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20 nov/4 dic 2021


Quindicinale
Anno 172

La fraternità: un modo di fare la storia

Contro il trionfalismo

La teologia della storia nel Libro di


Giuditta

Il premio Nobel per l’economia 2021

Sette immagini dell’esperienza


letteraria

Discipulo amado, el cuento.


La storia del discepolo amato

Cento anni del Partito comunista


cinese. Riflessioni socioeconomiche

Analisi di «Traditionis custodes»


RIV ISTA INTERNAZIONALE DEI GESUITI

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B E AT U S P OPU LU S , C U I U S D O M I N U S DE U S E I U S
SOMMARIO 4114

20 nov/4 dic 2021


Quindicinale
Anno 172

315 LA FRATERNITÀ: UN MODO DI FARE LA STORIA


Un convegno di «La Civiltà Cattolica» e «Georgetown University»
a un anno dalla «Fratelli tutti»

319 CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE


Diego Fares S.I.

334 LA TEOLOGIA DELLA STORIA NEL LIBRO DI GIUDITTA


Saverio Corradino S.I. - Giancarlo Pani S.I.

344 IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 2021


Quentin Dupont S.I.

353 «LA CARNE È TRISTE AHIMÈ! E HO LETTO TUTTI I LIBRI»


Sette immagini dell’esperienza letteraria
Antonio Spadaro S.I.

364 DISCIPULO AMADO, EL CUENTO


LA STORIA DEL DISCEPOLO AMATO
Joaquín Ciervide S.I.

376 CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE


Riflessioni di ordine socioeconomico
Fernando de la Iglesia Viguiristi S.I.

388 UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO


Una analisi di «Traditionis custodes»
Cesare Giraudo S.I.

402 ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

406 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA


NELLA COLLANA «ACCÈNTI» LE PAGINE DELLA CIVILTÀ CATTOLICA
CHE AIUTANO A CAPIRE IL PRESENTE

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NEL BICENTENARIO DELLA NASCITA


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SOMMARIO 4114

DOCUMENTO
315 LA FRATERNITÀ: UN MODO DI FARE LA STORIA
Un convegno di «La Civiltà Cattolica» e «Georgetown University»
a un anno dalla «Fratelli tutti»

Nei giorni 8 e 9 novembre si è tenuto presso la sede de La Civiltà Cattolica un convegno,


organizzato dalla nostra rivista e dalla Georgetown University di Washington D.C., dal titolo
The Culture of Encounter: The Future of Intercultural and Interreligious Dialogue. Esso è frutto
della collaborazione delle due antiche Istituzioni della Compagnia di Gesù, avviata due anni
fa e che continua a dare frutti. Il Santo Padre Francesco ha inviato per l’occasione una lettera,
che qui pubblichiamo. Di seguito, come documentazione dell’evento, riportiamo l’articolo
apparso su L’Osservatore Romano, in data 9 novembre 2021, a firma di Roberto Cetera.

ARTICOLI
319 CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE
Diego Fares S.I.

La tentazione del trionfalismo – il cristianesimo senza croce – e della sua forma più subdola – la mon-
danità spirituale – è un tema ricorrente nella dottrina di Bergoglio-Francesco. Per il Papa, bisogna
discernere in ogni situazione i comportamenti in cui la mondanità si cela e si dissimula. Francesco
ne segnala alcuni: la divisione in fazioni interne, l’ambizione truccata da pietà, l’attaccamento alla
penombra e alla diffidenza. La radice comune a tutti è la croce respinta e la coltivazione di sé invece
che della maggior gloria di Dio. L’antidoto al trionfalismo è allora quella peculiare fatica del cuore di
cui Maria ci dà l’esempio sotto la croce del Figlio. Così il trionfalismo, distrutto dall’umiliazione di
Gesù, è stato ugualmente distrutto nel cuore della Madre.

334 LA TEOLOGIA DELLA STORIA NEL LIBRO DI GIUDITTA


Saverio Corradino S.I. - Giancarlo Pani S.I.

Il Libro di Giuditta non descrive un avvenimento storico, ma vuole piuttosto presentare una Teo-
logia della storia. In un solo episodio vi è riassunta emblematicamente tutta la vicenda del popolo
di Dio, in un confronto apocalittico con le forze del male. L’esercito di Nabucodonosor con il
generale Oloferne vuole assoggettare tutti i popoli della Terra. Dopo aver seminato ovunque di-
struzione e morte, si trova davanti l’imprevista resistenza del Regno di Giuda, che non faceva parte
dei grandi imperi e di cui si ignorava perfino l’esistenza. Bene e male, verità e menzogna, Dio
vero e dio falso si affrontano su uno scenario apocalittico. La vittoria di Giuditta – donna, vedova,
sola – su Oloferne è l’annuncio messianico di Israele che trionfa sulla potenza demoniaca del male.
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SOMMARIO 4114

344 IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 2021


Quentin Dupont S.I.

Il 12 ottobre 2021 è stato assegnato il premio Nobel 2021 per l’economia a David Card, Jo-
shua Angrist e Guido Imbens per il loro contributo alla metodologia economica. L’articolo
spiega la natura dei progressi metodologici dei premiati e sottolinea quanto il loro lavoro
sia diventato essenziale per la ricerca economica. Mentre il Nobel mette in risalto l’impor-
tanza della metodologia, il lavoro dei vincitori include anche molte questioni economiche
applicate e questioni sociali attuali. Pertanto l’articolo considera anche le implicazioni pra-
tiche della ricerca dei premiati, in particolare con la dimensione economica della dottrina
sociale della Chiesa. L’Autore insegna alla McDonough School of Business della Georgetown
University di Washington.

353 «LA CARNE È TRISTE, AHIMÈ! E HO LETTO TUTTI I LIBRI»


Sette immagini dell’esperienza letteraria
Antonio Spadaro S.I.

Il rapporto tra la vita e la letteratura è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere
una vera e propria storia di questa relazione, che è stata ora affermata ora negata, ora desi-
derata ora respinta. Stéphane Mallarmé aveva messo in relazione la tristezza della carne con
la vanità della lettura di tutti i libri. Ma questa relazione è vera solamente se consideriamo la
parola poetica vanità, illusione. L’articolo fornisce sette immagini che danno una lettura di-
versa dell’esperienza letteraria: la camera oscura, l’idraulica, la digestione, lo scoppio, il fuoco,
la montagna, la conchiglia. Si scopre allora che il rapporto tra la vita e la letteratura rientra in
quello che si potrebbe definire un «esercizio spirituale». E una spiritualità priva di immagina-
zione è come un cembalo che tintinna.

PARTE AMENA
364 DISCIPULO AMADO, EL CUENTO
LA STORIA DEL DISCEPOLO AMATO
Joaquín Ciervide S.I.

La storia del discepolo amato è un poemetto di Joaquín Ciervide, gesuita, nato a Pamplona, nel 1943.
Egli ha compiuto i suoi studi filosofici a Kinshasa e quelli teologici a Lovanio, Belgio. La sua vita
apostolica è trascorsa in vari luoghi del mondo, in particolare a servizio dei profughi e nell’impegno
educativo in questi Paesi: la Repubblica Democratica del Congo, il Rwanda, il Burundi, il Ciad
orientale, l’Ecuador, il Madagascar e il Perù. Da sempre appassionato di poesia, ne ha scritta priva-
tamente. Ha pubblicato saggi di letteratura africana in Congo Afrique, e di poesia in Vida Nueva.
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SOMMARIO 4114

FOCUS
376 CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE
Riflessioni di ordine socioeconomico
Fernando de la Iglesia Viguiristi S.I.

Il Partito comunista cinese (Pcc) ha da poco festeggiato i suoi 100 anni di esistenza. Fondato nel
luglio 1921 a Shanghai con soli 53 membri, oggi ne conta più di 90 milioni. Nei suoi 100 anni
di vita, 70 dei quali al potere, ha superato le truppe giapponesi e poi le truppe nazionaliste, il di-
sastro economico a causa del fallito programma del grande balzo in avanti e le purghe all’interno
della Rivoluzione culturale del 1966, che quasi lo decimò. Oggi, a partire da una trasformazione
economica senza precedenti nella storia, presiede una delle più grandi economie del Pianeta,
lasciando il segno su tutte le questioni globali. Questo articolo riflette sulla storia del Pcc, sui suoi
ultimi risultati e sulle sfide che oggi deve affrontare.

VITA DELLA CHIESA


388 UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO
Una analisi di «Traditionis custodes»
Cesare Giraudo S.I.
Con il motuproprio Traditionis custodes papa Francesco ha riaffermato i valori della riforma li-
turgica, di cui il Messale di Paolo VI è, per il rito romano, l’espressione unica. Riconoscendo che
l’uso del Messale di Pio V è stato indebitamente strumentalizzato per costruire contrapposizioni
nel rifiuto del Concilio, il Pontefice ha sostituito le concessioni fatte dai suoi Predecessori con un
regolamento giuridico più chiaro. Questo provvedimento si è tradotto in un coinvolgimento dei
vescovi nella custodia della tradizione. L’Autore è professore emerito di liturgia presso il Pontificio
Istituto Orientale di Roma.

402 ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

«Il vangelo secondo Jack Kerouac» 402 - «Qui rido io» 403 - La sospensione del tempo 404 - L’ amore?
Un culto gradito a Dio 405

406 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

Carboni M. 409 - Carloni E. 412 - Cassiodoro primo umanista 411 - Colore (Il) nell’arte 409
- Enoc M. 408 - Ghisalberti A. 411 - Mazzoni M. 412 - Occhetta F. 408 - Simeone D. 413 -
Tarzia A. 411 - Theobald C. 406
LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2021

contorno, individuati nel 66% degli astenuti tra gli operai torinesi
e nel 71% tra i disoccupati triestini.
Per la salute della democrazia appare utile interrogarsi sulle
motivazioni che hanno indotto gli elettori, e soprattutto queste
fasce della popolazione, a non votare. In primo luogo, tutte que-
ste categorie di persone hanno pagato più di altre il contraccolpo
delle misure adottate per contrastare la pandemia. In secondo
luogo, c’è il disincanto dei giovani che non hanno trovato le
motivazioni per esprimere le loro preferenze, perché purtroppo
nella maggior parte dei contesti le proposte elettorali si sono li-
mitate a garantire l’efficacia di una buona amministrazione per
gestire l’esistente (la mobilità, i rifiuti, la sicurezza). La grande
assente nel dibattito è stata una visione di futuro per la città che
211
interessa soprattutto alle nuove generazioni per poter intuire un
orizzonte su cui investire. Conservare l’inerzia di deboli processi
di mantenimento non scalda i cuori. In terzo luogo, ci sono le
persone con un basso livello di istruzione. Tra loro l’astensione è
da tempo radicata. Diversi studi affermano che negli ultimi anni
con il crescere del livello culturale aumenta proporzionalmente
la partecipazione al voto, e anche le recenti amministrative han-
no rispettato questa tendenza. Il coinvolgimento delle persone
con minore istruzione passa per la relazione, per il radicamen-
to territoriale, per una sensibilizzazione ai problemi comuni e
alle possibilità di dare risposta, oppure attraverso le scorciatoie
della spettacolarizzazione della politica e della radicalizzazione
dei conflitti. Quando le forze politiche che si affidano a queste
ultime perdono parte della loro reputazione, e le altre sono as-
senti, nelle comunità emerge il rischio più grande di non sentirsi
rappresentati da nessuno e di abbandonare l’impegno nella par-
tecipazione e le aspirazioni di poter costruire insieme qualcosa.
Nessuno è stato in grado di attrarre il voto di protesta né di
scaldare gli animi degli indecisi. Purtroppo l’astensione alimenta se
stessa. Spesso si crea un circolo vizioso, perché gli eletti finiscono
per rivolgersi e curare gli interessi soprattutto del proprio elettorato;
così quanti si sentivano trascurati dalle iniziative politiche accresco-
no la loro distanza dai partiti e dai loro rappresentanti.
DOCUMENTO

LA FRATERNITÀ:
UN MODO DI FARE LA STORIA
Un convegno di «La Civiltà Cattolica» e
«Georgetown University»
a un anno dalla «Fratelli tutti»

Nei giorni 8 e 9 novembre si è tenuto presso la sede de «La Civiltà


Cattolica» un convegno, organizzato dalla nostra rivista e dalla «Geor­
getown University» di Washington D.C., dal titolo «The Culture of
Encounter: The Future of Intercultural and Interreligious Dialogue»1.
315
Esso è frutto della collaborazione delle due antiche Istituzioni della
Compagnia di Gesù, avviata due anni fa e che continua a dare frut­
ti. Tra questi – lo ricordiamo – un «China forum for Civilizatio­
nal Dialogue»2. Il Santo Padre Francesco ha inviato per l’occasione
una lettera, che pubblichiamo. Qui di seguito, come documentazione
dell’evento, riportiamo l’articolo apparso su «L’Osservatore Romano»,
in data 9 novembre 2021, a firma di Roberto Cetera.

L’enciclica Fratelli tutti come un buon vino arricchisce il sapo-


re con il tempo. Ad un anno dalla pubblicazione si rincorrono gli
appuntamenti di riflessione e approfondimento, tesi soprattutto a
rilevarne gli elementi di novità nella cornice della dottrina sociale
della Chiesa. È in questo contesto che nasce la «due giorni» promos-

1. Oltre ai due relatori principali – il card. Miguel Ángel Ayuso Guixot e il


card. Luis Antonio Tagle –, hanno partecipato al convegno i seguenti moderatori
e relatori: Paul Elie (moderatore), Georgetown University; John Borelli, Georgetown
University; Sandra Mazzolini, Pontificia Università Urbaniana; Philipp Renczes,
Pontificia Università Gregoriana; Debora Tonelli (moderatrice), Georgetown Uni­
versity; Sultan Faisal al Remeithi, Muslim Council of Elders; Katherine Marshall,
Georgetown University; Diego Sarrio Cucarella, Pontificio Istituto di Studi Arabi e
Islamici; José Casanova (moderatore), Georgetown University; Indunil Kodithu-
wakku, Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso; Alessandra Smerilli, Dica­
stero per lo Sviluppo Umano Integrale; Paul Tighe, Pontificio Consiglio della Cultura.
Hanno introdotto i lavori Antonio Spadaro, La Civiltà Cattolica, e Tom Banchoff,
Georgetown University.
2. Cfr https://chinaforum.georgetown.edu

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 315-318 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


DOCUMENTO

sa a Roma da La Civiltà Cattolica e dalla Georgetown University dal


titolo «La cultura dell’incontro: il futuro del dialogo interculturale
ed interreligioso». Nella sede di Villa Malta si sono avvicendati, tra
gli oratori, anche i cardinali Miguel Ángel Ayuso Guixot, presi-
dente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, e Luis
Antonio G. Tagle, prefetto della Congregazione per l’evangelizza-
zione dei popoli, oltre che esponenti del mondo accademico e del
mondo religioso, cattolico ed islamico, come Sultan al Remeithi,
segretario generale del Muslim Council of Elders, e con la regia di
padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica. Nella sua
introduzione padre Spadaro ha informato i partecipanti come Papa
Francesco abbia fatto pervenire con una lettera agli organizzatori
il proprio compiacimento all’iniziativa, ricordando che «il dialogo è
316
un’esperienza autentica dell’umano» e che «la fratellanza, intesa nel
suo modo più profondo, è un modo di fare la storia».
Ribaltando in un certo qual modo il tema del primo panel dell’e-
vento, dedicato al carattere innovativo dell’enciclica, il cardinale
Ayuso Guixot ha detto: «Cosa intendiamo per innovazione? Anche
noi per primi, parlando della Fratelli tutti, ne applaudiamo le no-
vità senza renderci conto che Papa Francesco non ha fatto altro in
realtà che ribadire e ricordarci una verità antica quanto il mondo e
che è alla radice della nostra fede: siamo tutti fratelli e sorelle. Non
è un’esortazione a diventarlo ma una realtà esistenziale che Papa
Francesco, con buona pace di tutti, dà per acquisita: siamo tutti
fratelli, nessuno escluso!». E ancor più: «Mi viene da sorridere pen-
sando allo stupore di alcuni dinanzi all’enciclica, il che ci fa capire
in che situazione viviamo oggi. Se il mondo scopre e si stupisce solo
oggi che siamo tutti fratelli e sorelle non siamo certo messi bene!».
Quindi, più dello stupore, rileva lo stimolo: «L’enciclica ci stimola
ad un rinnovato slancio d’amore, che sia capace di compassione, di
tenerezza, di attenzione, di perdono, e che generi fraternità, spa-
lancando il cuore alle esigenze del Vangelo». Costruire una cultura
dell’incontro significa camminare nel solco del concilio Vaticano II,
ricorda il cardinale. «Al termine del Concilio, il 7 dicembre 1965,
Papa san Paolo VI disse: “L’antica storia del samaritano è stata il
paradigma della spiritualità del Concilio, la religione del Concilio è
DOCUMENTO

stata principalmente la Carità”. E la figura del buon samaritano è al


centro anche della Fratelli tutti».
Tre sono gli aspetti dell’enciclica che il cardinale Ayuso Guixot
ha inteso approfondire nel suo intervento: l’amore gratuito verso
tutti, il servizio urgente per sanare le ferite dell’umanità, e il la-
vorare insieme per la pace. Sul primo aspetto, il porporato ricorda
l’imperativo divino di Genesi 2, e cioè «non è bene che l’uomo sia
solo», per indicare la verità più profonda dell’essere umano: «l’es-
sere stato creato per uscire da se stesso, per incontrare l’altro». La
risposta che Papa Francesco ritiene possa unicamente darsi per
soddisfare il trascendentale della relazionalità è la cultura dell’a-
more. Evocando Papa Montini, Francesco auspica l’insorgere di
una «civiltà dell’amore». Sul secondo aspetto, il porporato reclama
317
nuove forme di solidarietà creativa che contrastino la progressiva
disumanizzazione di un mondo proteso a indifferenza e avidità:
«La fraternità è la presa di posizione più efficace contro la “cultura
dello scarto” e il covid ha solo inasprito situazioni di sfruttamento
che si protraggono da secoli». Sull’ultimo aspetto, del lavoro per
la pace, Ayuso Guixot rileva che se pure è un impegno per tutto
il mondo, esso diviene sicuramente un imperativo per i creden-
ti delle diverse religioni chiamati, come ha affermato Francesco,
«a vegliare come sentinelle di fraternità nella notte dei conflitti»,
configurandosi come «artigiani della pace».

EVOCANDO PAPA MONTINI, FRANCESCO AUSPICA


L’INSORGERE DI UNA «CIVILTÀ DELL’AMORE».

Nella sessione del 9 novembre Sultan al Remeithi ha ricorda-


to come nella coscienza islamica predominino due principi, quello
della conoscenza e quello della giusta e pia cooperazione, che co-
stituiscono la base per l’accoglienza da parte musulmana dell’esor-
tazione alla fraternità globale di Papa Francesco. Il cardinale Tagle
nel suo intervento ha voluto anch’egli rilevare la continuità e con-
sequenzialità dell’enciclica con i principali documenti conciliari, in
particolare con Gaudium et spes e Lumen gentium. Questo, in parti-
colare, per evidenziare la connessione tra Fratelli tutti e la vocazione
DOCUMENTO

missionaria della Chiesa. «Fratelli tutti non è un accidente nel per-


corso magisteriale, tanto della dottrina sociale che ecclesiologico»,
perché a raggiungere tutti non è la sola volontà umana, ma lo Spi-
rito di Dio. «Missionarietà perché – ha continuato il cardinale – la
ricerca della fratellanza non è la ricerca di un’unità tra di noi, ma
verso il mondo. Comunione e comunicazione viaggiano insieme».
C’è una relazione viva tra fraternità e sinodalità, «perché sinodali-
tà non è guardarsi dentro ma guardare all’intera umanità; poiché
noi ci definiamo nella relazione con l’altro, quando guardi agli altri
guardi te stesso». Creare una cultura dell’incontro significa dun-
que incontrare la realtà: «Non può esserci autentica fratellanza – ha
concluso – senza una vera conversione nel senso della giustizia. Una
giustizia sociale che latita nei nostri giorni. E la conversione, sulle
318
orme di san Francesco, come la fratellanza deve essere integrale:
con Dio, con noi stessi, con gli altri e con la natura».
Al termine dell’incontro padre Spadaro ha sottolineato: «È in-
teressante come Fratelli tutti, in incontri come questo testimonia,
venga metabolizzata e declinata nei suoi molteplici effetti culturali,
sociali e politici, che investono l’intero mondo. È un tornare alle
origini, cioè a un vangelo che fermenta il mondo, indifferentemen-
te dalle culture di provenienza e dai credi religiosi. Penso che ci sia
molto da riflettere sul fatto che il ripensamento, oggi, delle basi del
vivere civile, nella pace e nella fratellanza, venga da un leader spiri-
tuale e non politico. E che susciti, in così diversi ambienti culturali,
un così vivo interesse, partecipazione e affezione».
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA
MONDANITÀ SPIRITUALE

Diego Fares S.I.

La tentazione del trionfalismo – il cristianesimo senza croce – e


della sua forma più subdola – la mondanità spirituale – è difficile da
discernere. Se c’è un tema, nel magistero di Bergoglio-Francesco,
che ricorre con particolare frequenza, è proprio questo1. Nell’E-
319
sortazione apostolica Evangelii gaudium, pronunciando il «no alla
mondanità spirituale», Francesco lo ha messo nero su bianco. L’al-
ternativa è tra una Chiesa in movimento di uscita per evangeliz-
zare il mondo e una Chiesa invasa dalla mondanità spirituale: «È
una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla
mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione cen-
trata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da
una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa
mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito
Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in
un’apparenza religiosa vuota di Dio» (EG 97).
Già nel 1984 Bergoglio affermava: «L’atteggiamento trionfalista
non sempre è aperto. La maggior parte delle volte esso appare sub
angelo lucis nella scelta dei nostri metodi pastorali, ma si può sempre
ricondurre all’invito a scendere dalla croce»2. Henri de Lubac aveva
definito profeticamente il trionfalismo, anche nella forma sottile che
assume in quanto «mondanità spirituale», come il peggior danno che

1. All’inizio del suo pontificato, Francesco ha affermato: «Il trionfalismo che


appartiene ai cristiani è quello che passa attraverso il fallimento umano, il fallimento
della croce. Lasciarsi tentare da altri trionfalismi, da trionfalismi mondani, significa
cedere alla tentazione di concepire un “cristianesimo senza croce”, un “cristianesimo
a metà”» (Francesco, Omelia a Santa Marta, 29 maggio 2013).
2. J. M. Bergoglio, «La cruz y la misión», in Boletín de espiritualidad, n. 89,
settembre-ottobre 1984. Ora in Id., Cambiamo!, Milano, Solferino, 2020, 232.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 319-333 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


ARTICOLI

la Chiesa possa subire: «A me sempre, sempre colpisce quando leggo


le ultime pagine del libro del padre de Lubac: Meditazione sulla Chie­
sa3, le ultime tre pagine, dove parla proprio della mondanità spiritua-
le. E dice che è il peggiore dei mali che può accadere alla Chiesa; e
non esagera, perché poi dice alcuni mali che sono terribili, e questo è
il peggiore: la mondanità spirituale, perché è un’ermeneutica di vita,
è un modo di vivere; anche un modo di vivere il cristianesimo»4.

LA MONDANITÀ ODIA LA FEDE, CI RUBA IL VANGELO,


UCCIDE COLORO CHE SI OPPONGONO AD ESSA, COSÌ
COME HA UCCISO IL SIGNORE.

320
I concetti che caratterizzano questa tentazione – il trionfalismo
e la mondanità – non devono indurre a pensare che si tratti di que-
stioni superficiali. Il Papa ricorda che la mondanità odia la fede,
ci ruba il Vangelo, uccide coloro che si oppongono ad essa con
decisione, i nostri martiri5, così come ha ucciso il Signore, e seduce
quanti sono disposti ad accettarla sotto qualsiasi forma, respingendo
la croce. «È curioso: [del]la mondanità, qualcuno può dirmi: “Ma
padre, questa è una superficialità di vita...”. Non inganniamoci! La
mondanità non è per niente superficiale! Ha delle radici profonde,
delle radici profonde. È camaleontica, cambia, va e viene a seconda
delle circostanze, ma la sostanza è la stessa: una proposta di vita che
entra dappertutto, anche nella Chiesa. La mondanità, l’ermeneutica
mondana, il maquillage, tutto si trucca per essere così»6.

Una tentazione difficile da discernere

Poiché il Papa afferma che si tratta di una tentazione che tocca


addirittura il nostro modo di vivere e di interpretare la realtà, e che
è difficile da discernere, la questione va affrontata in tutta serietà. La

3. Cfr H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano, Paoline, 1955.


4. Francesco, Omelia a Santa Marta, 16 maggio 2020.
5. Atteggiamenti di superbia e di disprezzo mondano da parte dei martirizza-
tori sono abitualmente presenti nel martirio di coloro che sono coerenti con la fede.
6. Francesco, Omelia a Santa Marta, 16 maggio 2020, cit.
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE

difficoltà non sta nel comprendere l’«idea» del trionfalismo con uno
sguardo sociologico o psicologico, ma piuttosto nel fare un «discer-
nimento evangelico» (EG 50) concreto in ogni caso, grazie al quale
ciascuna persona o la Chiesa intera senta, interpreti e scelga ciò che
la conduce a uscire per evangelizzare e respinga ciò che la porta a
chiudersi in se stessa e che la vuole invadere. Bisogna discernere in
ogni circostanza i comportamenti, le situazioni e le strutture in cui
la mondanità si cela e si dissimula. L’Evangelii gaudium rimarca con
chiarezza che la neutralità non esiste: se non diamo gloria a Dio, ce
la daremo tra di noi (cfr EG 93); se la nostra predica non s’incul-
tura, diventa astratta, gnostica; se non siamo pastori che pascolano
le loro pecore, diventiamo mercenari neopelagiani che controllano
(cfr EG 94); se non prendiamo su di noi le umiliazioni della nostra
321
croce, tra di noi cominciano le guerre interne (cfr EG 98). Per-
ciò riteniamo che questo non sia solo un tema importante, ma una
questione di vita o di morte. E per combattere bene è necessario
scoprire il «dinamismo» di tale tentazione trionfalistica, in modo da
collegare i suoi frutti cattivi con la radice che li alimenta.

Credere di avere in mano la verità: «hybris»

Entriamo in argomento facendoci aiutare da una di quelle espressio-


ni originali che sono tipiche di Francesco. Qualche tempo fa, parlando
del trionfalismo in un incontro privato, il Papa ha adoperato un’espres-
sione che aveva già usato, quando era cardinale, nei suoi dialoghi con
il rabbino Abraham Skorka. Il trionfalismo, ha detto, entra cuando uno
se cree que tiene la precisa, «ci entra dentro quando crediamo di avere in
mano la verità»7. Vale a dire, quando riteniamo di non avere bisogno di
impegnarci nel lavoro esigente che comporta compiere un processo di
discernimento, o farci carico dei compiti pastorali al servizio del popolo
di Dio, che al suo pastore chiede presenza e concretezza.

7. «A volte si crede di avere in mano la verità, ma non è così. […] All’uomo


dico di non conoscere Dio per sentito dire. Il Dio vivo è quello che vedrà con i pro-
pri occhi all’interno del proprio cuore» ( J. M. Bergoglio - A. Skorka, Il cielo e la
terra. Il pensiero di Papa Francesco sulla famiglia, la fede e la missione della Chiesa nel
XXI secolo, Milano, Mondadori, 2013, 15).
ARTICOLI

Abbiamo tradotto l’espressione tener la precisa, un modo di dire


tipico argentino, con «avere in mano la verità». Di solito, quel modo
di dire descrive la mentalità di chi è colpito dalla cosiddetta «sindro-
me della hybris», la sindrome dell’individuo arrogante, ossia di chi
crede di saperla lunga e si sente superiore e impunibile. Hybris in
greco (in latino superbia) indica la presunzione, l’eccesso e la smisu-
ratezza di chi supera i limiti segnati dalla giustizia.
Non si tratta di un fenomeno soltanto religioso, tutt’altro8. La
sua logica è presente in ogni tappa e in ogni ambito della vita. Ba-
sti pensare a quanto in fretta apprendiamo, da bambini, a esultare,
come fosse una gloriosa vittoria, per qualche successo sportivo di
cui vediamo gioire gli adulti. Questa logica si converte in un vero
paradigma: il paradigma tecnocratico che oggi è omogeneo e uni-
322
dimensionale e riduce la realtà al fine di dominare totalmente (avere
successo) in alcune aree di interesse per i potenti. La (falsa) idea della
crescita infinita e della «disponibilità infinita dei beni del Pianeta,
che conduce a spremerlo fino al limite e oltre il limite» (Laudato si’
[LS], n. 106) affascina economisti, politici e tecnologi.
La hybris è l’eccesso in cui cade il superbo quando gode nell’u-
miliare l’altro più debole. La logica collega la hybris a un qualche
concreto superamento dei limiti, che scatena la successiva nemesi o
vendetta degli dèi contro l’essere umano che non è rimasto al suo
posto nell’universo. Chi è dominato dalla hybris si nutre di trionfi, li
considera «prede». È significativo che in greco l’azione dello stupro
si dica hybrizein. Sotto gli orribili abusi compiuti nella Chiesa c’è il
peccato della hybris, l’arroganza smisurata che viene dissimulata mol-
to bene e che tuttavia si può percepire in alcune sue manifestazioni,

8. È interessante osservare che nella mitologia i castighi connessi alla hybris


sono molti e svariati, e tutti relativi al credersi superiori. Il filosofo epicureo Lu-
crezio interpreta il mito di Sisifo come la personificazione dei politici che aspira-
no a un ufficio pubblico, ma ne vengono costantemente sconfitti. La ricerca del
potere, di per sé una «cosa vuota», viene paragonata al rotolare del macigno dalla
collina. Tantalo, per il furto dell’ambrosia, fu condannato ad avere per sempre
una fame e una sete implacabili. Icaro pecca di hybris, perché vuole raggiungere
il sole. La radice mimetica del trionfalismo è spirituale, sicché questa passione
può assumere tante forme, a seconda di ciò che fa sentire trionfante ogni singolo
individuo. È questa realtà ingannevole, e a volte nascosta, che si annida in quanti
sono posseduti da tale vizio.
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE

a volte in apparenza superficiali9. Oggi il Papa è preoccupato per il


nesso che si è constatato di recente nella Chiesa tra il manifesto trion-
falismo di alcuni nuovi movimenti e personaggi e gli abusi occulti
che al contempo avvenivano tra di loro10.

