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Toast a Alberto Arbasino

Romanzi e racconti, Mondadori (I Meridiani) 2009


di Fabrizio Patriarca

Bisogna osservare le buone maniere; ma le buone

maniere cambiano; – e per quanto perfetta possa

essere un’opera, non sarà sempre irreprensibile. –

Flaubert, Bouvard e Pécuchet

Mi domando se lo scrittore che ha usato la narrativa per propagare il tessuto della conversazione fino a
tradurlo in polvere (lo sguardo corre al Settecento, secolo della conversazione, ma definitivamente Secolo
dell’Enciclopedia), mentre piegava e ripiegava le volute dello stile per potenziare – e perfidamente, ci sta,
rendere indecifrabile una volta per tutte – la retorica del catalogo (tradizione dell’Ottocento, già col Leo-
pardi delle Operette morali compiutamente Secolo dei Cataloghi), mi domando se non abbia sofferto un po’,
affidando alle copertine di un Meridiano i testimoni primissimi (con un finalmente rileggibile Fratelli
d’Italia edizione ’63) di quella che sarebbe diventata una difficile stratigrafia di riscritture e di rifacimenti, e
che oggi possiamo rivisitare per tappe – anche grazie all’intelligenza del curatore Raffaele Manica, al suo
gesto critico sempre indicativo, mai coprente – come un protocollo della salvezza.
Perché l’attività di uno scrittore inflessibile come Arbasino (nella severità richiesta alla propria arte) e pie-
ghevole come Arbasino (nella spumante felicità combinatoria che quell’arte la distingue) sta opposta, alme-
no quanto persecuzione della “mole”, alla meccanica del «fading» tracciata da Barthes nei Frammenti di un
discorso amoroso. Il che ci porta deliziosamente vicini, intanto, alla nozione di frammento (istanza non tra-
scurabile, e anzi funzionale all’impianto polverizzante di Arbasino), e più pericolosamente vicini al ragio-
namento interminabile del desiderio, o sul desiderio. Il libro di Barthes esce nel ’77, quando Arbasino ha
già manovrato lungamente all’interno del suo Fratelli d’Italia (Feltrinelli 1963): il testo sul quale sporgersi è
ora quello dell’edizione einaudiana del ’76; fanciulle di Poussin, nereidi, arieggiano in copertina, tolte da
un trionfo di Nettuno voluto dal cardinale Richelieu nel 1635. L’estrazione espropria dal regime
dell’immagine un particolare fascinoso, a ricordarlo adesso: amorini che spargono polvere di fiori, quasi
emergendo da un cirro di nube. La scelta del dettaglio (e meglio ancora: del ritaglio) ha oscurato la bontà
dell’immagine come architettura, l’esattezza del parallasse, il nitore della ruota dei corpi. L’effetto è quello di
un teleobiettivo, ingradimento, ricchezza drammatica, sfocatura dello sfondo. Barthes chiama questa sfo-
catura a principio dominante del testo, elegge il fading a dimensione in cui pare si manifesti una qualche
purezza del linguaggio: nel testo «il fading delle voci è una buona cosa; le voci del racconto vanno e ven-
gono, svaniscono, si accavallano; non si sa chi parla: qualcuno parla e basta; non vi è più immagine, ma
solo linguaggio».
