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16 ott/6 nov 2021


Quindicinale
Anno 172

L’evangelizzazione secondo s. Paolo


Questioni politiche delle criptovalute
Il «bello» della fisica
La fortezza, una virtù esigente
Eutanasia, l’altra ondata che investe
l’Europa
Una teologia della memoria in tempi
di abusi sessuali da parte del clero
La «Madonna del Parto» di Piero
della Francesca
Premio Strega 2021: Emanuele Trevi
«Cittadinanza»
RIV ISTA INTERNAZIONALE DEI GESUITI

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B E AT U S P OPU LU S , C U I U S D O M I N U S DE U S E I U S
SOMMARIO 4112

16 ott/6 nov 2021


Quindicinale
Anno 172

105 L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO


Marc Rastoin S.I.

121 QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E POLITICHE DELLE CRIPTOVALUTE


Étienne Perrot S.I.

132 IL «BELLO» DELLA FISICA


Paolo Beltrame S.I.

144 LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE


Giovanni Cucci S.I.

157 EUTANASIA, L’ALTRA ONDATA CHE INVESTE L’EUROPA


Álvaro Lobo Arranz S.I.

169 UNA TEOLOGIA DELLA MEMORIA IN TEMPI DI ABUSI SESSUALI


COMMESSI DAL CLERO
Marcel Uwineza S.I.

180 LA «MADONNA DEL PARTO» DI PIERO DELLA FRANCESCA


Un capolavoro di disarmante modernità
Lucian Lechintan S.I.

186 «DUE VITE», DI EMANUELE TREVI


Premio Strega 2021
Claudio Zonta S.I.

190 «CITTADINANZA»
Domenico Pizzuti S.I. – Debora Tonelli

194 ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

198 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA


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SOMMARIO 4112

ARTICOLI
105 L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO
Marc Rastoin S.I.

San Paolo è l’apostolo per eccellenza e insegna a tutte le generazioni cristiane che cosa
significhi essere apostolo. Come vive e pensa un apostolo? Otto caratteristiche fonda-
mentali consentono di distinguere i tratti principali di un evangelizzatore, oggi come
ieri: non si può essere evangelizzatori senza un incontro personale con il Risorto, senza
il lavoro dell’intelligenza, senza collaboratori e amici, senza solidarietà finanziaria, senza
comunione con Pietro, senza saper riconoscere la sapienza di tutta l’umanità, senza una
preghiera costante e senza un combattimento spirituale. Paolo ha posto ogni sua risorsa
intellettuale, immaginativa e affettiva al servizio della sua fede in Gesù, Messia crocifisso
e risorto, e ora ci insegna che non si evangelizza senza vivere del Vangelo con impegno
personale.

121 QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E POLITICHE DELLE


CRIPTOVALUTE
Étienne Perrot S.I.

Le applicazioni monetarie della tecnologia blockchain sollevano serie questioni antropologi-


che e politiche. Eliminando gli intermediari di controllo, la blockchain consente infatti, in
uno stesso movimento, l’anonimato e la sicurezza delle transazioni. In un contesto di indivi-
dualismo radicale e perseguendo una logica anarchica senza il controllo di uno Stato sovrano
(ma non senza vincoli tecnici), le criptovalute suscitano giustamente risposte al contempo
normative, politiche e finanziarie da parte degli Stati. L’Autore è economista, professore
invitato presso l’Università di Friburgo (Svizzera).

132 IL «BELLO» DELLA FISICA


Paolo Beltrame S.I.

Che cosa si intende quando si afferma di percepire la bellezza in un modello fisico? Per gli
scienziati, la matematica è un dono meraviglioso, un «miracolo» che non comprendiamo pie-
namente. La bellezza, nella scienza, va quindi percepita nelle sue equazioni. Un altro aspetto
fondamentale consiste nel confronto con i dati reali, un setaccio che ogni teoria scientifica
deve superare. La fisica ci appare allora come un delicato e misterioso equilibrio tra geniale
intuizione estetica, da una parte, e rigorosa verifica logico-sperimentale, dall’altra. E in que-
sto equilibrio instabile e dinamico sta il bello della fisica.
SOMMARIO 4112

144 LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE


Giovanni Cucci S.I.

Il termine «fortezza» può a prima vista comunicare un messaggio negativo di violenza e


sopraffazione o, più semplicemente, di prestanza fisica. Essa in realtà è una virtù indispensa-
bile per il vivere comune. Quando viene a mancare, prosperano, incontrastate, corruzione,
sopraffazione e delinquenza, perché coloro che potrebbero impedirle rinunciano a prendere
posizione. Ma cosa significa essere «forti»? Partendo da una ricognizione storica, nell’articolo
si cerca di evidenziare le molteplici caratteristiche di questa virtù, che non la riconducono
semplicemente al coraggio. La fortezza necessita di pazienza e speranza: una speranza che non
può limitarsi all’ambito della vita terrena. Gli accadimenti della vita non premiano la fortezza;
per questo essa richiede sempre, per il suo pieno compimento, la vita eterna.

FOCUS
157 EUTANASIA, L’ALTRA ONDATA CHE INVESTE L’EUROPA
Álvaro Lobo Arranz S.I.

Sono molti, ormai, i Paesi europei che hanno approvato leggi a favore dell’eutanasia. Il fe-
nomeno potrebbe diffondersi in altre nazioni d’Europa e del mondo. Questo articolo esami-
na diversi cambiamenti avvenuti a livello politico, economico, sociale e culturale, che hanno
portato all’approvazione di leggi di questo tipo. Si tratta di dinamiche che in un primo tempo
non sembravano avere un grande influsso, ma che poi, allontanandosi dal bene comune e dalla
verità, hanno contribuito ad affermare la «cultura dello scarto» nel Vecchio Continente. L’Au-
tore è collaboratore di varie testate spagnole, studia Teologia morale al Centro Sèvres di Parigi.

VITA DELLA CHIESA


169 UNA TEOLOGIA DELLA MEMORIA IN TEMPI DI ABUSI SESSUALI
COMMESSI DAL CLERO
Marcel Uwineza S.I.

L’articolo offre una rivisitazione del rapporto tra l’umanità e la Chiesa di Dio, ferito dagli abusi
sessuali del clero sui minori, ma anche dell’autorevolezza della Chiesa, oggi minata dalla perdita di
credibilità. Occorre formulare una teologia capace di orientare la riconciliazione della memoria.
Le ferite delle vittime dell’abuso sessuale da parte del clero devono costituire una sfida incessante
per noi. Nel risvegliare la fede dell’apostolo Tommaso facendogli toccare le ferite, Gesù gli dice:
«È dove tocchi la sofferenza umana che ti renderai conto che sono vivo. Mi incontrerai ovunque
la gente soffra». Questo articolo sulla memoria offre uno spunto per immaginare il perdono di ciò
che è imperdonabile. L’A. è professore all’università Hekima di Nairobi (Kenya).
SOMMARIO 4112

ARTE MUSICA SPETTACOLO


180 LA «MADONNA DEL PARTO» DI PIERO DELLA FRANCESCA
Un capolavoro di disarmante modernità
Lucian Lechintan S.I.
Tornando tra i suoi, in Toscana, verso il 1455, Piero della Francesca dipinge, per la comu-
nità nella quale ha le sue radici familiari, una Madonna accorta ed empatica, che contrasta
con le immagini medievali mortificate della Vergine incinta. Realizzato per una chiesa
periferica, lontana da qualsiasi centro di potere civile ed ecclesiastico, l’affresco intende
far progredire la comunità verso una nuova coscienza comune. La modernità del dipinto
non consiste soltanto nell’impostazione formale, ma soprattutto nell’originale interpreta-
zione dell’idea di maternità. L’Autore è dottorando presso il Pontificio Istituto Orientale
di Roma.

RIVISTE DELLA STAMPA


186 «DUE VITE», DI EMANUELE TREVI
Premio Strega 2021
Claudio Zonta S.I.

Il romanzo Due Vite, di Emanuele Trevi, si è aggiudicato il prestigioso Premio Strega


2021. In esso l’autore mostra come la parola trasformi il ricordo personale in una resistenza
ai drammi della vita, al vuoto e al silenzio provocato dal dolore per la perdita di amici cari.
La parola di Trevi non rende eterno il ricordo, come possono fare le epigrafi sepolcrali, ma
il suo procedere narrativo riempie di vita il vuoto generato dalla morte dei due amici, ren-
dendo densa di senso l’assenza umana.

190 «CITTADINANZA»
Domenico Pizzuti S.I. - Debora Tonelli

Il libro Cittadinanza, di Giovanni Moro, intende descrivere il fenomeno della cittadinanza e


il suo funzionamento, il suo consolidamento in un paradigma, ossia in un modello canonico,
i fatti che lo hanno messo in discussione e le sue attuali linee di trasformazione. Un approccio
legato alla concretezza del fenomeno può aiutare a guardare cosa c’è nell’occhio del ciclone.
Lo scopo di questo lavoro è rivolgere l’attenzione al cittadino reale anziché a quello ideale,
cioè alla «cittadinanza vissuta». Gli Autori sono p. Pizzuti, sociologo, e Debora Tonelli, rap-
presentante della Georgetown University a Roma.
SOMMARIO 4112

194 ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

«I Giusti» 194 - Lupin + Lupin 195 - Summer of Soul: la celebrazione della cultura black 196 -
Laocoonte: un solo grido e tante orecchie 197

198 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

Boni G. 201 - Lohfink G. 198 - Mandreoli F. 204 - Marin D. 202 - Mieth D. 205 - Riccardi
A. 199 - Riva V. 202 - Salvadori E. 202
L’EVANGELIZZAZIONE
SECONDO SAN PAOLO

Marc Rastoin S.I.

San Paolo è l’apostolo per eccellenza. Quando si pensa all’evan-


gelizzazione e alla vita missionaria, si pensa a lui. Uomo delle grandi
città, è vissuto tra le capitali della provincia orientale dell’Impero ro-
mano (Efeso, Corinto, Antiochia, Tessalonica). Nato nella diaspora,
105
ha soggiornato a Gerusalemme per i suoi studi da fariseo. Giudeo di
nobili natali, ha ricevuto nella sua formazione il meglio che la cultu-
ra giudaica ellenistica potesse offrire. In un primo tempo persecuto-
re dei cristiani e uomo «irreprensibile» secondo la legge di Mosè (cfr
Fil 3,6), è successivamente diventato cristiano verso il 33-34.
Negli Atti degli Apostoli ci vengono riferite da Luca tre cose che
Paolo stesso non ci dice. In primo luogo, che egli era di Tarso. Il livello
culturale di Paolo è in sintonia con questa città delle sue origini. Paolo
apparteneva a una famiglia agiata. Nella capitale della Cilicia, città
universitaria con scuole filosofiche fiorenti, aveva ricevuto un’eccel-
lente formazione ellenistica, che includeva la conoscenza della retorica
e degli elementi fondamentali della cultura greca.
In secondo luogo – cosa rara a quell’epoca –, per via della sua
famiglia egli era cittadino romano per nascita. Paolo scriverà ai Co-
rinzi: «Quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che
è nulla, Dio lo ha scelto» (1 Cor 1,28). Questo è vero senza dubbio
per la maggior parte dei cristiani di Corinto, ma Paolo, a motivo
della sua famiglia, della sua educazione e della sua formazione intel-
lettuale, apparteneva all’élite dell’Impero.
In terzo luogo, Luca ci informa che inizialmente Paolo si chiama-
va «Saulo», ma, stranamente, non ci fornisce alcun motivo per questo
cambiamento di nome (cfr At 13,9). Molti Giudei di quel tempo ave-
vano due nomi: uno a uso intra-comunitario e l’altro per il mondo

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 105-120 | 4112 (16 ott/6 nov 2021))


ARTICOLI

non giudaico. Saulo sarebbe allora il nome giudaico di Paolo? Questo


nome era raro tra i giudei di allora, che preferivano portare i nomi
dei membri della dinastia asmonea1. Chi avrebbe potuto dare il nome
«Saulo» al proprio figlio, se non perché appartenente a una famiglia
per la quale questo gesto sarebbe stato un segno di prestigio, perché
faceva parte della tribù di Saul? Ora, Paolo ci informa: «Anch’io in-
fatti sono un Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di
Beniamino» (Rm 11,1). È quindi molto probabile che il beniaminita
Saulo si sia chiamato Paolo nel contesto greco-latino.
È dunque questo giudeo fariseo della diaspora ellenistica, questo
cittadino romano della tribù di Beniamino che Cristo ha scelto per
essere l’evangelizzatore per eccellenza. Quello che egli ci insegna con
la sua vita e con le sue parole viene a costituire il quadro fondamen-
106
tale di ogni evangelizzazione.

Non c’è evangelizzazione senza l’esperienza personale del Cristo

«E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di
Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20b). L’e-
vento centrale della vita di Paolo è stato l’incontro con Cristo sulla via di
Damasco. Egli parla di questa sua esperienza senza parlare però del luogo,
e si riferisce poco sul suo contenuto. Circa venti anni dopo scriverà ai Ga-
lati: «Il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti
io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di
Gesù Cristo. […] Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre
e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo
perché lo annunciassi in mezzo alle genti» (Gal 1,11-16). Sorprende il fatto
che Paolo usi il linguaggio dei profeti – come ad esempio Geremia – per
parlare della propria chiamata. La missione di annunciare il Vangelo alle
nazioni è inscindibile dalla sua scoperta personale del Cristo. La comu-
nione con il Cristo sarà ormai al centro della sua vita spirituale.
Non conosciamo con precisione ciò che l’Apostolo ha vissuto, e
d’altra parte egli è molto discreto. Tuttavia affermerà: «Non sono for-

1. Questi rappresentavano all’incirca un terzo dei nomi maschili, e Saul si


colloca soltanto al diciottesimo posto. Cfr T. Ilan, Lexicon of Jewish Names in Late
Antiquity. Part I: Palestine 330 BCE – 200 CE, Tübingen, Mohr Siebeck, 2002, 56.
L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO

se libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Si-
gnore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? Anche se non
sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono» (1 Cor 9,1-2a). Per un
privilegio eccezionale, è stato concesso a Paolo, che non aveva cono-
sciuto Gesù secondo la carne, di vederlo risorto2. Il Cristo ha scelto un
persecutore che non era vissuto con lui, per farne il suo messaggero.
Ciò che Paolo ha vissuto, ogni cristiano e, a fortiori, ogni evangeliz-
zatore è chiamato a viverlo. Si tratta di realizzare un incontro personale
con Cristo e di poter parlare di lui in prima persona. Paolo è anzitutto
un uomo appassionato di Cristo, lieto di riprodurre nella sua carne le
prove di Cristo, perché questo lo avvicina al suo Signore: «D’ora innan-
zi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio cor-
po» (Gal 6,17). Trovare qualcuno per cui valga la pena morire significa
107
ritrovare Gesù (cfr Fil 1,21-25).
L’Apostolo nella sua fede è proiettato in Gesù: non soltanto nel
Cristo, il Messia, Verbo eterno di Dio, ma nell’uomo Gesù, nato da
una donna (cfr Gal 4,5). Il Cristo non è una persona anonima o un
semplice codice teologico: è proprio Gesù di Nazaret a esserlo. Ma
non è indispensabile aver conosciuto Gesù prima della sua passione:
«Se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non
lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16).
Paolo qui condivide con noi un aspetto fondamentale. Come lui, noi
non abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ma siamo chiamati a
conoscerlo nello Spirito. Paolo è l’anello di una catena che ci ricongiun-
ge con i Dodici. È certamente apostolo come loro, ma come noi non ha
conosciuto Gesù secondo la carne. Paolo ci insegna che l’evangelizza-
tore è anzitutto colui che ha percepito in qualche modo la gloria che ri-
splende sul volto di Cristo (cfr 2 Cor 4,6b). Questa strada è aperta a tutti.

Non c’è evangelizzazione senza il lavoro dell’intelligenza

«In assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza


per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono
delle lingue» (1 Cor 14,19). Nell’annunciare il Vangelo, Paolo cerca

2. Cfr J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Vol. II: Dall’ingresso in Gerusalemme


fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2011, 279.
ARTICOLI

di ragionare. Non si accontenta di proclamare il kerigma. Cerca di


dire perché, in base alle Scritture, il Messia doveva soffrire e risorgere;
cerca di argomentare. Sviluppa a lungo i motivi di credibilità della
risurrezione (cfr 1 Cor 15). Esplora le Scritture, che conosce a fondo,
per chiarire il mistero per cui una gran parte di Israele si è rifiutata di
riconoscere in Gesù il suo Messia promesso (cfr Rm 9–11).
Questi testi sono quelli che si utilizzano di più nella liturgia e
procurano talvolta a Paolo la reputazione di teologo austero e com-
plicato. Ma hanno il merito di mostrare come egli sfrutti tutte le
risorse della sua fede giudaica e della sua cultura filosofica e retorica
per addurre delle argomentazioni. Può accadere che egli menzioni
i segni di potenza e le guarigioni che hanno accompagnato la sua
predicazione (cfr Rm 15,19; 2 Cor 12,12); ma questi segni non lo
108
dispensano dal ragionare, ed egli ne parla il meno possibile.

PAOLO SA CHE CIÒ CHE TOCCA IL CUORE DEGLI


UOMINI NON È LA SUA ELOQUENZA, MA DIO STESSO.

Paolo preferisce menzionare le virtù comuni: la costanza e la per-


severanza di fronte alle persecuzioni. Ciò che egli pone in evidenza
non sono tanto le sue esperienze mistiche (anche se straordinarie, cfr
2 Cor 12,4), quanto le sue esperienze di sofferenza, molto concrete.
Egli reca sul suo corpo i segni delle sofferenze di Cristo (cfr Gal 6,17).
Queste «stigmate» sono la dimostrazione della sua autenticità apostoli-
ca. Paolo cerca di convincere, ma sa che, in fin dei conti, ciò che tocca
il cuore degli uomini non è la sua eloquenza, ma Dio stesso.
L’Apostolo pone al servizio del Vangelo tutte le sue competenze,
tutta la sua intelligenza, pur sapendo che non deve fidarsene. Sa anche
che la parola del Vangelo suscita resistenze profonde; che gli uomini
sono in grado di ricorrere a ogni tipo di alibi e di violenza pur di non
convertirsi, di non dover cambiare vita, e che le persecuzioni non rap-
presentano una situazione anomala o strana per il missionario.
L’Apostolo non rifiuta le manifestazioni carismatiche. Ne bene-
ficia personalmente, e lo dice. Ma richiama i suoi figli nella fede a
un lavoro di intelligenza, per essere disponibili ad accogliere i non
credenti (cfr 1 Cor 14,6.14-20). Ha fiducia nelle capacità della ra-
L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO

gione umana, nel fatto che la Scrittura deve essere interpretata, che
il Signore chiama all’intelligenza, ma nello stesso tempo è del tutto
consapevole dei limiti di ogni argomentazione.
E per ricordarsi dei limiti della ragione e dell’intelligenza, egli
presenta il mistero della croce – questo luogo dove la maledizione
apparente si rivela benedizione, dove la follia di Dio si rivela sapienza,
dove la debolezza e l’impotenza radicale sono segni della forza e della
potenza di Dio, dove la povertà di Cristo è dono della sua ricchezza –
ricorrendo a paradossi sorprendenti (cfr Gal 3,13; 2 Cor 8,9). La croce
mette a nudo ciò che non è deducibile, ciò che è veramente inaudito.
L’Apostolo ci insegna che il missionario non può fare a meno dell’in-
telligenza, ma deve anche saperne riconoscere i limiti.

109
Non c’è evangelizzazione senza collaborazione e senza amicizie

«Per questo vi ho mandato Timoteo, che è mio figlio carissimo


e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di
vivere in Cristo» (1 Cor 4,17). Paolo è considerato spesso un teologo
solitario, un uomo eccezionale. Ma questo significa dimenticare i suoi
gruppi apostolici, che per lui hanno assunto un grande rilievo. L’Apo-
stolo era un formidabile tessitore di «reti». Non fu quasi mai solo, e ha
suscitato amicizie straordinarie che hanno resistito al tempo. Grazie ai
suoi figli spirituali, divenuti collaboratori e poi amici, la sua memoria
ha potuto conservarsi. Spesso egli scrive assieme ai suoi collaboratori:
«Paolo e Silvano e Timoteo alla Chiesa dei Tessalonicesi» (1 Ts 1,1).
Egli li associa alla sua missione e ci tiene a ricordare quale sia il loro
ruolo. Spesso li elogia e condivide con loro la propria autorità.
Paolo conserva una relazione esclusiva con le comunità che ha
fondato. Egli stesso dice di aver evangelizzato soltanto dove nessuno
era mai stato prima di lui (cfr Rm 15,20). Nelle sue lettere, non esita
a ricorrere a metafore materne per descrivere il proprio ruolo: «Fi-
gli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia
formato in voi» (Gal 4,19). Il verbo «partorire» si dice normalmente
della donna, perché è lei che partorisce, mentre l’uomo genera. In
questo brano molto sofferto, Paolo sottolinea la profonda relazione
affettiva che lo unisce ai Galati, che non l’hanno respinto quando egli
era debole come un bambino malato. Quando era come un bambino,
ARTICOLI

essi hanno saputo amarlo come una madre. Alcuni anni dopo, Paolo
dichiara di amarli come una madre, partorendoli di nuovo.
«Partorire» è doloroso! Paolo soffre nell’apprendere che i Galati
sono sul punto di rinnegare colui dal quale hanno ricevuto la fede.
Deve dunque partorirli di nuovo, dare loro nuovamente la vita di
Cristo. Abbandonare il suo insegnamento sarebbe infatti come rin-
negare Cristo (cfr Gal 5,4). Se l’Apostolo ricorre alla metafora del-
la madre è anche perché non vuole invocare la forza della propria
autorità apostolica, ma piuttosto sottolineare la forza del suo amore
materno, un amore nato nel dolore e disposto a superare tutti gli
ostacoli: «E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né
da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cri-
sto. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre
110
che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desi-
derato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa
vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2,6-9).
Paolo è stato un uomo di straordinaria fedeltà in fatto di ami-
cizia: Tito, Timoteo, Sostene, Silvano, Prisca e Aquila, Aristarco
sono stati suoi amici (cfr Rm 16). Gesù aveva i Dodici, Paolo aveva
persone del suo entourage. E alcuni erano disposti a dare la loro vita
per lui: a Efeso, a quanto sembra, gli sposi Prisca e Aquila hanno ri-
schiato la loro vita per salvarlo (cfr Rm 16,3-4). Paolo era addirittura
sul punto di morire: «Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli,
come la tribolazione, che ci è capitata in Asia, ci abbia colpiti oltre
misura, al di là delle nostre forze, tanto che disperavamo perfino
della nostra vita» (2 Cor 1,8).
Il carisma che l’Apostolo era ben consapevole di possedere era
quello di far nascere la fede nel cuore degli uomini. Far nascere
una relazione personale con il Cristo era il suo modo di generare.
Perciò egli può scrivere a Filemone: «Ti prego per Onesimo, figlio
mio, che ho generato nelle catene» (Fm 1,10). Molti secoli dopo
Francesco Saverio, che era stato generato a una fede personale nel
Cristo grazie a Ignazio di Loyola, scriverà a quest’ultimo dall’In-
dia: «Mio unico Padre nelle viscere di Cristo». Paolo ci insegna a
vivere l’evangelizzazione come un lavoro di équipe e a non separa-
re l’affettività dall’evangelizzazione.
L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO

Non c’è evangelizzazione senza solidarietà concreta

«L’adempimento di questo servizio sacro non provvede solo alle


necessità dei santi, ma deve anche suscitare molti ringraziamenti a
Dio» (2 Cor 9,12). La posizione unica di chi ha rischiato tutto per
annunciare la fede giustifica anche il fatto che l’Apostolo si preoccu-
pi perché le sue comunità entrino in contatto tra loro, si conoscano,
preghino le une per le altre ed esprimano concretamente la loro
comunione con aiuti finanziari. La comunione spirituale non può
essere tenuta separata dalla comunione materiale.
Paolo dedica molte energie a questi problemi finanziari. È per
offrire il frutto di anni di collette per il fratelli di Gerusalemme che
decide di salire in questa città, come spiega ai Romani: «Per il mo-
mento vado a Gerusalemme a rendere un servizio ai santi di quella 111
comunità; la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto realizzare una
forma di comunione con i poveri tra i santi che sono a Gerusalemme.
L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti le genti, avendo
partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere loro un
servizio sacro anche nelle loro necessità materiali» (Rm 15,25-27).
L’Apostolo corre un grande rischio, perché la sua reputazione non è
sempre buona presso i giudei e presso una parte dei cristiani di ori-
gine giudaica (cfr At 21,21). Senza esagerare, si può dire che egli ha
dato la propria vita per la comunione concreta tra le Chiese.
Per lui, fin dagli inizi, la spartizione concreta dei beni appartiene
alla natura stessa della Chiesa. L’universalità della Chiesa si traduce in
una condivisione dei beni: Gesù è morto per tutti. Perciò la colletta in
favore dei fratelli esprime un elemento essenziale di ciò che è l’Eucari-
stia. È impossibile ricordarsi del Cristo senza ricordarsi dei poveri, dei
santi che sono a Gerusalemme, dei cristiani che vivono in comunità
che sono meno ricche di quelle di Corinto o di Tessalonica. E d’altra
parte, anche se si è poveri, bisogna dare ugualmente con generosità
(cfr 1 Cor 16,1-4).
Nella conclusione della Prima lettera ai Tessalonicesi, Paolo ricor-
da alcune istruzioni date ai Galati molti anni prima. La colletta in
favore di Gerusalemme è quindi un antico progetto, ed è costituita da
una somma considerevole. L’Apostolo dice anche che manderà alcuni
ARTICOLI

uomini scelti da loro, muniti di lettere, ma che in linea di massima


non ritiene di dover andare a Gerusalemme di persona.
Tutta la teologia che Paolo espone nella Lettera ai Romani trova
riscontro nello scambio dei beni materiali. È questa colletta a mo-
strare con i fatti che i cristiani di origine pagana sono in perfetta
comunione con quelli di origine giudaica. Paolo è fiero di tale sfor-
zo finanziario. Questa colletta è la garanzia finanziaria della sua
ambizione religiosa e comunitaria: i pagano-cristiani sono cristiani
a pieno titolo e non di secondo grado. Tutti partecipano dello stesso
Cristo nel quale sono battezzati. E sono associati alle stesse promes-
se, avendo ricevuto lo stesso spirito.
La colletta è quindi come un sacramento, la manifestazione visibile
e tangibile di una comunione spirituale. Questa liberalità corrisponde
112
alla generosità di Cristo stesso, e Paolo non esita a porre sul medesimo
piano questa colletta e il dono di Cristo stesso (cfr 2 Cor 8,1-10). Il
vero motivo di tale colletta è quindi cristologico. Non si tratta di un
semplice aiuto caritatevole, ma di uno scambio significativo sul piano
teologico. L’Apostolo ci insegna che la solidarietà economica è un
elemento indispensabile della comunione tra le Chiese.

