di peli gialli come quelli di Dagoberto che
sporgevano sopra i due globi gemelli e sembravano salutarla allegramente.
Justine guardò; tornò a guardare. Poi si premette violentemente il pugno chiuso sulla bocca,
gorgogliando e gemendo.
«Su, su, tesoro mio, va tutto bene! Ti ho già rotto l'imene, e quindi non può essere molto doloroso»
bisbigliò lui.
Il petto di Justine cominciò ad ansimare; egli l'allacciò più strettamente con le braccia e balbettò
vezzeggiativi.
A un tratto Justine rovesciò il capo all'indietro, aprì la bocca lasciandosi sfuggire un lungo gemito,
che divenne poi uno scroscio dopo l'altro di risate clamorose. E, quanto più lui diventava furioso e
flaccido, tanto più forte lei rideva, additando, incapace di parlare, lo specchio di fronte al letto, la
faccia striata di lacrime. Aveva tutto il corpo percorso da movimenti convulsi, ma non proprio nel
modo che si era aspettato il povero Arthur.
Sotto molti aspetti, Justine era molto più vicina a Dane di quanto lo fosse la loro madre, e quello
che entrambi provavano per Ma' apparteneva a Ma'. Non si intrometteva in ciò che provavano l'uno
per l'altra, né lo contrastava. Questi sentimenti, nati nei primissimi anni, avevano finito con
l'intensificarsi invece di diminuire. Quando Ma' aveva finalmente potuto liberarsi dalla schiavitù di
Drogheda, loro erano già così grandicelli da studiare le lezioni per corrispondenza al tavolo di
cucina della signora Smith; e l'abitudine di trovare sollievo l'uno nell'altra era stata, così, foggiata
per sempre.
Sebbene fossero molto diversi, avevano molti gusti in comune, e quelli che non condividevano li
tolleravano l'uno nell'altra con un rispetto istintivo, considerandoli sfumature indispensabili della
diversità. Si conoscevano completamente. La tendenza naturale di lei era quella di deplorare i difetti
negli altri e di ignorarli in se stessa; la tendenza naturale di Dane era quella di capire e perdonare le
manchevolezze umane nel prossimo, e di essere spietato con le proprie. Lei si sentiva
invincibilmente forte, lui sapeva di essere pericolosamente debole.
E, in qualche modo, tutto ciò si combinava in un'amicizia quasi perfetta, nel nome della quale niente
era impossibile. Tuttavia, poiché Justine era di gran lunga la più loquace, Dane veniva sempre a
sapere molto più di lei e dei suoi sentimenti di quanto ella non sapesse del fratello. Sotto certi
aspetti, Justine non considerava sacro nulla, e Dane si rendeva conto di avere il dovere di fornirle
quegli scrupoli che le mancavano. Di conseguenza, accettava il proprio ruolo di ascoltatore passivo
con una tenerezza e una comprensione che avrebbero esasperato enormemente Justine, se le avesse
sospettate. Ma non le sospettava mai; sin da quando era stato abbastanza grandicello per prestarle
ascolto, gli aveva confidato assolutamente tutto.
«Indovina che cosa ho fatto ieri sera?» gli disse, aggiustando con cura il grande cappello di paglia,
in modo da avere il viso e il collo completamente in ombra.
«Hai interpretato la tua prima parte di protagonista» disse Dane.
«Sciocco! In questo caso te lo avrei detto prima perché tu potessi venire ad ammirarmi. Riprova!»
«Ti sei finalmente buscata uno dei pugni che Bobbie sferra a Billie.»
«Acqua... acqua...!»
Lui fece spallucce, annoiato. «Non ne ho proprio idea.»
Sedevano sull'erba del Domain, sotto la mole gotica della cattedrale di Santa Maria. Dane aveva
telefonato per avvertirla che si sarebbe recato alla cattedrale per una speciale funzione; non
avrebbero potuto incontrarsi prima nel Domain? Certo che avrebbero potuto; moriva dalla voglia di
raccontargli il suo recentissimo exploit.
Avendo ormai quasi terminato l'ultimo anno al Riverview, Dane era capitano della scuola, capitano
della squadra di cricket, di quella di rugby, di quella della palla a mano, nonché delle squadre di
tennis. E per giunta capoclasse. A diciassette anni, superava il metro e ottanta di statura, la sua voce
aveva raggiunto il tono baritonale definitivo e, miracolosamente, egli era riuscito a evitare le
afflizioni dell'adolescenza quali i foruncoli, la goffaggine e il pomo d'Adamo sporgente. Essendo
così biondo, ancora non si radeva, ma, sotto ogni altro aspetto, sembrava più un giovanotto fatto che
uno studentello. Soltanto l'uniforme del Riverview lo classificava.
Era una giornata calda e assolata. Dane si tolse la paglietta del collegio e si distese sull'erba, mentre
Justine gli sedeva accanto allacciandosi le ginocchia con le braccia per essere certa che tutta
l'epidermide nuda fosse riparata dal sole. Dane aprì un pigro occhio azzurro nella sua direzione.
«Che cosa hai fatto ieri sera, Jus?»
«Ho perduto la verginità. O almeno, credo di averla perduta.»
Dane spalancò entrambi gli occhi. «Sei una stupida.»
«Puah! Era tempo, dico! Come posso sperare di diventare una brava attrice senza avere un'idea di
quello che succede tra un uomo e una donna?»
«Avresti dovuto restare intatta per l'uomo che sposerai.»
Una smorfia di esasperazione le alterò il viso. «Davvero, Dane, a volte sei così arcaico da mettermi
in imbarazzo! Supponi che fino a quarant'anni non conosca l'uomo giusto. Che cosa pretenderesti
che facessi? Che ci stessi seduta sopra per tutti quegli anni? È quello che farai tu? Te lo conserverai
fino al matrimonio?»
«Non credo che mi sposerò.»
«Be', nemmeno io. Nel qual caso, perché legarci attorno un nastro azzurro e conservare la verginità
nello scrigno delle mie inesistenti speranze? Mica volevo morire con la curiosità di sapere.»
Lui sorrise. «Ora non può più succederti.» Giratosi bocconi, appoggiò il mento alla mano e la fissò
negli occhi, con la faccia morbida, preoccupata. «È andata bene? Voglio dire, è stato spaventoso? Ti
ha fatto schifo?»
A Justine guizzarono le labbra, mentre ricordava. «In ogni caso, non mi ha fatto schifo. E non è
stato neppure spaventoso. D'altro canto, non capisco perché faccia andare tanto in estasi tutti quanti.
Al massimo, sono disposta a definirla piacevole. E non è che mi sia messa con uno qualsiasi. Ho
scelto un uomo molto simpatico e abbastanza maturo per sapere quello che faceva.»
Dane sospirò. «Sei proprio una sciocca, Justine. Sarei stato molto più contento se avessi detto: "Non
è un granché a vedersi, ma ci siamo conosciuti e non ho potuto farne a meno". Posso ammettere che
tu non voglia aspettare di essere sposata, ma si tratta pur sempre di qualcosa che devi volere a causa
della persona con la quale lo fai. Mai a causa dell'atto in sé, Jus. Non mi stupisce che tu non sia
andata in estasi.»
L'espressione allegra e trionfante le si dileguò completamente dal viso. «Oh, accidenti a te, ora mi
hai fatta sentire orribile! Se non ti conoscessi bene, direi che stai cercando di umiliare me... o i miei
moventi, in ogni caso.»
«Ma mi conosci bene, no? Non vorrei mai umiliarti, però a volte i tuoi moventi sono, né più né
meno, stoltamente stupidi.» Adottò un tono di voce funereo e monotono. «Sono la voce della tua
coscienza, Justine O'Neill.»
«Lo sei eccome, idiota!» Dimenticando di dover restare all'ombra, si lasciò cadere sull'erba accanto
a lui, affinché non potesse vederla in faccia. «Senti, lo sai il perché. Non è vero?»
«Oh, Jussy» fece lui, malinconicamente; ma qualsiasi cosa fosse stato sul punto di aggiungere, ne
venne impedito, poiché lei parlò di nuovo, quasi selvaggiamente.
«Non amerò mai, mai, nessuno! Se tu ami le persone, ti uccidono. Se hai bisogno delle persone, ti
uccidono. È così, te lo dico io!»
Lo addolorava sempre il fatto che lei si sentisse esclusa dall'amore, e lo addolorava ancor più sapere
che era lui la causa. Se esisteva una ragione per cui Justine era così importante per lui, consisteva
nel fatto che sua sorella lo amava abbastanza per non portargli rancore e mai, nemmeno per un
momento, gli aveva tolto il suo affetto per gelosia o per risentimento. Agli occhi di Dane, era una
realtà crudele che lei si muovesse lungo un circolo del quale lui costituiva il centro stesso. Aveva
pregato e pregato affinché questa situazione mutasse, ma non cambiava mai. Il che non aveva
sminuito la sua fede, ma gli aveva semplicemente fatto capire che a un certo punto, a un certo
momento, sarebbe stato costretto a pagare per i sentimenti sperperati su di lui a spese di Justine. Lei
accettava di buon grado la situazione, era riuscita a persuadere persino se stessa che si trovava
benissimo su quell'orbita esterna, ma lui sentiva la sua sofferenza. Sapeva che sua sorella soffriva.
C'erano tanti aspetti degni di essere amati in lei, e aveva così pochi aspetti degni d'amore in se
stesso! Senza alcuna speranza di capire le cose diversamente, presumeva di avere la parte del leone
negli affetti a causa della propria bellezza, della propria indole più malleabile, della propria capacità
di comunicare con la madre e con le altre persone a Drogheda. E anche perché era un maschio. Ben
poco gli sfuggiva, a parte ciò che non poteva semplicemente sapere, e aveva goduto della fiducia e
della compagnia di Justine come nessun altro mai. Eppure, Ma' contava per Justine assai più di
quanto lei volesse ammettere.
Espierò, si disse. Ho avuto tutto. In qualche modo dovrò ripagare, compensarla.
A un tratto, lo sguardo gli cadde per caso sull'orologio, e si mise in piedi elasticamente; per quanto
riconoscesse che il suo debito con la sorella era enorme, a Qualcun altro doveva anche di più.
«Devo andare, Jus.»
«Tu e la tua dannata Chiesa! Quand'è che crescerai abbastanza per liberartene?»
«Mai, spero.»
«Quando ti rivedrò?»
«Be', poiché oggi è venerdì, domani, naturalmente, qui alle undici.»
«Okay. Fa' il bravo.»
Era già lontano di parecchi metri, con la paglietta del Riverview sulla testa, ma si voltò per
sorriderle. «Non sono sempre bravo?»
Justine gli sorrise a sua volta. «Dio ti benedica, sì. Sei troppo bello per essere vero; sono sempre io
a cacciarmi nei guai. Ci vediamo domani.»
Nel vestibolo della cattedrale di Santa Maria c'erano parecchie enormi porte imbottite di cuoio
rosso. Dane ne socchiuse una, spingendola, e si insinuò dentro. Si era congedato da Justine un po' in
anticipo, ma gli piaceva sempre entrare in chiesa prima che si riempisse e lo distraesse tramutandosi
in un mare di sospiri, colpi di tosse, fruscii, bisbigli. Quando vi si trovava solo era molto meglio. Un
sacrestano stava accendendo i candelabri dell'altar maggiore; un diacono, pensò, senza sbagliare. A
capo chino, si genuflesse e si fece il segno della Croce mentre passava davanti al tabernacolo, poi,
silenziosamente, si infilò in un banco.
In ginocchio, poggiò il capo alle mani intrecciate e lasciò vagare liberamente i pensieri. Non pregò
consapevolmente, ma divenne piuttosto una parte intrinseca dell'atmosfera, che sentiva densa
eppure eterea, inesprimibilmente sacra, meditativa. Era come se si fosse tramutato nella fiammella
di una di quelle piccole lampade votive di vetro rosso che sembrano sempre palpitare sull'orlo
dell'estinzione, ma che sono alimentate da una piccola pozza di qualche sostanza vitale e irradiano
un fioco ma duraturo chiarore nelle remote tenebre. Silenzio, assenza di forma, oblio della propria
identità umana, ecco che cosa provava Dane entrando in una chiesa. In nessun altro luogo si sentiva
così a posto, così intensamente in pace con se stesso, così lontano dalla sofferenza. Abbassò le
palpebre, chiuse gli occhi.
Dalla cantoria giunse uno scalpiccìo di passi, un soffio d'aria dalle canne dell'organo. Il coro di
fanciulli della cattedrale di Santa Maria era arrivato in anticipo per potersi esercitare un poco prima
della funzione. Si trattava soltanto della Benedizione del venerdì, ma era uno degli amici e
insegnanti di Dane al Riverview a impartirla e lui aveva voluto essere presente.
L'organo emise alcuni accordi, passò a un pianissimo mormorante di accompagnamento e, sotto i
bui archi di pietra ricamata, si levò la voce ultraterrena di un fanciullo, sottile e acuta e dolce, così
colma di innocente candore che le poche persone nella vasta chiesa deserta chiusero gli occhi e
rimpiansero quella purezza che non avrebbero mai più potuto ricuperare.
Panis angelicus,
fit panis hominum,
dat panis coelicus
figuris terminum.
O res mirabilis,
manducat Dominus,
pauper, pauper,
servus et humilis...
Pane degli angeli, pane celeste, cosa mirabile! Dalle tenebre io ho gridato a Te, o Signore; Signore,
ascolta la mia voce! Che l'orecchio Tuo ascolti la mia supplica. Non voltarmi le spalle, Signore, non
voltarmi le spalle. Poiché Tu sei il mio Sovrano, il mio Maestro, il mio Dio, e io sono il Tuo umile
servo. Negli occhi Tuoi una sola cosa conta, la bontà. Tu non ti curi se i servi Tuoi sono belli o
brutti. Per Te soltanto il cuore conta; in Te tutto guarisce, in Te io conosco la pace.
Signore, la mia è solitudine. Io prego affinché presto finisca la sofferenza della vita. Ma Tu sei, e il
Tuo conforto è la sola cosa a sostenermi. Qualsiasi cosa Tu richieda da me, o Signore, Ti sarà data,
poiché io Ti amo. E, se mi è lecito presumere di poterti chiedere qualcosa, io chiedo che in Te ogni
altra cosa sia dimenticata per sempre...
«Sei molto taciturna, Ma'» disse Dane. «A che cosa stai pensando? A Drogheda?»
«No» rispose Meggie, sonnacchiosa. «Sto pensando che invecchio. Stamane mi sono trovata una
decina di capelli grigi, e mi dolgono le ossa.»
«Tu non invecchierai mai, Ma'» disse lui, consolante.
«Vorrei che fosse vero, tesoro mio, ma sfortunatamente non è così. Sto cominciando ad aver
bisogno del pozzo artesiano, e questo è un indizio certo di vecchiaia.»
Giacevano al caldo sole invernale, sopra asciugatoi distesi sull'erba di Drogheda, vicino al pozzo
artesiano. Al lato opposto della vasta pozza, l'acqua bolliva e gorgogliava, e il puzzo dello zolfo
andava alla deriva sul vento e galleggiava verso il nulla. Era uno dei grandi piaceri invernali,
nuotare nel laghetto del pozzo artesiano. Tutti i dolori e tutte le fitte della vecchiaia imminente
venivano mitigati, pensò Meggie, e si girò supina, il capo all'ombra del tronco sul quale lei e Padre
Ralph si erano messi a sedere tanto tempo prima. Moltissimo tempo prima; non riusciva a evocare
nemmeno una fioca eco di quello che doveva aver provato quando era stata baciata da Ralph.
Poi udì Dane alzarsi e aprì gli occhi. Egli era stato sempre la sua creatura, la sua adorabile creatura;
sebbene lo avesse veduto cambiare e crescere con orgoglio possessivo, aveva sempre sovrapposto la
sua ridente immagine infantile alla faccia matura di lui. Non le era ancora accaduto di pensare che
egli non era più, sotto alcun aspetto, un bambino.
Tuttavia, anche per Meggie giunse il momento della consapevolezza, in quell'istante, mentre lo
contemplava stagliato contro il cielo vivido, nel minuscolo costume da bagno di cotone.
Dio mio, è tutto finito! L'infanzia, la fanciullezza. È un uomo. Fierezza, risentimento, uno
sciogliersi femminile nell'improvvisa, terrificante consapevolezza di una qualche tragedia
imminente, e ira, adorazione, tristezza, questo e altro ancora sentì Meggie, alzando gli occhi verso il
figlio. È una cosa terribile, creare un uomo, e più terribile ancora creare un uomo come questo. Così
straordinariamente maschio, così straordinariamente bello.
Ralph de Bricassart e un poco di lei. Come avrebbe potuto non commuoversi a vedere nel fiore
della gioventù il corpo dell'uomo che si era unito con lei nell'amore? Chiuse gli occhi, imbarazzata,
non sopportando di dover pensare a suo figlio come a un uomo. La guardava, lui, vedendo una
donna ormai, o era lei, sempre, quel meraviglioso diminutivo, Ma'? Dio lo maledica, Dio lo
maledica, come ha osato crescere?
«Sai qualcosa delle donne, Dane?» domandò a un tratto, riaprendo gli occhi.
Sorrise. «Gli uccelli e le api, vuoi dire?»
«Questo lo sai, avendo Justine come sorella. Quando scoprì che cosa si nascondeva sotto le
copertine dei testi di fisiologia, andò a spifferare tutto a tutti. No, volevo dire: hai messo in pratica
qualche aspetto dei trattati clinici di Justine?»
Egli mosse la testa in un rapido cenno di negazione, si lasciò cadere sull'erba accanto a lei e la
guardò in viso. «È strano che tu mi faccia questa domanda, Ma'. Volevo parlartene già da molto
tempo, ma non sapevo come cominciare.»
«Hai appena diciotto anni, tesoro mio. Non è un po' presto per cominciare a mettere in pratica le
teorie?» Appena diciotto anni. Appena. Era un uomo, no?
«È proprio di questo che volevo parlarti. Non intendo metterle in pratica affatto.»
Come era gelido il vento che soffiava giù dal Grande Spartiacque! Strano, fino a quel momento non
se n'era accorta. Dov'era la vestaglia? «Non metterle in pratica affatto» ripeté con voce sorda, e non
fu una domanda.
«Esatto. Non voglio, mai. Non che non ci abbia pensato, e non abbia desiderato moglie e figli. Li ho
desiderati. Ma non posso. Perché non c'è abbastanza spazio per amare loro e anche Dio, come io
voglio amarlo. Lo so da molto tempo. Sembra che non riesca a ricordare un momento in cui non lo
abbia saputo, e, quanto più avanzo negli anni, tanto più grande diviene il mio amore per Dio. È un
grande mistero, amare Dio.»
Meggie giaceva contemplando quegli occhi azzurri calmi, remoti. Gli occhi di Ralph come erano
stati un tempo. Ma illuminati da un qualcosa che era del tutto estraneo a Ralph. Li aveva avuti
anche lui così, a diciotto anni? Li aveva avuti? Si trattava forse di qualcosa che si poteva provare
soltanto a diciotto anni? Quando lei era entrata nella vita di Ralph, lui aveva già dieci anni di più.
Eppure suo figlio era un mistico, lo aveva sempre saputo. E non riteneva che, in una qualsiasi fase
della vita, Ralph fosse stato portato al misticismo. Deglutì e avvolse più strettamente la vestaglia
intorno al suo povero corpo.
«E così mi sono domandato» continuò Dane «che cosa avrei potuto fare per dimostrarMCGli quanto
Lo amavo. Ho lottato contro la risposta per molto tempo, non volevo vederla. Perché desideravo
anche, moltissimo, vivere da uomo. Eppure sapevo quale doveva essere l'offerta, lo sapevo... C'è
una sola cosa che possa offrire a Dio, per dimostrarMCGli che niente altro esisterà mai nel mio
cuore prima di Lui. Devo offrirMCGli il solo rivale che abbia; questo è il sacrificio che Egli mi
chiede. Sono il Suo servo, ed Egli non avrà rivali. Ho dovuto scegliere. Tutte le cose che mi
consentirà di avere e di godere, tranne questa.» Sospirò e staccò uno stelo dell'erba di Drogheda.
«Devo dimostrarMCGli che capisco perché mi ha dato tanto alla nascita. Devo dimostrarMCGli che
mi rendo conto di quanto priva di importanza sia la mia vita come uomo.»
«Non puoi farlo, non te lo consentirò!» gridò Meggie, e con una mano gli afferrò il braccio,
stringendoglielo. Come era liscio, e che grande forza gli si sentiva sotto la pelle, proprio come in
Ralph. Proprio come in Ralph! Non consentire a qualche splendida ragazza di mettere lì la mano, di
diritto?
«Mi farò prete» disse Dane. «Intendo dedicarmi completamente al servizio di Dio, offrire a Lui
tutto ciò che ho e che sono, quale Suo sacerdote. Povertà, castità e ubbidienza. Egli non chiede di
meno ai Suoi servi che presceglie. Non sarà facile, ma lo farò.»
Che espressione aveva sua madre negli occhi! Come se l'avesse uccisa, schiacciata nella polvere
sotto il piede. Non sapeva che sarebbe stato costretto a soffrire così, si era limitato a sognare
l'orgoglio di sua madre per lui, il piacere di sua madre nel dare il proprio figlio a Dio. Gli avevano
detto che sarebbe stata commossa, esultante, completamente d'accordo. E invece lo stava fissando
come se la prospettiva del suo sacerdozio fosse stata per lei una condanna a morte.
«Non ho mai voluto essere altro» disse disperato, sostenendo lo sguardo di quegli occhi morenti.
«Oh, Ma', possibile che tu non riesca a capire? Non ho mai, mai, voluto essere altro che un prete!
Non posso essere altro che un prete!»
La mano di lei gli scivolò giù dal braccio; abbassò gli occhi e vide i segni bianchi lasciati dalle dita,
dove le unghie erano affondate in profondità. Meggie alzò la testa, rise e continuò a ridere e a
ridere, enormi, isterici scoppi di risa amare e beffarde.
«Oh, è troppo bello per essere vero!» ansimò, quando riuscì di nuovo a parlare, asciugandosi le
lacrime dagli angoli degli occhi con mano tremante. «Che incredibile ironia! Cenere di rose, egli
disse quella notte mentre venivamo a cavallo al pozzo artesiano. E io non capii che cosa avesse
voluto dire. Cenere eri e cenere tornerai a essere. Alla Chiesa appartenevi, alla Chiesa sarai data.
Oh, magnifico, magnifico! Dio faccia marcire Dio, io dico! Dio il sodomita! L'acerrimo nemico
delle donne, ecco che cos'è Dio! Tutto ciò che noi cerchiamo di fare, Egli cerca di disfarlo!»
«Oh, non dire così! Oh, no! Ma', no!» Egli piangeva per lei, per la sua sofferenza, senza capire né
quella sofferenza, né le parole che essa pronunciava. Le lacrime cadevano, gli torcevano il cuore; il
sacrificio era già cominciato, e in un modo che lui non avrebbe mai immaginato. Ma, sebbene
piangesse per lei, nemmeno per lei avrebbe potuto rinunciare al sacrificio. L'offerta doveva essere
fatta e quanto più dolorosa fosse stata, tanto più preziosa sarebbe risultata agli occhi di Dio.
Lo aveva fatto piangere e questo non era mai accaduto, in tutta la sua vita, fino a quel momento.
Meggie accantonò risolutamente l'ira e la sofferenza. No, non era leale da parte sua imporglisi. Egli
era come lo avevano fatto i suoi stessi geni. O il suo Dio. O il Dio di Ralph. Era la luce della sua
vita, suo figlio. Non avrebbe dovuto soffrire a causa sua, mai.
«Dane, non piangere» bisbigliò Meggie, accarezzandogli i segni dell'ira sul braccio. «Scusami, non
volevo. Mi hai colta di sorpresa, è stato un colpo, ecco tutto. Naturalmente, sono lieta per te, sul
serio! Come potrei non esserlo? È stata una sorpresa, non me lo aspettavo, ecco tutto.» Ridacchiò,
una risatina tremula. «In un certo qual modo, la notizia mi è piombata addosso come un fulmine.»
Gli occhi gli si schiarirono, e la osservò, dubbioso. Perché aveva immaginato di ucciderla? Quelli
erano gli occhi di Ma', come li aveva sempre conosciuti; colmi d'amore, intensamente vivi. Le forti
e giovani braccia la strinsero, l'abbracciarono. «Sei sicura che non ti dispiace?»
«Dispiacermi? Può mai dispiacere a una buona madre cattolica che suo figlio si faccia prete?
Impossibile!» Balzò in piedi. «Brrrr! Come sono gelata! Torniamo a casa.»
Non erano venuti a cavallo, ma con una Land Rover; Dane si mise al volante e sua madre gli sedette
accanto.
«Sai già dove andrai?» domandò Meggie, traendo un respiro simile a un singhiozzo, e scostandosi
dagli occhi i capelli scompigliati.
«Nel Collegio San Patrizio, presumo. Almeno finché non mi sarò orientato; poi, forse, sceglierò un
ordine. Preferirei essere un gesuita, ma non ne sono così certo da optare subito per la Compagnia di
Gesù.»
Meggie fissò l'erba fulva che ondeggiava dietro il parabrezza punteggiato da insetti spiaccicati. «Io
ho un'idea molto migliore, Dane.»
«Oh?» Doveva concentrarsi sulla guida; la pista a volte era quasi invisibile e vi cadevano sempre
nuovi tronchi.
«Ti manderò a Roma, dal Cardinale de Bricassart. Ti ricordi di lui, vero?»
«Se me ne ricordo? Che domanda, Ma'! Credo che non lo dimenticherei nemmeno dopo un milione
di anni. Per me è l'esempio del sacerdote perfetto. Se potessi diventare un sacerdote come lui, sarei
felicissimo.»
«La perfezione non è di questo mondo» disse Meggie, piccata. «Ma ti affiderò a lui perché so che ti
proteggerà per amor mio. Potrai entrare in un seminario di Roma.»
«Dici sul serio, Ma'? Proprio sul serio?» L'ansia escluse la felicità dal volto di lui. «Ma abbiamo
abbastanza denaro? Spenderemmo molto meno se rimanessi in Australia.»
«Grazie allo stesso Cardinale de Bricassart, mio caro, tu non mancherai mai di denaro.»
Sulla porta della cucina, lo spinse dentro. «Va' a dirlo alle ragazze e alla signora Smith» mormorò.
«Andranno in estasi.»
Arrancò su per la rampa che conduceva alla grande casa ed entrò nel salotto ove si trovava Fee,
miracolosamente non assorta nel lavoro, ma intenta a conversare con Anne Mueller davanti al
vassoio del tè pomeridiano. Quando Meggie entrò, le due donne alzarono gli occhi e le lessero in
faccia che era accaduto qualcosa di serio.
Per diciotto anni i Mueller erano venuti in visita a Drogheda persuasi che niente sarebbe mai
cambiato. Ma Luddie Mueller era morto all'improvviso l'autunno precedente e Meggie aveva scritto
subito a Anne per domandarle se le sarebbe piaciuto stabilirsi definitivamente a Drogheda. C'erano
camere in abbondanza, o un villino degli ospiti, se avesse preferito stare per suo conto; avrebbe
potuto pagare una pensione, se era troppo orgogliosa per alloggiare lì gratis, sebbene Dio sapesse
che non mancava il denaro per mantenere anche mille ospiti permanenti. A Meggie sembrava di
poter così ricambiare gli anni solitari passati nel Queensland, e Anne scorse in quell'invito la
salvezza. La solitudine a Himmelhoch senza Luddie era terribile, benché avesse assunto un
amministratore, evitando di vendere la proprietà. Alla sua morte Himmelhoch sarebbe passata a
Justine.
«Che cosa c'è, Meggie?» domandò Anne.
Meggie sedette. «Credo di essere stata punita da un fulmine.»
«Cosa?»
«Avevate ragione, tutte e due. Diceste che avrei perduto Dane, e non vi credetti, pensavo davvero di
poter sconfiggere Dio. Ma non è mai esistita al mondo una donna in grado di prevalere su Dio. Dio
è Uomo.»
Fee le versò una tazza di tè. «Prendi, bevi questo» disse, come se il tè avesse avuto gli stessi poteri
rianimatori del brandy. «Come lo hai perduto?»
«Vuol diventare sacerdote.» Si mise a ridere e a piangere contemporaneamente.
Anne prese i bastoni, zoppicò verso la poltrona di Meggie e sedette goffamente sul bracciolo,
accarezzando i bei capelli rosso-dorati dell'amica. «Oh, cara! Ma non è poi così grave.»
«Sai di Dane?» domandò Fee a Anne.
«L'ho sempre saputo» rispose lei.
Meggie si calmò. «Non è poi così grave, dici? È il principio della fine, non capisci? Il giusto
castigo. Ho sottratto Ralph a Dio, e ora pago con mio figlio. Tu mi avevi detto che si trattava di un
furto, Ma', non ricordi? Non volli crederti, ma avevi ragione, come sempre.»
«Andrà al San Patrizio?» domandò Fee, pratica.
Meggie rise più normalmente. «Questo non sarebbe un castigo, Ma'. Lo manderò da Ralph,
naturalmente. Una metà di lui gli appartiene; lasciamo che Ralph se lo goda, finalmente.» Alzò le
spalle. «Dane conta più di Ralph, e sapevo che desiderava andare a Roma.»
«Hai mai detto a Ralph la verità sul conto di Dane?» domandò Anne; era un argomento del quale
avevano sempre evitato di parlare.
«No, e non gliela dirò mai. Mai!»
«Si somigliano tanto che potrebbe supporlo.»
«Chi, Ralph? Non lo indovinerà mai! Questo almeno lo terrò per me. Gli manderò mio figlio, ma
non più di questo. Non gli manderò suo figlio.»
«Sta' in guardia dalla gelosia degli dei, Meggie» disse Anne, sommessamente. «Potrebbero non
avere ancora finito con te.»
«Che cosa possono farmi di più?» chiese Meggie disperata.
Quando Justine seppe la notizia si infuriò, sebbene, da tre o quattro anni a quella parte, lo
sospettasse. Per Meggie era stato come un colpo di fulmine, ma per Justine fu come una prevista
doccia d'acqua gelida.
In primo luogo perché aveva studiato a Sydney con lui e, come sua confidente, lo aveva ascoltato
parlare di cose che non diceva a sua madre. Justine sapeva quale vitale importanza rivestisse la
religione per Dane; non soltanto Dio, ma il significato mistico dei riti cattolici. Se fosse nato e
cresciuto protestante, pensava, era il tipo da convertirsi in ultimo al cattolicesimo per soddisfare un
qualcosa nell'anima sua. Non faceva per Dane l'austero Dio calvinista. Il suo Dio era miniato in
vetrate colorate, avvolto dall'incenso, fasciato in pizzi e ricami d'oro, esaltato da musiche maestose,
e adorato con belle cadenze latine.
Sembrava, inoltre, una sorta di ironica perversione il fatto che un uomo così mirabilmente dotato di
bellezza dovesse ritenerla un handicap paralizzante e deplorarne l'esistenza. Poiché Dane faceva
proprio questo. Rifuggiva da ogni accenno al proprio aspetto; Justine immaginava che avrebbe
preferito di gran lunga essere nato brutto e totalmente privo di attrattive. Capiva in parte perché egli
la pensasse così; e, forse proprio perché lei aveva scelto come carriera una professione notoriamente
narcisistica, si sentiva alquanto propensa ad approvare l'atteggiamento del fratello nei confronti del
proprio aspetto. Ma una cosa non riusciva assolutamente a capire: perché Dane odiasse decisamente
la sua avvenenza invece di limitarsi a ignorarla.
Né era molto portato per la sessualità; Justine non sapeva bene per quale ragione: aveva insegnato a
se stesso a sublimare in modo quasi perfetto le proprie azioni o, nonostante le doti fisiche, gli faceva
difetto una qualche essenza intima, indispensabile? Forse la prima ipotesi era la più vera, in quanto,
tutti i santi giorni, Dane si dedicava a qualche energico sport per essere certo di andare a letto
spossato. Sapeva benissimo che le sue tendenze erano «normali», vale a dire eterosessuali, e sapeva
inoltre quale tipo di ragazza gli piacesse... alta, bruna e voluttuosa. Eppure, non era sensualmente
consapevole, non si accorgeva delle sensazioni che davano le cose quando le toccava, o degli odori
nell'aria intorno a sé, né capiva le particolari soddisfazioni della forma e del colore. Per poter sentire
uno stimolo sessuale, la provocazione doveva essere irresistibile, e soltanto in quei rari momenti
Dane sembrava rendersene conto.
Dane le diede la notizia dietro le quinte, al Culloden, dopo uno spettacolo. Tutto era stato deciso con
Roma, quel giorno; moriva dalla voglia di dirlo a Justine, eppure sapeva di darle un dolore. Le
ambizioni religiose erano un argomento del quale non aveva mai parlato con la sorella quanto
avrebbe voluto, perché Justine si adirava. Ma, quando si presentò dietro le quinte, quella sera, gli
riuscì troppo difficile contenere ancora a lungo la propria felicità.
«Sei uno stupido» disse lei, disgustata.
«È quello che ho sempre voluto.»
«Idiota.»
«Insultandomi non cambierai niente, Jus.»
«Credi che non lo sappia? Ma mi consente di sfogarmi, ecco tutto.»
«Mi sembra che dovresti trovare abbastanza sfogo sul palcoscenico interpretando la parte di Elettra.
Sei davvero brava, Jus.»
«Dopo questa notizia lo sarò ancora di più» disse lei, torva. «Andrai al San Patrizio?»
«No, vado a Roma, dal Cardinale de Bricassart. Ma' ha preso tutti gli accordi.»
«Dane, no! È così lontano!»
«Be', perché non vieni anche tu, magari in Inghilterra? Con la tua esperienza e la tua abilità,
dovresti poter trovare una scrittura senza troppe difficoltà.»
Sedeva davanti allo specchio togliendosi il trucco di Elettra, ancora con le vesti di Elettra;
circondati da marcati arabeschi neri, i suoi strani occhi sembravano ancor più strani. Annuì adagio.
«Sì, potrei, perché no?» domandò a se stessa, cogitabonda. «Avrei dovuto farlo da tempo...
L'Australia sta diventando un po' troppo piccola... Hai ragione, camerata! È deciso! Andrò in
Inghilterra.»
«Magnifico! Pensa un po'! Avrò periodi di vacanze, sai, si fanno sempre, in seminario, come
all'università. Potremo fare in modo di prenderle insieme, viaggiare un po' in Europa, tornare a casa
a Drogheda. Oh, Jus! Ho già pensato a tutto. Averti non tanto lontana renderà la cosa perfetta.»
Gli sorrise radiosa. «Sì, non è vero? La vita non sarebbe più perfetta se non potessi parlare con te.»
«Hai detto quello che temevo.» Dane sorrise. «No, parlando seriamente, Jus; tu mi preoccupi.
Preferirei averti dove mi sia possibile vederti di quando in quando. Altrimenti, chi mai sarebbe la
voce della tua coscienza?»
Si lasciò scivolare giù, tra un elmo da oplita e una maschera spaventosa da pitonessa, sul
pavimento, in un punto dal quale poteva vederla. C'erano soltanto due camerini per i divi, al
Culloden, e Justine non aveva ancora raggiunto la celebrità sufficiente per conquistarne uno. Era
nello spogliatoio comune, tra l'andirivieni incessante di tutti gli attori.
«Dannato Cardinale de Bricassart!» inveì. «L'ho odiato non appena gli ho messo gli occhi
addosso!»
Dane ridacchiò. «E invece non è vero, se vuoi saperlo.»
«È così! È così!»
«No, niente affatto. La zia Anne mi ha raccontato una cosa durante le vacanze di Natale, e
scommetto che tu non la sai.»
«Cos'è che non so?» domandò lei, circospetta.
«Che quando eri una poppante ti allattò con il biberon, ti fece fare il ruttino e ti cullò, e riuscì a farti
addormentare. Zia Anne dice che eri una bambina terribile e bisbetica e non sopportavi di essere
tenuta in braccio. Ma quando ti prese lui tra le braccia, ti piacque, e come!»
«È una bugia schifosa!»
«No, non lo è.» Sorrise. «A ogni modo, perché lo odii tanto, adesso?»
«Lo odio e basta. Mi ricorda uno scarno, vecchio avvoltoio e mi dà il voltastomaco.»
«A me piace. Mi è sempre piaciuto. Il sacerdote perfetto, così lo definisce Padre Watty. E credo che
lo sia davvero, per giunta.»
«Be', vada a farsi fottere, dico io!»
«Justine!»
«Ah, ti ho scandalizzato, stavolta, eh? Non immaginavi nemmeno, scommetto, che conoscessi
questa parola.»
Gli occhi di lui danzarono. «Ma sai che cosa significa? Avanti, dimmelo, Jussy, ti sfido!»
Non sapeva mai resistergli, quando la stuzzicava; anche gli occhi di lei cominciarono ad ammiccare.
«Potresti anche diventarmi un frate gaudente, stupido, ma, se non conosci già il significato della
parola, farai meglio a non indagare.»
Divenne serio. «Non preoccuparti, non indagherò.»
Un paio di gambe femminili molto ben fatte si fermò accanto a Dane e piroettò. Alzò gli occhi,
arrossì, distolse lo sguardo e disse: «Oh, ciao, Martha» in tono noncurante.
«Ciao a te.»
Era una ragazza estremamente bella, non molto dotata come attrice, ma così decorativa da
avvantaggiare qualsiasi messa in scena; si dava inoltre il caso che fosse esattamente il tipo di Dane,
e Justine aveva udito più di una volta i suoi commenti ammirati su di lei. Alta, una di quelle ragazze
che le riviste cinematografiche definivano sempre sensazionali, con capelli e occhi nerissimi, pelle
chiara, seni magnifici.
Appollaiatasi sull'angolo del tavolino da toletta di Justine, fece dondolare in modo provocante una
gamba sotto il naso di Dane e lo contemplò con malcelata ammirazione, che lui trovava ovviamente
sconcertante. Signore Iddio, era davvero un bel ragazzo! Come aveva fatto, quella brutta cavalla da
tiro che era Jus, a procurarsi un fratello con un aspetto simile? Forse aveva appena diciotto anni e
aveva ancora il latte sulle labbra, ma chi se ne infischiava?
«Se andassimo a casa mia a prendere un caffè e via dicendo?» propose, abbassando gli occhi su
Dane. «Potreste venire tutti e due» soggiunse con riluttanza.
Justine scosse decisamente la testa mentre un'idea improvvisa le illuminava lo sguardo. «No, grazie,
io non posso. Dovrai accontentarti di Dane.»
Lui scosse la testa altrettanto recisamente, ma con alquanto rincrescimento, come se fosse davvero
tentato. «Grazie lo stesso, Martha, ma non posso.» Sbirciò l'orologio quasi fosse stato un'ancora di
salvezza. «Santo Cielo, mi rimane soltanto un minuto sul contatore del posteggio! Quanto ci
metterai ancora, Jus?»
«Una decina di minuti.»
«Ti aspetterò fuori, allora, va bene?»
«Fifone!» lo schernì lei.
Gli occhi scuri di Martha lo seguirono. «È assolutamente splendido. Perché non vuole guardarmi?»
Justine ebbe un sorriso amaro e, strofinandosi, si pulì finalmente la faccia. Le lentiggini stavano
tornando. Forse Londra le avrebbe giovato; non c'era sole. «Oh, non preoccuparti, ti guarda. E ci
starebbe, anche. Ma ci starà?»
«Perché? Cos'ha che non va? Non venire a dirmi che è un finocchio! Merda! Perché tutti gli uomini
fantastici che conosco io sono finocchi? Non avevo mai pensato che lo fosse anche Dane, però; non
ha affatto l'aria di esserlo.»
«Bada a come parli, tonta. Non è un finocchio! Anzi, se dovesse fare gli occhi dolci al Soave
William, taglierei la gola a lui e al nostro affascinante attor giovane.»
«Be', se non è un invertito e se gli piace, perché non se la prende? Non afferra il mio messaggio? O
forse pensa che io sia troppo vecchia per lui?»
«Tesoro, neanche a cent'anni sarai troppo vecchia per l'uomo medio, non stare a crucciarti per
questo. No, Dane ha giurato di astenersi dal sesso, l'idiota. Diventerà prete.»
La bocca sensuale di Martha si aprì: gettò indietro la criniera color inchiostro. «Ma va' là!»
«È vero, è vero.»
«Vorresti dirmi che tutta quella maschia bellezza andrà sprecata?»
«Temo di sì. Vuole offrirla a Dio.»
«Allora Dio è più finocchio del nostro Soave Willie.»
«Potresti aver ragione» disse Justine. «Senza dubbio, non ama molto le donne, in ogni caso. Siamo
di second'ordine, noi, e restiamo indietro di parecchio nelle supreme sfere. Le poltrone di prima fila
e i palchi sono severamente riservati ai maschi.»
«Oh.»
