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Italian Studies

ISSN: 0075-1634 (Print) 1748-6181 (Online) Journal homepage: https://www.tandfonline.com/loi/yits20

Sbarbaro e la forma-frammento

Federico Castigliano

To cite this article: Federico Castigliano (2014) Sbarbaro e la forma-frammento, Italian Studies,
69:1, 111-126, DOI: 10.1179/0075163413Z.00000000062

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Published online: 28 Feb 2014.

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italian studies, Vol. 69 No. 1, March 2014, 111–26

Sbarbaro e la forma-frammento
Federico Castigliano
University of Nantes

A partire dalla rassegna dei recenti lavori sulla prosa di Camillo Sbarbaro,
il saggio prende in esame l’operazione decennale di riscrittura che ha
caratterizzato i frammenti dell’autore ligure. Questa revisione esprime,
da un lato, la dialettica tra l’espressionismo ‘vociano’ di inizio secolo e il
classicismo degli anni Trenta e Quaranta e, da un altro lato, una necessità
interiore dell’autore: esorcizzare, attraverso il controllo formale, il risultato
doloroso della ricerca esistenziale condotta durante la sua giovinezza.
L’articolo rivaluta dunque la portata filosofica e lo sperimentalismo stilistico
che caratterizzano l’ultima fase della produzione di Sbarbaro, elementi a
lungo sottovalutati dalla critica.

keywords frammento, Sbarbaro, La Voce, riscrittura, espressionismo, palinodia

Il rinnovato fervore che gli studi su Camillo Sbarbaro hanno conosciuto nell’ultimo
decennio ha contribuito a dissipare un pregiudizio critico consolidato, secondo il
quale l’autore, placati gli impeti della giovinezza, avrebbe ripiegato, attorno agli
anni Venti, verso uno scialbo calligrafismo, consacrandosi in seguito alla revisione o
‘riverniciatura’ stilistica dei propri testi, per abbandonare infine il campo letterario e
asserragliarsi nel silenzio o nello studio dei licheni.1 Questo paradigma interpretativo,
ormai datato, assegnava un ruolo minore alla produzione in prosa rispetto a quella
poetica, anche a causa dell’assenza di un’edizione critica degli scritti dell’autore. Un
quarantennale lavoro di riscrittura si concludeva, infatti, con la versione riconosciuta
come ‘definitiva’ — la ‘ne varietur’, pubblicata da Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller
nel 1985 — che proponeva però i testi nella loro ultima veste e senza tenere conto
di una vicenda compositiva particolarmente tormentata.2 Se i lavori di Giampiero
Costa — cui si deve, oltre alla bibliografia degli scritti, l’edizione critica di Resine, di
Trucioli (1920) e la raccolta dei ‘Trucioli’ dispersi —3 hanno consentito di leggere i
1
Vittorio Coletti, Prove di un io minore (Roma: Bulzoni, 1997), p. 40.
2
Camillo Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, a cura di Gina Lagorio, Vanni Scheiwiller (Milano: Garzanti,
1985).
3
Carla Angeleri, Giampiero Costa, Bibliografia degli scritti di Camillo Sbarbaro (Milano: All’insegna del pesce
d’oro, 1986). Camillo Sbarbaro, Resine, a cura di Giampiero Costa (Milano: Scheiwiller, 1988); Id., Trucioli
(1920), a cura di Giampiero Costa (Milano: Scheiwiller, 1990); Id., Trucioli dispersi, a cura di Giampiero
Costa (Milano: Scheiwiller, 1990).

© The Society for Italian Studies 2014 DOI 10.1179/0075163413Z.00000000062


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testi nella loro veste originale e di apprezzare, quindi, la stratificazione delle varianti,
gli studi più recenti portano alla luce, pur con risultati ancora discussi e dibattuti, il
rapporto dialettico tra le opere della maturità e quelle della giovinezza, rilevando
come la riformulazione stilistica costituisca un elemento essenziale del percorso
letterario e morale dell’autore.4
La centralità della categoria estetica del frammento sembra essere un approdo
comune alla critica odierna: non solo perché l’attività creativa di Sbarbaro è stata
frammentaria, vista l’abbondanza di pubblicazioni sparse, di varianti e di continui
ripensamenti, ma anche perché essa trova nella forma-frammento la sua espressione
più congeniale. Una scelta stilistica che si spiega, in primo luogo, in relazione a
fattori storico-letterari, come i lavori di Antonello Perli hanno evidenziato in modo
esemplare, rilevando la fitta rete di rapporti tra gli autori e le riviste che costituis-
cono il retroterra dell’opera sbarbariana. Si pensi alla koinè vociana che al tramonto
della cultura positivista seppe catalizzare il desiderio, condiviso da molti, di sprovin-
cializzare e rinnovare il panorama letterario italiano. Nella rivista diretta da De
Robertis confluirono infatti i principali motivi ispiratori del frammentismo: la crisi
del romanzo naturalista — e della sua propensione a fornire rappresentazioni unitarie
e compatte, giudicate inautentiche a seguito della sfiducia nella capacità cognitive e
sistematrici della scienza –, una concezione soggettivista della letteratura, di ispira-
zione ancora spiccatamente romantica, i cui prodromi sono rintracciabili nell’esperienza
della Scapigliatura e delle avanguardie e, infine, la teoria estetica di Benedetto Croce.
Attecchendo in questo fertile terreno, l’opera di Sbarbaro seguì, tuttavia, un percorso
autonomo, solo in parte riconducibile all’evoluzione del contesto culturale a lui
contemporaneo: del resto la figura dell’autore, dato il suo atteggiamento dimesso e
antiretorico, rimase marginale rispetto all’attivismo anche politico delle riviste con
cui collaborò.
In questo articolo mi propongo quindi di ripercorrere, attraverso una scansione
diacronica delle tappe che la compongono, l’evoluzione formale del frammento
di Sbarbaro, definendo un iter letterario che, pur contrassegnato da una spiccata
propensione per la palinodia e lo sperimentalismo, appare oggi più che mai coerente
nei suoi sviluppi.5 Attraverso un’analisi del suo pensiero, ma anche delle fonti e
delle varianti testuali, cercherò di portare alla luce le ragioni personali e morali che
determinarono l’evoluzione stilistica di Sbarbaro, ipotizzando che l’autore ricorse
alla forma prosastica quando, affrancato dalla negatività del proprio ‘io’ che aveva
occupato la scena nelle poesie della giovinezza, intese dare solidità, attraverso
l’atto della scrittura, all’apparenza fenomenica diventata, paradossalmente, la sola
‘sostanza’ nella caducità del tutto.6 Ma dal momento che l’incanto del mondo, per
sua natura fugace e discontinuo, si rivela ai nostri sensi per bagliori improvvisi, ecco
allora che la forma-frammento — secondo le indicazioni che Baudelaire, tra gli