Non c’è evangelizzazione senza comunione con Pietro

«Esposi loro il Vangelo che io annuncio tra le genti, ma lo espo-


si privatamente alle persone più autorevoli, per non correre o aver
corso invano» (Gal 2,2). Paolo era animato da un profondo impe-
gno apostolico per la comunione di tutte le Chiese. Si resta certa-
mente impressionati dalla sua esperienza così personale di Dama-
sco, raccontata tre volte da Luca: una realtà certo rilevante, perché
l’Apostolo la rievoca molte volte, anche se solo implicitamente; ma
non si può dimenticare che egli ha voluto appassionatamente la co-
munione con Cefa e Gerusalemme.
Il progetto di colletta che esprime la solidarietà tra tutte le Chie-
se, che abbiamo ricordato sopra, era stato discusso anzitutto con
Cefa (cfr Gal 2,9-10). Paolo non è mai stato un cristiano che è vis-
suto da solo. È stato accolto e catechizzato in comunità concrete,
che erano in comunione con gli apostoli, specialmente ad Antio-
chia, e ha conosciuto alcuni racconti su Gesù. Cita le tradizioni che
L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO

ha ricevuto da coloro che sono diventati cristiani prima di lui (cfr 1


Cor 15,3). Dà consigli all’apostolo Apollo, ma non vuole imporgli
nulla (cfr 1 Cor 16,12).
Paolo non ha mai voluto agire da solo ed essere un missionario a
capo della sua piccola comunità. Al contrario, ha voluto che le «sue»
Chiese fossero in comunione tra loro e con la Chiesa madre di Ge-
rusalemme e con gli apostoli: «Andai di nuovo a Gerusalemme […]
per non correre e non aver corso invano» (Gal 2,1.3).
Per l’Apostolo la solidarietà tra cristiani è il segno concreto
dell’appartenenza a un medesimo corpo. Essa si realizza certamente
con le preghiere degli uni per gli altri, con l’accogliere tutti, e so-
prattutto con il prendersi cura dei deboli da parte di coloro che sono
«forti» nella fede, ma anche con una solidarietà materiale di ordi-
113
ne finanziario. Anche se le Chiese locali sono molto vaste, devono
sapere che appartengono a una famiglia più grande. Pietro ha un
ruolo fondamentale in questa solidarietà intraecclesiale.
Paolo è stato l’uomo della comunione: comunione tra le Chie-
se, comunione tra le persone, comunione tra i pagano-cristiani
e i giudeo-cristiani. Egli che aveva goduto di una rivelazione
unica e diretta del Cristo non ha voluto rompere mai la comu-
nione con Pietro.
Egli, che affermava di non aver ricevuto il suo Vangelo da un
uomo, ha detto anche che, se Cefa l’avesse sconfessato, avrebbe
corso «invano». L’affermazione è forte. Tutti i battesimi dovuti alla
sua predicazione, tutti questi segni di potenza potrebbero dunque
essere stati compiuti «invano»? Non si può essere missionario e
testimone di Cristo senza essere in comunione con Cefa. Ecco
perché Paolo, che inizialmente aveva pensato di non recarsi a Ge-
rusalemme per la colletta, si è infine deciso ad andarvi: «Per il
momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio ai santi di
quella comunità» (Rm 15,25). La comunione con Pietro avrà per
lui un’importanza decisiva.
L’Apostolo ci ricorda così l’atteggiamento di sant’Ignazio, che
aveva ricevuto anch’egli delle visioni mistiche al Cardoner, in Spa-
gna, «da pensare molte volte tra sé che, anche se non ci fosse la
Scrittura a insegnarci queste cose della fede, egli si deciderebbe
ARTICOLI

a morire per esse soltanto in forza di quello che egli ha visto»3.


Tuttavia, Ignazio è andato a Roma e non ha voluto correre inva-
no senza l’accordo con Pietro. Paolo ci insegna l’immensa libertà
dell’apostolo unito a Cristo, che rifiuta sino alla fine di essere se-
parato da Pietro.

Non c’è evangelizzazione senza riconoscere la sapienza umana

«Fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è


giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è ono-
rato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei
vostri pensieri» (Fil 4,8). Al centro dell’insegnamento morale di
Paolo vi è una tensione fondamentale che attraversa l’intero Nuo-
114
vo Testamento. Da un lato, egli ritiene che possiamo parlare del
bene e del male con ogni uomo, qualunque sia la sua fede. Paolo
fondamentalmente non parla un linguaggio diverso da quello della
sapienza greca, specialmente quello della filosofia popolare stoica.
D’altro lato, egli raccomanda anche di non conformarsi ai costumi
dei pagani. Il cristianesimo è un fermento profetico che si rifiuta di
entrare in una logica di setta. L’Apostolo si pone così sulla giusta li-
nea di una parte del giudaismo alessandrino e, d’altra parte, aderisce
alla considerazione positiva che Gesù esprime sulle capacità della
sapienza umana.
Sì, nel mondo c’è il male, l’oscurità, c’è un «dio di questo mon-
do» (2 Cor 4,4), che è Satana. Vi è peccato e ostilità verso Dio. Paolo
lo sa e lo dice. Invita i cristiani a tenersi lontani da una generazione
adultera e corrotta: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per
essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una
generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete
come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita» (Fil 2,14-16a).
Paolo insiste su questa dimensione di rottura con il «mondo»
e la sua mentalità, e invita a respingere la cultura dell’immoralità,
soprattutto sessuale, del mondo greco-latino (cfr 1 Ts 4,2-6). L’ele-
mento della castità e della continenza era fondamentale per i primi

3. Ignazio di Loyola, s., «Autobiografia», n. 29, in Gli Scritti di Ignazio di


Loyola, Roma, AdP, 2008, 103.
L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO

cristiani e contrastava con il lassismo del mondo greco-latino. Il lin-


guaggio di Paolo talvolta è molto vicino a quello di Qumran: «Non
lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto
infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra
luce e tenebre? Quale intesa fra Cristo e Bèliar...?» (2 Cor 6,14-15a).
Ma l’Apostolo non rinuncia mai al dialogo con tutti quelli che sono
fuori della comunità: anch’essi sono stati creati da Dio.
In questo modo tiene unite tra loro una teologia della creazione
e una teologia della redenzione. Da un lato, riconosce che il mondo
sembra spesso in potere del peccato e che vi è un «principe di questo
mondo». In questa logica, bisogna distaccarsi dal mondo, criticare
tutto ciò che, in questo mondo, è il segno del peccato, pur ricono-
scendo che il mondo è presente anche in noi. Di qui la necessità di
115
rinnovare il nostro modo di pensare: «Non conformatevi a que-
sto mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di
pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a
lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
D’altro lato, Paolo, come Gesù, ritiene che il mondo sia stato creato
da Dio e che tutti gli esseri umani abbiano una coscienza creata da
Dio, la quale fornisce loro una nozione del bene e del male. Tutti gli
uomini, qualunque sia la loro fede, hanno qualcosa in comune. L’Apo-
stolo invita quindi ad aprirsi a tutti gli uomini: «Non siate motivo di
scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io
mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma
quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,32-33).
Si tratta di essere disposti a rendere conto della fede utilizzando tut-
te le risorse della cultura e della filosofia, pur sapendo che è l’incontro
personale con Cristo ciò che può renderci capaci di vedere il mondo
con gli occhi del Vangelo. Paolo concilia insieme il rispetto del mondo,
e di ogni essere creato a immagine di Dio, con la denuncia profetica
del peccato del mondo. Così si pone sulla stessa linea di Gesù. Dicendo:
«Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre
opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16),
Gesù considera positivo l’essere lodati dagli uomini; ma afferma anche:
«Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo
infatti agivano i loro padri con i falsi profeti» (Lc 6,26).
ARTICOLI

Paolo ha vissuto questa tensione costitutiva del Vangelo. Si tratta


di farsi tutto a tutti, cercando di convincere e di toccare il cuore e
la ragione. Se l’apostolo viene ascoltato, tanto meglio. Se resta in-
compreso, ossia perseguitato o deriso, si deve ricordare dell’esempio
di Cristo: «Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene,
per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso,
ma, come sta scritto: “Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me”»
(Rm 15,2-3). Il peccato del mondo non impedisce all’apostolo di
cogliere la bontà del creato.

Non c’è evangelizzazione senza preghiera e perseveranza

«Fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e l’amore dello Spirito,


116
vi raccomando: lottate con me nelle preghiere che rivolgete a Dio»
(Rm 15,30). Paolo era un uomo di preghiera costante e concepiva la
sua vita come una vasta rete di scambi di preghiera. La preghiera dei
suoi fratelli lo consolava, lo corroborava e costituiva un aiuto per la
sua vita apostolica, e lui a sua volta pregava per loro.
Dio favorisce la comunione e l’Apostolo spera che le preghiere gli
consentiranno di rivedere i suoi amici e collaboratori: «Grazie alle
vostre preghiere, spero di essere restituito a voi» (Fm 22). La vita delle
sue comunità alimenta la sua preghiera: «Quale ringraziamento pos-
siamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a
causa vostra davanti al nostro Dio, noi che con viva insistenza, notte
e giorno, chiediamo di poter vedere il vostro volto e completare ciò
che manca alla vostra fede?» (1 Ts 3,9-10). La preghiera di Paolo non
consiste nel riesumare con nostalgia le proprie esperienze mistiche
del passato, ma piuttosto nel fare memoria dei suoi fratelli nella fede:
«Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre,
quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra
cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente» (Fil
1,3-4). La sua preghiera era fatta di volti, e di volti amici.
Paolo è stato l’uomo della perseveranza (hypomonē). Questo è
un termine chiave del suo vocabolario. È difficile da tradurre, può
esser reso con: coraggio, costanza, resistenza, pazienza. Nel ter-
mine «pazienza» è contenuto un aspetto passivo, che non esprime
quell’insieme di coraggio e di azioni che permette di resistere nella
L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO

difficoltà. Il termine «perseveranza» va meglio: «E non solo: ci van-


tiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce
perseveranza, la perseveranza una virtù provata» (Rm 5,3-4a). La
tribolazione stessa fa crescere la perseveranza.
Questa è l’esperienza e la convinzione intima di Paolo. Egli
scrive, alla fine della Lettera ai Romani: «E il Dio della perseve-
ranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli
altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù» (Rm 15,5).
È Dio a essere perseverante, egli che accetta gli ostacoli frapposti
dalle libertà umane ribelli al suo disegno di salvezza. Perseverare
significa sperare che la tribolazione non avrà l’ultima parola. Cre-
ato a immagine di un Dio perseverante e fedele, l’essere umano è
capace di fedeltà e perseveranza.
117
La perseveranza caratterizza l’evangelizzatore. Questa è la prima
cosa che Paolo fa notare, scrivendo ai Corinzi, per difendersi, di fron-
te a loro, da coloro che egli definisce ironicamente «super-apostoli»:
«Ci presentiamo come ministri di Dio con grande perseveranza:
nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle
prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni» (2 Cor
6,4-5). La preghiera di Paolo ha le stesse dimensioni del mondo, e
in essa tutte le comunità hanno un ruolo decisivo. Come quella di
Cristo, la sua preghiera è rivolta alla salvezza degli uomini, alla vita
dei credenti. Se l’Apostolo afferma di essere lieto in ogni circostan-
za, gli accade però anche di vivere momenti di desolazione: «Non
vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione, che ci
è capitata in Asia, ci abbia colpiti oltre misura, al di là delle nostre
forze, tanto che disperavamo perfino della nostra vita» (2 Cor 1,8).
Paolo prega apostolicamente; prega perché i figli siano veri fedeli:
«La preghiera di Paolo trae alimento dalla sua attività missionaria, dalle
notizie ricevute dalle comunità, dai suoi progetti apostolici; insomma:
da quello che egli stesso chiama “la sollecitudine di tutte le Chiese”»4.
Ma l’Apostolo non prega soltanto per i cristiani. Prega anche per il suo
popolo, il popolo d’Israele, come dice ai Romani: «Fratelli, il desiderio
del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza.

4. C. Tassin, L’ Apôtre Paul. Un autoportrait, Paris, Desclée de Brouwer, 2009,


268.
ARTICOLI

Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non se-
condo una retta conoscenza» (Rm 10,1-2). Le lettere di Paolo rivelano
la preghiera incessante e ardente, che è quella dell’evangelizzatore.

Non c’è evangelizzazione senza umiltà e lotta spirituale

«Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfe-


zione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono
stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora
di averla conquistata» (Fil 3,12-13a). Paolo ha vissuto esperienze
spirituali inconsuete. Nella sua missione di apostolo ha conosciu-
to successi clamorosi, conducendo alla fede personaggi importanti,
come Sergio Paolo, il proconsole di Cipro, o Erasto, il tesoriere di
118
Corinto. Tuttavia egli non ama gloriarsene, ed è soltanto quando è
contestato nella sua legittimità di apostolo che si sente autorizzato
a parlarne. Sarebbe follia vantarsene, ma, se è necessario ricordare
quello che ha fatto per Cristo, non esita a farlo. La sua preoccupa-
zione non è il suo onore personale, ma l’ombra che viene gettata su
tutti coloro che sono diventati credenti grazie a lui.
Dal punto di vista spirituale, Paolo, il credente, pone in primo
piano il dono di Dio: la sua fede è una risposta, un atto di gratitudine
e di riconoscenza. Anche quando sembra dare valore a ciò che ha fat-
to, è solo per ricordare che è Dio ad aver agito per primo: «Per grazia
di Dio, però, sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata
vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di
Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo» (1 Cor
15,10-11). L’Apostolo è fiero di quello che ha fatto, ma sa perfetta-
mente che è la grazia di Dio ad avergli concesso di farlo.
Perciò egli è sempre in movimento. Le grazie ricevute non lo
rinchiudono nel passato. Tutto il suo cammino lo orienta verso l’av-
venire. Paolo incarna questa sintesi meravigliosa: che il credente vive
nello stesso tempo tra il rendimento di grazie, fondato sul ricordo
permanente di ciò che il Signore ha fatto per mezzo di lui, e lo sguar-
do rivolto verso la volontà del Signore che viene. Alcuni anni dopo,
i figli spirituali di Paolo riprenderanno l’immagine della corsa per
parlare di lui: «È giunto il momento che io lasci questa vita. Ho com-
battuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la
L’EVANGELIZZAZIONE SECONDO SAN PAOLO

fede» (2 Tm 4,6b-7). Paolo era sempre in movimento, non soltanto


dal punto di vista geografico, con il suo desiderio di raggiungere la
Spagna, ma anche dal punto di vista spirituale.
Egli insegna all’evangelizzatore – e a ogni cristiano – che, an-
che se ha fatto un’esperienza interiore del Cristo, non per questo ha
cessato di essere in cammino, di essere su una via di conversione. Si
potrebbe credere che l’Apostolo si ritenga veramente un «converti-
to» dopo aver ricevuto una simile rivelazione del Cristo, dopo essere
stato rapito misticamente in cielo (cfr 2 Cor 12,2-4). Ebbene, nono-
stante i doni carismatici che aveva ricevuto – la profezia, la varietà
delle lingue, il dono delle guarigioni –, Paolo non riteneva di essere
diventato perfetto. Al contrario, era proteso in avanti (cfr Fil 3,10-
14). Ciò che raccomanda ai Filippesi, lo vive personalmente: «Intan-
119
to, dal punto in cui siamo arrivati, insieme procediamo» (Fil 3,16).
Paolo era un uomo sempre in cammino, un pellegrino. Non cre-
deva di essere santo. Al contrario, pregava senza posa per progredi-
re, per essere trovato fedele. Secondo le usanze giudaiche e cristiane,
moltiplicava i digiuni e le preghiere notturne, trattava duramente il
proprio corpo (cfr 1 Cor 9,27). Come insegna l’Iliade, è nella lotta che
l’uomo greco acquista le sue qualità. Ai tempi di Roma, questo ideale
non era tramontato. La cultura ellenistica resta una cultura del corpo e
della forza, come mostra la popolarità dei giochi in Grecia e delle lotte
dei gladiatori a Roma. L’Apostolo menziona più volte questi giochi e
si paragona agli atleti: «Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo
fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura
per sempre. Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio
pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio
corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo aver pre-
dicato agli altri, io stesso venga squalificato» (1 Cor 9,25-27).
Paolo guardava all’avvenire. Le sue debolezze non lo scorag-
giavano. Egli si considerava uno strumento fragile e debole che
Dio aveva scelto proprio perché non si inorgoglisse: «Quello che è
ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha
scelto per ridurre al nulla le cose che sono […]. Mi presentai a voi
nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1 Cor 1,28; 2,3).
Nessuno d’ora in poi può avvalersi della propria piccolezza e della
propria presunta impotenza per non mettersi in cammino. Paolo
ARTICOLI

ci insegna che ogni cristiano, a cominciare dall’evangelizzatore,


guarda in avanti e non si scoraggia, nonostante le prove.

Conclusione

Paolo «il piccolo» è divenuto Paolo «il grande apostolo», l’apo-


stolo per eccellenza. Con tutta la sua intelligenza, ha annunciato
il Cristo con paradossi possenti: il Cristo che, da ricco che era, si è
fatto povero. Paolo lo ha imitato, mettendo da parte tutte le sue ric-
chezze umane, la famiglia, le origini, i diplomi, il denaro, per farsi
umile servo di tutti. Ha voluto vivere ciò che predicava. Da fariseo
esperto nelle Scritture, da cittadino romano e abitante di Tarso, da
giudeo fiero di esserlo si è fatto pagano con i pagani, schiavo con
120
gli schiavi; si è aperto a tutti, accettando di essere flagellato nelle
sinagoghe, frustato dalle autorità romane.
Cristo era morto per tutti (cfr 2 Cor 5,14), e Paolo si è fatto tutto
a tutti (cfr 1 Cor 9,22). Il cuore della sua teologia corrisponde al
cuore della sua vita e delle sue esortazioni. Radicato nelle Scritture
d’Israele, Gesù era solito dire: «Chi si esalterà, sarà umiliato e chi
si umilierà sarà esaltato» (Mt 23,12). Paolo ha vissuto fino in fondo
questo paradosso, che esprime non soltanto la sapienza dell’umiltà,
ma anche la scelta della croce da parte di Cristo. Nella sua vita, in
maniera radicale, egli si è abbassato. Si è abbassato, ma senza mai
disprezzarsi e negare tutto ciò che aveva ricevuto. Ha posto tutte le
sue risorse intellettuali, immaginative e affettive al servizio della sua
fede in Gesù, Messia crocifisso ed esaltato. Paolo ci insegna che non
si evangelizza senza vivere del Vangelo con impegno personale.
QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E
POLITICHE DELLE CRIPTOVALUTE

Étienne Perrot S.I.

Dallo scorso anno si è manifestato un nuovo interesse per le


criptovalute, e non si è affievolito nel corso del 2021. Perché? Que-
ste valute si sviluppano, sono meglio disciplinate dalle autorità pub-
bliche, spaventano ancora i responsabili politici, che, per contromi-
121
sura, attuano normative sempre più invadenti. Essi cercano anche di
lanciare le proprie criptovalute, valute digitali delle banche centrali.
I principali aspetti tecnici di queste criptovalute si possono fa-
cilmente individuare. La loro base – la blockchain («catena di bloc-
chi»), che è una tecnologia per l’archiviazione e la trasmissione di
dati digitali – e i suoi probabili sviluppi industriali consentono di
ridurre gli intermediari incaricati di verificare e conservare, in
maniera indelebile e sempre verificabile, i dati dei trader.
Il principio della blockchain è molto semplice: ogni transazione
è crittografata in modo che integri, a blocchi, nel suo crittogram-
ma l’insieme di tutte le transazioni che l’hanno preceduta. Questo,
in materia monetaria, impedisce a chiunque di pagare senza avere
prima il denaro necessario. Quindi, niente assegni scoperti, nes-
suna paura di un fallimento bancario, nessuna fiducia cieca in un
intermediario, giacché non ci sono intermediari.
Il corollario di questa crittografia è l’anonimato, sia di chi paga
sia di chi riceve. E questo rende le criptovalute un comodo mezzo
per tutte le operazioni illegali: versamento di riscatti pagabili in bit-
coin, acquisti di armi vietate alla vendita, traffici illeciti, accumulo
di plusvalenze segrete. Il paradosso è che questo duplice anonimato
di chi paga e di chi riceve va di pari passo con una totale trasparenza
delle transazioni. Tutti coloro che intervengono negli scambi crip-
tati sono informati di tutte le transazioni.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 121-131 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


ARTICOLI

Una valuta diversa dalle altre

A differenza delle valute legali emesse da una banca (centrale o


commerciale), le criptovalute non si appoggiano su alcuna autorità
bancaria. Da qui a volte la loro designazione con il termine «getto-
ne», sebbene, ad esempio, la Corte di Cassazione francese conceda
loro il titolo di valuta. In ogni caso, le criptovalute rispondono –
molto male – alle tre funzioni economiche di qualsiasi valuta: uni-
tà di conto, mezzo di scambio e riserva di valore. Unità di conto,
perché possono essere utilizzate per valutare prodotti o servizi e
beneficiano di un sistema di scambio che permette di tradurre in
dollari, euro o yen ecc. il valore espresso in una qualsiasi di esse. Le
criptovalute sono anche mezzo di scambio, almeno nei confronti di
122 commercianti, fornitori di servizi o speculatori che sono disposti ad
accettarle. I fornitori possono quindi rifiutare bitcoin, ripple, eu-
ropa o ethereum ecc., ma non possono rifiutare di essere pagati in
moneta legale. Cattiva riserva di valore, ogni valuta criptata lo è in
proporzione alle variazioni speculative del suo prezzo e alla sicurez-
za del sistema elettronico che ne tiene traccia.
Il pericolo qui non è della stessa natura di quello dei depositi ban-
cari, soggetti a hacker o ad addebiti diretti. Conservate non in una
memoria centrale ma nell’insieme della rete di internet, e anche sup-
ponendo la solidità del sistema, le criptovalute possono andare perse
se il loro possessore dimentica i suoi codici di accesso al sistema, o se
il suo computer viene hackerato, o se egli perde la chiave USB su cui
aveva trascritto i suoi codici ecc. In tutti questi casi – in cui si manife-
sta l’aspetto negativo dell’anonimato –, come per le banconote smar-
rite o rubate, egli non ha la possibilità di recuperare il suo credito.
L’assenza di contropartite differenzia le criptovalute dalle mo-
nete a corso legale. La prima di queste contropartite delle valute
legali – storicamente parlando – è l’oro. Oltre all’oro o al metallo
prezioso, le contropartite della massa monetaria sono principalmen-
te i crediti fatti dalla banca centrale alla tesoreria dello Stato (la cassa
dello Stato) e, per la maggior parte, i crediti concessi all’economia
dalle banche commerciali. Ciò significa che il valore di una moneta
a corso legale varia a seconda dell’idea che si ha del valore futuro di
queste tre contropartite.
QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E POLITICHE DELLE CRIPTOVALUTE

In assenza di contropartita, la speculazione sulle criptovalute è


di natura diversa. Si basa solo sull’idea che coloro che intervengo-
no su questi mercati si fanno del loro valore futuro. Fondandosi
esclusivamente sulle voci di un aumento o di una diminuzione, i
movimenti di prezzo delle criptovalute tendono ad autoalimen-
tarsi. Ciò spiega l’aspetto irregolare e di vasta portata osservato in
questi mercati.

ALCUNI SEDICENTI PROFETI DELLA FINANZA


SPECULATIVA ANNUNCIANO CHE LE CRIPTOVALUTE
SOSTITUIRANNO L’ORO COME RISERVA DI VALORE.

123
Per contrastare tali movimenti e consentire di beneficiare del-
la tecnologia che è alla base delle criptovalute, senza affrontare il
rischio di movimenti erratici del loro prezzo, sono stati istituiti
i mercati sulle criptovalute. Ma, come tutti i sistemi di coper-
tura (che funzionano come assicurazioni), questi mercati hanno
un costo. Ecco perché la soluzione più conveniente – ma che
presuppone un controllore che regoli la quantità di moneta per
preservarne il valore – consiste nell’indicizzare il prezzo di una
criptovaluta sia a una moneta a corso legale (meno fluttuante), sia
a un paniere di monete, sia anche al prezzo di una merce come
l’oro, i diamanti o il petrolio. Si beneficia quindi della tecnolo-
gia (transazione immediata senza intermediari), senza correre il
rischio di una variazione troppo rapida dei prezzi. Si parla allora
di stablecoin (letteralmente: «moneta stabile»). È così che lo Stato
di New York consente pagamenti amministrativi in stablecoins
(almeno con quelle, tra le criptovalute stabili, che autorizza).
Alcuni sedicenti profeti della finanza speculativa annunciano
che le criptovalute sostituiranno l’oro come riserva di valore. È così
che il capo della strategia obbligazionaria di uno dei più grandi
gestori di fondi del Pianeta (BlackRock, con otto trilioni di asset in
gestione) afferma perentoriamente che il bitcoin si affermerà e che
sostituirà l’oro. Ciò significa dimenticare che l’oro non è una riserva
di valore delle più affidabili: 35 dollari l’oncia il 15 agosto 1971, il
suo prezzo si è moltiplicato per 10 nei mesi successivi; ha oscillato
ARTICOLI

tra 300 e 850 dollari l’oncia per diversi decenni prima di varcare la
soglia dei 1.000 dollari negli anni 2000, quindi ha toccato i 2.000
dollari, per poi ridiscendere a 1.000, raggiungere di nuovo i 2.000
nell’agosto 2020, e calare di oltre il 10% all’annuncio della scoperta
di alcuni vaccini contro il Covid-19.
Scommettere sul brillante avvenire delle criptovalute più im-
portanti, come il bitcoin, significa anche dimenticare che esse
sono alla mercé del miglioramento delle tecnologie (alcuni dei
bitcoin challengers hanno velocità di transazione più elevate e sono
più facili da usare). Significa inoltre dimenticare che il valore delle
criptovalute – almeno quelle non indicizzate – riflette spesso, inver-
tendolo e amplificandolo, il valore delle valute legali, e quindi l’idea
che ci si fa della politica monetaria delle banche centrali. È certo
124
che la pandemia da Covid-19, giustificando la creazione pressoché
illimitata di denaro da parte delle banche centrali, ha inferto un
colpo alla credibilità delle valute legali e ha potenziato il valore delle
criptovalute dalla fine del 2020. A questo si è aggiunta la possibilità
di utilizzare bitcoin sulla piattaforma PayPal.
Pensare che le criptovalute sostituiranno l’oro significa infine
dimenticare il rafforzamento dei controlli e dei regolamenti pubbli-
ci. Qualche anno fa, nel settembre 2017, è bastato sentire l’ammi-
nistrazione cinese evocare la possibilità di vietare le piattaforme di
scambio di criptovalute nel suo territorio per vedere crollare per un
certo periodo il prezzo di tali valute. E all’inizio dell’estate 2021 un
nuovo calo è stato causato dal divieto cinese alla proliferazione di
criptovalute nel proprio territorio, tramite il mining1 (che consuma
molta elettricità).