Justine si sfilò, contorcendosi, la veste di Elettra, infilò un leggero vestito di cotone, ricordò che
fuori faceva freddo, si mise una giacca di lana lavorata a maglia, e diede un colpetto affettuoso sulla
testa di Martha. «Non stare a crucciarti per questo, tesoro. Dio è stato molto generoso con te; non ti
ha dato il cervello. Credimi, è molto meglio così. Tu non farai mai concorrenza ai Padroni del
Creato.»
«Non saprei, non mi spiacerebbe far concorrenza a Dio per avere tuo fratello.»
«Scordatene. Ti batteresti contro l'Establishment, e non è proprio possibile. Ti sarebbe molto più
facile sedurre il Soave Willie, credi a me.»
Un'automobile del Vaticano aspettava Dane all'aeroporto e lo condusse velocemente lungo vie
assolate, dai colori tenui, piene di gente bella e allegra; lui tenne il naso incollato al finestrino e
assorbì tutto, colmo di un'eccitazione intollerabile nel contemplare personalmente le cose che aveva
veduto soltanto in fotografia... le colonne romane, i palazzi barocchi, lo sfarzo rinascimentale di San
Pietro.
E ad aspettarlo, questa volta fasciato di scarlatto dalla testa ai piedi, c'era Ralph Raoul, Cardinale de
Bricassart. La mano gli venne tesa con l'anello sfavillante. Dane cadde su entrambe le ginocchia per
baciarlo.
«Alzati, Dane. Lascia che ti guardi.»
Si alzò, sorridendo all'uomo alto che aveva quasi esattamente la sua stessa statura; potevano
guardarsi negli occhi. Per Dane, il Cardinale aveva un'aura immensa di potere spirituale che lo fece
pensare al Papa, più che a un santo; eppure, quegli occhi intensamente tristi non erano gli occhi di
un pontefice. Quanto doveva avere sofferto per assumere quell'aspetto, ma con che nobiltà doveva
essersi innalzato al di sopra delle sofferenze per essere il più perfetto tra i sacerdoti!
E il Cardinale Ralph contemplò il figlio che non sapeva fosse suo figlio, amandolo, pensò, perché
era il figlio di Meggie. Proprio così avrebbe voluto che fosse suo figlio; altrettanto alto, altrettanto
sorprendentemente bello, altrettanto aggraziato. In tutta la vita non aveva mai veduto un uomo
muoversi così bene. Ma, di gran lunga più soddisfacente di qualsiasi bellezza fisica era la semplice
bellezza dell'anima. Il ragazzo aveva la forza degli angeli, e un qualcosa della loro qualità
ultraterrena. Era stato così anche lui, a diciotto anni? Cercò di ricordare, di gettare un ponte oltre gli
eventi dei tre quinti di una vita; no, non era mai stato così. Forse perché questo ragazzo veniva
davvero alla Chiesa di sua iniziativa? Nel suo caso, infatti, non era stato così, sebbene avesse avuto
la vocazione, di questo continuava a essere certo.
«Siedi, Dane. Hai fatto come ti ho chiesto, hai cominciato a imparare l'italiano?»
«A questo punto lo parlo scorrevolmente e lo leggo molto bene. Probabilmente la mia quarta lingua
facilita le cose. Sembra che sia portato per le lingue. Un paio di settimane qui, e dovrei parlare
anche romanesco.»
«Sì, lo imparerai senz'altro. Anch'io ho talento per le lingue.»
«Be', fanno comodo» disse Dane, imbarazzato. L'imponente figura in scarlatto lo intimidiva un
poco; tutto a un tratto, diventava difficile ricordare l'uomo in sella al castrone sauro, a Drogheda.
Il Cardinale Ralph si sporse in avanti, osservando il giovane.
«Affido a te la responsabilità di mio figlio, Ralph» gli aveva scritto Meggie. «Ritengo te
responsabile del suo benessere, della sua felicità. Ciò che ho rubato, restituisco. Lo si esige da me.
Devi soltanto promettermi due cose, e io sarò serena nella certezza che avrai agito per il suo bene.
Anzitutto, promettimi di accertare, prima di accettarlo, che questo sia quanto egli davvero, e
assolutamente, vuole. In secondo luogo, che se ciò è quanto egli vuole, lo terrai d'occhio e ti
accerterai che rimanga quello che vuole essere. Se dovesse cambiare idea, lo rivoglio con me.
Perché apparteneva prima a me. Sono io a dartelo.»
«Dane, sei sicuro?» domandò il Cardinale.
«Assolutamente.»
«Perché?»
Gli occhi del ragazzo erano curiosamente remoti, così familiari da farlo sentire a disagio, ma
familiari in un modo che apparteneva al passato.
«A causa dell'amore che ho per Nostro Signore. Voglio servirlo come Suo sacerdote per tutta la
vita.»
«Ti rendi conto di ciò che implica servire Dio, Dane?»
«Sì.»
«Sai che nessun altro affetto dovrà mai frapporsi tra te e Lui? Che sarai esclusivamente Suo e
dovrai dimenticare tutti gli altri?»
«Sì.»
«Che la Sua volontà dovrà essere fatta in ogni cosa e che, servendo Lui, dovrai seppellire la tua
personalità, la tua individualità, il concetto che hai di te stesso come esclusivamente importante?»
«Sì.»
«E che, se necessario, dovrai affrontare la morte, la prigionia, la fame in Nome Suo? Che non
dovrai possedere nulla, apprezzare nulla che possa sminuire il tuo affetto per Lui?»
«Sì.»
«Sei forte, Dane?»
«Sono un uomo, Eminenza. Sono anzitutto un uomo. Sarà difficile, lo so. Ma prego di poter trovare
la forza, con il Suo aiuto.»
«Vuoi proprio che sia così, Dane? Niente al disotto di Dio potrà soddisfarti?
«Niente.»
«E se in seguito dovessi cambiare idea, che cosa faresti?»
«Be', chiederei di andarmene» rispose Dane, sorpreso. «Se cambiassi idea, sarebbe perché avrò
sbagliato in buona fede per quanto concerne la mia vocazione, e per nessun altro motivo. Di
conseguenza, chiederò di andarmene. Non per questo amerò meno Dio, ma saprei che non in questo
modo Egli vorrebbe essere servito da me.»
«Ma, una volta pronunciati i voti definitivi, e dopo l'ordinazione, ti rendi conto che non potresti più
tornare indietro, che non potrebbe esservi alcuna dispensa, che assolutamente non saresti più libero
di te stesso?»
«Me ne rendo conto» disse Dane, paziente. «Se vi sarà una decisione da prendere, dovrò prenderla
prima.»
Il Cardinale Ralph si riappoggiò alla spalliera della poltrona e sospirò. Aveva mai posseduto una
tale certezza? Era mai stato così forte? «Perché proprio da me, Dane? Perché sei voluto venire a
Roma? Perché non sei rimasto in Australia?»
«Ma' ha proposto Roma, ma io ci pensavo come a un sogno da molto tempo. Non avrei mai creduto
che potessimo disporre di tanto denaro.»
«Tua madre è molto assennata. Non te lo ha detto?»
«Che cosa avrebbe dovuto dirmi, Eminenza?»
«Che hai un reddito di cinquemila sterline annue, e molte migliaia di sterline già depositate in banca
a tuo nome?»
Dane si irrigidì. «No. Non me lo ha mai detto.»
«Molto assennata. Ma hai questo denaro, e Roma è tua, se vuoi. Vuoi Roma?»
«Sì.»
«Perché vuoi me, Dane?»
«Perché lei, Eminenza, è l'idea che io mi faccio del sacerdote perfetto.»
Una smorfia alterò i lineamenti del Cardinale Ralph. «No, Dane, non puoi vedermi in questo modo.
Io sono tutt'altro che un sacerdote perfetto. Ho trasgredito a tutti i voti, te ne rendi conto? Ho dovuto
imparare quello che tu sembri già sapere nel modo più doloroso che possa toccare a un sacerdote:
venendo meno ai voti. Perché mi rifiutavo di ammettere che ero in primo luogo un uomo mortale e
soltanto in secondo luogo un sacerdote.»
«Eminenza, non importa» disse Dane, sommessamente. «Quello che lei dice non mi impedisce
affatto di ritenerla il sacerdote perfetto. Credo che lei non capisca ciò che intendo, ecco tutto. Non
mi riferisco a un automa disumano, superiore alle debolezze della carne. Intendo dire che lei ha
sofferto, ed è maturato. Le sembro presuntuoso? Non è nelle mie intenzioni, sinceramente. Se l'ho
offesa, le chiedo scusa. È solo che mi riesce così difficile esprimere i miei pensieri! Voglio dire che,
per diventare un sacerdote perfetto, devono occorrere anni, sofferenze terribili, ed è necessario
avere sempre presente un ideale, e Nostro Signore.»
Il telefono squillò; il Cardinale Ralph alzò il ricevitore con la mano lievemente malferma, e parlò in
italiano.
«Sì, grazie, veniamo subito.» Si alzò. «È l'ora del tè pomeridiano, e lo prenderemo con un mio
vecchio, vecchissimo amico. Subito dopo il Santo Padre, è probabilmente il sacerdote più
importante della Chiesa. Gli ho detto che saresti arrivato e ha espresso il desiderio di conoscerti.»
«Grazie, Eminenza.»
Percorsero corridoi, attraversarono piacevoli giardini molto diversi da quelli di Drogheda, con alti
cipressi e pioppi, geometrici rettangoli d'erba circondati da viali a pilastri, con lastroni di pietra
muschiosi; passarono sotto archi gotici, sotto ponti rinascimentali. Dane contemplava avidamente
ogni cosa, e ogni cosa gli piaceva. Era un mondo così diverso dall'Australia, così antico ed eterno.
Impiegarono un quarto d'ora, camminando di buon passo, per arrivare al palazzo, entrarono e
salirono un grande scalone di marmo sulle cui pareti pendevano arazzi inestimabili.
Il Cardinale Vittorio Contini-Verchese aveva ormai sessantasei anni e il corpo in parte storpiato dai
reumatismi, ma la mente intelligente e sveglia come sempre. La sua gatta attuale, una gatta blu,
russa, a nome Natascia, gli si raggomitolava in grembo facendo le fusa. Poiché non era in grado di
alzarsi per accogliere gli ospiti, si limitò a un ampio sorriso e fece loro cenno. Il suo sguardo passò
dal volto diletto di Ralph a quello di Dane O'Neill; gli occhi si spalancarono, si socchiusero e si
fermarono su Dane. Sentì il cuore mancargli un colpo, portò sul cuore la mano già tesa nel
benvenuto, con un gesto istintivo di protezione, poi rimase immobile sulla poltrona, fissando con
stupore l'edizione più giovane di Ralph de Bricassart.
«Vittorio, si sente bene?» domandò ansiosamente il Cardinale Ralph, prendendo tra le dita l'esile
polso e tastandolo.
«Certo. Un doloretto passeggero, niente di più. Comodi, comodi.»
«Anzitutto, vorrei presentarle Dane O'Neill, che è, come le ho detto, il figlio di una mia carissima
amica. Dane, Sua Eminenza il Cardinale Contini-Verchese.»
Dane si inginocchiò, premette le labbra sull'anello; al di sopra del capo chino di lui, lo sguardo del
Cardinale Vittorio cercò il volto di Ralph e lo scrutò più attentamente di quanto avesse fatto per
anni. In modo appena percettibile si rilassò; lei non glielo aveva mai detto, allora. E lui non
sospettava, naturalmente, ciò che chiunque, vedendoli insieme, avrebbe supposto all'istante. Non
padre e figlio, naturalmente, ma due stretti consanguinei. Povero Ralph! Non aveva mai veduto se
stesso camminare, non aveva mai osservato le espressioni della propria faccia, non aveva mai notato
lo scatto all'insù del suo sopracciglio sinistro. Invero Dio era buono, rendendo gli uomini così
ciechi.
«Accomodatevi. Il tè sta per essere servito. Dunque, giovanotto! Vuoi diventare prete, e hai chiesto
l'aiuto del Cardinale de Bricassart?»
«Sì, Eminenza.»
«Hai scelto con saggezza. Protetto da lui, non ti accadrà alcun male. Ma mi sembri un po' nervoso,
figlio mio. Forse perché ti trovi in un ambiente nuovo?»
Dane sorrise il sorriso di Ralph, forse con un po' meno di fascino consapevole, ma così identico al
sorriso di Ralph da ferire il cuore vecchio e stanco come un contatto fuggevole col filo spinato.
«Sono sopraffatto, Eminenza. Non mi ero reso conto di quanto fossero importanti i Cardinali. E non
mi ero mai sognato che sarebbero venuti a prendermi all'aeroporto, o che sarei stato invitato a un tè
con lei.»
«Sì, è insolito... E forse potrebbe essere causa di complicazioni, me ne rendo conto. Ah, ecco il tè!»
Compiaciuto, stette a guardare mentre veniva posto sul tavolino, poi alzò un dito ammonitore. «Ah,
no! Farò io da padrona di casa! Come lo prendi il tè, Dane?»
«Come Ralph» rispose il ragazzo; poi arrossì intensamente. «Mi scusi, Eminenza. Non intendevo
dir questo!»
«Non importa, Dane, il Cardinale Contini-Verchese capisce. Ci siamo conosciuti la prima volta
come Dane e Ralph, ed era molto meglio in quel modo, non è vero? Le formalità sono nuove nei
rapporti tra noi. Preferirei che in privato continuassimo a essere Dane e Ralph. Sua Eminenza non ci
baderà, non è vero, Vittorio?»
«No. Mi piace chiamare la gente con il nome di battesimo. Ma, torniamo a quel che dicevo circa gli
amici altolocati, figlio mio. Potrebbe essere un pochino imbarazzante per te, quando entrerai in quel
qualsiasi seminario che sceglierai, questa tua lunga amicizia con il nostro Ralph. Dover dare
spiegazioni complicate ogni qual volta si facessero commenti sui rapporti tra voi due sarebbe molto
tedioso. A volte, Nostro Signore consente una piccola bugia» - sorrise, facendo balenare i denti
d'oro - «e, per il bene di tutti, preferirei che ricorressimo a una di queste innocenti menzogne.
Infatti, è difficile spiegare in modo soddisfacente i tenui legami dell'amicizia, mentre è molto facile
spiegare il legame cremisi del sangue. Pertanto, diremo a tutti che il Cardinale de Bricassart è tuo
zio, Dane, e risolveremo così la questione» concluse il Cardinale Vittorio, soavemente.
Dane parve scandalizzato, il Cardinale Ralph rassegnato.
«Non essere deluso dai grandi, figlio mio» disse il Cardinale Vittorio, con dolcezza. «Anch'essi
hanno i piedi di argilla, e si assicurano la tranquillità con piccole bugie. È una lezione molto utile,
quella che hai appena imparato, e sono certo che ti gioverà. Tuttavia, devi renderti conto che noi
gentiluomini in scarlatto siamo diplomatici fino alla punta delle dita. Io penso davvero soltanto a te,
figlio mio. Le gelosie e i risentimenti esistono anche nei seminari, così come negli istituti secolari.
Soffrirai un poco perché crederanno che Ralph sia tuo zio, il fratello di tua madre, ma soffriresti
molto di più se ritenessero che non vi unisce alcun legame di sangue. Noi siamo anzitutto uomini, e
tu avrai a che fare con uomini in questo ambiente come negli altri.»
Dane chinò il capo, poi si sporse in avanti per accarezzare la gatta, ma si fermò con la mano tesa.
«Posso? Mi piacciono i gatti, Eminenza.»
Non avrebbe potuto trovare una scorciatoia più rapida per penetrare in quel cuore invecchiato, ma
costante. «Puoi. Confesso che sta diventando un po' troppo pesante per me. È una ghiottona, vero,
Natascia? Va' da Dane; appartiene alla nuova generazione.»
Per Justine, non fu possibile trasferire se stessa e le sue cose dall'emisfero sud a quello nord con la
stessa rapidità di Dane; quando ebbe lavorato fino al termine della stagione teatrale al Culloden e si
fu congedata senza rincrescimento dalla dimora dei Bothwell Gardens, suo fratello si trovava a
Roma già da due mesi.
«Come diavolo ho fatto ad accumulare tante cianfrusaglie?» domandò, circondata da vestiti, carte,
scatole.
Meggie la guardò, con una scatola di pagliette di ferro in mano.
«Che cosa ci facevano queste sotto il tuo letto?»
Un'espressione di profondo sollievo affiorò sulla faccia accesa di sua figlia. «Oh, Dio sia lodato!
Erano lì? Credevo che le avesse mangiate il barboncino della signora Devine; non sta bene da una
settimana, e non avevo il coraggio di accennare alle pagliette che non riuscivo più a trovare. Ma
sapevo che quella bestiaccia sarebbe stata capacissima di mangiarsele; mangia qualsiasi cosa. Non
dico» continuò Justine, cogitabonda, «che mi dispiacerebbe non trovarmela più tra i piedi.»
Meggie si mise a ridere. «Oh, Jus! Ti rendi conto di quanto sei buffa?» Gettò la scatola sul letto, tra
la montagna di altri oggetti che già vi si trovava. «Non fai proprio onore a Drogheda! Dopo tutte le
nostre fatiche per ficcarti in testa l'ordine e la pulizia!»
«Avrei potuto dirti che ero una causa persa. Vuoi portarle a Drogheda, le pagliette? So che viaggerò
per mare e che non ci sono limiti al bagaglio, ma credo che a Londra di pagliette se ne trovino a
tonnellate.»
Meggie mise la scatola in uno scatolone di cartone con la scritta «Signora D.» «Credo che faresti
meglio a regalarle alla signora Devine; dovrà rendere questo appartamento abitabile per il nuovo
inquilino.» Su un lato del tavolo c'era una torre vacillante di piatti da lavare e, tra un piatto e l'altro,
sporgevano raccapriccianti avanzi di cibo ammuffiti. «Non li lavi mai, i piatti?»
Justine ridacchiò, senza un'ombra di pentimento. «Dane dice che non li lavo affatto, ma che li
rado.»
«Questi dovresti prima sottoporli al taglio dei capelli. Perché non li lavi come facevi una volta?»
«Perché questo significherebbe riportarli in cucina, e siccome di solito ceno dopo mezzanotte,
nessuno apprezzerebbe lo scalpiccio dei miei piedini.»
«Dammi uno degli scatoloni vuoti. Andrò giù io a lavarli subito» disse sua madre, rassegnata;
sapeva bene, prima ancora di offrirsi di venire, che cosa l'avrebbe aspettata. Eppure era stata, in un
certo qual modo, impaziente. Non le capitava spesso di aver modo di rendersi utile a Justine; ogni
volta che aveva tentato di aiutarla, si era sentita, alla fine, completamente inutile. Ma, nelle
faccende domestiche, per una volta tanto la situazione si capovolgeva; poteva dare una mano a sua
figlia finché voleva senza sentirsi ridicola.
In qualche modo, Justine e Meggie sbrigarono ogni cosa, poi partirono con la giardinetta che
Meggie aveva guidato da Gilly, dirette all'Hotel Australia ove Meggie aveva un appartamento.
«Vorrei che voi di Drogheda acquistaste una casa a Palm Beach o ad Avalon» disse Justine, posando
la valigia nella seconda camera da letto dell'appartamento. «Qui è terribile, proprio su Martin Place.
Pensa un po', trovarsi a un passo dalla risacca! Non ti indurrebbe, questo, ad andare più spesso a
prendere l'aereo a Gilly?»
«Perché dovrei venire a Sydney? Ci sono stata due volte in questi ultimi sette anni... per
accompagnare Dane alla partenza, e ora per accompagnare te. Se avessimo una casa, rimarrebbe
sempre vuota.»
«Balle!»
«Perché?»
«Perché? Perché al mondo c'è qualcosa di più della dannata Drogheda, maledizione! Quel posto mi
fa impazzire!»
Meggie sospirò. «Verrà un momento in cui anelerai a tornarci.»
«E questo vale anche per Dane?»
Silenzio. Senza guardare sua figlia, Meggie tolse la borsetta dal tavolo. «Arriveremo in ritardo.
Madame Rocher ha detto alle due. Se vuoi i vestiti prima di imbarcarti, faremo bene ad affrettarci.»
«Toccata!» disse Justine, e sorrise.
«Come mai, Justine, non mi hai presentato nessuno dei tuoi amici? Non ho veduto anima viva, qui
ai Bothwell Gardens, tranne la signora Devine» disse Meggie, mentre sedevano nel salon di
Madame Rocher e guardavano le languide mannequin sfilare pavoneggiandosi.
«Oh, sono un po' timidi... Quel completino arancione mi piace, a te no?»
«Non va con i tuoi capelli. Scegli il grigio.»
«Puah! Secondo me l'arancione si accompagna perfettamente con i miei capelli. In grigio, sembro
qualcosa che il gatto abbia trascinato qua e là, sporca di terra e mezzo putrida. Sii à la page, Ma'. Le
rosse non devono mai farsi vedere in bianco, grigio, nero, verde-smeraldo, o quel colore orribile che
piace tanto a te... com'è che si chiama, cenere di rose? È vittoriano!»
«Il nome del colore l'hai azzeccato» disse Meggie. Poi si voltò a guardare sua figlia. «Sei un
mostro» disse, ma in tono affettuoso.
Justine non le badò affatto, non era la prima volta che se lo sentiva dire. «Prenderò quello
arancione, lo scarlatto, lo stampato viola, il verde-muschio, il color borgogna...»
Meggie era dibattuta tra l'ilarità e la rabbia. Che cosa si poteva fare con una figlia come Justine?
L'Himalaya salpò dal Darling Harbor tre giorni dopo. Era un vecchio e bel piroscafo, con la chiglia
piatta e un'ottima tenuta di mare. Costruito ai tempi in cui nessuno smaniava per la fretta e tutti si
rassegnavano al fatto che l'Inghilterra distava quattro settimane via Suez, o cinque settimane via
Capo di Buona Speranza. Ormai, anche i transatlantici erano aerodinamici, avevano scafi disegnati
come quelli dei cacciatorpediniere, per arrivare più in fretta. Ma le loro conseguenze su uno
stomaco sensibile sgomentavano anche un vecchio lupo di mare.
«Com'è divertente!» rise Justine. «Abbiamo un'intera splendida squadra di calcio in prima classe,
per cui la traversata non sarà noiosa come temevo. Alcuni di quei giocatori sono superlativi.»
«Sei contenta, adesso, che io abbia insistito affinché viaggiassi in prima classe?»
«Presumo di sì.»
«Justine, tu hai il dono di fare affiorare il peggio in me, è sempre stato così» scattò Meggie,
perdendo la pazienza a causa di quella che le sembrava ingratitudine. Non avrebbe potuto, il piccolo
mostro, almeno per una volta, fingere di essere dispiaciuta di partire? «Cocciuta, testarda, egoista!
Mi esasperi.»
Per un momento Justine non rispose, ma voltò la testa dall'altra parte, come se, più che a quanto
stava dicendo sua madre, fosse interessata al fatto che la campana di bordo stava avvertendo tutti i
non-passeggeri di scendere a terra. Affondò i denti nel labbro inferiore per evitare che tremasse, poi
incurvò la bocca in uno smagliante sorriso. «Lo so che ti esaspero» disse allegramente, voltandosi
di nuovo verso la madre. «Non importa, siamo quello che siamo. Come tu dici sempre, ho preso da
papà.»
Si abbracciarono imbarazzate prima che Meggie si insinuasse quasi con sollievo tra la folla che si
incanalava verso la passerella, e scomparisse. Justine salì sul ponte-passeggiata e si appoggiò al
parapetto con rotoli di stelle filanti nelle mani. Molto più in basso, sul molo, scorse la figuretta con
il vestito rosa-grigio e il cappello dirigersi verso il punto stabilito e rimanere là in piedi facendosi
schermo agli occhi con una mano. Buffo, anche da quella distanza si capiva che Ma' si stava ormai
avvicinando alla cinquantina. Mancava ancora qualche anno, eppure lo si capiva dall'atteggiamento.
Salutarono entrambe con la mano nello stesso momento, poi Justine lanciò la prima delle sue stelle
filanti e Meggie ne afferrò con destrezza l'estremità. Una stella filante rossa, una blu, una gialla, una
rosa, una verde, una arancione; formarono lunghe spirali, srotolandosi e srotolandosi, tese dalla
brezza.
Una banda di cornamuse era venuta a salutare la squadra di calcio, e, i gonnellini gonfiati dal vento,
faceva sventolare bandiere, suonando una bizzarra trascrizione di Questa è l'ora. La gente si
assiepava ai parapetti della nave, spenzolandosi, tenendo disperatamente le estremità delle sottili
stelle filanti; sul molo, centinaia di persone allungavano il collo verso l'alto, contemplando
avidamente le facce di coloro che andavano così lontano, per la massima parte facce giovanili,
desiderose di vedere come fosse realmente il perno della civiltà al lato opposto del mondo.
Avrebbero vissuto laggiù, lavorato laggiù, per tornare forse di lì a due anni, o forse per non tornare
affatto. E tutti lo sapevano, o se lo domandavano.
Il cielo azzurro era ovattato qua e là da nubi di un bianco-argento e soffiava il vento impetuoso di
Sydney. Il sole riscaldava le facce voltate verso l'alto e le spalle di quelli che guardavano in giù; una
gran fascia di nastri multicolori e vibranti collegava nave e terra. Poi, a un tratto, tra la fiancata del
piroscafo e il molo si aprì un varco; l'aria si riempì di grida e di singhiozzi, e, a una a una, le
migliaia di stelle filanti si spezzarono, fluttuarono frenetiche, caddero afflosciandosi e resero la
superficie dell'acqua simile a un telaio lacerato unendosi alle bucce d'arance e alle meduse, per
essere spinte alla deriva.
Justine rimase ostinatamente al suo posto contro il parapetto, finché il molo non si fu ridotto a
poche linee rette e a minuscole capocchie di spillo rosa; i rimorchiatori misero l'Himalaya con la
prua al mare, lo rimorchiarono inerte sotto le campate tonanti del ponte del porto di Sydney e più
fuori, sulla corrente principale di quella smagliante distesa d'acqua fulgida di sole.
Non era come andare a Manly col traghetto, sebbene seguissero lo stesso itinerario al di là di
Neutral Bay, e di Rose Bay e di Cremorne e Vaucluse; no. Poiché, questa volta, il piroscafo si spinse
fuori dei promontori, al di là delle scogliere crudeli e degli alti ventagli di spuma simili a pizzi,
nell'oceano. Dodicimila miglia di oceano, fino al lato opposto del mondo. E, sia che dovessero
tornare in patria o no, non sarebbero più appartenuti a nessun continente, perché avrebbero vissuto e
sperimentato due sistemi di vita diversi.
Il denaro, scoprì Justine, faceva di Londra una città quando mai allettante. Non era per lei l'esistenza
squattrinata di chi viveva avvinghiandosi ai margini della «Valle dei Canguri», a Earl's Court —
chiamata così perché un gran numero di australiani ne faceva il suo quartier generale. Né era per lei
la tipica sorte degli australiani in Inghilterra, che stentatamente tiravano avanti negli ostelli per la
gioventù, lavorando, compensati con una elemosina, in qualche ufficio o in qualche scuola o in
qualche ospedale, e tremavano di freddo accanto a un minuscolo radiatore, in una stanza gelida e
umida. Justine aveva invece un appartamento a Kensington, vicino a Knightsbridge, con il
riscaldamento centrale; e un posto nella compagnia teatrale di Clyde Daltinham-Roberts, il Gruppo
Elisabettiano.
Quando giunse l'estate, prese il treno per Roma. Negli anni successivi avrebbe sorriso ricordando
quanto poco era riuscita a vedere durante quel lungo viaggio attraverso la Francia e l'Italia; tutti i
suoi pensieri erano occupati dalle cose che doveva dire a Dane, e dalla necessità di impararle a
mente per non dimenticarle. Erano tante che, inevitabilmente, ne avrebbe tralasciata qualcuna.
Era Dane, quello? L'uomo alto e biondo, sul marciapiede, quello era Dane? Non sembrava affatto
diverso, eppure aveva l'aria di un estraneo. Non apparteneva più al suo mondo. Il grido che era stata
sul punto di lanciare, per attrarre la sua attenzione, si spense prima di essere emesso; si spostò un
po' più indietro sul sedile per osservarlo, poiché il treno si era fermato pochi metri appena più avanti
di dove Dane, tranquillo, scrutava i finestrini con i suoi occhi azzurri. Sarebbe stata una bella
conversazione unilaterale, la loro, quando gli avesse raccontato come aveva vissuto dopo la sua
partenza, poiché ormai sapeva che in Dane non esisteva alcun desiderio di condividere le proprie
esperienze con lei. Accidenti a Dane! Non era più il suo fratellino. L'esistenza che stava conducendo
aveva ben poco a che fare sia con lei, sia con Drogheda. Oh, Dane! Che cosa si prova vivendo
qualcosa ventiquattr'ore ogni giorno?
«Ah! Stavi già pensando che ti avessi fatto venire qui per niente, eh?» disse, dopo esserglisi
avvicinata silenziosamente alle spalle.
Egli si voltò, le strinse entrambe le mani e la contemplò dall'alto della sua statura, sorridendo.
«Sciocchina» disse affettuosamente, prendendo la più grande delle valigie, e offrendole il braccio
libero. «È bello vederti» soggiunse, mentre l'aiutava a salire sulla Lagonda rossa con la quale
andava dappertutto; Dane era sempre stato fanatico per le automobili sportive e ne aveva posseduta
una non appena in età di prendere la patente.
«È bello anche vedere te. Spero che tu mi abbia trovato un albergo simpatico, perché pensavo sul
serio quello che ti ho scritto. Mi rifiuto di essere confinata in una cella del Vaticano, tra un mucchio
di celibi.» Rise.
«Non ti vorrebbero, con quei capelli demoniaci. Ti ho prenotato una camera in una piccola pensione
non lontano da me, ma parlano l'inglese, quindi non dovrai preoccuparti anche se non ci sarò. E non
è un problema girare per Roma parlando l'inglese; di solito c'è sempre qualcuno che lo sa parlare.»
«In tempi come questi, vorrei avere il tuo dono per le lingue straniere. Ma me la caverò; sono molto
brava come mima e nelle sciarade.»
«Ho due mesi di vacanza, Jussy, non è fantastico? Potremo dare un'occhiata alla Francia e alla
Spagna, e ci rimarrà ancora un mese da dedicare a Drogheda. Mi manca, la vecchia casa.»
«Davvero?» Si voltò a guardarlo, osservò le bellissime mani, che con perizia guidavano
l'automobile nel pazzesco traffico romano. «A me non manca affatto; Londra è troppo interessante.»
«Non riesci a ingannarmi» egli disse. «So bene quanto contano per te Drogheda e Ma'.»
Justine strinse le mani in grembo, ma non gli rispose.
«Ti spiacerebbe prendere il tè con dei miei amici, questo pomeriggio?» le domandò, quando furono
arrivati. «Ho peccato un po' di presunzione accettando a nome tuo. Ci tengono tanto a conoscerti, e
siccome io non sarò un uomo libero fino a domani, mi spiaceva dire di no.»
«Stupido! Perché dovrebbe dispiacermi? Se fossimo a Londra, ti inonderei con i miei amici; perché
tu non dovresti fare altrettanto? Sono lieta che tu mi consenta di conoscere i tuoi compagni di
seminario, sebbene sia un pochino sleale nei miei riguardi, no? Giù le mani da tutti loro.»
Si avvicinò alla finestra e guardò, in basso, una misera piazzetta con due stanchi platani nel
quadrilatero selciato, tre tavolini sotto i platani e, da un lato, una chiesa priva di qualsiasi grazia o
bellezza architettonica.
«Dane...»
«Dimmi.»
«Capisco, sai, davvero.»
«Sì, lo so.» Il sorriso gli scomparve dalla faccia. «Vorrei che capisse anche Ma', Jus.»
«Ma' è diversa. Le sembra che tu l'abbia abbandonata, e non si rende conto che non è vero. Ma non
stare a crucciarti a causa sua. Prima o poi capirà.»
«Lo spero.» Dane rise. «A proposito, non sono i miei compagni di seminario quelli che conoscerai
oggi. Non sottoporrei mai loro o te a una simile tentazione. Si tratta del Cardinale de Bricassart. So
che non ti piace, ma promettimi che starai buona.»
Gli occhi le si illuminarono, colmi di un fascino singolare. «Te lo prometto! Bacerò persino l'anello
che mi verrà offerto.»
«Oh, te ne ricordi! Mi arrabbiai tanto con te, quel giorno! Avermi svergognato in sua presenza!»
«Be', dopo di allora ho baciato un gran numero di cose meno igieniche di un anello. C'è un
giovincello orribile e foruncoloso, al corso di recitazione, che ha l'alito cattivo, le tonsille marce e lo
stomaco putrido, eppure, ho dovuto baciarlo complessivamente ventinove volte. E posso assicurarti,
camerata, che dopo di lui niente è impossibile.» Si aggiustò i capelli, e si voltò dallo specchio. «Ho
il tempo di cambiarmi?»
«Oh, non preoccuparti per questo. Stai benissimo così.»
«Chi altri ci sarà?»
Il sole era troppo basso per riscaldare l'antica piazza, e le macchie di muffa sui tronchi dei platani li
facevano apparire logori, malati. Justine rabbrividì.
«Ci sarà il Cardinale Contini-Verchese.»
Aveva già sentito quel nome e spalancò gli occhi un po' di più. «Perdinci! Frequenti ambienti molto
altolocati, eh?»
«Sì. Cerco di meritarmelo.»
«Questo significa che altre persone ti mettono a dura prova in altri aspetti della tua vita, qui, Dane?»
gli domandò lei, scaltra.
«No, non proprio. Le conoscenze non hanno importanza. Io non ci penso mai, e non ci pensano
nemmeno gli altri.»
La stanza, gli uomini in scarlatto! Mai, in tutta la sua vita, Justine era stata così consapevole della
superfluità delle donne nell'esistenza di certi uomini come nel momento in cui entrò in un mondo
nel quale le donne non avevano semplicemente alcun posto, se non come umili suore, e per servire.
Indossava ancora il vestito di lino verde-oliva che si era messa dopo la partenza da Torino, alquanto
spiegazzato dal viaggio in treno, e si fece avanti sul soffice tappeto cremisi imprecando entro di sé
contro la fretta di Dane di precipitarsi lì, e furiosa per non avere insistito che le lasciasse il tempo di
indossare qualcosa di meno gualcito.
Il Cardinale de Bricassart era in piedi e sorrideva; che splendido vecchio.
«Mia cara Justine» disse, tendendo la mano e l'anello con un'espressione dispettosa, che lasciò
capire quanto bene ricordasse l'ultima volta, e frugandole il viso in cerca di qualcosa che lei non
capì. «Non somigli affatto a tua madre.»
Genuflettiti, bacia l'anello, sorridi umilmente, alzati, sorridi meno umilmente. «No, non le somiglio,
vero? Mi avrebbe fatto comodo, la sua bellezza, nella professione che ho scelto, ma sulla scena
riesco a cavarmela ugualmente. Perché recitare non ha niente a che vedere con la faccia com'è in
realtà, sa. L'importante è come, con la propria arte, si riesce a persuadere la gente che sia la faccia.»
Una risatina asciutta giunse da una poltrona; una volta di più, avanzò sul tappeto per baciare l'anello
su una mano sfatta di vecchio, ma, questa volta, alzando gli occhi, scorse occhi neri, e, strano a
dirsi, vide in essi affetto. Affetto per lei, per una persona che il Cardinale non aveva mai veduto e
che quasi non aveva mai sentito nominare. Eppure l'affetto c'era. Il Cardinale de Bricassart non le
piaceva più di quanto le fosse piaciuto a quindici anni, ma provò tenerezza per questo vecchio.
«Si accomodi, mia cara» disse il Cardinale Vittorio, indicando con la mano la poltrona accanto a sé.
«Ciao, micia» disse Justine, solleticando la gatta blu-grigia sul grembo scarlatto. «È bella, no?»
«Lo è davvero.»
«Come si chiama?»
«Natascia.»
La porta si aprì, ma non per far passare il carrello del tè. Un uomo, grazie al Cielo vestito come un
laico; un'altra tonaca rossa, pensò Justine, e muggirei come un toro.
Ma non si trattava di un uomo comune anche se era un laico. Probabilmente esisteva una piccola
norma, in Vaticano, continuò a pensare la mente ribelle di Justine, che vietava specificamente
l'ingresso agli uomini comuni. Non precisamente basso di statura, il nuovo arrivato aveva una
corporatura così robusta da farlo sembrare più tarchiato di quanto fosse, con spalle massicce, un
torace enorme, una grossa testa leonina, e lunghe braccia come quelle di un tosatore. Scimmiesco, a
parte il fatto che trasudava intelligenza e si muoveva con l'andatura di uno capace di ghermire
qualsiasi cosa volesse, con una fulmineità tale da impedire alla mente di accorgersene. Ghermirla e
magari schiacciarla, mai però senza uno scopo, irriflessivamente, ma con una squisita
premeditazione. Era bruno, ma la sua folta zazzera aveva esattamente lo stesso colore della paglietta
di ferro e anche, in gran parte, la stessa consistenza.
«Rainer, è arrivato giusto in tempo» disse il Cardinale Vittorio, additando la poltrona all'altro lato, e
parlando sempre in inglese. «Mia cara» continuò, rivolgendosi a Justine, mentre l'uomo, dopo aver
baciato l'anello, si rialzava, «mi consenta di presentarle un ottimo amico, Herr Rainer Moerling
Hartheim. Rainer, questa è la sorella di Dane, Justine.»
L'uomo si inchinò, battendo i tacchi puntigliosamente, le rivolse un sorriso fuggevole, privo di ogni
cordialità, e sedette, un po' troppo di lato perché lei potesse vederlo. Justine sospirò di sollievo,
specie quando vide che Dane, con la disinvoltura dell'abitudine, si era seduto sul pavimento accanto
alla poltrona del Cardinale Ralph, proprio al centro della sua visuale. Finché avesse potuto vedere
qualcuno che conosceva e che amava molto, si sarebbe sentita tranquilla. Ma l'ambiente e gli
uomini in scarlatto, e ora quell'uomo bruno, stavano cominciando a irritarla più di quanto la
presenza di Dane la calmasse; ed era offesa a causa del modo con il quale la escludevano. Per
conseguenza, si sporse da un lato e di nuovo solleticò la gatta, conscia del fatto che il Cardinale
Vittorio intuiva le sue reazioni e ne era divertito.
«È stata sterilizzata?» domandò.
«Certo.»
«Già, certo! Per quanto non riesca a capire perché lei abbia dovuto prendersi questa briga. La
semplice fissa dimora in questo posto basterebbe a neutralizzare le ovaie di chiunque.»
«All'opposto, mia cara» disse il Cardinale Vittorio, immensamente divertito. «Siamo noi uomini ad
avere psicologicamente neutralizzato noi stessi.»
«Mi permetto di non essere del suo parere, Eminenza.»
«Sicché, il nostro piccolo mondo provoca la sua ostilità?»
«Be', diciamo che mi sento un pochino superflua, Eminenza. È un mondo bellissimo da visitare, ma
non vorrei mai vivere qui.»
«Non posso biasimarla. E dubito addirittura che le piaccia visitarlo. Ma si abituerà a noi, poiché
dovrà venire spesso a farci visita, la prego.»
Justine sorrise. «Non sopporto di dovermi comportare come meglio so» confidò. «Questo fa
affiorare tutti i miei lati peggiori... anche senza guardarlo, sento come sta inorridendo Dane.»
«Mi stavo per l'appunto domandando quanto tempo avrebbe resistito» disse Dane, per nulla
sconcertato. «Basta grattare Justine in superficie e si trova una ribelle. Ecco perché è una sorella
tanto preziosa. Io non sono un ribelle, ma i ribelli li ammiro molto.»
Herr Hartheim spostò la poltrona in modo da poter vedere Justine anche quando smise di giocare
con la gatta e si raddrizzò. In quel momento, la bella bestiola si era stancata della mano
dall'inconsueto profumo femminile; senza alzarsi, strisciò delicatamente dal grembo rosso al
grembo grigio, raggomitolandosi sotto le mani forti e quadrate di Herr Hartheim, e facendo le fusa
così sonoramente che tutti risero.
«Scusatemi se vivo» disse Justine, che non era aliena da una buona battuta, anche essendone la
vittima.
«Il suo motorino funziona bene come sempre» disse Herr Hartheim, e l'espressione divertita causò
mutamenti affascinanti sulla faccia di lui. Parlava così bene l'inglese da non avere quasi alcun
accento, tranne inflessioni americane; arrotava le «r».
Il tè venne servito prima che tutti si fossero ricomposti e, strano a dirsi, fu Herr Hartheim a versarlo,
porgendo la tazza a Justine con un'espressione molto più amichevole di quella che aveva avuto al
momento delle presentazioni.