Il contesto: l’epoca delle «Lettere della tribolazione»

È importante ricordare in quale contesto Bergoglio abbia


trattato in maniera organica il tema del «trionfalismo». Lo ha
fatto nel periodo di tribolazione che trascorse a Córdoba, tra il
giugno 1990 e il maggio 1992. Nel dicembre 1990 egli scris-
se una serie di appunti, poi pubblicati con il titolo «Silencio y
Palabra»11, concepiti – come spiega nella nota introduttiva – per
323
aiutare nel discernimento «una comunità religiosa che attraver-
sava momenti difficili»12 . In altre parole, il carattere dello scritto
è chiaramente pastorale, rivolto a una determinata comunità che
si trova in una situazione concreta.
Austen Ivereigh – senza dubbio il migliore biografo del Papa
– trova «doppiamente affascinante» questo testo scritto in mo-
menti di tribolazione: «La comunità in questione era natural-
mente quella della provincia gesuita dell’Argentina, e ciò che
rende il discernimento doppiamente affascinante è il fatto che
le forze spirituali che [Bergoglio] vedeva all’opera nella sua crisi

9. Come dice il proverbio, «Dio castiga la superbia occulta con lussuria ma-
nifesta».
10. «Lo Spirito Santo indubbiamente soffia dove vuole e quando vuole. […]
Tuttavia, personalmente mi impressiona il fatto che questo fenomeno, a volte, sia ac-
compagnato da un certo trionfalismo. E il trionfalismo, in verità, non mi convince.
Diffido di queste manifestazioni di fecondità quasi “in vitro” o di queste manifesta-
zioni o messaggi trionfalistici secondo i quali la salvezza è qui o lì» (Francesco, La
forza della vocazione. Conversazione con Fernando Prado, Bologna, EDB, 2018, 44).
11. Titolo che si ispira a Romano Guardini, che parla della tensione polare tra
silenzio e parola, lontana dagli estremi del mutismo e del frastuono (cfr R. Guardi-
ni, Etica, Brescia, Morcelliana, 2021).
12. J. M. Bergoglio, «Silencio y Palabra», in Reflexiones espirituales, Buenos
Aires, USAL, 1992, 19. Ora in Francesco, «Silenzio e parola», in Id., Non fatevi
rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 85.
ARTICOLI

erano le stesse che papa Francesco avrebbe poi cercato di com-


battere all’interno della Chiesa nel suo complesso»13.
È stato questo a indurre La Civiltà Cattolica, con il consenso del
Papa, a rieditare le Lettere della tribolazione e a commentarle. L’at-
teggiamento paradigmatico di una «grande persecuzione», come
quella in cui si collocano tali Lettere, «provvede una cornice spiri-
tuale per affrontarne qualsiasi altra. Segue lo spirito della Lettera di
Pietro di “non meravigliarsi dell’incendio” che si scatena (1 Pt 4,12)
quando c’è una persecuzione»14.

Il metodo e le radici del trionfalismo

Si tratta di un testo che cerca «il conforto della fede comune» in un


324
periodo di tribolazione. A Bergoglio si era imposto spontaneamente il
silenzio sulla pesante situazione che stava vivendo e, quando si decide a
parlare per aiutare altri, poiché non è possibile «esplicitare una visione
d’insieme» del conflitto, «cerca e trova» nella Scrittura, negli Esercizi e
nelle Lettere della tribolazione il «metodo per leggere la storia»15.
Possiamo dire che il modo di leggere la storia adottato da Bergo-
glio è propriamente contemplativo nell’azione. Si tratta di un metodo
che prevede passaggi pratici, e non soltanto teorici, per far sì che «salti
fuori» il cattivo spirito del trionfalismo. Bergoglio sceglie un periodo
di silenzio, si annulla e non discute, accusa se stesso prima che gli altri.
Sono modi per dare spazio alla luce di Dio. Infine, non interrompe il
silenzio per elaborare un discorso astratto, ma per fare un discerni-
mento evangelico di una situazione reale16. A questa situazione così
complessa tutt’al più si possono aggiungere soltanto «didascalie e pre-

13. A. Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Milano,


Mondadori, 2014, 241.
14. D. Fares, «Contro lo spirito di “accanimento”», in J. M. Bergoglio-
Francesco, Lettere della tribolazione, Milano, Àncora, 2019, 71.
15. Cfr J. M. Bergoglio, «Silenzio e parola», cit., 98.
16. L’elemento chiave del suo discernimento è che il trionfalismo è una ten-
tazione che ha l’apparenza del bene. Siccome possiede una chiarezza che s’impone
(quantomeno nel momento culminante della sua narrazione), a noi è richiesto non
di opporvi ancora più luce (cioè di ribattere a una formula trionfalistica con altre
idee), ma di prendere tempo. Poiché il suo è il chiarore di un flash, e non la luce mite
di Dio, bisogna aspettare che scompaia il lampo abbagliante.
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE

cisazioni», laddove si colgano segnali da cui affiora la tentazione di


costruire un progetto proprio al posto del progetto di Dio.
In «Silenzio e parola» Bergoglio descrive atteggiamenti e cerca
collegamenti tra le varie tentazioni opposte al disegno di Dio e che
sono più caratteristiche di un momento di tribolazione. In quella
specifica situazione ne apparivano varie. Tra le altre, la divisione
in fazioni interne: «L’attivista delle “fazioni” è […] uno che “va ol-
tre” la comunità, con il suo progetto personale: è il proagón (2 Gv
1,9)»17. Un’altra tentazione è l’ambizione truccata da pietà: «Si cerca
la propria promozione, ma in maniera subdola […], avendo scelto in
precedenza il proprio cammino: “Io ti servo, ma a modo mio”»18. Altra
è la mancanza di povertà della festicciola invece della festa, per cui
la «festa del Signore», che ha sempre una dimensione escatologica,
325
viene ridotta a festicciola.
Un’altra tentazione è l’attaccamento alla penombra e alla diffi-
denza: il diffidente «possiede una fiducia in se stesso che sconfina
nella megalomania, cresciuta per i molti o pochi successi che la sua
condotta gli ha procurato»19. Poi c’è la trattativa: «La semplice trat-
tativa umana è sempre, nella Compagnia, primo o secondo binario.
[…] Se si rinuncia [a una trattativa malcondotta] sarà il segno che si
cerca il bene di tutti sopra quello di una parte»20. Infine, il trionfa-
lismo e la sua espressione più subdola, la mondanità spirituale, che
sfociano sempre in qualche livore contro chi è giusto21. La forza che
notiamo nelle descrizioni di Bergoglio sta nel fatto che egli non
prende in considerazione «idee», ma situazioni reali.
D’altra parte, Bergoglio approfondisce le tentazioni fino a scorgere
la radice comune a tutte: la croce respinta e la coltivazione di sé invece
che della maggior gloria di Dio. Poi cerca i rimedi concreti e persona-
lissimi, atti a scoprire, affrontare e respingere tale tentazione, additan-
do anche «chi sono i veri protagonisti» di questa guerra: Dio e Satana.

17. J. M. Bergoglio, «Silenzio e parola», cit., 90.


18. Ivi, 91.
19. Ivi, 94.
20. Ivi, 97.
21. «Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe
di lui dicevano: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda
ora dalla croce e crederemo in lui”» (Mt 27,41-42).
ARTICOLI

Il trionfalismo sembrava una tentazione qualsiasi, ma, poiché sta


alla radice di tutte le tentazioni contro la croce di Cristo e la gloria
del Padre22, qui viene smascherato come la principale opposizione al
disegno di Dio. Parlando dei gesuiti nel 1985, Bergoglio esprimeva
una considerazione valida per tutti: «Se, come dicevamo, il nucleo
dell’identità gesuita si trova – è sant’Ignazio a dirlo – nell’adesione
alla croce (tramite la povertà e le umiliazioni), la croce come vero
trionfo, il peccato fondamentale del gesuita sarà proprio la carica-
tura del trionfo della croce: il trionfalismo come anima di tutte le
sue azioni; il “mito del successo”, la ricerca di se stesso, delle proprie
cose, del proprio parere, la preferenza di persone, il potere»23.

326
Timbro mariano: i rimedi contro il trinfalismo

Segnaliamo che, quando arriva il momento di cercare un rimedio


e un aiuto per combattere bene contro il maligno, la santissima Vergi-
ne svolge un ruolo decisivo nella spiritualità di Bergoglio-Francesco,
che ha un timbro nettamente mariano: «Maria compare nella riflessio-
ne quando Bergoglio evoca l’Incarnazione, la contraddizione, la cro-
ce. La Madre è simbolo di carne, di cuore, di tenerezza»24.
In «Silenzio e parola» Bergoglio dispone le sue riflessioni at-
torno a sei immagini forti della Madonna: Maria in silenzio che
medita ogni cosa nel proprio cuore; Maria che «scioglie i nodi» che
ci siamo creati; Maria che protegge i suoi figli sotto il proprio man-
tello; Maria che, con fatica del cuore, resiste al male e canta il Ma­
gnificat nella casa di Elisabetta; Maria che prega nel Cenacolo con
attorno, «pigiati come sardine», gli apostoli, in attesa del Signore.
L’immagine più forte – l’ultima – è quella della Madonna ai piedi
della croce: «Il trionfalismo è stato distrutto nel cuore affaticato di
nostra Signora ai piedi della croce»25.

22. In Dante, per esempio, si connettono il peccato originale e il voler essere


come Dio di Adamo ed Eva. Appropriarsi di ciò che non è proprio è hybris.
23. J. M. Bergoglio, Discorso pronunciato nella chiesa della Compagnia di
Gesù a Mendoza, il 23 agosto 1985, nel contesto della commemorazione del IV
centenario dell’arrivo dei gesuiti in quelle terre. Ora in Id., Cambiamo!, cit., 267.
24. A. Awi Mello, María – Iglesia. Madre del pueblo misionero, Dayton, Ma-
rian Library, 2017, 213.
25. J. M. Bergoglio, «Silenzio e parola», cit., 100.
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE

L’antidoto al trionfalismo consiste in quella peculiare fatica del


cuore di cui san Giovanni Paolo II ha fatto notare l’esistenza nella
Madonna, e che Bergoglio riprende sempre come segno di fede: «Di
fronte agli avvenimenti duri e dolorosi della vita, rispondere con la fede
costa “una particolare fatica del cuore”26. È la notte della fede. […] Maria
sul Golgota si trova di fronte alla smentita totale di quella promessa:
suo Figlio agonizza su una croce come un malfattore. Così il trionfa­
lismo, distrutto dall’umiliazione di Gesù, è stato ugualmente distrutto
nel cuore della Madre; entrambi hanno saputo tacere»27.
La fatica del cuore di Maria è inserita nella storia di una folta
schiera di testimoni che sono vissuti e che vivono tra le file del po-
polo fedele di Dio. I popoli discernono e manifestano ciò che sono
non soltanto con le azioni, ma anche con il patimento: con la loro
327
resistenza al male, passiva nel senso che è non violenta, ma attiva in
una fede che agisce attraverso la carità. Bergoglio riprende questa
dottrina da sant’Agostino, secondo il quale «la misura della salute e
dell’ortodossia cristiana non sta tanto nel modo di agire, quanto nel
modo di resistere»28. E spiega alcuni segni di resistenza, che defini-
sce «segni cristiani»: «La lotta dei poveri, degli umili, dei bambini,
[…] che si esprime tramite gesti e atteggiamenti da bambino, come
per esempio la ricettività, la capacità di ascoltare, il camminare...
[Questa resistenza] accantona ogni tipo di trionfalismo»29.
Il popolo fedele ha coscienza del vero nemico e sa trovare ri-
fugio nella Vergine Madre. «Sul soffitto della Cappella domestica
della residenza della Compagnia a Córdoba – dove pregava Ber-
goglio – è dipinta un’immagine. I fratelli novizi sono raffigurati
sotto il mantello di Maria, ben protetti; e sotto c’è scritto: Monstra te
esse matrem (“Mostra di essere madre”). Nei momenti di turbolenza
spirituale, quando Dio vuole fare guerra, il nostro posto è sotto il
mantello della santa Madre di Dio»30. Là il diavolo non ha accesso.

26. Giovanni Paolo II, s., Enciclica Redemptoris Mater, n. 17.


27. Francesco, Omelia nella domenica delle Palme, 14 aprile 2019.
28. Cfr J. M. Bergoglio, «Servicio de la fe y promoción de la justicia. Algunas
reflexiones acerca del decreto IV de la CG 32», in Stromata, nn. 1/2, 1988, 7-22. La
frase di sant’Agostino citata è in De pastoribus, Discorso 46, 13.
29. Ivi, 20.
30. Ivi, 106.
ARTICOLI

Se andiamo a rifugiarci sotto il manto della Madonna, nei momenti


in cui la battaglia manifesta una ferocia smisurata, è perché ci siamo
resi conto della vera dimensione della guerra: non si tratta di una
guerra nostra, ma di Dio, il vero protagonista contro il quale com-
batte il demonio31.
Imparare a leggere la storia nella prospettiva della fede e a viverla con
coerenza affatica il cuore, ma non dimentichiamo che corde intelligitur.
Discernere la volontà di Dio tra le ambiguità della vita affatica il cuore,
ma, siccome è una fatica buona, rende il discernimento più lucido e so-
lido, per quanto a volte l’ambiguità si addensi e le decisioni da prendere
siano crocifiggenti. La fatica del cuore della Madonna è il luogo per
eccellenza dal quale resiste il popolo fedele di Dio. Anche il pastore si
definisce per la sua capacità di resistere al male, accanto al suo popolo.
328
Perciò agli occhi di Dio la nostra stanchezza è magnifica. La nostra fati-
ca per il peso del lavoro pastorale è preziosa agli occhi di Gesù32.
In definitiva, alla hybris del trionfalismo Bergoglio contrappone
la fatica del lavoro, che comporta scoprire man mano la volontà di
Dio e realizzarla nella nostra vita. Fare un passo avanti nella fede,
resistere al male, interpretare bene i segni dei tempi, leggere la sto-
ria nella prospettiva della fede, come Maria, affatica il cuore, perché
richiede lavoro e discernimento.

Tre atteggiamenti che minacciano la fatica del cuore

Francesco segnala alcuni atteggiamenti che rivelano mondanità


e trionfalismo. Uno di essi riguarda il tempo e la festa. Il trionfalista
si nota perché «festeggia anzitempo»: «La fatica del cuore è minac-
ciata dalla mancanza di speranza, dal gesto onnipotente di anticipa-

31. Cfr ivi, 106 s. Lucifero nella Bibbia si caratterizza per la hybris di «salire
più in alto dell’Altissimo» e cadere rapidamente. «Il drago combatteva insieme ai
suoi angeli, ma non prevalse […], fu precipitato sulla terra» (Ap 12,7-9). Il Signore
afferma nel Vangelo di Luca: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore»
(Lc 10,18). L’origine di tutti i peccati è la superbia. I santi Padri e i teologi applicano
tipologicamente al peccato del diavolo la frase che Israele pronuncia nella sua ribel-
lione a Dio: «Non voglio essere serva!» (Ger 2,20).
32. Cfr Francesco, Omelia nella Messa del Giovedì Santo, 2 aprile 2015.
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE

re il trionfo utilizzando altre vie più rapide, attraverso la scorciatoia


della trattativa, di anticipare il trionfo senza passare per la croce»33.
«Festeggiare ogni passo avanti nell’evangelizzazione» (EG 24)
è cosa buona. Ma la festa che anticipa il trionfo è l’Eucaristia, non
una festa qualsiasi. Un’Eucaristia che è, oltre che consolazione e
premio, viatico per il cammino della Chiesa in uscita. La festa
eucaristica è inclusiva, non come la festicciola trionfalistica, che è
elitaria. Ed è festa con pane condiviso e lavanda dei piedi, vale a
dire il gesto profetico che racchiude ed espande apostolicamente il
pontificato di Francesco.
Quella di festeggiare anzitempo è una consuetudine che crea
dipendenza e a poco a poco si trasforma in un modo di leggere e di
vivere la storia. La festicciola depotenzia la tensione feconda della
329
speranza34, che ci fa «mantenere le posizioni», resistendo al male, e
ci conduce a prepararci per uscire di nuovo in battaglia, sempre per
la maggior gloria di Dio.
Questo modo di vivere il tempo privilegiando il momento in-
sidia la speranza e si riflette nel linguaggio. Parlando in generale, il
trionfalismo ha la propria narrazione o, più precisamente, coincide
con la propria narrazione, per lo più. Questa narrazione è una cari-
catura della storia della salvezza, perché «si nutre di successi parziali
e di parole capaci di spiegarli: come nella storia di Dio con azioni e
con parole, ma con la differenza che esse non sono passate attraver-
so il crogiolo della croce né attraverso la visione della fede»35.
Altro atteggiamento: i trionfalisti «sono anche fondamental-
mente statistici»36, amano le statistiche. Ma le usano perché hanno
bisogno di confrontare i loro successi con gli altri e, per farlo, scel-
gono sempre chi, secondo loro, è peggiore di loro. Il prototipo è il
fariseo che prega in piedi e sente il bisogno di mettersi a confronto
con il pubblicano, che egli disprezza. Bergoglio conclude dicendo

33. Francesco, «Silenzio e parola», cit., 99.


34. «Quando scegliamo la speranza di Gesù, a poco a poco scopriamo che il
modo di vivere vincente è quello del seme, quello dell’amore umile. Non c’è altra
via per vincere il male e dare speranza al mondo» (Francesco, Udienza generale, 12
aprile 2017).
35. Francesco, «Silenzio e parola», cit., 99.
36. Ivi, 100.
ARTICOLI

che il trionfalista mangia carogne, è come una iena. Questo ca-


rattere comparativo fa smarrire la tensione feconda verso l’essere
perfetti (nella misericordia), come lo è il Padre.
Se osserviamo la Madonna, noteremo come il trionfo che si
compie ai piedi della croce sia stato presente fin dall’inizio del suo
cammino di fede. Non appena ricevuto il lieto annuncio, Maria si
mette in cammino, si mette al servizio. Non si è fermata a «elabo-
rare una narrazione dell’accaduto», ma è andata meditando le cose
nel proprio cuore, e possiamo cogliere la fatica che ci è voluta per
compiere quel frettoloso viaggio ad Ain Karim (cfr Lc 1,39). È pro-
prio a causa di quella fatica del cuore che risuona, limpido e libero
da ogni ambizione, l’inno più bello di lode a Dio: il Magnificat, alla
luce del quale leggiamo e interpretiamo la storia.
330

«L’astrazione, per me, è sempre un problema»

Fermiamoci un momento a riflettere sul linguaggio astratto


della mondanità spirituale. C’è un errore, un difetto di metodo, nel
mettersi a pensare e a strumentalizzare le verità rivelate da Gesù
Cristo, il Verbo fatto carne, soltanto per mezzo di parole astratte
e di discorsi razionali. Usare l’astrazione e il discorso razionale è
proprio della teo­logia in quanto scienza, ma il trionfalismo pre-
tende che le conclusioni di una determinata teologia coincidano
con la verità rivelata in maniera escludente e che vadano imposte
a tutti. Non è questo il cammino che Gesù, il Verbo incarnato, ha
scelto per rivelarsi.
Bergoglio, nella breve esposizione che rivolse ai cardinali nelle
Congregazioni generali tenutesi nei giorni precedenti il conclave,
si espresse in questi termini per evidenziare quale «immagine di
Chiesa» andasse evitata in futuro: «Quando la Chiesa è autore-
ferenziale, senza accorgersene crede di avere luce propria. Cessa
di essere il mysterium lunae e dà luogo al male gravissimo della
mondanità spirituale: vivere per darsi gloria gli uni con gli altri.
Semplificando, ci sono due immagini di Chiesa: o la Chiesa evan-
gelizzatrice che esce da sé, quella Dei Verbum religiose audiens et
fidenter proclamans, o la Chiesa mondana che vive in sé, di sé, per
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE

sé. Questo deve illuminare i possibili cambiamenti e le riforme


che andranno fatte per la salvezza delle anime»37.
Secondo il Papa, questo è un tempo di ideologie, che vanno
smascherate non dibattendo con esse, ma andando alle radici e mo-
strando perché sono ideologie a partire dai loro frutti. Nel recente
incontro avuto nel corso del viaggio apostolico in Slovacchia, Fran-
cesco ha detto ai gesuiti che lavorano in quel Paese: «Quando parlo
dell’ideologia, parlo dell’idea, dell’astrazione per cui tutto è possibile,
non della vita concreta delle persone e della loro situazione reale»38.
Un’affermazione spontanea di Francesco in quel contesto – «L’a-
strazione per me è sempre un problema» – è molto suggestiva, per-
ché chiarisce molte cose sul suo modo di pensare.
Il Papa ha fatto riferimento a questa tentazione nell’apertura del
331
Sinodo: «Un secondo rischio è quello dell’intellettualismo – l’astra-
zione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra
parte –: far diventare il Sinodo una specie di gruppo di studio, con
interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del
mondo; una sorta di “parlarci addosso”, dove si procede in modo su-
perficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classifi-
cazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo
santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo»39.
Francesco è convinto che pensare e riflettere comportino che ci
si faccia coinvolgere in un processo di discernimento di situazioni
concrete, e non che si debbano elaborare teorie astratte, e tanto-
meno discuterne. La sua allergia all’astrazione dice molto, inoltre,
sulla sua maniera di comunicare narrativamente piuttosto che per
definizioni; e sul suo modo di esercitare il suo ministero di guida,

37. Il testo completo del manoscritto consegnato da Bergoglio al cardinale


Jaime Ortega, vescovo dell’Avana (Cuba), è apparso su Clarín del 26 marzo 2013
(www.clarin.com/mundo/texto-manuscrito-entregado-bergoglio-ortega_0_
By2WJpYsP7e.html). Al cardinale Ortega, che glielo aveva chiesto, Bergoglio die-
de un testo manoscritto con i quattro punti del suo breve discorso ai cardinali. Nel
terzo punto egli sottolinea – concretamente – proprio l’espressione «mondanità spi-
rituale» e cita Henri de Lubac.
38. Francesco, «La libertà ci fa paura», in Civ. Catt. 2021 IV 14.
39. Id., Discorso nel momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale, 9
ottobre 2021.
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restando sempre nel ruolo del pastore, anche rispetto a chi lo critica
e non obbedisce, senza cadere nella politica.

«Sii pastore!»

Se a livello intellettuale il trionfalismo diventa ideologico – ogni


ideologia è di per sé trionfalistica –, a livello pratico, del governo,
esso scade nella politica e nei funzionalismi. Lo illustra bene ciò
che Francesco ha detto nel volo di ritorno dal viaggio apostolico a
Budapest e in Slovacchia40. A una domanda del giornalista irlande-
se Gerard O’Connell su che cosa «consiglia ai vescovi» americani
riguardo al tema scottante del dare o negare la comunione al presi-
dente Biden, Francesco ha dato una risposta magistrale; ha esposto
332
ciò che direbbe a un vescovo che avesse dubbi «teorici»: «Sii pastore,
il pastore sa cosa deve fare in ogni momento, ma come pastore. Ma
se esce da questa pastoralità della Chiesa, immediatamente diventa
un politico. Questo lo vedrete in tutte le denunce, in tutte le con-
danne “non pastorali” che fa la Chiesa. Con questo principio credo
che un pastore può muoversi bene. I principi sono della teologia. La
pastorale è la teologia e lo Spirito Santo che ti va conducendo a farlo
con lo stile di Dio».
Ed ecco il centro della risposta sul dare o negare la comunio-
ne: «Ma il problema non è teologico, che è semplice, il problema è
pastorale [Francesco accompagna la frase con un gesto della mano,
come a toccare il problema], come noi vescovi gestiamo pastoral-
mente questo principio. E se noi vediamo la storia della Chiesa, ve-
dremo che ogni volta che i vescovi hanno gestito non come pastori
un problema si sono schierati sulla vita politica, sul problema po-
litico. […] Quando la Chiesa per difendere un principio lo fa non
pastoralmente, si schiera su un piano politico. E questo è sempre
stato così, basta guardare la storia. E cosa deve fare il pastore? Essere
pastore. Essere pastore e non andare condannando: essere pastore.
Ma anche il pastore degli scomunicati? Sì, è pastore e dev’essere
pastore con lui, essere pastore con lo stile di Dio. E lo stile di Dio

40. Cfr Id., Conferenza stampa durante il volo di ritorno da Bratislava, 15 set-
tembre 2021.
CONTRO IL TRIONFALISMO E LA MONDANITÀ SPIRITUALE

è vicinanza, compassione e tenerezza. […] Un pastore che non sa


gestire con lo stile di Dio, scivola e si mette in tante cose che non
sono da pastore».
Il segreto di Francesco sta nel fatto che non si sottrae mai al suo
essere pastore; resta tale anche davanti a chi lo vorrebbe trascinare
sul terreno delle questioni politiche o della teologia astratta o del-
la morale casistica. La «svolta» di Francesco consiste nel porre la
Chiesa, di continuo, in uscita. Senza che sia necessario affermare
alcunché, il mero fatto di «dover tornare a uscire» elimina alla radi-
ce qualsiasi trionfalismo, che invece poggia sulla convinzione «che
si è arrivati». Qui risuonano echi delle volte in cui Gesù si avvia
verso «altre sue pecore»: «Anche quelle devo guidare […]. Questo è
il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,1-18). Gli fa eco
333
Paolo: «Dimenticando ciò che mi sta alle spalle […] corro verso la
meta» (Fil 3,13-14).
Per la Chiesa tornare a uscire è «sinodale», e questo farà sì che
la fatica del cuore sia condivisa da tutti. Come ha detto Francesco
inaugurando il Sinodo, «lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di
andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un
discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche
e i desideri dell’umanità»41.

41. Id., Discorso nel momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale, cit.
ARTICOLI

LA TEOLOGIA DELLA STORIA


NEL LIBRO DI GIUDITTA

Saverio Corradino S.I. – Giancarlo Pani S.I.

Il Libro di Giuditta

Il Libro di Giuditta, più che descrivere un avvenimento, vuole


presentare una Teologia della storia. In un solo episodio vi è rias-
334 sunta emblematicamente tutta la vicenda del popolo di Dio, in un
confronto apocalittico con le forze del male1. La vittoria di Giuditta
– donna e vedova – è l’annuncio messianico di Israele che trionfa
sulla potenza demoniaca del male.
Nei primi sette capitoli il libro narra la storia di Nabucodo-
nosor, potentissimo re degli Assiri, che organizza con il generale
Oloferne una campagna militare per assoggettare tutti i popo-
li della Terra. Il carattere più rilevante di questi primi capitoli è
la leggerezza e la solidità di una costruzione che si innalza, in-
trecciatissima, con pennellate veloci che si completano via via nel
prolungarsi o rispecchiarsi nella seconda parte (cfr Gdt 8–16)2 . La
sostanza del discorso teologico che dà il contenuto del libro è già
tutta qui. Ma la seconda parte del racconto libera in sintesi psico-
logica e narrativa le teologie in contrasto della prima parte – quel-
la di Nabucodonosor e quella del popolo di Dio –, per risolversi in
un’esplosione di gioia, di libertà e di speranza. Se un sentimento
corrente giudica i primi capitoli un preambolo noioso e prolisso
alla bella novella che si inaugura con Giuditta, è perché non si è
colta la portata teologica e spirituale del libro.

1. Cfr S. Corradino, Judith. Il libro di una vita, Soveria Mannelli (Cz), Rub-
bettino, 2002.
2. Cfr L. Alonso Schökel, «Strutture narrative nel libro di Giuditta», in
Id., L ’arte di raccontare la storia. Storiografia e poetica narrativa nella Bibbia, Cinisello
Balsamo (Mi) - Roma, San Paolo - Gregorian & Biblical Press, 2013, 151.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 334-343 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


LA TEOLOGIA DELLA STORIA NEL LIBRO DI GIUDITTA

La campagna di Nabucodonosor

Il successo della campagna militare di Oloferne è fulmineo.


Nabucodonosor gli ha comunicato il segreto3 del suo progetto
nella conquista del mondo. Va tutto nel migliore dei modi e,
con la sua armata, Oloferne attraversa vittorioso enormi terri-
tori, seminando ovunque distruzione e morte, fino alle soglie di
Israele. Qui, improvvisamente, incontra davanti a sé un ostacolo
imprevisto: il piccolo Regno di Giuda, con capitale Gerusalem-
me, non si piega all’avanzata strapotente dell’invasore. Il popo-
lo d’Israele resiste non per ragioni militari (tutta la popolazione
non è così numerosa come l’esercito assediante), non per ragioni
politiche (Israele non conta nulla sullo scacchiere orientale), ma
per ragioni religiose: Nabucodonosor vuole essere riconosciuto 335
sovrano del mondo intero, l’unico vero «dio»4; e Israele, come
tutti, deve adorarlo. Ecco ciò che il popolo non fa e non può
fare, perché la sua esistenza e la sua vocazione sta nell’affermare
la verità dell’unico Dio e nella difesa del Tempio, il luogo della
misteriosa presenza divina.
La resistenza parte da Gerusalemme e dal Tempio, e si dà ordine
agli abitanti di Betulia – l’avamposto in cui inizia la via per la Città
Santa – di vegliare ai valichi dei monti.
Mentre pone l’assedio alla piccola fortezza, Oloferne si interroga
sul senso della resistenza all’esercito più potente del tempo. Il ge-
nerale, che non aveva mai sentito parlare del popolo di Israele, così
piccolo, così poco importante da non far parte dei grandi regni del
mondo, si chiede: «Che popolo è mai questo? [...] Dove risiede la
loro forza e il loro vigore?» (5,3).