Una nuova concezione dell’uomo

L’installazione delle criptovalute nel panorama culturale com-


porta uno spostamento antropologico, di cui vorremmo qui de-
lineare i contorni. Se ci si libera dalla concezione restrittiva degli
economisti che riducono la moneta alla sua triplice funzione (unità

1. Mining («estrarre») è un processo, di natura digitale, attraverso il quale si


possono ottenere le criptovalute, generate dalla rete e distribuite online.
QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E POLITICHE DELLE CRIPTOVALUTE

di conto, mezzo di scambio e riserva di valore), allora ci si accorge


che la moneta svolge il ruolo di un pegno. Un pegno è un oggetto
simbolico che memorizza un debito. L’euro che ho in mano o nel
mio conto in banca è il segno di un impegno da parte di tutti co-
loro che un giorno dovranno forse corrispondermi la contropartita
sotto forma di un servizio, di una merce o di un’altra valuta. Cer-
to, questo non è un riconoscimento di debito verso una persona,
un’azienda o un’amministrazione; inoltre, questo pegno non ha una
scadenza determinata. Ciò non toglie che questo pegno sia per me
la promessa ricevuta da una comunità che si impegna – è il caso
di dirlo – a soddisfare, quando sarà il momento, i miei bisogni, nel
modo in cui li avrò percepiti. Per questo gli antropologi parlano
della moneta come di «debito di vita».
125
In termini più rigorosi, la moneta è un credito a vista nei con-
fronti di una comunità di pagamento. Credito, perché è il segno
di un debito. A vista, poiché posso reclamare la contropartita in
qualsiasi momento. Nei confronti di una comunità, in quanto posso
rivolgermi a qualsiasi membro della comunità, fornitore di beni o
di servizi, o speculatore. Di pagamento, perché, trasmettendo questo
pegno, mi libero da un debito personale senza per questo estinguere
il debito della comunità. Infatti, il pagamento in denaro è semplice-
mente la trasmissione di un pegno alla comunità, perché il fornitore
che riceve il mio pagamento acquisisce un pegno, segno di un debi-
to della comunità nei suoi confronti. D’altronde, egli accetta questo
pegno in pagamento solo se è convinto che, quando sarà il momen-
to, la comunità onorerà il suo debito. Debito di vita, dunque, perché
la moneta mobilita i beni e le capacità della comunità, al servizio – e
secondo le scelte personali – di ciascun membro.
L’antropologia soggiacente alla moneta, come riconoscimento
del debito di una comunità verso ciascuno, si fonda quindi su un
rapporto asimmetrico, su una dipendenza. Ma solo una concezione
sbagliata della libertà potrebbe vedere in questa dipendenza dalla
comunità di pagamento un’alienazione. Senza nemmeno andare a
cercare in Spinoza la giustificazione della libertà come somma dei
condizionamenti accettati, basta ricordare con tutta la tradizione
cristiana la natura sociale e politica dell’essere umano.
ARTICOLI

La dimensione politica dell’essere umano sembra svanire nell’u-


so delle criptovalute, almeno di quelle che non hanno corso legale.
I creatori delle criptovalute volevano sovvertire questa fondamentale
struttura antropologica, calandosi nella corrente individualista radica-
le della modernità contemporanea. La crittografia elettronica da cui
sono nate le criptovalute è stata in principio, a partire dagli anni Ot-
tanta, il terreno dei cypherpunk (parola composta dai termini inglesi
cipher «crittografia» e punk: letteralmente, gli «anarchici della critto-
grafia»). Era il momento in cui il sistema internet lasciava intravedere
il pericolo di un controllo della vita privata da parte di un’ammini-
strazione pubblica tentacolare, allo stesso modo dei regimi totalitari
evocati dal noto romanzo di George Orwell 1984.
La tecnologia utilizzata dalle criptovalute, la blockchain, rimuo-
126
vendo i cosiddetti «intermediari di fiducia» (banche o piattaforme di
pagamento), spingeva così all’estremo la tendenza culturale del Do it
yourself («fai da te»). Attraverso la blockchain si svaluta l’istanza politica,
sfuggendo alle norme decretate dal coordinatore centrale. L’indivi-
duo acquisisce così un margine di libertà. Un passo fondamentale è
stato compiuto quando, alla fine degli anni Novanta, è stato scoper-
to il modo per sostituire l’intermediario di fiducia con un controllo
multipolare distribuito sul web. Perché nei trasferimenti telematici la
più grande minaccia alla segretezza è il furto di identità o, al contra-
rio, la sua divulgazione, che risulta particolarmente agevole quando
si accede al database centrale responsabile delle interconnessioni tra i
partecipanti. Così è stato per i conti nascosti nei paradisi fiscali. Con
la blockchain, non c’è nessun database centrale, nessun intermediario
che controlla l’identità dei partecipanti e la legalità dell’operazione. La
riuscita del trasferimento è garantita senza intervento umano.
Attraverso l’uso delle criptovalute, la soggettività consentita dal
pegno monetario è dunque spinta fino all’individualismo. Questa
soggettività individualistica non è però priva di regole del gioco.
L’autonomia individuale di cui si compiacciono gli appassionati
dell’ideologia moderna resta condizionata. Su questo punto antro-
pologico le criptovalute differiscono dalle valute legali. Come le
fiches dei casinò o le monete locali, le circa 70 valute locali, ad esem-
pio, che circolano in Francia valgono un euro. Allo stesso modo,
le unità di conto nelle associazioni che praticano il baratto tra i
QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E POLITICHE DELLE CRIPTOVALUTE

loro membri – questi sistemi locali di scambio (Sel), come vengono


chiamati – presuppongono, oltre alla conoscenza dei soggetti dello
scambio e a una contabilità precisa, un certo consenso sul valore
dei servizi scambiati. Invece, nel sistema delle criptovalute l’identità
degli aventi diritto rimane sconosciuta, fino a quando essi non vo-
gliono convertire le loro criptovalute in valute legali, dollari, yen,
euro. È qui che sta in agguato la Pubblica amministrazione.

La politica in agguato

Lo spirito anarchico che ha presieduto all’emergere delle crip-


tovalute rimane, almeno in una parte dei loro utilizzatori. Ma ciò
significa forse che dal sistema è assente qualsiasi tipo di regolamen-
127
tazione? No. Non si può immaginare un’istituzione – lingua, mo-
neta, mercato – senza un minimo di organizzazione vincolante; o,
per usare la formula consacrata dalle scienze sociali, nessuna co-
munità – per quanto ectoplasmatica, come quella delle criptovalute
– senza società. Anche un’associazione di pescatori con la lenza,
dove ogni membro partecipa o si ritira a seconda del proprio umore
mutevole, è retta da alcune regole, procedure o consuetudini che
si impongono. Nessuna interazione individuale è possibile, per le
criptovalute come per qualsiasi comunità, senza linee guida che in-
quadrino e limitino le iniziative di ciascuno.
Nella comunità del mutuo debito delle criptovalute, l’organiz-
zazione restrittiva è ovvia: è quella dei protocolli messi in atto
dagli iniziatori, il primo dei quali è stato Satoshi Nakamoto, pseu-
donimo che nasconde un gruppo di informatici. Questi scienziati
informatici hanno creato il bitcoin e ne hanno pubblicato il pro-
tocollo il 31 ottobre 2008.
Ogni criptovaluta ha il suo modo di organizzarsi. Alcuni an-
nunciano un limite totale al numero di unità monetarie che verran-
no create (21 milioni per il bitcoin, di cui più di quattro quinti sono
già in circolazione ora, il che spiega in parte la sua attrattiva); altri
specificano le condizioni richieste per modificare il protocollo. Si
amministrano i circuiti elettronici, si lasciano liberi gli utilizzatori:
questo è anche l’ideale del liberalismo economico radicale.
ARTICOLI

Come internet, senza il quale non esisterebbero, le criptovalu-


te si sviluppano al ritmo del capitalismo liberale, allo stesso ritmo
dell’individualismo contrattuale, suo supporto culturale. Ciascuno
si sente obbligato a fare solo ciò a cui si è impegnato per contratto
– o che gli è stato imposto –, diffidando di qualsiasi interfaccia che
possa interferire con la sua libertà individuale. Ma, come non si può
passare senza mediazione dalla somma delle volontà individuali alla
volontà generale, così non si passa direttamente dalla somma degli
interessi individuali all’interesse generale. Da qui alcuni adegua-
menti che rendono necessario l’intervento delle autorità pubbliche
– come dimostrano le reazioni attese, ma sempre piuttosto tardive,
un ambito politico – per contrastare le derive osservate nell’uso del-
le criptovalute, come in quello del mercato.
128
Vi sono già le libertà nocive che sono il corollario della critto-
grafia (l’anonimato sia del pagatore sia del destinatario). L’anonima-
to rende le criptovalute un comodo mezzo per tutte le transazioni
illegali. Questi abusi hanno condotto gli Stati a regolamentare l’u-
so delle criptovalute in maniera sempre più invadente. Nello Sta-
to della Città del Vaticano vige il divieto generale di «prestazione
di servizi di emissione, vendita, trasferimento, custodia, deposito,
gestione, scambio, negoziazione o intermediazione di valuta crit-
tografata, elettronica, virtuale o sintetica» (Legge n. XVII dell’8
ottobre 2013, recante norme in materia di trasparenza, vigilanza e in-
formazione finanziaria, art. 5). In Francia, invece, il possesso e l’uso
delle criptovalute è legale. Dal 1° gennaio 2020, si deve dichiarare
qualsiasi conto aperto, tenuto o chiuso su una piattaforma o presso
un intermediario per lo scambio di «beni digitali» (questa è la catego-
ria in cui le criptovalute sono oggi classificate dall’amministrazione
francese). Apparse nella normativa fiscale francese nel 2014 con il ti-
tolo di «unità di conto virtuali conservate su supporto elettronico», le
criptovalute guadagnate sui mercati sono tassabili secondo lo schema
progressivo dell’imposta sul reddito, nella categoria dei profitti non
commerciali. Al contrario, nel 2018 l’amministrazione le ha classi-
ficate nella categoria dei biens meubles incorporels, imponibili sulle
plusvalenze come gli strumenti finanziari ( flat tax del 30%). A par-
tire dalla legge finanziaria del 2019, le valute criptate rientrano nella
categoria dei «beni digitali», definiti come «qualsiasi rappresentazione
QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E POLITICHE DELLE CRIPTOVALUTE

digitale di un valore che non è emesso o garantito da una banca cen-


trale o da un’autorità pubblica; che non è necessariamente collegato
a una valuta che ha corso legale; e che non ha lo status giuridico di
una valuta, ma che è accettato da persone fisiche o giuridiche come
mezzo di scambio e che può essere trasferito, conservato o scambiato
elettronicamente».
Lontano dall’anonimato sognato dai cypherpunks, in diversi Pae­
si sviluppati, tra cui la Francia, chi possiede o utilizza una cripto-
valuta deve quindi identificarsi e dichiarare tutte le transazioni che
effettua, nonché i suoi guadagni e le sue perdite. Le banche sono –
qui come per tutte le operazioni finanziarie – ausiliari zelanti delle
autorità monetarie e dei servizi fiscali, in particolare monitorando
la conversione in valute legali effettuata sulle piattaforme di cambio,
129
per individuare, tra l’altro, il riciclaggio di denaro.

Le questioni internazionali

L’inquadramento politico delle criptovalute non riguarda sol-


tanto i criminali e i contribuenti che vogliono evadere le tasse.
Più aumenta la massa di criptovalute nel mondo, maggiori sono
i suoi effetti sul sistema finanziario internazionale: effetti capaci
di ostacolare le politiche monetarie pubbliche. Nel 2019, a livello
internazionale, il pericolo delle criptovalute è stato affrontato dai
ministri delle Finanze al G7. Allora si parlava del progetto di una
criptovaluta lanciata da Facebook: la libra (in latino, «bilancia»). Nel
2019, Face­book e alcuni altri colossi di internet – Visa, Mastercard,
Paypal, poi ritiratisi dal progetto – manifestavano l’intenzione di
emettere tale criptovaluta, destinata a circa due miliardi di poten-
ziali utenti nel mondo. La libra, annunciata per il 2020 ma ritardata
sine die, faceva pensare alla lira sterlina, di felice memoria, la moneta
inglese dominante nel XIX secolo. Essa, infatti, si riferiva, secondo
i suoi creatori, all’antica moneta romana.
Nella mente dei suoi ideatori il suo valore non si basava sulla va-
lutazione speculativa del mercato, come i bitcoin e altre criptovalute
dai valori erratici, ma sulla media ponderata di un paniere di valute,
come i Diritti speciali di prelievo (Dsp) del Fondo monetario in-
ternazionale (Fmi). Sarebbe quindi una moneta internazionale non
ARTICOLI

più riservata agli Stati, come il Dsp, ma destinata a popolazioni e


imprese, gestita da un ente privato. Dietro l’evasione fiscale e il fi-
nanziamento del terrorismo, l’argomento nascosto degli oppositori
ufficiali statunitensi era che la libra, in quanto moneta internazio-
nale privata, potesse sostituire il dollaro nei Paesi colpiti dalla dolla-
rizzazione, come è avvenuto un tempo in Israele, oggi in Argentina
e in alcuni Paesi africani (quando la popolazione abbandona la mo-
neta ufficiale svalutata, per utilizzare il dollaro, più resistente).
La diffusione della libra farebbe affidamento, come le criptova-
lute ma in maniera più regolamentata, sulla rete elettronica globale.
Nell’era dei Big Data, in cui le informazioni utili provengono in
maniera massiccia dalle statistiche e molto meno dalla diagnostica
individualizzata, il potenziale vantaggio è grande per i padroni del
130
sistema – il Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft)
–, ma non per i controllori fiscali, né per i cittadini preoccupati di
preservare la loro privacy. La riservatezza dei dati sta infatti polariz-
zando l’attenzione non soltanto della società civile, ma ora, in ritar-
do, anche delle autorità pubbliche. Tanto più che Facebook era stato
condannato poco tempo prima per la vendita di dati commerciali
attinti dai suoi utenti. La monetizzazione dei Big Data è caratteri-
stica del «capitalismo della sorveglianza», in cui le informazioni ela-
borate statisticamente hanno un prezzo sui mercati, mentre ognuno
alimenta l’informazione globale con un gesto – un clic – apparente-
mente senza valore.
Il ministro delle Finanze francese era decisamente contrario alla
libra. Il segretario al Tesoro americano, dal canto suo, aveva espres-
so «grandi preoccupazioni». Se un giorno la libra dovesse vedere
la luce, allora prevediamo per le criptovalute uno scenario simile a
quello di internet, che le fa da supporto: insieme alle promesse di
democrazia radicale e di libera collaborazione universale, internet
ha favorito abbastanza rapidamente il controllo burocratico, da un
lato, e il dominio di Gafam, dall’altro. Il predominio in questione è
tanto più accettato dalla popolazione in quanto si fregia dei valori
della nostra modernità: razionalità, sicurezza e prestazioni. Questo
possibile scenario si basa sulla logica dell’economia di rete, dove il
più grande – che spesso è il primo in ordine di tempo – ha maggiori
QUESTIONI ANTROPOLOGICHE E POLITICHE DELLE CRIPTOVALUTE

probabilità di vincere la maggior parte della posta in gioco, anche


se la qualità del suo prodotto o dei suoi servizi non è la migliore.
Si comprende allora come nel gioco monetario mondiale le ban-
che centrali cerchino di piazzare le proprie pedine prima che sia trop-
po tardi. Tra i Paesi dall’economia indebolita dalla geopolitica, le Isole
Marshall hanno aperto la strada. Il Venezuela ha lanciato nel 2018
una criptovaluta, il petro, indicizzata al prezzo di un barile di pe-
trolio, per eludere le sanzioni statunitensi. Per gli stessi motivi, l’Iran
aveva pensato nel 2018 di creare una criptovaluta nazionale, basata
sul bitcoin, per contrastare il crollo della valuta nazionale colpita dalla
politica del presidente Donald Trump. La Turchia cerca ugualmente
di rafforzare la sua economia lanciando una criptovaluta nazionale.
Oltre a questi Paesi economicamente indeboliti, alcune grandi
131
nazioni, in aggiunta alla Cina, si stanno preparando a emettere crip-
tomonete pubbliche. In Canada e a Singapore si pensa di sviluppare
sistemi di pagamento ufficiali in criptovaluta. Anche la Banca del
Regno Unito vuole creare una criptovaluta indicizzata sulla base della
valuta britannica. Ultima, ma non per importanza, la Banca centrale
europea (Bce), in un Rapporto del 2 ottobre 2020, ha promosso una
consultazione volta a creare un «euro digitale», sostenuto dall’euro, e
quindi meno volatile delle criptovalute non indicizzate. Nell’estate
2021 essa ha affermato: «Nessun ostacolo tecnico è stato individuato
durante la fase di test preliminare». La Bce vuole dunque passare alla
fase successiva, cioè all’istituzione di un «progetto pilota» biennale per
creare un euro digitale. L’anno 2025 è la scadenza pubblicata.
Le ragioni indicate sono prive di originalità, ma non di secondi
fini: adeguarsi alla pratica crescente degli utenti che favoriscono la
digitalizzazione dei pagamenti, ma anche contrastare la moltipli-
cazione e il peso crescente delle criptovalute. Nel complesso, uno
sguardo antropologico e politico allo sviluppo delle criptovalute da-
rebbe ragione al pensiero secondo il quale le leggi e i regolamenti
sono sempre in ritardo rispetto all’evoluzione delle tecniche e dei
mercati. Ma come sapere oggi – a meno di essere indovini – quello
che potremo sapere solo domani?
ARTICOLI

IL «BELLO» DELLA FISICA

Paolo Beltrame S.I.

Il più grande poeta di lingua inglese

Dialogando con i fisici, è probabile che essi dichiarino di crede-


re nella bellezza delle leggi di natura. Va riconosciuto anche che la
132 passione per la bellezza e la ricerca dell’armonia fanno parte dell’es-
senza stessa dell’uomo. Ma, dopo queste prime constatazioni, pos-
siamo mettere in evidenza due aspetti. Il primo: un «atto di fede»
– come quello nella bellezza delle leggi naturali – non è esattamen-
te ciò che uno scienziato dovrebbe evitare durante una ricerca? Il
secondo, che è conseguenziale al primo: la passione per l’armonia
potrebbe falsare l’obiettività e causare distorsioni cognitive, dalle
quali il discorso scientifico dovrebbe essere libero.
Lasciando in sospeso per un momento questo discorso, potrem-
mo chiederci chi sia il più grande poeta di lingua inglese di tutti i
tempi (i poeti vengono annoverati tra gli esseri umani che cerca-
no spasmodicamente la bellezza): William Shakespeare, o Samuel
Taylor Coleridge, o George Gordon Byron? Molto probabilmente
questa domanda non avrà mai una risposta univoca e soddisfacente.
Potrebbe trattarsi di un quesito insolubile. Ad ogni modo, per Gra-
ham Farmelo1, il più grande poeta anglofono di sempre è stato Paul

1. Graham Paul Farmelo (18 maggio 1953) è un biografo e scrittore scienti-


fico, docente al Churchill College dell’Università di Cambridge, professore aggiunto
di fisica alla Northeastern University di Boston. Ha scritto una biografia del fisico
teorico Paul Dirac, che ha avuto un grande successo: The Strangest Man: The Hid-
den Life of Paul Dirac, Mystic of the Atom, New York, Faber and Faber, 2009 (in it.
L’ uomo più strano del mondo. Vita segreta di Paul Dirac, il genio dei quanti, Milano,
Raffaello Cortina, 2013).

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 132-143 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


IL «BELLO» DELLA FISICA

Adrien Maurice Dirac2. Questi è stato un fisico teorico inglese, che


ha ricevuto insieme con Erwin Schrödinger il premio Nobel nel
1933 «per la scoperta di nuove forme della teoria atomica», con-
fluite poi nella meccanica quantistica. Forse Farmelo non gode del
rigore umanistico e letterario per discernere quale sia «il più grande
tra i poeti anglofoni». O, più ragionevolmente, la sua affermazione
vuole essere eminentemente provocatoria e rappresentare un invito
a riflettere sia sulle somiglianze tra fisica e poesia – e sul fatto che
hanno bisogno una dell’altra – sia su come il potere sottile della
bellezza si manifesti in entrambi i campi.
In questo articolo prenderemo in considerazione come il sapere
scientifico – similmente al discorso poetico – faccia ampio uso del
linguaggio analogico, e come sia la scienza sia la poesia tendano –
133
anche se a livelli diversi – a riassumere i propri concetti, preferendo
una narrazione sintetica rispetto a descrizioni lunghe ed eccessiva-
mente descrittive; ma soprattutto vedremo come la poesia e la fisica
abbiano un occhio di riguardo per il gusto estetico, sia pure con le
necessarie differenze.

Un gusto estetico, ben nascosto…

Agli occhi del fisico, la natura si esprime e, paradossalmente, lo fa


attraverso un silenzio forte e chiaro; e allo stesso tempo è semplice-
mente «bella». Ma il gusto del bello tra i fisici non è uniformemente
condiviso, come pure la passione letteraria non è universalmente
condivisa. Il sopraccitato Dirac affermava di non comprendere af-
fatto la poesia e di non capire come alcuni tra i suoi illustri colleghi
– tra i quali Robert Oppenheimer3 – potessero scrivere dei sonetti.
Arrivò anche a sostenere di non capire «come un uomo possa lavo-
rare alle frontiere della fisica e allo stesso tempo comporre poesie.
Le due cose sono in contraddizione tra loro. In fisica si vuole dire

2. Paul Adrien Maurice Dirac (8 agosto 1902 - 20 ottobre 1984), fisico teori-
co inglese, è considerato uno degli scienziati più importanti del XX secolo.
3. Robert Oppenheimer (22 aprile 1904 - 18 febbraio 1967) è stato un fisico
teorico statunitense, professore di fisica all’Università della California, Berkeley. È
stato il capo del Los Alamos National Laboratory, ed è tra coloro che possono essere
definiti «padri della bomba atomica», per il suo ruolo nel Progetto Manhattan.
ARTICOLI

qualcosa che nessuno sapeva prima in termini che tutti possono ca-
pire. In poesia si è costretti a dire cose che tutti già sanno in termini
che nessuno capisce». Un’affermazione, questa, certamente icastica.
E Richard Feynman4, diversi anni dopo, ribadiva questa afferma-
zione, sostenendo che «i poeti dicono che la scienza toglie la bellezza
delle stelle, riducendole solo ad ammassi di atomi di gas. Solo? Anch’io
mi commuovo a vedere le stelle di notte nel deserto, ma vedo di meno
o di più? […] Vedo un grande schema, di cui sono parte e forse la mia
sostanza è stata eruttata da qualche stella dimenticata, come una, ora,
sta esplodendo lassù. […] Qual è lo schema, quale il suo significato,
il perché? Saperne qualcosa non distrugge il mistero, perché la realtà
è tanto più meravigliosa di quanto non potesse immaginare nessun
artista del passato! Perché oggi i poeti non ne parlano?».
134
Di quale bellezza si parla, dunque, quando si giunge perfino ad
annoverare i fisici come potenziali «grandi poeti» e li si percepisce
come artisti capaci di creare opere sublimi? Si tratta di un terribile
e imperdonabile errore di valutazione, o c’è un certo senso estetico
anche nella scienza? E se è così, qual è dunque il bello della fisica?

L’eleganza della matematica e il dono dell’analogia

Eugene Wigner5 si chiedeva come mai riusciamo a descrive-


re il mondo con la matematica, e rispondeva che essenzialmente il
linguaggio matematico è meraviglioso ed esemplare non soltanto
per il fatto di essere l’unico (universalmente parlato), ma anche per
essere quello corretto (il più efficace per descrivere la natura). A
questo punto il fisico ungherese parlava di un vero e proprio «mi-
racolo» e di un «dono»: il miracolo dell’appropriatezza del linguag-
gio matematico nella formulazione delle leggi della fisica, e il dono

4. Richard Phillips Feynman (11 maggio 1918 - 15 febbraio 1988) è stato


un fisico teorico statunitense, noto per il suo lavoro nella formulazione integrale
del percorso della meccanica quantistica e per la teoria dell’elettrodinamica quan-
tistica. Ha assistito allo sviluppo della bomba atomica durante la Seconda guerra
mondiale e ha ricevuto il premio Nobel nel 1965 insieme a Julian Schwinger e
Shin’ichirō Tomonaga.
5. Eugene Paul Wigner (17 novembre 1902 - 1º gennaio 1995) è stato un
fisico teorico ungherese, che ha contribuito anche alla fisica matematica. Ottenne la
cittadinanza americana nel 1937, e il premio Nobel nel 1963.
IL «BELLO» DELLA FISICA

meraviglioso che non comprendiamo, né meritiamo6. Nonostante


Wigner dichiarasse di non credere in Dio, in questa sua posizione
s’intravede uno spiraglio per una luce di sublime spiritualità.
Si potrebbe dire che l’equazione più famosa della fisica sia E = mc2,
formulata da Albert Einstein7 nella teoria della relatività ristretta. Essa
pone una uguaglianza tra l’energia (E) di un corpo e la massa del corpo
stesso (m), moltiplicata per la velocità della luce al quadrato (c2). Ma,
con Farmelo8, possiamo proporre come equazione più bella in assoluto
quella di Paul Dirac: i𝛾∂𝜓 = m𝜓. Non entreremo qui nei dettagli di
questa formula, né nel significato fisico-matematico dei simboli in essa
contenuti. Ci basti far notare che essa descrive il comportamento – per
esempio, il moto e la conservazione dell’energia totale della reazione –
di elettroni o di quark, unificando in una formulazione coerente i prin-
135
cìpi della meccanica quantistica e quelli della relatività speciale. Questa
equazione compare perfino sul pavimento dell’abbazia di Westminster,
per commemorare la vita del fisico suo creatore o scopritore9.
Cosa si può dire di questi simboli matematici che sintetizzano
uno dei più alti traguardi raggiunti dallo scibile umano? Vi perce-
piamo una bella analogia e una forma poetica di grande raffinatezza
ed eleganza. Non pensiamo di esagerare se scorgiamo nella formula
matematica aspetti in comune con la poesia. L’equazione condivide
con il linguaggio poetico uno degli strumenti più potenti del sapere
umano: l’«analogia». Ci racconta che «questo» è uguale a «quello»,
che il termine a sinistra è uguale al termine di destra e viceversa. È
un’analogia, appunto.

