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rivoluzione basagliana
di Eugenia Campanella
[Alt Text: fotografia in bianco e nero dei coniugi Basaglia, entrambi in primo piano e
probabilmente su un balcone o una terrazza. Lei è ripresa di profilo e sorride verso
sinistra, lui è accanto a lei ma rivolto dal lato opposto. Sullo sfondo tetti e palazzi.
Fonte.]
Per provare a raccontare chi è stata Franca Ongaro Basaglia si può partire dal suo ultimo
saggio, letto al pubblico il 27 Aprile 2001 in occasione del conferimento della laurea honoris
causa in Scienze Politiche dall’università di Sassari. Parlando dell’importanza della
radicalità, Ongaro scrive: «porsi il problema prioritario della disuguaglianza e del conflitto
che essa produce come radice con cui confrontarsi».
Radicale è un termine che torna spesso negli ultimi lavori di Franca Ongaro e –
parafrasando le sue parole – significa andare alla radice delle questioni, cercando di
superare una visione fallace che vede la radicalità come una pratica intransigente e per
questo utopistica, irrealizzabile quando si scontra con la realtà.
Quello che accade a Gorizia dal 1961 in poi è, invece, molto lontano dall’utopia ed
estremamente ancorato a una realtà cruda e nascosta come era quella dei manicomi.
Franco Basaglia arriva a Gorizia come nuovo direttore dell’Ospedale Psichiatrico
Provinciale, dopo una difficile esperienza come accademico all’Università di Padova dove
non godeva di grande fama e stima da parte dei suoi colleghi per via di idee e pensieri che,
seppur si svilupperanno maggiormente nella sua esperienza successiva a Gorizia, si
discostavano già dal pensiero dominante della psichiatria italiana dell’epoca. Gorizia era,
infatti, una punizione e un esilio: confinato nel manicomio più periferico d'Italia, i cui muri
coincidevano con il confine tra Italia e Jugoslavia.
Quella che sembrava una punizione, sancisce, invece, un processo che mostrerà come il
rovesciamento di una realtà passi necessariamente dal dissotterrare le radici e non c’è ci sia
nulla di più pragmatico e realistico di questo del desiderio di cercare le origini di un sistema
mal funzionante per rivoluzionare ciò che sembra immutabile. E se con rivoluzione si intende
uno sconvolgimento dei costumi e delle abitudini, quella di Gorizia lo è stata sicuramente, a
partire dalla scelta di Franco Basaglia di rifiutarsi di firmare il registro degli internati legati al
letto la notte precedente, prassi istituzionalizzata allora e ancora lontana da essere
abbandonata oggi.
Da quel rifiuto, da quel “E mi no firmo”, l’idea di manicomio inizia a sgretolarsi a colpi di
pratiche di cura mai viste nell’istituzione totale manicomiale, perché, come sottolinea
Basaglia stesso, l’unica strategia possibile per scardinare il pessimismo della ragione che
vede il manicomio come un male necessario è quella dell’ottimismo della volontà di
Gramsciana memoria. Volontà che si traduce in pratiche che funzionano, che creano le
condizioni per far rifiorire la salute mentale delle persone e dare un senso alla pratica clinica.
Franca Ongaro è stata una protagonista nel lungo processo di sviluppo, dibattito e
attuazione di una nuova visione della salute mentale e troppo spesso dimenticata, dipinta
come ombra o segretaria del marito. È invece stata una compagna di vita e di lotte di Franco
Basaglia, uomo con cui ha condiviso una scelta che non è stata solo professionale, ma
anche politica e familiare. La figlia Alberta, a sua volta diventata psicologa, ricorda come la
scelta dei genitori abbia avuto un impatto profondo anche sulla sua vita di bambina a
contatto con la sofferenza psichica e come la rivoluzione basagliana sia stata vissuta e
partecipata da entrambi i coniugi, portata avanti anche grazie all'instancabile lavoro di
Ongaro nel trascrivere gli appunti di Basaglia e discutere quello che accadeva nel
manicomio, elaborando l’esperienza manicomiale e tutto quello che accadeva fuori dal
manicomio. Il pensiero di Ongaro si sviluppa insieme all’esperienza clinica del marito, ne
prende spunto, ma a sua volta lo influenza, nella complessità di un continuo scambio di idee
e pensieri, nel conflitto e nella risoluzione di esso. Scrive Ongaro: “So che ogni parola scritta
era una discussione senza fine con lui per farmi capire meglio”, mettendo in luce la
compenetrazione della relazione affettiva con la dimensione politica, in un intreccio fecondo
dove entrambi erano autonomi e partecipi. Per Ongaro, infatti, il conflitto è alla base del
cambiamento, dalla dimensione personale e familiare fino a quella sociale.