3. Il «segreto», in greco, è mysterion, che indica il contenuto effettivo delle


ragioni militari, che si convertono spontaneamente in politiche, ma che si rivelano
infine radicalmente religiose.
4. Il libro rappresenta bene le tappe di un uomo che si convince di essere
«dio». Innanzitutto la misura sovrumana dell’impresa di Nabucodonosor (Gdt
1,1-6), poi la solitudine nel compierla (allusione alla sua unicità assoluta: 1,7-11),
infine la vittoria folgorante, che cancella qualsiasi proposito di resistenza (1,13-
16). Cfr S. Corradino, Judith…, cit., 68.
ARTICOLI

Achior, il testimone della verità

Alla domanda del generale risponde Achior, il condottiero degli


Ammoniti, uno degli alleati di Nabucodonosor, un uomo che ama
la verità e la testimonia. Ha conosciuto la storia del popolo di Israele
e ha capito che Dio è dalla sua parte. A differenza di altri popoli,
Israele non vale per se stesso, ma solo perché è fedele al Signore.
Con le proprie forze non conta nulla; è stato perfino schiavo in
Egitto, ma poi è divenuto un popolo libero, perché Dio lo ha salvato
con braccio potente dalla mano del faraone.
Se dunque Dio è con loro, Oloferne non dovrà combattere con-
tro il popolo di Israele, ma contro Dio stesso. In tal caso non ci sarà
nulla da fare: il popolo è invincibile, e allora è inutile combattere.
336 Ecco dunque il segreto della forza: se sono fedeli a Dio, sono po-
tentissimi; se invece non sono fedeli, sono vulnerabili all’estremo5.

GIUDITTA È UN LIBRO APOCALITTICO: DIO DIFENDE


COLORO CHE GLI SONO FEDELI,ANCHE SE INDIFESI
DI FRONTE AL DEMONIACO.

Achior non ha illustrato le forze militari del popolo d’Israele, ma


semplicemente ha spiegato che esso ha un unico Dio, che difende
coloro che gli sono fedeli, anche se sono indifesi di fronte al poten-
tissimo esercito assiro.
La reazione dei presenti e di Oloferne è immediata: «Chi è Dio
se non Nabucodonosor?» (6,2). Egli, con il suo esercito, eliminerà il
popolo di Israele dalla faccia della Terra. Intanto blocca le sorgenti
che riforniscono Betulia, circonda la fortezza e dispiega l’esercito in
tutta la sua potenza.
Come conseguenza di quanto ha detto, Achior viene immedia-
tamente punito: Oloferne ordina di legarlo e trascinarlo fino alle
pendici di Betulia, perché sia fatto prigioniero. E fa una strana pro-

5. Il motivo per cui Achior racconta la storia ebraica è la comprensione e la


custodia dell’identità giudaica: cfr A. Passaro, «Il libro di Giuditta. Tra finzione
storica e teologia della storia», in D. Candido - C. Raspa (edd.), Quasi vitis (Sir
24,23), Catania, Studio Teologico San Paolo, 2012, 261.
LA TEOLOGIA DELLA STORIA NEL LIBRO DI GIUDITTA

messa ad Achior: «Non vedrai mai più la mia faccia, da oggi fino
a quando farò vendetta di questa razza che viene dall’Egitto» (6,5).
I soldati di Betulia vedono il prigioniero abbandonato, lo cat-
turano, lo portano dai capi, che gli chiedono il perché di un tale
abbandono e quali siano i progetti di Oloferne.

Giuditta

Il popolo di Dio intanto si trova a vivere una situazione terribi-


le: non c’è più pane, non c’è più acqua per sopravvivere, è impos-
sibile resistere, non rimane che arrendersi. La fiducia nel Signore
viene meno, al punto che qualcuno esclama: «Dio ci ha venduti
nelle mani di Oloferne» (7,25). Sembra non esserci più alcuna spe-
337
ranza di sopravvivenza.
Nel dramma compare sulla scena Giuditta: è vedova, è stata mo-
glie di Manasse, della tribù di Simeone. La donna è giovane, bella
di aspetto e si distingue per sapienza. È una donna che prega e di-
giuna per la salvezza del popolo; e tuttavia con coraggio denuncia la
mancanza di fede dei propri capi. Quello che è stato appena detto è
un mettere alla prova Dio, poiché egli può salvarci come e quando
vuole. Occorre solo pregarlo perché non ci abbandoni e ci liberi
dalle mani dei nemici. Giuditta è la donna credente, il cui nome
ricorda simbolicamente «la donna giudea» che si affida al Signore,
quale che sia il progetto che egli intende realizzare. Chiede poi al
capo, Ozia, il permesso di realizzare un suo piano personale.

La preghiera di Giuditta

Prima di iniziare l’impresa, Giuditta prega, e la sua preghiera è


il grido appassionato di chi si mette nelle mani di Dio, il Dio dei
Padri, il Signore onnipotente. Benché preghi da sola nella sua ten-
da, la preghiera non è isolata: essa avviene contemporaneamente
al sacrificio vespertino del Tempio, in comunione con Gerusa-
lemme. Tutto ciò che conta nella vita del fedele è fatto in vista
della Città Santa.
Giuditta chiede a Dio di ascoltare la sua preghiera, che è la pre-
ghiera di chi è coinvolto nel peccato di tutti, ma è un povero: è
ARTICOLI

la preghiera di una donna, di una vedova, di chi non ha altri che


il Signore. Giuditta sa che il peccato del popolo è stato grave, nel
passato come nel presente, ma sa anche che, per quanto sia enorme
tale gravità, per la misericordia di Dio, nella conversione e nel pen-
timento, quel peccato può paradossalmente considerarsi un «dono»,
poiché proprio nel peccato il Signore può operare la salvezza.
Ecco chi è il Dio di Israele: il Signore del cielo e della terra,
l’onnipotente e misericordioso; ma si distingue per aver preso le
parti dei poveri. È il Dio degli umiliati, il soccorritore dei derelitti,
il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei di-
sperati (cfr 9,11). Questa è la ragione profonda della fede di Giuditta
nel Signore, e perciò può sperare in lui: «Ascolta anche me che sono
vedova» (9,4); «Metti nella mia mano di vedova la forza» (9,9). Colei
338
che era debole per definizione, inerme, che nella cultura del tempo
era considerata un personaggio secondario, e in un eventuale com-
battimento meno che niente, chiede al Signore di combattere in suo
nome, di essere segno della sua potenza, di dare prova che egli è il
«Signore, il Dio di ogni potere e di ogni forza, e che non c’è altri,
all’infuori di te, che possa proteggere la stirpe d’Israele» (9,14).

Verso lo scontro finale

Giuditta esce dalla città di notte, con l’ancella, arriva al campo


nemico, si fa riconoscere e, con astuzia, giunge fino a Oloferne. I
due protagonisti sono ormai l’uno di fronte all’altro e si preparano
per lo scontro finale. Oloferne è sicuro di sé, così sicuro della vitto-
ria che permette a Giuditta tutto ciò che vuole: di mangiare i cibi
«puri» che ha portato con sé, di andare liberamente alla fonte per
purificarsi, e poi di poter pregare fuori dell’accampamento. Il sedut-
tore vuole che la donna si scapricci come meglio crede: si preoccupa
solo di chiederle come farà quando il suo cibo sarà finito…
Pronta è la risposta di Giuditta: lei si affida in tutto al Signore.
Anche la donna si sente sicura, ma non delle proprie forze. Per lei
conta sopra ogni cosa la fedeltà a Dio: ecco la sua unica sicurezza.
Perciò lei può rischiare in una situazione davvero paradossale: è nella
tenda del suo avversario, è nelle mani di un uomo che la vuole se-
durre, è nel cuore del capo dell’armata che sta per distruggere Israele.
LA TEOLOGIA DELLA STORIA NEL LIBRO DI GIUDITTA

Qui compare la figura di Bagoa. È il servo di fiducia, è colui


che conquista la persuasione, è la voce che tende a intimidire, che
insinua in Giuditta quale sia «l’onore della donna» (cfr 12,13): come
per coloro che seguono Dio è un onore rendere culto a Dio, così
per chi segue il male è un «onore» fare ciò che suggerisce la passio-
ne, l’istinto, il modo di pensare del mondo. Ed è disonorevole per
un generale come Oloferne non approfittare di Giuditta: lei stessa,
dunque, acconsenta liberamente al «suo signore»6.
Ecco le due divinità a confronto. Oloferne e Giuditta rappre-
sentano i due schieramenti contrapposti: il bene e il male, la verità
e la menzogna, il popolo di Dio e il demoniaco7. Oloferne è sicu-
ro della vittoria sulla donna al punto che la festeggia in anticipo,
ubriacandosi; Giuditta invece si è preparata all’appuntamento con il
339
digiuno, la preghiera e la penitenza. Quando si chiude la tenda per
lo scontro finale, Oloferne pensa di avere già vinto, Giuditta invece
sa che dalla fedeltà al Signore dipenderà la sorte del popolo di Dio.

La vittoria e il problema del libro

Quando Oloferne è travolto dall’ebbrezza del vino, Giuditta gli


taglia il capo con la sua stessa spada. Poi, come ogni notte, esce
dall’accampamento come per purificarsi alla fonte; ma questa volta
va oltre, per rientrare a Betulia con il segno della vittoria.
Achior, nel vedere la testa di Oloferne, sviene: il riconoscimento
di Oloferne lo fa stramazzare.
Ecco il nodo del libro: che cosa significa la storia di Giuditta?
Che cosa vuole dirci? Che cosa indica quel tagliare la testa dell’av-
versario? Non è facile rispondere a tali quesiti, e lo dimostra l’inter-
pretazione storica che è stata data del Libro.
A iniziare dagli stessi ebrei, che non hanno riconosciuto la ca-
nonicità del Libro, anticamente scritto in ebraico, poi tradotto in
greco dai Settanta, e infine hanno completamente cancellato il te-
sto originale (di cui oggi è stata ritrovata una sola pagina8). San

6. Gdt 12,14: cfr F. Dalla Vecchia, Giuditta, Cinisello Balsamo (Mi), San
Paolo, 2019, 107.
7. Cfr D. Scaiola (ed.), Rut, Giuditta, Ester, Padova, Messaggero, 2006, 56.
8. Cfr B. Schmitz - H. Engel, Judit, Freiburg - Basel - Wien, Herder, 2014, 40.
ARTICOLI

Girolamo gli attribuiva scarsa importanza, poiché gli ebrei non lo


riconoscevano ispirato; quindi lo ha tradotto liberamente9.

La teologia del libro: un «iter» di perversione e uno di conversione

Più che dalla dottrina, su un punto essenziale o sull’altro, la teo-


logia del Libro di Giuditta è data dalla somma di un numero ridotto
e compatto di itinerari esistenziali, che propriamente qualificano la
relazione dell’uomo con Dio come storia.
Innanzitutto si dà un iter della perversione, con cui il Libro si apre
e che ha per protagonista il Nabucodonosor del racconto. Il tema è
strettamente apocalittico, e si volge a dire per quali vie, e con quali
esiti, accada che un uomo si convinca di essere divenuto «dio»10.
340
C’è poi, in contrasto con l’iter della perversione, ma assai più discreto
ed efficace, l’iter della conversione. Narrativamente ed emblematicamente
ha il suo protagonista in Achior, e dice che il modo con cui si appartiene
di fatto al popolo di Dio è un’esperienza di morte e di vita: una punizione
estrema, di estromissione dal popolo e di condanna a morte, per l’osse-
quio reso alla verità di Dio e del popolo eletto; e il trionfo di tale verità,
come liberazione dalla morte e atto di riconoscersi nel popolo di Dio11.
C’è infine una condizione perché il popolo d’Israele abbia tutta l’au-
torità davanti a Dio per farsi ascoltare come popolo: è l’unità degli ani-
mi, la preghiera concorde, l’accettazione reciproca, al di là della varietà
delle vocazioni e delle urgenze diverse cui ciascuno è sottomesso12.

Il disegno di salvezza

Oltre tali premesse esistenziali, una certezza misteriosa e irresistibi-


le: Dio nel suo disegno di salvezza opera una selezione per cui, in modi
diversi, l’intero peso della storia viene a gravare su pochissimi, o su uno
soltanto. Nel Nuovo Testamento graverà sull’uomo dei dolori, il Cristo
Gesù, e su chiunque egli associ a sé sino in fondo, in vista dell’uno o
dell’altro aspetto della vicenda umana. Questo significa l’universalità

9. Cfr D. Scaiola (ed.), Rut, Giuditta, Ester, cit., 55.


10. Cfr Gdt 1,1-3,10; 5,1-4; 5,22–6,13; 7,1-22; 10,11–13,9; 14,1-4; 14,11–15,6.
11. Cfr Gdt 5,5-21; 6,14-21; 11,9-11; 14,5-10.
12. Cfr Gdt 4,1-15; 6,14-21; 7,19–10,10; 13,11–14,10; 15,3–16,25.
LA TEOLOGIA DELLA STORIA NEL LIBRO DI GIUDITTA

del quadro geografico con cui il Libro si apre, e su cui tendenzialmente


accenna poi a concludersi; non meno che la verità delle allusioni sto-
riche, e soprattutto il progressivo abbassarsi dell’orizzonte, fino a che
quella responsabilità vastissima, al di là dei confini di spazio e di tempo
e di situazioni effettuali, si raccoglie indivisa su di un gruppo umano
sempre più ristretto13, per chiudersi da ultimo nel proposito lucido e
fermo di una persona sola, profondamente fedele al Signore.
Più in là ancora, ma sempre su questa linea teologica, il Libro pro-
lunga ed esplicita i testi del Secondo Isaia sul Servo del Signore, fino a
divenire presentimento diretto del mistero pasquale di Cristo. Di solito
l’iniziativa di Dio che prende corpo nella vicenda umana non si esprime
con segni trascendenti (la rivelazione, il miracolo), ma nasce tutta dal
basso, come risposta silenziosa e umile fatica di discernimento, come
341
accettazione di resistenze inattese, come prudente messa a punto di un
itinerario da portare a compimento con pazienza e con gioia. In questo
suo tracciato dialettico, di discesa (o di kenosis) e di ascesa, il disegno di
Dio esige una verifica estremamente positiva, al punto che la testimo-
nianza resa a Dio deve passare al vaglio del potere nemico, sicché nel
racconto le due sorti, autentiche e complementari, di Achior e Giuditta
sono tenute a misurarsi con l’ostilità del nemico, a subirne entro cer-
ti limiti la negatività, e ad attraversare fino in fondo l’accampamento
avversario14. Ecco il prezzo da pagare perché la testimonianza – che
riguarda la portata salvifica degli eventi voluti da Dio – operi a sua volta
la salvezza, ed entri essa stessa tra i fatti cui si rende testimonianza15.

Gerusalemme e le periferie senza nome

Si dà infine, attraverso il Libro, un’esperienza di fondo circa il


posto che Gerusalemme ha per coloro che si salvano. Ed è che la fe-
deltà al progetto di Dio materialmente si esercita in periferie senza
nome, come le città ignote – Betùlia, Betomestàim (cfr 4,6) – cui
l’autorità che risiede a Gerusalemme demanda il carico di resistere

13. Si noti il modo in cui si concentra l’obiettivo: prima Israele (cfr 4,11-15),
poi la gente di Betulia (cfr 7,19-22), gli anziani della città (cfr 7,23-32) e infine
Giuditta (cfr 8,1-10).
14. Cfr Gdt 6,1-13; 10,11–13,17.
15. Cfr Gdt 13,14-20; 14,7; 15,8; 16,20.
ARTICOLI

all’avversario e di salvare la stessa Città Santa. Di fatto, tutto quello


che conta nella vita del fedele si fa in vista di Gerusalemme16, in co-
munione concreta con la città17; in realtà accade a Gerusalemme, e
termina lì: è questo il suo luogo d’incontro con il definitivo18.
Ma la singolarissima struttura di un racconto che allude simulta-
neamente a tutte le situazioni, maggiori o minori, della storia d’Israe­
le, moltiplicando intenzionalmente gli arcaismi e risalendo – oltre i
Giudici, Esodo e i Patriarchi – fino al Libro delle origini, comporta di
per se stessa un’ulteriore certezza di fede: certezza già implicita nella
riflessione d’Israele sulla propria storia, e particolarmente appropriata
a un testo come questo, che a suo modo è un midrash sull’intera storia
della salvezza. Il fatto che un racconto idealmente esemplare si appli-
chi di proposito a ciascuna congiuntura attraversata – nella fedeltà o
342
nell’infedeltà – da Israele sin dalle origini, e accenni di voler coincidere
volta per volta alla ragione di fondo di ciascun episodio, dichiara qua-
le doveva e poteva essere l’esito visibile di quella congiuntura storica,
se Israele avesse ascoltato e assecondato la propria vocazione; ma più
ancora enuncia quale sia stato di fatto l’esito finale – anche se meno
visibile – di quella vicenda, dopo che Israele ne ha recuperato il senso
nell’afflizione e nel pentimento. Il disegno di Dio non viene messo in
crisi dal peccato dell’uomo, e l’elezione del popolo di Dio è irrevocabile.

Il paradosso del Libro e la scomparsa della tribù di Simeone

Ma una simile tesi non è qui semplicemente sottintesa; non rimane


occultata nelle pieghe dell’andare, nell’elaborato rapporto che il Libro ha
con la storia biblica. La si trova proclamata dettagliatamente attraverso
quel dato anomalo – si direbbe assolutamente anomalo – che è l’appar-
tenenza di Betulia, e in particolare del suo primo cittadino, Ozia, e di
Giuditta e del marito di lei (cfr 8,1-2), alla scomparsa tribù di Simeone.
Meglio ancora, è dichiarata nella preghiera di Giuditta attraverso l’iden-
tificazione di quanto sta per fare (cfr 9,12-13), e poi fa, con quanto Si-

16. Cfr Gdt 5,19; 8,21; 9,8.13; 10,8; 11,19; 13,4: cfr B. Schmitz - H. Engel,
Judit, cit., 355.
17. Cfr Gdt 4,8-15; 9,1; 15,8-10; 16,18-20.
18. Cfr Gdt 9,11-14; 13,4; 15,9; 16,18-29.
LA TEOLOGIA DELLA STORIA NEL LIBRO DI GIUDITTA

meone ha colpevolmente compiuto a Sichem19. In seguito alla violenza


subita dalla sorella Dina, Simeone e Levi si vendicarono degli abitanti
di Sichem con un inganno: si sarebbero alleati con loro se si fossero
circoncisi. Ma dopo la circoncisione, quando essi ebbero la febbre alta,
furono uccisi tutti (cfr Gen 34). Perciò Simeone e Levi subirono una
maledizione efficace da parte del padre Giacobbe sul letto di morte20.

GIUDITTA, DONNA, VEDOVA, FEDELE A DIO,


RIABILITA LA TRIBÙ DI SIMEONE: IL PECCATO
DELL’UOMO DI DIO, SE ESPIATO, DIVENTA SALVEZZA.

Forse sta qui il maggior paradosso del Libro. A nessun altro mo-
343
mento della storia d’Israele l’impresa di Giuditta pare adeguarsi così
perfettamente: lo assume, si direbbe, a modello, benché sia un antefatto
penoso e umiliante. La rilettura è diretta non a un recupero benevolo
dell’accaduto, ma all’esaltazione del gesto e della persona di Simeone:
un’operazione corrente nel giudaismo del tempo21. Il peccato dell’uo-
mo di Dio, quando sia espiato, diviene una felix culpa per il recupe-
ro che Dio ne fa per la salvezza dei suoi. L’impresa di Giuditta vuole
essere per Israele un capolavoro di santità e di prudenza ispirata, che
viene ad avere qui il suo riferimento esemplare: in un atto di violenza
commesso nell’età patriarcale, la cui condanna ha cancellato effettiva-
mente – non con un gesto arbitrario, ma con la misteriosa forza della
storia – una delle 12 tribù originarie, quella appunto di Simeone. Tut-
tavia, quando sussiste la comunione del popolo con Dio – la vicenda
di Giuditta lo dimostra in maniera esemplare –, il Signore è con i suoi
e li salva: non si dà nulla di quanto Dio ha chiamato che non giunga,
per tramiti silenziosi e con i volti appropriati, al suo compimento.

19. Gdt 9,2-4: cfr B. Schmitz - H. Engel, Judit, cit., 279 s; F. Dalla Vec-
chia, Giuditta, cit., 88-91.
20. Gen 49,5-7; cfr 34,30. Anche quello di Levi è – sotto questo preciso ri-
guardo – un caso strettamente parallelo (cfr Gen 34,25-31; 49,5-7), che si scava però
una via tutta diversa – più visibile, ma meno esplicita – attraverso i materiali della
tradizione e la loro sistemazione finale.
21. Cfr Libro dei Giubilei 30,1-6; Testamento di Levi 3-6: l’angelo comanda a
Levi di compiere la vendetta sui sichemiti. Cfr S. Corradino, Judith…, cit., 105-107.
ARTICOLI

IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 2021

Quentin Dupont S.I.

Sulla falsariga dei premi Nobel che vengono assegnati per varie
altre discipline delle arti e delle scienze, l’Accademia reale svede-
se delle scienze destina ogni anno un premio anche a ricercatori
che abbiano dato contributi eccezionali nel campo dell’economia.
344
Si chiama «Premio Sveriges Riksbank per le scienze economiche in
memoria di Alfred Nobel», e quest’anno è andato a tre economisti
che hanno apportato indiscutibili progressi alla metodologia della
ricerca economica. Il lavoro di David Card, Joshua D. Angrist e
Guido W. Imbens sull’inferenza causale attraverso l’uso di esperi-
menti naturali ha cambiato per sempre tale settore ed è divenuto
una componente indispensabile di qualsiasi programma di studi
specialistici in campo economico.

Un Nobel «metodologico»

Come il comitato del premio non ha mancato di evidenziare,


ai vincitori di quest’anno è stato riconosciuto il notevole contribu-
to che hanno arrecato alla metodologia della ricerca economica.
Con un impegno comune durato diversi decenni, Card, Angrist e
Imbens hanno sviluppato gli strumenti per documentare più ade-
guatamente la relazione tra cause ed effetti di eventi come i cam-
biamenti delle leggi e delle regole. Pur essendo disponibile lo studio
degli effetti di certe politiche nella ricerca economica, di solito i
ricercatori si scontrano con la difficoltà di collegare adeguatamente
cause ed effetti, se non in una misura piuttosto limitata. La ricerca
di Card, Angrist e Imbens ha consentito di identificare meglio la
relazione tra determinate cause e i loro effetti, e quindi di quantifi-

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 344-352 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 2021

care con maggiore precisione l’importanza («grandezza economi-


ca») di quegli esiti.
In genere, gli economisti quantificano la relazione tra cause ed
effetti utilizzando strumenti statistici tratti dalla cosiddetta «eco-
nometria», che si basano sui dati disponibili. Per fare un esempio
da manuale, potremmo voler esaminare l’influsso delle dimensioni
delle case sui loro prezzi di vendita. Partendo dai dati riassuntivi di
un insieme di immobili venduti, gli strumenti econometrici – per
esempio, l’analisi di regressione – possono servire a ravvisare se le
case più grandi, generalmente, si vendano a un prezzo più alto.
Questo approccio, tuttavia, deve fare i conti con un problema es-
senziale. Infatti, esso offre soltanto la prova di una relazione statistica tra
la variabile «di interesse» (la dimensione della casa) e quella denominata
345
«risultato» (il prezzo della casa). Ma la relazione statistica non implica
necessariamente che sia la variabile di interesse a determinare il risul-
tato. La ricerca dei vincitori di quest’anno si è concentrata su questo
specifico problema nel contesto metodologico della ricerca economica.

La correlazione non è causalità

Sebbene le case grandi tendano a essere vendute a prezzi più alti di


quelle piccole, è anche vero che appartamenti relativamente piccoli a
San Francisco o a Parigi si pagano a prezzi più elevati rispetto a quelli
di abitazioni grandi nelle aree rurali della California o della Francia.
Pertanto, parrebbe che nella nostra descrizione della relazione tra le di-
mensioni delle case e il loro prezzo manchi qualche variabile di interes-
se. La dimensione della casa, da sola, non spiega la differenza di prezzo.
Un altro problema è che la relazione statistica tra variabile di inte-
resse e risultato potrebbe valere indipendentemente da quale variabile
etichettiamo come «risultato», e viceversa. Ovviamente, nell’esempio
che abbiamo proposto, l’ipotesi che prezzi più alti delle case facciano
sì che esse diventino più grandi non avrebbe senso. E tuttavia in molti
contesti sembra difficile differenziare la causa dall’effetto.
La ricerca generale, tesa a documentare le potenziali relazioni di
causa ed effetto, in economia deve fare i conti con un terzo fattore,
quello della selezione dei dati. L’esempio canonico qui ha come og-
getto le degenze ospedaliere e la salute. Qualora volessimo valutare
ARTICOLI

se ricoverarsi contribuisca a migliorare la salute, constateremmo che


molte persone, quando vanno in ospedale, finiscono per stare peggio
durante o dopo la degenza. Addirittura, un numero cospicuo di pa-
zienti ospedalieri muore. Possiamo concluderne che gli ospedali sono
generalmente dannosi per la salute? Assolutamente no. Piuttosto,
dobbiamo tener conto, per cominciare, del fatto che i pazienti ospe-
dalieri sono generalmente malati: non si trovano in una condizione
di salute media (la salute del componente medio della popolazione),
perché rientrano nella parte della popolazione in cattiva salute, fatto-
re che a sua volta li induce a essere ricoverati in ospedale. Quindi il
successivo peggioramento della loro salute non è generalmente do-
vuto al fatto che essi siano stati ricoverati, ma piuttosto al dato che
in ospedale vanno solo le persone malate, e che i malati tendono a
346
peggiorare prima di guarire.
La ricerca di Card, Angrist e Imbens affronta i quesiti connessi
a questi tre elementi distorsivi (biases) della stima econometrica: le
variabili omesse, la causalità inversa e la selezione. Insieme, essi con-
figurano quello che viene chiamato «il problema della endogeneità»
nella stima delle relazioni causali e nella quantificazione dei loro
effetti. Per affrontare tali problematiche, i premi Nobel 2021 si sono
valsi di «esperimenti naturali», un concetto che ora esploreremo.

Esperimenti naturali

La maggior parte di noi, dopo oltre un anno di informazioni


sui vaccini contro il Covid-19, ormai sa che gli studi sperimentali
costituiscono un modo per valutare l’effetto causale dell’iniezione
vaccinale rispetto ai suoi esiti sulla salute. In tali studi si parte dal-
la selezione di un ampio numero di persone, rappresentativo della
popolazione-bersaglio destinata a ricevere il vaccino (in termini di
età, di preesistenti condizioni di salute ecc.). Questo campione viene
suddiviso in due gruppi: alcuni ricevono effettivamente il vaccino
(gruppo di «trattamento»), mentre ad altri viene somministrato un
placebo (gruppo di «controllo»). I ricercatori misurano le differenze
negli end-point – gli esiti che ci si proponeva (per esempio, riguardo
all’infezione da Covid-19 o ai ricoveri ospedalieri) –, che si consta-
IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 2021

tano tra il gruppo di trattamento e quello di controllo prima e dopo


la somministrazione del vaccino.
In economia, questo metodo è chiamato «differenza nelle dif-
ferenze», perché stima l’effetto attraverso due serie di differenze:
anzitutto, tra prima e dopo l’iniezione del vaccino; in secondo luo-
go, tra il gruppo di controllo e quello di trattamento. L’effetto del
trattamento proviene dal cambiamento degli esiti dopo la sua som-
ministrazione al gruppo trattato: è l’effetto causale del vaccino sulla
salute dei pazienti. Questo effetto è causale, perché l’unica diffe-
renza generale tra i due gruppi è se abbiano ricevuto il vaccino o il
placebo, ovvero un elemento che non rientrava nelle possibilità di
scelta di quei pazienti. Pertanto, nella misura in cui i due sottocam-
pioni sono rappresentativi della popolazione-bersaglio, quello della
347
selezione non è un problema. Poiché, infatti, l’unica differenza tra
il gruppo di trattamento e il gruppo di controllo sta nell’iniezione
del vaccino o di un placebo, non è possibile che siano state omes-
se variabili «nascoste» in grado di offrire spiegazioni alternative
dell’effetto potenziale. Inoltre, la tempistica della valutazione (prima
e dopo l’iniezione) garantisce che la causa e l’esito sulla salute che
viene osservato dopo la vaccinazione risalgano appunto al vaccino.
Questo tipo di esperimenti di laboratorio, chiamati «studi con-
trollati randomizzati», sono comuni in medicina, ma di solito non
sono replicabili in economia. Per esempio, sarebbe problematico,
sotto il profilo etico, raccogliere volontari per uno studio sul salario
minimo nel quale a un gruppo numeroso di loro non venisse paga-
to il salario promesso. Anche sotto il profilo pratico, sarebbe difficile
approntare un esperimento del genere. Ciò che i ricercatori Card,
Angrist e Imbens hanno scoperto, tuttavia, è che abbastanza spesso
le situazioni della vita reale danno la possibilità di identificare un
gruppo di trattamento e un gruppo di controllo. Questi cosiddetti
«esperimenti naturali» sono legati a cambiamenti che derivano da
nuove leggi e regolamenti. Confrontando il comportamento di una
popolazione interessata dalla nuova legge con un gruppo compara-
bile che funge da controllo, i ricercatori riescono a valutare l’effetto
di quella legge sulla popolazione soggetta al cambiamento (il grup-
po di trattamento) rispetto a una popolazione simile che non è stata
sottoposta alla nuova legge (il gruppo di controllo). I premi Nobel
ARTICOLI

hanno dimostrato, teoricamente ed empiricamente, che tali esperi-


menti aiutano a rispondere a quesiti chiave circa i quali, in prece-
denza, non si riusciva a dare una chiara interpretazione causale.
Uno dei primi articoli di economia pubblicati utilizzando un esperi-
mento naturale secondo il metodo della differenza nelle differenze risale
al 1995. In tale studio, David Card e il suo collega Alan Krueger indaga-
vano le conseguenze dell’aumento del salario minimo in uno Stato degli
Stati Uniti, il New Jersey, mettendo a confronto le contee di questo
Stato con quelle vicine di un altro Stato (la Pennsylvania) prima e dopo
che avvenisse la modifica del salario minimo nel New Jersey. Poiché i
confini statali sono molto più antichi delle variazioni legislative, da soli
non bastano a spiegare le eventuali differenze occupazionali tra i due
lati che delimitano, a meno che le leggi di ciascuno Stato – per esem-
348
pio, sul salario minimo – non siano diverse. In quel caso, le contee sul
confine statale, dal lato del New Jersey, ricadevano sotto la nuova legge;
invece le contee vicine, quelle della Pennsylvania, fungevano da gruppo
di controllo. La differenza nell’occupazione prima e dopo la variazione
legislativa tra le contee del New Jersey e della Pennsylvania identificava
l’effetto della modifica della legge, ossia l’effetto del trattamento.
Poiché questi metodi (insieme a molti altri divulgati dai premi
Nobel per l’economia 2021) hanno contribuito a «identificare» il nesso
causa-effetto in vari contesti, il loro contributo è talvolta qualificato
come «rivoluzione dell’identificazione» nella ricerca economica.