«In una comunità inglese» le disse «il tè pomeridiano è il momento di distensione più importante
della giornata. Accadono molte cose, sorseggiando il tè, non è vero? Perché, presumo, per la sua
stessa natura, può essere chiesto e preso in qualsiasi momento, si può dire, tra le due e le cinque e
mezzo, e conversare fa venir sete.»
La mezz'ora che seguì parve comprovare la sua tesi, anche se Justine non partecipò alla
conversazione. Il discorso passò dalle precarie condizioni di salute del Santo Padre alla guerra
fredda, poi alla crisi economica; tutti e quattro gli uomini parlavano e ascoltavano con una vivacità
che Justine trovò interessantissima, mentre, brancolando, cominciava a valutare le doti comuni a
tutti loro, anche a Dane, che sembrava così diverso, quasi uno sconosciuto. Dane partecipava
attivamente alla discussione, e a Justine non sfuggì che i tre uomini più anziani lo ascoltavano con
una curiosa umiltà, quasi egli ispirasse loro un timore reverenziale. I suoi commenti non erano né
disinformati, né ingenui, ma diversi dagli altri, originali, sacri. Era per quella sua «santità» che lo
ascoltavano così seriamente? Perché lui la possedeva e loro no? Si trattava davvero di una virtù che
ammiravano, e che anelavano a possedere essi stessi? Era così rara? Tre uomini così enormemente
differenti l'uno dall'altro, eppure di gran lunga più strettamente uniti di quanto uno qualsiasi di loro
lo fosse con Dane. Quanto era difficile prendere Dane sul serio come facevano loro! Non che, sotto
molti aspetti, egli non si fosse sempre comportato come un fratello maggiore, anziché come un
fratellino minore; non che lei non fosse conscia della sua saggezza, della sua intelligenza o della sua
santità. Ma, fino a quel momento, egli aveva fatto parte del suo mondo. E si era abituata al fatto che
Dane non fosse niente di più.
«Se desidera tornare subito alle sue devozioni, Dane, accompagnerò io sua sorella all'albergo»
ordinò, praticamente, Herr Rainer Moerling Hartheim, senza preoccuparsi di accertare i desideri di
nessuno al riguardo.
E così, Justine si sorprese a scendere, con la lingua inceppata, gli scaloni di marmo in compagnia di
quell'uomo tozzo e formidabile. Fuori, nel giallo splendore di un tramonto romano, egli le mise la
mano sotto il gomito e la guidò verso una Mercedes nera, il cui autista si mise sull'attenti.
«Venga, non vorrà trascorrere in solitudine la sua prima serata a Roma, e Dane è occupato
altrimenti» disse, seguendola sull'automobile. «È stanca e smarrita ed è meglio che non stia sola.»
«Sembra che lei non mi lasci alcuna possibilità di scelta, Herr Hartheim.»
«Preferirei che mi chiamasse Rainer.»
«Dev'essere un uomo importante, per avere una macchina così lussuosa e un autista personale.»
«Sarò ancora più importante quando diventerò cancelliere della Germania Ovest.»
Justine sbuffò. «Mi stupisce che non lo sia già.»
«Impudente! Sono troppo giovane.»
«Davvero?» Si voltò per osservarlo più attentamente, e scoprì che la sua pelle bruna era liscia,
giovanile, e che gli occhi profondamente infossati non erano circondati dalle pieghe carnose dell'età
matura.
«Sono tarchiato e ho i capelli brizzolati, ma mi sono diventati grigi sin dai sedici anni, e mi sono
appesantito non appena ho avuto abbastanza da mangiare. Adesso ho appena trentun anni.»
«Le crederò sulla parola» disse lei, e si liberò delle scarpe scalciando. «Ma è pur sempre anziano
per me... io ho appena ventun anni.»
«Lei è un mostro» disse Hartheim sorridendo.
«Credo di esserlo davvero. Mia madre dice la stessa cosa. Soltanto, non so bene che cosa intendiate
tutti e due con "mostro", e perciò mi dica qual è la sua versione, per favore.»
«Conosce già la versione di sua madre?»
«Se gliela chiedessi, sarebbe infernalmente imbarazzata.»
«E non crede di mettere in imbarazzo me?»
«Sospetto fortemente, Herr Hartheim, che anche lei sia un mostro, per cui dubito che qualsiasi cosa
possa imbarazzarla.»
«Un mostro» egli ripeté, bisbigliando. «Benissimo, allora, Miss O'Neill, cercherò di definirle il
significato del termine. Qualcuno che terrorizza gli altri; che calpesta la gente; che si sente così
forte da poter essere sconfitto soltanto da Dio; che non ha scrupoli di sorta e pochi princìpi morali.»
Justine ridacchiò. «La sua descrizione mi sembra terribile. Io ho princìpi morali e scrupoli. Sono la
sorella di Dane.»
«Non gli somiglia minimamente.»
«Peggio ancora.»
«La sua faccia non si armonizzerebbe con la sua personalità.»
«Ha indubbiamente ragione; ma, con la sua faccia, forse avrei avuto una personalità diversa.»
«Tutto dipende da che cosa viene prima, no? La gallina o l'uovo? Si rimetta le scarpe; ora
passeggeremo.»
Faceva caldo, e cominciava a scendere l'oscurità; ma le luci erano vivide, la gente sembrava non
curarsi di dove stesse andando, e le vie erano piene zeppe di rimbombanti motoscooter, di
minuscole Fiat aggressive, di automobiline che sembravano orde di ranocchie prese dal panico.
Infine, egli si fermò in una piazzetta, il cui acciottolato era stato consumato e reso liscio dai piedi di
molti secoli, e condusse Justine in un ristorante.
«A meno che non preferisca all'aperto?»
«Purché mi dia da mangiare, non mi importa molto se sarà dentro, o fuori, o in un punto
intermedio.»
«Posso ordinare io per lei?»
Le palpebre batterono sugli occhi scialbi, un po' stancamente, forse; ma in Justine c'era ancora
combattività. «Non so se mi va a genio tutta questa tirannica faccenda del maschio-padrone» disse.
«In fin dei conti, come può sapere quello che mi va?»
«Suor Anna fa sventolare la bandiera» mormorò lui. «Mi dica che cosa preferisce, allora, e le
garantisco che la soddisferò. Pesce? Vitello?»
«Un compromesso? E sta bene, le verrò incontro a metà strada, allora. Prenderò del pâté, un po' di
scampi e un piatto enorme di saltimbocca; poi una cassata e un caffè macchiato. Manovri con queste
indicazioni, se può.»
«Dovrei schiaffeggiarla» disse lui, ma non perse il suo buon umore. Diede l'ordine al cameriere,
esattamente come lei aveva chiesto, ma in un rapido italiano.
«Ha detto che non somiglio minimamente a Dane. Non lo ricordo proprio in nessun modo?»
domandò Justine, un po' pateticamente, sorseggiando il caffè, troppo affamata per poter conversare
durante la cena.
Egli accese la sigaretta a lei, accese la propria, poi si reclinò nell'ombra per osservarla in silenzio,
ripensando al suo primo incontro col ragazzo, mesi prima. Il Cardinale de Bricassart con
quarant'anni in meno; lo aveva notato immediatamente, e poi gli era stato detto che erano zio e
nipote, che la madre del ragazzo e della ragazza era la sorella di Ralph de Bricassart.
«Una somiglianza c'è, sì» disse. «A volte anche del viso. Espressioni, molto più che lineamenti.
Intorno agli occhi e alla bocca, e nel modo che avete entrambi di tenere gli occhi aperti e la bocca
chiusa. Strano a dirsi, non sono somiglianze che condividiate con vostro zio il Cardinale.»
«Nostro zio il Cardinale?» ripeté lei, inespressiva.
«Il Cardinale de Bricassart. Non è suo zio? Sono certo che così mi è stato detto.»
«Quel vecchio avvoltoio? Non è affatto nostro parente, grazie al Cielo. Era il nostro parroco tanti
anni fa, molto tempo prima che io nascessi.»
Era molto intelligente; ma anche molto stanca. Povera ragazzetta... poiché non era altro che questo,
una ragazzetta. I dieci anni di differenza tra loro si spalancavano come se fossero stati cento.
Sospettare, avrebbe fatto crollare in rovina il suo mondo, ed era così prode nel difenderlo!
Probabilmente si sarebbe rifiutata di credere, anche se la verità le fosse stata detta apertamente.
Come far sembrare la cosa priva d'importanza? Non insistere al riguardo, no di certo, ma nemmeno
lasciar cadere immediatamente il discorso.
«Oh, allora si spiega» egli disse, con noncuranza.
«Si spiega che cosa?»
«Il fatto che la somiglianza di Dane con il Cardinale sia soltanto generica... la statura, la carnagione,
la struttura fisica.»
«Oh! La nonna mi ha detto che nostro padre somigliava alquanto al Cardinale» disse Justine,
serena.
«Non ha mai veduto suo padre?»
«Nemmeno una fotografia. Lui e Ma' si separarono definitivamente prima che Dane nascesse.» Fece
cenno al cameriere. «Vorrei un altro caffè macchiato, per favore.»
«Justine, lei è una selvaggia! Lasci che ordini io!»
«No, maledizione, non voglio! Sono perfettamente capace di pensare per conto mio, e non ho
bisogno che un dannato uomo mi dica continuamente che cosa voglio e quando lo voglio, ha
capito?»
«Basta grattare in superficie e si trova una ribelle; così ha detto Dane.»
«Ha ragione. Oh, se sapesse quanto odio essere coccolata e vezzeggiata e viziata! Mi piace agire per
conto mio, e non voglio sentirmi dire quello che devo fare! Non chiedo grazia, ma nemmeno la
concedo.»
«Lo vedo bene» disse lui, asciutto. «Come mai è così, Herzchen? Si tratta di una caratteristica della
famiglia?»
«Della famiglia? Francamente non lo so. Non ci sono abbastanza donne per poterlo dire, presumo.
Soltanto una per generazione. La nonna, e Ma' e me. Mucchi di maschi, però.»
«Ma nella sua generazione non ci sono mucchi di maschi. Soltanto Dane.»
«Questo è dovuto al fatto che Ma' lasciò mio padre, immagino. Sembra che nessun altro uomo sia
mai riuscito a interessarla. Un peccato, secondo me. Ma' è una vera donna di casa; le sarebbe
piaciuto avere un marito da coccolare.»
«Le somiglia?»
«Non credo.»
«Quel che più conta, vi piacete a vicenda?»
«Ma' e io?» Sorrise senza rancore, né più né meno come avrebbe fatto sua madre qualora qualcuno
le avesse domandato se sua figlia le piacesse. «Non so bene se ci apprezziamo a vicenda, ma
qualcosa c'è. Forse si tratta di un semplice legame biologico; non saprei.» Le splendettero gli occhi.
«Ho sempre desiderato che mi parlasse come parla con Dane, e ho sempre voluto andare d'accordo
con lei come Dane. Ma, o manca qualcosa in lei, o manca qualcosa in me. In me, direi. Ma' è una
donna di gran lunga migliore di quanto lo sia io.»
«Non l'ho conosciuta, e pertanto non posso approvare il suo giudizio, o dissentire. Se la cosa può in
qualche modo consolarla, Herzchen, lei mi piace esattamente com'è. No, non cambierei proprio
niente, nemmeno la sua ridicola combattività.»
«È davvero gentile da parte sua. E dopo che l'ho insultata, oltretutto. Non sono affatto come Dane,
vero?»
«Non esiste nessuno al mondo che sia come Dane.»
«Vuol dire, con questo, che egli non è di questo mondo?»
«Sì, forse.» Si sporse in avanti, emergendo dall'ombra ed entrando nel fioco alone di luce della
piccola candela infilata nel fiasco di Chianti. «Sono cattolico, e la religione è stata la sola cosa che
non mi sia mai venuta meno nella vita, sebbene io le sia venuto meno molte volte. Non mi piace
parlare di Dane, perché il cuore mi dice che di certe cose è preferibile tacere. Senz'altro, lei non gli
somiglia per quanto concerne l'atteggiamento nei confronti della vita, o di Dio. Lasciamo stare, va
bene?»
Lo guardò incuriosita. «Va bene, Rainer, se lo desidera. Farò un patto con lei... di qualsiasi cosa
potremo parlare, non si tratterà della natura di Dane, né di religione.»
Molte cose erano accadute a Rainer Moerling Hartheim dopo l'incontro con Ralph de Bricassart, nel
luglio del 1943. Una settimana dopo, il suo reggimento era stato trasferito sul Fronte Orientale e là
era rimasto fino al termine della guerra. Dibattuto e disorientato, troppo giovane per poter essere
stato indottrinato dalla Hitler Jugend nei piacevoli anni pre-bellici, aveva affrontato le conseguenze
della follia di Hitler su metri di neve, senza munizioni, mentre la linea del fronte si assottigliava a
tal punto che esisteva un solo soldato ogni cento metri. E della guerra aveva portato con sé due
ricordi: quell'atroce campagna militare in un grido spaventoso, e il volto di Ralph de Bricassart.
Orrore e bellezza, il demonio e Dio. Quasi impazzito, quasi congelato, indifeso, in attesa che i
guerriglieri di Krusciov si lanciassero sui cumuli di neve senza paracadute da aerei che volavano a
bassissima quota, si era battuto il petto, pregando. Ma non sapeva per che cosa pregasse: se per
avere munizioni con cui caricare il fucile, se per sottrarsi ai russi, o per la propria anima immortale,
o per l'uomo incontrato nella basilica, o per la Germania, o per soffrire meno.
Nella primavera del 1945 si era ritirato di fronte ai russi attraverso la Polonia, come i suoi camerati,
con un solo scopo: arrivare nella Germania occupata dagli inglesi o dagli americani. Poiché, se i
russi lo avessero fatto prigioniero, sarebbe stato fucilato. Strappò i documenti e li bruciò, seppellì le
due Croci di Ferro con le quali era stato decorato, rubò alcuni indumenti e si presentò alle autorità
inglesi sul confine danese. Lo mandarono in un campo di profughi nel Belgio. Là, per un anno,
visse di pane e farina d'avena, tutto ciò con cui gli spossati inglesi potevano permettersi di sfamare
le migliaia e migliaia di persone loro affidate, in attesa che l'Inghilterra si rendesse conto dell'unica
soluzione possibile: liberarle tutte.
Per due volte i funzionari del campo l'avevano convocato, presentandogli un ultimatum. C'era un
piroscafo, nel porto di Ostenda, che imbarcava persone disposte a emigrare in Australia. Gli
sarebbero stati dati nuovi documenti e sarebbe stato portato gratuitamente nel nuovo paese; in
cambio avrebbe lavorato due anni per il governo australiano, facendo qualsiasi cosa gli avessero
richiesto, dopodiché sarebbe stato completamente libero di se stesso. Non un lavoro da schiavo: lo
avrebbero pagato secondo le tariffe in vigore, naturalmente. Ma, in entrambe le occasioni egli era
riuscito, con argomenti persuasivi, a sottrarsi a quell'emigrazione forzata. Aveva odiato Hitler, non
la Germania, e non si vergognava di essere tedesco. La Germania era la sua patria; e l'aveva sognata
per tre anni. La sola idea di finire di nuovo in un paese ove nessuno parlava la sua lingua, né lui
quella del posto, gli sembrava una maledizione. E così, all'inizio del 1947, si trovò senza il becco di
un quattrino nelle vie di Aquisgrana, pronto a rimettere insieme i frammenti di un'esistenza che
sapeva di volere a tutti i costi.
Lui e il suo spirito erano sopravvissuti, ma non per tornare alla miseria e all'oscurità. Rainer era
infatti qualcosa di più di un uomo molto ambizioso: era un uomo di genio. Trovò lavoro alla
Grundig e studiò la scienza che lo aveva affascinato sin da quando era venuto a conoscenza del
radar: l'elettronica. Mille idee brulicavano nella sua mente, ma egli si rifiutò di cederle alla Grundig
per una milionesima parte del loro valore. Studiò invece accuratamente il mercato, poi sposò la
vedova di un uomo che era riuscito a mandare avanti un paio di piccole fabbriche di apparecchi
radio, e si mise in affari per proprio conto. Il fatto che avesse poco più di vent'anni non contava. La
sua intelligenza aveva tutte le caratteristiche di quella di un uomo molto più anziano e il caos della
Germania post-bellica offriva ai giovani molte possibilità.
Poiché si era sposato soltanto in municipio, ottenne il divorzio; nel 1951, versò ad Annelise
Hartheim esattamente il doppio di quanto valevano le due fabbriche del primo marito di lei, e fece
proprio questo: divorziò. Ma non si riammogliò.
Ciò che era accaduto al ragazzo nel gelido terrore della pianura russa non ne aveva fatto un uomo
senz'anima; aveva piuttosto bloccato la crescita di quanto esisteva in lui di tenero e di dolce,
ponendo in risalto altre doti che egli possedeva... intelligenza, spietatezza, decisione. Un uomo che
non ha niente da perdere ha tutto da guadagnare, e un uomo senza sentimenti non può essere ferito.
O così egli diceva a se stesso. In realtà, era stranamente simile all'uomo che aveva conosciuto a
Roma nel 1943; come Ralph de Bricassart, si rendeva conto di fare il male nel momento stesso in
cui lo faceva. Non che la consapevolezza del male esistente in lui potesse fermarlo, sia pur soltanto
per un secondo; ma pagava i propri progressi materiali con sofferenze e tormenti. Molte persone
non avrebbero ritenuto che quei progressi valessero il loro prezzo, ma per lui valevano due volte le
sofferenze. Un giorno avrebbe governato la Germania, creandola come l'aveva sognata, avrebbe
modificato l'etica ariano-luterana, foggiandone una più liberale. Siccome non poteva promettere che
avrebbe smesso di peccare, l'assoluzione gli venne rifiutata più volte in confessionale, ma, in
qualche modo, lui e la sua religione riuscirono ugualmente a uscirne senza danni, finché denaro e
potere gli permisero di riuscire a sentire il rimorso; allora poté presentarsi pentito ed essere assolto.
Nel 1955, ormai uno degli uomini più ricchi e potenti della nuova Germania Ovest, e una faccia
nuova nel Parlamento di Bonn, Rainer tornò a Roma. Per cercarvi il Cardinale de Bricassart e
mostrargli il risultato finale delle sue preghiere. Come avesse immaginato che potesse essere
quell'incontro non riusciva più a ricordarlo, poiché, dal principio alla fine, fu conscio di una sola
cosa: Ralph de Bricassart era deluso di lui. Si era reso conto del perché, e non aveva avuto bisogno
di domandarlo. Ma non si era aspettato la frase conclusiva del Cardinale:
«Avevo pregato affinché divenisse migliore di me, dato che era così giovane. Nessun fine giustifica
qualsiasi mezzo. Ma presumo che i semi della nostra rovina siano gettati prima che veniamo al
mondo.»
Tornato nella sua camera d'albergo, Rainer pianse, ma si calmò dopo qualche tempo e pensò: quello
che è stato è stato, per l'avvenire sarò come egli sperava. E talora vi riuscì, talora fallì. Ma tentò. La
sua amicizia con gli uomini del Vaticano divenne per lui il bene terreno più prezioso della vita, e
Roma il luogo in cui si rifugiava quando soltanto il loro conforto sembrava frapporsi tra lui e la
disperazione. Conforto. Era un conforto di una strana specie, il loro. Non l'imposizione delle mani,
o parole affettuose. Un balsamo che scaturiva dall'anima, piuttosto, come se capissero la sua
sofferenza.
E, passeggiando nella tiepida notte romana, dopo aver accompagnato Justine alla pensione, Rainer
si disse ora che non avrebbe mai smesso di esserle grato. Poiché, mentre la osservava affrontare il
cimento dell'incontro di quel pomeriggio, aveva sentito agitarsi in sé la tenerezza. Sanguinante, ma
indomito, il piccolo mostro. Poteva tener loro testa in tutto e per tutto, se ne rendevano conto? Egli
provava per lei, si disse, quel che avrebbe potuto provare per una figlia della quale fosse stato
orgoglioso; soltanto che non aveva una figlia. Di conseguenza, si era affrettato a sottrarla a Dane e a
portarla via per osservare la reazione di lei a quello schiacciante clericalismo e al Dane che non
aveva mai veduto prima; il Dane che non era più, e mai più avrebbe potuto essere, una parte della
sua vita.
La cosa più bella del suo Dio personale, continuò a riflettere, consisteva nel fatto che Egli poteva
perdonare tutto. Poteva perdonare a Justine il suo innato ateismo, e a lui la chiusura della propria
centrale emotiva fino al momento in cui riteneva opportuno riaprirla. Soltanto per qualche tempo si
era lasciato prendere dal panico, pensando di avere smarrito la chiave per sempre. Sorrise, gettò via
la sigaretta. La chiave... Be', talora le chiavi hanno forme strane. Forse occorreva ogni spirale di
ogni ricciolo di quella testa rossa per fare incespicare gli acrobati; forse, in una stanza di uomini in
scarlatto il suo Dio gli aveva consegnato una chiave scarlatta.
Una giornata veloce, fuggita in un secondo. Ma, guardando l'orologio, vide che era ancora presto; e
sapeva che l'uomo dotato di tanto potere, in quei giorni in cui Sua Santità giaceva vicino alla morte,
sarebbe stato ancora alzato, condividendo le abitudini della sua gatta. Quei singulti spaventosi che
colmavano la piccola stanza a Castel Gandolfo, deformando la faccia scarna, pallida, ascetica;
l'uomo stava morendo, ed era un grande Papa. Qualsiasi cosa potessero dire, era un grande Papa. Se
aveva amato i tedeschi, e se ancora gli piaceva sentir parlare tedesco intorno a sé, questo poteva
forse modificare qualcosa? Non spettava a Rainer giudicarlo.
Ma, per ciò che Rainer aveva bisogno di sapere in quel momento, Castel Gandolfo non era il luogo
in cui recarsi. Su per lo scalone di marmo fino alla sala scarlatta e cremisi, invece, a parlare col
Cardinale Contini-Verchese. Che avrebbe potuto essere il futuro Papa, o forse no. Da quasi tre anni,
ormai, egli osservava quei savi e affettuosi occhi neri indugiare là ove più amavano indugiare; sì,
meglio cercare le risposte da lui che dal Cardinale de Bricassart.
«Non avrei mai creduto di sentirmi dire una cosa simile, ma, grazie a Dio, partiamo per Drogheda»
esclamò Justine, rifiutandosi di gettare una monetina nella fontana di Trevi. «Avremmo dovuto dare
un'occhiata alla Francia e alla Spagna, e invece ci troviamo ancora a Roma e io sono inutile come
un ombelico. Fratelli!»
«Hmmmm, sicché ritiene che gli ombelichi siano inutili? Socrate era dello stesso parere, ricordo»
disse Rainer.
«Socrate la pensava così? Non me ne rammento! Strano, e sì che credevo di aver letto quasi tutto
Platone, per giunta.» Si voltò per fissarlo e pensò che l'abito alla buona di un turista a Roma gli si
addiceva assai più del serio vestito che indossava per le udienze in Vaticano.
«Era assolutamente persuaso che gli ombelichi fossero inutili, in effetti. A tal punto che, per
dimostrare la propria tesi, svitò il suo e lo gettò via.»
Le labbra di lei guizzarono. «E che cosa accadde?»
«Gli scivolò di dosso la toga.»
«Ma no! Ma no!» ridacchiò Justine. «In ogni modo, non portavano la toga a quei tempi, ad Atene.
Però ho l'orribile sensazione che ci sia una morale nella sua storia.» Poi ridivenne seria. «Perché
perde tempo con me, "Rein"?»
«Testarda! Le ho già detto che il mio nome si pronuncia Rainer, non Reiner.»
«Ah, ma lei non capisce» disse Justine, contemplando cogitabonda gli scintillanti rivoletti d'acqua, e
la fontana sudicia piena di sudicie monete. «È mai stato in Australia?»
Le spalle gli trasalirono, ma non si lasciò sfuggire alcun suono. «Per due volte fui sul punto di
andarci, Herzchen, ma riuscii a evitarlo.»
«Bene, se ci fosse andato capirebbe. Lei ha un nome magico per gli australiani, quando viene
pronunciato a modo mio. Reiner. Rein. Pioggia, in inglese. La vita nel deserto.»
Stupito, egli lasciò cadere la sigaretta. «Justine, non si sta innamorando di me, per caso?»
«Che egocentrici sono gli uomini! Mi spiace molto deluderla, ma non è così.» Poi, come per
raddolcire ogni scortesia delle sue parole, mise la mano su quella di lui e strinse. «È qualcosa di
molto più bello.»
«Che cosa potrebbe essere più bello dell'innamorarsi?»
«Quasi tutto, credo. Non voglio più aver bisogno di nessuno in questo senso, mai.»
«Forse ha ragione. È senza dubbio un handicap paralizzante, se succede troppo presto. Ma che cosa
c'è di molto più bello?»
«Trovare un amico.» Gli accarezzò la mano. «Lei mi è amico, non è vero?»
«Sì.» Sorridendo, Rainer lanciò una moneta nella fontana. «Ecco! Devo averle dato un migliaio di
marchi nel corso degli anni, soltanto per essere certo che avrei continuato a sentire il calore del sud.
A volte, nei miei incubi, soffro di nuovo il freddo.»
«Dovrebbe sentire il calore del vero sud» disse Justine. «Quarantadue gradi all'ombra, ammesso che
riesca a trovare un po' d'ombra.»
«Non ci si può stupire se lei non soffre il caldo.» Rise la sua risata silenziosa, come sempre; una
eredità del passato, allorché ridere forte avrebbe potuto tentare il fato. «E il caldo spiegherebbe il
fatto che è dura come un uovo sodo.»
«Il suo inglese è scorrevole, ma americano. Sarei stata incline a pensare che lo avesse imparato in
qualche raffinata università inglese.»
«No, cominciai a impararlo da soldati che erano popolani di Londra, o scozzesi, o dei Midlands, in
un campo belga, e non ne capivo una parola, se non quando parlavo con l'uomo che me lo aveva
insegnato. Uno diceva "abaht", un altro "aboot", un altro ancora "aboat", ma tutti quanti volevano
dire "about". E così, quando tornai in Germania, andai a vedere tutti i film che potevo, e comprai i
soli dischi disponibili in inglese, quelli incisi da attori americani. Ma li ascoltai e li riascoltai
innumerevoli volte in casa, finché non parlai l'inglese quanto bastava per impararlo meglio.»
Justine si era tolta le scarpe, come sempre; stupefatto, egli l'aveva veduta camminare a piedi nudi
sui marciapiedi così ardenti da potervi far friggere un uovo, nonché su terreni sassosi.
«Cialtrona! Si rimetta le scarpe.»
«Sono australiana. Abbiamo i piedi troppo larghi perché possano star comodi nelle scarpe. Questo è
dovuto al fatto che, in realtà, in Australia non fa mai freddo; camminiamo a piedi nudi tutte le volte
che possiamo. Io posso camminare su un pascolo disseminato di lappole e togliermele dai piedi
senza sentirle» disse lei, tutta fiera. «Probabilmente, potrei camminare anche su braci ardenti.» Poi,
bruscamente, cambiò discorso. «Amava sua moglie, Rain?»
«No.»
«E lei l'amava?»
«Sì. Mi sposò soltanto per questo.»
«Povera creatura! Se ne servì e poi la gettò via.»
«Questo la delude?»
«No, non credo. L'ammiro, piuttosto, in realtà. Ma mi dispiace molto per sua moglie, e sono più che
mai decisa a non finire nella stessa padella.»
«Mi ammira?» Il suo tono di voce era stupefatto.
«Perché no? Io non cerco in lei cose che senza dubbio cercava quella donna, le pare? Mi è
simpatico, è mio amico. Sua moglie l'amava, e lei era suo marito.»
«Io credo, Herzchen» disse, un po' malinconico, «che gli uomini ambiziosi non siano molto buoni
con le loro donne.»
«Questo perché di solito si innamorano di donne che sono veri e propri scendiletto. Sì, caro, no,
caro, tutto quello che vuoi, caro, e dove ti piacerebbe metterlo?, donne di questo genere. Una vera
jella in ogni senso, dico io. Se fossi stata sua moglie, le avrei detto di andare a pisciare su una corda
tesa, ma scommetto che lei se ne guardò sempre bene, no?»
Le labbra gli vibrarono. «No, povera Annelise. Era il tipo della martire, e pertanto non disponeva di
armi così dirette, o così deliziosamente espresse. Vorrei che proiettassero film australiani, così
conoscerei anche il suo vernacolo. La parte "Sì, caro" l'ho capita, ma non ho idea di che cosa
significhi "jella".»
«Sfortuna nera, ma in senso peggiorativo.» Le larghe dita dei suoi piedi aderivano come forti mani
alla superficie interna del muretto della fontana; si reclinò precariamente all'indietro, poi si
raddrizzò con disinvoltura. «Be', in ultimo è stato cortese con lei. L'ha lasciata libera. Si trova di
gran lunga meglio senza suo marito, anche se, con ogni probabilità, non la pensa così. Mentre io
posso tenerla, perché non le consentirò mai di farmi perdere la testa.»
«Dura come un uovo sodo. Lo è davvero, Justine. E come le ha sapute queste cose di me?»
«Ho fatto delle domande a Dane. Naturalmente, essendo Dane, si è limitato a riferirmi i nudi fatti,
ma io ho dedotto il resto.»
«Attingendo al suo enorme ripostiglio di precedenti esperienze, senza dubbio. Che impostora!
Dicono che è un'ottima attrice, ma a me sembra incredibile. Come riesce a simulare sentimenti che
non può mai aver provato? Come donna è più indietro, emotivamente, di quasi tutte le quindicenni.»
Saltò giù, sedette sul muretto e vi si appoggiò per rimettersi le scarpe, muovendo con un'aria afflitta
le dita dei piedi «Ho i piedi gonfi, maledizione.» Nessuna reazione d'ira o di indignazione lasciò
capire se aveva udito le ultime parole di lui. Come se, quando veniva fatta oggetto di calunnie o
critiche, si limitasse a fare scattare l'interruttore di un apparato uditivo interno. Quante dovevano
essergliene state rivolte! Il miracolo era che non odiasse Dane.
«Non è facile rispondere alla sua domanda» disse. «Devo riuscirci, altrimenti non sarei così brava,
non le sembra? Ma è come... un'attesa. La mia vita lontano dalle scene, voglio dire. Conservo me
stessa, non posso sperperare le mie energie fuori del palcoscenico. Non abbiamo più di un tanto da
dare, non crede? E sulla scena non sono me stessa, o forse, per essere più esatta, sono una serie di
personalità. Dobbiamo essere tutti quanti un profondo miscuglio di personalità, non la pensa così?
Per me, recitare è anzitutto, e quel che più conta, intelletto; soltanto dopo è emozione. L'uno libera
l'altra e la fa brillare. Recitare è molto di più che piangere, o gridare, o riuscire a ridere in modo
persuasivo. È meraviglioso, sa. Pensare me stessa in un altro io, come qualcuna che avrei potuto
essere, se le circostanze lo avessero consentito. Questo è il segreto. Non diventare qualcun'altra, ma
assimilare la parte in me, come se l'altra fosse me stessa. E così l'altra diviene me.» Quasi che il suo
entusiasmo fosse troppo grande per poterlo sopportare nell'immobilità, Justine balzò in piedi.
«Pensi un po', Rain! Tra vent'anni potrò dire a me stessa: ho commesso assassinii, mi sono tolta la
vita, sono impazzita, ho salvato uomini o li ho rovinati. Oh! Le possibilità sono infinite!»
«E saranno tutte sue.» Rainer si alzò a sua volta e di nuovo le prese la mano. «Sì, ha perfettamente
ragione, Justine. Non può esaurirsi fuori della scena. Se si trattasse di chiunque altra, direi che
potrebbe, ma, poiché si tratta di lei, non ne sono affatto sicuro.»
18

Volendo, quelli di Drogheda potevano immaginare che Roma e Londra non fossero più lontane di
Sydney, e che Dane e Justine adulti continuassero a essere ragazzi in collegio. Ovviamente, non
potevano tornare a casa in occasione di tutte le vacanze lunghe o brevi come in passato, ma una
volta all'anno arrivavano per almeno un mese. Di solito in agosto o in settembre, e avevano press'a
poco l'aspetto di sempre. Importava forse se, invece di quindici e sedici anni, ne contavano ventidue
o ventitré? E anche se quelli di Drogheda vivevano per quel mese sin dalla primavera, non
andavano certo in giro pronunciando frasi quali: bene, ormai mancano soltanto poche settimane!
oppure: santo Cielo, non sono partiti nemmeno da un mese! Ma, verso luglio, il loro passo
diventava più animato, e tutti avevano la faccia sorridente. Dalla cucina, ai pascoli, al salotto, si
progettavano festeggiamenti e doni.
Nel frattempo, c'erano le lettere. Quasi sempre, rispecchiavano la personalità di chi le scriveva, ma
a volte la contraddicevano. Sarebbe stato logico pensare, per esempio, che Dane dovesse essere un
corrispondente meticoloso e assiduo e che Justine scrivesse soltanto saltuariamente. Che Fee non
scrivesse affatto. Che i fratelli Cleary si limitassero a scrivere due volte all'anno. Che Meggie
arricchisse le poste con lettere quotidiane, almeno a Dane. Che la signora Smith e Minnie e Cat
spedissero biglietti d'auguri per i compleanni e a Natale. E che Anne Mueller scrivesse spesso a
Justine e mai a Dane.
Dane era pieno di buone intenzioni, e, invero, scriveva con regolarità. Il solo guaio stava nel fatto
che dimenticava di imbucare i risultati delle sue fatiche, con la conseguenza che passavano due o tre
mesi senza una sua parola, e poi arrivavano dozzine di lettere in una volta. La loquace Justine
scriveva missive lunghissime, affascinanti, veri e propri fiumi di introspezione, così franche e
impertinenti da causare rossori. Meggie scriveva soltanto ogni due settimane, a entrambi i figlioli.
Justine non riceveva mai lettere dalla nonna, Dane ne riceveva molte. Gli pervenivano inoltre, con
regolarità, notizie da tutti gli zii, a proposito della terra, delle pecore e delle condizioni di salute
delle donne a Drogheda, poiché sembravano ritenere che fosse loro dovere rassicurarlo e dirgli che
a casa tutto andava bene. Ciò nonostante, non estendevano questa loro premurosità a Justine, la
quale, del resto, ne sarebbe rimasta sbalordita. Per quanto concerneva le altre donne, la
corrispondenza della signora Smith, di Minnie, di Cat e di Anne Mueller era quale si poteva
prevedere.
Leggere lettere faceva molto piacere, ma scriverle era una fatica. Lo era, cioè, per tutti tranne
Justine, che si esasperava perché nessuno le scriveva il tipo di lettere che sarebbero piaciute a lei...
lunghe, prolisse e schiette. E quelli di Drogheda ricevevano quasi tutte le notizie di Dane da Justine,
perché le lettere di lui non erano mai così descrittive e minuziose come quelle di sua sorella.
«Rain è arrivato oggi in aereo a Londra» scrisse una volta «e mi ha detto di avere veduto Dane a
Roma, la scorsa settimana. Be', vede Dane molto più di me, in quanto Roma figura al primo posto
nella sua agenda di viaggio, mentre Londra è all'ultimo. E devo confessarvi che Rain è una delle
ragioni più importanti per cui mi incontro con Dane a Roma ogni anno prima di venire a casa. A
Dane piace venire a Londra, ma se Rain si trova a Roma non glielo consento. Sono un'egoista, ma
non avete idea di quanto mi goda Rain. È una delle poche persone che conosca che mi diano del filo
da torcere, e vorrei che ci vedessimo più spesso.
«Sotto un certo aspetto, Rain è più fortunato di me. Può frequentare i compagni di studi di Dane,
mentre a me questo non è consentito. Secondo me, Dane crede che li violenterei seduta stante. O
forse pensa che sarebbero loro a violentarmi. Ah! Succederebbe soltanto se mi vedessero nel mio
costume di Charmian. È fenomenale, gente, sul serio. Sembro una specie di Theda Bara aggiornata.
Due piccoli tondi di bronzo sulle tette, una gran quantità di catene, e quella che credo sia una
cintura di castità... occorrerebbe un apriscatole per entrare, in ogni caso. Con una lunga parrucca
nera, la pelle tinta in modo che sembri abbronzata e quei pochi pezzetti di metallo, sono irresistibile.
«Dove ero arrivata??? Ah, sì, Rain a Roma, la settimana scorsa, si è incontrato con Dane e i suoi
compagni. Si sono dati ai bagordi. Rain insiste sempre per essere lui a pagare e toglie Dane
dall'imbarazzo. Che notte! Niente donne, no, ma tutto il resto sì. Ve lo immaginate Dane in
ginocchio, in non so quale bar di Roma, declamare "Oh bei narcisi"? Per dieci minuti ha tentato di
dire nell'ordine giusto le parole dei versi senza riuscirci; dopodiché ha rinunciato, si è messo un
narciso tra i denti e si è esibito in una danza. Riuscite a immaginarvi Dane fare una cosa simile?
Rain dice che è innocuo e necessario, sempre lavoro e nessuna distrazione, eccetera. Le donne
essendo escluse, la cosa migliore è ubriacarsi. O così sostiene Rain. Non mettetevi in mente che
succeda spesso, non è così, e presumo che, quando capita, Rain sia il capobanda, per cui tiene
d'occhio l'intero branco di stupidelli. Ma quanto ho riso pensando all'aureola di Dane che si
offuscava nel corso di un flamenco con un narciso tra i denti!»
Occorsero a Dane otto anni di studi a Roma per arrivare al sacerdozio, e all'inizio di quegli otto anni
nessuno pensava che sarebbero mai finiti. Invece gli otto anni trascorsero più rapidamente di quanto
tutti a Drogheda avessero immaginato. Nessuno sapeva che cosa avrebbe fatto dopo l'ordinazione,
ma tutti supponevano che sarebbe tornato in Australia. Soltanto Meggie e Justine sospettavano che
Dane volesse restare in Italia, ma Meggie, almeno, riusciva a tenere a bada i propri dubbi con il
ricordo di com'era contento quando tornava a casa ogni anno. Dane era australiano, non poteva non
voler tornare in patria. Il caso di Justine era diverso. Nessuno si sognava che sarebbe tornata a casa
per sempre. Faceva l'attrice e in Australia la sua carriera sarebbe naufragata. Mentre la carriera di
Dane poteva continuare con lo stesso zelo ovunque.
Così, allo scadere dell'ottavo anno, non c'erano progetti su quel che avrebbero fatto i ragazzi quando
fossero arrivati per le vacanze; quelli di Drogheda si proponevano, invece, di recarsi a Roma per
assistere all'ordinazione di Dane.
«Abbiamo fatto fiasco» disse Meggie.
«Come, cara?» domandò Anne.
Sedevano in un angolo caldo della veranda, leggendo, ma il libro di Meggie le era caduto in
grembo; stava osservando distrattamente i lazzi di due cutrettole sul prato. Era stato un anno
piovoso, c'erano vermi dappertutto, e gli uccelli erano più grassi e più festosi. I loro gorgheggi
saturavano l'aria dall'alba alle ultime luci del crepuscolo.
«Ho detto che abbiamo fatto fiasco» ripeté Meggie. «Un fallimento. Dopo tante promesse! Chi
avrebbe mai potuto supporlo nel 1921, quando arrivammo a Drogheda?»
«Che cosa vuoi dire?»
«Una nidiata di sei figli, oltre a me. E, un anno dopo, altri due figlioli. Che cosa ti aspetteresti?
Decine di bambini, una cinquantina di nipoti? E invece, guarda come siamo ridotti. Hal e Stu sono
morti, nessuno di quelli rimasti in vita sembra avere l'intenzione di ammogliarsi e io, la sola a non
avere il diritto di tramandare il nome della famiglia, sono stata l'unica a dare eredi a Drogheda. Ma,
ciò nonostante, gli dei non si sono accontentati, ti pare? Un figlio e una figlia. Sarebbe stato logico
aspettarsi come minimo parecchi nipoti. E invece che cosa accade? Mio figlio decide di farsi prete,
e mia figlia è una vecchia zitella che vuole fare carriera.»
«Non vedo che cosa ci sia di tanto strano» osservò Anne. «In fin dei conti, che cosa potevi aspettarti
dagli uomini? Isolati, quaggiù, e timidi come canguri, senza mai trovarsi con le ragazze che
avrebbero potuto sposare. E per giunta, nel caso di Jims e di Patsy, anche la guerra. Riesci a
immaginare che Jims possa sposarsi sapendo che il matrimonio per Patsy non è possibile? Si
vogliono troppo bene. E inoltre, la terra è troppo esigente. Assorbe tutto quello che hanno da dare,
perché non credo che abbiano molto. Dal punto di vista fisico, voglio dire. Non ci hai mai pensato,
Meggie? La tua non è una famiglia molto portata per il sesso, volendo esprimersi senza peli sulla
lingua. E questo vale anche per Dane e Justine. Voglio dire, esistono certe persone che cercano
sempre il sesso come gatti in amore, ma non i tuoi figli. Anche se, forse, Justine si mariterà. C'è
quel tedesco, quel Rainer; sembra che gli sia affezionatissima.»