Ora l’ipotesi è che l’inesausto furore di riscrittura, la mouvance, il lievito distintivo di Arbasino,
l’ingrediente caldo che spinge per trent’anni le oscillazioni – a crescere – del suo romanzo maggiore, abbia
raggiunto nel gusto irredimibile per la precisazione, nel merletto sulla frase, nell’acquisto di volume e nella
contemporanea lucidatura del testo, l’antidoto discreto al fading della testualità compiuta, quella sempre
brutale del libro come percorso stringente, del romanzo in cui è tagliato definitivamente (l’espressione è di
Valerio Magrelli) «il nodo di Gordio della variante». E’ il carattere nostalgico dell’artificio, la cera che fa
brillare la lima che lavora, restandovi impressa. Arbasino sembra aver manipolato a piacimento la costante
cosmologica del suo universo narrativo; la lotta al fading che assilla buona parte della sua opera comprime i
termini apparenti di una sfida al lettore: si legge, si legge tanto, si rilegge, con l’unica opzione di poter sce-
gliere tra l’approvazione e la contrarietà; si assiste, come a una proiezione frenetica, una corsa da cinemato-
grafo. Pare che l’esecuzione continua del varietur permetta di fronteggiare l’entropia alla quale la stessa idea
di storia letteraria condanna o sacrifica il testo (che anche possiamo non leggere affatto: fading pregiudizia-
le, totale). Il romanzo alimenta al proprio interno voci che mescolandosi bruciano via via nell’indistinto
(dialogo, conversazione, monologo, stream of consciousness sono altrettanti punti a fuoco, istanti più o meno
risolti in un movimento che quando è nitido chiamiamo intelligenza del testo, e che altrove decade nel
suo svagato piacere). All’esterno del romanzo, dove cala più forte il morso dell’oblio, e la resistenza si mi-
sura in anni, non più in capitoli, Arbasino deve misurarsi (occorrerà dire: per carattere) col problema di
cui alla metafora cosmologica, infrangendo una regola che appartiene a quella sola metafora, vale a dire
l’impossibilità d’immettere nuova materia nell’universo così stabilito e avviato. Lo stratagemma affaccia,
com’era implicito a talune direttive critiche molto “Seventies”, la possibilità di convertire facilmente una
scrittura già «autorevole» e «autoritaria» nei suoi esordi alla regola, fascinosa e molto vaga, del metaroman-
zo. Regola funzionale, come dall’intervento di Alfredo Giuliani sull’edizione ’76 di Fratelli d’Italia: «Un me-
taromanzo che contiene in sé tutte le possibili istruzioni per l’uso di se stesso e di tutti gli altri romanzi…
Una folle rincorsa vincente al Ritardo Storico e alla Vita Perduta, con incroci e recuperi di ogni sorta di
idee e di oggetti, operazioni di accumulo e mistificazioni spesso esilaranti».
Ma il metaromanzo, probabilmente, non esiste che come punto o nodo distinguibile, per qualche trat-
to spiccato, nella storia sempre costruenda dell’agibilità o dell’inagibilità del romanzo. Il sospetto, frequen-
te, è che invece Arbasino abbia lavorato dentro e in parte a ridosso di una tradizione piuttosto cospicua ai
cui estremi laterali dovremmo porre Boccaccio novelliere e il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore
(prima edizione nei «Supercoralli» al 1979): particolarmente, il libro di Calvino stabilisce un preciso confi-
ne di riflessione sul destino della narrativa, e lo fissa, quel confine, nell’epoca in cui la cosiddetta «cornice»
di certi romanzi precipita, da festosa impalcatura entro cui lo scrivere sperimenta ed esplora le proprie po-
tenzialità, a inevadibile gabbia potenziale dove si consuma la fine (sempre più: meditando) o si progetta
l’eccidio delle ambizioni romanzesche già strozzate nel suppurare, anche di principi formali, che avviene
tra Otto e Novecento.
Calvino, per dire una cuspide sicura nell’apoteosi combinatoria (e il suo Viaggiatore, dove s’incendia la
polvere dei continui incipit, ma allora si dovrà nominare Manganelli da Nuovo Commento a Centuria, libri tra
fine Sessanta e fine Settanta che Calvino pure amò), per dire una scintilla nella generale soddisfazione di
esperimenti tanto ben riusciti che hanno infine qualcosa di anche molto nostalgico e apocalittico, quasi,
operazioni somme che denunciano la fine della facoltà di operare (giostre combinatorie di circolo france-
se, d’opificio: Roubaud, Queneau, Perec e il suo La vita, istruzioni per l’uso, che celebra senza più dissimula-
zioni – siamo al 1978 – l’opportunità reticolare della cornice, quanto alveare in cui circola, gira e si
frammenta, polverizzandosi, il materiale narrativo). Calvino, il cui più celebre divertissement oulipien è intito-
lato proprio a un incendio (ma c’è anche là un’angoscia della penuria estrema di soluzioni narrative). Men-
tre alcuni scrivono insomma le regole e i programmi e le intelaiature matematiche da piegarci dentro il
tessuto narrativo – combinatoria è per certi versi scrittura plissée, con aggettivo alla Deleuze – Arbasino
volge tutto in cornice, il che rende giustizia a quell’impressione di vento, di mobilità, di linguaggio che
soffia in continuazione all’apertura di Fratelli d’Italia. “Bufera del linguaggio”, a definirla, mettendo tra cau-
tissime parentesi quel termine meteorologico che investe uguali trasformazioni sentimentali e principi del-
la costruzione del verso all’incirca nei medesimi tempi d’esordio e affermazione di Arbasino (s’intenda il
Montale de La bufera e altro, che data al ’56, fino al blocco isolato degli Xenia, dieci anni più tardi, così co-
prendo l’intera stagione editoriale fotografata dal Meridiano, da Le piccole vacanze, 1957, poi 1971 e 2007, a
Certi romanzi, 1964, poi 1977).