L’impatto della «rivoluzione dell’identificazione» sull’economia

Come spiegavamo sopra, uno dei primi articoli ad adottare una


metodologia della differenza nelle differenze in economia trattava
dell’influsso del salario minimo sui posti di lavoro. Chiaramente, un
aumento del salario minimo può indurre effetti diversi sui lavori di
livello base: un effetto sulla domanda (il prezzo del lavoro è più caro,
quindi le aziende ne comprano di meno: assumono meno lavorato-
ri); un effetto sull’offerta (salari più alti invogliano più persone a la-
vorare); o un effetto neutrale, per cui nel complesso i posti di lavoro
non vengono né persi né guadagnati. Gli economisti hanno discus-
so a lungo circa l’impatto delle leggi sul salario minimo riguardo a
tali effetti (e su quali potrebbero essere dominanti).
IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 2021

Nel 1995, all’epoca dell’articolo, il metodo della differenza nelle


differenze adottato da Card e Krueger era piuttosto nuovo in econo-
mia: gli autori descrissero esplicitamente la metodologia a beneficio
dei lettori, sebbene questi fossero a loro volta esperti ricercatori econo-
mici. Oggi agli articoli che utilizzano tecniche come la differenza nel-
le differenze basta menzionare il nome del metodo affinché qualsia­si
ricercatore sappia a che cosa ci si riferisce: questo cambiamento si è
realizzato nel corso di pochi anni. Card, Angrist e Imbens non si sono
limitati a produrre ricerche di avanguardia in economia: hanno anche
scritto libri di testo essenziali per aiutare gli studenti a comprendere e
ad applicare la metodologia che sta alla base della loro ricerca. Hanno
raggiunto l’eccellenza non soltanto dedicandosi alla conoscenza tra-
mite la ricerca accademica, ma anche impegnandosi insieme a miglio-
349
rare l’insegnamento e a formare nuovi ricercatori. Inoltre, a meno di
25 anni dalla sua pubblicazione, quell’articolo di Card e Krueger sulla
modifica della legge sul salario minimo del New Jersey è diventato
una pietra miliare dell’istruzione universitaria in economia, come lo
sono i lavori dei precedenti vincitori del premio Nobel. In questo sen-
so, non sorprende che Card, Angrist e Imbens siano entrati a far parte
del gruppo degli economisti più illustri.
La «rivoluzione dell’identificazione», iniziata nel campo dell’eco-
nomia del lavoro, fissandosi su relazioni come l’impatto dei livelli sa-
lariali sull’occupazione o dell’istruzione sul reddito ecc., si è estesa a
diversi altri campi dell’economia. Per esempio, molti studi empirici
sulla finanza aziendale si basano su esperimenti naturali e impiega-
no tecniche come la differenza nelle differenze per studiare l’effetto
causale di una regolamentazione sulle decisioni aziendali rispetto ad
altre imprese che non sono state toccate da quel cambiamento rego-
lamentare. Queste tecniche vengono applicate anche in settori come
la contabilità e gli studi giuridici. Di fatto, il lavoro di Card, Angrist
e Imbens ha prodotto una vera e propria rivoluzione metodologica
nell’economia e nella ricerca aziendale. E poiché le tecniche di identi-
ficazione causale si occupano di cambiamenti giuridici e di politiche
reali e vengono applicate in molti contesti, le ripercussioni di tale ri-
voluzione metodologica sono state avvertite in un ambito molto più
vasto del mondo accademico, che di per sé è un ambito ristretto.
ARTICOLI

Il lavoro condotto da Card, Angrist e Imbens si occupa di questioni


come il salario minimo, le assicurazioni professionali e altre agevolazio-
ni, di politiche educative come la frequenza obbligatoria, le dimensioni
delle classi e le borse di studio e così via. Sono quindi studi di natura
molto pratica e, come il giorno dopo l’assegnazione del premio ha affer-
mato sul New York Times Paul Krugman – insignito anch’egli in pre-
cedenza del premio Nobel per l’economia –, hanno implicazioni dirette
sulle politiche locali e nazionali, sui mercati del lavoro e sull’istruzione1.
In questo senso, aggiunge Krugman, non bisogna considerare irrile-
vante il contributo «metodologico» che la commissione del premio ha
tenuto a evidenziare. I tre Nobel 2021, con le loro ricerche sia empiriche
sia teoretiche, hanno contribuito a identificare e a documentare gli ef-
fetti di politiche molto reali e molto rilevanti per la vita di tutti i giorni.
350

IL LAVORO DEI VINCITORI DEL NOBEL 2021 HA


IMPLICAZIONI DIRETTE SULLE POLITICHE LOCALI,
SUI MERCATI DEL LAVORO E SULL’ISTRUZIONE.

Un Nobel con una nota di tristezza

Come abbiamo notato in precedenza, uno dei primi lavori che


hanno inaugurato questa «rivoluzione dell’identificazione» reca le
firme di David Card e Alan Krueger. Quest’ultimo aveva collabo-
rato anche con Angrist su una fondamentale questione di carattere
economico: il rapporto tra istruzione e reddito. Ma Krueger, pur
essendo a sua volta un economista fecondo, non è stato tra i vincito-
ri del 2021. Infatti, la sua vita si è conclusa nel marzo del 2019, tra lo
sgomento di chi gli era vicino. L’annuncio dei Nobel 2021, quindi,
serve anche a ricordare l’assenza di Krueger, la scomparsa di un’al-
tra grande mente a cui dobbiamo essenziali contributi al pensiero
economico più recente. Era accaduto lo stesso nel 1997, quando il
premio assegnato a Robert Merton e a Myron Scholes per la ricerca
sul prezzo degli strumenti finanziari aveva fatto pensare a molti alla

1. P. Krugman, «Doing Economics as if Evidence Matters», in The New York


Times, 12 ottobre 2021.
IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA 2021

scomparsa di Fisher Black, che aveva sviluppato la formula-chiave


insieme a Scholes, ma nel frattempo era morto di cancro.
A quanti conoscevano il lavoro dei premi Nobel 2021 l’omissione
del nome di Krueger ha ricordato che a volte anche le persone più ge-
niali e popolari possono patire invisibili sofferenze. Nel nostro mon-
do c’è una tendenza a idealizzare e a romanticizzare l’idea di fama, di
successo o anche di genio. Tuttavia, come ha più volte ricordato papa
Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, ogni persona si scopre fragile,
ferita e debole. Non possiamo sorvolare su quelle ferite mascherando-
le semplicemente sotto il manto dell’intelligenza o del successo.
La preoccupazione che i premi Nobel 2021, insieme a Krueger e
a molti dei loro coautori, hanno mostrato per i bambini (soprattutto
quelli delle famiglie più povere), per i lavoratori sottopagati, i mala-
351
ti, i veterani di guerra indica come l’impegno accademico – anche
di carattere metodologico – possa affrontare significativamente le
questioni che affliggono i più bisognosi della nostra società. Il ri-
cordo di Alan Krueger, alla luce di questo Nobel 2021, ci fa capire
che l’ideale di aiutare coloro che soffrono non dovrebbe limitarsi a
definire un insieme di «altri» che possiamo facilmente identificare
attraverso alcune caratteristiche osservabili.

Premi recenti e loro rilevanza nell’ambito delle priorità ecclesiali

È difficile, se non impossibile, offrire in breve una panoramica di


tutti gli argomenti su cui i premi Nobel 2021 hanno lavorato nel cor-
so della loro carriera accademica, e tantomeno illustrare la ricchezza
dei risultati che sono riusciti a documentare. Vale tuttavia la pena di
ricordare che il loro lavoro affronta temi fondamentali per la dottrina
sociale cattolica: il miglioramento dell’esistenza attraverso l’educazione
e le politiche salariali; lo studio dell’impatto dei cambiamenti volti a
migliorare la vita delle persone e il loro benessere economico; l’iden-
tificazione delle dinamiche che consentono alle politiche e alle deci-
sioni di raggiungere efficacemente lo scopo e la popolazione a cui si
indirizzano. Sotto il profilo metodologico, il lavoro di Card, Angrist e
Imbens ha trovato applicazione anche in studi che riguardano la Chie-
sa. In particolare, un articolo pubblicato in una prestigiosa rivista di
economia nel 2019 utilizza come esperimento naturale gli sforzi mis-
ARTICOLI

sionari dei gesuiti del XVII secolo in America Latina2. L’autore mostra
come oggi, 250 anni dopo l’opera missionaria dei gesuiti, le regioni
in cui essi stabilirono delle missioni raggiungano risultati economici
migliori rispetto a quelle circostanti (dove non ne erano state insedia-
te). Questo effetto viene attribuito alla cura dei gesuiti per l’istruzione,
che ha permesso alle successive generazioni delle popolazioni locali di
trasmettersi competenze e di impegnarsi in attività produttive.
L’interesse degli scienziati appena insigniti del Nobel per questioni
centrali nell’insegnamento sociale della Chiesa non è un fatto isolato nel-
la storia recente del premio. Nel 2019 il riconoscimento è stato assegnato
a Abhijit Banerjee e a Esther Duflo, due economisti che hanno dedicato
il loro lavoro alla povertà globale e ai mezzi per alleviarla. Nel 2015 il
comitato ha insignito Sir Angus Deaton, con l’esplicito intento di pre-
352
miarne il lavoro «sui consumi, sulla povertà e sul welfare» e, più specifi-
camente, sulle cause determinanti della povertà e della disuguaglianza3.
Più in generale, è logico che l’economia abbia molti legami con i temi
della dottrina sociale della Chiesa e con quella cura dei più bisognosi alla
quale spinge il Vangelo, dato che il suo campo di azione riguarda la di-
stribuzione di beni e di servizi e l’aumento del benessere. Il premio Nobel
per l’economia di quest’anno ci ricorda che tali questioni, sebbene siano
complesse e richiedano il coinvolgimento personale di tutti i cristiani e
delle persone di buona volontà, possono essere studiate e comprese anche
in chiave sistematica. Perciò offre un’ulteriore conferma del fatto che, se
vogliamo testimoniare la parola di Dio nel mondo, fede e ragione devo-
no sempre operare insieme. Questo modo di vedere, ben presente negli
scritti dei primi Padri della Chiesa, riecheggiato da sant’Anselmo e trat-
tato più recentemente da san Giovanni Paolo II, è tanto più necessario se
vogliamo che la nostra vocazione cristiana porti frutto e migliori la vita
di quanti vivono accanto a noi, specialmente dei più bisognosi.

2. Cfr F. Valencia Caicedo, «The Mission: Human Capital Transmission,


Economic Persistence, and Culture in South America», in The Quarterly Journal of
Economics, n. 134, 2019, 507-556.
3. Cfr «Nobel Prize in Economic Sciences 2015. Press Release», in www.
nobelprize.org/prizes/economic/sciences/2015/press-release/, 12 ottobre 2015.
«LA CARNE È TRISTE! AHIMÈ!
E HO LETTO TUTTI I LIBRI»
Sette immagini dell’esperienza letteraria
Antonio Spadaro S.I.

Il rapporto tra la vita e la letteratura è sempre stato inquieto e


complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa
relazione, che è stata ora affermata ora negata, ora desiderata, ora
respinta. L’ultima poesia del poeta statunitense Raymond Carver1
può aiutarci a comprendere come la letteratura non può non avere a 353
che fare con le nostre più profonde aspettative.
E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? /
Sì / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra2.
Carver scrive questa poesia, dal titolo Ultimo frammento, poco prima di
morire. È una sorta di testamento. Le risposte alla domanda dei primi
versi possono essere molteplici e sfumate, ma la domanda è in sé dram-
matica, cioè mette in gioco la libertà. L’esperienza creativa non può
eluderla, se vuole essere se stessa. Ogni opera letteraria degna di questo
nome deve confrontarsi con la domanda posta dai versi di Carver.
Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: «La letteratura è impos-
sibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la
letteratura perché solo l’amore e la Fede ci consentono di uscire da
noi stessi»3. Ma per andare dove? Pier Vittorio Tondelli4, scrittore
scomparso nel 1991 a soli 36 anni per Aids, scrisse tra i suoi ultimi
appunti: «La letteratura non salva, mai». Sono parole che ricordano
drammaticamente anche gli ultimi versi di Clemente Rebora: Lungi
da me la scappatoia dell’arte / per fuggir la stretta via che salva!

1. Cfr A. Spadaro, Creature di caldo sangue e nervi. La scrittura di Raymond


Carver, Milano, Ares, 2020.
2. And did you get what / you wanted from this life, even so? / I did. / And what
did you want? / To call myself beloved, to feel myself / beloved on the earth.
3. J. Cocteau - J. Maritain, Dialogo sulla fede, Firenze, Passigli, 1988, 56.
4. Cfr A. Spadaro, Lontano dentro se stessi. L’ attesa di salvezza in Pier Vittorio
Tondelli, Milano, Jaca Book, 2002.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 353-363 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


ARTICOLI

L’arte costituirebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di


tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell’in­
finita vanità del tutto. È Stéphane Mallarmé a mettere in relazione la tri-
stezza della carne con la vanità della lettura di tutti i libri: La chair est tri­
ste, hélas! Et j’ai lu tous les livres («La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti
i libri»). Che farsene di parole scarse, e forse senza sole, come le definiva
Sandro Penna, o di qualche storta sillaba e secca come un ramo, secondo
quanto scriveva Montale? È tutta qui la poesia, la letteratura?
Per rispondere, accostiamoci a Marcel Proust. A suo giudizio, infatti, la
letteratura è una forma di «ritiro», in cui, nella solitudine, si fanno «tacere
le parole», le nostre e quelle degli altri, con le quali giudichiamo le cose e
la vita «senza essere noi stessi»5. Ma questo ritiro non è forse anche un «ri-
trarsi» dalla vita? In effetti, all’interno dello spazio aperto dal libro, Proust
354
notava come i suoi pomeriggi dedicati alla lettura contenessero «più avve-
nimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un’intera vita»6.
Erano gli avvenimenti che si susseguivano nel libro che stava leggendo.
Sorgono quindi altre due domande interessanti: la vita contiene meno vita
della letteratura? La letteratura è più vita della vita stessa?
Sembra in effetti che la letteratura sostituisca la vita o che almeno
riesca a rimpiazzare momenti di tedio, trasformandoli in minuti, ore,
giorni di pura avventura7. In realtà la letteratura non serve a sostituire
la vita. Semmai è vero che ci sono aspetti della vita che spesso noi co-
nosciamo solo nella lettura8. La grandezza dell’arte vera infatti è quella
«di ritrovare, di riafferrare, di farci conoscere quella realtà lontani dalla
quale viviamo, […] quella realtà che rischieremmo di morire senza aver

5. M. Proust, Contro Sainte-Beuve, Torino, Einaudi, 1991, 18 s. Addirittura


ci sono casi nei quali la lettura può «reintrodurre perpetuamente una coscienza pigra
nella sua vita spirituale» (Id., Del piacere di leggere, Scandicci [Fi], Passigli, 1997, 36).
L’unico rischio anzi è quello che la lettura, invece di risvegliare alla vita individuale
dello spirito, tenda a sostituirsi ad essa.
6. Id., Alla ricerca del tempo perduto. I. La strada di Swann, Milano, Mondadori,
1983, 103.
7. L’autore della Recherche afferma che in qualche modo i pomeriggi dedicati
alla lettura appaiono come «accuratamente ripuliti dai mediocri incidenti della
mia esistenza personale che avevo rimpiazzati con una vita di strane avventure e
aspirazioni in un paese irrorato d’acque vive!» (ivi, 107). Ecco allora che il romanziere
«scatena in noi, nello spazio di un’ora, tutte le possibili gioie e sventure che, nella
vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte» (ivi, 104 s).
8. Cfr ivi.
SETTE IMMAGINI DELL’ESPERIENZA LETTERARIA

conosciuta e che è, molto semplicemente, la nostra vita»9. Dunque, in


sintesi: l’arte ci fa conoscere la vita, al di là della conoscenza convenzionale
che di essa abbiamo. Ma allora, come la letteratura ci fa conoscere la vita?
Qui, in estrema sintesi, proveremo a rispondere a questa domanda
attraverso sette immagini pertinenti all’esperienza letteraria, capaci di
fare luce sull’esperienza creativa: la camera oscura, l’idraulica, la dige-
stione, lo scoppio, il fuoco, la montagna, la conchiglia. Sono semplici
suggestioni di un elenco che potrebbe essere infinito.

La camera oscura

Un romanzo, scrive Proust, è «una sorta di strumento ottico», che


consente al lettore di «sviluppare» ciò che forse, senza il libro, non
355
avrebbe osservato dentro di sé10. Il ruolo della lettura è fotografico: gli
uomini spesso non vedono la loro vita, e così il loro passato diviene
ingombro di tante lastre fotografiche che rimangono inutili perché
l’intelligenza non le ha «sviluppate»11. La letteratura invece è come un
laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini
della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco, dun-
que, a che cosa «serve» fondamentalmente la letteratura: a sviluppare le
immagini della vita, a salvare la nostra esistenza dall’incomprensibilità.
Possiamo chiederci: come è possibile? La letteratura non mi
parla della mia vita, ma di storie di altri. Appunto: la passione per
la lettura richiede delle condizioni, vi è uno «straniamento», per il
quale il mondo in cui ci si immerge nella lettura non è più il nostro,
il solito: la Yourcenar e i suoi lettori entrano nel tempo di Adriano,
come i lettori di Kafka si muovono verso l’irraggiungibile Castello,
e i lettori di Carroll entrano nel Paese delle meraviglie…
Tuttavia, è proprio a partire dalla cripta del testo letterario e dai suoi
sotterranei che è possibile rimettere in questione sia la nostra percezio-
ne comune delle cose sia la nostra personale esistenza in un gioco di
immagini, interpretazioni e significati colti con maggiore chiarezza.
Ecco allora la via per comprendere la virtù paradossale della lettura:

9. Id., Alla ricerca del tempo perduto. IV. Il tempo ritrovato, cit., 577.
10. Cfr ivi, 596.
11. Cfr ivi, 577 s.
ARTICOLI

«quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso»12, entrare in un


mondo diverso rispetto a quello della nostra vita per discernere il senso
proprio del nostro mondo.
Ma per sviluppare le immagini della vita è necessaria una ca-
pacità di «visione». Lo scrittore è chiamato ad avere una visione
«anagogica» del mondo, cioè capace di intuire più livelli di realtà
in un’immagine o in una situazione. Egli vede prima in superficie,
ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di
arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata.
Sa andare in profondità. E per far questo è necessario forse a certain
grain of stupidity (Flannery O’Connor), «un granello di stupidità»,
quello che serve a tenere gli occhi imbambolati sul reale, paziente-
mente, uno sguardo che non si accontenta della superficie e dell’oc-
356
chiata rapida e fugace13.

L’idraulica
Si chiedeva il critico francese Charles Du Bos: «Senza la let-
teratura, cosa sarebbe la vita?». La risposta che ci offre sembra
eccessiva e tuttavia resta appropriata nella sua ispirazione fon-
damentale. Eccola: «Non sarebbe altro che una cascata da cui
tanti di noi sono sommersi, talmente insensata che noi, incapaci
di interpretare, ci limitiamo a subire. Di fronte a tale cascata,
la letteratura assolve le funzioni dell’idraulica: capta, raccoglie,
convoglia e solleva le acque»14.
In poche parole: senza la letteratura, la vita rischierebbe di
essere come «allagata» dall’esperienza. La letteratura, rimanendo
nella metafora, incontra l’uomo, il lettore, sotto il pelo dell’acqua
che è quel prosaico e scialbo significato letterale, quella «lettera-
lità» che «uccide», come ricorda san Paolo (cfr 2 Cor 3,6). La vita
letteralizzata è quella ridotta al senso comune, all’apparenza, alla
banalità illuministica della superficie.

12. D. Pennac, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1993, 14.


13. Cfr A. Spadaro, «La letteratura nel territorio del diavolo. La poetica di
Flannery O’Connor», in Civ. Catt. 2001 IV 36-45.
14. Ch. Du Bos, Che cos’è la letteratura? Quattro lezioni americane, Rimini
Panozzo, 1996, 13.
SETTE IMMAGINI DELL’ESPERIENZA LETTERARIA

La digestione

Alla lettura è stato spesso associato un ruolo di elaborazione «di-


gestiva» del testo: la ruminatio della mucca ne è il modello, si potreb-
be dire, ricordando, come fa ad esempio il gesuita Michel de Certeau,
anche gli autori della grande tradizione spirituale, quali Guillaume de
Saint-Thierry e Jean-Joseph Surin. Proprio Surin parla di «stomaco
dell’anima». Si potrebbe elaborare una vera e propria «fisiologia della
lettura digestiva»15. Proseguendo su questa linea, si può dire anche che
la lettura è uno «stomaco per digerire la realtà», come aveva scritto Ton-
delli. In altri termini, possiamo parlare di «assimilazione». La letteratura
è quel linguaggio capace di trasformare in sé il mondo e le esperienze16.
La letteratura dice la nostra presenza nel mondo, la interpreta e
la «digerisce», cogliendo ciò che va oltre la superficie del vissuto per 357
discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Da ciò com-
prendiamo che l’esperienza della poesia non è mai di «evasione».
Chi scrive prende posto nell’universo e, a partire da questa po-
sizione, in modo realistico, fantastico, utopico o satirico elabora il
proprio mondo, reinterpretandolo, amandolo o contestandolo, dige-
rendolo, assimilandolo.

Lo scoppio

Iris, una bella poesia di William Carlos Williams17 – forse il


primo grande vero poeta americano nel senso pieno del termine,
cioè non semplicemente post-britannico – prende il suo avvio da
una esplosione: Uno scoppio d’iris così / scesi per la / colazione / esplo­
rammo tutte le / stanze in cerca / di / quel profumo dolcissimo e da /
prima non riuscimmo a / scoprirne la / sorgente poi un azzurro come /
di mare ci / colse / in sussulto improvviso di tra / gli squillanti / petali18.

15. M. de Certeau, Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (Secoli
XVI e XVII), Firenze, Olschki, 1989, 139 s.
16. Cfr J.-C. Renard, «Poesia, fede e teologia», in Concilium 12 (1976) 36-61; 45.
17. Cfr A. Spadaro, «“Nelle vene d’America”. William Carlos Williams
(1883-1963)», in Civ. Catt. 2003 III 221-234.
18. A burst of iris so that / come down for / breakfast / we searched through the /
rooms for / that / sweetest odor and at / first could not / find its / source then a / blue
as / of the sea / struck / startling us from among / those trumpeting / petals.
ARTICOLI

La poesia prende il suo avvio con uno scoppio. La pagina, appe-


na aperta, «esplode» agli occhi del lettore, proponendogli un’immagine
deflagrante. Come e dove il poeta coglie questa immagine, che nell’o-
riginale ha in sé anche un suono iniziale esplosivo di onomatopea (a
burst…)? Non lo sappiamo, però possiamo facilmente intuire che si trat-
ti di una visione puntuale ma intensissima, da occhi spalancati, capaci di
cogliere i petali dell’iris come trombe squillanti (trumpeting). Williams,
in questi versi, coglie ed esprime tutta la potenza deflagrante del reale.
È possibile accostare a Iris un’altra poesia esplosiva, cioè Costrizione
del poeta messinese Bartolo Cattafi19, un autore che sembra riassumere
in sé tutta la parabola del Novecento poetico: Siamo ora costretti al con­
creto / a una crosta di terra / a una sosta d’insetto / nel divampante segreto
del papavero. I suoni dei primi tre versi (str tt cr cr st rr st tt) dicono tutto
358
lo scricchiolìo della posizione precaria dell’uomo sulla Terra. Tuttavia,
l’ultimo verso fa esplodere questa posizione, circoscrivendola in una
fiammata: il divampante segreto del papavero (pam pa pa).
Anche questa poesia testimonia uno sguardo capace di cogliere la po-
tenza dirompente del reale. Ecco dunque delineata la quarta immagine
che ci aiuta a capire come la letteratura ci fa conoscere la vita: l’immagine
di una esplosione. Le due poesie sono esplosive e, scoppiando, comuni-
cano una nuova conoscenza del reale. Colgono un’immagine, e questa,
nell’osservazione, esplode: il papavero «divampa», l’iris «scoppia». È questa
dinamica esplosiva la vera utilità di un’opera d’arte, anche letteraria.
Siamo agli antipodi di ciò che scriveva Montale nel suo celebre
verso Non domandarci la formula che mondi possa aprirti e invece vi-
cinissimi al poeta gesuita inglese Gerard Manley Hopkins20, il quale,
col suo occhio d’aquila, nella poesia God’s Grandeur coglie come vive
in fondo alle cose la freschezza più cara (There lives the dearest freshness
deep down things). Il poeta non solo coglie la sostanza del reale, del
«mondo», ma assiste anche alla sua espansione, alla sua «dichiarazio-
ne», per usare ancora un termine di Montale. Se un romanzo, un
racconto o una poesia non dichiarano un mondo e non lo spalancano
con un botto davanti al lettore – non importa se in modo realista o

19. Cfr A. Spadaro, «“Scoprire senza selci l’altro fuoco”. La poesia di Bartolo
Cattafi», in Civ. Catt. 2002 I 245-258.
20. Cfr Id., «“Vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. La poesia di Ge-
rard M. Hopkins», in Civ. Catt. 2006 IV 234-247.
SETTE IMMAGINI DELL’ESPERIENZA LETTERARIA

surrealista – non fanno compiere al lettore una vera esperienza, non


fanno conoscere nulla: sono vuoto e noia. Anche Montale ha visto un
«croco», coglie la sua grazia, ma l’esplosione fallisce, resta il silenzio,
la grazia rimane sorda. Rimane la polvere: Non chiederci la parola che
squadri da ogni lato / l’animo / nostro informe, e a lettere di fuoco / lo di­
chiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato.
L’opera letteraria che non apre mondi può ridursi solo a polvere,
e cioè a tre cose: a ideologia, a sentimentalismo o a «esperimento»
linguistico. Polvere, appunto.

Il fuoco

Invece la poesia non è polvere, ma fuoco. La parola «poetica», cioè


359
letteraria, creativa, brucia ma non si consuma, rivelando una presenza
permanente che la abita. Quando la parola è davvero «poetica» – cioè
creativa –, diviene come un biblico roveto ardente. Quando è letta,
diventa attiva nel lettore, comunica la sua potenza espressiva, ma non
si disperde, non si infiacchisce nella lettura: è un fuoco che il suo ardore
rigenera (Mario Luzi21). E soprattutto non «divora» il lettore annul-
landolo, assimilandolo a se stessa. Il fuoco prodotto da selci brucia e
consuma in sé. L’esperienza della letteratura invece è generata da un
«altro fuoco», che infiamma ma proprio per questo potenzia.
Ecco, dunque, la necessità di scoprire senza selci l’altro fuoco,
come afferma un verso di Cattafi. Il poeta messinese, infatti, nel
1964, dopo essere stato segnato dalla dolorosa perdita della madre,
da una deludente vicenda amorosa – giunta dopo vari amori mer-
cenari – e da difficoltà economiche, dovute all’incapacità di trovare
un’occupazione stabile, scrive, pubblica L’ osso, l’anima, che segna la
sua definitiva consacrazione poetica. Per lui è chiaro: Tutto apparve
concorde con un giro / centripeto di vortice / un senso precipite d’abisso.
Tutto gira in un vortice centripeto abissale. Come venirne fuo-
ri? Esiste una «salvezza» dal vortice? La questione drammatica assu-
me eminentemente una forte tensione di tipo conoscitivo sul senso
delle cose e si riversa nella scrittura poetica. L’io sembra essere tutto

21. Cfr Id., «Il viaggio di un “estremo principiante”. La poesia di Mario Luzi»,
in Civ. Catt. 2006 IV 554-567.
ARTICOLI

concentrato su se stesso, unico punto di autoriferimento. L’io da


sé solo è cieco, non riesce da solo a far chiarezza sul mondo: non
vedemmo le cose, c’era buio (Autocondanna). Occorre una luce che
illumini secchi e squadrati / i nostri metri di mondo.

LA PAROLA POETICA È UN’«INVISIBILE FIAMMA»


CHE RESTA VIVA E LASCIA VIVI.

La luce giunge improvvisa e non è frutto dello sforzo umano. Non è


il fuoco di Prometeo, non è un fuoco umano. Cattafi parla chiaramente
della necessità (o del desiderio) di scoprire un altro fuoco (Preistoria).
La vera esperienza estetica rafforza l’uomo, non lo annienta,
360
come invece fa l’ideologia o la mistificazione. La parola poetica è
un’invisibile fiamma (Olga Sedakova), che resta viva e lascia vivi.
Anzi, produce i suoi effetti lentamente, modificando nel lettore il
suo modo di vedere il mondo, la realtà, la sua stessa vita. Chi di
noi, infatti, non è stato influenzato, in un modo o nell’altro, da un
personaggio di un romanzo o dal verso di una poesia? Chi non si
è sentito «infiammare» da una parola poetica che, come ha scritto
Carver, ha legna da ardere / proprio al centro, legna da ardere intrisa /
di resina? Ecco perché la poesia ha vento di fuoco, come scrive Alda
Merini22. Ovviamente qui fiamme e fuoco hanno potenza di sim-
bolo, per dire ciò che brucia la vita umana senza consumarla: Il mio
desiderio è che in cima / al cuore scocchi la corda della parola; / ma mi
trasformo in arco, sono proprio l’arco / su cui poggia la freccia ancora
accesa. Sono versi di un grande poeta giapponese contemporaneo,
Kikuo Takano23, così come è possibile tradurli nella nostra lingua
italiana. La parola, freccia accesa, è anche la tensione della corda che
la lancia, in realtà. La parola della letteratura, dell’espressione crea­
tiva di ogni essere umano è una corda tesa, in tensione, in attesa.