«Hai fatto centro» disse Meggie, che non era in vena di lasciarsi consolare. «Sembra che gli sia
affezionatissima. Tutto qui. In fin dei conti, lo conosce da sette anni. Se avesse voluto sposarlo, lo
avrebbe fatto da secoli.»
«Credi? Io conosco Justine molto bene» rispose Anne sinceramente, perché era vero; la conosceva
meglio di chiunque altro a Drogheda, comprese Meggie e Fee. «Credo che la terrorizzi l'idea di
impegnarsi con quel genere di matrimonio d'amore che ne conseguirebbe, e devo dire che ammiro
Rainer. Sembra che la capisca benissimo. Oh, non dico che sia innamorato, ma, se lo è, per lo meno
ha avuto il buon senso di aspettare che fosse pronta a spiccare il salto.» Si sporse in avanti, e il libro
che stava leggendo prima cadde sulle piastrelle. «Oh, ma lo senti, quell'uccello? Sono certa che
anche un usignuolo non riuscirebbe a uguagliarlo.» Poi disse quello che aveva voluto dire da
settimane: «Meggie, perché non vuoi andare a Roma a veder ordinare Dane?»
«A Roma non ci vado!» dichiarò Meggie, a denti stretti. «Non mi allontanerò da Drogheda mai
più.»
«Meggie, non fare così! Non puoi deluderlo fino a questo punto! Va', ti prego! Se non ci andrai,
Drogheda non sarà rappresentata da una sola donna, laggiù, perché tu sei l'unica abbastanza giovane
per affrontare il viaggio. Però, ti assicuro, se pensassi anche soltanto per un momento di riuscire a
sopravvivere alla fatica, salirei subito sull'aereo.»
«Andare a Roma e veder sorridere Ralph de Bricassart? Preferirei morire!»
«Oh, Meggie, Meggie! Perché devi far ricadere le tue frustrazioni su di lui, e su tuo figlio? Lo
dicesti tu stessa, una volta... che la colpa era stata tua. E dunque, metti da parte l'orgoglio e va' a
Roma. Per favore!»
«Non è una questione di orgoglio.» Meggie rabbrividì. «Oh, Anne, ho paura di andare! Perché non
credo ancora che sia possibile, proprio non ci credo! Mi si accappona la pelle quando ci penso!»
«E non hai pensato che potrebbe non tornare a casa dopo essere stato ordinato sacerdote? Non ti è
mai passato per la mente? Non gli concederanno più lunghe vacanze come quando era in seminario,
e così, se decidesse di restare a Roma, dovresti per forza andarci tu, se volessi rivederlo. Va' a
Roma, Meggie!»
«Non posso. Se sapessi come sono spaventata! Non si tratta di orgoglio, non è che Ralph sia riuscito
a segnare un punto contro di me, non è nessuna delle cose che dico in giro per impedire alla gente di
farmi delle domande. Dio lo sa, tutti e due i miei uomini mi mancano a tal punto che andrei a Roma
in ginocchio, se potessi credere anche soltanto per un minuto di essere desiderata da loro. Oh, Dane
sarebbe lieto di vedermi, ma Ralph? Ha dimenticato che io sia mai esistita. Ho paura, ti dico. Sento
nelle ossa che, se andassi a Roma, succederebbe qualcosa. Quindi non ci vado.»
«Che cosa potrebbe succedere, in nome del Cielo?»
«Non lo so... Se lo sapessi, avrei qualcosa contro cui lottare. Ma una sensazione, come posso lottare
contro una sensazione? Perché tutto si riduce a questo. A un presentimento. Come se gli dei si
stessero riunendo.»
Anne rise. «Stai proprio diventando vecchia, Meggie. Finiscila.»
«Non posso, non posso! E sono vecchia.»
«Assurdo, sei nel momento migliore della maturità. In buona salute e giovane abbastanza, in realtà,
per saltare su quell'aereo.»
«Oh lasciami in pace!» disse Meggie, e riprese il libro.
Di tanto in tanto, una folla con uno scopo preciso converge su Roma. Non si tratta di turismo, del
desiderio voyeuristico di riscoprire le antiche glorie nelle reliquie attuali; e non si tratta neppure di
riempire una piccola fetta di tempo tra A e B, con Roma in un punto intermedio sulla retta che
unisce i due punti. È una folla unita da una sola emozione; scoppia d'orgoglio, in quanto viene per
vedere un figlio, un nipote, un cugino, un amico, ordinati sacerdoti in quella grande basilica che è la
chiesa più venerata del mondo. Alloggiano in umili pensioni, in alberghi lussuosi, in casa di amici o
parenti. Ma tutti sono completamente uniti, in pace gli uni con gli altri e con il mondo. Fanno
doverosamente i giri d'obbligo: i musei Vaticani, con la Cappella Sistina, in ultimo, premio di
resistenza, il Foro, il Colosseo, la Via Appia, Piazza di Spagna, l'avida Fontana di Trevi, il son et
lumière. In attesa del grande giorno, per ingannare il tempo. A loro verrà accordato lo speciale
privilegio di un'udienza privata del Santo Padre, e per loro Roma non trova mai niente di troppo
bello.
Questa volta non fu Dane ad aspettare sul marciapiede della stazione l'arrivo di Justine, come era
sempre accaduto; si trovava in ritiro. Al posto di lui, Rainer Moerling Hartheim andava avanti e
indietro, simile a un grosso animale. Non la salutò con un bacio, non lo faceva mai; si limitò a
passarle un braccio intorno alle spalle, e a stringere.
«Come un orso» disse Justine.
«Un orso?»
«Un tempo, quando ti avevo appena conosciuto, pensavo che tu fossi una sorta di anello mancante,
ma in ultimo ho deciso: sei più orso che gorilla. Era un paragone scortese, quello con il gorilla.»
«E gli orsi sono meno odiosi?»
«Be', forse uccidono una persona altrettanto rapidamente, però sono più affettuosi.» Infilò il braccio
sotto il suo e regolò il passo; era quasi alta come lui. «Dane come sta? Lo hai veduto prima che
iniziasse il ritiro? Lo ammazzerei, per non avermi lasciata partire prima.»
«Dane è quello di sempre.»
«Non lo hai condotto alla perdizione?»
«Io? No di certo. Sei molto carina, Herzchen.»
«Sono decisa a comportarmi nel modo migliore, e ho fatto acquisti da tutti i couturiers di Londra. Ti
piace la mia nuova gonna corta? Le chiamano minigonne.»
«Precedimi e te lo dirò.»
L'orlo della gonna di seta pura arrivava circa a metà coscia. La gonna turbinò mentre lei si voltava e
tornava indietro. «Che cosa te ne pare, Rain? È scandalosa? Non ho veduto nessuna donna a Parigi
portarla già così corta.»
«Dimostra, Herzchen, che, con gambe belle come le tue, sarebbe scandaloso portare una gonna
anche di un millimetro appena più lunga. Sono certo che i romani si troveranno d'accordo con me.»
«Questo significa che avrò il sedere nero e blu tra un'ora, anziché tra un giorno. Accidenti a loro!
Sai una cosa, però, Rain?»
«Cosa?»
«Non sono mai stata pizzicata da un prete. Per tutti questi anni ho continuato ad andare avanti e
indietro, in Vaticano, senza un solo pizzicotto a mio credito. Così mi son detta che forse, indossando
una minigonna, sarei ancora riuscita a essere la rovina di qualche povero prelato.»
«Potresti essere la mia rovina.» Rainer sorrise.
«No, sul serio? In arancione? Credevo che tu mi odiassi, in arancione, visto che ho i capelli
arancione.»
«Infiamma i sensi, un colore così acceso.»
«Mi stai prendendo in giro» disse lei, disgustata, mentre saliva sulla Mercedes, che aveva una
bandierina tedesca sul cofano. «Quando l'hai avuta, la bandierina?»
«Quando ho ottenuto la nuova carica nel governo.»
«Non ci si può stupire se mi sono meritata un accenno su News of the World! L'hai letto?»
«Sai che non leggo mai la stampa scandalistica, Justine.»
«Be', nemmeno io. Me lo ha mostrato qualcuno» disse lei, poi rese più acuta la propria voce,
immettendovi un accento volgarmente raffinato, falsamente patrizio. «Quale intraprendente attrice
australiana dalla chioma color carota sta cementando rapporti molto cordiali con quale membro del
Gabinetto della Germania Ovest?»
«Non possono sapere da quanto tempo ci conosciamo» disse lui, placido, allungando le gambe e
sistemandosi comodamente.
Justine fece scorrere lo sguardo sul suo abbigliamento, con approvazione; molto nonchalant, molto
italiano. Anche lui si atteneva all'avanguardia della moda europea, e osava portare una di quelle
camicie traforate che consentivano ai maschi italiani di mostrare la villosità del torace.
«Non dovresti mai portare giacca colletto e cravatta» disse a un tratto.
«No? Perché no?»
«Il maschismo è senz'altro lo stile che fa per te... sai, quello che stai portando adesso, la catenella
col medaglione d'oro sul petto peloso. Un abito a giacca fa pensare che tu abbia la pancia, mentre in
realtà non ce l'hai.»
Per un momento la contemplò stupito, poi l'espressione dei suoi occhi divenne vigile, assumendo
quella che lei definiva «l'espressione di pensiero concentrato». «La prima volta» disse.
«Cosa?»
«Per sette anni, da quando ti conosco, non hai mai fatto commenti sul mio aspetto senza criticarlo.»
«Oh, santo Cielo, sul serio?» domandò, e parve vergognarsi un po'. «Dio buono, ho pensato
abbastanza spesso al tuo aspetto, e non l'ho mai criticato.» Per qualche motivo, si affrettò a
soggiungere: «Voglio dire, a cose come l'aspetto che hai con un vestito.»
Lui non rispose, ma stava sorridendo, come per una riflessione molto piacevole.
Quel tragitto in automobile con Rainer parve essere l'ultima cosa tranquilla tra le tante che
dovevano accadere per giorni e giorni. Poco dopo aver fatto ritorno da una visita al Cardinale de
Bricassart e al Cardinale Contini-Verchese, la berlina noleggiata da Rainer portò all'albergo il
contingente di Drogheda. Con la coda dell'occhio, Justine osservò la reazione di Rain alla sua
famiglia, composta interamente da zii. Fino al momento in cui il suo sguardo non aveva trovato il
volto della madre, Justine era stata persuasa che avrebbe cambiato idea, che sarebbe venuta a Roma.
Il fatto che avesse proprio deciso di non venire era un colpo crudele; Justine non sapeva se soffrisse
più per Dane o per se stessa. Ma intanto c'erano gli zii e toccava a lei fare gli onori di casa.
Oh, erano così timidi! E come distinguerli l'uno dall'altro? Quanto più invecchiavano, tanto più si
somigliavano. E a Roma facevano spicco come... be', come allevatori australiani in vacanza.
Indossavano tutti l'uniforme di città dei ricchi proprietari di allevamenti: stivali gialli con elastici sui
lati, pantaloni di colore neutro, giacche sportive marrone di lana molto pesante e pelosa, con
spacchetti laterali e un gran numero di rifiniture in cuoio, camicia bianca, cravatta di lana lavorata a
maglia, cappello grigio a cupola piatta e a larga tesa. Niente di strano nelle vie di Sydney, durante la
mostra pasquale, ma, nella tarda estate romana, era uno spettacolo straordinario.
E, in tutta sincerità, posso dire: Dio sia ringraziato per Rain! Quanto è buono con loro! Non avrei
mai creduto che qualcuno potesse riuscire a far parlare Patsy, ma lui ci sta riuscendo, che il Signore
lo benedica. Stanno chiacchierando a tutto spiano come due vecchie chiocce, e dove è andata a
procurarsela, la birra australiana per loro? Gli piacciono, ed è interessato, presumo. Tutto è farina
per la macina di un industriale-uomo politico tedesco. Come può continuare ad aver fede, essendo
quello che è? Un enigma, ecco che cosa sei, Rainer Moerling Hartheim. Amico di Papi e Cardinali,
amico di Justine O'Neill. Oh, se tu non fossi così brutto, ti bacerei, tanto ti sono grata. Signore
Iddio, pensa se ti trovassi bloccata a Roma con gli zii e senza Rain! Il nome che ha gli si addice.
Lui si appoggiava alla spalliera della poltrona, ascoltando Bob che gli parlava della tosatura delle
pecore. Justine lo osservò incuriosita. Quasi sempre notava immediatamente ogni particolare
nell'aspetto fisico delle persone, ma, di quando in quando, la sua vigilanza si allentava e le persone
si insinuavano in lei, si scavavano una nicchia nella sua vita, senza che avesse potuto procedere alla
valutazione preliminare. Se la valutazione non era stata fatta, talora passavano anni prima di poter
giudicare le persone con distacco, come estranei. Come in quel momento, mentre osservava Rain.
Colpa di quel primo lontano incontro, naturalmente; quando era venuta a trovarsi circondata da
ecclesiastici, intimorita, spaventata, e aveva sormontato il disagio con la sfacciataggine. Di lui si era
limitata a notare le cose ovvie, la struttura possente, i capelli, la carnagione scura. Poi, quando
l'aveva portata a cena, la possibilità di modificare la situazione era andata perduta, poiché Rain le
aveva imposto una consapevolezza della sua presenza che trascendeva di gran lunga i suoi attributi
fisici, ed era stata troppo interessata a quanto dicevano le labbra per guardargli la bocca.
In realtà, non era affatto brutto, si disse adesso. Sembrava quello che era, forse, un miscuglio del
meglio e del peggio. Come un imperatore romano. Non ci si poteva stupire se amava la città. Era la
sua sede spirituale. Rainer aveva una faccia larga, con gli zigomi pronunciati e un naso piccolo, ma
aquilino. Folte sopracciglia nere che, invece di seguire la curva delle orbite, erano diritte. Ciglia
molto lunghe, femminee, e bellissimi occhi scuri, quasi sempre aggrondati. Il tratto di lui di gran
lunga più bello era la bocca, né tumida né sottile, né piccola né grande, ben disegnata, con un taglio
netto sul limite delle labbra, e una singolare fermezza nel modo con il quale la teneva serrata; come
se, allentando la sua presa, potesse tradire segreti profondi. Interessante, smontare, fattezza per
fattezza, una faccia già così nota, eppure del tutto sconosciuta.
Emerse dalle fantasticherie e lo sorprese intento a osservarla mentre lo osservava, il che equivaleva
a essere denudata davanti a una turba armata di lapidatori. Per un momento, gli occhi di lui
fissarono i suoi, spalancati e vigili, non precisamente stupiti, ma piuttosto incantati. Poi, volse lo
sguardo, placido, su Bob, e pose una domanda pertinente sulle pecore. Justine si diede una scrollata
mentale, invitandosi a non fantasticare. Ma era affascinante vedere, a un tratto, un uomo che avevi
considerato per anni un amico come un possibile amante. E non trovare affatto repellente la
prospettiva.
Vi era stata una serie di successori di Arthur Lestrange e lei non aveva più avuto voglia di ridere.
Oh, ho percorso molta strada, dopo quella sera memorabile, ma mi domando se ho effettivamente
progredito. È molto piacevole avere un uomo, e al diavolo quel che diceva Dane della necessità che
si tratti del solo uomo. Non voglio saperne di un solo uomo, e, di conseguenza, non andrò a letto
con Rain; oh, no. Questo modificherebbe troppe cose e io perderei il mio amico. Ho bisogno del
mio amico, non posso permettermi di farne senza. Me lo terrò come mi tengo Dane, un essere
umano di sesso maschile, privo di rilevanza fisica.
La chiesa poteva contenere ventimila persone e pertanto non era affollata. Mai, in nessun luogo al
mondo, tanto tempo e tante riflessioni e tanta genialità erano stati dedicati alla creazione di un
tempio; faceva impallidire, rendendole insignificanti, le opere pagane dell'antichità. Davvero. Tanto
affetto. Tante fatiche. La basilica del Bramante, la cupola di Michelangelo, il colonnato del Bernini.
Un monumento innalzato non soltanto a Dio, ma all'Uomo. Sotto l'altar maggiore, in una piccola
cripta di pietra, era seppellito lo stesso San Pietro; lì avevano incoronato l'Imperatore Carlomagno.
Gli echi di antiche voci sembravano bisbigliare tra i fasci di luce che si riversavano nella basilica,
morte dita lucidavano i raggi di bronzo dietro l'altar maggiore e accarezzavano le ritorte colonne di
bronzo del baldacchino.
Giaceva sui gradini, a faccia in giù, come se fosse morto. A che cosa stava pensando? Aveva in sé
una sofferenza che non avrebbe dovuto esserci, perché sua madre non era venuta? Il Cardinale
Ralph guardò attraverso le lacrime e si rese conto che la sofferenza non c'era. Prima, sì. E in
seguito, senz'altro. Ma, in quel momento, nessuna sofferenza. Tutto di lui si proiettava nel
momento, nel miracolo. Non c'era posto in Dane per niente che non fosse Dio. Stava vivendo il
giorno dei giorni, e nulla contava tranne il compito imminente, votare la propria vita e la propria
anima a Dio. Lui probabilmente poteva farlo, ma quanti altri ci erano riusciti? Non il Cardinale
Ralph, sebbene ricordasse ancora che la sua ordinazione era stata colma di sacro stupore. Aveva
provato con tutto se stesso, ma non ci era riuscito del tutto.
Non fu augusta come questa, la mia ordinazione, ma ora la rivivo di nuovo attraverso di lui. E mi
domando che cosa sia in realtà se, nonostante i nostri timori, ha potuto trascorrere fra noi tanti anni
senza che una sola persona non gli fosse amica, e tanto meno nemica. È amato da tutti, e ama tutti.
Non gli passa mai per la mente, nemmeno per un momento, che questo stato di cose sia
straordinario. Eppure, quando venne a noi la prima volta, non era così sicuro di sé; noi gli abbiamo
dato questa forza, e da questo forse le nostre esistenze sono giustificate. Molti sacerdoti sono stati
ordinati qui, migliaia su migliaia, eppure per lui c'è un qualcosa di speciale. Oh, Meggie! Perché
non sei venuta a vedere il dono che hai fatto al Signore... il dono che io non ho potuto offrirMCGli,
avendo già dato a Lui me stesso? E suppongo che per questo egli possa essere qui, oggi, esente dalla
sofferenza. Perché, per questo giorno, mi è stato dato il potere di assumermi il suo dolore,
liberandolo. Piango le sue lacrime, mi affliggo in sua vece. E così deve essere.
In seguito, voltò la testa, vide la fila di quelli di Drogheda con vestiti scuri così fuori posto. Bob,
Jack, Hughie, Jims, Patsy. Una sedia libera, quella di Meggie, poi Frank. I capelli di fuoco di Justine
attutiti da un nero velo di pizzo; era la sola donna Cleary presente. Accanto a lei, Rainer. E poi un
gran numero di persone sconosciute, ma che quel giorno partecipavano alla cerimonia pienamente,
come le persone di Drogheda. Soltanto che quel giorno era diverso, quel giorno aveva un che di
speciale per lui. Quel giorno gli sembrava quasi di avere egli stesso un figlio da offrire a Dio.
Sorrise e sospirò. Che cosa doveva provare, Vittorio, facendo di Dane un sacerdote?
Forse perché sentiva così acutamente l'assenza di sua madre, la prima persona con la quale Dane
riuscì ad appartarsi, al ricevimento offerto in suo onore dal Cardinale Vittorio e dal Cardinale Ralph,
fu Justine. Con la tonaca nera e l'alto colletto bianco, era magnifico, pensò lei; soltanto, non
sembrava affatto un prete. Sembrava un attore che impersonasse la parte di un prete, finché non lo
si guardava negli occhi. Ed eccola, la luce interiore, quel qualcosa che lo tramutava da un uomo di
gran bell'aspetto in un essere unico.
«Padre O'Neill» gli disse.
«Ancora non mi ci sono abituato, Jus.»
«Non è difficile da capire. Non ho mai provato niente di simile a quello che ho sentito in San Pietro,
e, di conseguenza, non posso immaginare che cosa deve essere stato per te.»
«Oh, credo che tu possa, in qualche profondità dentro di te. Se davvero non potessi, non saresti una
così brava attrice. Ma nel tuo caso, Jus, scaturisce dall'inconscio; non prorompe nel pensiero finché
non hai bisogno di servirtene.»
Sedevano su un divanetto, in un angolo della sala, e nessuno venne a disturbarli.
Dopo qualche momento, disse: «Sono così contento che Frank sia venuto» guardando là ove Frank
stava conversando con Rainer, il viso animato come i suoi nipoti non lo avevano mai veduto. «C'è
un anziano prete romeno profugo che conosco» continuò Dane «e che è solito dire: "Oh, poverino!"
con una tale compassione nella voce... Non so perché, ma è quello che mi sorprendo sempre a
pensare di Frank. Eppure, Jus, perché?»
Ma Justine ignorò la trappola e passò subito al nocciolo della questione. «Avrei voglia di
ammazzare Ma'!» disse tra i denti. «Non aveva il diritto di farti questo!»
«Oh, Jus! Io capisco. E devi sforzarti anche tu di capire. Se lo avesse fatto per malignità o per
vendicarsi di me, potrei risentirmi, ma tu la conosci bene quanto me, e sai che non lo ha fatto né per
l'una né per l'altra ragione. Andrò presto a Drogheda. Le parlerò, allora, e vedrò che cosa ha nel
cuore.»
«Presumo che le figlie non siano mai pazienti con le loro madri come lo sono i figli.» Abbassò gli
angoli della bocca dolorosamente, poi alzò le spalle. «Forse è un bene che io ami troppo la
solitudine per infliggermi a qualcuno nella parte di madre.»
Gli occhi azzurri erano molto buoni, teneri; Justine si sentì venire la pelle d'oca pensando che Dane
la compassionava.
«Perché non sposi Rainer?» domandò a un tratto.
Non poté fare a meno di aprire la bocca e trattenere il respiro. «Non mi ha mai chiesta» disse
debolmente.
«Soltanto perché pensa che tu diresti di no. Ma questa è una difficoltà che si potrebbe eliminare.»
Senza riflettere, Justine lo afferrò per l'orecchio, come aveva avuto l'abitudine di fare quando erano
bambini. «Non osare niente di simile, stupido! Non una parola, mi senti? Io non amo Rain! È
soltanto un amico, e voglio che continui a essere un amico. Se accenderai anche solamente una
candela a questo scopo, giuro che mi metterò a sedere, strabuzzerò gli occhi e ti scaglierò una
maledizione; e ricorderai che questo ti spaventava da morirne, no?»
Rovesciò il capo all'indietro e rise. «Non funzionerebbe, Justine! La mia magia ormai è più forte
della tua. Ma è inutile che ti scaldi tanto. Ho sbagliato, ecco tutto. Credevo che ci fosse qualcosa tra
te e Rain.»
«No, non c'è niente. Dopo sette anni? Figurarsi, dopo tanto tempo anche i porci saprebbero volare!»
Tacque, parve cercare altre parole, poi lo guardò quasi timidamente. «Dane, sono così felice per te!
Credo che se Ma' fosse qui proverebbe la stessa cosa. Non le occorre altro, vederti come sei adesso,
così. Aspetta e vedrai che cambierà idea.»
Molto dolcemente prese la faccia appuntita tra le mani, sorridendo con tanto affetto che, a sua volta,
Justine alzò le mani per afferrargli i polsi, e assorbì quell'affetto attraverso tutti i pori. Come se
stesse ricordando e tesoreggiando tutti gli anni della fanciullezza.
Eppure, dietro a ciò che vedeva negli occhi di lui, intuiva un dubbio vago, solo che dubbio era forse
una parola troppo forte; più che altro, si trattava di ansia. Dane aveva la quasi certezza che Ma'
avrebbe capito, in ultimo, ma era pur sempre umano, sebbene tutti tranne lui tendessero a
dimenticarlo.
«Jus, vuoi farmi un favore?» le domandò, dopo averla lasciata andare.
«Tutto quello che vuoi» disse, sinceramente.
«Ho avuto una sorta di periodo di respiro, per riflettere su quello che farò. Due mesi. E rifletterò
meglio su un cavallo, a Drogheda, dopo aver parlato con Ma'... Sento, in qualche modo, che non
potrei decidere niente senza aver parlato con lei. Ma prima, be'... devo trovare il coraggio di tornare
a casa. E così, se ti è possibile, vieni nel Peloponneso con me per due settimane, e continua a farmi
prediche dicendomi che sono un codardo, finché non sarò così stanco della tua voce che salirò su un
aereo per liberarmene.» Le sorrise. «Inoltre, Jussy, non voglio farti pensare che ti escluderò
assolutamente dalla mia vita, così come non ne escluderò Ma'. Di tanto in tanto, uno ha bisogno
della propria vecchia coscienza.»
«Oh, Dane, certo che verrò!»
«Bene» disse lui, poi sorrise, e l'adocchiò maliziosamente. «Ho davvero bisogno di te, Jus. Avere
nelle orecchie le tue spudoratezze sarà come tornare ai bei tempi.»
«Uh-uh-uh! Niente oscenità, Padre O'Neill!»
Si portò le braccia dietro il capo e si appoggiò alla spalliera del divano, con un'aria soddisfatta: «Sì,
è quello che sono... Non è meraviglioso? E forse, quando avrò parlato con Ma', potrò concentrarmi
su Nostro Signore. Credo di essere portato per questo, sai. Semplicemente pensare a Nostro
Signore.»
«Avresti dovuto entrare in un Ordine, Dane.»
«Posso ancora farlo, e probabilmente lo farò. Ho tutta una vita davanti a me; non c'è alcuna fretta.»
Justine se ne andò dal ricevimento con Rainer, e, quando gli ebbe parlato della sua intenzione di
andare in Grecia con Dane, lui disse che sarebbe tornato nel suo ufficio a Bonn.
«È quasi ora, maledizione» esclamò Justine. «Per essere un Ministro, non mi hai l'aria di lavorare
molto, eh? Tutti i giornali ti definiscono un playboy che folleggia con attricette australiane dalle
chiome color carota, vecchio cane che non sei altro.»
Lui la minacciò scherzosamente con il grosso pugno. «I miei pochi piaceri li pago in più modi di
quanto tu possa immaginare.»
«Ti spiace se andiamo a piedi, Rain?»
«No, purché tu ti tenga le scarpe.»
«Devo, ormai. Le minigonne hanno i loro svantaggi, sono tramontati i tempi in cui ci si poteva
sfilare facilmente le calze. Hanno inventato una versione in pura seta delle calzemaglie teatrali, e
non è possibile togliersela in pubblico senza causare i più grandi furori dopo Lady Godiva. Così, a
meno che non voglia rovinare una calzamaglia da cinque sterline, sono imprigionata nelle scarpe.»
«Per lo meno, accresci le mie conoscenze in fatto di indumenti femminili; quelli sotto, oltre che
quelli sopra» disse lui, blando.
«Ma va' là! Scommetto che hai una dozzina di amanti e che le spogli tutte.»
«Soltanto una, e, come tutte le brave amanti, mi aspetta in negligé.»
«Sai una cosa? Credo che non abbiamo mai parlato della tua vita sessuale prima d'ora. È
affascinante. Com'è questa donna?»
«Bionda, grassa, quarantenne e scoreggiona.»
Justine si fermò bruscamente. «Oh, mi stai prendendo in giro» disse, adagio. «Non ti ci vedo con
una donna simile.»
«Perché no?»
«Hai troppo buon gusto.»
«Chacun à son goût, mia cara. Io stesso non sono un granché in quanto ad aspetto... perché supponi
che potrei sedurre una donna giovane e bella e farne la mia amante?»
«Perché potresti!» esclamò lei, indignata. «Oh, ma certo che potresti!»
«Grazie al mio denaro, vuoi dire?»
«No, non grazie al tuo denaro! Ti stai burlando di me, come al solito! Rainer Moerling Hartheim, tu
sai benissimo di essere attraente, altrimenti non porteresti medaglioni d'oro e camicie traforate.
L'aspetto non è tutto... e, anche se lo fosse, sospetterei ugualmente.»
«Il tuo interessamento per me è commovente, Herzchen.»
«Come mai, quando sono con te, ho sempre l'impressione di correrti dietro per raggiungerti, e senza
riuscirci mai?» Poi lo scatto d'ira si esaurì; immobile, lo stava fissando con un'aria incerta. «Non
stai parlando sul serio, vero?»
«Tu credi che parli sul serio?»
«No. Non sei vanitoso, ma sai fino a qual punto puoi attrarre le donne.»
«Che io lo sappia o no, non conta. L'importante è che tu mi ritenga attraente.»
Stava per dire: certo che è così. Non molto tempo fa ti presi in considerazione come un possibile
amante, ma poi decisi che non avrebbe funzionato e che avrei preferito continuare a esserti amica.
Se lui le avesse consentito di dirlo, forse sarebbe giunto alla conclusione che il suo momento non
era ancora venuto, e avrebbe agito diversamente. Invece, prima che avesse potuto formulare le
parole, la prese tra le braccia e cominciò a baciarla. Per almeno sessanta secondi Justine rimase
inerte, morendo, spaccata in due, frantumata, mentre la forza che era in lei urlava con selvaggio
sollievo per aver trovato una forza analoga. La bocca di Rainer... era meravigliosa! E i capelli,
incredibilmente folti, vitali, qualcosa da afferrare con ferocia tra le dita. Poi le prese la faccia tra le
mani e la fissò sorridendo.
«Ti amo» disse.
Gli aveva portato le mani sui polsi, ma non per racchiuderli con dolcezza, come con Dane; le
unghie affondarono e incisero la carne, selvaggiamente. Poi Justine indietreggiò di due passi e si
strofinò il braccio sulla bocca, gli occhi enormi di paura, il seno ansimante.
«Non funzionerebbe» disse con voce affannosa. «Non potrebbe mai funzionare, Rain!»
Si tolse le scarpe; si chinò a prenderle, quindi si voltò, si mise a correre e, entro tre secondi, il
soffice e rapido scalpiccio dei suoi piedi era svanito.
Non che avesse la minima intenzione di seguirla, benché forse Justine così credeva. I polsi gli
sanguinavano e gli dolevano. Premette il fazzoletto prima sull'uno, poi sull'altro, alzò le spalle, si
rimise in tasca il fazzoletto macchiato e rimase dove si trovava, concentrandosi sul dolore. Dopo
qualche tempo, cercò il portasigarette, ne tolse una sigaretta, l'accese e si incamminò adagio.
Nessun passante avrebbe potuto arguire dalla sua faccia quel che provava. Tutto ciò che desiderava,
a portata di mano, raggiunto e perduto. Ragazza idiota. Quando sarebbe cresciuta? Sentire la
passione, reagire e negarla.
Ma lui era un giocatore d'azzardo, uno di quelli che sanno vincere e sanno perdere. Aveva aspettato
per sette lunghi anni prima di tentare la fortuna, intuendo il mutamento intervenuto in Justine quel
giorno dell'ordinazione. Eppure, a quanto pareva, aveva agito troppo presto. Ah, be', ma rimaneva
sempre il domani... o, conoscendo Justine, l'anno successivo, o di lì a due anni. Senza dubbio, non
avrebbe rinunciato. Tenendola attentamente d'occhio, un giorno la fortuna gli sarebbe stata propizia.
La risata silenziosa vibrò in lui: bionda, grassa, quarantenne, e scoreggiona. Che cosa gli avesse
fatto salire quelle parole alle labbra non lo sapeva, a parte il fatto che, molto tempo prima, gli erano
state dette da sua moglie. Le quattro parole che definivano la tipica vittima di calcoli biliari. Lei era
stata una martire dei calcoli biliari, povera Annelise, benché fosse bruna, secca, cinquantenne e
saldamente tappata come una bottiglia. Perché sto pensando ad Annelise proprio adesso? La mia
paziente campagna di anni conclusa con uno scacco, e non so fare di meglio che pensare alla povera
Annelise. Ah, la mette così, Fraülein Justine O'Neill? Staremo a vedere.
Le finestre del palazzo erano illuminate; sarebbe salito per pochi minuti a parlare con il Cardinale
Ralph, che sembrava invecchiato. Non stava bene. Forse avrebbe dovuto persuaderlo a farsi visitare.
Rainer soffriva, ma non per Justine; era giovane, lei, rimaneva tutto il tempo, soffriva per il
Cardinale Ralph, che aveva assistito all'ordinazione di suo figlio, e non lo sapeva.
Era ancora presto, il foyer dell'albergo continuava a essere affollato. Di nuovo con le scarpe, Justine
andò rapida fino alle scale e le salì di corsa, a testa bassa. Poi, per qualche momento, le mani
tremanti non riuscirono a trovare la chiave della stanza nella borsetta e si disse che avrebbe dovuto
ridiscendere, e affrontare la ressa intorno al banco della portineria. Ma la chiave era nella borsetta;
doveva esserci passata sopra con le dita una decina di volte.
Entrata, finalmente, andò a tastoni fino al letto e sedette sulla sponda, lasciando che i pensieri
ridivenissero coerenti a poco a poco nella mente. Si disse che era inorridita, delusa; e intanto
continuò a fissare tetramente l'ampio rettangolo di fioca luce che era il cielo notturno attraverso la
finestra, smaniosa di imprecare, smaniosa di piangere. Niente avrebbe più potuto essere come
prima, e questa era una tragedia. La perdita del suo più caro amico. Un tradimento.
Parole vuote; false; a un tratto, capì perfettamente che cosa l'avesse tanto spaventata, che cosa
l'avesse indotta a fuggire da Rain, come se fosse stato sul punto di ucciderla, invece di baciarla.
Come era vero! La sensazione di tornare a casa, mentre lei non voleva tornare a casa, non più di
quanto volesse esser passiva in amore. La casa significava frustrazione, e così l'amore. Ma non
soltanto questo, sebbene ammetterlo fosse umiliante: non era sicura di poter amare. Se ne fosse stata
capace, senza dubbio una o due volte avrebbe abbassato la guardia; senza dubbio, una volta o due
avrebbe provato la fitta di qualcosa di più di un affetto tollerante nei confronti dei suoi non
frequenti amanti. Non le accadde di pensare che, deliberatamente, aveva scelto amanti i quali non
sarebbero mai stati in grado di minacciare il suo voluto distacco, che faceva talmente parte di lei,
ormai, da considerarlo del tutto naturale. Per la prima volta in vita sua, non aveva alcun punto di
riferimento che l'assistesse. Non c'era alcun momento del passato dal quale potesse trarre conforto,
non c'era mai stato alcun attaccamento profondo, né a quegli amanti fantomatici, né a se stessa. Né
potevano aiutarla quelli di Drogheda, perché si era sempre negata anche a loro.
Era stata costretta a fuggire da Rain. Dire sì, legarsi a lui, e poi vederlo indietreggiare non appena
avesse scoperto la portata della sua inadeguatezza? Intollerabile! Si sarebbe reso conto di quello che
lei era in realtà e la consapevolezza avrebbe ucciso il suo amore. Intollerabile dire sì, e finire con
l'essere rifiutata per sempre. Di gran lunga meglio essere lei a rifiutare. In questo modo, per lo
meno, l'orgoglio sarebbe stato soddisfatto, e Justine aveva ereditato tutto l'orgoglio della madre.
Rain non doveva mai scoprire com'era lei sotto la crosta di tutta la sua spavalda disinvoltura.
Si era innamorato della Justine che vedeva; lei non gli aveva offerto alcuna possibilità di sospettare
il mare di dubbi sottostante. Quei dubbi li sospettava soltanto Dane... anzi no, li conosceva.
Si chinò per appoggiare la fronte al freddo comodino, e le lacrime le striarono la faccia. Per questo
voleva tanto bene a Dane, naturalmente. Lui sapeva com'era la vera Justine, e l'amava ugualmente.
C'entrava anche la consanguineità, e un'intera vita di ricordi, difficoltà, sofferenze, gioie, tutto
condiviso. Mentre invece Rain era un estraneo, non certo legato a lei come Dane, o come gli altri
della sua famiglia. Nulla lo costringeva ad amarla.
Tirò su con il naso, si passò il palmo della mano intorno alla faccia, alzò le spalle e si accinse al
difficile compito di respingere il dispiacere in un angolo della mente ove potesse giacere in pace.
Sapeva di poterci riuscire: aveva perfezionato questa tecnica per tutta la vita. Ma implicava
un'attività incessante. Si sporse e accese la lampada sul comodino.
Uno degli zii doveva aver portato la lettera in camera sua, una busta celeste chiaro, con il
francobollo della Regina Elisabetta nell'angolo in alto.
«Justine cara» scriveva Clyde Daltinham-Roberts «torna all'ovile, sei necessaria! Subito! C'è una
parte che ti aspetta nel repertorio della nuova stagione, e un uccellino mi ha detto che tu potresti
volerla. Desdemona, tesoro. Con Marc Simpson come tuo Otello. Le prove per i primi attori
cominciano la prossima settimana, se sei interessata alla cosa.»
Se era interessata! Desdemona! Desdemona a Londra! E con Marc Simpson nella parte di Otello!
L'occasione che si presenta una sola volta nella vita. Il suo umore migliorò a razzo, al punto che la
scena con Rain perdette importanza, o meglio assunse un diverso significato. Forse, se fosse stata
molto, molto cauta, avrebbe potuto conservare l'amore di Rain: un'attrice di successo,
acclamatissima, era di gran lunga troppo occupata per dividere buona parte della vita con gli
amanti. Valeva la pena di tentare. Se le avesse dato l'impressione di avvicinarsi troppo alla verità, le
sarebbe sempre stato possibile fare di nuovo marcia indietro. Per tenere Rain nella propria vita, ma
soprattutto quel nuovo Rain, era disposta a tutto, tranne che a togliersi la maschera.
Nel frattempo, una notizia come quella meritava di essere festeggiata in qualche modo. Non se la
sentiva ancora di affrontare Rain, ma c'erano altre persone a portata di mano per condividere il suo
trionfo. Pertanto, si rimise le scarpe, percorse il corridoio fino al salotto degli zii e, quando Patsy la
fece entrare, aprì le braccia, sorridendo radiosa.
«Sturate una bottiglia di birra, sto per impersonare Desdemona!» annunciò in tono squillante.
Per un momento nessuno parlò, poi Bob disse, con affettuosa cordialità: «È una bella notizia,
Justine.»
Il suo piacere non si dileguò; crebbe, invece, divenendo un'esultanza incontenibile. Ridendo, Justine
si lasciò cadere su una sedia e contemplò gli zii. Erano davvero uomini adorabili! Naturalmente,
quella notizia non significava niente per loro! Non avevano la più pallida idea di chi fosse
Desdemona. Se fosse venuta a dir loro che stava per sposarsi, la reazione di Bob sarebbe stata
press'a poco identica.
Sin dai tempi più lontani dei suoi ricordi, avevano fatto parte della sua vita, e lei li aveva ignorati
con disprezzo, come ignorava tutto di Drogheda. Gli zii, una pluralità la quale non aveva niente a
che vedere con Justine O'Neill. Facevano semplicemente parte di un conglomerato che andava e
veniva in casa, le sorrideva timidamente, e la evitava se stare con lei significava conversare. Non
che non le volessero bene; ora se ne rese conto. Soltanto, intuivano quanto fosse estranea, e questo
li faceva sentire a disagio. Ma in questo mondo romano, che era estraneo a loro e familiare a lei,
stava cominciando a capirli meglio.
Sentendo nei loro riguardi la luminosità di un qualcosa che avrebbe potuto esser definito affetto, lo
sguardo di Justine passò dall'una all'altra faccia increspata dai sorrisi. Bob, che era la forza vitale
del gruppo, il capo di Drogheda, ma in modo così discreto; Jack, che sembrava semplicemente
seguire Bob dappertutto, o forse si trattava soltanto del fatto che andavano così bene d'accordo
insieme; Hughie, che aveva una vena di birichineria estranea agli altri due, pur essendo così simile a
loro; Jims e Patsy, gli aspetti positivo e negativo di un insieme autosufficiente, e il povero e spento
Frank, il solo che sembrasse assillato dalla paura e dall'insicurezza. Tutti loro, tranne Jims e Patsy,
avevano ormai i capelli brizzolati, anzi Bob e Frank li avevano bianchi, ma in realtà non
sembravano affatto diversi da come li ricordava ai tempi in cui era stata una bimbetta.
«Non so se dovrei offrirti una birra» disse Bob, dubbioso, rimanendo in piedi con una bottiglia di
birra Swan, gelata, in mano.
La frase l'avrebbe irritata intensamente anche soltanto una mezza giornata prima, ma in quel
momento era troppo felice per risentirsi.
«Senti, caro, lo so che non ti è mai passato per la mente di offrirmene una in occasione dei nostri
incontri con Rain, ma, francamente, ormai sono una ragazza cresciuta e posso reggere una birra; ti
assicuro che non è un peccato.»