Dalla metà degli anni Cinquanta alla metà dei Sessanta prende corpo in scrittura, e subito volteggia
paurosamente, quell’«entusiasmo struggente per la sprovincializzazione letteraria» che è bollo, marca do-
cumentale (nella definizione posteriore targata ‘77 di un Arbasino quarantasettenne che vede, all’indietro,
la «spropositata euforia italiana» degli anni del Boom): ebbene, è anche diretto riferimento emotivo per un
«quaderno di lavoro» intitolato Certi romanzi. Poi gli anni Ottanta, a chiudere: il glamour, la leggerezza, la
spaventosa illusione del benessere, l’effimero realizzato, altri spropositi, tra nuovi e d’avanzo, là pronti da
inforchettare. Non basta. Quell’euforia, molto spesso distinguibile dal timbro della prosa già in alcuni rac-
conti de Le piccole vacanze (vezzi e abitudini stilistiche poi ritornanti nell’Arbasino delle riscritture, fino a
certi intercalari saliti dall’ironia alla proverbialità, «Signora mia», che Raffaele Manica addirittura isola co-
me incorruttibili nella bufera delle varianti d’autore), quella vicenda di infatuazioni e scoperte pionieristiche
che improvvisamente raccontavano un’Europa più larga (viaggiabile, frequentabile, conoscibile, anche
consumabile) abitata da «Lévi-Strauss, Adorno, Benjamin, Jakobson, Barthes, Blanchot, Sklovskij, Ra-
ymond, Rousset, Starobinski, tanti formalisti e strutturalisti russi, francesi, praghesi…», quell’accelerazione
della materia del conversare verso il cerchio più esterno del narrabile, quel voler sollevare tutto il discorso,
tutto il linguaggio nella dimensione della cornice, ci rimandano oggi, mentre si sfoglia il Meridiano,
l’immagine di uno scrittore senz’altro intellettualmente duro a penetrarsi (è la raffigurazione critica corren-
te – da Piero Gelli a Alfonso Berardinelli – di un Arbasino che «scrive per sé stesso», trascurando
l’orizzonte dei lettori), senz’altro sfuggente a una definizione da lui stesso promanata, quella di «venerato
maestro» (Arbasino può legittimamente succedere a Gadda, chi potrebbe oggi succedere ad Arbasino?), e
allora, quanto scrittore senza eredi, scrittore senz’altro necessario. Nel senso che almeno una direzione del
romanzo novecentesco, che punta alla vaporizzazione del discorso narrativo nel brusìo della conversazio-
ne (della cornice), è da lui percorsa fino in fondo, cioè fino alla vertigine paradossale della riscrittura che
sottrae il testo al fading della Storia – che puntualmente è storia dell’intersezione o della mancata interse-
zione tra il testo e i suoi possibili lettori, storia d’intercettazioni di qualità, oppure fallimentari – mentre lo
consegna ad altro genere di minutissimo disfarsi. I cataloghi di Arbasino mostrano infatti, più o meno
come i cataloghi leopardiani, ma già sulla scia di alcune rassegne satiriche tipicamente “Settecento”, questa
forza distruttiva che mina il discorso nel suo fondamento retorico, sfuggendo con facilità il catalogo, co-
me hanno dimostrato Borges e Foucault, all’ordine tassativo di ogni retorica che voglia dirsi compiuta: il
catalogo indebolisce la verità che dovremmo scorgere nel fondo trasparente della metafora, destituisce di
senso le procedure contigue della metonimia (i cataloghi di Borges nel John Wilkins ci sembrano folli per-
ché sono interrotti, interrotta è l’omogeneità della pasta metonimica di cui è fatto l‘insieme). Nel catalogo,
infine (è questa una particola borgesiana che scivola inavvertita anche nell’introduzione di Manica al Me-
ridiano, dove è menzionato in avvio il racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte), s’impone quella dram-
matica volontà di sorveglianza del testo che in Borges (La biblioteca di Babele; Pierre Menard) è trascritta
immediatamente come controllo della follia (Borges che ricorda di aver intrapreso la stesura di Funes, o
