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“Passivi un corno !


noi, ragazzi della pandemia.
E se un giorno, per un qualche strano motivo, fossimo tutti improvvisamente costretti ad una
reclusione e ad una solitudine forzata ?
Se un giorno ci fornissero come unica scelta possibile la socialità “a distanza”, figlia del progresso
tecnologico e della nostra modernità?
Se ci obbligassero per legge a questo ? cosa accadrebbe ? Come ci
comporteremmo ?

Fino a un anno fa a queste domande avrei risposto con delle ipotesi, delle congetture, delle fantasie.
Ma oggi, venerdì 13 Novembre 2020, posso parlare per esperienza;
l’ondata epidemica che sta mettendo in ginocchio il mondo credo che contemporaneamente stia im-
primendo una svolta sulla nostra concezione di solitudine, e di socialità.

Ci mancano gli altri, questo è innegabile. Ma in che senso ?


Mi fanno ridere quelli che guardano alla situazione emotiva e psicologica del periodo
identificandola con una semplice “nostalgia dell’aperitivo”. È irrispettoso nei confronti di chi
soffre, e ridicolo agli occhi di chi pensa, e si fa domande.
Ci mancano gli altri non per intrattenimento (di quello siamo bombardati) ma per natura: “l’uomo è
animale razionale e sociale” (una definizione che conosciamo tutti a memoria, ma che non perde
mai di efficacia). L’uomo è, in quanto è fra altri uomini.

“nessun uomo è un’isola”, John Donne


“l’uomo […] è naturalmente portato a vivere in società”, Aristotele

Tuttavia completamente isolati non siamo, questo bisogna dirlo.


Questa famigerata socialità a distanza non è poi tutta da buttare via. Senza di essa infatti alcuni di
noi avrebbero forse affrontato crisi decisamente più pesanti.
In fondo è innegabile che ci “addolcisca la medicina”, ovvero la quarantena, che sia “meglio di
niente” (espressione che vive sulla mia bocca ormai da Febbraio).

Ma perché non ci basta?


Forse che questo tipo di socialità, continua ed evanescente, non stava già di per sé un po’
scavalcando lo stare “fisicamente” insieme? Insomma non eravamo allenati ?
Ci si potrebbe addirittura convincere di questa cosa, e affermare con sicurezza che questa
immaterialità, essendo già prima dell’epidemia protagonista delle nostre vite, oggi potrebbe essere
da tutti accettata come una nuova normalità sociale, senza chissà quali conseguenze.
E forse nella realtà dei fatti, quotidiana, è anche così.
Ma a mio modo di vedere non si tratta che di una bugia bianca, un’illusione benevola, ovviamente
giusta, nel senso di umana e comprensibile, ma con nessun altro scopo se non quello di darci la
forza per affrontare un dramma.
Scavando più a fondo infatti, e cioè cercando di andare oltre la “necessità” di trovare delle soluzioni
che sostituiscano il quotidiano (delle pezze che giustamente mettiamo qua e là per evitare il disastro
vero e proprio), mi piacerebbe sapere il motivo per cui tutti continuano a ripetermi che ogni mattina
aprono gli occhi sperando che la situazione sia “migliorata” e che si possa “ritornare alla normalità”
(altra espressione che vive sulla mia bocca ormai da Febbraio).
Cioè se noi dicessimo che riusciamo ad accettare questa condizione senza alcun problema, come se
niente fosse, senza che influisca sullo stress, sul fisico, sugli stati d’animo, credo sarebbe la fine.
E questo per un semplice motivo: questa non è socialità, così come non è società. Questo non è
l’uomo. Quella in cui oggi, malgrado tutto, accettiamo di sguazzare (perché non ci fa sentire soli
completamente) è una rete di relazioni fittizia, inconsistente, che toglie il senso più profondo e reale
alla parola “socialità”, privandola di una delle sue due declinazioni fondamentali e immancabili: i
sensi (toccare, vedere, e sentire, non separati, ma insieme, la persona con cui mi sto relazionando).

E invece l’altra declinazione fondamentale della socialità, cioè il pensiero, in che senso viene ri-
sparmiato, anzi a mio parere “aiutato” da questa situazione ?
Si può riassumere con un’espressione particolarmente efficace: la socialità più vera, coinvolgente, e
umana, è pensante, e in quanto pensante nasce dal confronto di due o più solitudini.
Di certo tutto si può dire di questa situazione, ma non che non si costruisca sul confronto di
solitudini. Solo questo ci è concesso, e secondo me, per il pensiero è un bene.