6. Cfr E. P. Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze


naturali, Milano, Adelphi, 2017, 39.
7. Albert Einstein (14 marzo 1879 - 18 aprile 1955), fisico teorico di origine
tedesca, ampiamente riconosciuto come uno dei più grandi fisici di tutti i tempi.
Ha ricevuto il premio Nobel nel 1921 e sia le sue conquiste intellettuali sia la sua
originalità hanno fatto sì che «Einstein» diventasse sinonimo di «genio».
8. Facciamo notare anche come diverse persone – più o meno giovani, e non
esattamente esperte di fisica, attive soprattutto in rete – considerino l’equazione di
Dirac come l’«equazione dell’amore». Non riteniamo che questo superficiale miscu-
glio di scienza e sentimenti amorosi meriti di essere respinto rigorosamente, essendo
privo del necessario e onesto rigore, condizione necessaria per un dialogo che sia
arricchente.
9. La targa commemorativa nell’Abbazia di Westminster, che presenta l’e-
quazione, è stata inaugurata il 13 novembre 1995.
ARTICOLI

Come nel linguaggio parlato, dove abbondano analogie dirette


o indirette (le metafore), così la formulazione matematica della fisica
apre scenari straordinari, connettendo nozioni finora inesplorate a
concetti con i quali siamo – chi più, chi meno – familiari. Il tutto
per spingerci al di là del noto, oltre la banalità. Con le sue equazio-
ni, la fisica trasforma affermazioni che rischierebbero di essere tau-
tologiche – ovvie e che non aggiungono nulla al nostro sapere – in
un’espansione della nostra conoscenza verso orizzonti inesplorati.
Se l’ingegneria si ferma a ciò che è possibile e che è «materialmente»
realizzabile, la fisica ci spinge invece oltre, spostando il limite dello
scibile un po’ più in là, ai limiti estremi dell’immaginazione10.

136 CHI PIÙ DI UN FISICO POTREBBE INDAGARE


IN MANIERA PROFONDA LA BELLEZZA DELLA
NATURA?

Prendendo in considerazione il linguaggio matematico, da


una parte, e quello analogico, dall’altra, osserviamo come in un’e-
quazione l’evoluzione di una quantità venga determinata a partire
dalla conoscenza di un’altra quantità; allo stesso modo un’analogia
non è altro che un’astrazione che permette di conoscere concetti e
sensazioni senza il bisogno di una prova diretta. Ci sono dunque
due strade – le equazioni e le analogie – per indicare che a parti-
re da un’immagine nota ne possiamo visualizzare altre sconosciute
e nuove, creando ponti tra qualcosa di noto e altri elementi che
non controlliamo direttamente. Inoltre, le analogie creano ponti
e relazioni tra loro stesse: gli stessi strumenti che sviluppiamo per
comprenderne una vengono usati anche per costruirne di nuove. E
il ponte più sorprendente sembra essere proprio quello che porta a
collegare la poesia e la fisica: entrambe sono strumenti a nostra di-
sposizione per descrivere e comprendere il mondo, come se fossero
in vasi vicini e comunicanti. E questi due strumenti condividono la
passione per il bello: chi più di un poeta è attratto dal bello, e chi più

10. Cfr M. Malvaldi, L’ infinito tra parentesi. Storia sentimentale della scienza
da Omero a Borges, Milano, Rizzoli, 2016, 42.
IL «BELLO» DELLA FISICA

di un fisico potrebbe indagare in maniera profonda la bellezza della


natura? Ma, pensando a Dirac, è realmente così?

Va’ dove ti porta il cuore…

Per quanto riguarda le analogie, certamente il fisico inglese ne


aveva ben compreso, o almeno intuìto, la profonda natura e i profi-
cui misteriosi legami che le animano. Si racconta che egli avesse un
carattere particolarmente bizzarro, e che nel tempo libero amasse sca-
lare le montagne. Ma per allenarsi aveva trovato una perfetta analo-
gia nell’arrampicata sugli alberi di melo che circondavano il campus
universitario di Cambridge. Il suo scopo ultimo, per ciò che riguarda
il tempo libero («scalare le montagne»), era preparato, sostenuto e ac-
137
compagnato da un’attività non uguale, ma analoga («arrampicarsi sui
meli»). E più emozionanti sono l’attività e il collegamento che esiste tra
i due aspetti, più efficace e duratura diventa la conoscenza.
Per Feynman, la ricerca scientifica riceve linfa vitale da una
sorgente intima – il cuore profondo dello scienziato – che, senza
forzare troppo i termini, potremmo definire di natura «biblica». Lo
scienziato è un «omo in cui pensier rampolla»11, per dirla con le
parole di Dante; e il genio americano scrive: «Lo stesso brivido, lo
stesso riverente timore e lo stesso mistero tornano ancora quando
approfondiamo un qualsiasi problema. Con l’espandersi e l’appro-
fondirsi della conoscenza il mistero diventa sempre più attraente e ci
invita ad addentrarci oltre. […] Pochi non scienziati vivono questa
particolare esperienza religiosa. I nostri poeti non ne scrivono; i
nostri artisti non tentano di rappresentarla. Non capisco perché»12.
Sia la sublimità dell’analogia dantesca sia la purezza del senti-
mento accorato del fisico statunitense sono innegabili. Però va ri-
conosciuto, con limpida onestà intellettuale, che esiste una netta
distinzione tra la bellezza presente nella scienza e la bellezza che ci
emoziona nell’arte o nella letteratura. A tale riguardo, si possono
leggere le posizioni di Dirac sulla poesia e di Feynman sugli artisti.
Forse il cuore porta a sensi estetici non immediatamente trascrivi-

11. Dante Alighieri, Divina Commedia. Purgatorio, canto V, v. 16.


12. R. Feynman, Il piacere di scoprire, Milano, Adelphi, 2020, 154.
ARTICOLI

bili uno nell’altro e a forme policrome che autorizzano scienziati a


vedere il «bello della fisica» e ad essere, al tempo stesso, praticamente
insensibili al «bello dell’arte».
Fondamentale, in questo ambito, è la tipologia del linguaggio che
viene usato. Molto probabilmente, l’opera scientifica più bella, da un
punto di vista letterario, è il De rerum natura («La natura delle cose») di
Tito Lucrezio Caro, filosofo e poeta. L’opera, scritta nel I secolo a.C.,
è un poema latino di genere epico-filosofico, composto di sei libri
in esametri, in cui vengono esposte le teorie epicuree sulla realtà del
mondo, regolato da un «ordine naturale» e totalmente indipendente
dagli dèi. L’universo, secondo una visione atomistica, materialistica e
meccanicistica, è composto di piccolissimi elementi invisibili e indivi-
sibili, gli «atomi».
138
Quello che desta meraviglia è il fatto che il sistema filosofico
del De rerum natura, pur spaziando dalla fisica all’etica, venga pre-
sentato in forma di poema epico. Ritornano quindi alla mente le
parole di Feynman: «I poeti dicono che la scienza toglie la bellezza
delle stelle. […] Perché la verità è molto più meravigliosa di quanto
qualsiasi artista del passato l’abbia immaginata. Perché i poeti del
presente non ne parlano?». Sembra veramente che non si possa par-
lare di un senso comune di bellezza tra arte e poesia, da una parte, e
scienza, dall’altra. Dunque, qual è il bello a cui la scienza si riferisce?
Per chi non conosce la matematica è difficile percepire, come una
sensazione reale, la profonda bellezza della Natura. Se si vuole cono-
scere la Natura e apprezzarla, si deve comprendere il linguaggio che
essa parla: ossia, quello matematico. Secondo Gian Francesco Giudi-
ce13, «non possiamo scrivere regole matematiche esatte che stabiliscano
se una teoria sia affascinante o no. Tuttavia, è sorprendente il fatto che
la bellezza e l’eleganza di una teoria siano universalmente riconosciute
da persone di culture diverse». Nella maggior parte dei casi si tratta di
istinto, di intuito fisico, che racchiude in una corretta combinazione
la giustificazione dei risultati empirici e l’utilizzo dei princìpi fonda-
mentali: è questo che rende una teoria bella (nell’armonia e coerenza

13. Gian Francesco Giudice (25 gennaio 1961) è un fisico teorico italiano che
lavora all’Organizzazione europea per la ricerca nucleare (Cern) di Ginevra, nel
campo della fisica delle particelle e della cosmologia.
IL «BELLO» DELLA FISICA

con i princìpi fondamentali) e di successo (nell’accordo con i dati spe-


rimentali). La dimensione irragionevole rende la fisica appassionante
ed eccitante e ci spinge a ritenere che probabilmente il significato di
bellezza di una teoria fisica debba essere qualcosa di insito nel nostro
cervello. Il punto fondamentale è che la scienza non è arte, e non si
cercano teorie per suscitare reazioni emotive, ma piuttosto essenzial-
mente spiegazioni per ciò che viene osservato nel mondo naturale. La
scienza è un’impresa organizzata in modo da superare i punti deboli
dell’intelletto umano ed evitare le fallacie dell’intuizione. La scienza
non ha a che fare con le emozioni, ma con numeri ed equazioni, dati
e grafici, con fatti e con la logica e la matematica14.
Werner Heisenberg, uno dei padri fondatori della meccanica
quantistica, credeva fermamente nella bellezza dei modelli fisici e nel
139
fatto che è proprio la bellezza a portarci alla verità. Egli affermava: «Se
la natura ci conduce a forme matematiche di grande semplicità e bel-
lezza, non possiamo fare a meno di ritenere che esse siano vere, e che
descrivano una caratteristica autentica del mondo reale»15. La moglie
del grande fisico ricorda anche come, durante una passeggiata not-
turna sotto il cielo stellato, egli, in un trasporto estatico e romantico,
abbia affermato che ciò che è simmetrico, bello e armonioso non può
non essere un archetipo originario della creazione, e quindi intrinse-
camente e necessariamente vero16. Probabilmente non ci si dovrebbe
fidare troppo degli afflati sentimentali dei fisici, che rischiano di di-
ventare più mediocri poeti che rigorosi scienziati.

Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che è naturale

Secondo Frank Wilczek17, le spiegazioni che sembrano di successo


diventano belle, e così ne impariamo a riconoscerne la bellezza. Forse

14. Cfr S. Hossenfelder, Sedotti dalla matematica. Come la bellezza ha portato


i fisici fuori strada, Milano, Raffaello Cortina, 2019, 21 s.
15. W. K. Heisenberg, Physics and beyond: encounters and conversations, New
York, HarperCollins, 1971, 68 (in it. Fisica e oltre. Incontro con i protagonisti [1920-
1965], Torino, Bollati Boringhieri, 1969).
16. Cfr Id., Inner Exile: Recollections of a Life with Werner Heisenberg, Basel,
Birkhäuser, 1984, 143.
17. Frank Anthony Wilczek (15 maggio 1951) è un fisico teorico, matematico sta-
tunitense. Attualmente professore di fisica al Massachusetts Institute of Technology (Mit).
ARTICOLI

è giunto il momento che in fisica vengano abbandonati gli ideali este-


tici del passato. Sembra inevitabile e ragionevole basarsi sull’esperienza
di chi ci ha preceduto: Bernardo di Chartres18 diceva che noi siamo
come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di
loro e cose più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del
nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura
dei giganti, dalla tradizione appunto. Però ci sentiamo di aggiungere
che sarebbe sciocco fermarsi lì, e che un atteggiamento del genere non
sarebbe in accordo con l’impulso della conoscenza scientifica, nel suo
senso contemporaneo. Un criterio di bellezza cristallizzato sul passato
rischia di essere mendace e traditore, e rischia di portare i fisici fuori
strada in molteplici circostanze.
È infatti interessante notare come l’avvento della meccanica
140
quantistica – la più grande rivoluzione scientifica dell’epoca con-
temporanea – sia stato, per molti aspetti, uno dei numerosi falli-
menti del criterio estetico. La scomparsa delle nozioni di posizione
e velocità degli «oggetti quantistici», e la dissoluzione del criterio di
realtà degli oggetti stessi, che vengono, per così dire, sciolti in una
realtà probabilistica e indeterminata anche sul piano dell’essere19, si
allontanano drasticamente dalla purezza estetica dei solidi platoni-
ci, in cui l’universo era organizzato fino ai modelli cosmologici di
Keplero e di Newton.
Va aggiunto anche che le idee stesse di Heisenberg che hanno
avuto successo – e che sono meravigliosamente sopravvissute alle
critiche della comunità scientifica – non sono esattamente classifi-
cabili come meraviglie di bellezza. Quindi, il criterio estetico mol-
to probabilmente non è affatto un parametro determinante nella
scienza. O almeno non lo è in maniera rigida e immutabile.

Insieme a David Gross e David Politzer, ha ricevuto il premio Nobel per la fisica nel 2004
«per la scoperta della libertà asintotica nella teoria dell’interazione forte fra particelle».
18. Bernardo di Chartres (morto dopo il 1124) è stato un filosofo neoplatonico
francese del XII secolo, maestro di retorica nella scuola della cattedrale di Chartres.
19. Si pensi al «principio di indeterminazione» di Heisenberg, secondo cui
nell’ambito della realtà le condizioni sono formulate dalla teoria quantistica; le leggi
naturali, quindi, non conducono a una completa determinazione di ciò che accade
nello spazio e nel tempo, e l’accadere piuttosto è rimesso al gioco del caso.
IL «BELLO» DELLA FISICA

Secondo Steven Weinberg20, qualsiasi nuova teoria suggerisce cri-


teri estetici e, al tempo stesso, esige un confronto con i dati reali. In
questo processo di conferma sperimentale il senso e la percezione del
bello scientifico mutano, si adattano, in accordo con le nostre esperien-
ze sperimentali.
Nell’evolversi della scienza si è passati da una rappresentazione della
natura in termini olistici – senza dubbio esteticamente molto bella, ma
pseudoscientifica: si pensi all’astrologia – a una regola di validità libera
dall’avere la bellezza come criterio ultimo. Così, a detta dei fisici, si
è slegata la conoscenza del mondo fisico dalla «prigione antropo-
morfa» e antropocentrica del passato. Max Planck21 è molto chiaro
e altrettanto insistente su questo aspetto di de-antropomorfizza-
zione del sapere scientifico22 . Una teoria non dovrebbe fare rife-
141
rimento agli esseri umani, e la bellezza potrebbe essere una mera
percezione antropica che, cristallizzandosi e irrigidendosi – come
potrebbe essere in alcuni canoni estetici della Grecia classica –,
rischierebbe di ostacolare il progresso scientifico. Lo stesso Planck
sosteneva che le nuove verità scientifiche non si affermano per-
ché i loro oppositori si convincono della loro correttezza (e meno
ancora della loro bellezza), ma piuttosto perché alla fine gli oppo-
sitori della teoria muoiono e nasce una nuova generazione per la
quale i concetti sono diventati ormai familiari. Probabilmente una
cosa analoga avviene anche per il senso del bello.
La fisica dev’essere coerente nella sua formulazione matematica
e coerente con i risultati sperimentali. La fisica non è matematica,
ma, dai tempi di Isaac Newton in poi, trova nel formalismo ma-
tematico la sua espressione più efficace, in quanto la formulazio-
ne quantitativa è la più economica e meno ambigua delle forme
di comunicazione umane. In matematica ci si può sbagliare, ma
non si può mentire con essa. La richiesta di coerenza in una teoria

20. Steven Weinberg (3 maggio 1933 - 23 luglio 2021) è stato un fisico statu-
nitense, premio Nobel nel 1979.
21. Max Karl Ernst Ludwig Planck (23 aprile 1858 - 4 ottobre 1947) è stato un
fisico teorico tedesco; la sua scoperta dei quanti di energia gli valse il premio Nobel
nel 1918.
22. Cfr M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, Torino, Bollati Borin-
ghieri, 1965.
ARTICOLI

potrebbe però non essere sufficiente: ci sono molte cose matemati-


camente molto belle, ma che non hanno nulla a che vedere con la
realtà. Una soluzione sarebbe quella di richiedere che le teorie siano
matematicamente coerenti e, d’altra parte, che permettano la com-
prensione – descrizione e previsione – di un numero molto vasto
di fenomeni. Resta comunque fermo, come punto nodale – sempre
secondo Weinberg, che riprende, con un’analogia, un’idea di Tho-
mas Kuhn23 –, che ogni rivoluzione scientifica deve rovesciare il
concetto di bellezza.

Il bello nella fisica

Secondo Anthony Zee24, agli occhi del fisico «bellezza» vuol dire
142
«simmetria»25. In fisica, il concetto di simmetria identifica una pro-
prietà che si ripete sostanzialmente identica nel tempo e nello spa-
zio durante i processi fisici. Pertanto una legge scientifica che sia
vera tanto a Roma quanto a Pechino – cosa che avviene per tutte le
formulazioni fisiche –, e sia quindi «invariante» per gli spostamenti
spaziali, soddisfa i canoni estetici della fisica26. Il punto è che con le
simmetrie possiamo dire molto con molto poco e ottenere una co-
noscenza maggiore rispetto a ciò che si è inserito come input. Come
non pensare all’affermazione di Dirac che «in fisica vuoi dire qualcosa
che nessuno sapeva prima in termini che tutti possono capire; in poe-
sia sei costretto a dire cose che tutti già sanno in termini che nessuno
capisce»? Per un fisico, la bellezza è economia e semplicità.
Possiamo tentare allora di individuare tre parametri principali per
avere un’idea del «bello nella fisica». 1) Semplicità. Questo vuol dire poter
fare con meno: è il famoso rasoio di Occam27. Si comprende però come

23. Thomas Samuel Kuhn (18 luglio 1922 - 17 giugno 1996) è stato un filo-
sofo della scienza americano. Il suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche ha
introdotto il termine «cambiamento di paradigma».
24. Anthony Zee (1945) è un fisico cinese-americano, professore al Kavli Insti-
tute for Theoretical Physics e al dipartimento di fisica dell’Università della California,
Santa Barbara.
25. Cfr S. Hossenfelder, Sedotti dalla matematica..., cit., 43.
26. Discorso analogo può essere fatto per i cambiamenti temporali.
27. Il rasoio di Occam, o principio di economia, afferma che, quando si hanno
più ipotesi per la risoluzione di un problema, si deve scegliere, a parità di risultati,
IL «BELLO» DELLA FISICA

questo concetto abbia un valore puramente relativo e non immediata-


mente quantificabile o scevro di un certo soggettivismo. 2) Naturalez-
za. Questo significa che non si fa uso di ipotesi scelte ad hoc, ossia che
funzionino solo ed esclusivamente per il caso specifico considerato. In
una visione naturale ogni assunto dovrebbe avere una giustificazione e
non essere messo lì apposta. Questo aspetto lega la coerenza matema-
tica, offerta come un’indicazione, alla compatibilità del modello mate-
matico con i dati sperimentali. E tuttavia questo rimane un criterio di
origine estetica e di validità della teoria, e non prettamente scientifico.
3) Eleganza. Questo è il criterio più elusivo. È una sorta di combina-
zione tra semplicità e stupore, che apre a una nuova consapevolezza e
converge in una «chiusura esplicativa inattesa», per usare un’espressione
di Richard Dawid28. L’eleganza emerge inaspettatamente dall’economia
143
dei mezzi e non è formalizzata, né usata sistematicamente. D’altronde,
come potrebbe esserlo, se essa è praticamente la manifestazione del ge-
nio scientifico? L’eleganza resta dunque un criterio soggettivo.
La bellezza in fisica è quindi una combinazione di semplicità,
naturalezza e una certa dose di imprevisto29.

Il mistero miracoloso del bello della fisica

In conclusione, potremmo affermare che non importa quanto


sia bella una teoria, non importa quanto sia intelligente la persona
che l’ha inventata: se essa non è in accordo con i risultati dell’esperi-
mento, è sbagliata. La fisica ci appare come un delicato e misterioso
equilibrio tra intuizione estetica e geniale, da una parte, e rigorosa
verifica logica e sperimentale, dall’altra. E qual è l’effetto pratico
di questo fatto? Parafrasando Feynman, possiamo dire che, se la
curiosità umana rappresenta un bisogno, allora gli studi hanno un
senso pratico: quello di soddisfare tale curiosità30.

la via più semplice e che comporta il numero più basso possibile di assunzioni e
variabili. Guglielmo di Occam (1288-10 aprile 1347), è stato un teologo, filosofo e
religioso francescano inglese.
28. Richard Dawid è professore di filosofia della scienza all’Università di Stoc-
colma.
29. S. Hossenfelder, Sedotti dalla matematica..., cit., 120.
30. R. Feynman, Il piacere di scoprire, cit., 253.
ARTICOLI

LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE

Giovanni Cucci S.I.

Il termine «fortezza» può a prima vista comunicare un messaggio


negativo di violenza e sopraffazione o, più semplicemente, di prestan-
za fisica. Ma in realtà è una virtù indispensabile per il vivere comune.
Quando essa viene a mancare, prosperano mali di ogni genere, per-
144
ché coloro che potrebbero impedirli rinunciano a prendere posizione.
Pensiamo a tragedie della storia recente come l’Olocausto e le pulizie
etniche: di fronte al numero enorme di vittime colpisce l’esiguità de-
gli esecutori. Come notava Edmund Burke: «La sola cosa necessaria
affinché il male trionfi è che gli uomini buoni non facciano nulla».
La fortezza è capacità di opporre una barriera alle forze distruttive;
senza di essa diventa impossibile attuare la giustizia e la vita civile, ma
anche le scelte ordinarie, che comportano non di rado sacrifici: «Il
campo della fortezza è molto ampio, perché di questa virtù c’è bisogno
là dove si deve resistere a minacce, si devono superare le paure, si devo-
no affrontare la noia, il tedio, il disgusto dell’esistenza quotidiana per
riuscire a mettere in atto il bene. Per questo è una delle virtù umane,
morali fondamentali, che ogni persona onesta dovrebbe vivere»1.
Possiamo renderci conto dell’importanza e complessità di questa
virtù anche da una sommaria ricognizione terminologica.

La riflessione degli antichi

Il termine greco impiegato per la fortezza è andreia, la caratte-


ristica propria dell’uomo (anēr) che lo rende capace di affrontare le
difficoltà della vita, proteggendo coloro che si trovano sotto la sua re-
sponsabilità, e per questo egli è disposto anche a morire con dignità.