«Dov'è Rainer?» domando Jims, togliendo il bicchiere pieno dalla mano di Bob e porgendoglielo.
«Ho litigato con lui.»
«Con Rainer?»
«Be', sì. Ma è stata tutta colpa mia. Mi troverò con lui più tardi e gli chiederò scusa.»
Nessuno degli zii fumava. Sebbene prima di allora Justine non avesse mai chiesto una birra, in
precedenti occasioni aveva fumato con un'aria di sfida mentre loro conversavano con Rain; ora
risultò che ci sarebbe voluto più coraggio di quanto riuscì a trovarne per tirar fuori le sigarette, e
dunque si accontentò della piccola vittoria della birra, morendo dalla voglia di tracannarla tutta d'un
fiato, assetata, ma conscia del fatto che loro la osservavano dubbiosi. Piccoli sorsi da signora,
Justine, anche se sei più arida di un sermone di seconda mano.
«Rain è un uomo in gamba» disse Hughie, con gli occhi ammiccanti.
Trasalendo, Justine si rese conto a un tratto del perché era cresciuta tanto nella loro considerazione:
aveva accalappiato un uomo che agli zii sarebbe piaciuto avere in famiglia. «Sì, alquanto» disse,
brusca, e cambiò discorso. «È stata una splendida giornata, vero?»
Tutte le teste annuirono all'unisono, anche quella di Frank, ma parve che gli zii non volessero
parlarne. Si rese conto di quanto erano stanchi, eppure non si pentì dell'impulso di andare da loro.
Occorse qualche momento ai suoi sensi e ai suoi sentimenti quasi atrofizzati per rendersi conto di
ciò a cui le servivano in realtà: erano un buon bersaglio per esercitarsi. Ecco il guaio di vivere in
un'isola: dimentichi che esiste qualcos'altro al di là del mare.
«Che cos'è Desdemona?» domandò Frank, dalle ombre ove si celava.
Justine si lanciò in una vivida descrizione, affascinata dal loro orrore quando seppero che sarebbe
stata strangolata ogni sera, e ricordò quanto dovevano essere stanchi soltanto mezz'ora dopo,
allorché Patsy sbadigliò.
«Devo andare» disse, posando il bicchiere vuoto; non le era stata offerta un'altra birra; un bicchiere
costituiva, a quanto pareva, il limite massimo per le signore. «Grazie per avermi ascoltata cicalare.»
Con grande stupore e molta confusione di Bob, gli augurò la buonanotte dandogli un bacio; Jack si
schivò, ma venne catturato facilmente, mentre Hughie accettò il saluto con allegria. Jims diventò di
un rosso acceso e sopportò la cosa ammutolito. Per Patsy, un abbraccio oltre al bacio, perché era un
pochino un'isola egli stesso. E a Frank nemmeno il bacio, perché lui voltò la testa; eppure, quando
lo allacciò con le braccia sentì l'eco fioca di una qualche intensità che negli altri mancava
completamente. Povero Frank. Perché era così?
Una volta uscita dalla stanza, si addossò per un momento alla parete. Rain l'amava. Ma, quando
tentò di telefonare in camera sua, la portineria le disse che aveva lasciato l'albergo per fare ritorno a
Bonn.
Non importava. Forse sarebbe stato preferibile aspettare di essere a Londra per rivederlo, del resto.
Contrite scuse per lettera e un invito a cena in occasione del suo primo viaggio in Inghilterra.
C'erano molte cose che lei non sapeva di Rain, ma di una caratteristica non dubitava affatto; sarebbe
venuto perché in lui non esisteva una sola briciola della capacità di serbare rancore. Dato che gli
affari esteri erano diventati il suo forte, l'Inghilterra costituiva uno dei suoi più regolari porti
d'approdo.
«Aspetta e vedrai, ragazzo mio» disse, contemplandosi nello specchio e vedendo la faccia di lui
anziché la propria. «Farò dell'Inghilterra la tua più importante missione diplomatica, o non mi
chiamo Justine O'Neill.»
Non le era accaduto di pensare che forse, per quanto concerneva Rain, il suo nome era davvero il
nocciolo della questione. Aveva modalità di comportamento ormai radicate, e il matrimonio non ne
faceva parte. Il fatto che Rain potesse voler fare di lei Justine Hartheim non le balenava mai nei
pensieri. Era troppo impegnata nel ricordare il sapore del suo bacio, e nel sognarne altri.
Ora doveva ancora soltanto dire a Dane che non sarebbe potuta andare in Grecia con lui, ma questo
non la preoccupava. Dane avrebbe capito, come sempre. Soltanto, chissà perché, si disse che non gli
avrebbe rivelato tutte le ragioni per cui non poteva accompagnarlo. Per quanto amasse il fratello,
non se la sentiva di ascoltare quella che sarebbe stata una delle sue prediche più severe. Dane
voleva che sposasse Rain, e, se gli avesse detto quali erano i suoi progetti nei confronti di Rain,
l'avrebbe trascinata in Grecia con sé, anche a costo di dovercela portare a viva forza. Ciò che le
orecchie di Dane non udivano non poteva affliggere il suo cuore.
«Caro Rain» diceva il biglietto «mi spiace di essere fuggita come una capra pelosa, l'altra sera, non
riesco a capire che cosa mi avesse preso. La giornata frenetica e tutto il resto, presumo. Ti prego di
perdonarmi se mi sono comportata come una cretina. Mi vergogno di me stessa per avere fatto tante
storie per un'inezia. E presumo che la giornata avesse dato alla testa anche a te, le parole d'amore e
il resto, voglio dire. Quindi sta' a sentire una cosa... tu perdona me e io perdonerò te. Restiamo
amici, ti prego. Non sopporto di essere ai ferri corti con te. La prossima volta che arriverai a
Londra, vieni a cena a casa mia e concluderemo ufficialmente il trattato di pace.»
Come sempre, si limitò a firmare semplicemente «Justine». Non una parola di più, nemmeno di
affetto. Non se ne serviva mai. Accigliandosi, Rainer studiò le frasi casuali e ingenue, come se
avesse potuto vedere attraverso a esse quel che lei aveva avuto in mente, scrivendole. Senza dubbio
si trattava di un'offerta di amicizia, ma di che altro? Sospirando, fu costretto ad ammettere che
probabilmente era ben poco. L'aveva spaventata molto; il fatto che Justine volesse conservare la sua
amicizia lasciava capire quanto tenesse a lui. In fin dei conti, ora sapeva di essere amata; se si fosse
esaminata quanto bastava per rendersi conto che lo amava a sua volta, lo avrebbe detto senz'altro
nella lettera. Eppure, perché era tornata a Londra invece di partire per la Grecia con Dane? Rainer
sapeva di non poter sperare che fosse a causa sua, ma, nonostante i dubbi, la speranza cominciò a
colorare i suoi pensieri così festosamente che chiamò la segretaria. Erano le dieci di mattina, ora
media di Greenwich, l'ora migliore per trovarla in casa.
«Mi dia la comunicazione con l'appartamento di Miss O'Neill a Londra» ordinò, e aspettò, durante i
pochi secondi che trascorsero prima di ottenerla, pizzicandosi il punto in cui le sopracciglia si
sfioravano.
«Rain!» esclamò Justine, apparentemente felice. «Hai ricevuto la mia lettera?»
«In questo momento.»
Dopo una pausa delicata, disse: «E verrai presto a cena da me?»
«Sarò in Inghilterra questo venerdì e sabato. È troppo breve, il preavviso?»
«No, se per te va bene sabato sera. Sto provando la parte di Desdemona, quindi venerdì è escluso.»
«Desdemona?»
«Proprio così, pensa un po'! Clyde mi ha scritto a Roma offrendomi la parte. Marc Simpson
impersona Otello, e la regia è affidata personalmente a Clyde. Non ti sembra meraviglioso? Sono
tornata a Londra con il primo aereo.»
Si fece schermo agli occhi con la mano, lieto del fatto che la segretaria si trovasse nell'altro ufficio e
non sedesse di fronte per vederlo in faccia. «Justine, Herzchen, è una notizia splendida!» riuscì a
dire con entusiasmo. «Mi stavo domandando per quale ragione ti fossi precipitata a Londra.»
«Oh, Dane ha capito» disse lei, allegra «e, in un certo senso, credo che sia stato contentissimo di
restar solo. Aveva inventato una storia dicendo che i miei rimproveri gli erano necessari per
convincerlo a tornare a casa, ma, secondo me, la ragione era un'altra: non vuole ch'io mi senta
esclusa dalla sua vita, adesso che lui è un sacerdote.»
«Probabile» riconobbe Rainer, compìto.
«A sabato sera, allora» disse Justine. «Verso le sei, così potremo concludere il trattato di pace senza
fretta, con l'aiuto di una o due bottiglie, dopodiché, una volta raggiunto un compromesso
soddisfacente, ti sfamerò. D'accordo?»
«Sì, certo. Arrivederci, Herzchen.»
La comunicazione venne interrotta bruscamente; Rainer rimase immobile per un momento con il
ricevitore sempre in mano, poi alzò le spalle e lo rimise sull'apparecchio. Dannata Justine! Stava
cominciando a frapporsi tra lui e il suo lavoro.
Continuò a frapporsi tra lui e il lavoro nei giorni che seguirono, sebbene nessuno potesse
sospettarlo. E, sabato sera, poco dopo le sei, si presentò alla porta dell'appartamento, a mani vuote
come sempre, perché non era facile portarle doni. Era indifferente ai fiori, non mangiava mai
dolciumi, e un regalo più costoso, lo avrebbe gettato con noncuranza in un angolo, per poi
dimenticarsene. I soli regali che Justine sembrasse apprezzare erano quelli fattile da Dane.
«Champagne prima di cena?» domandò lui, guardandola stupito.
«Be', credo che l'occasione lo richieda, non ti sembra? È stata la prima volta che abbiamo rotto le
relazioni, e questa è la nostra prima riconciliazione» rispose in modo plausibile, invitandolo con un
gesto ad accomodarsi su una poltrona comoda e mettendosi sul tappeto fulvo di pelle di canguro,
con le labbra socchiuse, come se avesse già provato le risposte a qualsiasi altra cosa lui potesse dire.
Ma la conversazione gli riusciva impossibile, almeno fino a quando non fosse stato in grado di
valutare meglio lo stato d'animo di Justine. La contemplò in silenzio. Fino a quando non l'aveva
baciata, gli era stato facile mantenersi parzialmente distaccato, ma ora, rivedendola per la prima
volta dopo quel momento, ammise che in avvenire sarebbe stato di gran lunga più difficile.
Probabilmente, anche quando Justine fosse stata una donna molto anziana, avrebbe conservato un
qualcosa di non completamente maturo nel viso e nel portamento; quasi che la femminilità
essenziale la lasciasse sempre indietro. Quella sua mente fredda, egocentrica, logica, sembrava
dominarla completamente, eppure esercitava su di lui un fascino così potente da fargli dubitare che
sarebbe mai riuscito a sostituirla con qualsiasi altra donna. Mai una sola volta si era domandato se
Justine meritasse quella lunga lotta. Forse, da un punto di vista filosofico, non la meritava. Ma
aveva qualche importanza, questo? Era una meta, un'aspirazione.
«Sei molto graziosa questa sera, Herzchen» disse infine, avvicinando a lei il calice di champagne
con un gesto che era in parte un brindisi, in parte il riconoscimento di un'avversaria.
Il fuoco di carbone baluginava non schermato sulla piccola grata vittoriana, ma Justine parve non
badare al calore, e rimase rannicchiata accanto al caminetto, gli occhi fissi su Rainer. Poi posò il
bicchiere sul pavimento con un tintinnio e, seduta, si sporse in avanti, allacciandosi le ginocchia, i
piedi nudi nascosti dalle pieghe del vestito intensamente nero.
«Non sopporto di menare il can per l'aia» disse. «Parlavi sul serio, Rain?»
A un tratto profondamente rilassato, si appoggiò allo schienale della poltrona. «A proposito di che
cosa?»
«A proposito di quello che dicesti a Roma... che mi amavi.»
«Mi hai fatto venire qui per questo, Herzchen?»
Lei distolse lo sguardo, alzò le spalle, poi tornò a fissarlo e annuì. «Be', certo.»
«Ma perché riparlarne? Mi hai detto quello che pensavi, e io avevo creduto che l'invito di questa
sera non si proponesse lo scopo di rievocare il passato, ma di progettare l'avvenire.»
«Oh, Rain, ti stai comportando come se io facessi delle storie! Ma, anche se fosse così, certo riesci a
capire perché.»
«No, non ci riesco.» Posò il bicchiere e si sporse per osservarla più da vicino. «Mi hai fatto capire
nel modo più reciso che non volevi saperne del mio amore, e io avevo sperato che, per lo meno,
avresti avuto il tatto di astenerti dal riparlarne.»
Non le era accaduto di pensare che quell'incontro, qualsiasi esito potesse avere, sarebbe stato così
imbarazzante; in fin dei conti, si era messo nella posizione di uno che supplica e avrebbe dovuto
aspettare umilmente che lei cambiasse idea. Invece, sembrava avere invertito completamente le
parti. Ecco che ora si sentiva come una scolaretta indisciplinata, chiamata a rispondere di qualche
burla idiota.
«Senti, bello, sei stato tu a modificare lo status quo, non io! Non ti ho invitato a venire qui questa
sera allo scopo di chiederti perdono per aver offeso il grande Hartheim!»
«Sei sulla difensiva, Justine?»
Si agitò, spazientita. «Sì, maledizione! Come ci riesci con me, Rain? Oh, vorrei che almeno una
volta tu mi consentissi il piacere di avere la meglio!»
«Se ci riuscissi, tu mi getteresti via come un cencio» disse lui, sorridendo.
«Posso ancora farlo, camerata!»
«Assurdo! Se non lo hai fatto fino a ora, non lo farai mai. Continuerai a frequentarmi perché io ti
tengo sulle spine... non sai mai che cosa aspettarti da me.»
«Per questo hai detto di amarmi?» domandò Justine dolorosamente. «Era soltanto un espediente per
tenermi sulle spine?»
«Tu che cosa credi?»
«Credo che tu sia un bastardo!» fece lei, a denti stretti, e avanzò sul tappeto, restando inginocchiata,
finché non venne a trovarsi abbastanza vicina per fargli sentire tutta la sua ira. «Di' ancora una volta
che mi ami, grosso idiota di un Crauto, e vedrai se non ti sputerò in un occhio!»
Anche Rainer era adirato. «No, non lo dirò più! Non è per questo che mi hai invitato a venire qui,
no? I miei sentimenti non ti interessano minimamente. Mi hai chiesto di venire per poter procedere
a un esperimento con i tuoi sentimenti, e non ti è nemmeno passato per la mente di domandarti se
questo fosse leale nei miei riguardi.»
Prima che avesse potuto indietreggiare, si sporse in avanti, le afferrò le braccia subito sotto le spalle
e le strinse il corpo tra la morsa delle gambe, imprigionandola saldamente. L'ira di Justine svanì
all'istante; gli appiattì i palmi sulle cosce e alzò il viso. Ma Rainer non la baciò. Le lasciò andare le
braccia e si contorse per spegnere la lampada alle sue spalle, poi allentò la presa su di lei e appoggiò
il capo allo schienale della poltrona, per cui non seppe bene se avesse oscurato la stanza, a parte il
bagliore delle braci, come prima mossa del fare all'amore, o soltanto allo scopo di nasconderle la
propria espressione. Incerta, timorosa di un'aperta ripulsa, Justine aspettò di sentirsi dire che cosa
doveva fare. Avrebbe dovuto rendersi conto prima che non si poteva venire alle prese con uomini
come Rain. Erano invincibili quanto la morte. Perché non poteva mettergli il capo in grembo e dire:
Rain, amami, ho tanto bisogno di te e sono tanto pentita? Oh, di certo, se avesse potuto indurlo a
fare l'amore con lei, una qualche chiave emotiva avrebbe girato, e tutto sarebbe rotolato fuori,
liberato...
Sempre chiuso in se stesso, remoto, le consentì di togliergli la giacca e la cravatta, ma, quando
cominciò a sbottonargli la camicia, Justine si rese conto che sarebbe stato inutile. Quella sorta di
abilità erotica istintiva, che può rendere eccitante la situazione più banale, non faceva parte del suo
repertorio. La cosa era tanto importante e lei la stava sciupando nel modo più assoluto. Le sue dita
esitarono, la bocca le si increspò. Scoppiò in lacrime.
«Oh, no! Herzchen, liebchen, non piangere!» Rainer la sollevò, se la mise in grembo e le fece
appoggiare il capo sulla propria spalla, le braccia intorno a lei. «Mi dispiace, Herzchen, non avevo
l'intenzione di farti piangere.»
«Ora lo sai» disse lei, tra un singhiozzo e l'altro, «sono una povera fallita; te lo avevo detto che non
sarebbe stato possibile! Rain, volevo tanto tenerti; ma sapevo che non avrebbe funzionato se ti
avessi lasciato capire quanto sono spaventosa!»
«No, certo che non poteva funzionare. Com'era possibile? Io non ti aiutavo, Herzchen.» Le tirò i
capelli per costringerla ad alzare la faccia verso la sua, le baciò le palpebre, le gote bagnate, gli
angoli della bocca. «La colpa è mia, Herzchen, non tua. Ti stavo ripagando con la stessa moneta;
volevo vedere sin dove ti saresti potuta spingere senza essere incoraggiata. Ma credo di avere
equivocato sui tuoi moventi, nicht wahr?» La voce di lui era diventata più rauca, più teutonica. «E
ora ti dico: se è questo che vuoi, lo avrai, ma lo faremo insieme.»
«Ti prego, Rain, lasciamo stare! Non ho quello che occorre. La cosa potrebbe soltanto deluderti.»
«Oh, lo hai, Herzchen, l'ho veduto sul palcoscenico. Come puoi dubitare di te stessa quando sei con
me?»
E questo era così giusto che le lacrime le si asciugarono.
«Baciami come hai fatto a Roma» gli bisbigliò.
Ma non fu affatto come il bacio di Roma. Quello era stato qualcosa di impetuoso, di allarmante, di
esplosivo; questo fu molto languido e profondo, una possibilità di gustare e odorare e sentire, di
adagiarsi gradualmente in una disinvoltura voluttuosa. Le dita di lei tornarono sui bottoni, quelle di
lui si portarono sulla lampo del vestito di Justine, poi egli le coprì la mano con la sua e la guidò
sotto la propria camicia, su pelle rivestita da un vello di peli fini e soffici. L'improvviso indurirsi
della bocca di Rainer sul suo collo causò una reazione indifesa così acuta che si sentì svenire, le
parve di cadere e constatò che era effettivamente caduta, che si trovava supina sul tappeto, con Rain
profilato sopra di lei. Si era tolto la camicia e forse qualcosa di più, non poteva vedere, intravedeva
soltanto i riflessi del fuoco che gli sfioravano le spalle premute su di lei e la bella bocca severa.
Decisa a distruggerne l'autocontrollo per sempre, gli affondò le dita tra i capelli e lo costrinse a
baciarla ancora, più forte, più forte!
E la sensazione di lui! Come tornare a casa, riconoscere ogni parte di lui con le labbra e le mani e il
corpo; ma, al contempo, era favoloso e strano. Mentre il mondo si riduceva alle dimensioni
minuscole dei riflessi del fuoco che lambivano l'oscurità, Justine si aprì a ciò che egli voleva, e si
rese conto di qualcosa che Rain le aveva tenuto completamente nascosto da quando si conoscevano;
si rese conto che doveva aver fatto l'amore con lei, nell'immaginazione, mille volte. Glielo dissero
l'esperienza e una nuova intuizione. Era del tutto disarmata. Con qualsiasi altro uomo, quell'intimità
e quella sensualità l'avrebbero sgomentata, ma lui si costringeva a fare in modo che queste fossero
cose dipendenti soltanto dalla volontà di Justine. E Justine le guidò con la propria volontà. Finché,
in ultimo, non gli gridò di arrivare al culmine, stringendolo così forte con le braccia da sentire i
contorni delle sue stesse ossa.
Il tempo trascorse, avvolto nella calma della sazietà. Erano scivolati nell'identico ritmo respiratorio,
lento e placido, il capo di Rainer contro la spalla di Justine, una gamba di Justine su di lui. A poco a
poco, la stretta rigida con la quale lo allacciava alla schiena si allentò, divenne una sognante carezza
circolare. Rain sospirò, si voltò e invertì la posizione nella quale giacevano, invitandola, del tutto
inconsciamente, a scivolare ancor più in profondità nel piacere di essere con lui. Gli appoggiò il
palmo sul fianco, per sentire il tessuto della pelle, fece scivolare la mano su un caldo muscolo e la
portò, a coppa, intorno alla soffice, greve massa nell'inguine. Percepire i movimenti curiosamente
vivi e indipendenti entro l'organo fu una sensazione del tutto nuova per lei; i suoi amanti precedenti
non l'avevano mai interessata a tal punto da indurla a protrarre la curiosità sessuale fino a questo
seguito languido e senza pretese. Ma poi, a un tratto, non fu più affatto languido e senza pretese, ma
così enormemente eccitante da far sì che lo volesse tutto di nuovo.
Eppure, venne ugualmente colta di sorpresa, provò uno stupore soffocato quando le insinuò le
braccia sotto la schiena, le prese il capo tra le mani e la tenne così vicina da consentirle di vedere
che non c'era niente di controllato nella sua bocca, plasmata ora esclusivamente a causa di lei e per
lei. Tenerezza e umiltà nacquero, letteralmente, in Justine, in quel momento. E questo dovette
trasparirle sul viso, poiché la stava contemplando con occhi così luminosi da non poterli sopportare,
e lei si inarcò per prendergli il labbro superiore tra le proprie labbra. Pensieri e sensi si fusero
finalmente, ma il suo grido fu soffocato e senza suono, un muto gemito di letizia che la scosse così
profondamente da farle perdere la consapevolezza di tutto tranne l'impulso, il noncurante guidare
ogni attimo incalzante. Il mondo conseguì la sua contrazione ultima, si girò su se stesso e
scomparve completamente.
Rainer doveva aver alimentato il fuoco, poiché, quando la dolce luce del giorno di Londra intrise le
pieghe delle tende, la stanza era ancora calda. Questa volta, allorché si mosse, Justine se ne rese
conto e, timorosa, gli afferrò il braccio.
«Non te ne andare!»
«Non me ne vado, Herzchen.» Rain tolse un altro cuscino dal divano, lo spinse sotto la propria testa
e spostò lei più vicina al suo fianco, sospirando sommessamente. «Tutto bene?»
«Sì.»
«Hai freddo?»
«No, ma se hai freddo tu potremmo andare a letto.»
«Dopo aver fatto all'amore con te per ore su un tappeto di pelliccia? Che calo di tono! Anche se tu
avessi lenzuola di seta nera.»
«Sono comunissime e antiquate lenzuola bianche di cotone. Questo piccolo lembo di Drogheda va
benissimo, no?»
«Un piccolo lembo di Drogheda?»
«Il tappeto! È fatto con le pelli di canguri di Drogheda» gli spiegò.
«Non proprio esotico, né abbastanza erotico. Farò venire per te un tappeto di pelle di tigre
dall'India.»
«Questo mi ricorda una tiritera che ho udito una volta:
"Ti piacerebbe peccare
con Elinor, e amare
su una pelle di tigre?
O forse preferiresti
ciccia contro ciccia
su un'altra pelliccia?"»
«Be', Herzchen, devo dire che era tempo che tornassi a essere quella di sempre! Tra le esigenze di
Eros e di Morfeo, non sei stata irriverente per mezza giornata.» Rainer sorrise.
«In questo momento non ne sento la necessità» disse Justine, rispondendo al sorriso e mettendo la
mano di lui, piacevolmente, tra le proprie gambe. «La tiritera della pelle di tigre è saltata fuori
soltanto perché è troppo bellina perché potessi resistere alla tentazione, ma non mi rimane
nemmeno più un solo scheletro da nasconderti e pertanto l'irriverenza non ha più scopo, ti pare?»
Fiutò, accorgendosi a un tratto di un vago odore di pesce che vagava nell'aria. «Santo Cielo, non hai
cenato, e adesso è quasi ora di far colazione! Non posso pretendere che tu viva d'amore!»
«No, se te ne aspetti così energiche dimostrazioni, in ogni caso.»
«Ma via! te ne sei goduto ogni momento!»
«È vero.» Rain sospirò, si stiracchiò, sbadigliò. «Mi domando se tu abbia un'idea di quanto sono
felice.»
«Oh, credo di sì» rispose lei, sommessamente.
Si sollevò su un gomito per contemplarla. «Dimmi, Desdemona è stata la sola ragione per cui sei
tornata a Londra?»
Afferratogli l'orecchio, Justine glielo torse dolorosamente. «Ora tocca a me punirti per tutte queste
domande da padrone! Tu che cosa pensi?»
Rain si liberò facilmente delle dita, sorridendo. «Se non mi risponderai, Herzchen, ti strozzerò
molto più definitivamente di Marc Simpson.»
«Sono tornata a Londra per interpretare la parte di Desdemona ma anche a causa tua. Non ho più
potuto considerare mia la mia vita da quando mi hai baciata a Roma, e tu lo sai benissimo. Sei un
uomo molto intelligente, Rainer Moerling Hartheim.»
«Abbastanza intelligente per sapere di averti voluta per moglie sin quasi dal primo momento in cui
ti vidi» disse lui.
Justine si drizzò a sedere di scatto. «Moglie?»
«Moglie. Se ti avessi voluta come amante, ti avrei presa anni fa e ci sarei riuscito. So come ragioni,
sarebbe stato relativamente facile. Il solo motivo per cui me ne sono astenuto è stato che ti volevo
per moglie e sapevo che tu non eri pronta ad accettare l'idea di un marito.»
«Non so se lo sono adesso» disse, assimilando le sue parole.
Rain si alzò e la mise in piedi contro di sé. «Bene, puoi esercitarti un po' preparandomi la colazione.
Se questa fosse casa mia, ci penserei io, ma, nella tua cucina, sei tu la cuoca.»
«Non m'importa prepararti la colazione stamane, ma impegnarmi teoricamente a farlo sino al giorno
in cui morirò?» Scosse la testa. «Non credo che questo faccia per me, Rain.»
La sua era sempre la stessa faccia da imperatore romano, imperialmente imperturbabile di fronte
alle minacce di insurrezione. «Justine, questo non è un argomento su cui si possa scherzare, né io
sono il tipo con cui si possa scherzare. Abbiamo tutto il tempo. Tu sai bene che posso essere
paziente. Ma togliti completamente dalla mente che i rapporti tra noi possano essere sistemati in
qualsiasi modo diverso dal matrimonio. Non voglio essere meno importante per te di un marito.»
«Non rinuncerò a recitare!» disse lei, aggressiva.
«Verflüchte Kiste, te l'ho forse chiesto? Vedi di crescere, Justine! Chiunque penserebbe che voglia
condannarti a vita davanti a un acquaio e a una cucina economica! Non siamo precisamente
indigenti, sai. Potrai avere tutta la servitù che vorrai, governanti per i bambini e qualsiasi altra cosa
che sia necessaria.»
«Ahimè!» esclamò Justine, che non aveva pensato ai bambini.
Inclinò il capo all'indietro e rise. «Oh, Herzchen, ecco quella che si suol definire la mattina dopo!
Sono uno sciocco a parlare così presto di realtà, lo so, ma, per il momento, non devi fare altro che
pensarci. Però ti avverto lealmente... prima di prendere una decisione, ricorda che, se non potrò
averti in moglie, non ti vorrò affatto.»
Gli gettò le braccia al collo, avvinghiandosi a lui con ferocia. «Oh, Rain, non rendere la cosa tanto
difficile!» gridò.
Solo, Dane guidò la Lagonda su per lo Stivale, passando per Perugia, Firenze, Bologna, Ferrara,
Padova; preferì aggirare Venezia, e trascorse la notte a Trieste. Era una delle città che prediligeva, e
così si trattenne per altri due giorni sulla costa adriatica prima di dirigersi su per la strada di
montagna fino a Lubiana e di passare un'altra notte a Zagabria. Poi, giù per la grande valle del
fiume Sava, tra campi resi azzurri dai fiori di cicoria, fino a Belgrado e di là a Nis, per un'altra notte
di sosta. Quindi la Macedonia e Skople, ancora in rovine per il terremoto di due anni prima; e Tito-
Veles, la cittadina delle vacanze, bizzarramente turca con moschee e minareti. Per tutto il viaggio
attraverso la Jugoslavia, aveva mangiato frugalmente, perché si vergognava troppo di sedere davanti
a un gran piatto di carne mentre la gente del paese si accontentava del solo pane.
Il confine greco a Evzone, e, al di là, Salonicco. I quotidiani italiani non avevano parlato d'altro che
della rivoluzione sul punto di scoppiare in Grecia. In piedi nella camera d'albergo, contemplando
dalla finestra le dondolanti migliaia di torce accese che si spostavano irrequiete nelle tenebre della
notte, fu lieto che Justine non fosse venuta.
«Pap-an-dre-u! Pap-an-dre-u!» tuonava la folla, cantilenando, turbinando intorno alle torce fino a
mezzanotte passata.
Ma la rivoluzione era un fenomeno delle città, dei grandi concentramenti di gente e di miseria. La
Tessaglia doveva avere lo stesso aspetto con il quale si era presentata alle regioni di Cesare, in
marcia attraverso i campi di stoppie bruciate verso Pompeo a Farsalo. I pastori dormivano all'ombra
di tende di pelli, le cicogne si tenevano ritte su una zampa sola nei nidi in cima ad antichi, bianchi
edifici, e ovunque si stendeva un'aridità terrificante. La Grecia gli ricordò, con i suoi cieli alti e
limpidi, con le sue fulve e desertiche distese senz'alberi, l'Australia. E respirò l'aria profondamente e
cominciò a sorridere al pensiero del ritorno a casa. Ma' sarebbe riuscita a capire, non appena le
avesse parlato.
Sopra Larissa vide il mare, fermò la macchina e discese. Il mare di Omero, scuro come vino, di un
delicato e limpido acquamarina vicino alle spiagge, chiazzato di viola come grappoli d'uva là ove si
stendeva verso il curvo orizzonte. Su un verde spiazzo erboso, molto più in basso rispetto a lui si
trovava un minuscolo tempio a colonne, bianchissimo al sole, e, sul pendio della collina alle sue
spalle, resisteva ancora una cupa fortezza dei Crociati. Oh, Grecia, sei bella, bella, più bella
dell'Italia. Io amo l'Italia. Ma qui c'è la culla, in eterno.
Ansioso di trovarsi ad Atene, ripartì, spinse al massimo la rossa automobile sportiva su per i tornanti
del passo di Domokos e discese giù per l'altro versante nella Beozia, un panorama stupefacente di
uliveti, di colline rugginose, di montagne. Eppure, nonostante la fretta, si fermò a contemplare il
monumento stranamente hollywoodiano eretto a Leonida e ai suoi spartani delle Termopili. La
scritta sulla pietra diceva: «Straniero, va' a dire agli spartani che noi qui giacciamo per aver eseguito
il loro ordine.» Le parole fecero vibrare una corda in lui, sembravano quasi parole che avrebbe
potuto udire in un contesto diverso; rabbrividì e si affrettò a proseguire.
Nel sole fuso, sostò per qualche tempo sopra Kamena Voura, nuotò nell'acqua chiara guardando, al
di là dell'angusto stretto, l'Eubea; di là dovevano aver salpato le mille navi dirette dall'Aulide a
Troia. La corrente era forte e portava con gorghi al largo; non dovevano essere stati costretti a
manovrare i remi con molta energia. Il chiacchiericcio e le carezze estatiche della vecchia rugosa,
vestita di nero, nello stabilimento balneare lo misero in imbarazzo; gli parve di non riuscire ad
allontanarsi abbastanza in fretta da lei. La gente non parlava più apertamente della sua bellezza e, di
conseguenza, la maggior parte delle volte, riusciva a dimenticarla. Indugiando soltanto il tempo
necessario per acquistare un paio di enormi paste piene di crema, ripartì lungo la costa dell'Attica e
giunse infine ad Atene mentre il sole tramontava dorando la grande rocca e la sua preziosa corona di
colonne.
Ma ad Atene c'erano tensione e depravazione e gli sguardi apertamente ammirati delle donne lo
mortificarono; le donne romane erano più sofisticate. La folla sembrava in fermento, qua e là
esplodevano tumulti e il popolo era torvamente deciso ad avere Papandreu. No, Atene non era più la
stessa, meglio recarsi altrove. Lasciò la Lagonda in un'autorimessa e prese il traghetto per Creta.
E là, finalmente, tra gli uliveti, il timo selvatico e le montagne, trovò la pace che cercava. Dopo un
lungo tragitto in autobus, con galline legate per le zampe che starnazzavano e l'onnipresente odore
d'aglio nelle narici, trovò una minuscola locanda dipinta di bianco con un colonnato ad archi e tre
tavoli all'ombra di ombrelloni, all'aperto sul lastricato, e allegre borse greche appese a festoni come
lanterne. C'erano alberi del pepe ed eucalipti australiani, trapiantati in un suolo troppo arido per gli
alberi europei. C'era il frinire delle cicale. E polvere che turbinava formando nuvoloni rossi.
La notte dormiva in una stanza minuscola, simile a una cella, con le imposte spalancate; nel silenzio
dell'alba celebrava una Messa solitaria, durante il giorno passeggiava. Nessuno lo infastidiva e lui
non infastidiva nessuno. Ma, quando passava, gli occhi scuri dei contadini lo seguivano con lento
stupore, e ogni faccia si increspava più profondamente in un sorriso. Faceva caldo e il silenzio era
grande e l'atmosfera sonnacchiosa. Una pace perfetta. I giorni si susseguivano ai giorni, come
chicchi che scorressero tra le dita della mano color cuoio di un abitante di Creta.
Silenziosamente pregava, un sentimento, un espandersi di ciò che si trovava ovunque in lui, pensieri
simili a chicchi di rosario, giorni come chicchi di rosario. Signore, sono davvero Tuo. Delle Tue
tante benedizioni Ti ringrazio. Per il grande Cardinale, il suo aiuto, la sua profonda amicizia, il suo
incessante affetto. Per Roma e la possibilità di trovarmi nel Tuo cuore, di essermi prostrato dinanzi
a Te nella Tua basilica, di aver sentito la roccia della Tua Chiesa entro di me. Tu mi hai benedetto
più di quanto meritassi, che cosa posso fare per Te, per dimostrarMCti la mia gratitudine? Non ho
sofferto abbastanza. La mia vita è stata tutta una lunga, assoluta felicità da quando ho cominciato a
pormi al Tuo servizio. Devo soffrire e Tu che hai sofferto lo sai. Soltanto per il tramite della
sofferenza posso sollevarmi al di sopra di me stesso, capirMCTi meglio. Poiché la vita è questo: un
passaggio verso la comprensione del Tuo mistero. Affondami la Tua lancia nel petto, conficcala così
profondamente da impedirmi per sempre di toglierla! Fammi soffrire... Per Te io abbandono tutti gli
altri, anche mia madre e mia sorella e il Cardinale. Tu solo sei la mia sofferenza, la mia gioia.
Umiliami e io intonerò il Nome Tuo diletto. Distruggimi ed esulterò. Ti amo. Amo soltanto Te...
Era giunto sulla spiaggetta nel cui mare gli piaceva nuotare, una gialla falce di luna tra
strapiombanti dirupi, e rimase in piedi per un momento, guardando, al di là del Mediterraneo, quella
che doveva essere la Libia, molto al di sotto dello scuro orizzonte. Poi discese con leggerezza i
gradini fino alla sabbia, si liberò scalciando delle scarpe di tela, le prese e si fece avanti sulla rena
che morbidamente cedeva, fino al punto in cui lasciava di solito scarpe, camicia, calzoncini. Due
giovani inglesi che parlavano con lo strascicato accento di Oxford giacevano al sole, come aragoste
alla griglia, non lontano, e più in là due donne conversavano sonnacchiosamente in tedesco. Dane
sbirciò le donne e, imbarazzato, si aggiustò le mutandine da bagno, conscio del fatto che avevano
smesso di parlare, drizzandosi a sedere per darsi toccatine ai capelli e sorridergli.
«Com'è l'acqua?» domandò agli inglesi, sebbene mentalmente li chiamasse come tutti gli australiani
chiamano tutti gli inglesi, «pommies». Sembravano far parte del paesaggio, poiché si trovavano
sulla spiaggia ogni giorno.
«Splendida, vecchio mio. Attento alla corrente... è troppo forte per noi. Porta vorticosamente al
largo, in qualche punto.»
«Grazie» sorrise Dane, corse avanti verso le piccole onde che si incurvavano con un aspetto
innocente e si tuffò nell'acqua bassa, da esperto del surf. La corrente era pericolosa, la sentì dargli
strattoni alle gambe per trascinarlo sotto, ma era un nuotatore troppo abile per potersene
preoccupare. A testa bassa scivolò scorrevolmente nell'acqua, godendone la freschezza, la libertà.
Quando si fermò e scrutò la spiaggia, vide le due tedesche mettersi le cuffie e correre ridendo verso
le onde.
Facendosi portavoce con le mani intorno alla bocca, gridò loro in tedesco di restare nell'acqua poco
profonda a causa della corrente. Ridendo, le due fecero segno di aver capito. Egli rimise giù la testa,
nuotò di nuovo e gli parve di udire un grido. Ma nuotò un po' più oltre, poi si fermò, sguazzando
nell'acqua in un punto ove la corrente in profondità non era troppo forte. Qualcuno stava davvero
gridando; voltandosi, vide le donne dibattersi, le loro facce contorte che urlavano, e una delle due,
con le braccia alzate, che affondava. Sulla spiaggia, i due inglesi si erano messi in piedi e con
riluttanza si avvicinavano all'acqua.
Si girò sul ventre e filò attraverso l'acqua, sempre più vicino. Braccia in preda al panico si tesero
verso di lui, gli si avvinghiarono, lo trascinarono sotto; riuscì ad afferrare una donna alla vita quanto
bastava per stordirla con un fulmineo colpo al mento, poi afferrò l'altra per la bretellina del costume
da bagno, le sferrò una ginocchiata violenta alla spina dorsale e le bloccò il respiro. Tossendo,
perché aveva bevuto nell'andare sotto, si girò sulla schiena e cominciò a rimorchiare gli inerti
fardelli.
I due «pommies» avevano l'acqua fino alle spalle, troppo impauriti per azzardarsi oltre, e Dane non
li criticò affatto per questo. Con la punta dei piedi, cominciava appena a toccare la sabbia del fondo;
sospirò di sollievo. Spossato, esercitò un ultimo sforzo sovrumano e spinse le due donne verso la
salvezza. Riprendendo rapidamente i sensi, ricominciarono a strillare e a dibattersi selvaggiamente.
Ansimante, Dane riuscì a sorridere. Aveva fatto la sua piccola parte, gli inglesi potevano ora fare il
resto. Mentre si riposava, il petto sollevato e abbassato dal respiro affannoso, la corrente lo aveva
risucchiato di nuovo al largo, non sfiorava più il fondo con i piedi anche tendendoli al massimo
verso il basso. Era mancato un pelo. Se non si fosse trovato lì, le due donne sarebbero senza dubbio
annegate; i «pommies» non avevano né la forza né la capacità di salvarle. Ma, disse una voce,
hanno voluto nuotare soltanto per avvicinarsi a te; prima di vedere te non avevano alcuna intenzione
di entrare in acqua. La colpa è stata tua se si sono trovate in pericolo, colpa tua.
E mentre galleggiava con facilità, nuotando, un dolore terribile gli sbocciò nel petto, senza dubbio
lo stesso dolore che avrebbe causato la lancia, un lungo e incandescente dardo di urlante sofferenza.
Gridò, alzò le braccia sopra il capo, irrigidendosi, i muscoli percorsi da spasmi convulsi; ma il
dolore si intensificò, lo costrinse a riabbassare le braccia, a conficcarsi i pugni nelle ascelle, a
sollevare le ginocchia. Il cuore! Sto avendo un attacco cardiaco, sto morendo! Il cuore! Non voglio
morire! Non ancora, non prima di avere iniziato la mia opera, non prima di avere avuto il modo di
dar prova di me! Buon Dio, aiutami! Non voglio morire, non voglio morire!