Scrive, “proprio il conflitto, cioè ogni relazione che ponga problemi, diritti, attriti, difficoltà sul
piano del potere (quindi i conflitti di potere e di interesse fra il malato e la famiglia, fra il
medico e il paziente, fra l’adulto e il giovane, il docente e lo scolaro, l’uomo e la donna,
l’individuo e la società), se non è utilizzato come occasione per cancellare il più debole e
incapacitarlo, può diventare fonte di conoscenza reciproca, di cambiamento, di ulteriore
comprensione e modifica di sé e dell’altro.” Il conflitto diventa qualcosa da accettare per
vivere appieno le contraddizioni, alla ricerca di domande sempre nuove e di una sempre
nuova capacità di trovare risposte alla complessità
Il conflitto, privato e politico, è alla base di una riflessione sociologica che compenetra nella
dimensione psichiatrica, cercando di scavare fino alle radici della sofferenza e
dell’emarginazione, senza accontentarsi di risposte che prendessero in causa solo
l’individuo. Il lavoro teorico di Ongaro mette in luce, infatti, come il superamento del dualismo
salute/malattia non possa avvenire soltanto con la chiusura dell’istituzione manicomiale, ma
presupponga un lavoro collettivo di cambiamento sociale necessario per creare un terreno
fertile per un mondo che non abbia più bisogno di istituzioni totali. Si sofferma a lungo sul
complesso tema del ruolo che assumono gli individui e le istituzioni e di come sia necessario
mettere in discussione proprio quel ruolo per problematizzare il reale. Il conflitto, quindi,
ritorna perché implica stare con l’altro e accettarlo, rischiando di perdere un ruolo -
personale, sociale, politico- dentro all’interno del quale ci sentiamo riparati “ma è questa
uscita dal ruolo, pur giocandolo, che consente di passare da una domanda all’apertura di
un’altra domanda qualitativamente diversa.”
Nel riconoscere il ruolo dell’istituzione manicomiale Franco Ongaro cura il libro di Morire di
classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin con
un doppio obiettivo: mostrare l’orrore del manicomio e riflettere sull’intersezionalità tra
disturbi psichiatrici e classe sociale. Questo lungo lavoro di divulgazione ha quindi l’obiettivo
di decostruire un’idea di malattia individuale e ineluttabile, ma inserire inserendo la
sofferenza psichica all’interno di una società complessa le cui storture – economiche,
culturali e sociali – hanno un impatto profondo sul malessere delle persone. Proprio qui
Ongaro fa emergere quelle radici su cui crescono le sofferenze dei singoli e le scelte della
comunità, sofferenze a cui le pratiche di cura non possono far fronte da sole. In una società
che rimuove morte e malattia e rapporta la salute alla produttività, anche la medicina finisce
per assumere un ruolo che medicalizza e si appropria di corpi che si annullano fuori dalla
dimensione di efficienza. Queste riflessioni sono ancora incredibilmente attuali e fanno
emergere la necessità di posizionarsi criticamente rispetto al ruolo della medicina e delle
cure che prestiamo e riceviamo nel contesto sociale, politico e economico in cui siamo
immersi.
[Alt Text: una delle fotografie comprese nell’opera Morire di classe. La condizione
manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin raffigura due
persone internate, addossate a una parete nuda. Al centro dell’immagine, una figura
seduta su una sedia e avvolta in una coperta, a capo chino. Sul lato destro
dell’immagine una persona seduta a terra, con le gambe raccolte vicino al petto.]