1. C. M. Martini, Le virtù. Per dare il meglio di sé, Milano, In Dialogo, 1993, 33 s.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 144-156 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE

Per Omero, l’esercizio della forza richiede vigoria fisica, ma an-


che crudeltà. L’eroe greco per eccellenza, Achille, non si limita a
compiere una strage presso il fiume Scamandro, ma arriva a di-
sprezzare i corpi degli uccisi, al punto da suscitare l’indignazione
dello stesso fiume, che cerca di affogarlo (cfr Iliade, XXI, 270-290).
Nell’epoca romana Virgilio presenta una figura differente di
eroe: il pius Aeneas (cfr Eneide, I, 378-380) non ama battersi ed è
capace di pietà; suo compito è proteggere i compagni a lui affidati e
guidarli a un approdo sicuro.
La fortezza trova una trattazione filosofica soprattutto a partire
da Platone, in particolare nel dialogo Lachete: la fortezza, di fatto
identificata con il coraggio, è propria di chi non viene meno al
proprio compito e mantiene salda la posizione di fronte al nemico.
145
Socrate precisa tuttavia che l’uomo coraggioso combatte anche riti-
randosi e per questo può riuscire vincitore (come gli Spartani nella
battaglia di Platea); chi invece disprezza il pericolo rischia di perirvi.
Il coraggio non coincide semplicemente con il vigore fisico, ma è
piuttosto una virtù; per questo richiede saggezza, conoscenza di sé
e delle possibilità in gioco. Inoltre, non vale solo per il combatti-
mento, ma per ogni situazione in cui si possa annidare un pericolo.
Richiede infine capacità di padroneggiare il piacere per conseguire
il bene sperato. Ciò fa del coraggio qualcosa di superiore allo spirito
guerresco dell’eroe: rimanda soprattutto a una stabilità di carattere
(ethikē) che non viene meno nella prova2.
Aristotele ci ha lasciato una trattazione accurata della fortezza.
Essa anzitutto, in linea con la medietà propria della virtù, si trova tra
due opposti atteggiamenti viziosi: la paura e la temerarietà. Il co-
raggio non è assenza di paura, ma capacità di ascoltarla per attuare
una decisione saggia, attenta cioè alla complessità della situazione.
Il temerario non può essere virtuoso, perché manca di prudenza,
indispensabile per l’azione buona3. Il coraggio sa mettere in conto

2. «Io chiamo virtù, oltre al coraggio, la temperanza, la giustizia e altre qua-


lità del genere […]. Il coraggio non è soltanto scienza delle cose temibili e non
temibili, ma quasi potrebbe essere scienza di tutti i beni e mali di ogni tempo»
(Platone, Lachete, 198A-199B).
3. «Il coraggioso patisce e agisce secondo il valore delle circostanze e come pre-
scrive la ragione. Il fine di ogni attività è quello che è conforme alla disposizione da cui
ARTICOLI

possibili rischi, e ciononostante prendere posizione; sa soprattut-


to dominare gli eccessi dell’ira e la ricerca sfrenata di vendetta. Il
coraggio non è nemmeno proprio solo di chi assale, ma anche di
chi resiste agli assalti e ai pericoli. Per questo Aristotele opera una
distinzione fra enkrateia (dominio di sé) e karteria (durezza, favorita
dalla temperanza; cfr Etica Nicomachea, 1145a 39-1145b 8; 1152a
38), che i latini tradurranno con perseverantia.
Per gli stoici, invece, ogni manifestazione di aggressività è sem-
pre negativa, perché intacca l’imperturbabilità dell’uomo sapiente.
Celebre è la riflessione di Seneca su questo argomento4.
La Bibbia presenta un vocabolario completamente diverso: la
LXX non utilizza mai il termine andreia, preferendo a esso il bino-
mio dynamis e iskhys – che traducono l’ebraico ḥajjl e khoaḥ –, indi-
146
canti soprattutto la forza fisica, una forza e un vigore che sono propri
soltanto di Dio: «A Jahweh il vigore (khoaḥ), che consolida le monta-
gne (Sal 65,7), solleva il mare (Gb 26,12); a Jahweh la possanza mae-
stosa (oz), che si manifesta nelle sue opere (Sal 66,3), e al quale vanno
gli omaggi delle creature (Sal 29,1; 96,7; 69,17); a Jahweh la forza
(gebhurah) che fa tremare i suoi nemici (Is 33,13; Ger 10,6; 16,21; Sal
89,11), egli infatti è il gibbor, il forte, per eccellenza, l’eroe (Is 42,13)»5.
I significati classici sopra ricordati non compaiono quasi mai in
questi testi; essi al contrario insinuano il dubbio circa la prestanza
fisica e il valore delle forze umane, che possono giocare brutti scherzi
a chi vi si affida senza il timore di Dio, l’unico che ha in mano le sorti
della storia e che può dare forza all’uomo, anche se debole e povero
(«Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli, noi siamo forti nel nome del
Signore nostro Dio. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in

essa procede: dunque, anche per il coraggioso. Il coraggio, poi, è una cosa bella: tale,
quindi, sarà anche il suo fine, giacché ogni cosa si definisce in base al suo fine. Dunque,
è in vista del bello morale che il coraggioso affronta le situazioni temibili e compie le
azioni che derivano dal coraggio» (Aristotele, Etica Nicomachea, 1115b 20-25).
4. «L’ira è una forma di follia breve. Come la follia, infatti, l’ira è incapace di
dominarsi, trascura ogni decoro, dimentica i vincoli sociali, si accanisce con perti-
nacia nei suoi intenti, chiudendosi ai consigli della ragione; si agita per cause vane,
incapace di discernere il giusto e il vero; assomiglia a una frana che schiaccia tutto
ciò su cui si abbatte. L’ira muta la cosa migliore e la più giusta nel suo contrario»
(Seneca, L’ ira, I, 2).
5. R. A. Gauthier, «La fortezza», in Iniziazione teologica, Brescia, Morcel-
liana, 1955, vol. III, 796.
LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE

piedi e stiamo saldi», Sal 20,8). L’uomo di Dio è caratterizzato soprat-


tutto dalla capacità di sopportare le tribolazioni (hypomonē): la gran-
dezza d’animo (macrothymia) che lo caratterizza è partecipazione della
pazienza di Dio, comunicata all’uomo mediante l’azione e la forza
(dynamis) dello Spirito Santo (cfr Rm 15,13; Ef 3,16; 2 Tm 1,7-8), che
rende capaci di affrontare il pericolo più grande, la morte6.
Il vocabolario del Nuovo Testamento presenta in particolare
quattro termini riconducibili alla fortezza: la forza (dynamis, Rm 1,16;
At 1,8), la franchezza (parrhēsia, At 2,29; 4,13; 4,31; 28,31), la pazien-
za-sopportazione (hypomonē, Rm 5,3; 15,4; 1 Ts 1,3) e la grandezza
d’animo (macrothymia, Mt 18,21-35; Rm 12,20; 2 Ts 3,5; 2 Pt 3,9.15).
Questa differenza terminologica è un segno eloquente della
grande diversità tra la concezione greca e quella biblica della forza7.
147
Purtroppo però gli scritti dei Padri della Chiesa tenderanno a con-
fondere e a mescolare i termini: la sopportazione (hypomonē) viene
impiegata come sinonimo della durezza (karteria) di Aristotele e
degli stoici; così la paziente grandezza d’animo (macrothymia) è ri-
condotta alla nobiltà (megalopsychia).
Le traduzioni latine dei testi accentuano ancor più tale confusio-
ne, rendendo estremamente ardua la riflessione teologica successiva:
«In greco era ancora possibile distinguere il gruppo delle virtù de-
scritte dai filosofi da quello delle virtù bibliche; in latino le due serie si
confondono totalmente, a cominciare dai testi tradotti della Scrittu-
ra. Fortitudo traduce sia l’andreia dei greci che la dynamis della Bibbia.
Il termine patientia sostituisce indifferentemente sia la macrothymia
che la megalopsychia; e magnanimitas traduce anch’essa l’uno e l’altro
termine greco. San Tommaso d’Aquino si è trovato dinanzi a questa
situazione, senza avere la possibilità di chiarire le vicende storiche su-
bite dai testi ai quali sarebbe ricorso per la sua sintesi dottrinale […].

6. Cfr O. Spicq, «Ipomone, Patientia», in Revue des Sciences Philosophiques et


Théologiques 19 (1930) 101-105.
7. Come nota ancora Gauthier: «Da una parte, un’affermazione della fortezza
e della grandezza dell’uomo; dall’altra, una confessione della sua debolezza, e lode della
sola fortezza e della sola grandezza di Dio. Da un lato, un’impassibilità senza speranza,
con cui si salvaguarda la propria dignità di uomo; dall’altro, una sopportazione piena
di speranza, con cui si testimonia la propria fede in Dio e il proprio amore per lui.
Celso aveva ben visto, certo: l’eroe stoico, rinchiuso nella sua sofferenza, è lontano dal
Cristo che piange e prega, dal martire che chiede soccorso» («La fortezza», cit., 809 s).
ARTICOLI

Ma per fortuna il pensiero non si riduce al linguaggio: la filologia è


solo uno strumento della filosofia e della teologia»8.
E difatti il trattato di Tommaso pone molta più attenzione alla por-
tata speculativa della fortezza che alla sua derivazione terminologica.
Nel fare ciò, egli ha unito in maniera mirabile riflessione classica e tra-
dizione biblica. Della prima se ne ha traccia soprattutto nella puntuale
ripresa di Aristotele, considerato meno estremista e pessimista degli
stoici (anche se mostra di apprezzare alcune osservazioni di Seneca).
Ma le citazioni di maggior rilievo del trattato tomista sono soprattutto
la Bibbia, il De officiis di Ambrogio e il De Patientia di Agostino.

La sistematizzazione di san Tommaso


148 La fortezza viene definita come la virtù che consente di supe-
rare le difficoltà nei confronti del bene. Per questo viene collocata
al terzo posto tra le virtù cardinali, dopo la prudenza-saggezza e la
giustizia, ma prima della temperanza, perché il pericolo di morte è
un ostacolo al bene più forte dell’attrattiva del piacere disordinato9.
Compito precipuo della fortezza non è quello di individuare e com-
piere il bene, ma quello di proteggerne il conseguimento di fronte
ai pericoli che si presentano.
La fortezza si fonda su due passioni specifiche: il timore e l’audacia.
Il primo presenta alla ragione la possibile gravità del pericolo, la secon-
da cerca di farvi fronte in maniera ponderata. La fortezza reprime il
timore e modera l’audacia, e si concretizza in due azioni fondamentali:
l’aggredi (mediante il coraggio) e il sustinere (grazie alla pazienza)10.

8. T. S. Centi, «Introduzione», in Tommaso d’Aquino, s., La Somma Teolo-


gica, Firenze, Salani, 1968, vol. XX, 11; cfr 9.
9. «La volontà umana trova due ostacoli nel seguire la rettitudine della ragio-
ne. Primo, per il fatto che essa viene attratta da cose dilettevoli a compiere atti diver-
si da quelli richiesti dalla rettitudine della ragione: e tale ostacolo viene rimosso dalla
virtù della Temperanza. Secondo, per il fatto che la volontà si allontana da quanto è
conforme alla ragione per qualche cosa di difficile che sovrasta. E per togliere questo
ostacolo si richiede la Forza dell’animo, capace di resistere a tali difficoltà; come si
richiede la forza, ossia il vigore del corpo, per superare e respingere il male fisico.
Perciò è evidente che la Fortezza è una virtù, in quanto rende l’uomo conforme alla
ragione» (Sum. Theol., II-II, q. 123, a. 1; cfr a. 12, ad 3um).
10. Cfr Sum. Theol., II-II, q. 123, aa. 3 e 6; A. Campodonico, «Why Wisdom
Needs Fortitudo (and viceversa)», in Teoria 38 (2018/2) 63-73.
LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE

Il coraggio, per san Tommaso, è una maniera di fare verità di fronte


alla minaccia senza nascondersi le difficoltà, ma neppure le possibilità
in gioco. Non si identifica con l’impulsività aggressiva; per questo egli
definisce il coraggio fortitudo mentis, cioè la capacità – come nell’episo-
dio biblico del serpente di bronzo (cfr Nm 21,4-9) – di guardare in fac-
cia le difficoltà e stabilire il da farsi (cfr Sum. Theol., II-II, q. 123, a. 1).
Coraggio e paura, dunque, non si escludono; entrambi hanno una
connotazione valutativa, che riguarda il bene da tutelare, messo a con-
fronto con la propria fragilità. È proprio quest’ultima caratteristica a
fare del coraggio una qualità peculiare dell’essere umano: «La fortezza
presuppone la vulnerabilità; senza la vulnerabilità non c’è possibilità di
fortezza. Un angelo non può essere coraggioso, perché non è vulnera-
bile. Essere coraggiosi significa in effetti essere capaci di subire ferite»11.
149

LE MOLTEPLICI VIRTÙ RACCHIUSE NELLA


FORTEZZA MOSTRANO CHE ESSA NON PUÒ ESSERE
IDENTIFICATA SEMPLICEMENTE CON IL CORAGGIO.

Queste analisi portano a smentire il luogo comune secondo cui


l’uomo coraggioso non conoscerebbe la paura; questo è piuttosto
tipico della presunzione che, sia per Aristotele sia per san Tommaso,
costituisce un difetto uguale e opposto alla paura. La compresenza
di paura e coraggio richiede l’apporto di altre virtù egualmente im-
portanti, come la pazienza, la temperanza e la speranza, la capacità
di affrontare con fiducia le difficoltà. La pazienza sa comandare alla
paura, alla fretta, alla superficialità, conferendo la capacità di essere
padroni di se stessi e dunque di saper attendere: «L’uomo possiede la
propria anima con la pazienza, in quanto con essa svela dalle radici
le passioni causate dalle avversità che turbano l’anima» (Sum. Theol.,
II-II, q. 136, a. 4, ad 2um).
Le molteplici virtù racchiuse nella fortezza mostrano che essa
non può essere identificata semplicemente con il coraggio. Pur es-
sendo indispensabile, il coraggio deve essere ordinato al bene; per

11. J. Pieper, The Four Cardinal Virtues: Prudence, Justice, Fortitude, Temperan­
ce, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1966, 117.
ARTICOLI

questo necessita della saggezza e della giustizia. Sant’Ambrogio l’a-


veva precisato con una frase lapidaria: «La fortezza senza giustizia
non è altro che iniquità» (De officiis, I, c. 35).
L’atto specifico della fortezza, e il più difficile, non è aggredire,
ma piuttosto resistere, sopportare (sustinere); infatti, mentre aggre-
dire è proprio dell’ira, resistere è un atto proprio della ragione; per
questo richiede la pazienza e il dominio di sé, frenando l’aggressivi-
tà smodata (cfr Sum. Theol., II-II, q. 123, a. 10, ad 2um)12. Sopportare
ha anche la forma della resistenza passiva – testimoniata in maniera
eloquente da Gandhi, Tommaso Moro, Martin Luther King, Nel-
son Mandela – senza cadere nella rassegnazione: «Non è paziente
chi non fugge il male, ma chi non si lascia trasportare per questo a
una tristezza disordinata» (cfr Sum. Theol., II-II, q. 136, a. 4, ad 2um).
150
È la conflittualità della vita umana a mostrare quanto sia indi-
spensabile la fortezza per una vita bella, degna di essere vissuta. La
fortezza è una virtù che, a differenza di quanto riteneva Aristotele,
non si mostra soltanto in situazioni eccezionali, ma in qualsiasi occa-
sione in cui il bene può richiedere di mettere in gioco la vita, come
ad esempio nell’assistere malati contagiosi o nel compiere viaggi pe-
ricolosi per annunciare il Vangelo (cfr Sum. Theol., II-II, q. 123, a. 5).
Tutte circostanze nelle quali la scelta del bene morale può andare a
scapito di un bene fisico.

La dimensione teologale della fortezza

Per affrontare il male senza cedere alla «tristezza disordinata»


è indispensabile una passione fondamentale, la speranza, connessa
strettamente all’ira. Anche su questo punto l’analisi di Tommaso è
molto acuta e rispettosa della complessità dell’agire umano. Si può

12. «Resistere è più difficile che aggredire, per tre ragioni. Primo, perché la
resistenza si concepisce in rapporto alla prepotenza di uno più forte: invece, chi ag-
gredisce lo fa mettendosi in posizione di vantaggio e di forza. Ora, è più difficile
combattere contro i più forti che contro i più deboli. Secondo, perché chi resiste sente
già i pericoli come imminenti; chi invece aggredisce li considera come futuri. Ed è
più difficile non lasciarsi smuovere dalle cose presenti che da quelle future. Terzo,
resistere implica una certa durata di tempo: invece uno può aggredire con un moto
repentino. Ora, è più difficile rimanere immobili a lungo che muoversi con un moto
repentino verso qualche cosa di arduo» (Sum. Theol., II-II, q. 123, a. 6, ad 1um).
LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE

affrontare e superare un ostacolo perché si è ritenuto di poter in-


traprendere l’impresa (la dimensione valutativa del coraggio vista
sopra), e perché agendo si spera che le cose andranno meglio. Vi è
infine una componente di fiducia: la speranza, in quanto tale, ri-
manda infatti a ciò che non è in proprio potere gestire. Per questo
essa è essenzialmente connessa alla fede, nel senso della Lettera agli
Ebrei («La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che
non si vede», Eb 11,1). Queste caratteristiche mostrano il legame
naturale (passionale) tra aggressività e speranza: «Spes prima est in-
ter passiones irascibilis» (Sum. Theol., I-II, q. 25, a. 3). E la speranza
apre alla possibilità di godere della propria vita, è un anticipo della
beatitudo, della felicità, che sarà piena solo nella vita con Dio (cfr
Sum. Theol., I-II, q. 3, a. 2, ad 4um; q. 4, a. 1)13.
151
Le analisi di Tommaso hanno trovato conferma in sede di psico-
logia sociale. Le ricerche svolte in situazioni di forte ostilità e pericolo
per la vita – come ad esempio la reclusione nei campi di prigionia
– confermano la connessione evidente tra speranza e aggressività.
Spesso i prigionieri erano soggetti a profonde depressioni e deside-
ravano morire, ma, quando si arrabbiavano, non pensavano più al
suicidio: «Un modo di prevenire una morte imminente tra i prigio-
nieri di guerra che stavano per morire a causa di disperazione, apatia
e depressione, era che i loro compagni li facessero arrabbiare. Questo
suggerisce non solo che la speranza contiene un elemento fortemente
affettivo, ma che tale elemento affettivo è di natura decisamente com-
battivo […]; la speranza è il risultato di un cambio affettivo»14.
La polarità speranza-aggressività costituisce anche il punto di
maggiore distanza rispetto ad Aristotele, solitamente seguito e com-

13. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, La forza dalla debolezza. Aspetti


psicologici della vita spirituale, Roma, AdP, 2018, 165-169. Come notava Giuseppe
Lazzati: «La speranza è la virtù che ci dà la forza per fare le cose difficili, perché fa
vedere, al di là dell’atto che si compie, la meta a cui si arriverà in forza degli atti che
si compiono: la vita eterna […]. Per questo essa può renderti pieno di gioia nelle
difficoltà più dure, nel dolore più cocente. Il cristianesimo è un grido di speranza»
(citato in A. Montonati, Il testamento del capitano. L’ avventura cristiana di Giuseppe
Lazzati, Cinisello Balsamo [Mi], San Paolo, 2000, 149).
14. Th. Healy, «Le dinamiche della speranza: aspetti interpersonali», in L. M.
Rulla (ed.), Antropologia della vocazione cristiana. III. Aspetti interpersonali, Bolo-
gna, EDB, 1997, 31 s. Cfr J. E. Nardini, «Survival Factors in American Prisoners
of War of the Japanese», in American Journal of Psychiatry 109 (1952) 241-248.
ARTICOLI

mentato accuratamente: il legame essenziale tra queste due passioni


non può infatti trovare compimento nell’orizzonte terreno. Senza la
prospettiva della vita eterna – un tema assente nel corpus degli scritti
dello Stagirita15 – verrebbe meno la motivazione fondamentale per non
desistere di fronte al male e all’ingiustizia, come appunto nell’esperien-
za dei lager. Verrebbe meno soprattutto la possibilità che la rettitudine
morale possa trovare il giusto riconoscimento – non di rado assente in
questa vita –, specie quando si è chiamati a pagare in prima persona.
Il pensiero che l’impegno e la dedizione non cambieranno nulla, e che
alla fine il furbo e il disonesto trionferanno, destabilizza radicalmente
la motivazione. È il tarlo tremendo del nichilismo, una sorta di cancro
dell’anima, capace di scardinare dalle fondamenta l’edificio del bene.
La speranza in una prospettiva ulteriore, oltre che inestirpabile,
152
è la garanzia del senso, indispensabile per l’agire umano come l’aria
che si respira16.
Fin dal giovanile Commento alle Sentenze Tommaso aveva com-
preso che il compimento della virtù richiede di oltrepassare la di-
mensione naturale della speranza, resa possibile dalla sua corrispettiva
virtù teologale (cfr In III Sent., 26, q. 2, a. 2, ad 4um). In un passo della
Summa contra Gentiles egli definisce «angosciante» la riflessione di
Aristotele e dei suoi commentatori su questo punto – da Alessandro
di Afrodisia ad Averroè –, perché incapace di giustificare la speranza
nei confronti della felicità17. Per questo nella Summa Theologiae Tom-
maso presenterà la fortezza non soltanto come virtù morale (cfr II-II,
q. 123), ma anche come dono teologale dello Spirito Santo, ricondu-
cendola alla quarta beatitudine evangelica («beati coloro che hanno
fame e sete della giustizia», Mt 5,6; cfr Sum. Theol., II-II, q. 139, a. 2).
Ma il valore della fortezza può essere compreso in tutta la sua por-
tata drammatica solo contemplando la passione di Gesù: la sua morte
in croce ne costituisce il riferimento per eccellenza. Commentando

15. Cfr G. Reale, Introduzione a Aristotele, Roma - Bari, Laterza, 2002, 99-
101.
16. Cfr G. Cucci, «Oltre il nichilismo», in Civ. Catt. 2021 II 438-448.
17. «Da ciò risulta a sufficienza in quali angustie [quantam angustiam] si tro-
vavano i loro altissimi ingegni. Da tutte codeste angustie noi siamo liberati, se am-
mettiamo, in base a quanto abbiamo esposto, che gli uomini dopo la vita presente
possono giungere alla vera felicità, mediante l’anima immortale» (Summa contra
Gentiles, 3,48; cfr Sum. Theol., I-II, q. 61, a. 5, ad 1um).
LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE

un passo della Lettera agli Ebrei («Poiché dunque i figli hanno in co-
mune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto
partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della
morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore
della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita», Eb 2,14-15),
Tommaso nota che con la sua morte di croce Gesù ha affrontato le
situazioni più terribili che la vita può presentare. In tal modo egli dona
al cristiano la pienezza della libertà, «perché chi sta fermo contro i mali
più gravi, è logico che stia fermo anche di fronte a mali minori, ma
non è vero il rovescio»18. Riprendendo un pensiero di Agostino, Tom-
maso precisa anche che la morte in croce di Cristo, essendo la morte
più straziante e orribile, è in grado di far affrontare anche le sofferenze
fisiche e morali, che non di rado sono temute più della morte stessa19.
153

Una virtù esigente

Da queste pur sommarie considerazioni si può comprendere


il valore inestimabile della fortezza, «condizione di tutte le virtù»
(Sum. Theol., II-II, q. 123, a. 2, ad 2um). Senza di essa diviene impos-
sibile compiere il bene, dal momento che la vita presenta continua-
mente ostacoli e smentite alla sua realizzazione.
Le ideologie totalitarie e imperialiste, le associazioni malavitose
e il terrorismo politico e religioso hanno profondamente deformato
il significato del coraggio, riducendolo a un esercizio spietato di
brutalità e violenza.

18. Sum. Theol., III, q. 46, a. 4. Cfr Tommaso d’Aquino, s., Super epistolam ad
Hebreos, c. 2, lect. 4: «Tra tutti [i timori] il più grave è il timore della morte, essendo
l’estrema delle cose temibili. Cosicché se l’uomo supera questo timore, supera tutti gli
altri; e superato questo, si supera ogni amore disordinato del mondo. Perciò Cristo con
la sua morte spezzò questo legame, perché tolse il timore della morte, e per conseguenza
l’amore della vita presente. Infatti quando uno considera che il Figlio di Dio, padrone
della morte, volle morire, non teme più di morire». Cfr Y. Congar, «Le traité de la force
dans la “Somme Théologique” de Saint Thomas d’Aquin», in Angelicum 51 (1974) 331-
348.
19. «Ci sono degli uomini che, sebbene non temano la morte in se stessa, han-
no orrore di certi generi di morte. Perciò, affinché nessun genere di morte spaven-
tasse l’uomo che vive rettamente, fu opportuno mostrarlo con la croce di Cristo:
perché tra tutti i generi di morte nessuno era più esecrabile e terribile» (Agostino
d’Ippona, s., Octoginta trium quaestionum, q. 25; cfr Sum. Theol., II-II, q. 123, a. 4).
ARTICOLI

La fortezza, al contrario, richiede la capacità di sopportare le


prove per tutelare il bene, senza perdersi d’animo (cfr Sum. Theol.,
II-II, q. 137, a. 2). Perché essa possa essere sempre più apprezza-
ta e praticata è fondamentale educare ragazzi e giovani fin dalla
più tenera età a fronteggiare le prove ordinarie della vita, e farli
crescere in questa virtù così importante anche per la stabilità inte-
riore e la stima di sé.
La presentazione di esempi concreti è indubbiamente un altro
grande aiuto per riscoprirne il significato autentico e la sua bellezza.
I riti di passaggio, presenti in tutte le culture, avevano proprio lo
scopo di introdurre i giovani alle difficoltà della vita in modo gra-
duale, superando opportuni ostacoli mediante cerimoniali compiuti
alla presenza di adulti. Nelle odierne società occidentali, purtroppo,
154
di questi riti non è rimasto praticamente nulla, rendendo sempre
più arduo l’ingresso del giovane nell’età adulta20.
Cercare a ogni costo di evitare difficoltà e ostacoli finisce inve-
ce per minare la forza d’animo, e porta a dubitare del valore di sé.
Mancando l’abitudine ad affrontare i problemi che la vita presenta,
permane una situazione di noia, di fragilità interiore e, quando ca-
pita un contrattempo o un fallimento, la situazione può con facilità
degenerare, con esiti tragici, fino a far ritenere impossibile conti-
nuare a vivere. Il drammatico aumento dei suicidi adolescenziali
nelle nostre società sembra derivare soprattutto da motivazioni as-
solutamente sproporzionate, ma vissute come una sorta di catastrofe
globale21. L’aggressività non educata diventa distruttiva: i mesi del
lockdown hanno visto una drammatica escalation della violenza do-
mestica e pubblica e degli omicidi compiuti senza un perché, come
un modo di contrastare la noia e il malessere interiore.
La mancanza di fortezza può manifestarsi anche a livello cultu-
rale e sociale: si pensi alla ritrosia, da parte dei media e degli editori,
a dare voce a riflessioni e proposte ritenute impopolari o politica-
mente scorrette (senza interrogarsi sulla possibile verità dei conte-
nuti), impedendo così il confronto critico e il dibattito su questioni

20. Cfr G. Cucci, La crisi dell’adulto. La sindrome di Peter Pan, Assisi (Pg),
Cittadella, 2012.
21. Cfr Id., «Il suicidio giovanile. Una drammatica realtà del nostro tempo», in
Civ. Catt. 2011 II 121-134.
LA FORTEZZA, UNA VIRTÙ ESIGENTE

di capitale importanza. In tal modo, per il quieto vivere, si assecon-


da il pensiero unico, tipico delle dittature e dei gruppi totalitari,
dove solo alcune idee hanno diritto di cittadinanza22.