4
Mi riferisco, in particolare, a Stefano Pavarini, Sbarbaro prosatore (Bologna: Il Mulino, 1997); Simone Giusti,
Sulla formazione dei ‘Trucioli’ di Camillo Sbarbaro (Firenze: Le Lettere, 1997); Antonello Perli, La parola
necessaria. Saggio sulla poetica di Sbarbaro (Ravenna: Giorgio Pozzi Editore, 2008).
5
In proposito, il riferimento principale resta il saggio di Donato Valli, Vita e morte del frammento in Italia
(Lecce: Milella, 1980). L’autore ripercorre, dalle avanguardie agli anni del Fascismo, l’evoluzione del genere
letterario.
6
‘Però che, se al vero guardi, cosa non v’ha di sustanzia quanto la parvenza’ (Camillo Sbarbaro, Liquidazione
(Torino: Ribet, 1928), pp. 112–13).
SBARBARO E LA FORMA-FRAMMENTO 113

ideatori del genere, fornisce nella celebre lettera dedicatoria dello Spleen de Paris7
— offre una soluzione stilistica adeguata perché aderisce, con una precisione
fotografica, a questo effimero, permettendo, allo stesso tempo, di narrare la fram-
mentarietà di un’esistenza che non può essere ricondotta a percorso lineare. D’altronde,
il frammento esprime, già da un punto di vista formale, un’impossibilità del dire e del
conoscere. Ponendosi come nota a margine dell’esperienza, esso rimarca un limite
del soggetto, secondo quella ‘gnoseologia negativa’ che accompagna l’atteggiamento
anti-retorico di Sbarbaro e che si riflette in modo evidente nei titoli delle sue raccolte:
da Trucioli a Liquidazione, da Fuochi fatui a Scampoli.
È attraverso uno spoglio delle riviste letterarie degli anni Dieci che si possono
rintracciare le prime esperienze in prosa di Sbarbaro:8 un lavoro di composizione
che interessa il periodo 1913–1919 e che culmina nella raccolta dei Trucioli (1920).
Il passaggio alla prosa era stato prefigurato da Sbarbaro in una lettera del 1912 ad
Angelo Barile:
Non so perché ho sempre sperato poco dalla poesia, l’ho sempre considerata per me un
intermezzo, un episodio. Sento che mi abbandonerà, ma non solo: mi lascerà nelle braccia
della prosa, nella quale spero molto di più [. . .].9

A orientare questa conversione stilistica contribuirono le letture di alcuni autori del


simbolismo francese — si pensi all’opera di Rimbaud che conosceva, a seguito della
monografia di Soffici, un’inedita diffusione in Italia –, ma soprattutto dei periodici
d’avanguardia su cui scriveva lo stesso Sbarbaro. Se La Voce, nelle cui edizioni era
stato pubblicato Pianissimo, divenne, sotto la direzione di De Robertis (1914–1916) e
attraverso autori quali Onofri, Campana e Soffici, un centro propulsore del nuovo
frammentismo lirico,10 è sulle pagine della Riviera Ligure che Sbarbaro poté reperire
i modelli stilistici attraverso i quali, in continuità rispetto ai temi di Pianissimo, si
gettava un ponte verso gli esiti ulteriori della sua prosa. La rivista diretta da Mario
Novaro — cui collaborarono, tra gli altri, Rebora e Jahier — divenne quindi una sede
privilegiata dell’attività di Sbarbaro, anche per la concomitante partecipazione e
l’esempio di Giovanni Boine, del quale proprio sul periodico onegliese erano apparsi
i Frantumi (1915).
Rispetto ai modelli citati, i Trucioli di Sbarbaro giungono quindi in ritardo, ponen-
dosi come sintesi di diverse ascendenze stilistiche e facendo propria la vocazione
polivalente della forma-frammento, che ‘contamina diversi generi di letteratura (la
narrativa, la lirica) e di espressione artistica (la musica, la pittura)’.11

7
‘Quel est celui de nous qui n’a pas, dans ses jours d’ambition, rêvé le miracle d’une prose poétique, musicale
sans rythme et sans rime, assez souple et assez heurtée pour s’adapter aux mouvements lyriques de l’âme, aux
ondulations de la rêverie, aux soubresauts de la conscience’ (Charles Baudelaire, Le Spleen de Paris. Petits
poèmes en prose (Paris: Librairie générale française, 2003), p. 60).
8
Quali Lacerba, La Riviera Ligure, La Voce, La Diana, La Brigata, Dada e la Rivista di Milano (Cfr.
Bibliografia, p. 16). Sulla questione rinvio a Perli, pp. 11–52.
9
L’opera, pp. 553–54.
10
Lo sforzo di rinnovamento che De Robertis impresse a La Voce, anche in senso anti-storicista e anti-crociano,
fece della forma-frammento il punto di incontro tra le poetiche ispirate al simbolismo francese — Mallarmé
in particolare — e le esperienze di autori d’avanguardia italiani quali Campana, Onofri e Soffici (Cfr. Valli,
pp. 7–13).
11
Valli, p. 86.
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Tra Pianissimo e le prose dei Trucioli non esiste, d’altronde, una netta cesura,
perché i frammenti, pur allontanandosi dai moduli stilistici del monolinguismo, si
situano nel territorio di confine — così battuto in quegli anni — tra poesia e prosa.12
Già Marziano Guglielminetti notava come il verso di Pianissimo fosse quello di una
poesia che tendeva alla prosa, ‘una musica appena intonata’, e avesse già abbando-
nato alcuni connotati esteriori che caratterizzano la forma poetica, come la rima, per
esempio.13 È perciò rivelativo che, proprio sulla Riviera Ligure, Boine definisca le
composizioni di Pianissimo non poesie, ma ‘frammenti’.
Nella raccolta del 1920 confluì, dunque, un materiale eterogeneo: a testi già
pubblicati su riviste (spesso riproposti con varianti) se ne affiancano altri inediti, per
creare un percorso articolato, volutamente composito, in cui il ‘truciolo’ — prototipo
su cui si svilupperanno anche le prose delle successive raccolte di Sbarbaro — ‘esibisce
fin nel suo aspetto formale la propria fondazione negativa, il suo porsi come esito di
mancata integrazione ontologica tra l’”io” e la realtà’.14
Una classificazione tipologica dei frammenti che costituiscono i Trucioli è utile per
la finalità di questo studio, soprattutto se si tiene conto delle date delle loro prime
pubblicazioni su rivista. Un raffronto cronologico rivela, infatti, il progressivo allon-
tanamento dai temi dell’investigazione esistenziale verso una maggiore oggettivazi-
one, secondo un movimento prefigurato già nella chiusura della silloge poetica, in cui
Sbarbaro aveva introdotto il tema della ‘fuoriuscita da sé’.15
La continuità rispetto a Pianissimo è evidente nei dodici frammenti lirici e intros-
pettivi che scandiscono i Trucioli, i primi a essere pubblicati su riviste, per lo più nel
biennio 1914–1915.16 Caratterizzati graficamente dal corsivo, quasi a segnalare il loro
statuto di commento, questi trucioli tracciano le tappe del monologo interiore
dell’autore, conferendo alla raccolta una struttura unitaria:
A volte seduto in faccia a me vedo il mio io che mi guarda senza voce
o in una stanza improvvisamente mi sento eguale a quel vestito appeso a quell’att-
accapanni.
È l’ora che il burattinaio Bisogno è assente. E se a illudermi d’essere vivo di là mi scrollo
ed esco
sento camminando il meccanismo del corpo e come la caverna dell’eco l’anima mi s’empie
del rumore della via.17

Ritmata dai frequenti ‘a capo’, dalle anafore, dalle ripetizioni e dalle formule
metriche nascoste dietro la linearità del discorso prosastico, la scrittura di Sbarbaro
perviene a una specie di ‘verso lungo’ di stampo vociano, molto simile a quello