“La solitudine non è mica una follia, è indispensabile per star bene in compagnia” , Giorgio Gaber

“la solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo”, L.A.Seneca

Prima dell’epidemia, imperversava incontrastata l’idea di onnipotenza, di benessere scontato,


dovuto. L’uomo era stimolato e quindi più attivo, o meglio più predisposto ad essere attivo. Non è
nemmeno necessario dire che in questa condizione riguardiamo sospirando le foto della “bella
normalità di prima”; è un meccanismo standard, naturale: in una situazione di crisi, si rimpiange la
non-crisi, “i bei tempi”. Ma siamo sicuri che fossero belli da tutti i punti di vista? Il pensiero come
stava all’epoca? come lo trattavamo? E la solitudine ? Non è forse vero che non eravamo quasi più
fisiologicamente in grado di creare e apprezzare i momenti di vuoto, di lentezza, in quanto avevamo
sempre la possibilità di distrarci e intrattenerci anche, fra le altre cose, con quella stessa socialità
immateriale che oggi è purtroppo l’unica a nostra disposizione? Eravamo tutti irrimediabilmente
risucchiati dalla velocità a cui andava il mondo, e a cui “stando al passo” bisognava obbligatoria-
mente seguirlo.

Ma improvvisamente, ecco, il mondo si ferma. Cala il silenzio, e almeno per alcuni, il pensiero
comincia a mutare forma. I ritmi sono più lenti, le domande si moltiplicano, le conoscenze
sedimentano più facilmente, e il pensiero rifiorisce, libero dalla continua divulgazione di se stesso,
finalmente solo, indipendente, si piazza davanti all’individuo (che non sta più correndo per arrivare
in tempo dall’università all’happy hour) e lo guarda, immobile. Uno sguardo che spaventa,
tantissimo. Il più spaventoso di tutti forse. Può distruggerti, o può forgiarti. Può renderti impotente,
o più attivo di prima. Può farti sprofondare nel pessimismo verso una vita di cui non vedi il
traguardo, o può fartela assaggiare prima che arrivi, obbligandoti a costruirla mattone dopo
mattone, a organizzare le tue giornate, le tue priorità, i tuoi interessi; avvantaggiandoti in pratica, e
facendoti quindi un grande regalo.

“Al momento ogni uomo dovrebbe avere un suo luogo del pensiero, protetto e silenzioso”, Giorgio
Gaber
Invece prima “non c’era tempo” (espressione che viveva costantemente sulla mia bocca all’epoca).
Non che oggi ce ne sia all’infinito, ma è sicuramente un tempo diverso, dilatato, su cui tu, anche se
è difficile capirlo, hai più potere. Capisci in maniera più evidente che non puoi assolutamente
sprecarlo, che è “res omnium pretiosissima” (Seneca), perché ti si palesa nuda e cruda la
conseguenza del crimine del suo spreco: ovvero il nulla, l’andarsene indisturbato e angosciante dei
minuti, dei secondi, e la morte perpetua della vita.

“Il decesso biologico non è affatto la fine della vita, ma la fine di un processo di morte continuo, e
incontrastabile” , Carmelo Bene

“In hoc fallimur, quod morte prospicimus”, L.A.Seneca

Se prima era il mondo esterno che naturalmente scandiva la tua giornata, oggi sei tu che devi cerca-
re di riprodurre quello stesso mondo esterno nella tua solitudine, nelle tue ore fattesi più lunghe,
che altrimenti rimarrebbero appunto del tutto vuote. Questo credo porti ad una grande maturazione
individuale, indubbiamente più grande di quella che avrebbe portato la “bella normalità di prima”.
Perché questa dimensione non condivisa con il resto del mondo, indipendente dal punto di vista in-
tellettuale, privata, introspettiva, e di dialogo con se stesso, prima era innegabilmente rara. L’indivi-
duo non era costretto a pensare. Poteva benissimo vivere in presa diretta con gli altri, senza accor-
gersene. In un mondo in cui, questo ancora adesso, tutto è pubblicizzato, pubblico, messo allo sco-
perto: i sentimenti e anche lo stesso pensiero (siamo abituati a chiamarla “facilità di divulgazione”,
e avviene notoriamente attraverso televisione, social network etc…). Ma un pensiero costantemen-
te sulla pubblica piazza, messo allo scoperto senza nessun ritegno o pausa, è semmai un pensiero
messo alla gogna. Non c’è vero pensiero che non nasca dal silenzio, da una dimensione individuale
e non collettiva. Ecco, il Covid ci ha imposto questo “trauma benefico”. Ci ha costretti quantomeno
a guardare in faccia il vuoto, e a reagire, ognuno in modo diverso; e i rivoluzionari, i coraggiosi, i
forti di questo periodo credo proprio siano quelli che sono riusciti a ricollegare i due aggettivi
“solo” e “pensoso”, di Petrarchesca memoria, trovando nel vuoto il dubbio, le domande, la voglia di
cultura, e in una parola sola: “il pensiero”.

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