22. Cfr Id., «“Altrove è il canto, altrove è la parola”. L’ispirazione religiosa della
poesia di Alda Merini», in Civ. Catt. 2004 IV 119-132.
23. Cfr Id., «Kikuo Takano. “Afferrare l’azzurro del mare”», in Civ. Catt. 2010
III 367-380.
SETTE IMMAGINI DELL’ESPERIENZA LETTERARIA

La montagna
La letteratura ha un «destino», è tensione d’attesa come una freccia
infuocata, ricorda una direzione, una destinazione. È l’esperienza del
poeta statunitense Wallace Stevens, per il quale, in The Poem that Took
the Place of a Mountain, la poesia è come una montagna. Ecco la sesta
immagine. Qui il poeta parla di sé in terza persona24: Era là, parola per
parola, / La poesia che prese il posto di un monte. / Egli ne respirava l’ossi­
geno, / Perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo. / Gli
ricordava come avesse avuto bisogno / Di un luogo da raggiungere nella
sua direzione, / Come egli avesse ricomposto i pini, / Spostato le rocce e
trovato un sentiero / fra le nuvole, / Per giungere al punto d’osservazione
giusto, / Dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:
/ La roccia esatta dove le sue inesattezze / Scoprissero, alla fine, la vista 361
che erano andate guadagnando, / Dove egli potesse coricarsi e, fissando in
basso il mare, / Riconoscere la sua unica e solitaria casa.
Non sappiamo se Stevens stesse vedendo una montagna, ma certo
scrivere una poesia diventa per lui il vero modo di fare esperienza di
una montagna, di goderne gli effetti, di conoscerla davvero. Ha scritto
il teologo Karl Rahner che noi conosciamo il mondo grazie alle parole,
ma che è anche vero che la cosa conosciuta, proprio grazie alla paro-
la, «afferra» chi conosce. Così, «grazie alla parola l’oggetto conosciuto
può penetrare dentro lo spazio esistenziale dell’uomo e questo ingresso
segna il reale attuarsi della stessa conoscenza»25. Io conosco, dunque,
perché grazie alla parola della poesia la cosa che conosco entra sul serio
nella mia vita. Stevens conosce la montagna perché la parola della poe­
sia conduce la montagna dentro la sua esistenza.
Scrivere una poesia, per Stevens, diviene allora come scalare un
monte. E per lui questo significa avere una direzione, ricordare che c’è

24. There it was, word for word, / The poem that took the place of a mountain. / He
breathed its oxygen, / Even when the book lay turned in the dust of his table. / It reminded
him how he had needed / A place to go to in his own direction, / How he had recomposed the
pines, / Shifted the rocks and picked his way / among clouds, / For the outlook that would be
right, / Where he would be complete in an unexplained completion: / The exact rock where
his inexactness / Would discover, at last, the view toward which they had edged, / Where he
could lie and, gazing down at the sea, / Recognize his unique and solitary home.
25. K. Rahner, «Sacerdote e poeta», in Id., La fede in mezzo al mondo, Alba
(Cn), Paoline, 1963, 141. Cfr Id., Sacerdote e poeta, Cinisello Balsamo (Mi), San
Paolo, 2014; Id., «Letteratura e cristianesimo», ivi.
ARTICOLI

una meta, una exact rock, cioè una «roccia esatta», da raggiungere, no-
nostante tutte le nostre inesattezze. Questa è la scrittura umana, vera,
ricca di senso, quella che procede affilata e dritta come una freccia e
sa così persino spaccare le rocce e spostare i pini, pur di non perdere
la forza della sua direzione. Una scrittura senza una «roccia esatta» da
raggiungere è una macchia su carta porosa, stagno inutile e sciolto.
Ecco allora la domanda da porsi davanti a una poesia o a una narrazio-
ne: qual è la sua «roccia esatta»? Dove sta andando? Dove mi porta? Quale
meta mi indica? E con quale forza? Con quale sguardo? Lo scrittore au-
tentico sa spostare le rocce e trovare sentieri tra le nuvole per guadagnare
la vista giusta, il giusto punto di osservazione dove si ottiene una pienez-
za, una completezza che, dice Stevens, resta inspiegabile. «Affacciandoci»
dalla vera poesia possiamo guardare in basso e riconoscere la nostra vita.
362

La conchiglia

Le parole non sono identiche le une alle altre, non hanno lo stesso
peso specifico, anche all’interno della stessa lingua, come fossero oggetti
interscambiabili. Ogni loro classificazione è variabile, instabile, mobile.
La differenza fondamentale – secondo Karl Rahner – è tra parole che
sono come «farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari»26 e pa-
role viventi, che esistono da sempre e che, «quasi per miracolo, rinasco-
no continuamente»27. Una distinzione più sottile riguarda le parole che
riescono a chiarire i dettagli, il particolare, e le parole che fanno «brillare
il tutto nella sua unità»28. Le prime danno conoscenza, le seconde sa-
pienza. Ci sono parole, dunque, che attraverso l’indicazione di una cosa
sola «lasciano trasparire la infinita gamma della realtà, simili a conchi-
glie dentro le quali risuona il vasto mare dell’infinità. Sono esse che ci
illuminano e non noi ad illuminarle. Esse esercitano un potere su di noi,
perché sono doni di Dio e non invenzioni umane, anche se è grazie alla
tradizione degli uomini, che sono potute giungere fino a noi»29.
La conchiglia (Muschel) è l’efficace simbolo per dire l’infinità pre-
sente nella finitudine della parola. Questa immagine ci aiuta a com-

26. Id., «Sacerdote e poeta», cit., 135.


27. Ivi, 134.
28. Ivi.
29. Ivi.
SETTE IMMAGINI DELL’ESPERIENZA LETTERARIA

prendere meglio la forma di conoscenza, di rapporto tra intelligenza e


sensibilità. L’intuizione sensibile guida non alla definizione delle cose,
cioè alla conoscenza scientifica, ma verso una intensa evocazione, ver-
so una conoscenza simbolica e dunque più «oscura». Ci sono paro-
le chiare e parole oscure. Le prime sono senza mistero, superficiali,
sufficienti per la mente. Le seconde sono oscure perché «evocano il
mistero luminosissimo delle cose»30. Sono queste le parole della poesia,
le parole-conchiglia, opposte a quelle «farfalla infilzata».
Le parole–conchiglia sono simili a quelle di Adamo. In esse si avverte
l’eco del primo giorno della creazione31. È vero che la realtà esiste anche se
non è conosciuta e affermata, ma questa realtà riceve «intensità esistenzia-
le» quando perviene alla parola: è ciò che ci comunica Adamo che nomina
la creazione. Il poeta è colui che in modo denso e ricco prosegue l’opera
363
di Adamo: «Il poeta non è un uomo che dice con superflua ricchezza di
immagini e con fare compiaciuto, mediante le rime e con un profluvio
di parolette sentimentali, ciò che altri – i filosofi e gli scienziati – hanno
detto in un modo più chiaro, più oggettivo e più comprensibile»32.
Il pericolo sempre in agguato è quello di vedere nella parola poetica
solamente una felice illustrazione di ciò che potrebbe essere detto più
brevemente e con più precisione e restare fissato nell’ordine del concet-
to. La parola-conchiglia ha il potere di dire ciò che nessun altro tipo di
costruzione speculativa potrebbe giungere a esprimere.

***
Allora sì, l’esperienza di Mallarmé, quella della «tristezza» della car-
ne nonostante la lettura di «tutti i libri», è vera solamente se conside-
riamo la parola poetica vanità, illusione. Le immagini che abbiamo
fornito danno una lettura diversa dell’esperienza letteraria. La camera
oscura, l’idraulica, la digestione, lo scoppio, il fuoco, la montagna, la
conchiglia sono immagini che ci aiutano a comprendere il rapporto
forte tra una pagina letteraria e la nostra vita. Esso sempre e comunque
rientra in quello che si potrebbe definire un «esercizio spirituale». E una
spiritualità priva di immaginazione è come un cembalo che tintinna.

30. Ivi.
31. Cfr ivi, 144.
32. Ivi.
PARTE AMENA

Joaquín
CIERVIDE
DISCIPULO AMADO, EL CUENTO

Agapito, está linda la mar


y el viento
lleva esencia sutil de azahar
portento
364
de Espíritu, aroma de amar.

Yo siento
Agapito, que quiero contar
un cuento.

Érase una vez, un viejecito llamado…

… como tú,
como el agua de mi fuente
como tú,
como el fuego de mi hogar,
como tú,
como el fuego de mi hoguera,
como tú,
como el trigo de mi pan
y agapèo, agapán
en griego se dice ‘amar’.

Repito.
Era un viejecito
llamado Agapito,
JOAQUÍN CIERVIDE

LA STORIA DEL DISCEPOLO AMATO

Agapito, è bello il mare,


e il vento
di zagara porta un sentore,
portento
365
di Spirito, aroma d’amore.

E vorrei, ora,
Agapito, raccontarti
una storia.

C’era una volta un vecchietto che si chiamava...

... come te,


come l’acqua della mia sorgente,
come te,
come il fuoco della mia casetta,
come te,
come il fuoco del mio camino,
come te,
come il grano del mio pane.
Sai, agapèo, agapàn
in greco vuol dire «amare».

Non guardarmi stupito.


Era un anziano
di nome Agapito,
PARTE AMENA

natural de Alejandría,
que además de hacer el bien,
él rezaba noche y día
por amor de Dios. Amén.

Hacía tiempo que se había hecho cristiano, y ahora


ya, con sus setenta años de edad, Agapito, rezaba,
rezaba y rezaba y hasta se había aprendido de me­
moria el 4° evangelio.
366

Donde él encontraba más consuelo era allí donde


Jesús resucitado le reprendió a Tomás: “Has creído
porque me has visto. Dichosos los que aun no
viendo creen” (Jn 20, 29). Y cuando a Agapito, en
su oración, repetía dirigiéndose a Jesús “¡Señor mío
y Dios mío!” el anciano sentía tan en su corazón
la felicidad prometida por su Señor resucitado, tan
dichoso se sentía… que una vez se le apareció una
estrella.
Una noche contemplando
vio una estrella aparecer
la estrella le iba guiando
a contemplar aun sin ver.

Y así fue como se le ocurrió una idea peregrina. Y


¡sin embargo! Era su estrella, la estrella de la fe, la
estrella que le guiaba como aquella otra que había
guiado a los magos de Oriente.

Eran tres Reyes de Oriente


a los que una extraña estrella
JOAQUÍN CIERVIDE

nativo di Alessandria,
e non solo faceva del bene,
ma pregava notte e giorno
per amore di Dio. Amen.

Da tempo si era fatto cristiano, e ora,


a settant’anni, Agapito pregava,
pregava, pregava, e il quarto Vangelo
lo sapeva a memoria.
367

Soprattutto gli dava conforto quella frase di


Gesù risorto che rimprovera Tommaso: «Perché
mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che
non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29).
E quando il vecchio Agapito, in preghiera,
si rivolgeva a Gesù e gli ripeteva: «Mio Signore
e mio Dio!», sentiva in cuore la felicità promessa
dal suo Signore risorto. Tanta gioia ne aveva...
che una volta gli apparve una stella.
Una notte contemplando
vide una stella brillare;
la stella lo andava guidando
a contemplare pur senza vedere.

E fu così che gli venne un’idea peregrina. Ma sì!


Era la sua stella, la stella della fede, la stella che
lo guidava come quell’altra aveva guidato i magi
d’Oriente.

Erano tre Re d’Oriente


a cui una strana stella
PARTE AMENA

muy alta, brillante y bella


les señalaba el poniente.

“Venid, seguidme a mi paso”


- la estrella les proponía –
“Quiero serviros de guía
a la estrella sin ocaso.”

“No traigáis manos vacías,


368
llevad regalos al Niño,
mostradle vuestro cariño,
le encantan las chucherías”

Llegando a Jerusalén
sin estrella se quedaron.
Unos sabios opinaron
que buscaran por Belén.

Y así, al Niño bonito,


los tres con grave decoro
le dan mirra, incienso y oro
y un don que no se halla escrito:

Roscón de las Reinas Magas:


de leche, azúcar y harina
y un haba en la masa fina.
Si a ti te toca, tú pagas.

Ahora bien: el Belén a donde su estrella guiaba a


Agapito era el regazo de Jesús donde Agapito se
podía acurrucar por la fuerza de la fe puesto que
JOAQUÍN CIERVIDE

altissima, luminosa e bella


indicava il Ponente.

«Venite, seguite il mio andare»,


l’astro propose al terzetto.
«Vi guiderò, lo prometto,
fino alla stella che non scompare».

«Non venite senza nulla,


369
al Bimbo dei doni portate.
Mostrategli amore, volete?
Fate che rida nella culla».

Giunti a Gerusalemme,
la stella d’improvviso sparì.
Qualche sapiente di lì
li mandò verso Betlemme.

E così al Bambino benedetto


quei tre, con grande decoro,
offrono mirra, incenso e oro
e un dono di cui non si è detto:

le Maghe consorti, dal regno,


mandarono un dolce composto
di zucchero, latte e farina. Nascosta,
una fava: chi la trova, paga pegno.

Ed ecco: la Betlemme a cui la sua stella guidava


Agapito era il seno di Gesù, dove Agapito poteva
riposare per la forza della fede,
PARTE AMENA

“La Palabra estaba en Dios y era Dios y era la vida,


y la vida era la luz de los hombres y la Palabra vino
a su casa y, aunque a Dios nadie lo ha visto jamás,
el Hijo único que está acurrucado en el seno del
Padre, él lo ha contado” (Jn 1,1-18, passim)

Y es así como la estrella, la idea peregrina, tomó


forma y Agapito se entremetió en la última cena,
añadiendo algo que todavía no había sido escrito en
370
el 4° evangelio: Jn 13, 23-24: “Uno de sus discípu­
los, el que Jesús amaba, estaba a la mesa al lado
de Jesús. Simón Pedro le hace una seña y le dice:
‘Pregúntale de quién está hablando”.

El asunto es que, tan luminosa le pareció su idea


que se le ocurrió entremeterse tres veces más.

Porque había contemplado


con la fuerza de la fe1,
fue el Santo Espíritu el que
formó al Discípulo Amado

El contemplar encendido
es cosa de admiración,
deja nuestro ser henchido
de suave consolación.
Es Dios quien pone su nido
en el ser arrodillado.
El que, cuando busca, reza

1. Cfr Hb 11,1.
JOAQUÍN CIERVIDE

perché «il Verbo era presso Dio ed era Dio ed era


la vita, e la vita era la luce degli uomini e il Ver-
bo venne a casa sua e, anche se Dio nessuno l’ha
mai visto, il Figlio unigenito che riposa nel seno
del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,1-18, passim).

E fu così che la stella, l’idea peregrina, prese forma


e Agapito s’imbucò nell’Ultima Cena,
aggiungendo qualcosa che ancora non era stato
371
scritto nel quarto Vangelo: «Uno dei discepoli,
quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco
di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno e gli disse:
“Chiedigli di chi sta parlando”» (Gv 13,23-24).

Fatto sta che quella sua idea gli parve così


luminosa che riuscì a infilarsi altre tre volte.

Perché aveva contemplato


con la forza della fede1,
fu il Santo Spirito che diede,
che istruì il Discepolo Amato.

Amoroso contemplare,
che fortuna inaudita:
ci colma mente e cuore
di consolazione infinita.
È Dio che fa il suo nido
nell’orante inginocchiato.
Chi cerca, e intanto prega

1. Cfr Eb 11,1.
PARTE AMENA

con ansias de enamorado


muy pronto a volar empieza
porque había contemplado

Que es bienaventuranza
el creer sin haber visto2,
apuesta de confianza
en el Dios de Jesucristo
con ilusión y esperanza.
372
Y es que el corazón ve3
lo que la vista no vio,
y de esa manera fue
que el discípulo creyó4
con la fuerza de la fe.

Jesús, verdad y camino,


Jesús que es nuestra vida5
nos guiaba a buen destino
hasta su triste partida
- obra de un grupo asesino.
Dios recurrió a un ‘plan B’
cambiando así su proyecto.
No preguntéis el porqué,
que Dios es siempre correcto
fue el Santo Espíritu el que…

Cuando el discípulo bueno

2. Jn 20,29.
3. Ef 1,18.
4. Jn 20,8.
5. Jn 14,6.
JOAQUÍN CIERVIDE

con fremiti d’innamorato,


presto spicca il volo
perché aveva contemplato.

Infatti, è fortuna grandiosa


credere senza aver visto2 ,
scommessa fiduciosa
nel Dio di Gesù Cristo,
ardente e speranzosa.
373
Perché il cuore vede3
quel che la vista non vide
e in questa maniera avvenne
che il discepolo credette
con la forza della fede4.

Gesù, verità e via,


Gesù che è la nostra vita5
ci accompagnava alla meta
fino alla sua triste dipartita
per mano di un gruppo assassino.
Dio ricorse a un «piano B»,
cambiando così il suo progetto.
Non domandate perché,
Dio è sempre corretto.
Fu il Santo Spirito che...

Quando il discepolo buono

2. Gv 20,29.
3. Ef 1,18.
4. Gv 20,8.
5. Gv 14,6.
PARTE AMENA

acogió a su nueva madre6,


arrebujado en el seno7
de Jesús, Verbo del Padre8,
se había sentido lleno
de un amor arrebatado.
Con agua y sangre en la cruz
fue el Espíritu entregado9
y ese Espíritu de luz
formó al Discípulo Amado.
374

Ya ha sido mencionada la presencia del ‘Discípulo


amado’ al pie de la Cruz y al lado de la madre de
Jesús, pero también lo podemos ver en la carrera
que hizo con Pedro para llegar al sepulcro vacío (Jn
20,1-10) y, por última vez en la pesca milagrosa del
lago de Tiberiades (Jn 21,1-26).

Y colorín, colorado
este cuento se ha acabado.

6. Jn 19,27.
7. Jn 13,23.
8. Jn 1,16.
9. Jn 19,30.34.
JOAQUÍN CIERVIDE

accolse la sua nuova madre6,


rifugiato nel seno7
di Gesù, Verbo del Padre8,
si era sentito pieno
di un amore infuocato.
Con acqua e sangue, sulla croce
fu lo Spirito consegnato9
e quello Spirito di luce
formò il Discepolo Amato.
375

La presenza del «Discepolo Amato» è stata già


menzionata ai piedi della Croce e accanto alla
madre di Gesù, ma lo possiamo vedere anche
quando corre insieme con Pietro verso il sepolcro
vuoto (Gv 20,1-10) e, per l’ultima volta, nella
pesca miracolosa sul lago di Tiberiade (Gv 21,1-26).

Stretta la foglia, larga la via,


dite la vostra che io ho detto la mia.

6. Gv 19,27.
7. Gv 13,25.
8. Gv 1,16.
9. Gv 19,30.34.

Nato a Pamplona, nel 1943, Joaquín Ciervide è diventato gesuita nel 1960. Ha compiuto
i suoi studi filosofici a Kinshasa e quelli teologici a Lovanio, Belgio. La sua vita apostolica
è trascorsa in vari luoghi del mondo, in particolare a servizio dei profughi e nell’impegno
educativo in questi Paesi: la Repubblica Democratica del Congo, il Rwanda, il Burundi,
il Ciad orientale, l’Ecuador, il Madagascar e il Perù. Da sempre appassionato di poesia,
ne ha scritta privatamente. Ha pubblicato saggi di letteratura africana in Congo Afrique,
e di poesia in Vida Nueva.
FOCUS

CENTO ANNI DEL PARTITO


COMUNISTA CINESE
Riflessioni di ordine politico socioeconomico
Fernando de la Iglesia Viguiristi S.I.

Il 1° luglio scorso il Partito comunista cinese (Pcc) ha com-


piuto un secolo di vita. 70.000 persone sono accorse in piazza
Tienanmen per partecipare al loro appuntamento con la storia.
Prima della cerimonia, la banda militare ha provato per ore l’inno
376
nazionale e L’Internazionale: due inni che rappresentano altret-
tante entità – lo Stato e il Partito – intimamente amalgamate.
Le bandiere rosse, che ne sono l’emblema, quasi uguali (la prima
ha cinque stelle, e la seconda la falce e il martello), sventolavano
dappertutto. Erano la principale decorazione in una coreografia
scrupolosamente allestita come cornice al discorso commemora-
tivo di Xi Jinping1.
La Cina oggi è certamente un Paese molto diverso da quello
immiserito e invaso nel quale, 100 anni fa, venne fondato il Pcc.
Oggi essa rivaleggia con gli Stati Uniti, è stata la prima ad appro-
dare sulla faccia nascosta della Luna, ha inviato una sonda su Mar-
te e ha messo in orbita una propria stazione spaziale, la Tiangong,
che in cinese significa «Palazzo celeste».

Tappe fondamentali della sua storia

Il primo Congresso nazionale del Pcc ebbe luogo dal 23 al 31


luglio 1921, nella Concessione francese di Shanghai. Vennero fissati
i suoi principali obiettivi, ispirati al leninismo: instaurare la dittatura
del proletariato e nazionalizzare i mezzi di produzione.

1. Per il video sottotitolato in italiano, cfr www.ansa.it/sito/videogallery/


mondo/2021/07/01/centenario-partito-comunista-cinese-il-discorso-di-
xi-jinping_467c882e-b850-40f1-8717-d15ebb197aa0.html

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 376-387 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE

L’influenza comunista riuscì a espandersi rapidamente sul territo-


rio, e il 1° ottobre 1949 Mao Zedong poteva proclamare la nascita
della Repubblica popolare cinese (Rpc). La sua instaurazione pose fine
a un lungo periodo di crisi e di decadenza del Paese, il cosiddetto «se-
colo di umiliazione», in cui la Cina aveva dovuto subire aggressioni
dall’esterno e accettare la perdita della sovranità su alcune parti del suo
territorio, era stata costretta a sottomettersi all’imperialismo occiden-
tale e giapponese e, alla fine degli anni Quaranta, si era vista lacerata
dalla guerra civile. Questo è certamente il primo successo da eviden-
ziare: il Pcc restituì alla Cina un senso di unità nazionale che le permi-
se di superare la lunga crisi in cui si trascinava fin dalla metà del XIX
secolo, e ne fece una potenza rispettata dalla comunità internazionale.
Un altro grande risultato si collega alle riforme avvenute ne-
377
gli ultimi 40 anni. Il Partito ha guidato un grande processo di
trasformazione economica, che ha apportato un miglioramen-
to notevole delle condizioni di vita della popolazione. Grazie ai
nuovi orientamenti assunti alla fine degli anni Settanta del secolo
scorso, la Cina ha incarnato la più grande evoluzione economica
nella storia dell’umanità, nel senso che mai prima di allora una
popolazione così ampia aveva sperimentato un simile migliora-
mento del proprio stato economico ed esistenziale in un lasso di
tempo così ridotto. La crescita economica cinese – negli ultimi
30 anni, in particolare – ha avuto dimensioni stupefacenti: grazie
a essa la Cina ha compiuto una trasformazione paragonabile a
quella della Rivoluzione industriale occidentale.
Ispirandosi al modello sovietico, presto quel Partito introdusse
un’economia pianificata sulla base di piani quinquennali. In Urss,
dopo l’elezione di Nikita Kruscev, fu avviato il processo di revisio-
ne dello stalinismo. Invece il Pcc, che era stato aiutato da Stalin nel
corso della guerra civile, si oppose alla messa in discussione delle
sue politiche. Le relazioni sino-sovietiche si guastarono e sfocia-
rono in un’aperta crisi. Così vide la luce una nuova ortodossia
marxista, il maoismo. Nella propaganda ufficiale del 1968, il pre-
sidente Mao veniva definito «il sole rosso al centro dei nostri cuo-
ri». In questo contesto, dal 1958 al 1961, il Pcc lanciò la campagna
del «grande balzo in avanti», ovvero il suo secondo piano quin-
quennale, che ambiva a trasformare rapidamente la Cina agricola
FOCUS

in una potenza industriale. Vennero create le comuni rurali e si


decise di aumentare a ogni costo la produzione di acciaio. Queste
riforme si rivelarono disastrose e causarono una grave carestia,
con milioni di morti2 . Il potere reagì organizzando campagne po-
litiche e sociali, come la Rivoluzione culturale, che provocarono
gravi sconvolgimenti. La stabilità del Paese ne fu compromessa;
seguirono persecuzioni e la morte violenta di molte migliaia di
persone. Tutto ciò avveniva in una nazione sovrappopolata, che
ospitava il maggior numero di poveri del Pianeta.
Salito al potere Deng Xiaoping dopo la morte di Mao, av-
venuta nel 1976, il Pcc cambiò radicalmente le sue politiche.
Sorgeva una nuova Cina, con un modello economico unico
nella storia, che ambiva a passare dal sistema della pianificazio-
378
ne centrale a quello di un’economia di mercato socialista. Un
passaggio tuttora in corso, sotto la guida dello stesso Partito
fondato 100 anni fa.

Un partito radicato nelle tradizioni cinesi

Il Pcc è una delle più grandi organizzazioni politiche al mon-


do. Ne sono membri il 5% della popolazione, ossia più di 95
milioni di cinesi. Si tratta di un partito politico particolare. È, di
certo, un partito comunista, ma si radica saldamente nelle tra-
dizioni della cultura cinese3. È l’unica compagine politica del
Paese, e tutti gli ambiti del potere (esecutivo, legislativo e giudi-
ziario) ricadono sotto il suo controllo.
Il sistema cinese, come si è evoluto dal 1978 a questa parte,
si differenzia dal suo modello di un tempo, il sistema sovietico.
Nell’Urss ogni transizione della suprema autorità, nei 69 anni del-
la sua durata, è avvenuta soltanto dopo la morte del leader in ca-
rica, o attraverso conflitti interni paragonabili a colpi di Stato. La
Cina, invece, è riuscita a trasferire per tre volte il potere supremo

2. Cfr J. Jisheng, Tombstone. The Great Chinese Famine 1958-1962, Hong


Kong, Cosmos Book, 2008 (ora New York, Farrar, Straus and Giroux, 2012).
3. Cfr E. Fanjul, «100 años del Partido Comunista Chino», in Real Instituto
Elcano (blog.realinstitutoelcano.org/100-anos-del-partido-comunista-chino), 27
maggio 2021.
CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE

senza scosse. Da Deng Xiaoping, che l’aveva detenuto dal 1978,


esso passò a Jiang Zemin, insediatosi nel 1993. Nel 2003 Jiang
cedette il timone del partito e il governo a Hu Jintao. Nel 2012
Hu si dimise, e ad assumere il controllo del partito, del governo e
dell’esercito fu Xi Jinping, l’attuale presidente.
Il meccanismo che presiede alla transizione della leadership
cinese fa sì che quello Stato sia stabile e resistente. In particola-
re, oltre ad altre procedure istituzionali, rigide regole obbligano
i funzionari del Partito a dimettersi al compimento dei 68 anni,
e altri funzionari devono andare in pensione a 65 anni. Questo
metodo ha assicurato al governo la circolazione costante di nuove
personalità e di nuove idee.
Quanto a dimensioni e a modello di potere, come organizza-
379
zione il Pcc è un fenomeno unico. La sua presenza si dispiega in
ogni settore della vita della Rpc. Infatti, esso non controlla soltanto
tutti gli aspetti del governo – dalle città più grandi e prospere ai più
remoti villaggi del Tibet – e l’esercito, ma è propenso a governare
tutti gli elementi della vita sociale, come i media, le istituzioni di
insegnamento (dagli asili alle università), i tribunali e le religioni.
Presiede mastodontiche aziende statali e ne sceglie i funzionari. In
tutte queste organizzazioni, i dirigenti di grado più alto vengono
nominati dal dipartimento organizzativo del Partito4.

Un partito che fa tesoro delle esperienze proprie e dei suoi vicini

Il quarto di secolo trascorso dalla Cina sotto la pianificazione


socialista di Mao comportò una notevole espansione delle capacità
industriali e tecnologiche, nonché importanti progressi nell’alfa-
betizzazione, nell’assistenza scolastica, nel tasso di sopravvivenza
materna e infantile, nella salute pubblica e nella speranza di vita.
Ma quei successi furono accompagnati da carenze e passi indietro,
in un avvicendarsi di politiche antieconomiche, tra cui risaltano
la soppressione degli incentivi a tutti i livelli, la collettivizzazione
forzata dell’agricoltura, un regime di autarchia e l’autoisolamento

4. Cfr R. McGregor, The Party: The Secret World of China’s Communist Ru­
lers, Londra, Penguin Books, 2010.
FOCUS

dal mondo5. Di conseguenza, quando nel 1979 la Cina cominciò


a uscire dal periodo di isolazionismo marxista, scoprì di essere
rimasta molto indietro, in termini economici e tecnologici, non
soltanto rispetto alle potenze occidentali tradizionali, ma anche
rispetto a vari suoi vicini più piccoli nell’Asia dell’Est.
Ci si rese conto che bisognava cambiare il modello di riferimento.
Deng, vecchio rivoluzionario, intendeva preservare il monopolio di
potere del Partito. Ma scommise che il modo migliore per conser-
varlo fosse quello di impostare un’economia dinamica, che elevasse
i livelli di vita nel Paese e accrescesse il prestigio e l’influenza inter-
nazionale della Cina. Era convinto che una popolazione meglio nu-
trita sarebbe stata più propensa ad appoggiare il governo del Partito
comunista rispetto a una comunità afflitta dal ristagno economico.
380
La riforma economica doveva venire al primo posto, e quella
politica, se fosse stata necessaria, soltanto dopo. In ciò Deng la pen-
sava in modo diametralmente opposto a Mikhail Gorbaciov, che in
Russia era partito dalle riforme politiche, nella speranza che avreb-
bero contribuito a sbloccare la resistenza burocratica nei confronti
di quelle economiche. Deng dichiarò che proprio questo era stato
l’errore macroscopico di Gorbaciov: l’aver anteposto le riforme po-
litiche a quelle economiche6. Il suo giudizio circa la priorità di una
forte crescita economica fu successivamente ratificato dall’esperien-
za dell’Urss che, nei suoi due ultimi decenni di esistenza, dovette
assistere al crollo della propria economia, in cui i meccanismi del
mercato in pratica non avevano avuto alcun ruolo, e al conseguente
malcontento della popolazione. Ciò indusse i leader cinesi a studiare
alcuni miracoli economici dell’Asia orientale.
Giappone, Taiwan e Corea del Sud avevano sostenuto il proprio
sviluppo facendo leva su tre pilastri: una riforma agraria, l’esportazio-
ne manifatturiera e la collaborazione del settore finanziario alla politi-
ca industriale del governo. Ma è il caso di considerare due dimensioni
importanti nelle quali la strategia di sviluppo cinese si è diversificata,
a partire dal 1979, da quella dei suddetti Paesi asiatici. In primo luogo,

5. Cfr L. Brandt - T. Rawski, China’s Great Economic Transformation,


Cambridge, Cambridge University Press, 2008.
6. Cfr E. Vogel, Deng Xiaoping and the Transformation of China, Harvard,
Harvard University Press, 2012, 423.
CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE

la Cina si è appoggiata molto di più sulle imprese di proprietà statale


(Ips). La seconda grande differenza tra la Cina e gli altri modelli asia-
tici orientali si radica nell’ampio uso degli investimenti diretti esteri
(Ide). Dopo il «viaggio a Sud» di Deng, nel 1992, gli Ide divennero
quasi un’ossessione. All’inizio degli anni Ottanta, una delle riforme
innovatrici – quella che istituiva le «zone economiche speciali» – è
stata intenzionalmente progettata per indurre imprese straniere a im-
piantare fabbriche manifatturiere destinate all’esportazione. Dal 1993
al 2002 le nuove entrate da Ide hanno costituito circa il 10% di tut-
ti gli investimenti fissi in Cina. Tra gli effetti durevoli che ne sono
seguiti c’è il fatto che, a tutt’oggi, quasi la metà delle esportazioni
cinesi complessive e i tre quarti di quelle in alta tecnologia vengono
prodotti da imprese a partecipazione straniera7. Che cosa spiega la
381
disponibilità della Cina a una tale straordinaria cessione della sovra-
nità economica, connessa all’aver reso disponibile ai capitalisti esteri
il vasto esercito dei suoi lavoratori a basso costo? Indubbiamente la
risposta a questa domanda può essere trovata nel pragmatismo dei
suoi dirigenti e nella posizione di forza da cui essi si proponevano di
sfruttare al massimo la globalizzazione.
Tutto ciò è accaduto nel momento più opportuno. È stata una
scommessa fortunata. Dopo il 1980, i progressi nella tecnologia
dei trasporti e della logistica hanno reso possibile l’internaziona-
lizzazione delle catene produttive. La Cina, con la sua abbondante
manodopera a basso costo, la prossimità alle catene di produzione
esistenti in Asia orientale e l’accesso a uno dei porti più grandi del
mondo, quello di Hong Kong, si era mossa nel tempo e nello spazio
giusti per trasformarsi nel luogo privilegiato della fabbricazione in
subappalto, nel laboratorio del mondo.