Il corpo percorso da spasmi si immobilizzò, rilasciato; Dane si girò sulla schiena e aprì le braccia
lasciandole inerti nonostante il dolore. Frustato dall'acqua, fissò la sconfinata volta del cielo. Ci
siamo, questa è la Tua lancia, che io, nel mio orgoglio, ho supplicato meno di un'ora fa. Dammi il
modo di soffrire, ho detto, fammi soffrire. E ora che la sofferenza viene, oppongo resistenza,
incapace dell'amore perfetto. Signore adorato, la Tua sofferenza! Devo accettarla, non devo battermi
contro di essa, non devo lottare contro la Tua volontà. La Tua mano è potente e questo è il Tuo
dolore, quello che Tu devi aver sentito sulla Croce. Dio mio, Dio mio, sono Tuo! Se questa è la Tua
volontà, che così sia. Come un bambino, mi affido alle Tue mani. Tu sei troppo buono con me. Che
cosa ho fatto per meritare tanto da Te, e dalle persone che mi amano più di quanto amino chiunque
altro? Perché mi hai dato tanto, mentre io non ne sono degno? Il dolore, il dolore! Sei così buono
con me. Fa' che non sia lungo, ho chiesto, e non è stato lungo. La mia sofferenza sarà breve, finirà
presto. Presto vedrò il Tuo volto, ma ora, mentre ancora mi trovo in questa vita, Ti ringrazio. Il
dolore! Mio Signore adorato, Tu sei troppo buono con me. Ti amo!
Un tremito percorse il corpo immobile, in attesa. Le labbra di Dane si mossero, mormorarono un
Nome, si sforzarono di sorridere. Poi le pupille si dilatarono e per sempre scacciarono tutto l'azzurro
dagli occhi di lui. Finalmente al sicuro sulla spiaggia, i due inglesi abbandonarono sulla sabbia le
donne piangenti e si raddrizzarono cercando Dane con lo sguardo. Ma il mare placido, di un blu
profondo, era deserto, sconfinato; le piccole onde correvano su per la spiaggia e si ritiravano. Dane
era scomparso.
Qualcuno pensò alla vicina base dell'aviazione militare americana, e corse a chiedere aiuto.
Neppure trenta minuti dopo che Dane era scomparso, un elicottero decollò, batté l'aria
freneticamente e percorse giri sempre più ampi e man mano più lontani dalla spiaggia, cercando.
Nessuno si aspettava di vedere qualcosa. Gli uomini affogati finiscono sul fondo e riaffiorano
soltanto dopo giorni. Un'ora trascorse; poi, quindici miglia al largo, avvistarono Dane che
galleggiava placidamente sulla superficie delle acque profonde, le braccia aperte, la faccia voltata
verso il cielo. Per un momento, credettero che fosse vivo e si rallegrarono, ma quando il velivolo si
abbassò tanto da far spumeggiare e sibilare l'acqua, apparve chiaro che era morto. La radio
dell'elicottero trasmise le coordinate, una lancia partì a tutta velocità e tornò tre ore dopo.
La voce era corsa. La gente di Creta amava vederlo passare, amava scambiare con lui poche timide
parole. Lo amava, sebbene non lo conoscesse. Discesero al mare, le donne tutte in nero, come neri
uccelli, gli uomini con antiquati calzoni a borse, camicie bianche con il colletto aperto e le maniche
rimboccate. E rimasero in piedi a gruppi silenziosi, in attesa.
Quando la lancia fu arrivata, un tarchiato sergente maggiore balzò sulla spiaggia e si voltò per
prendere tra le braccia una forma avvolta in una coperta. Risalì di qualche passo la spiaggia al di là
del bagnasciuga e, aiutato da un altro uomo, depose il fardello. La coperta si aprì e, dalla gente di
Creta, si levò un sonoro, frusciante bisbiglio. Vennero ad affollarsi intorno al morto, premendosi
crocifissi sulle labbra screpolate dalle intemperie, le donne intonando sommessi lamenti funebri, un
ohhhhhhhh! senza parole che conteneva quasi una melodia, luttuosa, paziente, terrena, femminile.
Erano circa le cinque del pomeriggio; il sole scivolava a ovest dietro l'accigliato dirupo, ma era pur
sempre abbastanza alto per illuminare il gruppetto scuro sulla spiaggia, il lungo e immobile corpo
sulla spiaggia, con la pelle dorata, gli occhi chiusi, le lunghe ciglia rese ispide dal sale cristallizzato,
il lieve sorriso sulle labbra bluastre. Arrivò una barella, e tutti insieme, uomini di Creta e militari,
portarono via Dane.
Atene era in tumulto, folle ribelli stavano rovesciando ogni ordine costituito, ma il colonnello della
base aerea americana si mise in contatto con i suoi superiori su una speciale frequenza radio,
tenendo in mano il passaporto australiano di Dane. Non diceva niente di lui, come sempre i
documenti del genere. La sua professione era indicata semplicemente come «studente», e sul retro,
sotto la voce «parente più prossimo», era segnato il nome di Justine, con l'indirizzo di Londra.
Indifferente al significato legale del termine, Dane aveva scritto il suo nome perché Londra era di
gran lunga più vicina a Roma di Drogheda. Nella piccola stanza alla locanda, la valigetta nera,
quadrata, contenente le sue cose sacerdotali, non era stata aperta; aspettava, insieme alla valigia, che
qualcuno desse disposizioni su dove spedirla.
Quando il telefono squillò, alle nove del mattino, Justine si rotolò sul letto, aprì un occhio
annebbiato, poi rimase immobile imprecando contro l'apparecchio, giurando che l'avrebbe fatto
scoppiare. Perché tutto il resto del mondo riteneva opportuno e lecito iniziare qualsiasi cosa alle
nove del mattino, e perché tutti pensavano che dovesse essere così anche per lei?
Ma il telefono squillava e squillava e squillava. Forse era Rain; questa riflessione fece pendere la
bilancia verso il completo risveglio e Justine si alzò e andò a piedi nudi, barcollando, nel soggiorno.
Il Parlamento tedesco si era riunito d'urgenza, lei non vedeva Rain da una settimana e pensava che
non lo avrebbe riveduto ancora per un'altra settimana almeno. Ma forse la crisi si era risolta e lui
telefonava per dirle che sarebbe arrivato.
«Pronto.»
«Miss Justine O'Neill?»
«Sì, sono io.»
«Qui è l'Australia House, nell'Aldwych, sa?» La voce aveva un accento inglese e le stava dicendo
un nome che lei era troppo stanca per ascoltare, in quanto stava ancora assimilando il fatto che la
voce non era quella di Rain.
«Okay, Australia House.» Sbadigliando, si tenne in equilibrio su un piede solo e se lo grattò con la
pianta dell'altro.
«Ha un fratello, un certo signor Dane O'Neill?»
Justine aprì gli occhi. «Sì, è mio fratello.»
«Si trova attualmente in Grecia, Miss O'Neill?»
Entrambi i piedi poggiavano adesso fermamente sul tappeto.
«Sì, infatti.» Non le venne in mente di rettificare quanto diceva la voce, di spiegare che era Padre
O'Neill, non il signor O'Neill.
«Miss O'Neill, mi rincresce molto di dirle che ho l'ingrato dovere di darle una brutta notizia.»
«Brutta notizia? Brutta notizia? Di che si tratta? Che cosa c'è? Che cosa è accaduto?»
«Sono spiacente di doverla informare che suo fratello, il signor Dane O'Neill, è annegato ieri a
Creta, in circostanze eroiche, a quanto mi risulta, salvando qualcuno in mare. Tuttavia, lei si rende
conto che in Grecia è in corso una rivoluzione, e che le informazioni di cui disponiamo sono
schematiche, e forse imprecise.»
Il telefono si trovava su un tavolino contro la parete, e Justine si appoggiò al muro. Le si piegarono
le ginocchia, cominciò a scivolar giù molto adagio e finì sul pavimento come un mucchietto
raggomitolato. Senza ridere e senza piangere, emise suoni intermedi, ansiti udibili. Dane affogato.
Un ansito. Dane morto. Un ansito. Creta, Dane, affogato. Un ansito. Morto, morto.
«Miss O'Neill? È all'apparecchio, Miss O'Neill?» domandò la voce, insistente.
Morto. Affogato. Mio fratello!
«Miss O'Neill, mi risponda!»
«Sì, sì, sì, sì, sì! Oh, Dio, sono qui!»
«Mi risulta che lei è la sua parente più prossima, di conseguenza dobbiamo avere le sue istruzioni
per quanto concerne la salma. È all'apparecchio, Miss O'Neill?»
«Sì, sì!»
«Che cosa vuol fare della salma, Miss O'Neill?»
Salma! Era una salma, e non potevano nemmeno dire la sua salma, dovevano dire la salma. Dane,
Dane. È una salma. «La parente più prossima?» udì dire dalla propria voce in tono interrogativo,
una voce sottile e fioca, lacerata da quei grandi ansiti. «Non sono la parente più prossima di Dane. È
mia madre, presumo.»
Seguì un silenzio. «Questo è molto imbarazzante, Miss O'Neill. Se lei non è la parente più
prossima, abbiamo perduto tempo prezioso.» La compita comprensione cedette il posto
all'impazienza. «Lei sembra non rendersi conto che c'è una rivoluzione in corso in Grecia, e che
l'incidente è avvenuto a Creta, una località ancor più lontana, con la quale è difficile collegarsi. Sul
serio! Le comunicazioni con Atene sono virtualmente impossibili e abbiamo avuto l'ordine di far
sapere immediatamente quali sono le istruzioni e i desideri personali del parente più prossimo per
quanto concerne la salma. Sua madre si trova lì? Posso parlarle, per favore?»
«Mia madre non è qui, è in Australia.»
«In Australia? Santo Cielo, andiamo di male in peggio! Ora dovremo telegrafare in Australia; altri
indugi. Se lei non è la parente più prossima, Miss O'Neill, perché il passaporto di suo fratello diceva
che lo era?»
«Non lo so» rispose lei, e si accorse di aver riso.
«Mi dia l'indirizzo di sua madre in Australia, le telegraferemo subito. Dobbiamo sapere che cosa si
deve fare della salma! Prima che il telegramma arrivi e che riceviamo la risposta, trascorreranno
dodici ore, un indugio di dodici ore, spero che se ne renda conto. Sarebbe già stato abbastanza
difficile senza questa complicazione.»
«Le telefoni, allora. Non perda tempo con i telegrammi.»
«Il nostro bilancio non prevede le telefonate internazionali, Miss O'Neill» disse la voce,
freddamente. «E ora, le spiacerebbe darmi il nome e l'indirizzo di sua madre?»
«Signora Meggie O'Neill» cantilenò Justine. «Drogheda, Gillanbone; Nuovo Galles del Sud,
Australia.» E compitò i nomi che non erano familiari alla voce.
«Ancora una volta, Miss O'Neill, le mie più sentite condoglianze.»
Si udì uno scatto nel telefono, poi cominciò il suono interminabile del segnale di linea libera.
Justine rimase seduta sul pavimento e lasciò che il ricevitore le scivolasse in grembo. Doveva
esserci un errore, tutto si sarebbe chiarito. Dane affogato, lui che nuotava come un campione? No,
non era vero. Ma è vero, Justine, lo sai che è vero, non sei andata con lui per proteggerlo, e Dane è
annegato. Sei sempre stata tu a proteggerlo, sin da quando era bambino, e avresti dovuto essere là.
Anche se non avessi potuto salvarlo, avresti dovuto essere là ad affogare con lui. E non sei andata
con lui per una sola ragione, perché volevi trovarti a Londra, così da poter indurre Rain a fare
all'amore con te.
Pensare era così difficile. Tutto era così difficile. Niente sembrava funzionare, nemmeno le gambe.
Non riusciva ad alzarsi, non sarebbe mai più riuscita ad alzarsi. Nella sua mente non c'era spazio per
nulla, tranne Dane, e i pensieri seguivano circoli a sempre minor raggio intorno a Dane. Finché non
pensò a sua madre e agli altri di Drogheda. Oh, Dio. La notizia sarebbe arrivata a loro, come era
arrivata a lei, sarebbe arrivata anche a loro. Ma' non aveva nemmeno potuto vedere a Roma, per
l'ultima volta, il bel viso di Dane. Spediranno il telegramma alla polizia di Gilly, presumo, e il
vecchio sergente Ern salirà sulla sua automobile e percorrerà tutti i chilometri fino a Drogheda per
dire a Ma' che il suo unico figlio è morto. Non è l'uomo adatto per un simile compito, e si tratta
quasi di un estraneo. Signora O'Neill, le mie più sincere e sentite condoglianze, suo figlio è morto.
Parole d'obbligo, cortesi ma vuote... No! Non posso consentire che le facciano questo, non a lei, è
anche mia madre! Non in questo modo, non in questo modo, non come ho dovuto saperlo io!
Tolse il telefono dal tavolo, se lo mise in grembo, portò il ricevitore all'orecchio e formò il numero
del centralino.
«Centralino? Le comunicazioni internazionali, prego. Pronto? Voglio una comunicazione urgente
con l'Australia, Gillanbone, uno-due-uno-due. E la prego, la prego, presto.»
Fu Meggie a rispondere al telefono. Era tardi, Fee aveva deciso di andare a letto, ma in quei giorni
Meggie non se la sentiva mai di coricarsi presto, preferiva rimanere seduta in ascolto dei grilli e
delle rane, appisolarsi leggendo un libro, ricordare.
«Pronto?»
«Chiamano da Londra, signora O'Neill» disse Hazel, a Gilly.
«Pronto, Justine» disse Meggie, serena. Jussy telefonava di quando in quando, anche se di rado, per
sapere come andavano le cose.
«Ma'? Sei tu, Ma'?»
«Sì, sono Ma'» disse Meggie con dolcezza, intuendo la disperazione di Justine.
«Oh, Ma'! Oh, Ma'!» Seguì un suono che parve un ansito, o un singhiozzo. «Ma', Dane è morto.
Dane è morto!»
Un pozzo le si spalancò sotto i piedi. Giù e giù e giù si spingeva, e non aveva fondo. Meggie vi
precipitò, sentì l'imboccatura chiudersi sopra di lei, e capì che non ne sarebbe uscita mai più fino a
quando fosse vissuta. Che altro avrebbero potuto farle gli dei? Non poteva immaginarlo, quando lo
aveva voluto. Come poteva averlo voluto, come poteva non aver immaginato? Non tentare gli dei,
amano essere tentati. Non andando a vederlo in quello che era il momento più bello della sua vita,
non andando a condividerlo con lui, aveva creduto di pagare infine il suo debito. Dane sarebbe stato
liberato dal debito, e liberato da lei. Non vedendo il volto che le era caro più di ogni altro, avrebbe
pagato il debito. Il pozzo si chiuse, soffocante; Meggie, in piedi al telefono, si rese conto che era
troppo tardi.
«Justine, tesoro mio, calmati» disse, energicamente, senza una sola esitazione nella voce. «Calmati
e dimmi: ne sei sicura?»
«Mi hanno telefonato dall'Australia House... credevano che io fossi la sua parente più prossima. Un
uomo spaventoso che voleva sapere soltanto che cosa intendessi fare della salma. "La salma", così
continuava a chiamare Dane. Come se non avesse diritto a qualcosa di più, come se non fosse
appartenuto a nessuno.» Meggie udì il suo singhiozzo. «Dio, immagino che il poveretto odiasse
quanto stava facendo. Oh, Ma', Dane è morto!»
«Come, Justine? Dove? A Roma? Perché Ralph non mi ha telefonato?»
«No, non a Roma. Il Cardinale probabilmente non ne sa nulla. A Creta. L'uomo ha detto che era
annegato; un salvataggio in mare. Era in vacanza, Ma', mi aveva chiesto di andare con lui e io non
ci sono andata, volevo impersonare Desdemona, volevo stare con Rain. Oh, se soltanto lo avessi
accompagnato! Forse, allora, non sarebbe accaduto. Oh Dio, che cosa posso fare?»
«Smettila, Justine» disse Meggie, severa. «Non devi nemmeno pensarle, queste cose, mi senti?
Dane se ne dispiacerebbe, lo sai che è così. Gli incidenti succedono e non sappiamo perché.
L'importante ora è che tu stia bene, che io non vi abbia perduti entrambi. Ormai mi resti solo tu. Oh,
Jussy, Jussy, sei così lontana! Il mondo è grande, troppo grande. Torna a casa, a Drogheda! Non
sopporto di pensarti lì tutta sola.»
«No, devo lavorare. Il lavoro è la sola salvezza per me. Se non lavorassi, impazzirei. Non voglio
vedere gente, non voglio essere consolata. Oh, Ma'!» Prese a singhiozzare amaramente. «Come
potremo vivere senza di lui?»
Come? Era vivere, questo? A Dio appartenevi, a Dio torni. La polvere alla polvere. La vita è per
quelli di noi che hanno fallito. Dio è avido, prende per sé i migliori, e ci lascia nel mondo, a
marcire.
«Non spetta a nessuno di noi stabilire quanto dobbiamo vivere» disse Meggie. «Jussy, grazie
infinite per avermelo detto tu stessa, per aver telefonato.»
«Non sopportavo di pensare che dovesse essere un estraneo a darti la notizia, Ma'. Non così, non da
un estraneo. Che cosa farai? Che cosa puoi fare?»
Con tutta la sua forza di volontà, Meggie cercò di consolare la sua disperata bambina, lontana
migliaia di chilometri. Suo figlio era morto, sua figlia continuava a vivere. Bisognava cercare di
ridarle la serenità. In tutta la sua vita, Justine sembrava aver voluto bene soltanto a Dane. E a nessun
altro, nemmeno a se stessa.
«Justine cara, non piangere. Cerca di non affliggerti. Lui non vorrebbe, non ti sembra? Torna a casa
e dimentica. Porteremo a casa a Drogheda anche Dane. Legalmente è di nuovo mio, non appartiene
più alla Chiesa e non possono impedirmelo. Telefonerò subito all'Australia House, e all'Ambasciata
di Atene, se riuscirò ad avere la comunicazione. Deve tornare a casa! Non sopporterei che riposasse
in qualche luogo lontano da Drogheda. Deve tornare qui dove è nato. Torna con lui, Justine.»
Ma Justine sedeva afflosciata, scuotendo la testa, come se sua madre avesse potuto vederla. Tornare
a casa? Non avrebbe potuto tornare a casa mai più. Se fosse andata con Dane, lui non sarebbe
morto. Tornare a casa e dover vedere la faccia di sua madre, ogni giorno, per tutto il resto della vita?
No, non sopportava nemmeno di pensarci.
«No, Ma'» disse, mentre le lacrime le rotolavano sulla pelle, ardenti come metallo fuso. Chi, in
nome di Dio, ha detto che le persone più commosse non piangono? Chi lo dice non sa niente del
dolore. «Rimarrò qui e lavorerò. Verrò a casa con Dane, ma poi tornerò indietro. Non posso vivere a
Drogheda.»
Per tre giorni aspettarono in un vuoto senza scopo, Justine a Londra, Meggie e la famiglia a
Drogheda, stiracchiando il silenzio ufficiale e tramutandolo in una tenue speranza. Oh, senza
dubbio, dopo tanto tempo sarebbe risultato che era stato un errore; se fosse stato vero, ormai lo
avrebbero saputo! Dane si sarebbe presentato alla porta dell'appartamento di Justine sorridendo, e
avrebbe detto che era stato tutto uno stupido sbaglio. La Grecia era in rivolta, dovevano commettere
ogni sorta di stupidi errori. Dane si sarebbe presentato alla porta di casa sua e avrebbe riso dell'idea
della propria morte, si sarebbe presentato lì, alto e forte e vivo, e avrebbe riso. La speranza
cominciò a crescere e crebbe sempre più, a ogni minuto di quell'attesa. Una speranza traditrice,
orribile. Dane non era morto! Dane, che era un nuotatore così abile da poter sfidare qualsiasi mare,
non era affogato! E così aspettarono. C'era tempo per avvertire la gente, per farlo sapere a Roma.
Il quarto mattino, Justine ricevette la notizia. Come una vecchia, alzò ancora una volta il ricevitore e
chiese la comunicazione con l'Australia.
«Ma'?»
«Justine?»
«Oh, Ma', lo hanno già seppellito; non possiamo portarlo a casa! Che cosa faremo? Sanno dire
soltanto che Creta è grande, che il nome del villaggio non si sa; quando il telegramma è arrivato, lo
avevano già portato non so dove e seppellito. In una tomba anonima, in qualche posto! Non riesco a
ottenere il visto per la Grecia, nessuno vuole aiutarmi, è il caos. Che cosa faremo, Ma'?»
«Trovati con me a Roma, Justine» disse Meggie.
Tutti, tranne Anne Mueller, erano lì, intorno al telefono, ancora in preda a shock. Gli uomini
sembravano invecchiati di vent'anni in tre giorni, e Fee, rinsecchita e piccola come un uccellino,
pallida e curva, si aggirava per la casa, ripetendo: «Perché non è toccato a me? Perché doveva
toccare a lui? Sono così vecchia, così vecchia! Non mi sarebbe importato di andarmene, perché
doveva toccare a lui? Perché non a me? Sono così vecchia!» Anne aveva avuto un collasso, e la
signora Smith, Minnie e Cat erano in lacrime.
Meggie li fissò tutti in silenzio mentre posava il ricevitore. Questa era Drogheda, tutto ciò che ne
restava. Un gruppetto di vecchi e di vecchie, tutti sterili e disfatti.
«Non si sa dove sia Dane» disse. «Nessuno riesce a trovarlo, è stato seppellito da qualche parte a
Creta. Ed è così lontano! Come potrebbe riposare tanto lontano da Drogheda? Andrò a Roma, dal
Cardinale de Bricassart. Se qualcuno può aiutarci, quello è lui.»
Il segretario del Cardinale de Bricassart entrò nella stanza.
«Eminenza, mi duole disturbarla, ma una signora desidera parlarle. Le ho spiegato che c'è un
concilio, che lei è occupatissimo e non può ricevere nessuno, ma dice che aspetterà nel vestibolo
finché non avrà un po' di tempo da dedicare a lei.»
«È turbata, Padre?»
«Molto turbata, Eminenza, non è affatto difficile rendersene conto. Mi ha detto di riferirle che si
chiama Meggie O'Neill.» Pronunciò il nome con il suo accento straniero, per cui suonò come
Meghee Onill.
Il Cardinale Ralph balzò in piedi e il colore gli abbandonò la faccia, lasciandogliela bianca come i
capelli.
«Eminenza! Si sente male?»
«No, Padre. Sto benissimo, grazie. Annulli tutti i miei appuntamenti finché non le darò altre
disposizioni, e faccia entrare immediatamente la signora O'Neill. Non dobbiamo essere disturbati, a
meno che non si tratti del Santo Padre.»
Il prete si inchinò e uscì. O'Neill. Ma certo! Era il cognome del giovane Dane. Avrebbe dovuto
ricordarsene. Soltanto che, nel palazzo del Cardinale, tutti si limitavano a chiamarlo Dane. Ah,
aveva commesso un grave errore facendo aspettare la signora. Se Dane era il nipote tanto diletto di
Sua Eminenza, allora la signora O'Neill doveva essere la sua diletta sorella.
Quando Meggie entrò nella stanza, il Cardinale Ralph quasi non la riconobbe. Tredici anni erano
passati dall'ultima volta che l'aveva vista: ora lei aveva cinquantatré anni e lui ne aveva settantuno.
Erano invecchiati entrambi. Il viso di Meggie non sembrava tanto cambiato quanto piuttosto
definitivamente plasmato, e in una forma diversa da come se l'era immaginato. Con una tagliente
incisività sostituita alla dolcezza, con un che di ferreo in luogo della morbidezza, faceva pensare a
una vigorosa, anziana e volitiva martire, anziché alla santa rassegnata e contemplativa dei suoi
sogni. La bellezza era straordinaria come sempre, gli occhi continuavano a essere dello stesso grigio
argenteo, ma sia la bellezza, sia gli occhi avevano un che di più duro, e i capelli un tempo vividi
sembravano sbiaditi, divenuti di un beige smorto, come quelli di Dane, ma senza vita. Cosa più
sconcertante di ogni altra, non volle guardarlo abbastanza a lungo per soddisfare la sua avida e
affettuosa curiosità.
Incapace di salutare Meggie con naturalezza, Ralph indicò, con un gesto rigido, una sedia.
«Accomodati, ti prego.»
«Grazie» disse lei altrettanto rigida.
Soltanto quando si fu seduta e poté contemplare tutta la sua persona, notò quanto avesse gonfi i
piedi e le caviglie.
«Meggie! Hai viaggiato in aereo dall'Australia fin qui senza mai fare una sosta? Che cosa c'è?»
«Sì, ho viaggiato ininterrottamente sin qui» ella disse. «Per ventinove ore sono rimasta seduta su
aerei tra Gilly e Roma, senza poter fare altro che contemplare, attraverso i finestrini, le nubi, e
pensare.»
La voce era aspra, fredda.
«Che cosa c'è?» ripeté lui spazientito, ansioso e timoroso.
Meggie alzò lo sguardo dai propri piedi e fissò Ralph negli occhi.
Aveva qualcosa di spaventoso negli occhi, qualcosa di tanto tenebroso e raggelante che la pelle sulla
nuca gli formicolò e, meccanicamente, alzò la mano per massaggiarsela.
«Dane è morto» disse Meggie.
La mano di Ralph scivolò giù, cadde come una bambola di pezza sul grembo scarlatto, mentre si
lasciava cadere su una sedia. «Morto?» domandò adagio. «Dane, morto?»
«Sì. È annegato sei giorni fa a Creta, salvando certe donne in mare.»
Ralph si chinò in avanti, si coprì la faccia con le mani. «Morto?» lo udì dire confusamente. «Dane
morto? Il mio bellissimo ragazzo! Non può essere morto! Era il sacerdote perfetto... tutto quello che
io non ho saputo essere. Ciò che mancava a me, lui lo aveva.» Gli venne meno la voce. «Lo ha
sempre avuto... noi tutti ce ne eravamo resi conto... noi che non siamo sacerdoti perfetti. Morto? Oh,
Dio buono!»
«Non stare a perdere tempo con il tuo buon Dio, Ralph» disse l'estranea che gli sedeva di fronte.
«Hai cose più importanti da fare. Sono venuta per chiedere il tuo aiuto... non per assistere al tuo
dolore. Ho avuto tutte quelle ore di tempo sugli aerei per pensare a come te lo avrei detto, tutte
quelle ore mentre contemplavo le nuvole fuori del finestrino, sapendo che Dane è morto. Dopo
questo, il tuo dolore non può più commuovermi.»
Eppure, quando si tolse le mani dalla faccia, il cuore morto e freddo di lei si strinse, si contorse,
palpitò. Era la faccia di Dane, segnata da una sofferenza che Dane non avrebbe più potuto provare.
Oh, Dio ti ringrazio! Grazie, Dio, perché è morto e non può più provare quel che prova quest'uomo,
quello che ho provato io. Meglio morire, anziché soffrire per un simile dolore.
«Come posso aiutarti, Meggie?» domandò lui in tono sommesso, reprimendo visibilmente la
commozione per assumere l'aspetto del consigliere spirituale comprensivo.
«La Grecia è in preda al caos. Hanno seppellito Dane da qualche parte a Creta, e io non riesco ad
accertare dove, quando, perché. Posso soltanto supporre che le mie disposizioni, di riportarlo in
patria in aereo, siano state ritardate a non finire dalla guerra civile, e a Creta fa caldo come in
Australia. Nessuno ha reclamato la salma, probabilmente hanno supposto che non avesse parenti, e
l'hanno seppellito.» Si protese in avanti, tesa. «Rivoglio il mio ragazzo, Ralph, voglio che sia
trovato e portato a casa a dormire, a Drogheda. Ho promesso a Jims che lo avrei avuto a Drogheda e
lo avrò, anche a costo di strisciare sulle mani e sulle ginocchia in tutti i cimiteri di Creta. Non
voglio una tomba fantasiosa da sacerdote romano, Ralph, non finché avrò vita e potrò ricorrere ai
tribunali. Deve tornare a casa.»
«Nessuno te lo negherà, Meggie» disse lui con dolcezza. «Drogheda è terreno cattolico consacrato e
la Chiesa non chiede altro. Io stesso ho chiesto di essere seppellito a Drogheda.»
«Non sono in grado di affrontare tutte le complicazioni burocratiche» disse, come se Ralph non
avesse aperto bocca. «Non parlo il greco e non dispongo né di potere né di influenza. Così, sono
venuta da te, affinché tu faccia valere la tua influenza. Restituiscimi mio figlio, Ralph!»
«Non preoccuparti, Meggie, lo riporteremo là, anche se potrà occorrere del tempo. Le sinistre hanno
conquistato il potere, adesso, e sono decisamente anticattoliche. Tuttavia, non mi mancano gli amici
in Grecia, e pertanto riusciremo. Lascia che metta immediatamente in moto gli ingranaggi, e non ti
crucciare. Dane è un sacerdote della Santa Chiesa Cattolica, e lo riavremo.»
La sua mano si era già alzata verso il cordone del campanello, ma lo sguardo gelido e feroce di
Meggie lo fermò.
«Tu non capisci, Ralph. Non voglio che vengano messi in moto ingranaggi. Rivoglio mio figlio...
non tra una settimana o tra un mese, ma subito! Tu parli il greco, puoi ottenere i visti per te e per
me, e riuscirai. Voglio che tu venga in Grecia con me, immediatamente, e mi aiuti a riavere mio
figlio.»
C'erano molte cose negli occhi di Ralph: tenerezza, compassione, emozione, dolore. Ma avevano
ripreso anche l'espressione degli occhi di un sacerdote, erano saggi, logici, ragionevoli. «Meggie,
amo tuo figlio come se fosse mio, ma non posso allontanarmi da Roma in questo momento. Non
sono libero... tu, più di ogni altro, dovresti saperlo. Nonostante tutto ciò che posso provare per te, e
tutto ciò che provo personalmente, non posso allontanarmi da Roma nel bel mezzo di un Concilio.»
Si gettò indietro, stordita e offesa, poi scosse la testa, con una parvenza di sorriso, come per i lazzi
di un qualche oggetto inanimato, sul quale non avrebbe potuto influire in alcun modo; infine tremò,
si passò la punta della lingua sulle labbra, parve pervenire a una decisione, e si raddrizzò sulla sedia,
rigida e impettita. «Ami davvero mio figlio come se fosse tuo, Ralph?» domandò. «Che cosa faresti
per un figlio tuo? Potresti restartene seduto, in quel caso, e dire a sua madre: "No, sono molto
spiacente, non posso trovare il tempo per occuparmene"? Potresti dire questo alla madre di tuo
figlio?»
Gli occhi di Dane, eppure non gli occhi di Dane. La fissavano, smarriti, colmi di sofferenza,
indifesi.
«Io non ho un figlio» disse «ma, tra le molte, molte cose che ho imparato dal tuo, c'è questa: che,
per quanto possa essere penoso, il mio primo e unico dovere è quello verso Dio Onnipotente.»
«Dane era anche tuo figlio» disse Meggie.
Ralph la fissò inespressivo. «Cosa?»
«Ho detto che Dane era anche tuo figlio. Quando me ne andai dall'isola Matlock ero incinta. Dane
era figlio tuo, non di Luke.»
«Non... non è... vero!»
«Avrei voluto che tu non lo sapessi, anche adesso non volevo rivelartelo» disse Meggie. «Potrei
mentirti?»
«Per riavere Dane? Sì» disse lui, debolmente.
Meggie si alzò, si avvicinò, rimase in piedi accanto a lui, sulla sedia rivestita di broccato rosso,
prese tra le sue la mano di Ralph, sottile, simile a pergamena, si chinò, baciò l'anello, e l'alito della
sua voce appannò il rubino, rendendolo opaco e latteo. «Su tutto ciò che ti è sacro, Ralph, giuro che
Dane era tuo figlio. Non era e non poteva essere il figlio di Luke. Lo giuro su Dane, morto.»
Vi fu un gemito, il suono di un'anima che varca le porte dell'inferno. Lui cadde dalla sedia, e pianse,
rannicchiato sul tappeto cremisi, come una pozza scarlatta simile a sangue appena sparso, la faccia
affondata tra le braccia, le mani avvinghiate ai capelli.
«Sì, piangi!» disse Meggie. «Piangi, ora che lo sai! È giusto che uno dei suoi genitori possa versare
lacrime per lui. Piangi, Ralph! Per ventisei anni io ho avuto tuo figlio, e tu non lo hai mai saputo,
non hai potuto nemmeno rendertene conto. Non ti sei accorto che era uguale a te in tutto e per tutto!
Quando mia madre lo aiutò a venire alla luce, se ne accorse, ma tu non te ne accorgesti mai. Le tue
mani, i tuoi piedi, la tua faccia, i tuoi occhi, il tuo corpo. Soltanto il colore dei capelli era suo; tutto
il resto era tuo. Capisci, adesso? Quando lo mandai qui da te, scrissi nella lettera: "Ciò che ho
rubato, restituisco." Te ne ricordi? Soltanto che rubammo entrambi, Ralph. Rubammo quel che tu
avevi votato a Dio, ed entrambi abbiamo dovuto pagare.»
Tornò a sedersi, implacabile e impietosa, e osservò la forma scarlatta negli spasimi della sofferenza,
sul pavimento. «Ti ho amato, Ralph, ma tu non sei mai stato mio. Quello che ho avuto di te, sono
stata costretta a rubarlo. Dane era la mia parte, la sola cosa che avevo potuto avere da te. Giurai che
non lo avresti mai saputo, giurai che non ti avrei mai dato il modo di togliermelo. E poi egli venne a
te di sua spontanea volontà. Il simbolo del sacerdote perfetto, ti chiamava. Che risate mi feci. Ma
per nessuna ragione al mondo ti avrei fatto sapere che era tuo. Tranne che per questo. Tranne che
per questo! Per qualcosa di meno non te lo avrei detto. Sebbene presuma che ormai non abbia più
importanza. Non appartiene più a nessuno di noi due. Appartiene a Dio.»
Il Cardinale de Bricassart noleggiò un aereo privato per Atene; lui, Meggie e Justine riportarono
Dane a casa, a Drogheda; i vivi seduti e silenziosi, il morto disteso e silenzioso nella bara.
Devo celebrare questa Messa, questa Messa di Requiem, per mio figlio. Per il sangue del mio
sangue, per mio figlio. Sì, Meggie, ti credo. Una volta ripreso fiato, ti avrei creduta anche senza il
giuramento terribile che hai pronunciato. Vittorio se ne accorse non appena mise gli occhi sul
ragazzo, e, in cuor mio, anch'io dovetti accorgermene. Era la tua risata quella che mi giunse dal
ragazzo dietro le rose... ma gli occhi che mi fissarono erano i miei, come li avevo avuti
nell'innocenza. Fee lo sapeva. Anne Mueller lo sapeva. Ma non noi uomini. Noi non meritavamo di
saperlo. Poiché così pensate voi donne, e abbracciate i vostri misteri, voltandoci le spalle a causa
dell'affronto che Dio vi fece non creandovi a Sua immagine. Vittorio lo sapeva, ma fu la donna in
lui a paralizzargli la lingua. Una vendetta magistrale.
Celebra la Messa, Ralph de Bricassart, apri la bocca, muovi le mani nella benedizione, inizia il
canto latino per l'anima del defunto. Che era tuo figlio. Che tu amavi più di quanto abbia amato sua
madre. Sì, di più! Perché era la tua copia, in una forma più perfetta.
«In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti...»
La cappella era gremita; si trovavano lì tutti quelli che avevano potuto venire. I King, gli O'Rourke,
i Davies, i Pugh, i MacMCQueen, i Gordon, i Carmichael, gli Hopeton. E i Cleary, quelli di
Drogheda. La speranza spenta, la luce scomparsa. E, davanti ai fedeli, in una grande bara rivestita di
piombo, Padre Dane O'Neill, coperto di rose. Perché le rose sbocciavano sempre quando lui tornava
a Drogheda? Era il mese di ottobre, la primavera inoltrata. Naturale che le rose fossero sbocciate.
La stagione era quella giusta.
«Sanctus... Sanctus... Sanctus...»
Sappiate che il Santo dei Santi è su di voi. Dane mio, mio splendido figlio. È meglio così. Non avrei
voluto che tu diventassi questo, quello che io sono già. Perché ti dico una cosa simile, non lo so. Tu
non ne hai bisogno, non ne hai mai avuto bisogno. Ciò che io cerco brancolando, tu lo conoscevi
per istinto. Non sei tu a essere infelice, siamo noi qui, noi lasciati indietro. Compatiscici, e, quando
il momento verrà, aiutaci.
«Ite, Missa est... Requiescant in pace...»
Fuori, oltre il prato, oltre gli eucalipti chiari, e gli alberi del pepe, al cimitero. Continua a dormire,
Dane, poiché soltanto i buoni muoiono giovani. Perché ci affliggiamo? Sei fortunato a esserti
sottratto così presto a questa tediosa esistenza. Forse l'inferno è questo, un lungo periodo legati alla
schiavitù sulla terra. Soffriamo le pene dell'inferno vivendo...
La giornata passò. Chi era venuto per il funerale se ne andò, quelli di Drogheda si aggiravano per la
casa e si evitavano a vicenda; il Cardinale Ralph guardò all'inizio Meggie, poi non sopportò più di
guardarla. Justine se ne andò con Jean e Boy King per prendere l'aereo del pomeriggio diretto a
Sydney, e di là quello per Londra, quello della notte. Ralph non ricordava di aver mai udito la sua
voce rauca e seducente, di aver mai veduto quegli strani occhi scialbi. Dal momento in cui si era
trovata con lui e Meggie ad Atene, al momento della partenza con Jean e Boy King, era stata come
un fantasma, strettamente avvolta nel proprio travestimento. Perché non aveva telefonato a Rainer
Hartheim, pregandolo di accompagnarla? Senza dubbio sapeva quanto l'amava, quanto avrebbe
desiderato trovarsi con lei in questi momenti. Ma il Cardinale Ralph non aveva mai riflettuto
abbastanza a lungo da telefonare personalmente a Rainer, sebbene ci avesse pensato, dopo la
partenza da Roma. Erano gente strana, quelli di Drogheda. Non amavano soffrire insieme;
preferivano restar soli con il loro dolore.
Soltanto Fee e Meggie si trattennero con il Cardinale Ralph nel salotto, dopo la cena che nessuno
aveva toccato. Non parlavano; l'orologio di bronzo dorato sulla mensola del caminetto ticchettava e
gli occhi dipinti di Mary Carson fissavano con una muta sfida la nonna di Fee al lato opposto della
stanza. Fee e Meggie sedevano insieme su un divano color crema, e le loro spalle si sfioravano; il
Cardinale Ralph non ricordava di averle mai vedute così vicine, in passato. Ma non dicevano niente,
non si guardavano, né guardavano lui.
Si sforzò di capire che cosa avesse fatto di male. Troppo male, questo era il guaio. Orgoglio,
ambizione, una certa assenza di scrupoli. E l'amore per Meggie fiorito tra queste cose. Ma la felicità
culminante di quell'amore non l'aveva mai conosciuta. Che cosa vi sarebbe stato di diverso se
avesse saputo che Dane era suo figlio? Gli sarebbe mai stato possibile amare il ragazzo più di
quanto lo avesse amato? Avrebbe seguito un sentiero diverso, se avesse saputo di suo figlio? Sì!
gridò il cuore. No, schernì la mente.
Se la prese amaramente con se stesso. Sciocco! Avresti dovuto capire che Meggie era incapace di
tornare da Luke. Avresti dovuto capire subito che Dane era tuo figlio. Meggie era così fiera di lui!
La sola cosa che avesse avuto da te, così ti ha detto a Roma. Bene, Meggie... Con lui hai avuto il
meglio. Buon Dio, Ralph, come hai potuto non renderti conto che era tuo? Avresti dovuto
accorgertene quando venne da te ormai adulto, se non prima. Lei stava aspettando che tu aprissi gli
occhi, moriva dal desiderio che tu capissi; se soltanto avessi capito, si sarebbe inginocchiata per te.
Ma fosti cieco. Non volesti vedere. Ralph Raoul, Cardinale de Bricassart, ecco che cosa hai voluto;
più di lei, più di tuo figlio. Più di tuo figlio!
La stanza si era colmata di minuscole grida, di fruscii, di bisbigli; l'orologio stava ticchettando a
tempo con il suo cuore. Poi non seguì più lo stesso ritmo dell'orologio. Meggie e Fee, in piedi,
spaventate, ondeggiavano, andavano alla deriva, in una nebbia acquosa, impalpabile, dicendogli
cose che sembrava non riuscisse a udire.
«Aaaaaaaaah!» gridò, rendendosi conto di quello che accadeva.
Quasi non sentiva il dolore, consapevole soltanto delle braccia di Meggie che lo stringevano e del
capo che ciondolava contro di lei. Ma riuscì a voltare la testa fino a vederle gli occhi e la
contemplò. Cercò di dirle «Perdonami» e vide che lo aveva perdonato da molto tempo. Capì che era
stata lei ad avere la meglio. Poi volle dirle qualcosa di così perfetto da poterla consolare in eterno, e
si rese conto che anche questo non era necessario. Qualsiasi cosa le accadesse, poteva sopportarla.
Qualsiasi cosa. Chiuse gli occhi e consentì a se stesso di sentire, quell'ultima volta, l'oblio in
Meggie.