della memoria dopo un incidente, onde sincerarsi d’essere ancora in possesso delle proprie facoltà mentali),
e che Arbasino può derivare al quadrato dalle sue letture dei lettori di Flaubert: «Pochi esercizi di virtuosi-
smo critico m’hanno eccitato in questi anni più di quelli tessuti da Richard e da Rousset intorno a Gustave
Flaubert», come è detto nel primo capitolo di Certi romanzi. Il punto è quel termine: «eccitato». Sarà
l’eccitazione la reale misura del catalogo arbasiniano, sempre goloso, debordante quanto si vuole, brillante
come lo scintillìo della pietra preziosa e spesso ugualmente coriaceo, saldo e impenetrabile se non da chi
lo ha redatto? In particolare, dal Flaubert di Richard s’apprende l’eroica figura di uno scrittore «miserabile
ed esemplare, determinista e disperato, eccessivo e passivo, vergine adolescente ed enorme maiale dissolto
in un ribaltamento continuo di prospettive che si dissolvono a loro volta ciascuna entro la successiva: nel-
la mira di un “produire l’être” che poi è il senso della sua éducation», laddove sembra che si dichiari, fibra
su fibra, l’ambizione a possedere l’incontrollabile.
All’incrocio tra il controllo della follia in cui si spengono (ma finalmente bruciassero!) gli infiniti volu-
mi della Biblioteca di Babele e questa massimizzazione dell’essere nell’incessante produzione di discorso, Ar-
basino catalogico sta come sdoppiato tra Bouvard e Pécuchet: se l’opera di Borges, che guarda gelosa a un
passato enciclopedico e nudo, piantona stabilmente i confini della follia, quella di Arbasino, mettendo in
fila un eterno presente agghindato e decorato (ma dove il comico, ricorda Manica, si rivela piuttosto «de-
viazione formale delle energie oscure del testo», così come certe stranezze ineffabili nei cataloghi di moda
invariabilmente scatenano il riso), entra nella circolazione letteraria con un’aspettativa di difficile sorve-
glianza anche morale, e finisce per opporsi allo statuto storicizzato del controllo formale che abbiamo vi-
sto dispiegarsi negli apparati della Filologia. E anzi Arbasino, autore tutto dalla parte di Mercurio, la
Filologia preferisce irriderla: la variante diventa una scala di Wittgenstein (la usi per salire, la butti quando
sei in cima), il testo rifatto va come un grumo nel flusso della storia letteraria, l’imperativo è quello di resi-
stere alla demenza, la tracotanza è garanzia del suo spessore.
A rileggere certe pagine straordinarie dai racconti de Le piccole vacanze, ma da Fratelli d’Italia soprattutto,
si viene feriti da una sensazione quasi intollerabile: che Arbasino riesca a trattenere in un presente non cri-
stallizzato ma vivacissimo tutta la serietà e la facezia che normalmente stanno a semplificare, in letteratura,
il tramonto delle cose. E’ l’impressione che risuona in due articoli recenti, uno di Alfonso Berardinelli su
«Il Foglio», Come convivere con Arbasino (26 ottobre 2009), l’altro di Andrea Cortellessa su «Tuttolibri», Arba-
sino, l’anti-Proust (14 novembre 2009). Barardinelli, in particolare, ha parlato di «sincronizzazione al presen-
te» riguardo al problema della riscrittura dei romanzi, respingendo l’opera di Arbasino verso uno
«spettacolo dell’autore in attività», fino a chiedersi: «Ma che tipo di scrittore è precisamente Arbasino? Si
potrebbe dire che è un D’Annunzio che abbia letto Kraus, un D’Annunzio ironico, più mentale che sen-
suale, senza indugi estetici, più secco che umido, più satirico che idolatrico. O viceversa è un Kraus dadai-
sta, che per poter giudicare ingloba e mima e che resta severo mentre fa finta di giocare o effettivamente
gioca». Ecco, la sensazione che ferisce è precisamente questa: che Arbasino sia un Kraus alle prese non
con gli ultimi, ma con gli unici giorni dell’umanità, i suoi. Ciò che può rendere molto spiacevole il confron-
to, in lettura, con le «energie infinite» (sempre Berardinelli) di cui dispone.