Il programma attuale del Pcc

Il Pcc ha reso nota la propria strategia futura nell’ottobre 2017,


quando ha celebrato a Bejing il proprio XIX Congresso nazionale. In
quella sede, Xi Jinping ha affermato che la base del «socialismo con
caratteristiche cinesi per una nuova era» consiste nell’aprirsi sempre

7. Cfr A. Kroeber, China’s Economy, Oxford, Oxford University Press, 2016, 14.
FOCUS

più al mondo e al mercato, valorizzando le proprie tradizioni, mante-


nendo il sistema socialista e accrescendo il controllo sul settore privato.
Per raggiungere questi obiettivi, Xi ha proposto di rafforzare la lea­
dership del Partito, accentuando il controllo sull’Esercito popolare di
liberazione ed eliminando i funzionari corrotti. Inoltre, ha attribuito
un ruolo centrale al progetto di collegamento commerciale e infra-
strutturale detto «Nuova via della seta». Xi si è guadagnato la riele-
zione alla segreteria del Partito e ha ottenuto che il suo pensiero fosse
incluso tra le ideologie ufficiali del Pcc: questo ha fatto di lui uno dei
leader più potenti e influenti dopo Mao Zedong e Deng Xiaoping.
A un livello più concreto, il 14° piano quinquennale, approvato
dall’Assemblea nazionale nel marzo scorso, delinea la politica eco-
nomica e sociale del Paese per il periodo 2021-258. Si pone l’obiet-
382
tivo di un cambiamento strutturale, la transizione da una crescita
per sviluppo quantitativo intensivo a una che sia guidata dall’inno-
vazione, al fine di accrescere il mercato del consumo interno per
allargare la classe media e per promuovere l’iniziativa della «Nuova
via della seta». Come obiettivi prioritari per raggiungere nel 2035
una società prospera e moderna, vengono indicati la digitalizzazio-
ne e la trasformazione tecnologica dell’economia, l’economia verde
e la riduzione del carbonio, il migliorato benessere della popolazio-
ne e una maggiore cooperazione commerciale internazionale. Non
viene specificato alcun obiettivo quantitativo per la crescita del Pil
nei prossimi cinque anni. Si punta a una strategia di «circolazione
duale», in base all’idea che la «circolazione interna» (produzione e
consumo domestici) debba trovare complemento nella «circolazio-
ne esterna» (commercio internazionale).

Una considerazione sulle sfide che la Cina sta affrontando

La Rpc ha ottenuto l’impressionante risultato di svincolarsi dalla


povertà, liberandone più di 800 milioni di cittadini. Ora affronta la

8. Cfr «The Economic Policy Agenda of China’s 14th Five Year Plan» (www.
xinhuanet.com/politics/zywj/2020-11/03/); «Outline of the People’s Republic of
China 14th Five-Year Plan for National Economic and Social Development and
Long-Range Objectives for 2035» (cset.georgetown.edu/wp-content/uploads/
t0284_14th_Five_Year_Plan_EN.pdf).
CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE

sfida decisiva, che consiste nell’evitare di cadere in un altro traboc-


chetto, quello del reddito medio. La Cina corre infatti il rischio di
restare impigliata in un tasso di crescita inferiore al suo potenziale,
perché, nella misura in cui consentirà che il benessere raggiunga
la sua manodopera, perderà, proporzionalmente, il suo vantaggio
competitivo nell’esportazione di prodotti lavorati.
Il motore della crescita cinese si è attivato con le riforme di Deng
aperte al mercato. Esse hanno provocato la nascita di un settore pri-
vato che ha avuto un eccezionale sviluppo, accreditandosi già nel
2016 il 60% del prodotto nazionale lordo9. Ciò nonostante, il setto-
re pubblico cinese rimane enorme, il più grande del mondo, secon-
do le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico (Oecd). Il dato chiave è proprio questo: il contributo
383
delle imprese di proprietà statale al prodotto nazionale, se messo in
relazione alle attività che esse controllano, è basso. Nel contesto di
un’economia che nella transizione verso il mercato è cresciuta fuori
scala, il loro scarso livello di efficienza è problematico.
Non è stato facile far decollare il settore privato all’interno di
un’economia pianificata. Per i leader cinesi condurre questo proces-
so ha significato, per usare una loro immagine, mettersi ad attra-
versare un fiume tastando le pietre, ovvero è stato un percorso spe-
rimentale guidato da princìpi e intenzioni di fondo, ma senza linee
direttive preconcette. Non stupisce che l’ex primo ministro Wen
Jiabao abbia descritto l’economia cinese in questi termini: squilibra-
ta, instabile, scoordinata e non sostenibile10.
Perché possa continuare a crescere a un ritmo rapido, l’econo-
mia cinese deve migliorare l’efficienza del sistema delle imprese. Lo
spauracchio di restare ancorati a certi livelli di reddito medio non
sarà scongiurabile se non cambierà il modello della crescita: da uno
schema fondato sulla mobilitazione delle risorse si deve passare a
uno fondato sull’efficienza d’uso di quelle stesse risorse. Dato che
le aziende private sono già molto produttive, i miglioramenti do-
vranno riguardare sia l’espansione degli spazi in cui esse potranno
operare, sia una razionalizzazione del settore statale.

9. Cfr A. Kroeber, China’s Economy, cit., 101.


10. Cfr ivi, 216.
FOCUS

Un punto chiave è l’impegno a garantire il consolidamento e


lo sviluppo del settore privato. Xi lo sottoscrive? La sua proposta
sembra orientata a un governo socialista del settore privato. Ma in
questo modo la Cina non compromette la sua effettiva ascesa al
rango di potenza economica dominante? La questione sostanziale
di fondo è quanto e che tipo di potere i leader cinesi siano disposti a
sacrificare, in cambio di quanta e che tipo di crescita economica. Con
Deng si era accettata una riduzione del potere statale al fine di favo-
rire lo sviluppo. Con Xi si ha sempre più l’impressione che la scelta
vada verso una politica di controllo a spese della crescita economica.

IL DANNO AMBIENTALE CHE CAUSA E CHE SUBISCE


384 È UNO DEI SUOI PROBLEMI PIÙ GRAVI.

La seconda grande sfida riguarda il tema delle disuguaglianze.


Questi anni di crescita sono stati caratterizzati dal passaggio da una
situazione di uguaglianza pratica di tutti i cinesi (assestata su livelli di
mera sussistenza) a una distribuzione del reddito impensabile, ma anche
inaccettabile, in un Paese comunista. I frutti dello sviluppo economico
sono stati distribuiti in maniera così disparata che oggi la Cina si trova
a essere una delle società meno ugualitarie del Pianeta. Si potrebbe
pensare che il rapido acuirsi della disuguaglianza dovrebbe condurre
a un malessere sociale pronto a esplodere. Tuttavia in Cina il vulcano
dell’ira accumulata nei confronti dell’ingiustizia distributiva (nel con-
testo di una diffusa corruzione) resta dormiente. Ma fino a quando lo
resterà? È ovvio che lo stesso futuro del progetto comunista dipende
dal fatto che si riesca a raggiungere un minimo di coesione sociale.
La terza sfida è legata alla constatazione che oggi la Cina è il Pae­
se che consuma maggiore energia al mondo: utilizza il 25% di tutta
l’energia globale. È di gran lunga la nazione che ricorre di più al car-
bone, la metà del consumo globale. Pertanto è il Paese che emette
più biossido di carbonio e il principale responsabile del riscaldamento
globale. Il danno ambientale che causa e che subisce è uno dei suoi
problemi più gravi. Se la Cina riuscirà a compiere il salto e a diventare
un Paese realmente sviluppato, si spera che possa, come hanno già
fatto altre nazioni, prendersi maggiore cura dell’ambiente.
CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE

Una sfida fondamentale è quella del suo inserimento nel mon-


do . I membri della Organizzazione mondiale del commercio
11

(Omc) speravano fortemente che l’ammissione dell’ex Celeste im-


pero nelle loro file avrebbe apportato una graduale convergen-
za del suo sistema economico nella direzione di quello liberale.
Tuttavia, la Cina si è impegnata soltanto a trasformarsi in «un’e-
conomia di mercato socialista». E da ciò derivano la sua politica
delle sovvenzioni e l’imposizione di fatto, agli investitori esteri, di
accedere a imprese congiunte con aziende cinesi e di trasferirvi la
propria tecnologia. La Cina accetterà di chiarire e di completare il
proprio contratto di adesione alla Omc12?
A un certo punto dei prossimi vent’anni è probabile, sebbene
nient’affatto certo, che la Cina sorpassi gli Stati Uniti e diventi
385
l’economia più grande del mondo. La popolazione cinese supera
di quattro volte quella statunitense, quindi non meraviglia che col
tempo raggiunga una produzione maggiore. Essa ci riuscirà con
un reddito pro capite di un quarto, dato che i cinesi sono quattro
volte di più. Pertanto, l’economia cinese diventerà più grande di
quella degli Usa, ma anche più povera. È improbabile che essa
possa sostenere una rapida convergenza nella crescita, una volta
che abbia raggiunto un reddito pro capite di circa il 50% di quello
statunitense. Il quesito più interessante e difficile verte su come
questo volume economico si tradurrà in influenza globale. La sto-
ria suggerisce che le variabili chiave qui non sono le dimensioni
dell’economia, ma la capacità tecnologica e quella politica. Un’e-
gemonia cinese è inevitabile?
Ma, soprattutto, il Pcc dovrà misurarsi con se stesso su come
mantenere il potere e sviluppare la propria visione del socialismo.
Esso oggi controlla più che mai i propri cittadini mediante la
tecnologia, le campagne educative nelle scuole e nelle università,
la spinta nazionalistica e leggi che prevedono l’insediamento di

11. Cfr McKinsey Global Institute, «China and the world: Inside
the dynami­cs of a changing relationship», giugno 2019 (www.mckinsey.com/
featured-insights/china/china-and-the-world-inside-the-dynamics-of-a-
changing-relationship).
12. Cfr P. C. Mavroidis - A. Sapir, «China and the WTO: An uneasy relation-
ship», in VoxEU (voxeu.org/article/china-and-wto-uneasy-relationship), 29 aprile 2021.
FOCUS

cellule in ogni impresa che annoveri tra i propri dipendenti al-


meno tre membri. Ma fino a che punto il Pcc è saldo nel potere?
I suoi membri oggi sono per lo più uomini dell’etnia Han, di età
matura, e la metà di loro non ha compiuto studi universitari13.
Se il Partito vuole avere un futuro, è evidente che deve attrarre i
giovani e le donne.

Conclusione

Con l’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2012, la Rpc è entrata


in una nuova fase. Era dai tempi di Mao Zedong che un individuo
non riassumeva in sé tante prerogative. Deng Xiaoping, il rifor-
matore della pianificazione, aveva incoraggiato un certo carattere
386
collettivo nella gestione del potere e aveva istituito un sistema di
ricambio nei posti chiave del Partito e dello Stato. Dopo un certo
periodo i dirigenti cambiavano, obbedendo a rotazioni note e pre-
fissate. Le regole che limitavano a 10 anni la durata di un manda-
to sono state abolite quattro anni fa. Prevedibilmente Xi si vedrà
rinnovare le proprie cariche l’anno prossimo, nel 20° Congresso, e
resterà al potere per almeno altri 5 anni.
Xi ribadisce che il settore privato va governato. Ma questo
non equivale forse a riconoscere che il modello di un’economia
ibrida che abbraccia il capitalismo si scontra ineluttabilmente con
il comunismo? C’è un oggettivo conflitto tra l’essere imprendi-
tori e l’appartenere al Partito. Di fatto le autorità cinesi oggi ten-
gono gli imprenditori sotto un forte controllo, fino a perseguirli
penalmente e a confiscarne i beni. Il caso più notevole è quello
del fondatore di Alibaba, Jack Ma14. La lunga campagna contro
la corruzione ha comportato anche l’aver messo fuori combatti-

13. Cfr «Partido Comunista de China: 5 gráficos que muestran cómo pasó
en 100 años de ser una formación clandestina a gobernar una cuarta parte de la
población mundial», in BBC News Mundo (www.bbc.com/mundo/noticias-inter-
nacional-57673309), 1° luglio 2021.
14. Cfr M. Smith, «Bubble finally bursts for Chinese capitalism», in Financial
Review (www.afr.com/policy/foreign-affairs/a-new-era-of-chinese-state-control-
20210805-p58g87), 6 agosto 2021.
CENTO ANNI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE

mento oppositori politici. La questione dei diritti umani e della


difesa delle minoranze resta aperta.
Xi, in politica estera, ha adottato una strategia di confronto
sempre più palese con Stati Uniti, India, Australia, Unione Eu-
ropea e con i Paesi asiatici; con questi ultimi sono in atto dispute
territoriali. La Cina fa valere la propria forza sul mercato. Quali
conseguenze potrà avere, a lungo termine, una politica del ge-
nere? In ogni caso, la comunità internazionale deve continuare a
cercare un compromesso con la Cina. Ci sono molte ragioni per
farlo. Non soltanto per il peso demografico, economico e militare
di questo immenso Paese, ma anche perché esso è un anello or-
mai imprescindibile delle catene di approvvigionamento; inoltre,
l’Occidente ha bisogno del suo enorme mercato.
387
Nel discorso commemorativo in occasione del centenario, il
segretario generale del Pcc ha affermato che ora la Cina marcia
fiduciosa verso l’obiettivo di trasformarsi in un grande Paese so-
cialista moderno a tutti gli effetti. Vedremo che cosa ci porterà il
futuro della Cina, che in grande misura influisce sul futuro del
nostro mondo.
VITA DELLA CHIESA

UNITÀ E CONCORDIA
NELL’USO DEL MESSALE ROMANO
Una analisi di «Traditionis custodes»
Cesare Giraudo S.I.

Nella Chiesa cattolica la liturgia continua a destare vivo interesse.


Se n’è parlato per decenni a proposito dell’interpretazione e conse-
guente traduzione dei testi; se n’è parlato prima e dopo la pubblica-
zione della terza edizione vernacola del Messale Romano; ora papa
388
Francesco, con il motuproprio Traditionis custodes («Custodi della
tradizione»)1, torna a parlarne, peraltro su un tema quanto mai sen-
sibile. Per comprendere il nuovo provvedimento è bene dare uno
sguardo alla storia recente del Messale Romano in merito a concessio-
ni pontificie ormai revocate. È Francesco stesso a guidarci, spiegando
con una lettera i motivi che lo hanno spinto a pronunciarsi sull’uso
di un libro liturgico che da più di trent’anni è in cerca di pace – in
latino si direbbe «quærens pacem» –, una pace di unità e di concordia
intraecclesiale. In essa Francesco, ispirandosi al suo Predecessore che
già aveva accompagnato la normativa di allora con un’analoga lettera,
si rivolge a tutti i vescovi «con fiducia e parresia»2.

La lettera accompagnatoria al motuproprio «Traditionis custodes»

In questa lunga e articolata lettera papa Francesco assume come


punto di partenza per affrontare la situazione cui intende portare
rimedio la facoltà, concessa con indulto della Congregazione per

1. Il documento «Traditionis custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla


riforma del 1970» è entrato in vigore con la sua pubblicazione in Oss. Rom., 16 luglio
2021, 2. Come già è successo in altri casi, il testo originario italiano, pur in assenza
della redazione latina, è indicato per comodità di ricerca con un incipit latino.
2. Francesco, «Lettera ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il motu
proprio Traditionis custodes», ivi, 2 s. L’espressione «con fiducia e parresia» echeg-
gia l’espressione «con grande fiducia e speranza» della lettera di Benedetto XVI.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 388-401 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO

il Culto Divino nel 19843 e confermata da Giovanni Paolo II nel


19884, di poter celebrare la Messa con l’ultima edizione tridentina
del Messale Romano pubblicata nel 19625. Tale concessione, riser-
vata a gruppi di fedeli che l’avrebbero richiesta, era motivata dalla
volontà di ricomporre lo scisma lefebvriano. È qui che si inserisce
il motuproprio Summorum Pontificum del 7 luglio 20076, con cui
Benedetto XVI aveva inteso regolamentare la prassi di quanti scor-
gevano in quel Messale una forma particolarmente adatta a favorire
l’incontro con il mistero. Ora, per capire il motuproprio di Fran-
cesco, è necessario rileggere i dodici articoli del motuproprio di
Benedetto XVI, che ripercorriamo brevemente.
Esistono due soli usi del rito romano: la «forma ordinaria» (ordinaria
expressio) con il Messale promulgato da Paolo VI nel 1970, e la «forma
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straordinaria» (extraordinaria expressio) con il Messale promulgato da Pio
V nel 1570 e nuovamente edito da Giovanni XXIII nel 1962 (art. 1).
Nelle Messe senza concorso di popolo, ogni sacerdote di rito latino7 può
usare o il Messale del 19628 o il Messale del 1970 (art. 2). Con il Messale
del 1962 possono celebrare la Messa di comunità tutti gli Istituti di Vita
Consacrata e le Società di Vita Apostolica (art. 3). A queste celebra-
zioni possono essere ammessi anche quei fedeli che spontaneamente lo

3. Congregazione per il Culto Divino, «Lettera ai Presidenti delle Confe-


renze Episcopali Quattuor abhinc annos» (3 ottobre 1984), in AAS 76 (1984) 1088-1089.
4. Giovanni Paolo II, s., «Motu proprio Ecclesia Dei» (2 luglio 1988), in
AAS 80 (1998) 1495-1498.
5. Cfr M. Sodi - A. Toniolo (edd.), Missale Romanum. Editio Typica 1962.
Edizione anastatica e Introduzione, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2007. La
successiva edizione del 1965 non può più considerarsi tridentina, in quanto, oltre a
essere bilingue, contiene adattamenti che già preludono alla riforma liturgica.
6. Su questo motuproprio, oltre all’editoriale di Civ. Catt. 2007 III 455-460
(«La liturgia nel solco della tradizione»), cfr C. Giraudo, «La liturgia nel solco della
tradizione. Riflessioni in margine al motu proprio Summorum Pontificum», in Ras­
segna di Teologia 48 (2007) 805-822 e Rivista Liturgica 95 (2008) 253-272.
7. La dicitura «di rito latino» include anche i sacerdoti di rito sia ambrosiano
sia ispano-mozarabico, vale a dire quanti appartengono ai due riti latini che coabi-
tano con il rito romano nelle diocesi, rispettivamente, di Milano e di Toledo.
8. La precisazione «il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso [per l’uso
del Messale del 1962]», che si legge nel motuproprio, esprime un reale mutamento
rispetto alla normativa precedente. Ciò che nel 1984 era un indulto, cioè una con-
cessione fatta – a titolo di deroga «indulgente» alla norma – dal vescovo diocesano a
singoli sacerdoti e ai rispettivi fedeli, previa ammissione della legittimità ed esattez-
za dottrinale del Messale del 1970, nel 2007 diventa norma.
VITA DELLA CHIESA

chiedono (art. 4). Nelle parrocchie in cui esiste stabilmente un grup-


po di fedeli affezionati alla precedente tradizione liturgica, il parroco
è pregato di concedere volentieri ai sacerdoti idonei l’uso del Messale
del 1962, però limitatamente a una sola celebrazione nelle domeniche e
nelle feste; nessuna limitazione è invece espressa per le celebrazioni nei
giorni feriali, come pure nel caso di matrimoni, esequie o pellegrinaggi
(art. 5). Inoltre, allorché si usa il Messale del 1962 nelle Messe con con-
corso di popolo, le letture possono essere fatte nella lingua vernacola,
utilizzando i lezionari approvati (art. 6). I fedeli che, pur avendo chiesto
al parroco l’uso del Messale del 1962, non lo avranno ottenuto, possono
ricorrere al vescovo diocesano, che è vivamente pregato di esaudire il
loro desiderio; qualora poi non fosse in grado di esaudirlo, dovrà in-
formarne la Pontificia Commissione Ecclesia Dei e attendere da questa
390
consiglio e aiuto (art. 7-8). In vista del bene delle anime, è lasciata (a)
alla discrezione del parroco la possibilità di utilizzare il rituale più antico
per il Battesimo, la Penitenza, il Matrimonio e l’Unzione degli infermi;
(b) alla discrezione del vescovo la scelta dell’antico Pontificale Romano
per la Confermazione; (c) alla discrezione dei chierici ordinati la possi-
bilità di usare il Breviario Romano del 1962 (art. 9). In vista del bene dei
fedeli affezionati al Messale del 1962, il vescovo diocesano potrà erigere
una parrocchia personale (art. 10). Infine, la Pontificia Commissione
Ecclesia Dei, riconfermata nelle sue funzioni, dovrà vigilare sull’osser-
vanza e l’applicazione di quanto è stato disposto (art. 11-12).
Nella sua lettera accompagnatoria, papa Francesco tiene a preci-
sare che, nel pensiero del Predecessore, quanti con il Messale del 1962
desideravano trovare la forma liturgica a loro cara accettavano il ca-
rattere vincolante del Vaticano II, sicché le due forme nell’uso del rito
romano, non solo non avrebbero prodotto spaccature, ma si sarebbero
arricchite a vicenda. Era dunque con queste convinzioni che Bene-
detto XVI aveva invitato i vescovi a superare dubbi e timori, con l’as-
sicurazione che, qualora fossero venute alla luce serie difficoltà nell’ap-
plicazione della normativa, si sarebbe trovato il modo di rimediare.
Dopo queste premesse, Francesco prosegue ricordando l’incari-
co, da lui conferito alla Congregazione per la Dottrina della Fede,
di avviare una consultazione con tutti i vescovi circa l’applicazio-
ne del motuproprio Summorum Pontificum. Questa consultazione,
che già Benedetto XVI aveva previsto doversi fare a tre anni dalla
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sua entrata in vigore9, fu indetta il 7 marzo 2020, cioè tredici anni


dopo. Nel riassumere le risposte dei vescovi al questionario loro in-
viato10, papa Francesco riconosce che, purtroppo, l’intento pastorale
dei suoi Predecessori «è stato spesso gravemente disatteso», nel senso
che «una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magna-
nimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre
l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgi-
che è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze,
costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il
cammino, esponendola al rischio di divisioni».
Nel dare atto dell’esistenza di «abusi di una parte e dell’altra nel-
la celebrazione della liturgia», pure Francesco, «al pari di Benedetto
XVI», deplora che «in molti luoghi non si celebra in modo fedele alle
391
prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura viene inteso come
un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale
porta spesso a deformazioni al limite del sopportabile». Ciò che più
di tutto lo rattrista è «un uso strumentale del Missale Romanum del
1962, sempre più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della
riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione in-
fondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chie-
sa”». Tuttavia «dubitare del Concilio significa [...], in ultima analisi,
dubitare dello stesso Spirito Santo che guida la Chiesa». Ora, «proprio
il Concilio Vaticano II – soggiunge Francesco – illumina il senso
della scelta di rivedere la concessione permessa dai miei Predecessori».
A questo punto vengono evocati i princìpi che hanno guidato
la riforma liturgica, al fine di favorire la piena, consapevole e atti-
va partecipazione di tutto il Popolo di Dio all’azione liturgica. Di
questa azione liturgica l’espressione più eminente è fuor di dubbio il
Messale Romano, per il fatto che racchiude i riti e le preghiere con
cui si fa l’Eucaristia. Si deve perciò ritenere che il Messale Romano,

9. La lettera accompagnatoria a Summorum Pontificum termina così: «Inoltre,


vi invito, cari Confratelli, a scrivere alla Santa Sede un resoconto sulle vostre espe-
rienze, tre anni dopo l’entrata in vigore di questo Motu proprio. Se veramente fossero
venute alla luce serie difficoltà, potranno essere cercate vie per trovare rimedio».
10. Nel questionario si chiede un giudizio sulla forma straordinaria, con par-
ticolare attenzione alla sua effettiva applicazione, alla sua utilità o meno sotto il
profilo pastorale, alla sua ricaduta nella formazione dei seminaristi.
VITA DELLA CHIESA

più volte adattato nel corso dei secoli alle esigenze dei tempi, infine
pubblicato da Paolo VI nel 1970 e nuovamente edito da Giovanni
Paolo II nel 2002, sia stato conservato e restaurato «in fedele osse-
quio alla Tradizione». Francesco conclude poi la sua disamina con
un monito su cui torneremo più oltre: «Chi volesse celebrare con de-
vozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare
nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vati-
cano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone
romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti».

Il motuproprio «Traditionis custodes»


Se la lettera accompagnatoria è di comprensione immediata, in-
392 vece il motuproprio richiede attenzione. Esso consta di otto articoli
e di un preambolo che, nella scelta mirata delle prime parole, già
annuncia un’inversione di rotta. Infatti, mentre l’incipit Summorum
Pontificum cura lasciava intendere che il legislatore, a partire dalla
sua responsabilità di pastore supremo, chiedeva ai vescovi di portare
a esecuzione decisioni prese, invece l’incipit Traditionis custodes fa
capire che ora il legislatore – in analogia con quanto ha preceden-
temente fatto con il motuproprio Magnum principium11 – riconosce
ai vescovi, ovviamente «in comunione con il vescovo di Roma», la
responsabilità che essi, in forza del governo delle Chiese loro affi-
date, sono chiamati a svolgere per la salvaguardia della tradizione.
Dopo un cenno alla «capillare consultazione dei vescovi nel
2020», papa Francesco, nell’intento di «proseguire ancor più nella
costante ricerca della comunione ecclesiale», stabilisce che «i libri
liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo
II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica
espressione della lex orandi del Rito Romano» (art. 1). In merito al
Messale del 1962, viene riconosciuta al vescovo diocesano la «sua
esclusiva competenza» per autorizzarne l’uso nella sua diocesi, «se-
guendo gli orientamenti della Sede Apostolica» (art. 2). Al vesco-
vo, nella cui diocesi già esistono «uno o più gruppi che celebrano

11. Per questo documento, che restituisce ai vescovi la competenza sulle tra-
duzioni dei libri liturgici, cfr C. Giraudo, «Magnum Principium e l’inculturazione
liturgica nel solco del Concilio», in Civ. Catt. 2017 IV 311-324.
UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO

secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970», si chiede di


accertare «che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità
della riforma liturgica» (art. 3, § 1); di indicare «uno o più luoghi
dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la cele-
brazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza eri-
gere nuove parrocchie personali)» (art. 3, § 2); di stabilire «nel luogo
indicato i giorni in cui sono consentite le celebrazioni eucaristiche
con l’uso del Messale Romano promulgato da san Giovanni XXIII
nel 1962» e che «in queste celebrazioni le letture siano proclamate
in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per
l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali»
(art. 3, § 3); di nominare un sacerdote adeguatamente preparato12
«che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e
393
della cura pastorale di tali gruppi di fedeli» (art. 3, § 4); di procede-
re «nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di
questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità
per la crescita spirituale» e di valutare «se mantenerle o meno» (art.
3, § 5); di «non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi» (art. 3,
§ 6). La normativa passa quindi a considerare due situazioni in cui
vengono a trovarsi i presbiteri: quelli «ordinati dopo la pubblicazio-
ne del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale
Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo
diocesano, il quale prima di concedere l’autorizzazione consulte-
rà la Sede Apostolica» (art. 4); quelli che «già celebrano secondo il
Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano
l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà» (art. 5).
Seguono due provvedimenti per aggiornare, sotto il profilo giu-
ridico-liturgico, gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita
Apostolica (art. 6-7). Infine, quasi a ovviare a una perplessità che
in alcuni era rimasta, se cioè il Messale di Paolo VI avesse abrogato

12. La normativa si preoccupa di indicare le doti richieste nel sacerdote pre-


scelto: «[…] sia idoneo a tale incarico, sia competente in ordine all’utilizzo del Mis­
sale Romanum antecedente alla riforma del 1970, abbia una conoscenza della lingua
latina tale che gli consenta di comprendere pienamente le rubriche e i testi liturgici,
sia animato da una viva carità pastorale, e da un senso di comunione ecclesiale. È
infatti necessario che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa ce-
lebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli».
VITA DELLA CHIESA

o meno il Messale di Pio V, interviene a spazzare via ogni dub-


bio la seguente dichiarazione: «Le norme, istruzioni, concessioni
e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto
disposto dal presente Motu proprio, sono abrogate» (art. 8).