12
Boine, sancendo sulle pagine della Riviera Ligure l’appartenenza di Sbarbaro alla ‘letteratura dell’io’, usa
espressamente il termine di ‘frammenti’: ‘Sono colpito in questi frammenti dello Sbarbaro dalla secchezza,
dalla immediata personalità, dalla scarna semplicità del suo dire’ (Giovanni Boine, Sbarbaro. Pianissimo, in Id.,
Il peccato, Plausi e botte, Frantumi, Altri scritti (Milano: Garzanti, 1983), p. 134).
13
Marziano Guglielminetti, Sbarbaro poeta, ed altri liguri (Palermo: Flaccovio, 1983), p. 26.
14
Pavarini, p. 54.
15
‘La mia miseria lascio dietro a me / come la biscia la sua vecchia pelle. / Io non sono più io, io sono un altro.
/ Io sono liberato di me stesso’ (L’opera, p. 45).
16
Per tutte le datazioni si farà riferimento alla Bibliografia.
17
Trucioli (1920), p. 160.
SBARBARO E LA FORMA-FRAMMENTO 115

impiegato da Jahier nelle Poesie in versi e in prosa.18 Nel riprodurre, in questi


trucioli in corsivo, il dissidio interiore che costituiva il tema di fondo di Pianissimo,
Sbarbaro si rifà certamente ai Frantumi di Boine, esempio di una prosa solipsista
che diventa strumento dell’investigazione esistenziale, e in cui si raggiunge, secondo
Valli, ‘il limite ultimo di resistenza delle strutture semantiche nei confronti di quelle
fonico-ritmiche’.19 Proprio nei Trucioli è riscontrabile una tendenza alla deformazi-
one espressionista dei personaggi o degli elementi del mondo che, secondo l’esempio
di Boine, costituisce quasi la proiezione del proprio tormento interiore nella realtà
esterna:
Una livida alba cittadina che i tram carichi di bestiame umano s’avventavano verso
le officine e le saracinesche sollevate gridavano, ebbi un’impressione d’angoscia. In una
bagascia che traversava la strada scorsi la larva molliccia che fa intristire la pianta.20

L’insieme più numeroso dei trucioli ha, invece, un tono più neutro, nella direzione
di quella ‘poetica visiva pittorico-impressionista’,21 per ricorrere alla formula di Perli,
in cui si fa evidente la ‘lezione impressionista di Soffici’.22 In questi testi — che risal-
gono perlopiù a una fase successiva, e cioè al biennio 1916–1917 — la fenomenologia
psicologica dell’autore resta in secondo piano rispetto alle componenti descrittive
e narrative. Sbarbaro si allontana nettamente dal monolinguismo e dall’uniformità
lessicale di Pianissimo: il ricorrere di alcune tecniche compositive quali le catene
analogiche, le ripetizioni, le frequenti spezzature e le coordinazioni per asindeto
testimonia, infatti, l’affermarsi di quella ‘esthétique du discontinu’ che, sulla scia
della tradizione francese del poème en prose, aveva definito la forma-frammento
presso le avanguardie degli anni Dieci.23
Punto di riferimento per misurare l’importanza dei modelli francesi è il saggio
di Susanne Bernard, Le poème en prose de Baudelaire jusqu’à nos jours (1959). La
studiosa, descrivendo il fenomeno del poema in prosa nella letteratura francese,
individua due principali linee di sviluppo di questo genere letterario. La prima, nel
corrispondere all’esasperazione del principio distruttore e anarchico che presiede alla
forma frammentaria, e dunque alla negazione di ogni istituzione formale preesistente,
trova la sua espressione paradigmatica con le Illuminations di Rimbaud. La seconda,
invece, dominata da un principio organizzatore che tende a dare un nuovo assetto al
discorso letterario, è presieduta da un’idea di ordine e di conciliazione, che si realizza,
nel testo, con un processo di stilizzazione della realtà. Negli autori che fanno capo al
secondo gruppo — il cui archetipo è lo Spleen de Paris di Baudelaire — le percezioni
sensibili e il dato biografico sono filtrati mediante un rigoroso controllo formale,
con strumenti retorici, simmetrie e corrispondenze che integrano i contenuti in una
sequenza armoniosa.
Una prosa come quella dei Trucioli, che procede per accumulo di blocchi ritmici e
semantici autonomi senza che le frasi si organizzino secondo rapporti gerarchici, è

18
Cfr. Piero Jahier, Poesie in versi e in prosa (Torino: Einaudi, 1981).
19
Valli, p. 77.
20
Trucioli (1920), p. 153.
21
Perli, p. 77.
22
Giusti, p. 154. Per l’importanza di Soffici si veda anche Perli, pp. 37–51.
23
Suzanne Bernard, Le poème en prose de Baudelaire jusqu’à nos jours (Paris: Nizet, 1959), p. 182.
116 FEDERICO CASTIGLIANO

senz’altro riconducibile alla linea più anarchica, o ‘rimbaudiana’, del frammentismo.24


Una paratassi non solo sintattica ma strutturale, dove ‘la deformazione linguistica
si realizza per concentrazione metaforica e analogica’25 e in cui gli elementi sono
accostati secondo strutture elementari di giustapposizione, con tecniche di montaggio
che ricordano persino i collages futuristi.26 Le immagini sono legate l’una all’altra per
analogia, sottintendendo il loro rapporto di consequenzialità:
Firenze vuol dire
il poggiolo sul giardino murato vestito di lilla dove ascoltai un’ora tepida due giovinette
cinguettare
una come una grande rosa e s’augurava la pazzia
l’alba a piazzale Michelangelo
destarsi che il sole batte a tutte le imposte
i cipressi di Vincigliata al cui castello bussammo un torrido mezzodì
l’oro dei Lungarni. . .27

Sbarbaro, come ha rilevato Valli, non è alieno dall’imprimere a questi trucioli ‘una
loro particolare cadenza sfruttando abilmente la disposizione simmetrica delle parti
e concentrando, attraverso una palese gradazione melodica, l’enfasi emozionale
nel momento in cui la oggettività della descrizione cede la sua carica inerziale
all’apparizione dell’io’.28 Ciononostante, le scelte stilistiche dell’autore testimoniano
la ricerca di una poetica oggettivante: una scrittura ancorata alle ‘cose’, alla realtà
esterna piuttosto che all’introspezione.
Tale ricerca di concretezza emerge dall’analisi delle scelte lessicali e sintattiche dei
Trucioli e si riscontra nel valore dato alle singole parole, ai sostantivi soprattutto, e
nella sintassi nominale, funzionale al principio di sintesi che sovrintende alla forma-
frammento. La ricorrenza di periodi brevi, perlopiù privi di verbo o con forme verbali
indefinite, la punteggiatura isolante, così come l’abbondanza di frasi ellittiche,
enumerazioni ed esclamazioni olofrastiche, sono gli elementi che caratterizzano lo
stile nominale sbarbariano. Si veda, ad esempio, il ritrattino di Nelly, pubblicato
sulla Riviera ligure nel 1916, ma escluso dalla raccolta:
Minuta. Visuccio d’alabastro. Bioccoli intagliati nell’ebano, aderenti alla cute. Aloni
traslucidi intorno agli occhi di brillante.
Gonna moderna e pare di guardinfante.
Non caca non fa pipì. Sgranocchia solo marrons glacés.
Robina da orafo, bibelot.
Si prega di non toccare.29