«State saldi nella fede… siate forti»

Contrariamente a quanto sostenuto dai maestri del sospet-


to (Marx, Nietzsche, Freud), la speranza nella vita eterna non
è un impedimento all’impegno per la giustizia; al contrario, ne
costitui­sce la migliore garanzia: «La speranza soprannaturale af-
ferma: per l’uomo, che vive nella realtà della grazia di Dio, andrà
bene in un modo che supera infinitamente ogni aspettativa, finirà
nella vita eterna. Per l’uomo, a volte la speranza soprannaturale
155
rimane semplicemente l’unica possibilità di orientarsi all’essere. La
fortezza disperata della “fine eroica” ( Jünger) è in fondo nichilista,
guarda al nulla. Invece la fortezza del cristiano si nutre della spe-
ranza nella vita eterna, in un cielo nuovo e una terra nuova dove
avrà stabile dimora la giustizia (2 Pt 3,13)»23.
La speranza che anima la fortezza, nota Samek Lodovici, «viene
alimentata dalla consapevolezza di essere amati»24. Quanto questa
consapevolezza sia decisiva per l’azione ha trovato conferma in vi-
cende di vita splendide e toccanti, caratterizzate da grande soffe-
renza e insieme da una misteriosa pace interiore. Tra i molti esempi
della storia recente possiamo ricordare Franz Jägerstätter, o i mem-
bri della Rosa Bianca, che furono tra i pochissimi che si opposero
pacificamente, ma con fermezza, alla barbarie nazista. La speranza

22. Questa deriva delle democrazie occidentali era stata già rilevata decenni
fa da Aleksandr Solženicyn. Nel celebre discorso tenuto all’università di Harvard
egli notava che la libertà di pensiero e di stampa vengono di fatto impedite quando
non sono in linea con l’industria culturale: «In Occidente, anche senza bisogno della
censura, viene operata una puntigliosa selezione che separa le idee alla moda da
quelle che non lo sono, e benché queste ultime non vengano colpite da alcun divieto
esplicito, non hanno la possibilità di esprimersi veramente né nella stampa periodica,
né in un libro, né da alcuna cattedra universitaria. Lo spirito dei vostri ricercatori è
sì libero, giuridicamente, ma in realtà impedito dagli idoli del pensiero alla moda»
(A. Solženicyn, Un mondo in frantumi. Discorso di Harvard, Milano, La Casa di
Matriona, 1978, 18).
23. J. Pieper, La fortezza, Brescia, Morcelliana, 2001, 40 s.
24. G. Samek Lodovici, «Resistenza e lotta», in Divus Thomas 122 (2019/2) 323.
ARTICOLI

nella vita eterna comunicò loro un coraggio e una serenità che im-
pressionò profondamente i loro carcerieri, che li hanno ricordati
con queste parole: «Si sono comportati con coraggio fantastico.
Tutto il carcere ne fu impressionato […]. “Non sapevo che potesse
essere così facile morire”, disse Christoph. E poi: “Fra pochi minu-
ti ci rivedremo nell’eternità”. Poi vennero condotti al supplizio. La
prima fu la ragazza. Andò senza battere ciglio. Noi tutti non riusci-
vamo a credere che ciò fosse possibile. Il boia disse di non aver mai
veduto nessuno morire così»25.
Quando si prova a tracciare un profilo di queste persone, si re-
sta impressionati dal loro tratto comune e insieme dalla capacità di
compiere gesti eccezionali. Figure fragili, inermi, eppure dotate di
un coraggio umanamente inspiegabile26.
156
La fortezza è virtù insieme preziosa e rara proprio per il prezzo
che richiede. La persona forte non è solo disposta a morire per il
bene, ma è soprattutto animata dalla speranza che esso prevarrà sul
male e non mancherà di ricevere la giusta ricompensa: «Senza que-
sta speranza la fortezza è impossibile»27.

25. M. Bandera, «I perdenti 11: i giovani della rosa bianca», in Missioni Con-
solata, 3 febbraio 2016.
26. «La vicenda di Jägerstätter impressiona oltremodo a motivo della sua cul-
tura elementare e dell’assenza di coinvolgimento nei movimenti di opposizione.
Soltanto in base alla preghiera e a una quotidiana riflessione biblica egli riuscì a
discernere le proprie responsabilità e a seguire fino alle estreme conseguenze quanto
la fede e il retto sentire gli suggerivano» (P. Vanzan, «Franz Jägerstätter: il conta-
dino che rifiutò Hitler in nome di Dio», in Civ. Catt. 2006 II 345).
27. J. Pieper, La fortezza, cit., 71.
EUTANASIA, L’ALTRA ONDATA
CHE INVESTE L’EUROPA

Álvaro Lobo Arranz S.I.

Oltre 1,2 milioni di firme sono state depositate in Cassazione lo


scorso 8 ottobre per chiedere il referendum sull’eutanasia legale. Di
queste quasi 400.000 sono state effettuate online. Il referendum intende
abrogare parzialmente la norma del codice penale che impedisce l’in-
157
troduzione dell’eutanasia legale in Italia.
Se il referendum venisse approvato, l’eutanasia attiva sarebbe con-
sentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il te-
stamento biologico, in presenza di alcuni requisiti. Resterà punita se il
fatto è commesso contro una persona incapace di intendere e di volere
o contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza,
minaccia o contro un minore di 18 anni.
L’ordinamento attuale vieta l’eutanasia attiva sia nella versione di-
retta, in cui il medico somministra il farmaco letale alla persona che ne
faccia richiesta (articolo 579 del codice penale), sia nella versione indi-
retta, in cui un soggetto prepara il farmaco letale, che viene assunto in
modo autonomo dalla persona (articolo 580).
Forme di eutanasia passiva praticata in forma omissiva, cioè aste-
nendosi dall’intervenire per mantenere in vita il paziente malato, sono
già considerate penalmente lecite, soprattutto quando l’interruzione
delle cure ha come scopo quello di evitare l’«accanimento terapeutico».
Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episco-
pale italiana – l’8 ottobre scorso, durante il XXVII Congresso nazionale
dell’Associazione Medici Cattolici Italiani –, inserendosi nell’«inquieto
dibattito pubblico» in corso, ha affermato che «suscita una grave in-
quietudine la prospettiva di un referendum per depenalizzare l’omicidio
del consenziente». E soprattutto oggi, davanti ai medici, «è necessario
ribadire che non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire,

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 157-168 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


FOCUS

ma il prevalere di una concezione antropologica e nichilista in cui non


trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali».
Ricordiamo che in Olanda nel 2020 le segnalazioni di morti per
eutanasia sono state 6.938, il più alto numero dal 2002 quando la legge
è entrata in vigore, con un aumento del 9% rispetto all’anno pre-
cedente. Nel 2003 gli interventi di eutanasia su richiesta erano stati
1.815, pari all’1,28% dei decessi nella popolazione, mentre adesso sono
il 4,5%, se si escludono quelli per Covid-19. La questione del fine vita
sta acquistando forza nelle agende dei vari Paesi europei nei quali la
legislazione in materia è già operante da vari anni.
Quanto accade in Europa, avviene pure in vari altri Paesi del
mondo, tra i quali la Colombia, la Nuova Zelanda e il Canada. Ci
troviamo, quindi, davanti a un panorama complesso, dove non può
158
stupire che nuovi Paesi si addentrino in una situazione che apre in-
terrogativi a vari livelli e che può generare conseguenze difficili da
controllare. Il problema, inoltre, presenta risvolti e dinamiche inter-
ne che vanno analizzati attentamente, dal momento che, Covid-19 a
parte, si tratta di una delle grandi questioni etiche, politiche, sociali e
sanitarie del nostro tempo.
In questo dibattito, le posizioni della Chiesa cattolica sono state
chiare: «la grandezza e la preziosità della vita umana» vanno difese
senza compromessi1. Su questo si è espressa la Lettera della Congrega-
zione per la dottrina della fede Samaritanus bonus, che ribadisce come
la Chiesa sia contraria all’accanimento terapeutico, e riafferma come
«insegnamento definitivo» che «l’eutanasia è un crimine contro la vita
umana». E c’è piena convergenza anche a livello interreligioso, come
dimostra, ad esempio, la «Dichiarazione congiunta delle religioni mo-
noteiste abramitiche sulle problematiche del fine vita», firmata in Va-
ticano il 28 ottobre 2019, che registra la condivisione di cattolici, ebrei
e musulmani su affermazioni come questa: «L’eutanasia e il suicidio
assistito sono moralmente e intrinsecamente sbagliati e dovrebbero
essere vietati senza eccezioni. Qualsiasi pressione e azione sui pazienti
per indurli a metter fine alla propria vita è categoricamente rigettata»2.

1. Cfr Giovanni Paolo II, s., Evangelium vitae (EV), n. 2.


2. Il punto fermo per le tre religioni è l’origine della dignità umana, messa
alla prova quando la malattia diventa grave o terminale: «L’assistenza a chi sta per
morire, quando non è più possibile alcun trattamento – scrivono i firmatari –, rap-
EUTANASIA

Da parte cattolica, questo modo di vedere è basato sulla Sacra Scrit-


tura – si prendono come riferimento la Genesi e l’Esodo3 e vari passi
dei Vangeli4 –, sul Magistero e sulla Tradizione. Lo troviamo ribadito
dal Concilio Vaticano II in poi, in testi come la Gaudium et spes (GS)5,
la dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, proclamata dalla Congre-
gazione per la dottrina della fede e l’enciclica Evangelium vitae6, tra
gli altri, e ovviamente esso spicca nell’incisiva denuncia della «cultura
della morte» operata da san Giovanni Paolo II.
Dobbiamo ricordare che questa posizione non vuole essere in con-
trasto con la preoccupazione per la sofferenza di alcune persone, per
le quali il dolore e il declino personale sono diventati un autentico
abisso esistenziale. Proprio questo aspetto, in realtà, induce numerosi
cittadini a vedere di buon occhio la possibilità dell’eutanasia. Non va
159
dimenticato che tali affermazioni godono di grande sostegno popola-
re, e al riguardo non conviene aggirare alcun argomento, visto che è
in gioco la sensibilità e, soprattutto, la vita delle persone.
In questo articolo cercheremo di affrontare il problema dell’euta-
nasia e la percezione del fine vita da una prospettiva diversa7, che non

presenta, da un lato, un modo di aver cura del dono divino della vita e, dall’altro,
è segno della responsabilità umana ed etica nei confronti della persona sofferente».
Questa stessa dignità, che ha la sua radice in Dio, ispira e impone la capacità di
arrestarsi quando l’intervento clinico, oggi reso sempre più invasivo dalle tecnolo-
gie mediche, va oltre il punto di equilibrio con il rispetto della vita stessa, che non
dev’essere preservata a qualunque costo. Il documento propone un’azione condivisa:
«Dal punto di vista sociale dobbiamo impegnarci affinché il desiderio dei pazienti
di non essere un peso non ispiri loro la sensazione di essere inutili e la conseguente
incoscienza del valore e della dignità della loro vita, che merita di essere curata e
sostenuta fino alla sua fine naturale». Per ottenerlo sono anche indispensabili «leggi
e politiche pubbliche che proteggano il diritto e la dignità del paziente nella fase ter-
minale, per evitare l’eutanasia e promuovere le cure palliative». Tre gli impegni sot-
toscritti, infine, sul piano culturale: «Coinvolgere le nostre comunità sulle questioni
della bioetica relative al paziente in fase terminale», facendo «conoscere le modalità
di compagnia compassionevole per coloro che soffrono e muoiono»; «sensibilizzare
l’opinione pubblica sulle cure palliative attraverso una formazione adeguata»; «for-
nire soccorso alla famiglia e ai cari dei pazienti che muoiono».
3. Cfr Gen 4,9-15; Es 2,17.
4. Cfr Lc 12,6-7; Mt 25.
5. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 27.
6. Cfr EV 65.
7. La riflessione etica sull’eutanasia che facciamo qui si basa in gran parte
sull’«Informe del Comité de Ética de España sobre el final de la vida y la atención
FOCUS

si basa soltanto sulla netta condanna né sul desiderio di alleviare la sof-


ferenza di migliaia di malati. Si cercherà soprattutto di analizzare qua-
li fenomeni nella società, nella politica e nella cultura europea siano
tali da indurre politici, cittadini e mezzi di comunicazione a difendere
una posizione tanto complessa qual è quella favorevole all’eutanasia.
Non si tratta di un mero incidente politico, bensì della con-
vergenza di molteplici processi di cambiamento che pesano più di
quanto appaia a prima vista. Per questo, quando parliamo dell’euta-
nasia nelle sue diverse impostazioni, intendiamo riferirci alla punta
di un iceberg in cui convergono diverse dinamiche della società.

La Medicina come bene di consumo


160
Senza alcun dubbio, una delle grandi conquiste ottenute dagli
Stati europei nel corso del XX secolo sono stati i loro sistemi sanita-
ri, pubblici e di carattere universale. È tanto più vero, se li parago-
niamo a ciò che accadeva in altre epoche e a quanto succede tuttora
in altre parti del mondo. Ciò nonostante, da alcuni decenni, al fine
di assicurarne la viabilità, il settore privato vi ha acquisito un ruolo
rilevante, e in alcuni casi ha migliorato il sistema. Ma di conseguen-
za questo ambito è divenuto un affare attraente per alcune imprese e
per i professionisti della sanità. Quindi il mercato si è fatto spazio nel
campo della malattia e ha proposto una serie di servizi relativi alla
salute e al benessere, con i quali si sono potuti ottenere cambiamenti
notevoli, come, per fare qualche esempio, la perdita radicale di peso,
la correzione della vista o soluzioni chirurgiche stupefacenti.
La progressiva privatizzazione del sistema sanitario favorisce
la creazione di nuove prestazioni. Il fenomeno in sé non è negati-
vo, ma comporta un problema: sta cambiando la percezione della
sanità e degli operatori sanitari. Il lavoro di questi ultimi non è
più visto soltanto come garanzia della cura della salute: viene
riorientato in funzione dell’interesse del cittadino e del massimo
benessere. I pazienti vengono visti come clienti, e la malattia

al proceso de morir», in Reflexiones en torno a la proposición de ley sobre eutanasia


aprobada por el Congreso del Grupo de Bioética de UNIJES – Universidades Jesuitas,
e sull’articolo di B. Santȏt, «Loi pour l’euthanasie: désolé, ça ne passe pas!», in La
Croix, 5 aprile 2021.
EUTANASIA

diventa un’opportunità di profitto. A poco a poco, la percezione


della salute si altera, e così il significato dell’intervento sanitario
si propone come fine non più la necessità del paziente, ma l’ac-
contentarne i desideri. Pertanto nelle facoltà di Medicina cresce
il numero degli studenti propensi ad accantonare il prestigio e la
vocazione di servizio della loro professione, perché la considera-
no come un modo per servire «clienti» più che «pazienti».
Nel caso dell’eutanasia, questa visione comporta serie conse-
guenze, perché essa non può diventare una qualsiasi prestazione del
sistema sanitario: infrange infatti la fiducia nella protezione della
vita, nella cura e nella preoccupazione per il paziente in tutte le sue
forme, trasformando medici e infermieri in ingegneri delle perso-
ne. L’eutanasia trasforma il personale sanitario da garante della vita
161
a giudice che decide chi debba rientrare nel modello di morte «di-
gnitosa» previsto dalla legge, per poi spingersi fino ad applicare la
«sentenza». Ciò sembra confliggere con lo spirito di alcuni princìpi
basilari della Medicina, ben definiti nel Giuramento di Ippocrate8 e
nel Codice di deontologia medica9. Infine, basta confrontarsi con il
contesto attuale, in cui si è visto quanto le nostre società necessitino
di poter contare su persone con la vocazione al servizio e capaci di
combattere per la vita a ogni costo: nessuna misura tesa a rompere
tale fiducia potrà mai soppiantare quella necessità.

La scienza «onnipotente»

Un altro fattore che ha apportato benessere a milioni di persone


in tutto il mondo è stato il grande sviluppo scientifico e tecnologico
dei nostri tempi. Ci restano ancora negli occhi e nella memoria im-
magini come quella dell’uomo sulla luna, la creazione di internet, o
le nuove forme di comunicazione, alle quali possiamo aggiungere

8. Ci riferiamo alla versione che, come «Dichiarazione di Ginevra», è stata adottata


dall’Associazione medica mondiale (Amm) nel 1948, poi riveduta ed emendata in varie
occasioni (1968, 1983, 1994, 2005, 2006 e 2007). Il testo approvato nell’ottobre 2017 a
Chicago è il seguente: «Come componente della professione medica, io giuro solenne-
mente di dedicare la mia vita al servizio dell’umanità; la salute e il benessere del mio pa-
ziente saranno il mio principale interesse; manterrò il massimo rispetto della vita umana».
9. «Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire
trattamenti diretti a provocarne la morte» (Codice di deontologia medica, art. 36).
FOCUS

la scoperta del genoma umano, i grandi progressi nella tecnica dei


trapianti fatti negli ultimi decenni e, di recente, il successo dei vac-
cini contro il Covid-19. Tuttavia, a questo spettacolare medagliere
dobbiamo aggiungere l’atroce sviluppo degli armamenti militari,
la clonazione di esseri viventi e il progetto del transumanesimo, e
queste non sono le sole macchie che vi compaiono.
Conquista dopo conquista, la scienza ha preso posto nel pensiero
contemporaneo, sicché per alcuni è diventata una vera e propria «re-
ligione». Le sue possibilità sono così grandi da attirarle l’attributo di
«onnipotente». Al di là dei benefici raggiungibili per l’essere umano in
quanto specie, questo suo prodigioso sviluppo ha fatto sì che il discer-
nimento si sia ridotto alla mera fattibilità, lasciando da parte il valore del
bene, della verità e della dignità di ogni vita umana. La linea sottile tra
162
il bene e il male è stata soppiantata dal poter fare o il non poter fare della
scienza, e con ciò sono subentrati nuovi scenari, senza che fosse stato
fatto alcun discernimento previo sulle possibili conseguenze.
È chiaro che l’eutanasia non richiede un grande sviluppo scienti-
fico. Ma in realtà il problema non risiede nella scienza in quanto tale,
bensì nel potere che le è stato accordato. La scienza, per quanti pro-
gressi possa fare, curiosamente deve continuare a riconoscere che la
linea tra il bene e il male resta in vigore, sebbene questa lotta a volte
avvenga soltanto nella coscienza individuale. La Storia contiene un
grande catalogo di esempi in cui la confusione tra ciò che è permesso
e ciò che è possibile ha provocato conseguenze inattese e drammati-
che, e ogni progresso scientifico è una potenziale bomba a orologeria.
L’esperienza del Belgio e dei Paesi Bassi mostra che a poco a poco le
leggi riguardo all’eutanasia possono prendere una china scivolosa, ossia
vengono estese a situazioni più ricorrenti, per cui quelli che all’inizio
erano casi isolati in seguito divengono una consuetudine della società.
E a ciò dobbiamo aggiungere, tra gli altri possibili elementi nega-
tivi, l’atroce sviluppo delle armi nucleari, la clonazione di esseri viventi
e il progetto di transumanesimo.

Una visione svuotata del progresso

Nel 1989 ci fu la caduta del muro di Berlino. Quell’evento esprime-


va, più che la semplice riunificazione della Germania, il crollo dell’Urss
EUTANASIA

e, con esso, del blocco che incarnava la visione del mondo socialista
in competizione per l’egemonia mondiale nel XX secolo. Di conse-
guenza, il liberalismo economico si ergeva a unico modello attuabile
per le democrazie, riunendo attorno a sé tutte le potenze, eccettuata la
Cina, che seguiva un percorso diverso. D’altra parte, la realtà del cam-
biamento climatico e la passata crisi economica – ma anche quella che
si annuncia ora – ci ricordano che le risorse sono limitate e che questo
sistema neoliberale può portarci al collasso esattamente come quello
precedente, spazzando via dalle nostre teste un’altra utopia politica.
Al di là dei cambiamenti politici, le nostre società hanno subìto tra-
sformazioni assai profonde. Le nuove forme di liberalismo hanno fossi-
lizzato il sentimento della solidarietà. E se nel corso dei secoli XIX e XX
la questione della condizione operaia era associata all’idea di progresso e
163
al miglioramento di una situazione ingiusta, la natura attuale dei lavori
– più specializzati e meno fisici – fa sì che poche persone si identifichino
come operai e sentano di far parte di una classe sociale distinta, chiara e
definita. Troppi cittadini assistono isolati al miglioramento della tecnolo-
gia e dell’economia, ma non della loro precaria condizione. Questa realtà,
pertanto, mette in discussione un’idea di progresso inteso come miglio-
ramento della vita delle persone e dei popoli e impone nuove categorie
a questo riguardo. Qui essa trova nell’eutanasia il migliore degli alleati.
Come sappiamo, vari politici difensori dell’eutanasia la associano
all’idea di progresso, valendosi della semplice equazione tra eutana-
sia e aumento dei diritti civili, ossia proponendo l’argomentazione
che questo nuovo scenario migliorerà la vita dei singoli e dei popoli.
Tale fenomeno rivela un problema collettivo: l’assenza di significato
che accompagna il progredire delle nostre società e, d’altra parte, la
difficoltà a riflettere con profondità su che cosa significhi migliora-
re la vita dei popoli e, soprattutto, delle persone più sofferenti. Non
dovremmo considerare l’eutanasia come parte del progresso, perché
essa non è altro che il fallimento di una società che non sa offrire
inclusione, sostegno e speranza a chi ne ha più bisogno.

L’attualità politica senza dibattito

Nel XX secolo il profilo medio dell’uomo politico coincideva, pro-


babilmente, con quello di un uomo saggio e avanti negli anni, che nella
FOCUS

politica scorgeva un atto di fedeltà alla nazione e a certi legittimi valori.


Rispetto a questa generalizzazione semplicistica, adesso rileviamo profili
diversi: l’età media si è notevolmente abbassata; l’immagine conta molto
più di prima; l’esperienza è più specialistica e globale; e la parità è una
realtà nella maggior parte dei Parlamenti. E tuttavia il cambiamento non
avviene soltanto a livello elettorale, ma anche nel modo di fare politica.
La pervasività delle reti sociali fa sì che il Parlamento e la società nel
complesso abbiano sempre meno peso nel dialogo su ciò che conta. Non
è esagerato affermare che la maggior parte delle leggi vengono pattuite
negli uffici dei partiti molto in anticipo, e che le sessioni parlamentari si
trasformano in eventi spettacolari, dove i deputati svolgono i loro inter-
venti pensando più ai voti da ricevere nelle elezioni che a convincere la
società nel suo insieme. La politica assomiglia sempre meno a un dibattito
164
e sempre più a uno spettacolo e, in questo modo, rende quasi inesistente il
dialogo necessario e abolisce quasi del tutto il confronto sulle idee.
Nel caso dell’eutanasia, questa precarietà politica ha conseguenze
dirette. Appare paradossale che, nel caso della Francia, questo delicato
problema abbia cominciato a essere affrontato in mezzo a una crisi senza
precedenti, con i reparti di terapia intensiva sull’orlo del collasso, il che
rende impossibile un dibattito significativo all’interno dei Parlamenti e
fuori di essi. Nel caso della Spagna, ad esempio, la Ley de eutanasia ha
proseguito il suo corso senza tener conto del parere sfavorevole espresso
all’unanimità dagli esperti del Comitato di bioetica. La politica intesa
come un «Trono di Spade», come un gioco politico, e non come dibatti-
to sulle idee, fa sì che leggi del genere vadano in porto come parte della
strategia, affidando soltanto a una maggioranza d’occasione il compito
di definire la delicatissima linea tra ciò che è legale e ciò che non lo è.

Lo Stato del XXI secolo

I cambiamenti che gli Stati hanno subìto progressivamente, l’in-


terdipendenza globale e l’influenza dei poteri economici hanno im-
posto limiti alla capacità di agire delle varie istituzioni pubbliche. La
recente pandemia ne è divenuta l’esempio forse più evidente: i vari go-
verni hanno avuto serie difficoltà ad assistere, coordinare e controllare
una situazione sanitaria mai vista prima, trasformandosi in certi casi
EUTANASIA

in meri finanziatori, subappaltatori e gestori delle libertà. Al tempo


stesso, dallo Stato si esigono più protezione e più assistenza.
Nel XXI secolo abbiamo visto anche venire alla ribalta varie col-
lettività che erano minoritarie ed emarginate in altri tempi e luoghi.
In alcuni casi la loro lotta per la giustizia è stata accompagnata dal
risentimento contro un sistema ritenuto ingiusto, e sono stati presi
di mira lo Stato e altri poteri tradizionali, addossando loro la colpa
di molti mali, più o meno consapevolmente e più o meno a ragione.
Questo atteggiamento trasforma lo Stato in un capro espiatorio, e tale
sentimento di riprovazione contagia un vasto settore della società.
La confusione dello Stato con l’establishment e la riduzione della
sua capacità di manovra fanno sì che alcuni dei nuovi problemi che
insorgono vengano risolti concedendo presunti diritti ed evitando di
165
recepire proposte, doveri e responsabilità. Nel caso del fine vita ciò è
evidente: infatti è molto più semplice offrire a determinate persone una
possibilità di morire, piuttosto che lottare affinché vi siano le condizioni
necessarie per umanizzare la morte e perché nessuno desideri morire.

Quanto vale una vita?

Una delle grandi sfide che si prospettano alla maggior parte dei
Paesi europei è costituita dall’invecchiamento e dalla solitudine della
popolazione, con il connesso aumento delle spese sanitarie e sociali,
che, insieme alle pensioni, obbligano ad adeguamenti necessari per
assicurare il funzionamento del sistema. D’altra parte, l’utilitarismo
di cui è intriso il modello capitalistico porta a valutare ogni singola
persona in funzione del costo-beneficio rispetto all’insieme dei cit-
tadini, e così sorge la tentazione di valutare ciascuno in base non
alla sua dignità, ma alla sua capacità economica. Una tentazione
che non lascia spazio alla riflessione, e fa degli anziani e dei malati
le comunità più vulnerabili e meno visibili.
Da tempo è noto che la grande alternativa per ridurre la soffe-
renza terminale della vita, su cui la scienza e la bioetica si trovano
d’accordo, è la proposta delle cure palliative. Una possibilità umaniz-
zante, che continua a fare progressi e che offre risultati soddisfacenti
per gli operatori sanitari, per le famiglie e per i pazienti, e si propone
di accompagnare il dolore e di fare in modo che ogni persona si senta
FOCUS

riconciliata con se stessa, con i suoi cari e con il mondo. Ma oggi per-
sone affette da patologie gravi – come la sclerosi laterale amiotrofica,
per fare un esempio – lamentano di non avere risorse sufficienti, e
l’abbandono da parte della società le spinge a decisioni disperate.
Ad alcuni politici l’opzione delle cure palliative non interessa, in
quanto sembra troppo costosa in confronto all’eutanasia, e anche in que-
sto caso l’esistenza di molte persone viene subordinata a criteri economi-
ci. Su una linea simile, risulta chiaro che, se si apre la porta all’eutanasia,
diversi pazienti la sceglieranno per porre fine a situazioni economiche,
familiari e sociali disperate, che tuttavia non si verificherebbero se essi
fossero ben protetti e sostenuti. Uno degli insegnamenti che potremmo
trarre dall’attuale crisi pandemica è che i criteri economici non possono
mai avere la precedenza in materia di salute e, soprattutto, che lo Stato
166
deve fare tutto il possibile per alleviare la sofferenza dei più deboli10.