La Messa nel raffronto dei Messali di Pio V e di Paolo VI

Forse è successo a tutti di notare che, quando il confronto di opinio-


ni si esaspera, spesso chi sostiene una tesi non conosce quella dell’altro.
Questa semplice constatazione ci autorizza a dire che quanti si sono ar-
roccati sul loro Messale forse non conoscono quello degli altri. Ciò vale
per quei tanti sacerdoti e fedeli che negli ultimi cinquant’anni pregano
con il Messale del Concilio, ma del Messale pre-conciliare non hanno né
394
conoscenza né tantomeno esperienza. Ma la stessa cosa si applica anche a
quei sacerdoti e fedeli che, legati affettivamente al Messale di Pio V, non
si sono preoccupati affatto, o non si sono preoccupati a sufficienza, di
aprire il loro cuore ai tesori racchiusi nel Messale di Paolo VI. Riteniamo
pertanto utile procedere a un raffronto tra l’uno e l’altro Messale13, vale a
dire tra il Messale di Pio V (1570), che consideriamo nella sua veste ultima
edita da Giovanni XXIII (1962), e il Messale di Paolo VI (1970), che con-
sideriamo nella terza edizione tipica voluta da Giovanni Paolo II (2002).
Nel Messale del 1570/1962 il rito introduttivo si presenta alquanto
composito, a causa della sedimentazione relativamente tardiva di un
elevato numero di elementi. Dopo aver indossato le vesti sacre, manipo-
lo compreso, il sacerdote inizia la Messa ai piedi dell’altare con il segno
di croce14; quindi in dialogo con il ministro recita il Sal 42 «Iudica me,
Deus», cui fa da cornice l’antifona «Introibo ad altare Dei»; prosegue
dialogando, sempre con il ministro, il «Confiteor». Prima lo recita il
sacerdote, che confessa i suoi peccati rivolgendosi pure all’assemblea ter-
rena rappresentata dal ministro, nei confronti della quale dice «et vobis,

13. La scelta della locuzione «l’uno e l’altro Messale» si ispira al titolo di due
libri di P. Beauchamp (L’Un et l’Autre Testament, 1. Essai de lecture, 2. Accomplir les
Écritures, Paris, Seuil, 1976.1990), che esprime bene l’unità dei due Testamenti.
14. Il segno di croce, con la formula trinitaria, fa la sua comparsa ufficiale,
all’inizio della Messa, solo con il Messale di Pio V. Questo suo impiego proviene
dalla sfera della devozione personale del sacerdote, che già in sacrestia incominciava
a segnarsi e a recitare privatamente formule propiziatorie.
UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO

fratres» e «et vos, fratres». Dopo aver risposto con la formula augurale
«Misereatur tui», il ministro recita a sua volta il «Confiteor», rivolgen-
dosi al sacerdote con le parole «et tibi, pater» e «et te, pater». Il sacerdote
risponde con la formula augurale «Misereatur vestri», cui fa seguito la
formula assolutoria «Indulgentiam, absolutionem». Quindi prosegue
con la recita dialogata di quattro versetti e altrettante risposte. Poi sale
all’altare recitando sottovoce l’orazione «Aufer a nobis» e, mentre bacia
l’altare, la preghiera «Oramus te, Domine». Si sposta a mani giunte sulla
destra dell’altare, dove si trova il Messale, e facendosi il segno di croce
legge l’antifona di introito. Tornato al centro, alterna col ministro le in-
vocazioni del «Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison», che vengo-
no ripetute a tre a tre per un totale di nove volte. Dopo di che recita, se
previsto, il «Gloria». Baciato nuovamente l’altare, si volge verso l’assem-
395
blea e la saluta con il «Dominus vobiscum»15. Quindi torna al Messale
per la recita della colletta o, se previste, di una o due altre collette, dopo
aver premesso «Oremus» solo alla prima. Si può notare, in questa parte
introduttiva, che tutto ruota intorno all’altare. Venuta meno, sul finire
del primo millennio, la percezione della funzione sacrale della cattedra,
l’altare si impone come segno incontrastato e unico.
Nel Messale del 1970/2002 tutto si svolge di preferenza alla cat-
tedra, ricollocata possibilmente in fondo all’abside, sul modello di
quanto si vede ancor oggi nelle antiche basiliche romane. Interve-
nendo in questo momento quale segno sacrale della presidenza, la
cattedra rende possibile, a sua volta, la liturgia all’ambone e la litur-
gia all’altare. La riforma liturgica, per ridare essenzialità all’intero
complesso introitale, ha soppresso la salmodia e ha previsto una sola
recita del «Confiteor». Ha inoltre rivalutato il saluto presidenzia-
le e lo ha riportato nella sua collocazione originaria. In tal modo
ha assicurato alla celebrazione un assetto valido dal punto di vista
delle sequenze rituali e significativo sotto il profilo teologico. Ne
dà atto la normativa rubricale, che ora recita: «Il saluto sacerdotale
e la risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radu-
nata». Inoltre le formule del saluto sono state arricchite, per il fatto
che, al tradizionale «Dominus vobiscum» e alla variante episcopale

15. Gli storici della liturgia ci informano che è questo l’originario saluto ini-
ziale su cui tanto insistono le mistagogie dei Padri.
VITA DELLA CHIESA

«Pax vobis», sono state premesse due formule alternative di ispira-


zione paolina. La prima: «Gratia Domini nostri Iesu Christi, et ca-
ritas Dei, et communicatio Sancti Spiritus sit cum omnibus vobis»
(2 Cor 13,13); la seconda: «Gratia vobis et pax a Deo Patre nostro et
Domino Iesu Christo» (Rm 1,7; 1 Cor 1,3; Gal 1,3; Ef 1,2; 2 Ts 1,2).
L’una e l’altra, assai usate, sono divenute familiari a tutti.
Riprendendo in mano il Messale del 1570/1962, notiamo che, an-
che per la liturgia della Parola, l’altare continua a imporsi come indi-
scusso polo d’attrazione. Mentre nei tempi antichi la proclamazione
veniva fatta dall’ambone, successivamente, a causa sia dell’impiego di
una lingua sempre meno parlata, sia di una progressiva clericalizzazio-
ne dei ruoli, la memoria della funzione sacrale dell’ambone era venuta
meno fino a scomparire del tutto. L’ambone si era visto così privato
396
della prima delle sue due finalità. Infatti, pur mantenendosi come am-
bone della predicazione nel pulpito, invece come ambone della procla-
mazione era migrato sull’altare, fino a identificarsi con il piccolo leg-
gio. Privato del suo naturale supporto, pure il lezionario era migrato
sull’altare, anzi dentro il Messale, fino a fondersi nel Messale plenario.
Una volta concluso il rito introduttivo con la colletta, il sacerdote legge
la prima lettura, tratta perlopiù dall’epistolario paolino. Per ricordargli
che non legge per sé, ma per il popolo, la rubrica precisa: «legit epi-
stolam intelligibili voce»16. Nel caso di una Messa solenne lo affianca
il suddiacono che, stando sul lato destro, rivolto all’altare («contra alta-
re»), canta l’epistola a partire dal Messale che tiene egli stesso in mano,
mentre il sacerdote la legge «submissa voce»17. Il celebrante riprende a
leggere sottovoce il «Graduale», a dire il «Munda cor meum» e a leg-
gere il Vangelo. Nella Messa solenne, dopo aver letto per conto suo il
Vangelo («lecto Evangelio»), si appresta ad ascoltarne la proclamazione
ad opera del diacono. Questi infatti, mentre il suddiacono a mo’ di am-

16. Cfr M. Sodi - A. M. Triacca (edd.), Missale Romanum. Editio Princeps


(1570). Edizione anastatica, Introduzione e Appendice, Città del Vaticano, Libr. Ed.
Vaticana, 1998, 12.
17. Modificando la normativa precedente, l’edizione del 1962 aggiunge:
«quam celebrans sedens auscultat» (M. Sodi – A. Toniolo [edd.], Missale Roma­
num 1962, cit., 57). La rubrica n. 473, di nuova redazione, applica anche al lettore
il principio che soggiace a questa annotazione: «In Missis in cantu, ea omnia, quæ
diaconus vel subdiaconus aut lector, vi proprii officii cantant vel legunt, a celebrante
omittuntur» (ivi, 33).
UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO

bone semovente gli sorregge il Messale, rivolto in parte all’altare e in


parte al popolo («contra altare versus populum»)18, canta il Vangelo, che
il celebrante spostatosi «in cornu Epistolæ» ascolta a mani giunte. Alle
letture fanno seguito, se previsti, il sermone19 e il «Credo».
Il Messale del 1970/2002, in obbedienza al principio della verità, ri-
conosce la specificità e la conseguente diversificazione dei segni sacrali
sulla base delle rispettive funzioni. Pertanto il lezionario, estrapolato dal
Messale plenario, è ridiventato un libro proprio, che ha la funzione di
contenere tutte le pericopi scritturistiche destinate alla proclamazione
liturgica. Così pure, abbandonando la mensa dell’altare e tornando al
suo posto, l’ambone è stato ripristinato nella sua prerogativa originaria,
quella cioè di fungere da supporto sacrale stabile al libro della Parola.
Inoltre il diacono – o, in sua assenza, il sacerdote –, pur continuando a
397
presentarsi come lettore qualificato per la proclamazione del Vangelo,
si è visto affiancare i lettori istituiti20, o anche i lettori straordinari, con
l’incarico di proclamare tutte le altre letture della Parola di Dio. La ri-
forma liturgica ha poi arricchito con dovizia il lezionario, sia per il ciclo
domenicale ripartito su tre anni, sia per il ciclo feriale, suddiviso in due
anni. Alla proclamazione della Parola di Dio fa seguito la preghiera dei
fedeli, con la quale l’assemblea chiede a Dio Padre di aiutarla a mettere
in pratica quanto il precedente ascolto le ha fatto comprendere. Non
si tratta di una creazione «ex novo», ma del ripristino di un elemento
liturgico di prima grandezza voluto dalla costituzione conciliare21.

18. M. Sodi - A. M. Triacca (edd.), Missale Romanum 1570, cit., 12; M. Sodi
- A. Toniolo (edd.), Missale Romanum 1962, cit., 59. Al fine di comporre lo sguar-
do di rispetto all’altare («contra altare») con lo sguardo al popolo («versus populum»),
il diacono e il suddiacono si dispongono l’uno di fronte all’altro parallelamente all’al-
tare, in modo tale che il suddiacono abbia l’altare a destra e la navata a sinistra.
19. Siccome l’omelia non figura nella descrizione «De Epistola, Graduali et
aliis usque ad Offertorium», con cui le rubriche generali del Messale di Pio V rias-
sumono la liturgia della Parola, la si può intendere nella voce comprensiva «de aliis»
(per le divisioni della Messa nel Messale tridentino, cfr M. Sodi - A. M. Triacca
[edd.], Missale Romanum 1570, cit., 10-19).
20. Sulla recente estensione dei ministeri alle donne, sancita da papa France-
sco, cfr C. Giraudo, «La ministerialità della donna nella liturgia. Tra “sana tradi-
zione” e “legittimo progresso”», in Civ. Catt. 2021 I 586-599.
21. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 53.
Per maggiori dettagli sulla preghiera dei fedeli, cfr C. Giraudo, Ascolta, Israele!
Ascoltaci, Signore!, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2008, 103-144.
VITA DELLA CHIESA

Venendo ora alla liturgia dell’Eucaristia, notiamo che nel Messale


del 1570/1962 l’offertorio presenta una complessità analoga a quella
riscontrata nel rito introduttivo. Là si trattava delle apologie dell’in-
troito, qui delle apologie dell’offertorio. Con questa espressione gli
storici della liturgia designano quel complesso di preghiere devozio-
nali, che «nacquero [...] in tempi di decadenza liturgica»22, come una
«farraginosa abbondanza di forme e di formule», denominata a par-
tire dal XV secolo «piccolo canone» o «canone minore»23, in quanto
anticipa alcune tematiche fondamentali del canone. In particolare, il
tema dell’offerta è anticipato, per il pane, dal «Suscipe, sancte Pater» e,
per il vino, dall’«Offerimus tibi, Domine». Se il «Deus, qui humanæ
substantiæ» assomiglia a un’epiclesi di comunione e il «Veni, sanctifi-
cator» a un’epiclesi di transustanziazione, a sua volta il «Suscipe, sancta
398
Trinitas» ha tutte le caratteristiche di un’intercessione per la Chiesa
trionfante e per la Chiesa nel mondo. Dopo la «Secreta», che conclude
il complesso offertoriale, ha luogo la liturgia eucaristica vera e propria,
rappresentata dal canone e dai riti di comunione.
Nel Messale del 1970/2002 le preghiere che accompagnano la
presentazione dei doni sono state riportate a proporzioni assai conte-
nute. Quanto poi alla preghiera eucaristica, sappiamo che la riforma
di Paolo VI ha affiancato al canone romano24 quei tre formulari di
nuova composizione che sono le preghiere eucaristiche II, III e IV. A
queste quattro preghiere l’edizione del 2002 continua giustamente a
riservare una posizione privilegiata rispetto alla redazione, in parte
ancora acerba, di altri nuovi formulari.

22. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, 3. La Messa, Milano, Àncora,


19663 (rist. anast. 1998), 331.
23. J. A. Jungmann, Missarum Sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della
Messa romana, 2, Torino, Marietti, 19632 , (rist. anast. Àncora 2004), 76.
24. Per il testo e il commento del canone romano, di cui Ambrogio († 397)
ci ha lasciato nel De sacramentis 4,21-27 (PL 16, 443b-446a) la più antica – quan-
tunque parziale – testimonianza, cfr C. Giraudo, «In unum corpus». Trattato mista­
gogico sull’eucaristia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 20072 , 381-403. I ritocchi
apportati dal Messale di Paolo VI al canone romano sono: a) la facoltà di omettere i
«per Christum Dominum nostrum» intermedi; b) il ripristino dell’espressione «quod
pro vobis tradetur» nella formula del pane; c) l’estrapolazione dalla formula del calice
dell’espressione «mysterium fidei», che diventa monizione d’avvio all’acclamazione
anamnetica; d) la sostituzione di «in mei memoriam» dell’ordine di iterazione con
«in meam commemorationem».
UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO

Per avere un quadro più completo dell’assetto rubricale della


Messa sacrificale prima del Vaticano II, si potrebbe accennare alle
complicate incensazioni, ai ripetuti baci e inchini all’altare e alle
cose, ai ventisei segni di croce nel solo canone, al sollevamento ap-
pena accennato della pianeta alla duplice elevazione, all’ingiunzione
fatta al sacerdote di non disgiungere pollici e indici dalla consa-
crazione fino alle abluzioni; e ancora: al «Pater» recitato o cantato
dal solo celebrante a cominciare dal «Per omnia sæcula sæculorum»
che lo precede, lasciando al ministro o ai fedeli il «Sed libera nos a
malo»; allo scambio di pace riservato ai ministri solo nella Messa so-
lenne; alla menzione della comunione ai fedeli solo come eventua-
lità25. Nel nuovo Messale queste prassi che risentivano di successivi
affastellamenti rubricali sono state snellite e la stessa comunione dei
399
fedeli, suggerita dai maestri spirituali del XVI secolo e autorevol-
mente raccomandata da Pio X († 1914) e da Pio XII († 1958), si è
vista promuovere da eccezione a norma.
Gli elementi che nel Messale del 1570/1962 compongono il rito con­
clusivo sono riconducibili a quattro: il congedo «Ite, Missa est», l’ora-
zione sottovoce «Placeat tibi, sancta Trinitas», la benedizione finale e la
lettura del prologo di Giovannni, detta «Ultimo Vangelo». Soffermia-
moci sull’«Ite, missa est», che la cultura popolare ha inserito tra i detti
latini noti anche al profano. Nel sinodo sull’Eucaristia del 2005 sono
tornati a prestarvi attenzione molti vescovi. Profondamente convinti
che l’impegno etico del cristiano è la prova del nove per verificare l’au-
tenticità dei nostri ascolti della Parola di Dio e delle nostre partecipazio-
ni alla mensa del Pane di vita, hanno sollecitato gli organi competenti
a rivalutare, tramite opportune esplicitazioni e adattamenti, il legame
tra missa (= messa celebrata), dimissio (= dimissione/congedo) e missio
(= invio in missione). Nell’esortazione apostolica post-sinodale, facendo
sua la preoccupazione dei vescovi, Benedetto XVI ha affermato: «Dopo
la benedizione, il diacono o il sacerdote congeda il popolo con le pa-
role: Ite, missa est. In questo saluto ci è dato di cogliere il rapporto tra

25. Cfr la rubrica «Quo [Sanguine] sumpto, si qui sunt communicandi, eos
communicet, antequam se purificet» (M. Sodi - A. M. Triacca [edd.], Missale Ro­
manum 1570, cit., 351; M. Sodi - A. Toniolo, Missale Romanum 1962, cit., 405).
VITA DELLA CHIESA

la Messa celebrata e la missione cristiana nel mondo»26. Nel Messale del


1970/2002, questa formula di congedo, spostata da prima a dopo la be-
nedizione, alternabile con analoghe formule, conclude la celebrazione.

I Messali di Pio V e di Paolo VI: più vicini di quel che si pensi

Il raffronto dell’uno e dell’altro Messale ci aiuta a capire meglio


l’invito, che papa Francesco rivolge a quanti si sentono affettiva-
mente legati al Messale tridentino, «a trovare nel Messale Romano
riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli ele-
menti del Rito Romano», soprattutto quegli elementi caratterizzanti
che il nuovo Messale ha non solo conservato, ma esaltato «in fedele
ossequio alla Tradizione». L’affermazione non deve sorprendere, in
400
quanto i Messali di Pio V e di Paolo VI sono in prosecuzione l’uno
dell’altro, né potrebbe essere altrimenti, giacché i due santi Pontefici
che li hanno promulgati remavano nella stessa direzione.
Pur riconoscendo l’impegno con cui Pio V affrontò il compito
affidatogli dal Concilio di Trento, quello cioè di riportare il Messale
«ad pristinam sanctorum Patrum normam ac ritum»27, vale a dire
all’assetto che esso aveva al tempo dei Padri, dobbiamo riconoscere
che l’obiettivo non fu raggiunto. Infatti gli esperti che affiancaro-
no il Pontefice non disponevano, né potevano disporre, di quella
documentazione e di quella metodologia di ricerca che solo oggi è
accessibile ai cultori di scienze liturgiche. Si trattò, insomma, di un
sogno, vale a dire di un desiderio sincero che, pur facendo onore
all’intento, lo ridimensiona. Fu così che l’incompiuto progetto del
Concilio di Trento e di Pio V fu ripreso – esattamente quattrocento
anni dopo – da un altro Concilio e da un altro Pontefice.
A quanti vorrebbero far iniziare la tradizione liturgica con quel
Messale che Pio V, al fine di accreditarlo, aveva presentato come defi-
nitivo, intangibile e immutabile, va ricordato che la tradizione ha un
respiro ben più ampio di quanto un preciso segmento di storia possa far

26. Benedetto XVI, Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum cari­


tatis, n. 51, in AAS 99 (2007) 144.
27. L’espressione figura nella costituzione apostolica Quo primum, con cui Pio V
il 14 luglio 1570 promulgò il Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Concilii Triden­
tini recognitum (cfr M. Sodi – A. M. Triacca [edd.], Missale Romanum 1570, cit., 3).
UNITÀ E CONCORDIA NELL’USO DEL MESSALE ROMANO

intendere. Consapevole di questa sua ininterrotta continuità lungo due


millenni di storia, il Vaticano II ha ripreso nuovamente in mano la de-
licata opera di restauro con queste parole: «L’ordinamento della Messa
sia riveduto, in modo che risulti più chiara la natura specifica delle sin-
gole parti e la loro mutua connessione, e sia resa più facile la pia e attiva
partecipazione dei fedeli. Pertanto i riti, conservata fedelmente la loro
sostanza, siano resi più semplici; si sopprimano gli elementi che, col
passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti meno utilmente; siano
invece restituiti (restituantur) all’originaria normativa dei santi Padri (ad
pristinam sanctorum Patrum normam) quegli elementi che con il logorio
dei secoli andarono perduti, nella misura che sembrerà opportuna o
necessaria»28. Non è certo un caso se queste parole, che già abbiamo
notato nella costituzione apostolica Quo primum di Pio V, figurano
401
pure in Sacrosanctum Concilium e nella costituzione apostolica Missale
Romanum di Paolo VI. Esse sono là a confermare la chiara volontà di
riprendere un progetto già avviato, ma che i condizionamenti storico-
culturali non avevano consentito di portare a termine. Possiamo esse-
re certi che nell’odierna struttura della Messa, felicemente riscoperta e
ripristinata, tutti i santi Padri si sarebbero riconosciuti, a cominciare
da Giustino († 165 ca.), che nella sua celebre descrizione della liturgia
domenicale tratteggia con una limpidezza sorprendente le linee guida
che hanno presieduto al restauro dell’edificio liturgico29.
Chiunque ha a cuore la celebrazione dei sacri riti nello spirito
del Concilio Vaticano II – sia egli cultore delle scienze liturgiche,
o responsabile di comunità, o semplice fedele –, non può non dire
grazie a papa Francesco per aver voluto condividere con i pastori
delle Chiese locali la «sollecitudine per tutta la Chiesa» nel ricercare
l’unità e la concordia sull’uso del Messale Romano e, congiunta-
mente, per avere riaffermato con determinazione inequivocabile i
valori della riforma liturgica, colmando così un fossato ecclesiale
che, invece di restringersi, rischiava di allargarsi sempre più.

28. Concilio Ecumenico Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 50.


29. Per una proiezione del Messale di Paolo VI sul «Messale dei Padri», che ideal­
mente possiamo intravedere nelle sobrie annotazioni di Giustino, cfr il mio articolo
citato alla nota 6, da cui ho ripreso in parte il raffronto dell’uno e dell’altro Messale.
ABITARE NELLA POSSIBILITÀ
Letteratura parola, la sua incapacità
RILETTURE di scrivere Dio. Tutta la
vita dello scrittore è as-
«IL VANGE- sorbita da questo com-
battimento, ritmata dai
LO SECON- suoi slanci e dai suoi fal-
DO JACK limenti, vulnerata dalla
KEROUAC­» sua impossibilità».
Per lo scrittore
di Claudio Zonta S.I. americano, due sono i
poli nei quali cercare

402
I l vangelo secon­
do Jack Kerouac di
Luca Miele (edito
da Claudiana, 2021) è
la presenza di Dio: la
parola e il silenzio. La
presenza di Dio può
divenire apofatica, per
un’attenta lettura dell’o- negazione, oppure tal-
pera del celebre padre mente diafana da essere
della beat generation. Ma abbagliante: «Dio è so-
se Kerouac è famoso so- speso perennemente tra
prattutto per l’ideale di rivelazione e nascondi-
libertà dalle strette con- mento», e il volto di Dio
venzioni sociali ame- può risplendere «in un
ricane, la ribellione al angolo di strada o di un
sistema, soprattutto nel albero o in qualsiasi al-
suo romanzo più cele- tra cosa».
bre On The Road, Miele È un Dio che sem-
si sofferma sulle tracce bra nascondersi nelle
della presenza di Dio pieghe e nelle piaghe
nei suoi scritti. delle esistenze dei per-
Dalla parola scrit- sonaggi on the road de-
ta appare un Kerouac scritti da Kerouac, che
alla ricerca di una pro- spesso cadono sotto il
fonda relazione con un peso delle proprie scel-
Dio che, tuttavia, risulta te, dei propri errori, in
sempre in continua defi- questo procedere talvol-
nizione, in una febbrile ta a tentoni tra il buio
e tenace dinamica fatta delle notti dell’anima. E
di lotte, di contrasti, di di fronte al dolore, Ke-
domande che non han- rouac innalza una pre-
no mai una risposta defi- ghiera: «Tutte le notti
nitiva. Dirà l’autore: «La continuo a chiedere al
battaglia con e contro la Signore, “Perché?” e an-
ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

cora non ho avuto una Cinema metà Ottocento è anco-


risposta decente». Ma la DRAMMATICO ra plebe, è sostituito dal
risposta resta anch’essa Felice Sciosciammocca
on the road, lungo quella «QUI RIDO IO» degli Scarpetta, un Pul-
strada dove sacro e dan- cinella imborghesito che
nazione s’incontrano e di Mariano Iacobellis S.I. finalmente, in Miseria e
si contendono l’anima nobiltà, si può «abboffa-
dell’essere umano. re» di spaghetti, saltando
E allora, scorren-
do le pagine di questa
lettura alternativa che
Miele fa dell’opera del-
Q ui rido io, diretto
da Mario Mar-
tone, è un film
su Eduardo Scarpet-
sulla tavola che, agli ini-
zi del Novecento e con
la belle époque, non è più
privilegio di pochi, ma
lo scrittore americano, ta, interpretato da Toni sembra sia stata imban-
vediamo quanto la pa- Servillo e presentato in dita per l’intera umanità.
rola sia performativa di concorso al Festival di La pellicola di Mar- 403
una ricerca incessante, Venezia 2021. Il film, tone è un’esperienza sen-
che si continua a scon- attraverso il ritratto di soriale ed emotiva coin-
trare con i dubbi e le Scarpetta, intende ren- volgente, che immerge lo
questioni più profonde dere omaggio a quella spettatore nell’atmosfera
dell’essere umano. Da- tradizione del teatro na- del palcoscenico vista da
gli scritti di Kerouac poletano che fondò il suo dietro le quinte, tra gli at-
si intravede una ten- successo sull’attorialità tori che si preparano a en-
tennante e balbuziente prorompente e irresisti- trare in scena, sorpresi nel
risposta, ma soprat- bile dei suoi grandi in- loro quotidiano, in attesa
tutto si intuisce come terpreti. L’attore, in quel di dire anche solo poche
Dio percorra le stesse teatro oramai scomparso, battute, o mentre adden-
strade dell’uomo, be- ha il sopravvento sul testo tano una pizza, simbolo
nedicendo l’esistenza, e trasforma un canovac- della semplicità geniale di
anche quella più com- cio, una pochade tradotta cui si nutre l’arte popola-
promessa, forse perché in farsa, in un’esperien- re a Napoli da sempre.
beat è un modo di esse- za di vita vissuta, in cui Dal personaggio di
re che appartiene a Dio il pubblico, avvertendola Scarpetta si dipartono
stesso..., perché: «beat come una parodia bona- più linee temporali che
non significa stanco o ria e ironicamente com- si muovono dal passato
abbattuto quanto piut- plice della propria esi- (Antonio Petito, l’ultimo
tosto beato... come San stenza, inconsciamente si grande interprete di Pul-
Francesco, cercando di riconosce. cinella) al futuro (il figlio
amare tutte le forme Il Pulcinella dei Pe- Vincenzo Scarpetta, che
di vita…, praticando la tito, simbolo della fame fu attore e commediogra-
tolleranza, la gentilez- atavica e della miseria fo). E poi fino ai tre fratelli
za, coltivando la gioia senza speranza di un De Filippo, ancora bambi-
nel cuore». popolo straccione che a ni e che confluiscono nel
presente per documen- nuovo singolo, intitolato società, in cui la giorna-
tarne l’enorme successo «Un secondo sospeso». ta risulta essere sempre
di pubblico, la vita prin- Le sonorità sono ricche troppo breve, la cantante
di elettronica, ritmi ip-
cipesca tra lussi e sfarzosi opta per una soluzione di
ricevimenti, la famiglia notici, che si espandono «resistenza», conquistata e
allargata con i numerosi quasi all’infinito, come il difesa perché contro ogni
tempo che scorre e non
figli naturali e illegittimi, legge economica, «non ho
i contrasti con il nascentesi ferma mai. Ed è pro- niente da monetizzare... è
teatro d’arte dei nuovi au-prio il senso e il valore una scelta anticapitale».
tori napoletani – Di Gia- del tempo il tema su cui Ma non è il desiderio
como, Bovio, Russo –, il la cantante si sofferma. di un tempo vuoto senza
declino e la solitudine e, L’incipit «Prendo senso: anche la noia, in-
infine, lo scontro con il tempo, lo regalo al fatti, può essere qualita-
tea­tro colto di D’Annun- mondo» potrebbe avere tivamente più intensa del
404 zio, che finì in tribunale.il senso del «caffè sospe­ non provare «più niente»,
Qui rido io è il capo-so» napoletano, ossia che è il rischio dell’ecces-
lavoro assoluto di Mar- offerto a chi non può so di sollecitazioni du-
tone, che consacra Toni permetterselo: dunque, rante la giornata. Questa
Servillo, degno erede di in questo caso, un rega- diventa tutta uguale, in
quell’arte attoriale straor­
lo anonimo del proprio quanto non si ha l’oc-
dinaria e senza tempo tempo. Esso coglie due casione di rileggere ciò
che fu di Petito, di Scar- aspetti che sembrano es- che si è fatto. Così anche
petta, di Eduardo, ma sere in antitesi: prendere il silenzio «enorme» può
non più Maschera, bensì per sé il tempo, quasi si diventare anticipazione di
interprete unico di tutte sentisse la fugacità della un grido di vita e di gioia:
le Maschere. vita e, insieme, l’azione «Allora fatemi gridare
di regalare il proprio forte / in questo presente /
tempo al mondo, resti- e provare la gioia / prima
tuendo agli altri ciò che che non provi più niente».
Musica si è assaporato di questo La Betti, con la sua
POP tempo atteso e vissuto. voce chiara e calda, pro-
La frase che ricorre in- va a riflettere – attraver-
LA SOSPEN- cessantemente per tutto so questa canzone dalle
il brano musicale, e che sonorità contemporanee,
SIONE DEL dà il titolo alla canzone, moderne, orecchiabili –
TEMPO è «un secondo sospeso», sulla qualità del nostro
dove la brevità del tem- tempo e sembra riecheg-
di Claudio Zonta S.I. po, espressa dall’unità giare le sapienti parole
di tempo del secondo, è rivolte da Seneca all’ami-

E
leonora Betti, dilatata nella sospensio- co Lucilio: Omnia, Lucili,
cantautrice tosca- ne del tempo stesso. aliena sunt, tempus tan­
na, pubblica un Nella nostra epoca e tum nostrum est.
ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

A rte tosto etico, spirituale: di colore è racchiusa la


FOTOGRAFIA «Penso che la religione monumentalità di un
abbia il potere di gua- gesto familiare sempli-
L’AMORE? rire un individuo, la ce e solenne. Arricchita
vera pratica religiosa dà dagli ornamenti tipici
UN CULTO vita ad azioni moderate dei luoghi di preghiera,
GRADITO A in tutti gli aspetti della l’opera vuole celebra-
DIO nostra esistenza». re la fedeltà e l’amore
In I’m Sorry/I For­ come il culto più alto
di Luigi Territo S.I. give You, Sorry Mama che si possa rendere a
(2012), la Abouon fo- Dio. Nel doppio ritrat-

N
ata nel 1982 a tografa il padre malato, to speculare si gioca
Tripoli, Arwa accarezzato affettuosa- poi quel messaggio di
Abouon non ha mente dalla moglie. Un uguaglianza e di pari
conosciuto il vento cal- casto bacio sulla fronte, dignità che non neces- 405
do del deserto libico né uno scatto per immor- sita di spiegazioni. A
le sofferenze di un po- talare un amore pro- differenza delle usua-
polo ferito da guerre. La fondo, un gesto rubato li immagini dell’islam
sua famiglia si trasferi- all’intimità dell’anziana politico ritratto quoti-
sce presto dalla Libia in coppia per testimonia- dianamente sui media di
Canada. Cresciuta in un re il legame indissolu- tutto il mondo, l’opera
ambiente multietnico, bile che li ha uniti per della Abouon vuole es-
e da sempre interessata tutta la vita. «Vedere sere una celebrazione
al dialogo fra culture e un’anziana coppia mu- poetica dei fondamenti
religioni, si laurea alla sulmana abbracciarsi e della fede.
Concordia University di baciarsi è stato qualcosa La vita della gio-
Montreal in Design, che ho voluto sottoline- vane artista libico-ca-
arte e fotografia. are [...], volevo mostrare nadese si è consumata
La giovane artista allo spettatore l’immen- in fretta: all’età di 38
esplora le identità in so amore che hanno anni si è spenta tra le
conflitto che abitano il avuto l’uno per l’altro, braccia dei suoi cari.
suo mondo: questioni soprattutto perché con- La sua esistenza è stata
di genere, esperienze trasta con le rappresen- un viaggio magico. La
religiose, tradizioni e tazioni mediatiche del sua arte rimane una te-
modernità. Intervistata mondo islamico». stimonianza di libertà,
sulla rappresentazione L’artista inserisce un grido di vita, una
del velo nelle sue opere, il profilo dei genitori luce pallida e mite in un
la giovane artista libica all’interno di un pattern mondo ancora accecato
sostiene che le sue fo- che evoca le decorazio- da fondamentalismi e
tografie non vogliono ni geometriche delle divisioni.
partecipare a un dibat- moschee. Nel cando-
tito politico, ma piut- re di uno sfondo privo ***
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

CHRISTOPH THEOBALD

406
L A FEDE NELL’ATTUALE CONTESTO
EUROPEO. CRISTIANESIMO COME STILE
Brescia, Queriniana, 2021, 288, € 38,00.

La situazione di post-secolarizzazione che caratterizza oggi la so-


cietà europea suscita interrogativi profondi sulle modalità della pre-
senza in essa della Chiesa e del singolo credente. Christoph Theobald,
gesuita e docente di teologia fondamentale a Parigi, propone in questo
libro una riflessione rigorosa sulla presenza della fede in Europa. L’at-
tenzione ai contributi della filosofia e della sociologia, il fedele rife-
rimento ai documenti del magistero e la conoscenza delle dinamiche
che sostennero la stesura dei documenti del Concilio Vaticano II attri-
buiscono alla sua riflessione un carattere di complessità e nello stesso
tempo di serietà.
Il percorso dell’A. si sviluppa in cinque momenti, che corrispondono
ai cinque capitoli del libro. Il primo è costituito dalla diagnosi del con-
testo europeo e dalla definizione del concetto di «stile», che è la chiave
unificante della sua riflessione. Vengono presentate tre nuove categorie
della fede in Europa: la Chiesa in diaspora, in quanto minoranza priva di
un ruolo guida nella società; la exculturazione, la scomparsa dell’impian-
to culturale che aveva formalizzato la fede nel passato; la crisi di credi­
bilità, per la frammentazione delle visioni del mondo e la provvisorietà
dei nuovi valori.
Il secondo capitolo sviluppa la visione dell’Europa come terra di mis­
sione e mette in luce la presenza di una fede originaria, di una fiducia
nella vita che può costituire il punto d’incontro con chiunque, «una “fi-
ducia originaria”: un fidarsi nella vita che può essere assolutamente qua-
lificata come “spirituale” nel senso più originario del termine» (p. 63).