La vena descrittiva di Sbarbaro, non priva di una componente caricaturale e defor-


mante, trova piena espressione nei trucioli consacrati a personaggi dei bassifondi
24
Mi riferisco in primo luogo a Carlo Torchio, ‘Rimbaud e Sbarbaro’, in Studi francesi, XIV (1970), 40, 39–62.
25
Pavarini, p. 12.
26
Si consideri il truciolo Oppi in Trucioli (1920), pp. 270–71.
27
Trucioli (1920), p. 152.
28
Valli, p. 82.
29
Trucioli (1920), p. 353. Pubblicato su La Riviera ligure del giugno 1916, Nelly è uno di quei trucioli che,
esclusi dalla raccolta del 1920, ricompaiono con varianti in Camillo Sbarbaro, Fuochi fatui (Milano-Napoli:
Ricciardi, 1962).
SBARBARO E LA FORMA-FRAMMENTO 117

genovesi — quali l’amico Cicco, gli ubriachi, lo ‘storpio’ o le donne di piacere — e


nei motivi associati dell’alcolismo, della prostituzione, del vagabondaggio senza meta
e della fuga dalla civiltà verso paesi lontani.30 Temi e figure, questi, che rientrano
nei topoi della lirica decadente europea diventando, per Sbarbaro, simboli della sua
miseria esistenziale.
Si trova, infine, piuttosto isolato in una raccolta dominata da temi ‘urbani’, un
insieme di trucioli consacrati alla descrizione di paesaggi, soprattutto liguri: Noli,
Spotorno, Camogli, Ventimiglia vecchia. Questi frammenti appartengono a un filone
naturalista che, ricalcando spunti della raccolta poetica giovanile Resine, sarà ricor-
rente nel biennio immediatamente successivo alla guerra e troverà piena espressione
nelle prose della maturità. L’austero paesaggio della riviera, investito di un signifi-
cato morale, diventa così il correlativo oggettivo dell’aridità e della desolazione
esistenziale dello scrittore, secondo una formula poetica già introdotta da altri liguri31
quali Ceccardo Roccatagliata Ceccardi — le cui rappresentazioni paesaggistiche non
sono prive di estetismi di stampo dannunziano –, e soprattutto il Mario Novaro di
Murmuri ed echi (1912):
Spotorno,
terra senza risorse.
Vi alligna fortemente l’ulivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri.
Litorale dalla vegetazione bizzarra:
si siede e si tace
in faccia al mare senza illusioni
con qualchevolta appena una manciata di zecchini tremolanti
freddo e infinito.
Passa al largo il guscio rossastro della petroliera. [. . .]

Spotorno,
paesaggio dell’anima
monti ridotti allo scheletro
aria schietta celestina
cielo liquido che a guardarlo si beve. . .32

La bellezza di questo paesaggio è ancora più enigmatica perché sovrapposta,


secondo una dialettica che ricorda i temi dalla Ginestra leopardiana, ai segni del
‘male di vivere’ che rivelano tutta la fragilità, quasi l’insussistenza, dell’incanto
fenomenico.
Spotorno, come gli altri frammenti paesaggistici che risalgono alla fine della
guerra, dunque al tramonto della stagione delle avanguardie, è contraddistinto da
una maggiore regolarità linguistica e formale, e dalla parallela scomparsa dei temi

30
Un testo in cui è evidente il richiamo a Rimbaud è Evasione: ‘In fondo alla mia breve strada è il silenzio, io
spero. / Non avere faccia né nome fra gli uomini / ma vedere l’alba nascere sulle altre parti del mondo! [. . .]
Diventi muto e le parole non dette mi restino pietre sul cuore / purché io parta un giorno a casaccio pel
mondo / libero e solo non sapendo più il mio nome’ (Trucioli [1920], p. 259).
31
Mario Novaro, Murmuri ed Echi, a cura di Veronica Pesce, pref. di Giorgio Ficara (Genova: San Marco dei
Giustiniani, 2011); Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Tutte le opere, a cura di Pier Antonio Balli (Carrara:
Apua, 1969).
32
Trucioli (1920), p. 277.
118 FEDERICO CASTIGLIANO

legati al ‘maledettismo’ urbano. È una struttura calcolata, che allontana Sbarbaro dal
modello espressionista di Boine — lo avvicina, piuttosto, ad autori più estetizzanti o
formalisti, quali Onofri o Papini — e fa presagire le ricerche stilistiche degli anni
Venti.
Un’analisi dei frammenti di Sbarbaro che tenga conto della progressione
cronologica delle pubblicazioni permette di riscontrare come le prose degli anni
Venti, pubblicate su riviste (quali la Gazzetta di Genova o l’Azione) e confluite
nella raccolta Liquidazione (1928), pur contrassegnate da alcune novità formali, non
costituiscano, contrariamente a quanto è stato sostenuto, un’inversione di rotta nel
percorso stilistico dell’autore. Infatti, se i frammenti di Liquidazione si distendono
in forme narrative o descrittive, seguendo un andamento ‘fra il narrativo e il
colloquiale, il conversativo e l’esempio morale’33 che li allontana nettamente dalla
‘saison en enfer’ dei primi trucioli, essi si pongono in linea di continuità rispetto
al cambiamento preannunciato, innanzitutto a livello stilistico, dai testi narrativi e
paesaggistici scritti negli anni a ridosso della guerra e raccolti nei Trucioli.34
Il frammento sbarbariano degli anni Venti, dilatato ben oltre la misura della
pagina, si organizza come un blocco omogeneo e compatto, secondo una scrittura
continua e distesa orizzontalmente, senza fratture e ‘a capo’. Si tratta, per lo più, di
quadri di vita ligure (Cose di primavera, Particolare di via Montaldo, Borgo) e di
brevi narrazioni o apologhi che hanno come protagonisti gli amici dello scrittore
(Nello l’anarchico, Pierangelo). La descrizione di un fatto quotidiano e comune —
come ad esempio, in Particolare di via Montaldo, un corteo funebre osservato dalla
finestra della propria abitazione genovese — diventa il pretesto per divagazioni e
fantasticherie di varia natura.35
La struttura del frammento riflette questa nuova esigenza compositiva, acquisendo
ora i connotati esteriori della prosa, con forme più distese, quasi digressive. Le frasi
si susseguono in una colata unica, verso quella struttura fluida e musicale in cui
si dissolve il tormentato autobiografismo dei primi Trucioli. Spesso il poema si
organizza in forma anaforica o ciclica, procedendo secondo riprese e variazioni:
Facendo com’io vi dico, ottimamente meriterete della patria, da tema sollevata di villan
marmo; ottimamente di voi medesimo, cui di perspicacia monumento eleverete in eterno;
ottimamente infine delle lettere, ché, sciolto da cure, opere creerò come bimbo spiccia da
canna bolle.36

L’autore ricorre qui a un lessico neoclassico e quasi antichizzante, accompagnato


da costruzioni sintattiche ‘auliche’, con la presenza di iperbati, ripetizioni ed espres-
sioni letterarie. Se la guerra ha posto fine alla stagione ‘eroica’ delle avanguardie,
come Sbarbaro riconosce non senza nostalgia nello Sproloquio d’estate37 — fram-
mento che assume una funzione quasi programmatica, quale congedo dalla giovine-
zza –, le prose di Liquidazione manifestano la caduta degli accenti esaltati e irrisori

33
Giorgio Bàrberi Squarotti, Camillo Sbarbaro (Milano: Mursia, 1971), p. 161.
34
Si noti come il tema dell’uscita dall’interiorità, già presente in Pianissimo, ritorni tra i trucioli in corsivo: ‘Così
da me stesso mi muro e le pietre sono le parole’ (Trucioli [1920], p. 258).
35
Liquidazione, pp. 23–30.
36
Liquidazione, p. 19.
37
Si veda, a proposito di questo frammento, Perli, p. 187.
SBARBARO E LA FORMA-FRAMMENTO 119

dei primi trucioli in favore di un dettato più composto, strumento espressivo che mira
a elevare all’eccellenza la quotidianità ricorrendo a un codice linguistico raro e quasi
iniziatico:
Locali rasentati allora con timore riverenziale; dove entrando, qualcuno si interrompe e
al banco vi servono con la premura di chi sbriga un importuno; non presto così che non
notiate la cassapanca troppo sollevata per non celare un sacco di refurtiva; mentre sentite
che verrebbe prevenuto un vostro gesto o passo in direzione del ripostiglio che v’intriga
o della finestra che non si capisce dove risponda.38