La libertà «alla guida» del suo popolo

Una delle correnti filosofiche che ha influito di più sulla cultu-


ra attuale è stata indubbiamente l’esistenzialismo, che ha avuto in
Jean-Paul Sartre uno dei suoi principali rappresentanti. Si tratta di
una proposta che sostiene il ruolo unico e determinante dell’«io»,
capace di decidere ciò che è e ciò che vuol essere al di là di qualsiasi
realtà data11. Per il filosofo francese, l’esistenza precede l’essenza,
sicché ciascuno decide di vivere come vuole, perché è lui stesso l’o-
rigine della propria esistenza. Già dall’Illuminismo la libertà veni-
va posta come elemento fondamentale dell’Europa, perché era un
requisito necessario per lo sviluppo della democrazia. Ciò nono-
stante, quando viene idolatrata, la libertà si svaluta12 . L’aver messo
sul trono la libertà ci fa dimenticare che essa non ha la vocazione
a essere venerata, ma a essere vissuta in pienezza e a renderci mi-
gliori, e per questo deve essere coniugata con l’uguaglianza, con
la fraternità e con altri valori, quali la vita e la dignità13. Qualsiasi

10. Cfr Francesco, Fratelli tutti (FT), n. 22.


11. Je suis de trop, donc j’existe, si potrebbe dire, parafrasando Jean-Paul Sartre.
12. Cfr EV 19.
13. Cfr FT 103.
EUTANASIA

modo di intendere la libertà in maniera incompatibile con la vita


cadrà inevitabilmente nell’errore14.

La religione dell’emozione

Infine, dobbiamo ricordare che viviamo nel mondo delle emozio-


ni. Seguiamo compulsivamente serie Tv che ci fanno piangere e ride-
re nel giro di un secondo, ci appassioniamo allo sport, cerchiamo tutto
ciò che trasmette dopamina e «vibrazioni positive», ci commuoviamo
davanti a immagini su Instagram e riversiamo la nostra indignazione
su Twitter. A ciò va aggiunto che progressivamente la mindfulness, i
libri di autoaiuto, gli psicologi e i mental coach acquistano maggiore
influsso nella nostra vita, per il semplice fatto che desideriamo con-
167
trollare l’interiorità in un modo equilibrato, sano e naturale.
Allo stesso tempo possiamo constatare che la religione perde ter-
reno a livello pubblico e privato, sicché le persone inseguono il loro
desiderio di trascendenza sotto altre forme. Tra le cause del rifiuto
dell’elemento religioso c’è la negazione della morte, della morale e
del sacrificio come componenti necessarie della vita. Nonostante
tutto, esistono poche alternative esistenziali capaci di colmare l’a-
bisso della sofferenza e della morte come fanno le religioni. Fatto
sta che l’abbandono della religione lascia l’essere umano da solo nella
ricerca del senso della vita.
Non è nemmeno esagerato affermare che il motivo che spinge
molte persone a essere favorevoli all’eutanasia è un mix di emozione
e di compassione verso il dolore altrui. Questa empatia, in linea di
principio, è positiva. Tuttavia, non possiamo ignorare che nella vita
umana la sofferenza è inevitabile – il che non vuol dire che vada cer-
cata – e che, oltre a placarla, è opportuno cercare in essa un senso. La
compassione, quella vera, inoltre, rinvia alla condivisione del dolore.
Questo problema non può essere affrontato soltanto sulla base dell’e-
mozione, perché i sentimenti sono effimeri e ci porterebbero a una
visione confusa della realtà e, probabilmente, sbagliata15.

14. «La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri» (Dichia-
razione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789, art. 4).
15. «La compassione per chi chiede di morire a causa della situazione estrema
in cui si trova è una virtù e un’alta qualità umana, ma non deve farci dimenticare che
FOCUS

Conclusioni

Anni fa, nel sito di Atapuerca (Burgos, Spagna), venne rinvenu-


to un fossile della specie Homo heidelbergensis, che gli scopritori ri-
battezzarono con il nome di «Benjamina»16. Secondo gli archeologi,
quei resti umani appartenevano a una bambina sui 10 anni con una
deformità craniale che evidenziava una grave disabilità. Ma la cosa
per noi più importante è che altri si fossero occupati di lei per tutta
la vita: un’evidenza in cui gli antropologi scorsero una pietra miliare
della cura reciproca tra esseri umani. Non possiamo infatti ignorare
che la preoccupazione per gli altri membri della propria specie è insita
nell’essenza dell’umanità. Pertanto, nell’affrontare il problema dell’eu-
tanasia, non possiamo fare a meno di applicare a questo XXI secolo
168 il paradigma umanizzante della «cultura della cura»17. È un modo di
relazionarci alla realtà che ci apre agli altri e ci conduce a riconoscere
la dignità di ogni persona.
È quanto ci ha invitato a considerare papa Francesco: «E se
sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la
guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre
prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche
senza accanirci inutilmente contro la sua morte»18.

soddisfare quella richiesta può arrecare conseguenze su altri esseri umani e, perfino,
incidere sul futuro delle persone più vulnerabili» («Informe del Comité de Ética de
España sobre el final de la vida e la atención al proceso de morir», cit., 6).
16. Cfr A. Rivera, «Atapuerca cuidó de Benjamina», in El País (elpais.com/diario/
2009/03/31/sociedad/1238450407_850215.html), 31 marzo 2009.
17. Cfr Francesco, La cultura della cura come percorso di pace. Messaggio del
Santo Padre per la LIV Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2021.
18. Id., Messaggio ai partecipanti al meeting regionale europeo della World Medi-
cal «Association sulle questioni del fine-vita», 16 novembre 2017.
UNA TEOLOGIA DELLA MEMORIA IN TEMPI
DI ABUSI SESSUALI COMMESSI DAL CLERO

Marcel Uwineza S.I.

Il 5 ottobre scorso è stato reso noto il Rapporto della Com-


missione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa (Ciase) in
Francia. Esso è stato chiesto dalla Conferenza episcopale francese
e adesso è a disposizione per un esame approfondito, in modo che
169
si possa compiere un nuovo passo qualificato nel campo della lotta
contro gli abusi. Il Rapporto mostra come circa 3.000 preti e re-
ligiosi abbiano commesso abusi sessuali su minori o persone vul-
nerabili in 70 anni. Un totale di 216.000 persone in Francia oggi
(con un margine di errore di 50.000) sono state abusate da preti e
religiosi cattolici. Se si includono le aggressioni commesse da laici
(soprattutto nelle scuole), questa stima sale a 330.000 persone. Ma
questo è solamente un tassello di un quadro più ampio.
La crisi mondiale degli abusi sessuali da parte del clero ha inferto
ferite che impiegheranno molti anni a guarire. Va riconosciuto che
la negazione degli abusi è tuttora un problema. La terribile tragedia
perpetrata nei confronti di bambini e adulti vulnerabili da parte del
clero e le sue conseguenze lasciano tuttora cicatrici in tutto il popolo
di Dio e rendono necessaria una teologia che valuti il ruolo della me-
moria. Essendo convinti che una famiglia che non ricorda scompare,
riteniamo che quello della memoria sia un imperativo teologico. Ma
quale tipo di memoria? Come si fa a guarire i ricordi? Come Johann
Baptist Metz sottolineava a proposito dell’Olocausto ebraico, i com-
ponenti del popolo di Dio «non devono lasciarsi bloccare da memorie
non riconciliate, nemmeno a livello teologico, ma piuttosto devono
valersene con fede e con esse parlare di Dio»1.

1. J. B. Metz, A Passion for God: The Mystical-Political Dimension of Chris-


tianity, New York, Paulist Press, 1998, 2.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 169-179 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


VITA DELLA CHIESA

Teologia e ferite dell’uomo

Se è vero che la memoria costituisce il grembo della storia e


della teologia, in un mondo violento la teologia deve prendere le
mosse proprio dai luoghi delle ferite. Questo articolo offre una ri-
visitazione del rapporto tra l’umanità e la Chiesa di Dio ferito dagli
abusi sessuali del clero sui minori, ma anche dell’autorevolezza della
Chiesa oggi minata dalla perdita di credibilità. Occorre formulare
una teologia capace di orientare la riconciliazione della memoria
e, al tempo stesso, di re-immaginare il valore della salvezza in una
Chiesa che si sforza di guarire le ferite delle persone. L’obiettivo,
quindi, è quello di affrontare gli aspetti teologici, antropologici, ec-
clesiali e morali della memoria, ossia di valutare l’ambivalenza della
170 colpa, di soppesare quali specifici ricordi debbano avere la priorità
rispetto ad altri, di confrontarsi con memorie collettive e individua-
li non riconciliate e con il significato vitale del perdono.

LA MEMORIA NON RICONCILIATA RIGUARDA


LE VITTIME CHE SONO SOPRAVVISSUTE ALLA
VIOLENZA SESSUALE DA PARTE DEI SACERDOTI.

«Memorie non riconciliate» è l’espressione precisa che useremo


in seguito in un contesto di pedofilia. Essa si contestualizza in molti
casi; ne evidenziamo alcuni: 1) La memoria non riconciliata riguar-
da le numerose vittime che sono sopravvissute alla violenza sessuale
da parte di sacerdoti e che devono affrontare il difficile percorso di
essere lasciate sole a raccontare la loro storia in un contesto di ne-
gazioni degli abusi o di soppressioni della memoria. 2) Si riferisce
alla memoria dei bambini nati dallo stupro. 3) Denota anche molte
vittime che hanno deciso di allontanarsi il più possibile da coloro
che le hanno ferite. 4) Le memorie non riconciliate sono insite an-
che negli autori degli abusi, in coloro che sono usciti dal carcere e
in quelli che si trovano in case di riposo, perché è stato loro vietato
di esercitare ogni ministero ecclesiale pubblico o perché sono stati
ridotti allo stato laicale. Essi devono trovare un modo di coesistere
con le vittime dei loro abusi o con il peso interiore che deriva dal
TEOLOGIA DELLA MEMORIA E ABUSI SESSUALI COMMESSI DAL CLERO

sapere che, se non avessero violentato persone giovani e vulnerabili,


l’odierna crisi nella Chiesa non avrebbe raggiunto le attuali dimen-
sioni. 5) Teologicamente, le memorie non riconciliate riguardano
quale posto abbia Dio nel mare di sofferenza conseguente agli abusi.
6) Infine, molte persone devono ancora fare i conti con le mancan-
ze istituzionali della Chiesa cattolica, i suoi peccati istituzionali, le
complicità e le mancate assunzioni di responsabilità tuttora presenti.
Yves Congar non avrebbe potuto dirlo meglio: da parte dei nostri
contemporanei, nei confronti della Chiesa, «più che dei peccati dei
suoi membri, ci si scandalizzerà delle sue incomprensioni, delle sue
grettezze, dei suoi ritardi»2.

Il concetto di memoria nella teologia 171

Se si tengono presenti tali memorie non riconciliate e irre-


conciliabili, qual è, allora, il luogo della memoria nella teologia?
Il concetto di memoria trae origine dal verbo ebraico zakar e si-
gnifica non soltanto «ricordare», ma anche «ripetere», nel senso di
tornare a raccontarlo, ad attestarlo3. Non è difficile cogliere quale
sia l’importanza di ricordare crimini come gli abusi sessuali del
clero. Infatti, «i crimini commessi nel passato non appartengono
al passato, ma sono, al contrario, del tutto attuali. Essi hanno
segnato le nostre società […], nelle quali il trauma che hanno
impresso resta molto presente»4.
Queste possono sembrare affermazioni generiche, tuttavia dan-
no un’idea di quanto il passato incida sulle vite e sulle comunità.
L’appello a ricordare non è soltanto un invito a volgersi verso il
passato, ma è anche un appello per il presente e per il futuro. Ci
fa capire che per molte persone il presente è doloroso. Per molte
vittime di abusi sessuali da parte del clero il passato non è passato;
pertanto, «ricordare significa essere presenti. Ma è anche qualcosa
su cui agire, e agire ancora, oggi e domani, per costruire una socie-
tà in cui simili azioni mostruose e criminali siano semplicemente

2. Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, 58.
3. Cfr C. Fournet, The Crime of Destruction and the Law of Genocide: Their
Impact on Collective Memory, Burlington, Ashgate, 2007, XXX.
4. Ivi.
VITA DELLA CHIESA

impensabili»5. Ricordare le vittime degli attacchi terroristici a New


York, Nairobi, Parigi e Bruxelles ha questo scopo.
La teologia cristiana riconosce che, quanto all’orientamento
dell’essere umano verso Dio, siamo essenzialmente persone carat-
terizzate dalla memoria. I cristiani ricordano ciò che Dio ha fatto
nella vita, morte e risurrezione di Gesù e attraverso di esse. Ricor-
dano la presenza viva dello Spirito di Dio nella Chiesa. E celebrano
l’invito di Gesù a spezzare il pane e a condividere un calice di vino
in memoria di lui (cfr Lc 22,19; 1 Cor 11,24). La teologia cristiana
riveste un ruolo fondamentale nel rapporto con la memoria e nel
delineare l’identità delle persone. «L’intelligibilità del cristianesimo
è trasponibile in termini non puramente speculativi, bensì narrativi:
cristianesimo narrativo-pratico»6.
172
Si stabilisce così una correlazione fondamentale tra la fede del-
le persone e la loro situazione contemporanea. La teologia ha una
dimensione relazionale inevitabile. Nel fare teologia occorre essere
immersi nella vita del popolo di Dio e vedere come il messaggio di
Gesù sul regno di Dio possa dare orientamento a tale vita. Sostan-
zialmente, la teologia è un’incessante risposta a Dio, che per primo
resta continuamente in noi. Questa risposta, radicata nella fede, ci
aiuta a capire qualcosa sul mondo, sulla vita umana con il suo orien-
tamento verso il Signore, su Dio che è assoluta trascendenza eppure
realtà immanente, e su noi stessi.
La teologia è radicata nella storia e nelle realtà politiche ed eco-
nomiche del nostro mondo, che spesso sono segnate dalla gioia,
ma anche dalla sofferenza del popolo di Dio. Inevitabilmente, essa
riguarda l’esperienza umana, il linguaggio, le idee e le azioni. Sono
questi i media attraverso i quali cerchiamo di impegnarci in una re-
lazione con Dio. C’è, quindi, un orizzonte intellettuale ed esperien-
ziale che è costitutivo della teologia come iniziativa umana, radicata
nel ricordo di come Dio continua ad agire nella storia.
La memoria è fondamentale per la formazione dell’identità uma-
na. Per Paul Ricœur, essa si colloca nella dimensione dell’affettività:

5. J. Chirac, «Discours prononcé lors de l’inauguration de la nouvelle expo-


sition du pavillon d’Auschwitz», in Libération, 27 gennaio 2005.
6. J. B. Metz, La fede, nella storia e nella società, Brescia, Queriniana, 1978,
162.
TEOLOGIA DELLA MEMORIA E ABUSI SESSUALI COMMESSI DAL CLERO

noi possiamo ricordare, perché alla cosa ricordata è legato un partico-


lare amore o odio (dispiacere)7. Aristotele propone una riflessione ana-
loga nell’Etica Nicomachea, dove afferma che ciò che siamo è dovuto a
coloro che ci hanno preceduto e fanno parte di noi, e noi raccogliamo
i loro ricordi. Sottolinea che la memoria ci permette di rispettare gli
altri, di ricompensarli come è dovuto. È una questione di giustizia.
I teologi contemporanei ne convengono. Per esempio, Eliza-
beth Johnson scrive: «Ricordare la grande folla di amici di Dio
e profeti apre possibilità per il futuro; le loro vite esprimono
un programma inconcluso che è ora nelle nostre mani; la loro
memoria è un incentivo all’azione»8. Per Elie Wiesel, la memo-
ria congiunge passato e presente: «È perché ricordo la nostra
comune origine che mi avvicino agli uomini miei fratelli. È
173
perché rifiuto di dimenticare che il loro futuro è importante
quanto il mio […]. Che ne sarebbe del futuro dell’uomo se fosse
privo di memoria?»9.
Se guardiamo agli strazianti ricordi non riconciliati dovuti agli
abusi sessuali del clero, le espressioni che abbiamo letto fanno da
presupposto e da logica in base a cui cogliere ciò che significa esplo-
rare il «lavorio della memoria», e indicano in che modo la teologia
può contribuire a liberare sia la persona ferita sia la Chiesa.

Trasformare la memoria delle persone

Il compito di trasformare e (ri)formare la memoria delle persone


e la loro identità non può restare ai margini della riflessione teolo-
gica sistematica, dal momento che la teologia, alla luce della memo-
ria della passione, morte e risurrezione di Gesù, riserva uno spazio
particolare al ricordo della natura del peccato e della sofferenza, al
ruolo dei testimoni e degli spettatori.

7. Cfr P. Ricœur, Memory, History, Forgetting, Chicago, University of Chi-


cago Press, 2004, 17 (in it. La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina,
2003).
8. E. A. Johnson, Friends of God and Prophets: A Feminist Theological Read-
ing of the Communion of Saints, New York, Continuum, 1998, 169.
9. E. Wiesel, From the Kingdom of Memory. Reminiscences, New York,
Schocken Books, 1990, 10.
VITA DELLA CHIESA

Flora Keshgegian, pastora della Chiesa episcopale, afferma


che il punto cruciale non è precisare che cosa la teologia possa
fare dopo tanta sofferenza, e nemmeno elaborare una riflessione
sulla storia e sulla memoria, ma piuttosto mostrare la «situazio-
ne del cristianesimo, che più volte si è messo in pericolo per la
complicità con i regimi dittatoriali che hanno perpetrato abusi,
persecuzione e violenza»10.
Veniamo giudicati non soltanto da Dio, ma anche dalla nostra
solidarietà con il peccato e con il silenzio davanti a coloro che sof-
frono. Forse «ci possono essere momenti in cui siamo impotenti a
prevenire l’ingiustizia, ma non ci deve mai essere un momento in
cui manchiamo di protestare»11. A tale riguardo, la neutralità non è
ammissibile, e si deve prendere posizione. Come ha affermato Elie
174
Wiesel, «a volte dobbiamo interferire. Quando le vite umane sono
in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazio-
nali diventano irrilevanti»12.
I teologi dovrebbero non soltanto riflettere sulle implicazioni
del peccato umano, ma anche tener conto della testimonianza del
passato e del presente, offrendo speranza per il futuro e rendendo
giustizia ai morti e ai vivi. Si devono proporre un’apologia della
speranza e il carattere distintivo della speranza cristiana13 per aiutare
gli uomini a comprendere che la memoria ha un impatto su quello
che possiamo diventare, ma che ciò lo si può fare soltanto quando
una memoria costruttiva plasma il modo di guardare il passato e
così scongiura un continuo impatto distruttivo sul presente.

La memoria in un’epoca di abusi sessuali

Che cosa significa «riconciliare la memoria» in un’epoca di


abusi sessuali del clero e di insabbiamenti? In parte, ciò significa

10. F. A. Keshgegian, Redeeming Memories: A Theology of Healing and Trans-


formation, Nashville, Abingdon, 2000, 17.
11. E. Wiesel, «Discorso di accettazione del Premio Nobel per la pace», 10
dicembre 1986.
12. Ivi.
13. Cfr M. Uwineza, «On Christian Hope: What makes it distinctive and
cre­dible?», in America, 4 aprile 2016, 24.
TEOLOGIA DELLA MEMORIA E ABUSI SESSUALI COMMESSI DAL CLERO

smascherare le bugie dell’autore del male, il quale se ne serve per


continuare a perpetrare il suo oltraggio. È un processo liberatorio
rispetto al potere del passato, compiuto lavorando sui ricordi delle
ferite inflitte14. La vittima e il colpevole – i bambini e i sacerdoti –
sono legati da una relazione di sospetto; ma una volta che hanno
imparato in modo costruttivo dal passato, essi possono meglio la-
vorare per riuscire a svincolarsi l’una dall’altro, e colui che perdona
compie sempre qualcosa di inconcepibile.
La trasformazione della memoria può comportare un processo
in cui si cammina a fianco delle vittime, nel tentativo di capire che
cosa è successo, come ha fatto Gesù con i discepoli di Emmaus
(cfr Lc 24,13-35). Egli li ha aiutati a comprendere che, nel loro an-
dare verso qualcosa, in effetti stavano fuggendo da qualcosa: dalla
175
tremenda crocifissione del loro amico Gesù. Purificare la memoria
significa dire di no, empaticamente, a chi vuole chiudere con il pas-
sato15. Significa affermare che il futuro è nel cammino, in quello
sforzo dinamico verso la liberazione legato alla creazione di uno
spazio per la riconciliazione, ed è nello stesso tempo offrire a chi
è «imperdonabile» il dono divino del perdono. Si tratta di un atto
rituale che proclama la possibilità – per il sopravvissuto e per il col-
pevole – di avere un futuro diverso. In questo modo affermiamo
che la memoria riconciliante è un dovere verso gli afflitti, i bambini
violati, e verso i sacerdoti.
La complessità della storia di abusi sessuali da parte del clero rac-
chiude questioni vitali per la teologia: l’importanza dell’umiltà, della
necessità di un pluralismo di prospettive, la necessità della compas-
sione, la profondità del discepolato cristiano, la revisione della for-

14. Fra coloro che meglio ci hanno mostrato che cosa significhi trasformare
ricordi tragici possiamo menzionare Nelson Mandela. Egli era stato in prigione per
27 anni durante il regime dell’apartheid in Sud Africa. Quando venne rilasciato, non
ignorò il calvario che aveva vissuto, ma lo trasformò in un’occasione di benedizione
per il suo Paese, cercando di associare nel suo governo sia bianchi sia neri, piuttosto
che emarginare coloro che lo avevano torturato. Mostrando ai suoi ex nemici che il
mondo era più grande delle loro ristrette vedute, Mandela ha rivelato il fondamento
di ciò che significa essere umani.
15. Di certo era questo il sogno di Martin Luther King e di altri attivisti per i
diritti civili, che hanno saputo imparare dagli orrori della schiavitù e hanno cercato
di ottenere la libertà per tutti in America.
VITA DELLA CHIESA

mazione del clero. È indispensabile ascoltare l’esigente parola di Dio


in un’epoca in cui così tante persone sono state ferite, e ascoltarsi
l’un l’altro. Karl Rahner ha affermato che «quando abbiamo detto di
noi tutto ciò che si può dirne […], non abbiamo ancora detto niente
su di noi, se non […] abbiamo aggiunto che siamo esseri orientati
verso Dio, che è incomprensibile»16.
Dal momento che gli abusi sessuali commessi da esponenti
del clero hanno rovinato la vita di tanti bambini, dobbiamo ri-
scoprire le implicazioni di quella realtà che Rahner chiama «esi-
stenziale soprannaturale» e «potenza obbedienziale». La prima
espressione si riferisce al fatto che siamo un’umanità a cui è stata
donata la grazia: tutto ciò che siamo è legato alla nostra relazione
con Dio. «Non c’è niente di ciò che siamo come esseri umani che
176
sia estraneo al nostro rapporto con Dio […]. Con una capacità
di trascendere qualsiasi cosa che noi possiamo controllare […],
siamo definiti da un’apertura che in definitiva soltanto Dio può
soddisfare […]. Non c’è natura umana senza Dio». La seconda
espressione – «potenza obbedienziale» – si riferisce alla nostra
capacità di ascoltare la parola di Dio; riguarda «non solo quel che
facciamo con le nostre orecchie […], ma l’essere aperti con tutta
la nostra umanità alla parola di Dio, essere aperti alla presenza di
Dio in tutto l’universo creato»17.
Abbiamo bisogno di capire come Dio agisce nella storia e di
riconoscere che gli interrogativi fondamentali della teologia sca-
turiscono dalla nostra comune umanità, quando affrontiamo in-
sieme la sfida del destino umano. Il compito della teologia è for-
mulare domande fondamentali di significato e di verità su come
vada accostato il mistero di Dio e, inoltre, domande sulla nostra
esistenza in quanto esseri umani, sulla società e sull’intera creazio-
ne; e fare tutto ciò con fede, dando risposte rigorose. Pertanto le
teologie nascono da coloro che ragionano con la loro testa, e con

16. K. Rahner, «Theology and Anthropology», in Id., Theological Investiga-


tions, vol. 9, New York, Seabury, 1972, 216; cfr Id., «On the Theology of the Incar-
nation», in Id., Theological Investigations, vol. 4, ivi, 1982, 108.
17. R. Lennan, Karl Rahner: Theologian of Grace, 12 Lectures on 5 CDs,
North Bethesda, NYKM, 2015, CD 1, track 23-25. Cfr K. Rahner, Hearer of the
Word, New York, Continuum, 1994 (in it. Uditori della parola, Roma, Borla, 1988).
TEOLOGIA DELLA MEMORIA E ABUSI SESSUALI COMMESSI DAL CLERO

la fede cercano di mostrare il mistero incomprensibile di Dio e in


che modo esso dia senso alla vita del suo popolo.

La riconciliazione della memoria

Nel contesto delle ferite degli abusi sessuali del clero, la teologia
deve liberarsi dalla chiusura di una Chiesa che è stata plasmata da
sensibilità borghesi e classiste ed è stata condizionata dal suo essere
preoccupata per la rispettabilità, il successo materiale, l’autoritari-
smo, da una concezione debole o facile del Dio di Gesù Cristo e di
un servizio del suo Vangelo fatto solo di parole. La Chiesa purtrop-
po è venuta meno al suo dovere di onorare le persone, peccando così
contro il loro Creatore e rinnegando se stessa.
177
Non ci può essere un’autentica teologia cristiana se voltiamo
le spalle alle ferite di quanti sono stati abusati da preti e vescovi;
così facendo, verremmo meno al dovere di prendere sul serio il
passato. Ricordare le ferite della pedofilia non è mai una mera
ri-presentazione «fattuale» del passato in quanto passato. Han-
nah Arendt ci offre un’analogia calzante: «Descrivere i campi
di concentramento sine ira non significa essere “obiettivi”, ma
assolverli»18. Ma da dove viene la nostra «ira», la nostra indigna-
zione? Per re-immaginare l’umano e la Chiesa è essenziale la ri-
conciliazione della memoria. Pertanto, come possiamo effettiva-
mente affrontare i ricordi non riconciliati?
In primo luogo, la riconciliazione della memoria deve ricono-
scere che le «negazioni dell’abuso» costituiscono ancora un proble-
ma, e deve mettere al primo posto la verità su quanto è accaduto, sul
perché è accaduto e su chi ha compiuto il male. La memoria degli
abusi sessuali del clero deve diventare la base a partire dalla quale
affrontare la realtà attuale e chiedere cambiamento e assunzione di
responsabilità. Scrivendo della forza della verità, sant’Agostino pre-
cisa: «Si dica allora la verità, specialmente quando qualche problema
spinge a dirla; e lasciamo che quelli che ne sono capaci compren-
dano; altrimenti, se si tace per quelli che non possono capire, non

18. H. Arendt, «Una replica a Eric Voegelin», in S. Forti (ed.), Archivio


Arendt 2. 1950-1954, Milano, Feltrinelli, 1994, 175.
VITA DELLA CHIESA

solo sono defraudati della verità, ma sono addirittura conquistati dal


falso quelli che potrebbero conquistare il vero e con esso mettersi al
riparo dalla falsità»19.
In secondo luogo, dobbiamo sostenere le vittime e riconoscere
le responsabilità dei ministri della Chiesa. Questa è la teologia della
memoria. Nessuno ha detto che ciò è o sarà facile. È un lavoro ar-
duo, anzi impossibile, se fatto in solitudine; ma con il perdono otte-
niamo la riconciliazione della memoria nel nostro rapporto con Dio
e tra di noi, nel contesto degli abusi sessuali del clero nella Chiesa.
In terzo luogo, nel cammino verso la riconciliazione della me-
moria la Chiesa farebbe bene a prestare attenzione a quanto afferma
il gesuita William O’Neill: «La memoria nata dalla testimonianza
deve attribuire le responsabilità delle storture sistemiche dell’ideo-
178
logia suprematista, ma deve anche rifiutarsi di “essenzializzare” vit-
tima e carnefice. Le vittime possono diventare carnefici»20. Questa
riconciliazione della memoria è quindi un compito rivolto a tutti i
fratelli nella fede.
In quarto luogo, pensare al compito della teologia in un’epoca
di abusi sessuali del clero esige che si assuma il fermo impegno che
una nuova teologia verrà scritta con il sangue delle vittime. Questo
significa prendere seri provvedimenti contro chi ha abusato; signi-
fica prendere sul serio il passato e il presente. Riflettendo sulle visite
da lei fatte alle tombe dei suoi parenti e amici, Maggy Barankitse,
una signora tutsi del Burundi, ha scritto: «La ragione che mi spinge
a tornare su quelle tombe non è rivivere il trauma, ma riuscire a
vedere il futuro in modo più chiaro»21. La memoria deve prevedere
e guidare gli atteggiamenti delle vittime verso la vita e, allo stesso
tempo, aiutare loro e tutta la Chiesa «a rendersi consapevoli che si
può vedere chiaramente il futuro solo ricordando il passato»22.