Parte settima 1965-1969 Justine
19

Seduto alla sua scrivania a Bonn, davanti alla tazza di caffè della prima mattina, Rainer seppe dal
giornale della morte del Cardinale de Bricassart. La tempesta politica delle settimane precedenti si
stava finalmente attenuando, e pertanto Rainer si era accinto a godersi la lettura del quotidiano,
allietato dalla prospettiva di rivedere presto Justine, e per nulla turbato dal suo recente silenzio. Lo
riteneva normale; Justine era ancora tutt'altro che pronta ad ammettere la portata dei suoi rapporti
con lui.
Ma la notizia della morte del Cardinale fugò ogni pensiero sul conto di Justine. Dieci minuti dopo,
Rainer si trovava al volante di una Mercedes 280 SMCl, diretto verso l'autostrada. Il povero,
vecchio Vittorio sarebbe stato così solo, e il suo fardello era già gravoso anche nei momenti
migliori. Viaggiando in macchina Rainer avrebbe fatto prima; avrebbe potuto trovarsi in Vaticano
senza perdere tempo aspettando i voli, senza andare e venire dagli aeroporti. E viaggiare in
macchina era qualcosa da fare, qualcosa da dominare.
Apprese tutti i particolari dal Cardinale Vittorio, troppo scosso, in un primo momento, per
domandarsi come mai Justine non avesse pensato a mettersi in comunicazione con lui.
«Venne da me e mi domandò se sapessi che Dane era suo figlio» disse la voce dolce, mentre le mani
delicate lisciavano il dorso grigio-azzurro di Natascia.
«E lei che gli disse?»
«Gli dissi che lo avevo supposto. Non avrei potuto dirgli di più. Ma, oh, la sua faccia! La sua
faccia! Piansi.»
«Questo lo ha ucciso, naturalmente. L'ultima volta che lo vidi, mi parve che non stesse bene, ma
rise del mio suggerimento di farsi visitare da un medico.»
«È il volere di Dio. Credo che Ralph de Bricassart fosse uno degli uomini più tormentati ch'io abbia
mai conosciuto. Nella morte troverà quella pace che non ha potuto trovare qui, in questa vita.»
«Ma il ragazzo, Vittorio! Una tragedia!»
«Lei crede? Preferisco pensarla come una cosa bella. Non posso credere che Dane non abbia gradito
la morte, e non è il caso di meravigliarsi se Nostro Signore non ha potuto aspettare un minuto di più
prima di accogliere Dane in Sé. Mi affliggo, sì, ma non per il ragazzo. Per sua madre, che deve
soffrire tanto! E per la sorella, gli zii, la nonna. No, non mi affliggo per lui. Padre O'Neill ha vissuto
nella purezza quasi assoluta della mente e dello spirito. Che cosa ha potuto essere la morte per lui,
se non l'inizio della vita eterna? Per noi, invece, la transizione non è così facile.»
Dal suo albergo Rainer spedì un telegramma a Londra, con il quale non si consentì di comunicare la
propria ira, il risentimento o la delusione. Il testo si limitava a dire: Devo tornare a Bonn ma sarò a
Londra per fine settimana Stop Perché non me lo hai detto e non hai chiesto tutto il mio amore?
Rain.
Sulla scrivania dell'ufficio a Bonn trovò un espresso di Justine e un plico raccomandato che, come
lo informò la segretaria, era pervenuto dagli avvocati del Cardinale de Bricassart a Roma. Aprì per
primo il plico e apprese che, in base alle volontà espresse da Ralph de Bricassart nel suo testamento,
doveva aggiungere un'altra società all'elenco già formidabile delle imprese che dirigeva. La Michar
Limited. E Drogheda. Esasperato, ma al contempo stranamente commosso, si rese conto che quello
era il modo del Cardinale per dirgli come, nel giudizio ultimo, non fosse stato trovato manchevole,
e come le preghiere degli anni di guerra avessero dato i loro frutti. Aveva posto nelle mani di Rainer
la futura prosperità di Meggie O'Neill e dei suoi parenti. O così Rainer interpretò la cosa, poiché la
formulazione del testamento del Cardinale era del tutto impersonale. Né avrebbe potuto essere
diversa.
Gettò il plico nel contenitore della corrispondenza non riservata, da evadere immediatamente, e aprì
la lettera di Justine. Cominciava bruscamente, senza alcuna formula di saluto.
«Grazie per il telegramma. Non hai idea di quanto sia lieta del fatto che non siamo stati in contatto
in queste due ultime settimane, perché non avrei sopportato di averti accanto. Sul momento, la sola
cosa che riuscivo a dirmi pensando a te era: Dio sia ringraziato perché non lo ha saputo. Potrà
riuscirti difficile capirlo, ma non ti voglio vicino a me. Non c'è niente di attraente nel dolore, Rain,
né tu, assistendo al mio, potresti alleviarlo in alcun modo. Invero, potresti dire che tutto questo ha
dimostrato quanto poco io ti ami. Se ti amassi davvero, mi rivolgerei a te istintivamente, non ti
sembra? E invece, constato che ti sto voltando le spalle.
«Per conseguenza, preferirei di gran lunga che considerassimo tutto finito, definitivamente, Rain. Io
non ho niente da darti e non voglio niente da te. Quel che è accaduto mi ha insegnato quanto
contino le persone dopo averle avute accanto per ventisei anni. Non sopporterei di dover provare di
nuovo la stessa cosa, e lo dicesti tu stesso, ricordi? O il matrimonio o niente. Bene, io scelgo il
niente.
«Mia madre mi dice che il vecchio Cardinale è morto poche ore dopo ch'io ero partita da Drogheda.
Strano. Ma' era molto giù a causa della sua morte. Non che abbia detto niente, ma la conosco. Non
riesco a capire perché piacesse tanto a lei e a Dane e a te. Io non sono mai riuscita a trovarlo
simpatico, mi sembrava indicibilmente untuoso. Non sono disposta a modificare questo parere
soltanto perché è morto.
«E con questo ti ho detto tutto. Tutto quello che c'era da dire. Lo penso seriamente. Rain. Niente
corrisponde a ciò che io voglio avere da te. Abbi cura della tua salute.»
Aveva firmato con il solito impetuoso e nero «Justine», tracciato con il pennarello che aveva tanto
gradito quando Rainer glielo aveva dato, un pennarello che tracciava linee abbastanza spesse e
scure e decise per soddisfarla.
Non piegò il biglietto e non lo mise nel portafoglio, né lo bruciò, fece quel che faceva con tutta la
corrispondenza che non richiedeva una risposta: lo infilò nella trinciatrice elettrica applicata al
cestino della carta straccia, non appena ebbe terminato di leggerlo. Dicendosi che la morte di Dane
aveva effettivamente posto termine al risveglio emotivo di Justine, e addolorandosene molto. Non
era giusto. Aveva aspettato tanto.
Al termine della settimana, partì ugualmente in aereo per Londra, ma non allo scopo di vedere lei,
anche se la vide. Sulla scena, come la diletta consorte del Moro, Desdemona. Formidabile. Non
poteva far niente per lei che non potesse farlo anche il teatro, non per qualche tempo, almeno. Ecco
la mia coraggiosa ragazza! Riversava tutto sul palcoscenico.
In realtà, Justine non poteva riversare tutto sul palcoscenico, in quanto era troppo giovane per
impersonare Ecuba. Il palcoscenico era semplicemente il solo posto che le consentiva pace e oblio.
Riusciva soltanto a dire a se stessa: il Tempo guarisce tutte le ferite... ma non ci credeva. E
domandava a se stessa come mai quella ferita continuasse a farla tanto soffrire. Finché Dane era in
vita, in realtà non aveva pensato molto a lui, se non quando si trovava in sua compagnia, e, dopo la
fanciullezza, il tempo trascorso insieme era divenuto limitato: le loro vocazioni erano opposte. Ma
la morte di Dane aveva aperto un vuoto così enorme che disperava di poterlo mai colmare.
Quel che la faceva soffrire di più era lo shock di doversi correggere nel bel mezzo di una reazione
spontanea: devo ricordarmi di parlare di questo a Dane, lo divertirà moltissimo... E siccome lo
shock continuava a ripetersi, protraeva il dolore. Se le circostanze della morte di Dane fossero state
meno orribili, forse sarebbe riuscita a riprendersi più rapidamente, ma gli eventi da incubo di quei
pochi giorni continuavano a essere vividi. Dane le mancava in modo intollerabile, i suoi pensieri
tornavano sempre e sempre all'incredibile realtà di quella morte, della morte di Dane, che non
sarebbe tornato mai più.
Poi, c'era la persuasione di non averlo aiutato abbastanza. Tutti, tranne lei, sembravano ritenere che
fosse stato perfetto, che non avesse conosciuto i turbamenti degli altri uomini, ma Justine sapeva
che era stato assillato dai dubbi, che si era tormentato per la propria indegnità, domandandosi che
cosa potesse vedere in lui la gente, a parte la faccia e il corpo. Povero Dane, sembrava non capire
quanto la gente amasse la sua bontà. Come era terribile ricordare che era troppo tardi, ormai, per
aiutarlo!
Si affliggeva, inoltre, per sua madre. Se la morte di Dane aveva potuto fare questo a lei, che cosa
doveva aver fatto a Ma'? L'immagine degli zii recatisi a Roma per la sua ordinazione, gli zii che
gonfiavano orgogliosi il torace come piccioni. Questa era la cosa peggiore di tutte, raffigurarsi la
vuota desolazione di sua madre e degli altri a Drogheda.
Sii schietta, Justine. È questo, sinceramente, il peggio? Non c'è qualcosa di gran lunga più
sconvolgente? Non riusciva a scacciare il pensiero di Rain, il pensiero di aver tradito Dane. Per
soddisfare i propri desideri, aveva lasciato che Dane si recasse da solo in Grecia, mentre, se fosse
andata con lui, avrebbe potuto salvargli la vita. Non c'era altro modo di prospettarsi la cosa. Dane
era morto a causa della sua egocentrica infatuazione per Rain. Era troppo tardi, ormai, per far
tornare suo fratello, ma, se non avesse più riveduto Rain, avrebbe potuto in qualche modo espiare.
Così passarono le settimane, e poi i mesi. Un anno, due anni. Desdemona, Ofelia, Porzia, Cleopatra.
Sin dall'inizio si era lusingata di comportarsi esteriormente come se nulla fosse accaduto per
distruggere il suo mondo; con un'attenzione squisita, si sforzava di parlare, di ridere, di avere
rapporti del tutto normali con gli altri. Se un mutamento esisteva, consisteva nel fatto che era più
comprensiva di un tempo, poiché le sofferenze degli altri tendevano a influenzarla come se fossero
state sue. Ma, tutto sommato, esteriormente era sempre la stessa Justine... irriverente, esuberante,
impertinente, distaccata, aspra.
Per due volte tentò di tornare a casa, di recarsi sia pur soltanto per qualche giorno a Drogheda, e la
seconda volta arrivò al punto di pagare il biglietto dell'aereo. Ma ogni volta saltò fuori un motivo
enormemente importante che, all'ultimo momento, le impedì di partire, sebbene sapesse che la
ragione vera era un insieme di rimorso e viltà. Semplicemente non riusciva a trovare il coraggio di
affrontare sua madre: avrebbe significato rivivere tutta la storia, probabilmente nel pieno di una
tempesta di dolore che, fino a quel momento, era riuscita a evitare. Quelli di Drogheda, e sua madre
soprattutto, dovevano continuare a essere saldi nel proprio convincimento che Justine, per lo meno,
fosse serena, che Justine fosse riuscita a sopravvivere relativamente illesa. Meglio, dunque, restare
lontana da Drogheda.
Molto meglio.
Meggie si sorprese a sospirare, e represse il sospiro. Se non avesse avuto le ossa così indolenzite,
avrebbe potuto sellare un cavallo e fare una galoppata, ma, quel giorno, il solo pensarci le riusciva
doloroso. Qualche altra volta, quando l'artrite non avesse fatto sentire la propria presenza così
crudelmente.
Udì un'automobile, poi il tonfo della testa d'ariete di bronzo contro la porta di casa, udì voci che
mormoravano, la voce di sua madre, dei passi. Non si trattava di Justine, e dunque che cosa
importava?
«Meggie» disse Fee, dall'ingresso della veranda, «abbiamo una visita. Potresti entrare in casa, per
piacere?»
Il visitatore era un uomo maturo, dall'aria distinta, anche se avrebbe potuto essere più giovane di
quanto sembrava. Molto diverso da ogni uomo che aveva conosciuto, se non per il fatto che c'erano
in lui la stessa forza e la stessa fiducia in se stesso possedute un tempo da Ralph. Possedute un
tempo. Il più definitivo dei modi di dire al passato. Ora davvero definitivo.
«Meggie, questo è il signor Rainer Hartheim» disse Fee, rimanendo in piedi accanto alla poltrona.
«Oh!» esclamò Meggie, molto stupita dall'aspetto di Rain, che aveva avuto tanto posto, in passato,
nelle lettere di Justine. Poi, ricordando le buone maniere, disse: «Si accomodi, la prego.»
Anche lui la stava fissando, stupito. «Non somiglia minimamente a Justine!» osservò, con tono
inespressivo.
«No, infatti.» Gli sedette di fronte.
«Ti lascio sola con il signor Hartheim, Meggie. Vuole parlarti in privato. Quando gradirete il tè,
suona» ordinò Fee, e se ne andò.
«Lei è l'amico tedesco di Justine, naturalmente» disse Meggie, imbarazzata.
Si tolse di tasca il portasigarette. «Posso?»
«Prego.»
«Ne gradirebbe una, signora O'Neill?»
«Grazie, no, non fumo.» Si lisciò il vestito. «Si trova molto lontano dalle sue parti, signor Hartheim.
Ha affari in Australia?»
Lui sorrise, domandandosi che cosa avrebbe detto se avesse saputo che era, in effetti, il proprietario
di Drogheda. Ma non aveva alcuna intenzione di dirglielo, preferiva che tutti, a Drogheda,
ritenessero il loro benessere affidato completamente alle mani impersonali del gentile signore che
aveva assunto come intermediario.
«La prego, signora O'Neill, mi chiamo Rainer» disse, pronunciando il suo nome nello stesso modo
di Justine, e pensando intanto che quella donna non lo avrebbe spontaneamente chiamato per nome
ancora per qualche tempo; non era il tipo da rilassarsi con gli estranei. «No, non ho alcuna missione
ufficiale in Australia, ma sono venuto per una buona ragione. Volevo parlarle.»
«Parlare con me?» domandò lei, stupita. Come per celare l'improvvisa confusione, passò subito a un
argomento meno incerto. «I miei fratelli parlano spesso di lei. Fu molto gentile con loro, quando si
trovavano a Roma per l'ordinazione di Dane.» Pronunciò il nome di Dane senza sofferenza, come se
lo ripetesse spesso. «Spero che possa trattenersi per qualche giorno, per vederli.»
«Sì, mi è possibile, signora O'Neill» rispose lui, disinvolto.
Per Meggie, il colloquio risultava inaspettatamente imbarazzante; quell'uomo era uno sconosciuto,
aveva detto di essersi sobbarcato a un viaggio di diciannovemila chilometri soltanto per parlarle, e,
a quanto pareva, non aveva alcuna fretta di illuminarla riguardo al perché. Pensò che avrebbe finito
con il piacerle, ma si sentiva un po' intimidita. Forse non aveva mai avuto a che fare con un uomo
come quello, ed era questa la ragione per cui la sconcertava. In quel momento, nella sua mente, si
insinuò un concetto molto nuovo di Justine: sua figlia poteva, in effetti, avere rapporti disinvolti con
uomini come Rainer Moerling Hartheim! Finalmente pensò a Justine come a una donna, una sua
simile.
Sebbene invecchiata e bianca di capelli, continuava a essere molto bella, pensava Rainer mentre la
contemplava, in modo compìto; era ancora stupito che non somigliasse affatto a Justine, mentre
Dane aveva avuto una somiglianza così spiccata con il Cardinale. Come doveva sentirsi sola!
Eppure, non riusciva a provare per lei la stessa compassione che gli ispirava Justine; ovviamente,
Meggie era venuta a patti con se stessa.
«Come sta Justine?» gli domandò Meggie.
Lui alzò le spalle. «Temo di non saperlo. Non l'ho più veduta dopo la morte di Dane.»
Meggie non tradì alcuno stupore. «Io stessa non l'ho più veduta dopo il funerale di Dane» disse, e
sospirò. «Speravo che tornasse a casa, ma ora comincio a temere che non verrà mai.»
Rainer emise un suono tranquillizzante, che lei parve non udire, poiché continuò a parlare, ma in
tono diverso, rivolta più a se stessa che a lui.
«Drogheda è come un ricovero per anziani, ormai» disse. «Abbiamo bisogno di sangue giovane, e
Justine è il solo sangue giovane che sia rimasto.»
La compassione lo abbandonò; si sporse in avanti con una mossa rapida, gli occhi splendenti. «Parla
di lei come se fosse un bene mobile di Drogheda» disse, e la sua voce divenne aspra. «L'avverto,
signora O'Neill, non lo è!»
«Che diritto ha di giudicare che cosa sia o non sia Justine?» disse Meggie, irosamente. «In fin dei
conti, ha detto lei stesso di non averla più veduta dopo la morte di Dane, e si tratta di due anni fa!»
«Sì, ha ragione. Sono trascorsi ben due anni.» Si espresse con più dolcezza, rendendosi conto, di
nuovo, di cosa dovesse essere la sua esistenza. «Lei è molto forte, signora O'Neill.»
«Crede?» gli domandò sforzandosi intensamente di sorridere, senza mai distogliere gli occhi da
quelli di lui.
A un tratto, Rainer cominciò a capire che cosa doveva aver veduto il Cardinale in Meggie, per
amarla tanto. Una dote che non esisteva in Justine; ma, d'altro canto, lui non era il Cardinale Ralph:
cercava cose diverse. «Sì, è molto forte» ripeté.
Lei afferrò immediatamente l'allusione, e trasalì. «Come sa di Dane e di Ralph?» domandò con voce
malferma.
«L'ho supposto. Non si preoccupi, signora O'Neill, nessun altro ha mai sospettato. L'ho supposto
perché conobbi il Cardinale molto tempo prima di conoscere Dane. A Roma tutti credevano che il
Cardinale fosse suo fratello, lo zio di Dane, ma Justine mi disingannò la prima volta che mi trovai
con lei.»
«Justine? Non Justine!» gridò Meggie.
Si sporse per prenderle la mano, che batteva frenetica sul ginocchio. «No, no, no, signora O'Neill!
Justine non ne ha assolutamente la più pallida idea, e prego Dio che non lo sappia mai!»
«Ne è sicuro?»
«Sì, posso giurarglielo.»
«Allora, in nome di Dio, perché non torna a casa? Perché non viene a trovarmi? Perché non riesce a
indursi a guardarmi in faccia?»
Non soltanto le parole, ma lo strazio nella sua voce gli dissero che cosa aveva tormentato la madre
di Justine in quegli ultimi due anni. L'importanza della sua missione parve ridursi; ora ne aveva
un'altra, placare i timori di Meggie.
«Di questo devo essere incolpato io» disse con fermezza.
«Lei?» domandò Meggie, smarrita.
«Justine si era proposta di andare in Grecia con Dane, ed è persuasa che, se lo avesse
accompagnato, lui sarebbe ancora vivo.»
«Assurdo!» esclamò Meggie.
«Certo. Ma anche se noi ce ne rendiamo conto, non è così per Justine. Spetta a lei farglielo capire.»
«A me? Allora non si rende conto, signor Hartheim. Justine non mi ha mai ascoltata in tutta la sua
vita, e a questo punto ogni ascendente che posso aver avuto su di lei in passato è scomparso
completamente. Non vuole più nemmeno vedere la mia faccia.»
Il suo tono di voce era quello della sconfitta ma non dello sconforto. «Sono caduta nella stessa
trappola di mia madre» continuò quasi sbrigativamente. «Drogheda è la mia vita... la casa, i
registri... Qui sono necessaria, trovo ancora uno scopo nella vita. Qui ci sono persone che fanno
conto su di me. I miei figli non hanno mai fatto conto su di me, sa. Mai.»
«Questo non è vero, signora O'Neill. Se lo fosse, Justine potrebbe tornare a casa senza alcun
rimorso. Lei sottovaluta l'intensità del suo affetto. Quando le dico che è mia la colpa di quello che
Justine sta passando, intendo dire che rimase a Londra a causa mia, per essere con me. Ma ora
soffre per lei, non per me.»
Meggie si irrigidì. «Non ha alcun diritto di soffrire per me! Soffra per se stessa, se deve, ma non per
me. Mai per me!»
«Allora mi crede quando le dico che non sa niente di Dane e del Cardinale?»
I modi di lei mutarono, come se le avesse rammentato che c'erano altre cose in gioco, e che le stava
perdendo di vista. «Sì» rispose. «Le credo.»
«Sono venuto a parlarle perché Justine ha bisogno del suo aiuto e non può chiederglielo. Deve
persuaderla che ha bisogno di riprendere le fila della sua vita... non la vita di Drogheda, ma la sua
vita, la quale non ha niente a che vedere con Drogheda.»
Si appoggiò allo schienale della poltrona, accavallò le gambe e accese un'altra sigaretta. «Justine ha
indossato una sorta di cilicio, per tutte le ragioni più sbagliate. Se esiste una persona che può
farglielo capire, quella è lei. L'avverto, però, che, se deciderà di far questo, Justine non tornerà mai
a casa, mentre, se dovesse continuare come sta facendo, potrebbe benissimo finire con il fare ritorno
qui, definitivamente.
«Il palcoscenico non basta per una creatura come Justine e si avvicina il giorno in cui se ne renderà
conto. Allora dovrà optare tra persone diverse... o la sua famiglia e Drogheda, o me.» Le sorrise con
profonda comprensione. «Ma anche le persone non bastano a Justine, signora O'Neill. Se Justine
sceglierà me, potrà avere anche il teatro, e questo Drogheda non può darglielo.» Ma non la stava
fissando con durezza, come se fosse stata un'avversaria. «Sono venuto a chiederle di fare in modo
che sua figlia scelga me. Potrà sembrare crudele dirlo, ma io ho bisogno di Justine più di quanto
possa averne bisogno lei.»
Meggie tornò combattiva. «Drogheda non è poi una scelta così cattiva. Lei ne parla come se fosse la
fine della sua esistenza, ma le cose non stanno affatto in questo modo, sa. Anche qui potrebbe avere
ugualmente il teatro. Anche se sposasse Boy King, come sua nonna e io abbiamo sperato per anni, i
suoi figli sarebbero ben curati, durante le assenze di Justine, come lo sarebbero se sposasse lei.
Questa è la sua casa. Justine conosce e capisce questo genere di vita. Se lo scegliesse, saprebbe
benissimo che cosa implica. Può forse dire la stessa cosa del genere di vita che le offrirebbe lei?»
«No» disse Rainer, imperturbabile. «Ma Justine prospera con le sorprese. A Drogheda si
intorpidirebbe.»
«Vuol dire, in realtà, che qui sarebbe infelice.»
«No, non precisamente. Non dubito affatto che, se decidesse di tornare qui, e di sposare questo Boy
King... chi è Boy King, a proposito?»
«L'erede di un allevamento confinante, Bugela, un vecchio amico d'infanzia che vorrebbe essere per
lei qualcosa di più di un amico. Il nonno vuole il matrimonio per ragioni dinastiche; io lo voglio
perché penso che sia ciò di cui Justine ha bisogno.»
«Capisco. Bene, se tornasse qui e sposasse Boy King, imparerebbe a essere felice. Ma la felicità è
una condizione relativa. Non conoscerebbe mai, credo, il genere di soddisfazione che troverebbe
con me. Perché, signora O'Neill, Justine ama me, non Boy King.»
«Allora ha un modo assai strano di dimostrarlo» disse Meggie tirando il cordone del campanello per
ordinare il tè. «Inoltre, signor Hartheim, come ho già detto, ritengo che sopravvaluti il mio
ascendente su di lei. Justine non ha mai minimamente badato a qualsiasi cosa io dicessi, e tanto
meno volessi.»
«Non è una sciocca, signora O'Neill» rispose Rainer. «Sa come regolarsi, se vuole. Posso soltanto
chiederle di riflettere su quello che ho detto. Faccia pure con calma, non c'è alcuna fretta. Sono un
uomo paziente.»
Meggie sorrise. «Allora è una rarità.»
Rainer non tornò più su quell'argomento, e lei neppure. Nella settimana che si trattenne a Drogheda,
Rainer si comportò come ogni altro ospite qualsiasi, sebbene Meggie avesse la sensazione che
cercasse di dimostrarle che tipo di uomo era. Quanto lo stimassero i suoi fratelli fu chiaro, poiché
non appena nei pascoli si seppe del suo arrivo, tutti si affrettarono a rientrare e rimasero in casa fino
alla partenza di lui per la Germania.
Anche Fee lo aveva in simpatia; gli occhi le erano peggiorati al punto che non poteva più tenere i
registri, eppure era tutt'altro che senile. La signora Smith era morta nel sonno l'inverno precedente
non prima dell'età giusta, e, piuttosto che infliggere una nuova governante a Minnie e a Cat,
entrambe anziane ma ancora vegete, Fee aveva ceduto completamente la contabilità a Meggie per
prendere, più o meno, il posto della signora Smith. Fu Fee a rendersi conto per prima che Rainer era
un legame diretto con quella parte della vita di Dane che nessuno a Drogheda aveva mai avuto la
possibilità di condividere, e pertanto fu lei a pregarlo di parlarne.
Dietro la maschera della cortesia, Meggie non riusciva a dimenticare quel che Rain le aveva detto, e
continuava a meditare sulla scelta che le aveva offerto. Già da molto tempo aveva rinunciato a
sperare nel ritorno di Justine, e ora lui quasi lo garantiva e riconosceva, addirittura, che Justine
sarebbe stata felice se fosse tornata. Inoltre anche per una diversa ragione doveva essergli
immensamente grata: aveva esorcizzato il fantasma del suo timore che, in qualche modo, Justine
fosse riuscita a scoprire il legame tra Dane e Ralph.
Quanto al matrimonio con Rain, Meggie non vedeva che cosa avrebbe potuto fare per spingere
Justine là ove, a quanto pareva, non aveva alcun desiderio di andare. O forse non voleva vederlo?
Aveva finito con l'apprezzare moltissimo Rain, ma la felicità di quest'ultimo non poteva certo
contare per lei tanto quanto il benessere di sua figlia, di tutti loro a Drogheda, e della stessa
Drogheda. L'interrogativo cruciale era: fino a che punto poteva essere essenziale Rain per la felicità
di Justine? Nonostante quanto sosteneva lui, cioè di essere amato da Justine, Meggie non ricordava
di aver mai udito dire dalla figlia qualcosa da cui si potesse arguire che Rain rivestiva per lei la
stessa importanza avuta da Ralph ai suoi occhi.
«Presumo che si incontrerà con Justine, prima o poi» gli disse, quando lo accompagnò in macchina
all'aeroporto. «In quell'occasione, preferirei che non accennasse a questa visita a Drogheda.»
«Se lo desidera» rispose lui. «La pregherei soltanto di riflettere su quel che le ho detto, pur
prendendosi tutto il tempo che vorrà.» Ma, nel momento stesso in cui glielo chiese, non poté fare a
menò di pensare che quella visita avesse avvantaggiato Meggie assai più di lui.
Quando giunse la metà di aprile, due anni e mezzo dopo la morte di Dane, Justine provò il desiderio
travolgente di vedere qualcosa di diverso da file di case e gente accigliata. All'improvviso, in quella
splendida giornata di dolce aria primaverile e di freddo sole, il centro di Londra le riuscì
intollerabile. Prese il treno per Kew Gardens, lieta che fosse un martedì: avrebbe avuto il parco
quasi tutto per sé. Inoltre, quella sera non recitava e pertanto non avrebbe avuto alcuna importanza
se si fosse stancata a camminare.
Conosceva bene il parco, naturalmente. Per chiunque venisse da Drogheda, Londra era una gioia
con le sue innumerevoli aiuole di fiori, ma i Kew Gardens rientravano in una categoria tutta loro.
Un tempo ci andava sempre da aprile alla fine di ottobre, poiché ogni mese aveva un diverso
spettacolo floreale da offrire.
La metà d'aprile era il periodo che prediligeva, il periodo dei narcisi e delle azalee. C'era un punto,
in particolare, che riteneva uno dei più belli del mondo, su piccola scala. Sedette sul terreno umido
per contemplarlo avidamente, come un pubblico formato da una sola persona. Sin dove giungeva lo
sguardo, si stendeva un tappeto di narcisi selvatici; a metà distanza, la gialla orda di ondeggianti
campanule sembrava scorrere intorno a un mandorlo in fiore, i cui rami erano talmente carichi di
petali bianchi da incurvarsi verso il basso, lungo archi perfetti e immobili come un dipinto
giapponese. Serenità. Era così difficile trovarla.
E poi, mentre reclinava il capo all'indietro per imprimersi nella mente l'assoluta bellezza del
mandorlo carico di fiori sull'ondulato mare d'oro, qualcosa di assai meno bello si intromise. Rainer
Moerling Hartheim, tra tutte le persone possibili, che avanzava con cautela tra i narcisi, la mole
protetta dall'aria gelida dall'inevitabile giacca di cuoio tedesca, mentre il sole gli splendeva sui
capelli argentei.
«Ti prenderai un colpo di freddo alle reni» disse, togliendosi la giacca e stendendola al suolo con la
fodera in alto.
«Come hai fatto a trovarmi?» domandò lei, e si spostò, contorcendosi, su un angolo della seta
marrone.
«La signora Kelly mi ha detto che eri venuta a Kew. Il resto è stato facile. Ho camminato finché non
ti ho vista.»
«Supporrai, immagino, che dovrei caderti tra le braccia esultante, tralla-là?»
«Sei esultante?»
«Sempre lo stesso Rain, rispondi a una domanda con una domanda. No, non sono lieta di vederti.
Credevo di essere riuscita a farti strisciare definitivamente entro un tronco cavo.»
«È difficile mantenere definitivamente un uomo valido entro un tronco cavo. Come stai?»
«Sto benissimo.»
«Ti sei leccata a sufficienza le ferite?»
«No.»
«Be', questo era prevedibile, presumo. Ma ho cominciato a rendermi conto che, dopo avermi
congedato, non avresti mai umiliato il tuo orgoglio al punto da fare la prima mossa verso la
riconciliazione. Mentre io, Herzchen, sono abbastanza saggio per sapere che gli orgogliosi sono
compagni di letto molto solitari.»
«Non metterti in mente che ti sia possibile farti un posto scalciando, Rain, perché, ti avverto, non
intendo accettarti in quella veste.»
«Anch'io non ti voglio più in quella veste.»
La prontezza della risposta la irritò, ma si finse sollevata e disse: «Sul serio?»
«Se ti volessi ancora così, credi che avrei sopportato di restare lontano da te così a lungo? Sei stata
una fantasia fuggevole, in quel senso, ma continuo a pensare a te come a una cara amica, e mi
manchi in quanto cara amica.»
«Oh, Rain, è così anche per me!»
«Bene. Sono ammesso come amico, allora?»
«Naturale.»
Si distese sulla giacca e incrociò le braccia sotto la nuca, sorridendole pigramente. «Quanti anni hai
adesso, trenta? Con quel vestito disgraziato sembri una studentessa insipida. Se anche non hai
bisogno di me per nessun'altra ragione, Justine, senza dubbio ti occorro come arbitro di eleganza.»
Rise. «Ammetto che quando pensavo di vederti sbucar fuori dalla foresta badavo molto di più al
mio aspetto. Se io ho trent'anni, però, anche tu non sei un giovincello. Devi averne almeno quaranta.
Non sembra più una differenza enorme, vero? Sei dimagrito. Stai bene?»
«Non sono mai stato grasso, soltanto grosso, e così il dover sedere continuamente a una scrivania
mi ha fatto restringere, anziché espandere.»
Lasciandosi scivolar giù e girandosi, lei accostò la faccia alla sua, sorridendo. «Oh, Rain, è così
piacevole rivederti! Nessun altro mi dà del filo da torcere.»
«Povera Justine! Eppure ne hai tanto bisogno adesso, non è vero? Ricca come sei.»
«Ricca?» Annuì. «Strano che il Cardinale abbia lasciato tutto il suo patrimonio a me. Be', metà a me
e metà a Dane, ma, naturalmente, io ero l'unica erede di Dane.» Una smorfia di dolore le alterò il
viso nonostante tutta la sua forza di volontà. Voltò la testa e finse di contemplare un singolo narciso
nel mare di quei fiori, finché non riuscì a dominare la propria voce quanto bastava per dire: «Sai,
Rain, darei non so cosa per sapere che cos'era precisamente il Cardinale per la mia famiglia. Un
amico, soltanto questo? No, qualcosa di più, in qualche modo misterioso. Ma che cosa, esattamente,
non lo so. Vorrei saperlo.»
«No, non è vero.» Si alzò e le tese la mano. «Vieni, Herzchen, ti offro la cena, ovunque tu pensi che
possano esserci occhi per constatare che l'attrice australiana dalla chioma color carota e un membro
del Gabinetto tedesco hanno fatto pace. La mia reputazione di playboy si è deteriorata, da quando
mi hai messo alla porta.»
«Dovrai stare attento. Non mi chiamano più "un'attrice australiana dalla chioma color carota"...
Sono ormai "quell'attrice inglese provocante e bellissima, dai capelli tizianeschi", grazie alla mia
immortale interpretazione di Cleopatra. Non dirmi che non sai che i critici mi stanno definendo la
Cleopatra più esotica da anni e anni a questa parte!» Atteggiò le braccia e le mani nella posa di un
geroglifico egiziano.
Gli occhi di Rain ammiccarono. «Esotica?» chiese, dubbioso.
«Sì, esotica» asserì Justine, con fermezza.
Il Cardinale Vittorio era morto, e pertanto Rain non si recava più a Roma molto di frequente. Si
recava invece a Londra. A tutta prima, Justine ne fu così felice che non cercò niente al di là
dell'amicizia, ma, man mano che i mesi passavano, e Rain non accennava, né con le parole, né con
gli atteggiamenti, ai loro precedenti rapporti, la blanda indignazione divenne qualcosa di più
sconvolgente. Non che volesse riprendere quella relazione di diverso genere, non faceva che dire a
se stessa; aveva completamente chiuso con quella specie di cose, non le occorrevano più e non le
desiderava. Né consentiva ai propri pensieri di indugiare su un'immagine di Rain seppellita con
tanto successo da ricordarla soltanto in sogni traditori.
Quei primi mesi dopo la morte di Dane erano stati spaventosi, mentre resisteva al desiderio di
recarsi da Rain, di sentirlo con il corpo e lo spirito, sapendo benissimo che così sarebbe stato, se
glielo avesse consentito. Ma non poteva consentirglielo; alla sua faccia si sovrapponeva quella di
Dane. Era giusto congedarlo, giusto lottare per distruggere ogni ultimo guizzo di desiderio. E man
mano che il tempo passava e Rain sembrava voler restar fuori definitivamente dalla sua vita, il
corpo di Justine si era adattato a un torpore spento, e la sua mente si era costretta a dimenticare.
Ma adesso che Rain era tornato, la cosa stava diventando molto più difficile. Smaniava dal
desiderio di domandargli se ricordasse quegli altri rapporti... come avrebbe potuto dimenticarli?
Senza dubbio, dal canto suo, lei l'aveva fatta completamente finita con quelle cose, ma sarebbe stato
soddisfacente sapere che non era stato così per Rain purché, naturalmente, quelle cose, nel caso suo,
significassero Justine e soltanto Justine.
Illusioni. Rain non aveva l'aspetto dell'uomo che si consumasse a causa di un amore inappagato,
mentale o fisico, e non tradiva mai il benché minimo desiderio di riaprire quella fase della loro vita.
La voleva come amica, si godeva la sua compagnia in quanto amica. Magnifico! Era quello che
desiderava anche lei. Soltanto... poteva davvero aver dimenticato? No, non era possibile... ma Dio
lo maledicesse se le cose stavano in quel modo!
La sera in cui i processi mentali di Justine giunsero a questo punto, la sua interpretazione di Lady
Macbeth acquistò un aspetto selvaggio. Di notte non dormì molto bene e, la mattina dopo, le
pervenne una lettera di sua madre che la colmò di una vaga inquietudine.
Ma' non scriveva più tanto spesso, e le poche lettere erano stentate, anemiche. Questa sembrava
diversa, conteneva un remoto borbottio di vecchiaia, celava una stanchezza che sporgeva di una
parola o due sulla superficie delle vacuità, come un iceberg. A Justine non piacque. Vecchia. Ma',
vecchia!
Che cosa stava succedendo a Drogheda? Ma' stava forse cercando di nasconderle qualche guaio
serio? Era malata la nonna? Oppure uno degli zii? O, Dio non volesse, Ma' stessa? Non vedeva più
nessuno da tre anni, e in tre anni potevano accadere molte cose, anche se non stavano accadendo a
Justine O'Neill. Soltanto perché la sua esistenza era stagnante e opaca, non avrebbe dovuto supporre
che lo fosse anche quella di tutti gli altri.
Quella era la serata «libera» di Justine, e mancava ancora una sola rappresentazione del Macbeth.
Le ore della giornata si erano trascinate con una lentezza intollerabile, e persino l'idea di cenare con
Rain non implicava la solita piacevole aspettativa. La loro amicizia era inutile, futile, statica, si
disse, mentre infilava un vestito proprio di quel color arancione che lui odiava di più. Antiquato,
vecchio conservatore! Se a Rain non piaceva com'era poteva mollarla. Poi aggiustando le gale della
scollatura profonda intorno al gracile seno Justine si sorprese con gli occhi fissi sullo specchio e rise
malinconicamente. Oh, che tempesta in un bicchier d'acqua! Si stava comportando, né più né meno,
come il tipo di femmina che disprezzava di più. Probabilmente era tutto molto semplice.
Stanchezza, aveva bisogno di riposo. Grazie a Dio, non doveva più impersonare Lady Macbeth! Ma
che cosa aveva Ma'?
Di recente, Rain passava sempre più tempo a Londra, e Justine si meravigliava della disinvoltura
con la quale faceva il pendolare tra Bonn e l'Inghilterra. Senza dubbio, il possesso di un aereo
privato lo facilitava, ma doveva essere spossante.
«Perché vieni a trovarmi così spesso?» gli domandò all'improvviso. «Tutti i cronisti mondani
d'Europa trovano splendida la cosa, ma ti confesso che, a volte, mi domando se tu non ti serva di me
semplicemente come di un pretesto per venire a Londra.»
«È vero che, di quando in quando, approfitto di te come di un paravento» ammise lui, placido. «Ma
non è un sacrificio essere con te, perché stare con te mi piace.» Gli occhi neri le indugiarono sul
viso, cogitabondi. «Sei molto silenziosa questa sera, Herzchen. C'è qualcosa che ti cruccia?»
«No, non proprio.» Justine si trastullò con il dessert, poi lo scostò senza averlo toccato. «O almeno,
soltanto una piccola cosa stupida. Ma' e io non ci scriviamo più una volta alla settimana - è passato
tanto tempo, da quando ci siamo viste, che non rimane un granché da dire - ma oggi ho ricevuto una
lettera molto strana.»
Il cuore gli si strinse; Meggie aveva davvero impiegato molto tempo per pensarci su, ma l'istinto gli
disse che questa era la prima mossa, e non gli sarebbe stata favorevole. Meggie stava cominciando
la partita per riportare sua figlia a Drogheda, per perpetuare la dinastia.
Si sporse oltre il tavolo per prendere la mano di Justine; sembrava, pensò, più bella, nella maturità,
nonostante quel vestito orrendo. Rughe minuscole cominciavano a rendere dignitoso il suo viso da
monella, che ne aveva un gran bisogno. Ma fino a quali profondità arrivava quella maturità? A
questo si riduceva il guaio, con Justine; non voleva nemmeno «sembrare».
«Herzchen, tua madre si sente sola» disse, bruciandosi i vascelli alle spalle. Se era questo che
Meggie voleva, come avrebbe potuto continuare a credersi dalla parte della ragione, e credere lei
dalla parte del torto? Justine era sua figlia; Meggie doveva conoscerla meglio di lui.
«Sì, forse» disse Justine, con cipiglio, «ma non posso fare a meno di pensare che alla base ci sia
qualcosa di più. Voglio dire, deve sentirsi sola da anni, e allora perché questo improvviso
atteggiamento, di qualsiasi cosa si tratti? Non riesco a capire, Rain, e forse è proprio questo a
crucciarmi più di ogni altra cosa.»
«Sta invecchiando, e credo che tu tenda a dimenticarlo. È possibilissimo che comincino a
sgomentarla cose alle quali, in passato, trovava facile tener testa.» Gli occhi di lui parvero a un
tratto remoti, come se la mente dietro a essi si stesse concentrando al massimo su qualcosa che era
in contrasto con quanto diceva. «Justine, tre anni fa ha perduto il suo unico figlio. Credi che il
dolore diminuisca con il passare del tempo? Io credo che peggiori, invece. Dane è scomparso, e,
senza dubbio, tua madre deve pensare ormai di aver perduto anche te. In fin dei conti, non sei più
andata a casa a trovarla.»