Se il titolo Liquidazione (sinonimo di svendita) segnala la continuità rispetto


ai trucioli, ricalcando l’idea di una letteratura ‘povera’ e antiretorica, la presa di
distanza rispetto alla poetica vociana è piuttosto esplicita:
Non parlo per l’orecchio e nemmeno ti dico: L’amarezza è il solo torchio che può
spremere da te le parole necessarie: tutto ciò che galleggerà sul tuo affondamento. Ti dico:
Esisti come specchio. (Non hai altro. Se la memoria fosse del cuore, non un nome
svegliandoti ti verrebbe alle labbra). Nel riflettere sono tutte le tue possibilità di vita.39

Sbarbaro trae ispirazione non più dall’’amarezza’, secondo l’ideale vociano di


‘letteratura come vita’, e neppure da quel desiderio di rivolta che domina i primi
trucioli, ma concepisce la letteratura come mero rispecchiamento o celebrazione
della realtà eletta. In tal senso, i frammenti di Liquidazione costituiscono lo sbocco
naturale di quella ricerca di oggettivazione e fuga dall’interiorità già auspicata in
Pianissimo e ora esplicitata in una serie di massime e sentenze di portata più generale:
‘Più d’ogni bene goduto e più d’ogni bene pensato evader importa da noi’.40
Diversi studi hanno messo in luce la relazione tra Liquidazione e il mutato clima
culturale che si stabilì in Italia nei primi anni Venti. Stefano Pavarini suggerisce come
la raccolta sia almeno in parte avvicinabile, per analogie tematiche e stilistiche, alla
poetica degli autori che gravitavano attorno a La Ronda: un’opera di normalizzazione
che si inseriva nel clima generale di ‘ritorno all’ordine’ del primo dopoguerra, dopo
l’esperienza di rottura delle avanguardie.41 La prosa di Sbarbaro ha, senza dubbio,
alcuni punti in comune con la scrittura rondista, anche se non s’inscrive nei confini
di quel dotto e aristocratico disimpegno — un monologo svincolato dalla ricerca di
una ‘verità’ esterna al suo essere e alle sue ragioni — proprio dei fondatori della
rivista romana.

38
Bàrberi Squarotti scorge in Liquidazione «un’involuzione sintattica e lessicale nettissima: il discorso si fa con-
torto, cerca la disposizione difforme, tende alla forma arcaica per inversione di costrutti, soprattutto per forti
iperbati fra sostantivi e aggettivi, fra verbi e complementi, per la collocazione del verbo al fondo della propo-
sizione, non per una ragione ritmica, ma per accrescere decisamente il carattere non attuale della poesia,
l’allontanamento dal parlato, la condizione, insomma, della letteratura, che deve essere intesa come diversità,
separazione. . .» (Bàrberi Squarotti, p. 162).
39
Liquidazione, pp. 51–52.
40
Liquidazione, p. 125.
41
L’esaltazione dei modelli nobili della prosa ottocentesca condusse i rondisti al rifiuto degli autori che avevano
sconvolto la lingua e lo stile della tradizione letteraria italiana: D’Annunzio, Pascoli, le avanguardie e i vociani,
in particolare. L’estetica razionalista dei rondisti, come declama Vincenzo Cardarelli nel prologo al primo
numero della rivista, afferma il primato assoluto, nell’arte, della forma per se stessa, e svincola la letteratura
da qualunque contenutismo. L’ideale rondista di ‘arte per arte’ esclude quindi qualsiasi responsabilità o pro-
getto sociale della letteratura, che si limita invece a rispecchiare la realtà esistente e occuparsi del gioco formale
dei testi in un superiore distacco ironico.
120 FEDERICO CASTIGLIANO

È quindi significativo che Degli Ammaestramenti a Polidoro,42 il brano più lungo


e ideologicamente più denso di Liquidazione — sintesi della Weltanschauung
dell’autore –, costituisca il punto di massimo allontanamento dai dettami rondisti,
anzi, quasi una loro parodia. I residuali accenti espressionisti, ma, principalmente, la
lingua arcaica e singolare, del tutto inventata, che Sbarbaro qui utilizza, distolgono
gli Ammaestramenti dagli ideali di limpida chiarezza ed eleganza propugnati dai
rondisti. Eppure i modelli di questa ‘favola’ filosofica, ambientata tra le colline e i
borghi liguri, sono da rintracciare, oltre che nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri
di Leopardi, in testi contemporanei a Sbarbaro, quali le fantasie moraleggianti di
Aurelio Saffi o i frammenti di Emilio Cecchi, autori attivi sulle pagine de La Ronda.
Proprio la peculiare funzione del modello leopardiano in questa fase della scrittura
di Sbarbaro, elemento ancora poco studiato, mette in rilievo la divergenza tra Liquid-
azione e La Ronda. Infatti, se Leopardi è considerato dai rondisti come un ideale
prettamente stilistico, negli Ammaestramenti è invece palese l’assimilazione di alcuni
aspetti del suo pensiero.43 L’idea che sovrintende al frammento è, infatti, l’elogio
della bellezza come inganno e miraggio, o illusione pietosa di fronte all’insussistenza
e alla caducità del mondo:44 ‘Però che, se al vero guardi, cosa non v’ha di sustanzia
quanto la parvenza’.45
La presa di distanza rispetto al credo, ‘letteratura come vita’, si fa palese nella
scelta di una lingua ricoperta da una patina di arcaismo e volutamente oscura.46
La scrittura, infatti, non è più una forma di rivelazione della verità dell’‘io’, ma,
piuttosto, uno strumento di cancellazione, di obnubilamento della propria identità a
favore della realtà fenomenica, le cui bellezze, misteriose proprio perché si stagliano
sullo sfondo cupo del nulla, rendono più sopportabile l’amarezza della vita. La lingua
degli Ammaestramenti tende quindi a una musicalità quasi ipnotica, che soverchia la
formulazione logica e la retorica del discorso: ‘Divina cosa la musica, Polidoro.
Sapess’io alcuno stromento trattare che non con parole, fastidioso retore, ma con
suoni t’ammaestrerei unicamente’.47

42
Per un’analisi degli Ammaestramenti, si veda anche Federico Castigliano, ‘“Cosa non v’ha di sustanzia quanto
la parvenza”. Gli Ammaestramenti a Polidoro di Camillo Sbarbaro’, Studi e Ricerche, 3 (2008), 37–63.
43
Del resto, il leopardismo di Sbarbaro ha radici profonde ed è riconoscibile, come notò già Boine, nella cifra
stilistica di Pianissimo: ‘Questa sordità, questa funebre cenere, questo che di muto e di disadorno è passato dal
Leopardi nello Sbarbaro’ (Sbarbaro. Pianissimo, p. 133).
44
Cfr. questo passo dello Zibaldone: ‘Le illusioni non possono esser condannate, spregiate, perseguitate se non
dagl’illusi, e da coloro che credono che questo mondo sia o possa essere veramente qualcosa, e qualcosa di
bello. Illusione capitalissima: e quindi il mezzo filosofo combatte le illusioni perché appunto è illuso, il vero
filosofo le ama e predica, perché non è illuso: e il combattere le illusioni in genere è il più certo segno
d’imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile illusione’ (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri,
2 vols (Milano: Mondadori, 1972), II, p. 620).
45
Liquidazione, p. 113. Cfr. anche: ‘Nostra risorsa, piluccare apparenze’ (Trucioli dispersi, p. 117).
46
Forse proprio a causa di questa oscurità della parola prevalgono, sugli Ammaestramenti, giudizi negativi:
se Scalia li definisce ‘un’elaborazione di dubbio gusto’, una ‘prova sostanzialmente gratuita’ (Gianni Scalia,
‘Camillo Sbarbaro’, Belfagor, X, 1955, 463–64), Puccini parla di uno stile ‘aulico’ e ‘classicamente paludato’
(Davide Puccini, Lettura di Sbarbaro (Firenze: Vallecchi, 1974), p. 85), mentre Bàrberi Squarotti fa notare come
questo linguaggio rischi di esplodere ‘nel contrasto insopportabile fra l’elevazione lirica e lo strumento che è,
invece, di tipo grottesco, intimidatorio, terroristico, eminentemente antilirico’ (Bàrberi Squarotti, p. 169).
47
Liquidazione, p. 258.
SBARBARO E LA FORMA-FRAMMENTO 121