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 406-414 | 4114 (20 nov/4 dic 2021)


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

Il terzo capitolo affronta le problematiche del pluralismo religioso


e delle manifestazioni di violenza. Fondandosi sul dogma dell’unione
ipostatica e sull’unicità filiale di Cristo, l’A. indica nell’accoglienza della
volontà del Padre l’ospitalità originaria di Cristo e il modello della santità
cristiana: «“L’unicità di eccellenza” di Gesù deve essere identificata con la
sua santità ospitale» (p. 128).
Il quarto capitolo è dedicato alle attuali sfide dell’ecologia e del tran-
sumanesimo, che secondo l’A. sono segni dei tempi che negli anni del
Concilio Vaticano II non avevano ancora la rilevanza che hanno oggi.
Apparentemente in contraddizione tra loro, l’autolimitazione per il ri-
spetto della Terra e il superamento tecnologico dei limiti umani conver-
gono nella responsabilità-non-reciproca e nella speranza del credente,
collegate alla fede e sostenute dallo Spirito: «Questa speranza si nutre
dell’esperienza di una vita nuova gratuitamente donata» (p. 189).
Il quinto capitolo è dedicato alla Chiesa. Theobald ritiene che il pas-
407
saggio dalla fiducia originaria alla fede cristiana avvenga per una grazia
speciale, che fa di chiunque un discepolo e del discepolo un missionario.
Interessante è l’interpretazione dell’opera lucana come modello dell’ec-
clesiogenesi contemporanea, indicata da lui in sette tappe, e fondamento
della pneumatologia che sostiene la missione ecclesiale.
Il percorso dell’A. è guidato dal concetto di «stile», assunto dalla
linguistica e dalla fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty e utiliz-
zato in funzione euristica in teologia fondamentale. Theobald fa notare
come oggi questo concetto sia presente anche nel più alto magistero
della Chiesa, per indicare la coerenza tra il Vangelo e la vita di chi lo
annuncia: ricorre 22 volte nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium
e 18 nell’enciclica Laudato si’. L’A. spiega che il concetto di «stile» ha tre
componenti: la singolarità, il processo di incontro e l’inserimento nel
mondo. Con esso la rivelazione divina può essere intesa non soltanto
come autocomunicazione, ma come incontro tra persone e relazione
non dissociabile dal contenuto.
Per Theobald, lo stilema che caratterizza il cristiano europeo è la
«santa ospitalità», vissuta in modo attivo, secondo lo schema del «vede-
re-giudicare-agire» dell’Azione cattolica: schema che ha sostenuto la
stesura della Gaudium et spes. Il concetto di «stile», applicato alla «vita
cristiana» e integrato dal sensus fidei fidelium, permette così di fonda-
re in modo nuovo e significativo la presenza della Chiesa nel mondo
contemporaneo.

Lorenzo M. Gilardi
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

FRANCESCO OCCHETTA - MARIELLA ENOC

I L DONO E IL DISCERNIMENTO.
DIALOGO TRA UN GESUITA E UNA MANAGER
Milano, Rizzoli, 2021, 190, € 14,00.

Mariella Enoc è una figura che sta decisamente scomoda dentro l’etichetta
«manager». L’ho conosciuta in occasione della pubblicazione del volume L’ amo­
re prima del mondo, nel quale papa Francesco risponde alle lettere di bambini
provenienti da molte nazioni. Organizzammo una presentazione all’Ospedale
«Bambino Gesù» e vidi il suo entusiasmo, anche nella decisione di donare il vo-
lume ai bambini passando per i vari reparti.
Tra le pagine di questo volume-intervista ho ritrovato l’operosità mater-
na, caratteristica della sua presenza nell’Ospedale pediatrico della Santa Sede
«Bambino Gesù», del quale è presidente dal 2015. La cifra della Enoc è la ma-
ternità, non la managerialità. Eppure, la storia di questa donna rivela energie
408
profuse senza risparmio, tenacia, chiarezza di intenti. In questo libro emerge,
certo, il racconto degli incarichi di alto profilo e responsabilità che ha assunto
nel tempo, ma soprattutto la cifra interiore della sua azione e del suo impegno.
La Enoc non fa un elenco di cose fatte e di «successi». Chiaramente è infastidita
dal protagonismo e attratta dalla testimonianza. In primo piano ci sono le gioie
e le ferite, le speranze e le paure, le convinzioni incrollabili e i dubbi irrisolti, le
battaglie vinte e quelle perse, ma comunque combattute sempre fino in fondo.
La sua vita professionale si intreccia – ma bisognerebbe parlare di fusione,
più che di intreccio – con la vita di fede e l’impegno nell’Azione cattolica. Tanti
gli incontri con grandi personalità della Chiesa (prima tra tutte, mons. Aldo
Del Monte, vescovo di Novara) e le sue riflessioni, frutto dell’esperienza. Dal
suo racconto emerge naturalmente uno spaccato della Chiesa degli anni del
Concilio, con le sue tensioni e le sue speranze.
La sua esperienza religiosa è senza etichette né appartenenze particolari: si è
formata nel grembo ordinario della Chiesa. Le cifre della sua religiosità sono ben
chiare. Tra le altre, notiamo innanzitutto «la scelta di “uscire” per “andare”», che
– afferma – «è la dinamica che ha accompagnato la mia vita fin da piccola». La
Enoc interpreta così la sua laicità: essere nel mondo per testimoniare lì un Van-
gelo operoso. Ma questa concretezza è pure, in qualche modo, monastica: è l’ora
et labora benedettino, plasmato da un forte spirito di accoglienza. Lei confessa:
«La vita contemplativa ha nutrito la mia vocazione di manager bilanciando ciò
che conta, permettendomi di illuminare domande profonde che in genere nella
professione mancano, avere un rapporto con il tempo diverso».
La sua esperienza di fede si traduce naturalmente in cura. L’opera, per lei,
è essenzialmente cura. Che sia espressa in un intervento straordinario, come la
separazione di due gemelle siamesi, o nella fondazione di un ospedale nella Re-
pubblica Centrafricana, oppure nella semplicità dei gesti quotidiani in corsia, in
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

fondo è la stessa cosa. Il suo è un approccio «feriale», lontano da sensazionalismi


e note acute.
Altra cifra del suo prendersi cura è una «concezione olistica del paziente,
fondamentale per essere attenti a tutti i suoi bisogni, sia quelli spirituali che
quelli materiali, come il cibo, la pulizia, la relazione eccetera». E il «paziente»
deve restare sempre tale e mai diventare un «cliente».
Tra le pagine non sarà difficile individuare i criteri che ispirano la sua azio-
ne a favore di quella che lei definisce «sanità no profit». La sfida per la sanità
cattolica è innanzitutto «la capacità di abitare i confini ignorati dalla sanità pub-
blica». E la ricerca scientifica è per la Chiesa «una forma di evangelizzazione e
di amore, di personalizzazione della medicina e di rigore per la cura. La scienza
è una forma di carità».
Alla fine della lettura, si avverte il gusto dell’impegno (e del sacrificio) da-
vanti alla percezione, da una parte, della fragilità umana e, dall’altra, del genio
che l’essere umano può esprimere con la cura per guarire e per aiutare chi ha
409
una malattia a viverla dignitosamente.

Antonio Spadaro

I L COLORE NELL’ARTE
a cura di MASSIMO CARBONI
Milano, Jaca Book, 2021, 260, € 50,00.

Un volume da collezione, con un ricchissimo corredo di foto, ci propone


un’indagine sul linguaggio dell’arte, della cultura e delle tradizioni attraverso
l’uso, l’interpretazione e la comprensione del colore. Un percorso per molti
aspetti complementare alla tradizionale «storia dell’arte», che consente di «la-
sciar emergere sia le costanti sia le variabili che nei vari secoli e nelle diverse
epoche stilistiche accompagnano l’esperienza cromatica sub specie artistica»
(p. 7). Una relazione, quella fra arte e colore, a prima vista «immediata, qua-
si intuitiva» – come precisa nell’Introduzione Massimo Carboni, docente di
Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Roma – e che invece è posta dagli
Autori dei saggi di questo volume in termini più complessi e problematici.
I colori non sono elemento secondario per comprendere civiltà, religioni
e culture di ogni epoca e di ogni parte del mondo. Fanno parte del «pensie-
ro simbolico e delle sue pratiche» e si pongono sempre su un doppio livello:
«quello dell’investimento pulsionale, della condensazione emotiva, dell’urto
sulla sfera dei sensi, e quello della sua codifica all’interno dei paradigmi sim-
bolici che una data cultura innesta sull’esperienza cromatica» (pp. 20 s).
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

Così riconosciamo il filo conduttore dei 10 contributi presenti nel volu-


me, che spaziano dal colore nell’arte africana fino a quella cinese, o ancora dal
colore nell’islam al sistema cromatico della pittura cristiana d’Oriente. Il colo-
re ci consente di andare in profondità, di comprendere meglio le civiltà da noi
più lontane. Così possiamo sapere, ad esempio, che gli africani non parlano
del colore, ma attraverso di esso, rivelandoci una conoscenza più esperienziale
che concettuale del mondo.
Anche per le religioni i colori hanno un ruolo primario. Nel contributo
dedicato all’islam, Giovanni Curatola, docente di Archeologia e Storia dell’arte
musulmana, ricorda in particolare la tipicità del verde, equiparato dal Profeta,
per gradevolezza, alla visione di una bella donna. Tenuto conto dell’ambiente
desertico in cui ha origine l’islam, «la predilezione per questa tonalità è assolu-
tamente naturale». Anche nel Corano il paradiso è «metaforicamente descritto
come un luogo verdissimo e con abbondanza d’acqua». Verde è dunque anche
il colore dell’eternità e dello «stendardo di battaglia del Profeta» (p. 78).
410
Decisamente centrale per l’arte bizantina è invece l’oro, il fondo d’oro
uniforme dei mosaici, funzionale a «rendere evidente che i personaggi sa-
cri appartengono a un mondo diverso dal nostro, quello della trascendenza»
(p. 97). L’oro è l’emanazione della luce divina, «presente nelle figure stesse,
sulle loro vesti, completandone la smaterializzazione». «Il fondo d’oro, inoltre,
– precisa Tania Velmans, storica dell’arte e bizantinista – abolisce qualsiasi
riferimento spazio-temporale» (p. 98), introducendo tutti i personaggi rap-
presentati nella dimensione infinita ed eterna del sacro.
Questa ricerca della luce in rapporto al colore, del trascendente in rap-
porto al terreno è il tema del contributo di Roberto Cassanelli sulle cattedrali
nel Medioevo, nelle quali il biancore luminoso e splendente degli interni si
incontra con le policrome vetrate, che di fatto tendono «a sostituirsi al muro,
rendendo lo spazio sacro un involucro trasparente e colorato penetrato dalla
luce, e offrendo una nuova suggestiva superficie per la narrazione evangelica
e la riflessione teologica» (p. 138).
Il rapporto fra colore, forme e luce si protrae, nello sviluppo dell’arte oc-
cidentale, fino ai percorsi innovativi e sperimentali del secolo scorso, che ri-
lanciano una riflessione anche di carattere filosofico sui colori, come viene
ricordato nella «Breve Nota» conclusiva di Alice Barale.
Significativa diventa così la scelta per la sovraccoperta di questo volume:
un’opera di Lucio Fontana, Concetto spaziale, la fine di Dio, del 1964, una tela
monocroma ovale, caratterizzata da una costellazione di buchi e intagli che
«aprono» al nero, a suggerire «un viaggio verso uno spazio infinito» (p. 224).

Massimo Gnezda
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

C ASSIODORO PRIMO UMANISTA


a cura di ALESSANDRO GHISALBERTI – ANTONIO TARZIA
Milano, Jaca Book, 2021, 192, € 20,00.

È l’ultimo capitolo, intitolato «Gli “amici” di Cassiodoro dal VI al


XXI secolo», a offrire al lettore la migliore chiave interpretativa dell’in-
tero libro, dedicato alla figura di Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, vis-
suto quasi 100 anni, all’incirca tra il 485 e il 583. Infatti, in quel capitolo
vengono elencate alcune delle numerose personalità che si sono positiva-
mente confrontate con il celebre uomo politico e intellettuale calabrese
e con la sua ricca eredità spirituale e culturale: tra esse spiccano Severino
Boezio e Benedetto da Norcia, Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile,
Guglielmo di Saint-Thierry e Ildegarda di Bingen, Tommaso d’Aquino
e Francesco Petrarca, Hans Urs von Balthasar e Raimon Panikkar, Mario
Pomilio e Joseph Ratzinger. 411
Cassiodoro fondò, nella natia terra di Calabria, un monastero, di-
venuto ben presto un faro di sapienza e di cultura, ove i monaci erano
impegnati in un prezioso lavoro di copiatura delle opere della classicità
sia pagana sia cristiana.
Come avverte Franco Cardini nell’Introduzione, lungo i secoli i giudizi
su questo politico e letterato sono stati molto diversi, e agli encomi si sono
alternate le critiche più severe; oggi il quadro si è chiarito e, come attesta
anche questo volume, Cassiodoro deve essere considerato un personaggio di
indubbio valore, in grado di avere un ruolo importante nella fase storica in
cui visse e operò e capace di lasciare una traccia assai rilevante nella storia
della cultura posteriore.
Nella catechesi di mercoledì 12 marzo 2008, riportata nel libro, riferen-
dosi a Cassiodoro, papa Benedetto XVI ha affermato: «Le vicende storiche
non gli permisero di realizzare i suoi sogni politici e culturali, che miravano
a creare una sintesi fra la tradizione romano-cristiana dell’Italia e la nuova
cultura gotica. Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzia-
lità del movimento monastico che si andava affermando nelle terre cristiane.
Decise di appoggiarlo, dedicando a esso tutte le sue ricchezze materiali e le
sue forze spirituali» (p. 183). Sia l’impegno, non coronato da successo, teso
a far incontrare il mondo romano e quello goto, sia il più fortunato sforzo
di tramandare ai posteri il ricco patrimonio culturale dell’antichità fanno di
Cassiodoro un uomo votato al dialogo e, come sostiene ancora Benedetto
XVI, un «modello di riconciliazione» (p. 183).

Maurizio Schoepflin
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

ENRICO CARLONI - MARCO MAZZONI

I L CANTIERE DELLE LOBBY.


PROCESSI DECISIONALI, CONSENSO, REGOLE
Roma, Carocci, 2020, 128, € 15,00.

L’intento dell’interessante libro di Enrico Carloni, professore di Diritto


amministrativo all’Università di Perugia, e di Marco Mazzoni, professore di
Sociologia dei processi culturali e comunicativi nello stesso Ateneo, è quello
di affrontare il lobbying come un cantiere aperto, da osservare per cogliere
le tendenze di fondo e i problemi irrisolti. Pertanto, questo libro dev’essere
considerato come un apporto alla costruzione dell’opera finale, ossia conso-
lidare il lobbying in Italia, contribuendo anche a creare le condizioni perché
alcuni dei cantieri si chiudano. La sua proposta va nella direzione di quel
filone di studi che interpreta il lobbying come negoziazione tra le istituzioni
pubbliche e quel pluralismo che caratterizza la società civile, cercando di
412
favorirne il corretto sviluppo.
Partendo dalla convinzione dei due AA. di classificare il lobbying essen-
zialmente come un fatto comunicazionale che impatta in modo significati-
vo sulla complessità dei processi decisionali pubblici, il libro esamina alcuni
aspetti fondamentali: dalla definizione del lobbying all’individuazione delle
attività e delle fasi che lo contraddistinguono; dall’illustrazione della figura
del lobbista alle diverse forme della sua manifestazione.
Segue il capitolo dedicato alla regolamentazione di questo fenomeno, con
riferimento ai due principali modelli di lobbying: il «modello Washington»,
legato alla realtà degli Stati Uniti, con la caratteristica di porre il proprio ba-
ricentro su un principio di trasparenza, orientato a contenere i possibili effetti
patologici del fenomeno; e il «modello Bruxelles», che si riferisce all’esperien-
za dell’Unione Europea ed è orientato a favorire la partecipazione. 
In alternativa a questi due modelli, vi è una terza possibilità, rappresentata
da un non modello, che si concretizza in una regolazione assente, oppure in
una regolazione indiretta, con le conseguenze riscontrate di una normativa
frammentaria e disomogenea. 
Nella parte conclusiva del libro vengono affrontati alcuni temi legati al
lobbying: i rapporti con la corruzione, con il traffico di influenze e con il
finanziamento della politica. Non manca, infine, uno spazio riservato a una
valutazione della nostra esperienza nazionale, risultando l’Italia, insieme con
la Spagna, il Paese europeo in cui finora i progetti di regolamentazione del
lobbying si sono sempre arenati. E qui l’analisi sviluppata dai due AA. li porta a
concludere che i meccanismi di trasparenza adottati nel nostro Paese sembra-
no trovare applicazione nella «parte bassa» del sistema pubblico, mentre non
può dirsi altrettanto per i processi decisionali a livello più alto.
Ma anche questa criticità può essere interpretata come un’opportunità da
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

cogliere, lavorando intorno ai paradigmi della trasparenza come visibilità,


della partecipazione come inclusione, e della collaborazione tra pubblico e
privato. Si può, dunque, puntare a realizzare in Italia una regolamentazione
del lobbying orientata al principio del corretto e trasparente funzionamento
del sistema pubblico, contrastando i fenomeni di corruzione politica e ammi-
nistrativa e ripristinando la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella legge.

Daniela Condò

DOMENICO SIMEONE

I L DONO DELL’EDUCAZIONE.
UN NUOVO PATTO TRA LE GENERAZIONI
Brescia, Morcelliana, 2021, 240, € 20,00. 413

Questo saggio di pedagogia della famiglia, scritto da Domenico Simeo-


ne, preside della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore, ci invita a riflettere sulla tutela di un capitale sociale prima-
rio e luogo di relazioni generative, richiamando il nostro sguardo verso una
nuova prospettiva educativa, alla luce dei mutati paradigmi familiari. Nella
società odierna, dove il Sé narcisistico prevale sul Sé matrimoniale, anche il
luogo del dono dell’amore reciproco per eccellenza, la famiglia – «la piccola
Chiesa domestica», come i Padri del Concilio l’hanno ribattezzata – risente
di questo nuovo modo di concepire la relazione di coppia, spesso libero da
impegni e spirito di sacrificio.
Quell’alleanza educativa che in passato era garantita dalle generazioni
più anziane viene meno e lascia spazio a solitudine e smarrimento proprio
nel momento in cui si desidera intraprendere il percorso fecondo verso la
genitorialità. La fragilità dei legami affettivi, la mancanza di politiche sociali
adeguate a favore della famiglia, la difficoltà di conciliare vita familiare e
lavorativa sono sfide che ci invitano a ridare valore alla relazione e all’incon-
tro autentico, perché «la famiglia rimane […] l’ambito fondamentale “dell’u-
manizzazione della persona”, il luogo privilegiato della cura degli affetti e
dell’educazione» (p. 28).
L’esperienza della genitorialità assume un significato profondo non
solo a livello personale, ma è espressione di un impegno nei confronti della
società e merita di essere adeguatamente supportata, perché, quando na-
sce un figlio, nascono anche un padre e una madre: «Nell’attesa, non solo
prende forma il figlio che sta per nascere, ma trova ospitalità il genitore
che viene messo al mondo dal figlio» (p. 47). Da qui deriva la responsabilità
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

educativa di fronte al «potenziale» religioso del bambino, che attende di


potersi manifestare: «L’apprendimento dei modelli relazionali, che avviene
nella prima infanzia e che vede nella famiglia un luogo primario, influisce
sulla modalità di relazione con Dio che il bambino vivrà. L’esperienza della
fiducia radicale, il “tempo dei perché” permettono a genitori e figli di con-
dividere una esperienza di fede» (p. 55).
La famiglia è il luogo concreto dove si incontrano fede e vita: «Si può af-
fermare che in ogni fase dello sviluppo il bambino pone una richiesta essen-
ziale di relazione, una richiesta dunque “religiosa”» (p. 61). Il bisogno di figure
genitoriali solide che alimentino la relazione educativa attraverso l’ascolto e il
dialogo, in un clima di reciproca fiducia, è la condizione essenziale per una
crescita libera e responsabile dei figli.
La funzione genitoriale dev’essere accompagnata e sostenuta da un patto
di corresponsabilità educativa con le altre comunità educanti, come la scuola
e la parrocchia. «A tal fine è indispensabile costruire alleanze educative che
414
favoriscano la positiva interazione tra le diverse agenzie educative presenti sul
territorio» (p. 191). L’A. riflette anche sul tema dell’educazione sessuale, intesa
come educazione all’amore, da impartire fin dall’adolescenza, come parte in-
tegrante del più ampio processo di educazione alla persona.
I ragazzi di oggi, «narcisisticamente fragili», «paiono poco propensi ad
assumersi i rischi che l’amore e la passione comportano, temono il dolore,
non lo considerano un elemento inevitabile e sano della vita, necessario per
la crescita» (p. 124). Eppure è proprio in famiglia che l’individuo impara a
confrontarsi con l’inevitabilità del limite dell’esperienza umana, sia attraver-
so la malattia e la sofferenza, che spesso arrivano in modo imprevisto scon-
volgendo molti equilibri, sia attraverso le difficoltà che la vita presenta nel
cammino, sia attraverso la caducità dei rapporti umani. La famiglia, vissuta
come dono d’amore, «può quindi essere il luogo in cui è possibile affrontare le
divergenze, le offese, gli errori e vivere l’esperienza dell’essere perdonati e del
perdonare» (p. 138). In conclusione, «è importante che gli adulti recuperino la
propria responsabilità educativa, si facciano garanti di una promessa e di un
debito nei confronti delle giovani generazioni» (p. 183).

Benedetta Grendene
OPERE PERVENUTE

ECCLESIOLOGIA GIACOMINI S. – MARTINI C. M.,


Diavolo d’un cardinale. Lettere (1982-2012)
PETROLINO E., Diaconi senza frontiere. (L. BOSIO), Milano, Bompiani, 2021, 352,
Priorità e sfide per un ministero di fratellanza, € 20,00.
Cantalupa (To), Effatà, 2021, 240, € 15,00. LOPES F. - MANCINI R., Per una demo-
crazia post-razziale. Lettera aperta ai Ve­scovi
dell’Italia e dell’Africa sul problema dell’im­
ECOLOGIA migrazione, Cinisello Balsamo (Mi), San Pao-
L’uomo al centro. Per un’ecologia integrata (N. lo, 2021, 256, € 20,00.
ROTUNDO), Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, MARCHETTO A. - ARCELLI A. F.,
2021, 142, € 15,00. Riflessioni per un dialogo intraecclesiale, Soveria
Mannelli (Cz), Rubbettino, 2021, 74, € 7,00.
MURZAKU I. A., Mother Teresa. Saint of
ECONOMIA the peripheries, Mahwah, N.Y., Paulist Press, 2021,
BENTIVOGLI M., Il lavoro che ci salverà. 332, $ 29,95.
Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica, SELVADAGI P., La chiesa nella città. Un
Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2021, 256, profilo di parrocchia, Cinisello Balsamo (Mi), San
€ 20,00. Paolo, 2021, 190, € 16,00.
Whatever it takes. Mario Draghi in parole sue
( J. RANDOW - A. SPECIALE), Milano, Rizzoli, PATRISTICA
2021, 288, € 17,00.
GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul
Vangelo di Giovanni (omelie 1-29), Roma, Città
ETICA Nuova, 2021, 312, € 30,00.
CERVIÑO ALCAYAGA A. J., Il primato del ISACCO DI NINIVE, Discorsi ascetici.
comandamento nuovo in Chiara Lubich. Ontologia Prima collezione, Magnano (Bi), Qiqajon, 2021,
ed etica della trinitizzazione, Roma, Città Nuova, 768, € 40,00.
2021, 292, € 28,00.
RINALDI A., Una migrazione che dà SACRA SCRITTURA
speranza. I minori non accompagnati in Italia,
Milano, Mimesis, 2020, 294, € 30,00. A Necessary Task. Essays on Textual Criticism
of the Old Testament in Memory of Stephen Pisano
(D. CANDIDO - L. PESSOA DA SILVA PINTO),
PASTORALE Roma, Gregorian Biblical Press, 2020, 298, € 32,00.
ACETI E., Educare alla fede oggi. Essere BRUNI L., L’ anima e la cetra. Ciò che i salmi dicono
credenti, credibili e accompagnare alla fede adulta di noi, Magnano (Bi), Qiqajon, 2021, 264, € 22,00.
i nostri figli, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, CIARDI F., Dio si compromette. Un futuro
2021, 144, € 10,00. pieno di speranza, Roma, Città Nuova, 2021, 120,
CICCARELLI E. - TRULLI P. M., Sapore di € 14,90.
famiglia. Amarsi, educare, aprirsi al mondo, ivi, 2021, LEFEBVRE P., Provocazioni bibliche sulla
176, € 16,00. famiglia, Cantalupa (To), Effatà, 2021, 128,
Cuore (Il) parla al cuore. Trenta voci per € 13,00.
il cardinale Renato Corti (R. CUTAIA - M.
ALBERGANTE), Milano, Edizioni Rosminiane, TEOLOGIA
2021, 164, € 10,00.
ESSEREQUI, Il gregge smarrito. Chiesa e BERGAMO A., Essere, tempo e Trinità.
società nell’anno della pandemia, Soveria Mannelli Paradigmi e percorsi ermeneutici, Roma, Città
(Cz), Rubbettino, 2021, 160, € 15,00. Nuova, 2021, 280, € 27,00.
FABENE F. - COSTA C., Giovani. Un SARMENGHI A., Rimuovere l’oscurità.
progetto di vita, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, Conoscenza e amore nella «Somma di Teologia» di
2021, 160, € 14,00. Tommaso d’Aquino, ivi, 2021, 272, € 27,00.

NOTA. Non è possibile dar conto delle molte opere che ci pervengono. Ne diamo intanto un annuncio
sommario, che non comporta alcun giudizio, e ci riserviamo di tornarvi sopra secondo le possibilità e lo
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