Justine chiuse gli occhi. «Lo farò, Rain, lo farò! Ti prometto che lo farò, e presto! Hai ragione,
naturalmente, ma, d'altro canto, hai sempre ragione. Non avrei mai creduto che Drogheda mi
sarebbe mancata, ma, di recente, sembra essere nato in me un vero e proprio affetto per Drogheda.
Come se ne facessi parte, tutto sommato.»
Consultò a un tratto l'orologio e sorrise malinconico. «Temo proprio che questa sia una delle
occasioni nelle quali mi servo di te, Herzchen. Mi spiace moltissimo di essere costretto a chiederti
di rientrare sola, ma, tra meno di un'ora, devo incontrarmi con un importantissimo personaggio in
una località ultrasegreta, dove devo recarmi con la mia automobile, guidata da Fritz, che è stato
vagliato tre volte dai servizi di sicurezza.»
«Romanzesco!» esclamò lei, allegramente, celandogli il risentimento. «Ora capisco il perché degli
improvvisi tassì! Io posso essere affidata a un'auto pubblica, ma l'avvenire del Mercato Comune no,
eh? Be', tanto per dimostrarti quanto poco mi occorrono un tassì o il tuo Fritz vagliato dai servizi di
sicurezza, tornerò a casa con la sotterranea. È ancora molto presto.» Le dita di Rainer erano posate,
alquanto inerti, sulle sue; gli sollevò la mano e la mise contro la guancia, poi la baciò. «Oh, Rain,
non so che cosa farei senza di te!»
Rainer si mise la mano in tasca, si alzò, girò intorno al tavolo e le scostò la sedia con l'altra mano.
«Sono il tuo amico» disse. «Gli amici esistono per questo, perché non se ne possa fare a meno.»
Ma, una volta separatasi da lui, Justine tornò a casa molto cogitabonda, e il suo stato d'animo passò
rapidamente allo sconforto. Quella sera, più che in ogni altra occasione, si era avvicinato a un
discorso di carattere personale, ma soltanto per dirle che, secondo lui, sua madre si sentiva
tremendamente sola, e stava invecchiando, e lei avrebbe dovuto tornare a casa. Andare a trovarla,
aveva detto, ma Justine non poté fare a meno di domandarsi se le avesse consigliato, in realtà, di
rimanere definitivamente laggiù. Dal che si poteva dedurre come, qualsiasi cosa avesse provato per
lei in passato, appartenesse ormai davvero al passato, ed egli non desiderasse affatto di farla
rinascere. Non le era mai accaduto, prima, di domandarsi se Rain potesse considerarla una
seccatura, un aspetto del proprio passato che avrebbe preferito vedere sepolto in una decente
oscurità, in qualche luogo come Drogheda. Ma forse le cose stavano davvero in quel modo. Però, in
tal caso, perché si era reinserito nella sua vita nove mesi prima? Forse perché provava rimorsi nei
suoi riguardi? Perché sentiva di essere, in qualche modo, in debito con lei? O perché riteneva che
dovesse essere spinta verso sua madre, per amore di Dane? Aveva voluto un gran bene a Dane, e chi
mai poteva sapere di che cosa avessero parlato durante i suoi lunghi soggiorni a Roma, quando lei
non era presente? Forse Dane gli aveva chiesto di tenerla d'occhio, ed egli stava facendo proprio
questo. Dopo aver lasciato trascorrere un periodo di tempo ragionevole, per essere certo che lei non
lo mettesse alla porta, era rientrato nella sua vita allo scopo di mantenere una promessa fatta a
Dane. Sì, tutto si poteva spiegare, probabilmente, in questo modo. Senza dubbio, Rain non era più
innamorato di lei. Quelle attrattive che un tempo doveva aver avuto ai suoi occhi si erano spente da
un pezzo; in fin dei conti, lo aveva trattato in modo abominevole. Poteva incolpare soltanto se
stessa.
Questa riflessione la colmò di infelicità e la fece piangere, ma poi riuscì a dominarsi quanto bastava
per dire a se stessa di non essere così stupida. Si girò da una parte e dall'altra nel letto, e sprimacciò
il guanciale nella vana ricerca del sonno, poi si arrese sconfitta e cercò di leggere un copione. Dopo
alcune pagine, le parole cominciarono, traditrici, a offuscarsi e a confondersi l'una con l'altra, e, per
quanto Justine tentasse di ricorrere al vecchio espediente, quello di respingere la disperazione in un
remoto angolino della mente, finì con l'esserne sopraffatta. Infine, mentre la luce sbiadita della
tardiva alba di Londra filtrava attraverso le finestre, sedette allo scrittoio, sentendo il freddo, udendo
il rombo lontano del traffico, fiutando l'odore dell'umidità, percependo il sapore della desolazione.
A un tratto, l'idea di Drogheda parve meravigliosa. Soave aria pura, il silenzio turbato soltanto dai
suoni della natura. Serenità.
Prese uno dei pennarelli neri e cominciò una lettera a sua madre; le lacrime le si asciugarono sulla
faccia mentre scriveva.
«Spero soltanto che tu capisca perché non sono più tornata a casa dopo la morte di Dane ma,
qualsiasi cosa tu possa pensare al riguardo, sarai lieta di sapere, ne ho la certezza, che sto per
rimediare definitivamente alla mia omissione. Sì, così. Torno a casa per sempre, Ma'. È giunto il
momento in cui anelo a Drogheda. Ho spiccato il volo come desideravo, ma mi sono resa conto che
tutto questo non significa assolutamente nulla per me. Che cosa posso aspettarmi continuando a
recitare su un palcoscenico per tutta la vita? E che altro c'è qui per me, a parte il teatro? Voglio
qualcosa di sicuro, di definitivo, di duraturo, e pertanto torno a casa a Drogheda, che è tutte queste
cose. Non più vuoti sogni. Chissà? Forse sposerò Boy King, se mi vuole ancora e farò finalmente
qualcosa di degno della mia vita, come l'avere una tribù di piccoli allevatori delle pianure del Nord-
Ovest. Sono stanca, Ma', tanto stanca da non sapere quel che mi dico, e vorrei essere capace di
scrivere quello che sento.
«Bene, verrò alle prese con i miei sentimenti un'altra volta. Ho finito con Lady Macbeth e ancora
non ho deciso che cosa fare nell'imminente stagione teatrale, per cui non metterò in difficoltà
nessuno decidendo di rinunciare al teatro. Londra brulica di attrici. Clyde può sostituirmi in modo
adeguato in due secondi, mentre tu non puoi, non è vero? Mi spiace di avere impiegato trentun anni
per rendermene conto.
«Se non mi avesse aiutata Rain, avrei potuto impiegarci anche di più, ma lui è un uomo sensibile.
Non ti ha mai conosciuta, eppure sembra capirti meglio di me. D'altro canto, dicono che lo
spettatore vede meglio il giuoco. Questo è senz'altro vero per quanto lo concerne. Sono stanca di
lui, non fa che dirigere la mia vita dalle sue altezze olimpiche. Sembra pensare di avere con Dane
una sorta di debito o di promessa, e continua a rendersi fastidioso venendo sempre a trovarmi; però
ora mi sono finalmente resa conto di essere io il fastidio. Se mi troverò al sicuro a Drogheda, il
debito o la promessa, o quella qualsiasi altra cosa di cui possa trattarsi, saranno cancellati, no?
Dovrebbe essermi grato, in ogni caso, per i viaggi in aereo che gli eviterò.
«Non appena mi sarò organizzata, ti scriverò ancora per dirti quando dovrai aspettarmi. Nel
frattempo, ricorda che, nel mio strano modo, ti voglio bene.»
Firmò senza il solito svolazzo, scrivendo il nome «Justine» press'a poco come figurava in calce alle
doverose lettere scritte dal collegio sotto l'occhio d'aquila di una suora addetta alla censura. Poi
piegò i fogli, li infilò in una busta per via aerea e scrisse l'indirizzo. Mentre andava a teatro per
l'ultima rappresentazione del Macbeth, imbucò la lettera.
Cominciò subito ad attuare la decisione di andarsene dall'Inghilterra. Clyde fu sconvolto dalla
notizia fino al punto di uscire dai gangheri e mettersi a urlare, una scenata che la lasciò scossa; poi,
nel corso della notte, ci ripensò, fece un voltafaccia, e si arrese con brusca buona grazia. Nessuna
difficoltà nel cedere l'appartamento in affitto, perché era uno di quelli più richiesti; in effetti, non
appena lo si venne a sapere, la gente continuò a telefonare ogni cinque minuti, finché non si decise a
staccare il ricevitore. La signora Kelly, che si trovava al suo servizio sin dai tempi lontani in cui era
arrivata per la prima volta a Londra, arrancò con aria dolente tra una giungla di trucioli e casse da
imballaggio, commiserando il proprio fato e, furtivamente, rimettendo il ricevitore sul telefono,
nella speranza che telefonasse qualcuno in grado di persuadere Justine a cambiare idea.
Nel bel mezzo del tumulto, qualcuno che ne sarebbe stato effettivamente in grado telefonò, ma non
la persuase a cambiare idea; Rain non sapeva nemmeno, infatti, che fosse sul punto di partire. Si
limitò a chiederle di fare da padrona di casa a una cena che offriva a casa sua, in Park Lane.
«Come, casa tua in Park Lane?» squittì Justine, stupefatta.
«Be', con la crescente partecipazione inglese alla Comunità Economica Europea, sto trascorrendo
tanto di quel tempo in Inghilterra che è divenuto più pratico per me avere qui una sorta di pied-à-
terre e, di conseguenza, ho affittato una casa in Park Lane» spiegò lui.
«Dio santo, Rain, bastardo che non sei altro! Da quanto ce l'hai?»
«Da circa un mese.»
«E mi hai lasciato dire tutte quelle cose idiote, l'altra sera, senza parlarne? Dio ti maledica!» Era
talmente infuriata che non riusciva nemmeno più a esprimersi bene.
«Stavo per dirtelo, ma mi ha divertito tanto lasciarti credere ai miei continui viaggi in aereo, che
non ho saputo resistere alla tentazione di fingere ancora per un po'» disse lui, con l'ilarità nella voce.
«Potrei ammazzarti!» ringhiò Justine a denti stretti, battendo le palpebre sulle lacrime.
«No, Herzchen, ti prego, non adirarti! Vieni a fare da padrona di casa per me, così potrai ispezionare
il mio nuovo alloggio.»
«Con cinque milioni di altri ospiti a fare opportunamente da chaperons, si capisce! Che cosa ti
prende, Rain, non ti fidi di restare solo con me? O sono io a non ispirarti fiducia?»
«Tu non sarai un'ospite» disse lui, rispondendo soltanto alla prima parte della ramanzina. «Sarai la
padrona di casa, il che è completamente diverso. Verrai?»
Justine asciugò le lacrime con il dorso della mano e disse, in tono brusco: «Sì.»
Risultò più piacevole di quanto avesse osato sperare, perché la casa di Rain era realmente bella, e
lui di un così buon umore che Justine non poté fare a meno di esserne contagiata. Arrivò con il
vestito da sera richiesto dalla circostanza, anche se un pochino troppo vistoso per i suoi gusti, ma,
dopo una smorfia involontaria quando vide la seta di un rosa acceso, egli la prese sottobraccio e le
fece fare il giro della casa prima dell'arrivo degli invitati. Poi, nel corso della serata, si comportò in
modo perfetto, trattandola, alla presenza degli altri, con una disinvolta intimità che la fece sentire al
contempo utile e desiderata. Gli ospiti erano politicamente tanto importanti che la mente di Justine
si rifiutò di pensare alle decisioni cui dovevano essere costretti. E avevano, inoltre, un aspetto così
comune! Questo peggiorava la situazione.
«Non ci avrei badato tanto anche se qualcuno di loro avesse presentato i sintomi dei Pochi Eletti»
disse a Rain, quando gli ospiti se ne furono andati, lieta di poter essere sola con lui, e domandandosi
con quale rapidità l'avrebbe rimandata a casa. «Sai, come Napoleone o Churchill. Deve presentare
vantaggi, per uno statista, persuadersi di essere l'uomo del destino. Tu ti consideri un uomo del
destino?»
Rainer trasalì. «Potresti scegliere meglio le domande, quando interroghi un tedesco, Justine. No,
non mi considero affatto tale, e non è bene che coloro i quali fanno politica si ritengano uomini del
destino. Potrebbe essere vantaggioso per pochissimi, sebbene ne dubiti; ma, nella grande
maggioranza dei casi, questi uomini causano a se stessi e ai loro paesi guai a non finire.»
Non ci teneva affatto a insistere e a discutere. L'osservazione era servita al suo scopo, avviando una
certa conversazione; ora avrebbe potuto cambiare discorso senza tradirsi troppo. «Le mogli erano
un gruppo eterogeneo, non ti sembra?» domandò ingenuamente. «Quasi tutte sembravano assai
meno presentabili di me, anche se il rosa acceso non ti piace. La signora Come-si-chiama non era
poi tanto male, e la signora Tutta-denti si limitava a scomparire sullo sfondo della carta da parati,
ma la signora Tutta-gengive era abominevole. Come riesce, suo marito, a sopportarla? Oh, gli
uomini sono così stupidi nella scelta delle mogli!»
«Justine! Quand'è che imparerai a ricordare i nomi? Meno male che mi hai respinto, bella moglie
saresti stata, per un uomo politico! Ti ho udita mugolare quando non riuscivi a ricordare come si
chiamassero le persone con le quali stavi conversando. Molti uomini con mogli abominevoli hanno
fatto una splendida carriera, e altrettanti con mogli perfette non sono riusciti affatto. Alla lunga, la
cosa non riveste alcuna importanza, perché è il calibro dell'uomo a essere posto alla prova. Sono
pochi gli uomini che scelgono la moglie per ragioni puramente politiche.»
La solita abilità nel metterla al suo posto riusciva ancora a farla restar male; gli fece un burlesco
salamelecco per nascondere la faccia, poi sedette sul tappeto.
«Oh, alzati, Justine!»
Ella insinuò invece, con aria di sfida, i piedi sotto di sé e si appoggiò alla parete, da un lato del
caminetto, per accarezzare Natascia. Aveva scoperto, al suo arrivo, che, dopo la morte del Cardinale
Vittorio, Rain era entrato in possesso della gatta; sembrava esserle molto affezionato, sebbene fosse
ormai vecchia e storpiata dai reumatismi.
«Ti ho già detto che sto per tornare definitivamente a Drogheda?» domandò a un tratto.
Stava sfilando una sigaretta dal pacchetto; le grosse mani non esitarono e non tremarono, ma
completarono il gesto con disinvolta facilità. «Sai benissimo che non me l'hai detto.»
«Allora te lo dico adesso.»
«Quando hai preso questa decisione?»
«Cinque giorni fa. Partirò alla fine di questa settimana, spero. Non sarà mai abbastanza presto.»
«Capisco.»
«È tutto quel che hai da dire al riguardo?»
«Che altro c'è da dire, a parte il fatto che ti auguro felicità, qualsiasi cosa tu faccia?» Fu così
composto da farla trasalire.
«Oh, grazie» gli disse, briosa. «Non ti rallegra il fatto che non mi avrai tra i piedi ancora a lungo?»
«Tu non mi stai tra i piedi, Justine» rispose lui.
Abbandonò Natascia, afferrò l'attizzatoio e cominciò a spostare i ceppi sul punto di sbriciolarsi,
consumati fino a essere gusci vuoti; si afflosciarono con un breve sprazzo di scintille, e il calore del
fuoco diminuì bruscamente. «Deve essere causato dal demone della distruzione, l'impulso di
tormentare i ceppi. Non fa che affrettarne la fine. Ma che bella fine, vero, Rain?»
A quanto pareva, ciò che accadeva al fuoco quando veniva attizzato non l'interessava molto, poiché
si limitò a domandare: «Al termine della settimana, eh? Non stai perdendo tempo.»
«A che servirebbe rinviare?»
«E la tua carriera?»
«Sono stufa della mia carriera. E del resto, dopo Lady Macbeth, che altro rimaneva da fare?»
«Oh, vedi di crescere, Justine! Ti sculaccerei quando salti fuori con queste sciocchezze da
matricola! Perché non dici semplicemente che il teatro non costituisce più una sfida, e che hai la
nostalgia di casa?»
«E va bene, va bene, va bene! Pensala come ti pare, maledizione! Cercavo soltanto di essere
irriverente e disinvolta come sempre. Scusa se ti ho offeso!» Balzò in piedi. «Dannazione, dove
sono finite le scarpe? Che cosa è successo alla mia pelliccia?»
Fritz apparve con scarpe e pelliccia, e l'accompagnò a casa in macchina. Rain si scusò, dicendo che
aveva varie cose da sbrigare, ma, quando lei uscì, sedeva accanto al fuoco appena riacceso, con
Natascia in grembo e l'aria di essere tutt'altro che indaffarato.
«Bene» disse Meggie a sua madre «spero che abbiamo fatto la cosa giusta.»
Fee la scrutò e annuì. «Oh, sì, ne sono certa. Il guaio, con Justine, è che non sa prendere una
decisione come questa, e pertanto non ci rimane altro da fare. Dobbiamo prenderla noi per lei.»
«Non so bene se mi piaccia fare la parte di Dio. Credo di sapere come desidera regolarsi in realtà,
ma, anche se potessi porla a faccia a faccia con la verità, mentirebbe.»
«L'orgoglio dei Cleary» disse Fee, con un pallido sorriso. «Affiora nelle persone più inaspettate.»
«Andiamo, non è tutto orgoglio dei Cleary! Mi è sempre piaciuto immaginare che ci fosse anche
uno schizzo degli Armstrong.»
Ma Fee scosse la testa. «No. Ogni volta che ho fatto quello che ho fatto difficilmente l'orgoglio ci
ha avuto parte. A questo serve la vecchiaia, Meggie. A darci un intervallo di respiro prima della
morte, nel quale possiamo capire le ragioni di quello che abbiamo fatto.»
«Purché la senilità non ce ne renda prima incapaci» osservò Meggie, asciutta. «Non che nel tuo caso
esista questo pericolo. E nemmeno nel mio, presumo.»
«Forse la senilità è misericordiosa per chi non sa guardarsi indietro. In ogni modo, tu non sei ancora
abbastanza vecchia per poter dire di avere evitato la senilità. Aspetta altri vent'anni.»
«Altri vent'anni!» le fece eco Meggie, sgomenta. «Oh, sembra un tempo così interminabile!»
«Be', avresti potuto fare in modo che questi vent'anni fossero meno solitari, non ti pare?» domandò
Fee, lavorando accanitamente a maglia.
«Sì, avrei potuto. Ma non ne sarebbe valsa la pena, Ma'. Non credi?» Batté sulla lettera di Justine il
piccolo pomolo di un antiquato ferro da maglia, con una esilissima traccia di dubbio nel tono della
voce. «Ho tremato abbastanza a lungo. Rimanendo qui inerte, dopo la venuta di Rainer, sperando di
non dover fare proprio niente, sperando che la decisione non dovesse dipendere da me. Eppure,
aveva ragione. In ultimo, è toccato a me prenderla.»
«Be', vorrai ammettere che l'ho presa un pochino anch'io» protestò Fee, offesa. «Cioè, non appena
tu hai rinunciato all'orgoglio quanto bastava per dirmi tutto.»
«Sì, mi hai aiutata» riconobbe Meggie con dolcezza.
Il vecchio orologio ticchettava; entrambe le paia di mani continuavano a sfarfallare intorno ai ferri
da maglia.
«Dimmi una cosa, Ma'» domandò Meggie a un tratto. «Perché crollasti per Dane, mentre non eri
crollata per Pappi o Frank o Stu?»
«Crollata?» Le mani di Fee si fermarono e posarono i ferri; riusciva ancora a lavorare a maglia
come ai tempi in cui ci vedeva benissimo. «Che cosa vuoi dire con "crollata"?»
«Come se la sua morte ti avesse ucciso.»
«Mi uccise la morte di tutti, Meggie. Ma ero più giovane quando se ne andarono i primi tre e, di
conseguenza, avevo abbastanza energia per nasconderlo meglio. E anche maggiori ragioni. Proprio
come te adesso. Ma Ralph sapeva quello che provai quando morirono Pa' e Stu. Tu eri troppo
giovane per accorgertene.» Sorrise. «Adoravo Ralph, sai. Era... un uomo straordinario. Somigliava
spaventosamente a Dane.»
«Sì, è vero. Non mi ero mai resa conto che tu lo avessi capito, Ma'... voglio dire, che avessi capito la
loro natura. Strano. Sei un'Africa Tenebrosa, per me. Ci sono tante cose di te che non conosco.»
«Lo spero bene!» esclamò Fee, con una risata come un nitrito. Le mani rimasero immobili.
«Tornando al discorso di prima... se puoi far questo adesso per Justine, Meggie, direi che le tue
sofferenze ti hanno avvantaggiata più di quanto abbiano avvantaggiato me le mie. Io non ero
disposta a fare come mi chiedeva Ralph e a preoccuparmi per te. Volevo i miei ricordi... niente altro
che i ricordi. Mentre tu non hai scelta. I ricordi sono la sola cosa che tu abbia.»
«Be', sono consolanti, una volta spentosi il dolore. Non credi? Ho avuto Dane per ventisei intieri
anni, e ho imparato a dire a me stessa che quello che è accaduto deve essere stato per il meglio, che
deve essergli stato evitato qualche cimento spaventoso cui non avrebbe forse potuto reggere perché
non sarebbe stato abbastanza forte. Come a Frank, forse, anche se non la stessa cosa. Ci sono cose
peggiori della morte, questo lo sappiamo entrambe.»
«Non sei amareggiata?» domandò Fee.
«Oh, all'inizio lo ero, ma, per amor loro, ho insegnato a me stessa a non esserlo.»
Fee riprese a sferruzzare. «E così, quando noi ce ne andremo, non rimarrà più nessuno» disse
sommessamente. «Drogheda non esisterà più. Oh, le dedicheranno un rigo nei libri di storia, e
qualche serio giovane verrà a Gilly a interrogare chiunque ricordi, per il libro che scriverà su
Drogheda. L'ultimo dei formidabili allevamenti del Nuovo Galles del Sud. Ma nessuno dei suoi
lettori saprà mai come fosse davvero. Avrebbero dovuto farne parte per sapere.»
«Sì» approvò Meggie, che non aveva smesso di lavorare a maglia. «Avrebbero dovuto farne parte.»
Dire addio a Rain in una lettera, devastata dalla sofferenza e dallo shock, era stato facile; piacevole,
in effetti, in un modo crudele, poiché allora aveva potuto vendicarsi... io sono straziata dal dolore, e
dunque dovresti esserlo anche tu. Ma questa volta Rain non si era messo in una posizione che
rendesse possibile una lettera. Si sarebbero detti addio cenando nel loro ristorante prediletto. Egli
non aveva proposto casa sua in Park Lane, e questo la deludeva, ma non la stupiva. Senza dubbio
intendeva salutarla per l'ultima volta sotto lo sguardo benevolo di Fritz. Senza dubbio non intendeva
correre rischi.
Per una volta tanto in vita sua, Justine si premurò di far sì che il suo aspetto potesse piacergli; il
demonio che di solito la incitava a indossare fronzoli arancione sembrava essersi ritirato
imprecando. Poiché Rain amava gli stili disadorni, Justine si mise un vestito da sera di jersey di seta
color rosso borgogna spento, accollato, con le maniche lunghe e attillate. Aggiunse una pesante
collana piatta di oro lavorato, costellata di granati e perle, e braccialetti uguali a ciascun polso. Che
orribili, orribili capelli. Non erano mai stati abbastanza disciplinati per piacergli. Più trucco del
solito, per nascondere le prove del suo sconforto. Ecco. Sarebbe potuto bastare, se lui non l'avesse
scrutata troppo attentamente.
Rain parve non scrutarla; per lo meno, non fece commenti sulla sua stanchezza o su una possibile
indisposizione, e nemmeno accennò alle fatiche della partenza. Il che era del tutto insolito per lui. E,
dopo qualche tempo, Justine cominciò ad avere la sensazione che il mondo stesse per finire, tanto il
suo amico era diverso da quello di sempre.
Non l'aiutò a far sì che la cena fosse un successo, una di quelle occasioni alla quale avrebbero
potuto riferirsi nelle lettere, con reminiscenze piacevoli e divertite. Se soltanto le fosse stato
possibile persuadersi che Rain era sconvolto per la sua partenza, tutto sarebbe andato bene. Ma non
le fu possibile. Lui sembrava, piuttosto, così remoto da darle l'impressione di trovarsi con una
effigie di carta, impaziente di volar via nella brezza, lontano da lei. Come se le avesse già detto
addio, e quell'incontro fosse superfluo.
«Hai già ricevuto una lettera da tua madre?» domandò, compìto.
«No, ma, francamente, non ne aspetto alcuna. Probabilmente non ha più parole.»
«Ti farebbe piacere se Fritz ti accompagnasse all'aeroporto, domani?»
«Grazie, posso prendere un tassì» rispose Justine, scortesemente. «Non vorrei privarti dei suoi
servigi.»
«Ho riunioni tutto il giorno, quindi posso assicurarti che la cosa non mi arrecherebbe il benché
minimo disturbo.»
«Ho detto che prenderò un tassì!»
Rainer inarcò le sopracciglia. «Non c'è nessun bisogno di gridare, Justine. Qualsiasi cosa tu possa
preferire, per me va benissimo.»
Non la chiamava più Herzchen; di recente aveva notato il ridursi della frequenza di quel
vezzeggiativo, e quella sera lui non se n'era servito neanche una volta. Oh, che cena lugubre e
deprimente! Che finisse al più presto! Si accorse di guardargli le mani cercando di ricordare come
ne fosse il contatto, ma senza riuscirci. Perché la vita non era armoniosa e bene organizzata, perché
dovevano accadere cose come quella di Dane? Forse perché pensò a Dane, il suo umore precipitò
all'improvviso a un punto tale che non sopportò di restare seduta e immobile un solo momento di
più, e mise le mani sui braccioli della sedia.
«Ti spiace se andiamo?» domandò. «Mi sta venendo un mal di testa tremendo.»
All'incrocio tra High Road e la viuzza ove abitava lei, Rain l'aiutò a scendere dalla macchina, disse
a Fritz di girare intorno all'isolato e, cortesemente, le mise la mano sotto il gomito per guidarla, un
contatto del tutto impersonale. Nella gelida umidità del piovischio di Londra, camminarono adagio
sull'acciottolato, avendo tutt'attorno lo stillicidio di echi dei loro passi. Passi luttuosi, solitari.
«Sicché, Justine, ci diciamo addio» egli mormorò.
«Be', per il momento, in ogni caso» rispose lei, animata. «Ma non per sempre, sai. Tornerò in
Europa, di quando in quando, e spero che tu troverai il tempo di venire a Drogheda.»
Scosse la testa. «No. Questo è un addio, Justine. Non sapremo più che farci l'uno dell'altra, credo.»
«Non sai più che farti di me, vuoi dire» esclamò lei, e riuscì a ridere in modo abbastanza credibile.
«Non importa, Rain. Non mi risparmiare. Posso sopportarlo!»
Rainer le prese la mano, si chinò a baciarla, si raddrizzò, le sorrise negli occhi e si allontanò.
C'era una lettera di sua madre sullo stuoino. Justine si chinò a prenderla, lasciò cadere borsetta e
stola, si tolse le scarpe, entrò nel soggiorno. Sedette pesantemente su una cassa da imballaggio,
mordicchiandosi le labbra, indugiando con lo sguardo, per un momento, in preda a una compassione
meravigliata e smarrita, su un magnifico studio, testa e spalle, di Dane, eseguito a ricordo della sua
ordinazione. Poi notò che, con le dita dei piedi, stava accarezzando il tappeto di pelle di canguro
arrotolato, fece una smorfia di disgusto e si affrettò a balzare in piedi.
Un breve tragitto fino alla cucina, ecco che cosa le occorreva. Pertanto, fece il breve tragitto fino
alla cucina, ove aprì il frigorifero, prese la caraffa della panna, aprì lo sportellino del freezer e ne
tolse un barattolo di caffè solubile. Con una mano sul rubinetto dell'acqua fredda, facendo scorrere
l'acqua per il caffè, si guardò attorno con gli occhi sbarrati, come se non avesse mai veduto prima di
allora quella stanza. Osservò le macchie sulla carta da parati, e il filodendro nel cestino appeso al
soffitto, e l'orologio a forma di gatto nero che agitava la coda e faceva roteare gli occhi assistendo
allo spettacolo del tempo gettato via in modo così frivolo. Mettere in valigia la spazzola per capelli,
diceva la lavagnetta in grandi lettere maiuscole. Sul tavolo si trovava uno schizzo a matita di un
ritratto di Rain, che aveva fatto lei alcune settimane prima. E c'era un pacchetto di sigarette. Ne
prese una e l'accese, mise il bricco sul fornello e ricordò la lettera di sua madre, ancora accartocciata
nella mano. Tanto valeva che la leggesse mentre l'acqua si scaldava. Sedette al tavolo di cucina,
gettò sul pavimento il disegno di Rain e vi poggiò su i piedi. Va' a prenderlo in quel posto, Rainer
Moerling Hartheim! Vedi quanto me ne infischio, gran dogmatico idiota di un Crauto dalla giacca di
cuoio? Non sai più che fartene di me, eh? Be', nemmeno io di te!
«Mia cara Justine [diceva Meggie]
«senza dubbio stai procedendo con la tua solita, impulsiva rapidità, e quindi spero che questa lettera
ti giunga in tempo. Se ho detto qualcosa, di recente, nelle mie lettere che ti ha indotta a questa
decisione improvvisa, ti prego di perdonarmi. Non intendevo causare una decisione così drastica.
Stavo semplicemente cercando un po' di comprensione, presumo, ma ho sempre dimenticato che,
sotto quella tua dura pelle, sei molto sensibile.
«Sì, mi sento sola, terribilmente sola. Eppure non si tratta di una solitudine cui il tuo ritorno a casa
possa porre rimedio. Se ti soffermerai a riflettere per un momento, potrai renderti conto di quanto
questo sia vero. Che cosa speri di ottenere, tornando a casa? Non è in tuo potere ridarmi ciò che ho
perduto, e non puoi nemmeno riparare. Né si tratta esclusivamente della mia perdita. È anche una
perdita tua, e della nonna e degli altri. Sembra che tu ti sia messa in mente — ed è un'idea
completamente sbagliata - di essere in qualche modo responsabile. Ora, questo tuo impulso mi
sembra sospettosamente simile a un atto di contrizione. Si tratta di orgoglio e di presunzione,
Justine. Dane era un uomo adulto, non un bambino indifeso. Io lo lasciai andare, no? Se avessi
consentito a me stessa di pensare quello che pensi tu, me ne starei seduta qui a incolparmi e a
impazzire, pronta per un manicomio, perché gli consentii di vivere la sua vita. Ma non me ne sto qui
inerte a incolpare me stessa. Nessuna di noi due è Dio, sebbene io creda di avere avuto più
possibilità di te di imparare.
«Tornando a casa, tu mi consegni la tua vita come un sacrificio. Non la voglio. Non l'ho mai voluta.
E ora la rifiuto. Tu non appartieni a Drogheda, non sei mai appartenuta a Drogheda. Se ancora non
hai capito qual è il tuo posto, ti consiglio di metterti a sedere immediatamente e di cominciare a
riflettere sul serio. A volte sei davvero spaventosamente ottusa. Rainer è un uomo molto simpatico,
ma io non ho ancora conosciuto un uomo che possa essere altruista quanto tu sembri pensare che lo
sia lui. Per amore di Dane, figuriamoci! Vedi di crescere, Justine!
«Tesoro, una luce si è spenta. Per noi tutti una luce si è spenta. E tu non puoi fare assolutamente
nulla al riguardo, non lo capisci? Non ti offendo, cercando di fingere di essere perfettamente felice.
Non è questa la condizione umana. Ma se tu credi che noi, qui a Drogheda, passiamo le giornate
piangendo e gemendo, ti sbagli di grosso. Ci godiamo i nostri giorni, e una delle ragioni di questo
sta nel fatto che le nostre luci per te continuano a splendere. La luce di Dane si è spenta per sempre.
Ti prego, cara Justine, cerca di rassegnarti.
«Torna senz'altro a casa, a Drogheda, saremo felici di rivederti. Ma non per sempre. Non saresti mai
felice sistemandoti definitivamente qui. È un sacrificio non necessario, ed è un sacrificio inutile. In
una carriera come la tua, anche un anno di lontananza ti costerebbe caro. Rimani dunque
nell'ambiente che fa per te, sii una buona cittadina del tuo mondo.»
Il dolore. Fu lo stesso dei primissimi giorni dopo la morte di Dane. Lo stesso genere di futile,
sprecata, inevitabile sofferenza. La stessa straziata impotenza. No, naturalmente non poteva fare
nulla. Non c'era modo di compensare, nessun modo.
Un grido! Il bricco stava già sibilando. Zitto, bricco, zitto! Zitto per Mammina! Che cosa si prova a
essere la figlia unica di Mammina, bricco? Domandalo a Justine, lei lo sa. Sì, Justine sa tutto
sull'essere figlia unica. Ma io non sono la figlia che vuole lei, quella povera vecchia appassita là nel
ranch. Oh, Ma'! Oh, Ma'... Credi che, se umanamente mi fosse possibile, non lo farei? Nuove
lampade al posto delle vecchie, la mia vita per la sua! Non è giusto che sia stato Dane a morire...
Ma' ha ragione, il mio ritorno a Drogheda non può modificare il fatto che lui non potrà mai tornare.
Sebbene giaccia là per sempre, non potrà mai tornarvi. Una luce si è spenta e io non posso
riaccenderla. Ma capisco quello che vuol dire Ma'. La mia luce continua ad ardere in lei. Soltanto,
non a Drogheda.
Fu Fritz ad aprire la porta, indossando non già l'elegante livrea blu-mare da autista, ma l'elegante
tenuta da mattina del maggiordomo. E, mentre sorrideva, si inchinava rigido e batteva i tacchi
secondo la buona maniera tedesca all'antica, una riflessione passò nella mente di Justine: prestava
doppio servizio anche a Bonn?
«Lei è semplicemente l'umile cameriere di Herr Hartheim, Fritz, o è in realtà il suo cane da
guardia?» gli domandò, porgendogli il cappotto.
Fritz rimase impassibile. «Herr Hartheim si trova nello studio, Miss O'Neill.»
Rain sedeva contemplando il fuoco, un po' chino in avanti, e Natascia giaceva raggomitolata e
addormentata davanti al caminetto. Quando la porta si aprì, alzò gli occhi, ma non parlò, non parve
lieto di vederla.
Così, Justine attraversò la stanza, si inginocchiò e gli appoggiò la fronte in grembo. «Rain, sono
così pentita di tutti questi anni, e non posso espiare» bisbigliò.
Lui non si alzò in piedi, non la fece rialzare con sé; le si inginocchiò accanto sul pavimento.
«Un miracolo» disse.
Justine gli sorrise. «Non hai mai smesso di amarmi, vero?»
«No, Herzchen, mai.»
«Devo averti ferito moltissimo.»
«Non come credi. Sapevo che mi amavi e potevo aspettare. Sono sempre stato persuaso che un
uomo paziente debba vincere, in ultimo.»
«E così, hai deciso di lasciarmi risolvere la faccenda per conto mio. Non ti sei preoccupato
minimamente quando ti ho annunciato che tornavo a Drogheda, vero?»
«Oh, sì. Se si fosse trattato di un altro uomo, la cosa non mi avrebbe turbato, ma Drogheda? Un
avversario formidabile. Sì, mi sono preoccupato.»
«Sapevi della mia partenza prima che te lo dicessi, no?»
«Clyde lasciò fuggire il gatto dal sacco. Telefonò a Bonn per chiedermi se non potessi impedirtelo
in qualche modo, e allora gli dissi di tirare le cose in lungo con te almeno per una settimana o due, e
nel frattempo io avrei studiato il da farsi. Non nel suo interesse, Herzchen. Nel mio. Non sono
altruista.»
«È quello che ha detto Ma'. Ma questa casa! L'avevi già un mese fa?»
«No, non è mia. Però, poiché ci occorrerà una casa a Londra se tu vorrai continuare la carriera, farò
bene a vedere di acquistarla. Purché ti piaccia, s'intende. Ti consentirò persino di rimetterla a nuovo,
purché tu mi prometta solennemente di evitare il rosa e l'arancione.»
«Non mi ero mai resa conto di quanto tu sia tortuoso. Perché non mi dicesti semplicemente che
continuavi ad amarmi? Volevo sentirmelo dire!»
«No. C'erano tutti gli elementi perché tu lo capissi da te, e dovevi capirlo da te.»
«Temo di essere cieca dalla nascita. Per conto mio non lo vedevo, davvero, avevo bisogno di aiuto.
Mia madre mi ha costretta, finalmente, ad aprire gli occhi. Ho ricevuto una lettera, questa sera, nella
quale mi dice di non tornare a casa.»
«È una creatura meravigliosa, tua madre.»
«L'hai conosciuta, Rain... quando?»
«Sono andato a farle visita circa un anno fa. Drogheda è magnifica, ma non è per te, Herzchen.
Andai laggiù, allora, per tentare di farlo capire a tua madre. Non hai idea di quanto sia felice che lo
abbia capito, anche se non credo che nulla di quanto dissi sia stato molto illuminante.»
Alzò le dita per sfiorargli la bocca. «Dubitavo di me, Rain. Ho sempre dubitato di me stessa. Forse
dubiterò sempre.»
«Oh, Herzchen, spero di no! Per me non potrà mai esserci nessun'altra. Soltanto tu. Il mondo intero
lo sa da anni. Ma le parole d'amore non significano niente. Avrei potuto urlartele mille volte al
giorno, senza influire minimamente sui tuoi dubbi. Così, non ho parlato del mio amore, Justine, l'ho
vissuto. Come hai potuto dubitare dei sentimenti del tuo cavaliere più fedele?» Sospirò. «Bene, per
lo meno non è venuto da me. Forse continuerai a trovare abbastanza valide le parole di tua madre.»
«Ti prego, non dire così! Povero Rain, credo di aver logorato e ridotto a un filo anche la tua
pazienza. Non offenderti se è venuto da Ma'. Non ha importanza! Mi sono inginocchiata ai tuoi
piedi per espiare!»
«Grazie a Dio, l'espiazione durerà soltanto stanotte» disse lui, in tono più allegro. «Domani tornerai
a essere impertinente.»
La tensione cominciò ad abbandonarla, il peggio era passato.
«Quello che mi piace - anzi no, che amo - soprattutto di te è il fatto che mi dai così bene del filo da
torcere da impedirmi di pareggiare del tutto i conti.»
Le spalle di lui sussultarono. «Allora prospettati il futuro in questo modo, Herzchen. Vivere nella
stessa casa con me potrebbe offrirti la possibilità di studiare come riuscirci.» Le baciò le
sopracciglia, le gote, le palpebre. «Non ti vorrei diversa da come sei, Justine. Non vorrei toglierti
una sola lentiggine dal viso o una sola cellula dal cervello.»
Gli passò le braccia intorno al collo, affondò le dita nei suoi capelli. «Oh, se tu sapessi quanto ho
desiderato far questo!» disse. «Non sono mai riuscita a dimenticarlo.»
Il telegramma diceva: Sono appena diventata la signora Hartheim Stop Cerimonia privata in
Vaticano Stop Benedizioni papali si sono sprecate Stop Questo significa indubbiamente sposarsi
Punto esclamativo Arriveremo per luna di miele ritardata al più presto possibile ma casa nostra sarà
Europa Stop Affettuosità a tutti anche da Rain Stop Justine.
Meggie posò il telegramma sul tavolo e contemplò con gli occhi spalancati, al di là della finestra,
l'abbondanza di rose autunnali in giardino. Profumo di rose, api tra le rose. E gli ibischi, i cespugli
ornamentali, gli eucalipti, le buganvillee scarlatte, gli alberi del pepe. Com'era meraviglioso il
giardino, quanto era vivo. Vederne le piccole cose crescere, cambiare e avvizzire; e nuove piccole
cose rispuntare, seguendo sempre lo stesso, interminabile, incessante ciclo.
Era tempo che Drogheda si fermasse. Si rinnovasse, il ciclo, con persone sconosciute. Mi son fatta
tutto da me, non ho nessun altro da incolpare. E non c'è un solo momento del quale possa pentirmi.
L'uccello con la spina nel petto segue una legge immutabile; è spinto da non sa che cosa a
trafiggersi, e muore cantando. Nell'attimo stesso in cui la spina lo penetra, non ha consapevolezza
della morte imminente; si limita a cantare e a cantare, finché non rimane più vita per emettere una
sola altra nota. Ma noi, quando affondiamo le spine nel nostro petto, sappiamo. Comprendiamo. E
lo facciamo ugualmente. Lo facciamo ugualmente.

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