Così, messi da parte i compagni della giovinezza (‘con siffatti usa parcatamente, se
non vuoi indi a poco malazzato di buzzo trovarti. . .’),48 il nuovo modello di scrittura
diviene, nel modo più paradossale, Ponson du Terrail, scrittore di romanzi d’appendice,
orditore di intrecci straordinari, emblema di una letteratura che non si interroga sul
senso o sul non senso del mondo, ma si appaga edonisticamente della narrazione
pura:49
Ma tutti, a mio vedere, li avanza Ponsone; Ponsone mio cocco; quei che solo, al mio
genio indulgendo, avrei per maestro tenuto. Se quelli ponzano un rigo e di sette riposano
poi, ha questi tal buzzo da far vana d’Ercole la bisogna. [. . .] Polidoro, foss’io tale
autore!

Il ruolo che Sbarbaro attribuisce alla letteratura mantiene la centralità originaria,


anche se trasfigurato dopo la caduta dei suoi miti; non più mezzo d’indagine della
verità ma strumento privilegiato della rimozione, quale narrazione o favola da con-
trapporre all’insensatezza dell’esistenza umana. Lo scopo della scrittura è, infatti,
corroborare e dare consistenza alle illusioni, all’abbaglio dei sensi, all’apparenza che
‘parla più forte dell’uomo’ e copre il ronzio dei suoi pensieri inutili.50 Ma affinché le
cose parlino, occorre prima far tacere il brusio dei ragionamenti, zittire quel vano
arrovellarsi nei vicoli ciechi della logica e dell’introspezione: ‘Ma questo variare della
superficie già mi basta. Il mare parla più forte dell’uomo e copre il ronzio dei suoi
inutili pensieri’.51
La poetica oggettivante di Sbarbaro, che trova proprio negli Ammaestramenti
la sua più esplicita formulazione, s’incarna dunque nella struttura della forma-
frammento. Al punto che, se si esclude la raccolta Rimanenze (1955), l’autore
adotterà tale genere letterario come unico mezzo espressivo: una ‘terraferma’,52 la
cui malleabilità e ampia gamma di soluzioni formali costituiscono il terreno di
sperimentalismo dell’ultimo Sbarbaro.
I frammenti composti durante gli anni Trenta e Quaranta, confluiti nella raccolta
Trucioli (1948), confermano le inclinazioni antisoggettive e stilizzanti emerse in
Liquidazione: elementi, questi, che si riverberano nell’operazione di revisione e riscrit-
tura dei brani giovanili che impegna lo Sbarbaro maturo e che si concluderà con la
pubblicazione degli Scampoli (1960).53 L’autore propende ora verso la linea più
‘costruttiva’ e formalista del genere frammentario — la quale ha origine, per rifarci

48
Liquidazione, pp. 110–11.
49
Per chi aspira a uscire dall’angusto spazio dell’‘io’, l’obiettivo è dunque l’incoscienza, o il divertissement:
‘per fortuna non c’è un momento libero per pensare’, scrive Sbarbaro ad Angelo Barile dal fronte. Persino la
guerra è preferibile al buco nero dell’interiorità: ‘ormai che è ricordo, riconoscenza alla guerra che per due anni
mi distrasse da me’ (Trucioli dispersi, p. 117).
50
Celebre la definizione montaliana di Sbarbaro, quale ‘storico / di cupidigie e brividi’ (Eugenio Montale, Tutte
le poesie (Milano: Mondadori, 1985), p. 17).
51
Liquidazione, p. 48.
52
‘Ero così approdato alla mia terraferma, la prosa’ (L’opera, p. 473).
53
Scampoli, pubblicato nel 1960 da Vallecchi, riproduce, con varianti, ventisette frammenti di Trucioli (1920) e
uno di Liquidazione; a ciò si aggiungono nove frammenti inediti e altri sei già pubblicati su quotidiani (Il
Lavoro e La gazzetta del Popolo) negli anni 1931–1933. Gli Scampoli costituiscono un assemblaggio realizzato
dall’autore per mere ragioni editoriali e si situano perfettamente nell’ambito delle tendenze stilistiche dei
Trucioli del 1948.
122 FEDERICO CASTIGLIANO

al modello di Bernard, nei poèmes en prose di Baudelaire –,54 cimentandosi in un


esercizio di scrittura applicato a situazioni decisamente comuni, ma nobilitate dallo
sforzo stilistico, dalla ricerca di musicalità e di decoro formale:
Nell’affresco movimentato che sul cielo delle pareti compongono gli avventori, godo di
fare la figura d’angolo: sorniona, che mette a frutto più che può.
Gente che il trovarsi insieme affratella, quasi la gioia d’ognuno dipendesse da quella di
tutti. Non c’è chi stia sulla sua. Un po’ di vino, un po’ d’aria della domenica, le fisionomie
vengono incontro.55

Tale solidità stilistica trova corrispondenza, a livello tematico, con l’affermarsi di


una morale ‘stoica’:56 ideale già annunciato in Liquidazione e impersonato, ora, da
alcuni elementi del mondo vegetale — i licheni in particolare, ma anche altri arbusti
che attecchiscono nelle avare terre della Riviera –, emblemi di un ostinato ‘amor di
vita’ e della resistenza impassibile di fronte alle avversità del mondo. L’accentuazione
dei temi naturalistici è concomitante, del resto, all’attività di lichenologo che occu-
pava Sbarbaro in quegli anni.57 A ciò si deve, certamente, il riaffiorare di motivi
risalenti alla raccolta giovanile Resine, del 1911, la cui poesia d’apertura, Il pino,
offre il prototipo di una serie di vegetali emblemi di una tenacia stoica di fronte al
‘male di vivere’ e, al contempo, figure dell’aridità interiore dell’autore. Si veda, ad
esempio, il frammento consacrato al ficodindia:
Il ficodindia [. . .] qui è di casa. Cresce in tribù, in polipai, si consolida in banchi come
il corallo.
Il vento che presta al fogliame un bisbiglio, uno zufolo alla canna, lo smuove; ma non
arriva a dargli una voce. Pianta ottusa, non rende suono. Ma esce lo stesso dal suo
massiccio mutismo il canto del più arrabbiato amor di vita.
Campa sui muretti in rovina, ai margini delle vie maestre, sugli scogli del mare. La
lava, che il fittone non intacca, le sue barbe la schiantano.
Di tutto fa il suo pro. Dove lo sterpo stenta e la gramigna illividisce, lui s’impingua.
Da sassi e da polvere trae succo; e lo immagazzina in mucillaggine che gli ispessisce le
lenticchie delle foglie e gli consente, come il serbatoio d’acqua il cammello, d’attraversare
la più ostinata seccura.58

Il testo è caratterizzato da una lingua mimetica e da espressioni icastiche che


descrivono l’ardua esistenza del ficodindia, pianta alla quale sono attribuiti caratteri
antropomorfi. Coesistono espressioni più letterarie che, accompagnate da un ritmo
paratattico e incessante, conferiscono al testo una musicale gravità. Assonanze e
allitterazioni tracciano, infine, una linea melodica, ad esempio nelle prime due frasi,