Quanto al paragone con D’Annunzio, se paragone dev’esserci, che sia col personaggio di una storia
della solitudine apparso in un incipit memorabile di Giorgio Ficara: «Di fronte a Manzoni e alla sua conce-
zione “edificante” della letteratura – e all’autorevole Parini dei Principi fondamentali e generali delle belle lettere –
Gabriele D’Annunzio ha l’aria di un terrorista in marsina e gibus, con valigette piene di tritolo pronto a
esplodere». Gli estremi a concludere, ivi compresi i Gran Lombardi, sono già tutti qui. Resterebbe da ri-
spondere soltanto alla domanda più scottante: chi è il lettore di Arbasino, questo rassegnato paradigma
dell’esclusione? Manovrato un po’ il marchingegno del Meridiano, goduta la Cronologia, pesata la qualità
dell’interazione tra Arbasino editore di se stesso e il suo appassionato curatore, visitate le Notizie sui testi,
ma soprattutto il Dossier «Arbasino su Arbasino» che raccoglie tutte le anastatiche delle copertine delle
varie edizioni dei libri qui pubblicati, nonché le note, i risvolti, le quarte di copertina ecc. firmate A.A.,
non rimane che tornare alle storie, a leggere, e a scrutarsi un po’, dopo un po’. Essere un lettore di Arba-
sino è l’esperienza di un privilegio, come trovarsi proiettati nel personaggio di Luciano in quel racconto
che sta nelle Piccole vacanze: succede che un certo Giorgio, malato di ricchezza interiore d’esperienza di vita
di gusto sovrano, è là che ti serve, che s’innamora di te, ti insegna mille accorgimenti e sottigliezze del
mondo «come si deve», te li porge come fossero croissants per la colazione, t’impartisce una lezione che tu,
giovane scriteriato, talvolta troverai noiosa, ma infine devi riconoscere che non ne capitano mai di così
eccitanti, come nei fotogrammi sospesi e un po’ tremuli di un viaggio a Barcellona, quando i due perso-
naggi attraversano una «campagna asciutta di terra rossiccia e viti alte una spanna a forma d’alberello con
tutti i grappoli attorno invece del tralcio lungo come da noi», e Luciano riflette sugli atteggiamenti
dell’amico: «…mi sconcerta, mi preoccupa, cerca sempre tutto quel che può farmi piacere, cerca talmente
di prevenire ogni mio desiderio che io non capisco cosa ci trova, dove vuole arrivare, e insomma rimango
male quando mi passa i croissants con sguardi così intensi come se li avesse fatti lui o mi offrisse la sua vita
su un piatto».
Quel paesaggio rosolato dalla luce in cui corrono «fiumiciattoli d’acque verdastre». E’ nell’arsura porta-
ta, stranamente, dal gonfiore del testo, è là che ci si riconosce lettori – e insomma rimango male –, quando
finalmente Giorgio concede dei «lunghi silenzi», sguardi «insolitamente buoni e tristi, sempre di una genti-
lezza estrema». E chissà se il personaggio di Giorgio è poi davvero quello che sembra, una lunga, delicata
metafora in cui balugina qualcosa del temperamento di un Autore, la sua durezza che si sfoglia rivelando
un’interiore molle, d’ansia che non si cura d’altro se non di rivestirsi nuovamente, darsi uno strato, una
guaina, un contegno linguistico impareggiabile. Supposizione lecita. Chi ha seguito la metafora vada però
a controllare il finale del racconto-diario, dove Arbasino sembra raggiungere – a furia di spostare e riposi-
zionare se stesso, paragrafo dopo paragrafo – l’essenza dell’infinita eccitazione, il suo fondo di mescola
contratta, il posto, insomma, in cui si perfeziona uno stile: l’illusione impagabile dell’aumento, la compas-
sata crudeltà del rinvio.

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