54
Il modello baudelairiano traspare direttamente in alcuni frammenti, come Le finestre (L’opera, p. 335), che
ricalca direttamente Les fenêtres dello Spleen de Paris (Baudelaire, pp. 173–74).
55
Trucioli (1948), p. 342.
56
Il tema stoico dell’’arrabbiato amor di vita’ costituisce l’evoluzione e il superamento del giovanile cupio
dissolvi.
57
Un rapporto, questo tra lo Sbarbaro scrittore e scienziato, oggetto di diversi studi, tra i quali ricordo quello di
Lavinia Spalanca, I fiori del deserto. Sbarbaro tra poesia e scienza (Genova: Edizioni San Marco dei Giustiniani,
2008).
58
Trucioli (1948), in L’opera, pp. 390–91.
SBARBARO E LA FORMA-FRAMMENTO 123

per cui alcuni suoni consonantici riecheggiano di parola in parola: ‘M’affaccio-


macerie-accecante-spietatezza-s’esalta-cicala-canta’ ecc. . .
I valori stilistici che ispirarono Sbarbaro a partire dagli anni Trenta trovano
conferma nell’azione di riscrittura delle opere della giovinezza che, interessando i
Trucioli ma anche Pianissimo e Liquidazione, lo tenne occupato per più decenni,
tenuto conto che solo nel 1967, anno della morte, si arrivò alla versione ultima delle
sue composizioni.59 L’analisi delle varianti testuali permette di individuare alcuni
criteri sistematici di mutazione, in conformità a un programma di rimozione del dato
esistenziale verso uno stile più neutro e oggettivante. In questa prospettiva, la riscrit-
tura assume i tratti di una palinodia e sembra rivelare la volontà di esorcizzare, qua-
si allontanare attraverso il dominio della forma, la carica emotiva dolorosa espressa
nelle opere giovanili.60
Particolarmente vistosi sono gli interventi apportanti ai Trucioli nell’edizione del
1948, dove si riscontra un sistematico smorzamento dei toni e l’esclusione delle
immagini ‘espressioniste’. La ricerca di una maggiore scioltezza ed eleganza ritmica,
così come i criteri di secchezza e laconicità del testo, costringono l’autore ad attenu-
are o eliminare le costruzioni troppo irregolari. Si confronti, ad esempio, questi due
testi:
Camminando una via deserta fra mute forme di monti provai la necessità che la via si
perdesse rivo in terra arsa.
Pel paese impietrato, di terrore gridassi senza voce come nei sogni.
Rifacendo la via di casa quando l’ubriachezza non è più che un rutto amaro sperai a
lato, ecco, mi camminasse il volto d’ombra di mio padre venuto a chiedere conto della
sua figlia.
Su un letto avventizio mentre stringevo senza convinzione un corpo d’estranea chiesi
tra le braccia mi restasse il bambolotto di caucciù, l’oscenità del pezzo anatomico.
(1920)61
Percorrendo una via deserta fra buie forme di monti, sperai che la via si perdesse, rivo
nella sabbia. Per il paese impietrato, di terrore io gridassi senza voce come nei sogni.
Rifacendo la strada di casa all’ora che l’ebbrezza non è più che amaro, m’attesi che a
paro mi venisse il viso d’ombra e di rimprovero di mio padre.
Abbracciando un’ignota su un letto di tutti, pregai mi restasse tra mano il bambolotto
di gomma, la laidezza del pezzo anatomico. . . (1948)62

Il truciolo del 1920, addizione violenta di stati d’animo e sensazioni, è trasformato


in un testo più compatto e privo di asperità, in cui è introdotta una punteggiatura
regolare (si noti, ad esempio, la virgola dopo ‘amaro’). Sono eliminati lessemi troppo
espressionisti (‘rutto’) o appartenenti a un registro orale (‘ecco’), mentre alcune for-
mulazioni hanno, nel frammento del 1948, un’impronta più letteraria: ‘ubriachezza’
diventa ‘ebbrezza, ‘un corpo d’estranea’ diventa ‘un’ignota’. Vi sono poi sostituzioni
guidate da una ricerca di maggiore chiarezza, ad esempio ‘caucciù’, che diventa
‘gomma’, ‘avventizio’ trasformato in ‘di tutti’, e ‘provai la necessità’ in ‘sperai’.

59
Cfr. la nota introduttiva di Vanni Scheiwiller in L’opera, p. 10.
60
Per la stessa ragione, alcuni testi dei Trucioli (1920), ad esempio il Paesaggio ubriaco, sono addirittura
espunti dall’edizione definitiva: Trucioli (1920), pp. 214–15.
61
Trucioli (1920), p. 186.
62
Trucioli (1948), p. 137.
124 FEDERICO CASTIGLIANO

Le varianti testuali, più evidenti quando operate sui trucioli trasposti graficamente
in corsivo nell’edizione del 1920 di cui si è fornito un esempio, si riscontrano anche
nei frammenti successivi, e persino nei testi di Liquidazione, dai quali, tuttavia, erano
già sfumati i motivi più espliciti del ‘maledettismo’.
I Fuochi fatui, quasi il punto di arrivo della ricerca stilistica intrapresa da Sbarbaro
negli anni Dieci, furono pubblicati nel 1956 e più volte ristampati, in edizioni
accresciute, fino alla definitiva, del 1967. In quest’ultima confluirono, oltre ad alcuni
inediti, anche frammenti già pubblicati su riviste (che risalivano perfino alla prima
stagione della prosa sbarbariana) i quali, scartati dalle precedenti raccolte, furono
riproposti con varianti, così come le plaquettes nate dalla collaborazione con Schei-
willer e pubblicate in occasione dei compleanni di Sbarbaro (Gocce, 1963; ‘Il Nostro’
e Nuove gocce, 1964; Contagocce, 1965; Bolle di sapone, 1966; Quisquilie, 1967).63
La raccolta, Fuochi fatui, si presenta, dunque, come una cornice aperta, concepita
per accogliere materiale eterogeneo — brevi battute, ricordi, quadretti descrittivi e
aforismi — rispecchiando, nella sua struttura, la discontinuità dell’attività creativa
dell’ultimo Sbarbaro. Benché i frammenti che la compongono risalgano a epoche
diverse, l’opera è caratterizzata da una generale uniformità espressiva:64 per lo stile
sentenziale, aforistico, e per il ricorso a una lingua spoglia che marca il ritorno, come
l’autore stesso segnala in apertura della raccolta, alla ‘povertà di Pianissimo’.65 Di
fronte al riemergere di alcuni temi giovanili e al rinnovamento stilistico che carat-
terizza i Fuochi fatui, sembra quindi più che mai impropria la dicotomia, a lungo in
voga nella critica, tra lo Sbarbaro ‘espressionista’ e quello ‘calligrafico’ dell’ultimo
periodo: Fuochi fatui si pone, anzi, come riepilogo dell’intera esistenza e del percorso
creativo dell’autore.
Come ha rilevato Bàrberi Squarotti, i Fuochi fatui danno l’impressione calcolata
‘dell’ultima dichiarazione della vecchiaia, sempre dettata sull’orlo del silenzio, già,
anzi, corrosa ai margini del nulla’.66 I frammenti tendono a una dimensione ‘monis-
tica e residuale’,67 acquisendo un tono lapidario, quasi testamentario, tanto da non
essere suscettibili di un’ulteriore sintesi, né di una diversa espressione: ‘Queste
quisquilie sono prefabbricate. Tra chi scrive e quel che vuol dire, l’intermediario più
infido è la carta. Non l’affronto finché sono incerto sia pure su una virgola’.68
Se, conformemente alla poetica sbarbariana, la soggettività deve eclissarsi dietro
alla grandezza delle cose, i Fuochi fatui — frammenti composti in fasi diverse,

63
La prima edizione dei Fuochi fatui è pubblicata nel 1956, a Milano presso Scheiwiller, cui fa seguito una
seconda, accresciuta, del 1958, e poi una terza, questa volta presso Ricciardi, nel 1962; vi è infine l’edizione
definitiva, che segue il dattiloscritto inviato da Sbarbaro a Vanni Scheiwiller nel giugno 1967, poco prima
della morte dell’autore (ma che venne pubblicata solo nel 1985, nell’edizione Garzanti di ‘tutto Sbarbaro’), e
che riproduce, secondo un nuovo ordine, i testi del 1962, con l’aggiunta di alcuni frammenti contenuti nelle
plaquettes stampate da Scheiwiller negli anni 1963–1967.
64
I frammenti dei Fuochi fatui si dispongono nella raccolta senza un criterio ordinatore. L’edizione Garzanti del
1985, a differenza delle altre, circoscrive due sezioni cronologiche (1916–1918 e 1940–1945) per i frammenti che
si riferiscono ai periodi delle due guerre.
65
‘. . .mi sono per naturale decantazione spogliato fin dove possibile di letteratura, riaccostandomi alla povertà
di Pianissimo’ (L’opera, p. 422).
66
Bàrberi Squarotti, p. 225.
67
Pavarini, p. 15.
68
Trucioli dispersi, p. 115.
SBARBARO E LA FORMA-FRAMMENTO 125

ma revisionati e adattati per l’occasione — costituiscono il traguardo di una ricerca


pluridecennale, in cui la parola aderisce all’ ‘abbaglio’ dei sensi e alle percezioni.
Si avverte dunque il ritorno a una sensibilità quasi crepuscolare, vicina alle poetica
delle ‘piccole cose’ di corazziniana memoria. Gli elementi del quotidiano, tuttavia,
sono qui sistematicamente trasfigurati in un discorso di più ampia portata simbolica
o morale:
Il cipresso che ieri ancora tra lo sfarzo dell’autunno stava come un rimprovero, oggi alfine
coglie il premio della lunga predicazione: con lui, nel paesaggio stecchito, solo più l’unico
fiore che ammette: sempre in boccio, incorruttibile come lui: gli isolatori di porcellana,
sfavillanti in quest’aria di vetro.69

A tale tendenza oggettivante corrispondono, nei Fuochi fatui, una notevole


semplicità sintattica e la ricerca della brevitas: la frase si restringe, di conseguenza,
attorno a nomi e aggettivi, il cui uso è caratterizzato da uno sforzo marcato per
l’esattezza e la precisione terminologica:
Marzo. Sul muro di cinta il tralcio del glicine s’incipria di azzurro. Il fico è nell’orto un
candelabro bianco che butta per sgranchirsi i bracci a capriccio e lingueggia qua e là di
fiamme verdoline. Dal greto, vivo di nuovi ruscelli, giorno e notte squilla il rospo il
tremulo assolo.70

Una scrittura ellittica, funzionale all’espressione di una saggezza che si vuole scet-
tica e asistematica. L’insegnamento morale assume allora una forma paradossale,71
perché esso mette in causa o rovescia il pensiero comune: ‘Possiede — per cui non si
possiede’; ‘Solo ciò che non si paga costa’; ‘Non ha punti d’appoggio; per questo è
stabile’.72 Lo sforzo moraleggiante dell’autore, insomma, mira a sollevare a massima
o epigramma i piccoli insegnamenti della quotidianità:
Del suo riflesso la vite ora illumina la stanza: un riflesso che alimenta la corruzione,
acceso quanto più vicino a spegnersi. Come i popoli la loro parabola, chiude la sua
vicenda un fuoco d’artifizio. Felice epilogo: a che pro secoli di stento se la forza di Roma
non fosse sbocciata nella decadenza?73

Riemerge così, nei Fuochi fatui, quella tendenza alla sfiducia nella parola che
aveva percorso l’intera parabola creativa di Sbarbaro: dai Trucioli del 1920, conce-
piti sotto l’astro rimbaudiano della ‘rinuncia’ alla letteratura,74 a quelli del 1948, dove
il silenzio era la dimensione in cui si allontanava la soggettività, considerato che la
felicità consiste nell’oblio e nella rimozione: ‘Più facile scrivere che cancellare; più che
in ciò che riesce a dire, il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere’; ‘Che hai?
Ti senti male?’ — Ruminavo un verso. Pensare sciupa’.75

69
L’opera, p. 484.
70
L’opera, p. 438.
71
‘La forza dell’aforisma è nella sua perentorietà, come quella dello sgherro nel ceffo. Forza-sopruso’, ibid.
72
L’opera, p. 458; p. 458; p. 537.
73
L’opera, p. 487.
74
‘In fondo alla mia breve strada è il silenzio, io spero. / Non avere faccia né nome tra gli uomini / ma vedere
l’alba nascere sulle altre parti del mondo!’ (Trucioli [1920], p. 259).
75
L’opera, p. 480; p. 468.
126 FEDERICO CASTIGLIANO

La scrittura, ormai, si configura per Sbarbaro come un ‘vizio solitario’, distrazione


della vecchiaia attraverso cui celebrare il fiore del deserto, la perla rara nella
desolazione del mondo: ‘Ogni riga che scrivo, un ex-voto che appendo: “per grazia
ricevuta”’.76 Il compito della letteratura — secondo una poetica di cui gli Ammaestra-
menti a Polidoro costituiscono il manifesto teorico — è dare consistenza all’effimero,
alla realtà sensibile, a tutto ciò che non è l’‘io’. Non sorprende, dunque, che nei
Fuochi fatui i licheni occupino una posizione privilegiata, poiché emblemi di
un’esistenza diminuita, dove il senso di provvisorietà della vita è più tangibile, e a cui
si addice una parola scarnificata e povera:
Nell’amoroso inventario d’una minima parte del mondo, quella a me congeniale,
appagavo senza saperlo il ‘supino amore delle cose’.
Più tardi, preso a mano dalla mia predilezione per le esistenze in sordina, mi volsi a forme
più scartate di vita.77

Capisco adesso perché questa passione ha attecchito in me così durevolmente: rispondeva


a ciò che ho di più vivo, il senso della provvisorietà.78

Se l’apparenza è la sola sostanza del mondo, ma anche il solo ambito in cui può
operare e pronunciarsi il filosofo, la forma frammentaria riproduce, sulla pagina di
un libro, queste illuminazioni. Il ‘fuoco fatuo’ è quindi metafora dell’apparire,
improvviso quanto effimero, della bellezza fenomenica: un ‘velo di Maia’ dietro a cui si
cela il noumenico ‘nulla’: ‘Nostra risorsa, piluccare apparenze; ‘Bisognerà un giorno
o l’altro riabilitare l’apparenza’; ‘Deploriamo l’incoscienza; e senza questo sughero
quanti si terrebbero a galla?’.79 Come un drappo lucente disteso sulla ‘putrefazione’
del mondo, le illusioni acquisiscono un valore pietoso: perché da esse, e non dalla
verità, discende la felicità dell’uomo.80 Un tema, questo, di chiara derivazione leop-
ardiana, ma che lo stesso Sbarbaro aveva preannunciato sin da Resine, la cui poesia
Il Picco si concludeva così:
Il picco rovente
col sogno contrasta;
ma il sogno per giungere
sul picco mi basta.81

76
‘Poesia, altro vizio solitario’ (L’opera, p. 537; p. 505).
77
L’opera, pp. 364–65.
78
L’opera, pp. 530–31.
79
Trucioli dispersi, p. 117; p. 26; L’opera, p. 437.
80
‘Mi piace questo paese dove tutto è falso e brillante / come un velo iridato su una putrefazione’ (Trucioli [1920],
p. 193).
81
Resine, p. 90.

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