19. Agostino d’Ippona, s., Il dono della perseveranza, 16, 40.


20. W. O’Neill, «Saying “never again” again: Theology after the Genocide
against the Tutsi in Rwanda», in un articolo di prossima pubblicazione su America.
21. E. Katongole, Born from Lament: The Theology and Politics of Hope in
Africa, Grand Rapids, William B. Eerdmans, 2017, 260.
22. Id., «“Memoria Passionis” as Social Reconciliation in Eastern Africa: Re-
membering the Future at Maison Shalom», in J. J. Carney - L. Johnston (edd.),
The Surprise of Reconciliation in the Catholic Tradition, New York, Paulist Press,
2018, 277.
TEOLOGIA DELLA MEMORIA E ABUSI SESSUALI COMMESSI DAL CLERO

In quinto luogo, molte persone si lamentano perché in Vaticano


e in altre istituzioni della Chiesa si fa un gran parlare di guarigione,
mentre andrebbero rafforzate le misure per rendere i vescovi locali
responsabili di quello che sta accadendo. Allo stesso tempo, i ricordi
dolorosi delle vittime vanno ascoltati e rispettati.
In sesto luogo, la riconciliazione delle memorie dovrebbe co-
struire un’apologia della speranza per ispirare una nuova teologia
per una Chiesa rinnovata, in modo che si possano ascoltare ancora
una volta, nonostante le nostre ferite ecclesiali, queste parole di Dio:
«Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del
Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un
futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). È questa speranza che ci con-
sente di immaginare il perdono dell’imperdonabile.
179

***

Concludiamo il nostro ragionamento con le parole che papa Fran-


cesco ha usato alla fine dell’Udienza generale del 6 ottobre scorso, rife-
rendosi al Rapporto francese citato all’inizio. Esse esprimono in forma
di appello considerazioni che abbiamo esposto in queste nostre pagine:
«Desidero esprimere alle vittime la mia tristezza e il mio dolore per
i traumi che hanno subito e la mia vergogna, la nostra vergogna, la
mia vergogna, per la troppo lunga incapacità della Chiesa di metterle
al centro delle sue preoccupazioni, assicurando loro la mia preghiera.
E prego e preghiamo insieme tutti: “A te Signore la gloria, a noi la
vergogna”: questo è il momento della vergogna. Incoraggio i vescovi
e voi, cari fratelli che siete venuti qui a condividere questo momento,
incoraggio i vescovi e i superiori religiosi a continuare a compiere tutti
gli sforzi affinché drammi simili non si ripetano. Esprimo ai sacerdoti
di Francia vicinanza e paterno sostegno davanti a questa prova, che
è dura ma è salutare, e invito i cattolici francesi ad assumere le loro
responsabilità per garantire che la Chiesa sia una casa sicura per tutti».
ARTE MUSICA SPETTACOLO

LA «MADONNA DEL PARTO»


DI PIERO DELLA FRANCESCA
Un capolavoro di disarmante modernità
Lucian Lechintan S.I.

L’alba di un mattino primave- sconvolgente: «Una donna serve


rile, una chiesa di provincia spro- per fare dei figli, tirarli su. Con pa-
fondata nella nebbia e una folla di zienza e sacrificio». «E non serve
donne inginocchiate in preghie- a nient’altro, secondo lei?», replica
180 ra; sullo sfondo, l’immagine della Eugenia. Le generazioni di don-
Madonna del Parto di Piero della ne che si sono messe in cammino
Francesca: questa è la scena iniziale verso la Madonna della Speranza1
del film Nostalghia di Andrej Tar- ci danno l’opportunità di riflettere
kovskij, realizzato nel 1983. Una ancora oggi sul significato di que-
giovane donna, Eugenia, entra in sto affresco.
chiesa, semplicemente per guar-
dare; le si avvicina il sagrestano, Il dipinto, meta di pellegrinaggi
che le chiede: «Anche lei desidera
un bambino? O la grazia per non La Madonna del Parto, dipinta
averne?»; e poi fa un’affermazione da Piero della Francesca2 verso il

1. Così la chiama lo storico dell’arte Thomas Martone, al quale vanno i nostri


ringraziamenti per vari suggerimenti che ci ha dato. Cfr Th. Martone, «L’affresco di
Piero della Francesca in Monterchi. Una pietra miliare della pittura rinascimentale», in
Convegno internazionale sulla «Madonna del Parto» di Piero della Francesca, Città di Castello
(Pg), Biblioteca Comunale di Monterchi, 1982, 38; Id., «La “Madonna del Parto” di Piero
della Francesca e la sua iconografia», in S. Casciu (ed.), Piero della Francesca. La Madonna
del Parto, restauro e iconografia, Catalogo della mostra, Venezia, Marsilio, 1993, 103-119.
2. Il pittore nasce verso il 1412 a Borgo Sansepolcro, vicino Arezzo. È posteriore
a Masaccio e contemporaneo di Beato Angelico e di Paolo Uccello. Nato in una famiglia
modesta (suo padre era calzolaio), Piero riceve la formazione a Firenze e dal 1439 diventa
collaboratore di Domenico Veneziano. Autore, ad Arezzo, del ciclo delle Storie della vera
Croce (1452-54), lavora intensamente anche a Roma e successivamente a Urbino, alla
corte dei duchi di Montefeltro. Al periodo romano risalgono tre opere fondamentali:
il Polittico della Misericordia (eseguito tra il 1455 e il 1462); La Madonna del Parto, rea-
lizzata tra il 1458 e il 1459; e La resurrezione, eseguita tra il 1450 e il 1463 e conservata
nel Museo Civico di Sansepolcro. Negli ultimi anni della sua vita, Piero si dedica agli

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 180-185 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


LA «MADONNA DEL PARTO» DI PIERO DELLA FRANCESCA

1455, si segnala non tanto per le che il pittore è riuscito a cogliere e


ragioni formali della composi- a conservare intatto.
zione, per le quali si avvale di un La collocazione dell’affresco
perfetto equilibrio tra la semplicità a Santa Maria in Silvis, vicino
delle forme e l’economia dei mez- Monterchi (Ar) – il paesino dove
zi, quanto per la forza con cui è era nata la madre di Piero – sta a
in grado di interrogare la nostra indicare innanzitutto il ricordo di
cultura. Perfino nel periodo so- quella terra che egli ha conservato
vietico, quando di arte occidentale a Firenze, Rimini, Ferrara, Ur-
si parlava a bassa voce, al famoso bino e Roma. Il «tornare a casa»
storico dell’arte russo Viktor La- di Piero non significa tuttavia il
zarev sfuggirono queste parole lascito alla posterità di un aspet-
riguardo a Piero della Francesca: to nostalgico dell’artista, come si
181
«Quanto vorremmo semplificare potrebbe concludere frettolosa-
le sue figure, che spesso diventa- mente. Esso collega ovviamente
no cilindri o cubi! Esse non sono ricordi della propria infanzia, volti
mai mortificate, ma sempre piene di coloro che erano già partiti, il
di vita»3. Per noi che siamo abitua- sentirsi figlio di quella comunità4,
ti a osservare l’opera d’arte distin- ma include anche l’orgoglio di ap-
guendo tra forma e contenuto, la parire ai suoi come un artista che
semplicità compositiva e la vitalità si è pienamente realizzato dopo il
coloristica della Madonna del Parto soggiorno romano. Cosciente di
rivelano i limiti di un’osservazione tutto ciò, Piero invia alla comunità
esterna che non si basa sull’espe- un messaggio liberatorio.
rienza. Nella monotonia dei suoi Le fonti attestano che la chiesa
moduli, il dipinto collega la psiche dove fu raffigurata la Madonna del
umana con una serie di atmosfere: Parto divenne un luogo di pellegri-
ricordi, sensazioni, percezioni, che naggio per le donne che chiedevano
non hanno niente di concreto, ma il dono della fertilità e di un buon
sono espressioni di un flusso vitale parto. Le strade verso il santuario

studi di prospettiva, componendo i trattati De prospectiva pingendi (1482) e A proposito


dei cinque corpi regolari (1485). Le fonti attestano che egli muore cieco, nel paese natio,
nel 1492. Per la datazione delle sue opere, cfr A. Angelini, Piero della Francesca, Milano,
24 Ore Cultura, 2014.
3. V. N. Lazarev, Starye ital’janskie mastera, Moskva, Iskusstvo, 1972, 131.
4. Cfr H. Damisch, Un souvenir d’enfance par Piero della Francesca, Paris, Seuil,
1997, 46; 102.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

s’intrecciavano quindi con una real- Distacco dalla tradizione medievale


tà sociale complessa, dove le donne
sterili erano costrette a vivere nell’e- Mettendo in una nuova luce l’i-
marginazione. Come s’intuisce an- dea di maternità, Piero della Fran-
che dal film di Tarkovskij, alla Ma- cesca si distacca dalla tradizione
donna veniva attribuita la capacità figurativa medievale dello stesso
di riscattare da qualsiasi potere del soggetto, caratterizzata da immagi-
male. Forse per la prima volta nel ni mortificate della Vergine incinta,
Rinascimento, in questo affresco attribuibili a una cultura devoziona-
l’arte occidentale diventa consape- le locale8. Come ha fatto osservare
vole di poter indirizzare una comu- Martone, «nella concezione di Piero
nità a un nuovo senso di solidarietà. è inerente un atteggiamento di ri-
Per questi motivi, non possia- spetto e di onore nei confronti di
182
mo più considerare Piero come una condizione che accomuna tutte
un architetto che inserisce i suoi le donne»9.
personaggi «nelle gabbie mute dei Guardando l’affresco più da vi-
teo­remi euclidei»5, perché inaspet- cino, si nota che i due angeli reggi-
tatamente ci si rivela il suo sguardo cortina che incorniciano la Madon-
lungimirante, intriso di memoria e na sono cromaticamente scialbi, in
di retrospezione. Uno dei dibattiti un banale susseguirsi di gesti spe-
principali tra gli studiosi di Piero culari. L’ambiguità dei loro gesti
della Francesca nel XX secolo è – non si capisce se stiano aprendo
stato appunto quello di stabilire se o chiudendo la tenda: entrambe le
questo affresco così marginale nel interpretazioni sono possibili10 – ci
percorso artistico del pittore dia introduce in un’atmosfera fluida
adito a qualcos’altro rispetto alla del «qui e ora» dell’affresco. Se lo
«rigorosa decostruzione matema- sguardo introverso della Vergine
tica»6 o all’«arte del numero»7. racchiude più di quanto mostri, il

5. R. Longhi, Piero della Francesca, Milano, Abscondita, 2012, 57.


6. Sul senso della misura in Piero, cfr H. Belting, I canoni dello sguardo. Storia
della cultura visiva tra Oriente e Occidente, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, 162-165.
7. Cfr L. Berti, «Il decennio di Masaccio», in L. Berti - A. Paolucci (edd.),
L’ età di Masaccio. Il primo Quattrocento a Firenze, Catalogo della mostra, Milano, Electa,
1990, 43.
8. Cfr Th. Martone, «La “Madonna del Parto” di Piero della Francesca e la sua
iconografia», cit., 120-143.
9. Ivi, 111.
10. Cfr H. Damisch, Un souvenir d’enfance par Piero della Francesca, cit., 150.
LA «MADONNA DEL PARTO» DI PIERO DELLA FRANCESCA

mistero che avvolge la sua figura europea con un’espressione mai rag-
non è ermetismo fine a se stesso, giunta prima, in quella che il criti-
ma trasmette intatta l’intensità di co d’arte Roberto Longhi chiama la
una presenza. «calma di contegno»12. La naturalez-
La ritrattistica pierfrancescana, za della Vergine ha indotto lo storico
pur sfociando spesso in quella che dell’arte Eugenio Battisti a ipotizza-
Henri Focillon chiamava la «psico- re la sua ascendenza francescana13.
logia da sonnambuli»11, costruisce, Il corpo della Madonna è gi-
a partire da quegli sguardi, una rato leggermente a tre quarti:
metafisica della presenza. L’assenza movimento attraverso il quale si
di ogni sonorità e il comprimersi ottiene quasi un profilo che, in-
delle forme del vissuto sono una vece di attenuare la grandezza del
nota di disarmante modernità, in- ventre – come sarebbe stato se-
183
dice di un ritorno a quella fase em- condo i criteri di allora –, ottie-
brionale alla quale aspirerà l’intera ne esattamente l’effetto contrario.
arte moderna. Se la mano poggiata sul grembo
Se la confrontiamo con la Dama mostra una Vergine attenta, pro-
e l’unicorno del famoso arazzo pari- fondamente consapevole di quan-
gino del Museo di Cluny (fine XV to le accade, quella poggiata sul
secolo), la bellezza della Madonna del fianco mostra un personaggio di
Parto non è il risultato di uno sforzo «forti ambizioni»14. La posizione
di liberarsi del superfluo. Nell’arazzo in leggero contrapposto richie-
francese la nobildonna deposita in deva per la mano sinistra una tale
un cassetto i propri gioiel­li per ac- posa, e questo fa sì che, all’im-
cogliere, in tutta semplicità, il tan- provviso, un corpo fragile ac-
to atteso À mon seul désir. Nell’af- quisti l’imponenza di una figura
fresco di Piero, più che una scelta classica. Maria presenta se stessa
programmatica, la semplicità è una come una «Madonna dell’ascol-
forza vitale che si introduce nell’arte to», accorta ed empatica: aspetto

11. H. Focillon, Piero della Francesca, Milano, Abscondita, 2004, 103.


12. R. Longhi, Piero della Francesca, cit., 119.
13. Cfr E. Battisti, Piero della Francesca, vol. II, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1971, 71.
14. L’iconografia del personaggio «di forti ambizioni» è ampiamente illustrata da Gi-
getta Dalli Regoli. La studiosa scopre altri casi analoghi nel ritratto del Farinata di Andrea
del Castagno (1450-55), nel Davide bronzeo di Donatello ecc. Cfr G. Dalli Regoli, Il
gesto e la mano. Convenzione e invenzione nel linguaggio figurativo fra Medioevo e Rinasci-
mento, Firenze, Olschki, 2000, 65-67.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

che si manifesta attraverso una centro di potere e a una retorica di


serie di particolari, fra cui il rilevo circostanza. La Madonna del Par-
dato all’orecchio. to, invece, è stata concepita come
marginale in rapporto a qualsiasi
Un messaggio di speranza centro di potere, civile o religioso,
essendo destinata alla chiesa di un
Unendo i tratti della mode- cimitero, su una collina, lontano
stia con quelli della signorilità, la dal paese, e quindi orientata più al
Madonna trasmette un messag- regno del non ritorno che a quello
gio di speranza alle donne che dei viventi.
si recano in quel luogo di pelle- Le «bianche bende» intrecciate
grinaggio per chiedere il dono di nei capelli della Vergine mostrano
184
una gravidanza. La Vergine ri- che Maria è madre non soltanto
chiama un’intera comunità all’e- dei viventi, ma anche dei defunti,
sperienza di una catarsi e apre un di tutte le generazioni dell’umani-
nuovo cammino di speranza non tà15. Per la storica del Tessuto e del
soltanto per le donne sterili, ma Costume Roberta Orsi Landini,
anche per tutti quelli che la visi- esse esprimono la condizione ve-
tano in quel luogo. dovile della donna nel Purgatorio
Si potrebbe anche dire che, già di Dante (cfr canto VIII, vv. 73-
100 anni prima, negli affreschi 75) e nel Decamerone di Boccaccio
senesi dell’ Allegoria del buon Go- (cfr novella X)16. Anche se finora
verno di Ambrogio Lorenzetti (ca. non ci sono state conferme arche-
1338), una comunità si prefiggeva ologiche che l’affresco di Piero si
di unire le proprie forze per co- trovasse già nel XV secolo nei
struire sulla Terra una città di pace pressi di un cimitero, l’iconografia
e di virtù. Pensare le ragioni di una segue questa pista di ricerca.
tale società è il cuore stesso della L’affresco è giunto sino a noi,
creazione artistica. Tuttavia, a dif- nonostante non abbia avuto un
ferenza della Madonna del Parto di committente ambizioso che po-
Piero della Francesca, gli affreschi tesse garantirgli un grande futu-
del Lorenzetti sono legati a un ro. Inoltre, è noto che, alla metà

15. Sull’aspetto funebre, cfr C. Feudale, «The Iconography of the “Madonna del
Parto”», in Marsyas, n. 7, 1954-1957, 8–23.
16. Cfr R. Orsi Landini, Moda a Firenze e in Toscana nel Trecento, Firenze, Poli-
stampa, 2019, 37 s, figg. b19, b21.
LA «MADONNA DEL PARTO» DI PIERO DELLA FRANCESCA

del Cinquecento, il Concilio di colo a un devastante terremoto


Trento aveva svalutato questo ge- nel 1917; e solo successivamente
nere di iconografia, tanto che, ad venne collocata nel Museo, cre-
esempio, nel repertorio del Mo- ato appositamente a Monterchi.
lanus, l’immagine della Vergine Ma, nonostante queste vicende,
incinta venne esclusa da quelle essa ha conservato tutto il suo
canoniche. La riscoperta dell’af- vigore, e oggi, in virtù della sua
fresco di Piero della Francesca è «francescana povertà», torna a in-
avvenuta dopo secoli, nel 1889, terrogarci. I silenzi materni della
quando la storia dell’arte ha aper- Madonna, dietro i quali si perce-
to gli occhi verso le periferie. pisce il senso di una presenza, ci
La Madonna del Parto era in un fanno aprire ancora oggi gli occhi
avanzato stato di degrado, con verso un’arte di confine, un’arte
185
la parte superiore della tenda re- visionaria che mira a costruire
cisa; era sopravvissuta per mira- una nuova coscienza comune.
RIVISTE DELLA STAMPA

«DUE VITE», DI EMANUELE TREVI


Premio Strega 2021
Claudio Zonta S.I.

Il romanzo Due Vite, di Ema- bianco e nero, scattata da Rocco,


nuele Trevi1, si è aggiudicato il pre- che ritrae Emanuele Trevi insieme
stigioso Premio Strega per il 2021. alla sua amica, sorridente, mentre
Attraverso una scrittura raffinata, allunga una mano sulla sua spalla,
186 ricercata e profonda, l’Autore ri- quasi a trattenerlo da un movimen-
percorre la storia di un’amicizia di to incauto. La foto immortala il
lunga data che lo ha legato a due sorriso, la spensieratezza, l’ebbrezza
scrittori. Il primo è Rocco Car- della vita e, allo stesso tempo, svela
bone, critico, narratore, ma anche «un’essenza, un aspetto permanen-
insegnante nelle carceri, che viene te del carattere. Nel fondo dell’ani-
introdotto così all’inizio del ro- ma di Pia, anche nei momenti più
manzo: «Era una di quelle persone difficili e disperati, resisteva sempre
destinate ad assomigliare, sempre una vocazione inestirpabile ad ac-
di più con l’andare del tempo, al cudire, proteggere – esseri umani,
proprio nome […]. E molti lati del animali e vegetali» (23).
suo carattere per niente facile sug- Come spesso accade agli arti-
gerivano un’ostinazione, una rigi- sti, il procedere non è mai lineare,
dità del regno minerale» (9). La se- e Trevi racconta queste due rela-
conda amicizia raccontata è quella zioni di amicizia in maniera alter-
con Pia Pera, traduttrice, studiosa nata, facendo passare la memoria
di letteratura russa, scrittrice e ap- dall’una all’altra, con salti di tempo
passionata di natura e giardinag- e di spazio che creano un mosaico
gio. Ella appare nel romanzo ac- di eventi. Il ricordo diviene luogo
compagnata da una fotografia in esistenziale dove presenza e assenza

1. Cfr E. Trevi, Due vite, Milano, Neri Pozza, 2021. I numeri tra parentesi nel testo
si riferiscono alle pagine di questo libro.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 186-189 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


«DUE VITE», DI EMANUELE TREVI

si combattono fino all’ultimo respi- Rocco: «Se bruciava la vita con


ro, mentre la parola scritta e vissutauna pericolosa intensità, come
suggella sulla carta indelebilmente se fosse dotato di una miccia più
ciò che è stato vissuto. rapida di quella degli altri, è pro-
L’Autore descrive una quoti- prio perché la capacità di godere
dianità che nel passare degli anni era in lui altrettanto rigogliosa
è stata capace di momenti di dol- che quella di soffrire» (35). Così
cezza estrema, di attimi che ap- anche nei percorsi di studio in-
paiono come pietre che lacerano trapresi, consumati e poi lasciati,
la pelle, colti nella loro gravi- egli esprime la sua ansia di vita
tas attraverso uno stile letterario che riversa nella scrittura di ro-
preciso, immediato, ma che cela manzi, che «ha praticato metico-
un vissuto complesso, dinamico, losamente. […] Come se scavasse
187
sofferto. Queste tre vite – com- una galleria in una montagna di
prendiamo anche quella dell’Au- dolore, di sconforto» (38).
tore – si intrecciano all’interno di E in questa storia di amici-
una città, Roma, che è capace di zia l’Autore dà spazio all’ambiente
accogliere, sostenere, osservare, narrativo di Pia, colta tra le tra-
disperdere. duzioni di testi religiosi come La
vita dell’arciprete Avvakum o il libro
Gli inizi Evgenij Onegin di Puskin, «capola-
voro di leggerezza, lirismo, duttili-
Sono tanti gli anni attraver- tà» (55), o il controverso Il diario di
sati e ripercorsi dalla memoria. Lo, come pure il romanzo di Rocco
Con Rocco, dai corridoi della fa- L’ apparizione o Per il tuo bene, usci-
coltà di Lettere, tra teorie semio- to postumo, con un’ampia introdu-
logiche e strutturaliste, alle uscite zione dello stesso Trevi.
serali «percorrendo un circuito di
case di amici e ritrovi pubblici tra I destini
le due sponde del Tevere» (33),
alla notizia, vissuta insieme, del- Entrambi i personaggi vanno
la morte di Primo Levi, appresa incontro a un destino che appare
in una pausa in un bar di Porta ineluttabile. Pia, all’età di 55 anni, si
Pia, e poi al ritorno a casa al rione trova a combattere con la Sla: «Un
Monti, passeggiando per via dei giorno di giugno di qualche anno
Serpenti, tra le infinite sigarette. fa un uomo che diceva di amarmi
Un animo complesso, quello di osservò, con tono di rimprovero, che
RIVISTE DELLA STAMPA

zoppicavo» (28). La malattia divie-


lo ermeneutico che porta i due
ne anche riflesso di verità per chi
scrittori a rielaborare la distanza
desidera starle accanto, sottolineato
– non solo fisica – e la presenza,
da quel corsivo dell’Autore in cuia recuperare i cammini interrot-
dichiara che il patto d’amore si ri-
ti, fino al drammatico incidente
vela nel coraggio di attraversare in-
di Rocco, mentre andava in mo-
sieme anche la solitudine e il dram-
torino per Roma, «a pochi metri
ma della malattia. dall’impassibile statua equestre di
L’amicizia comprende anche Giorgio Castriota Scanderbeg, in
fasi di distacco, dovuti ad aspetti
piazza Albania, ai piedi dell’Aven-
caratteriali, a reciproche incom- tino» (79). Si rimane attoniti, in-
prensioni, ai muri solipsistici che
creduli dinanzi a un evento così
Rocco sembra innalzare e che tragico per le modalità con cui
188
vanno a minare anche a fondo la si è verificato, che porta con sé
fedeltà e la confidenza con l’Auto-
l’affacciarsi dell’abisso della vita.
re, fino a generare una «distanza Così anche la perdita di Pia viene
siderale»: «Arrivò il momento in raccontata con uno stile narrativo
cui la distanza che avevo messo essenziale, quasi quotidiano, con
(senza mai confessarmelo piena- un pudore verso ciò che è stato
mente) tra me e Rocco si era fattae che si desidera custodire come
tale da non averne più notizie, se«un tesoro in vasi di creta», espri-
non vaghe, indirette» (49). Ma è mendolo con parole di san Paolo.
proprio la letteratura che ristabilirà La scrittura porta con sé la
l’amicizia con Rocco: «Ritrovarsi vita; l’assenza diventa presenza,
in quel modo è stato bello per tutti
come afferma lo stesso Trevi par-
e due. Gli avevo detto che, mentrelando di Pia: «Di una cosa sono
leggevo, mi era venuta in mente sicuro: mentre scrivo, e fintanto
l’immagine poetica del naufrago che me ne sto seduto a scrivere,
di Dante che, raggiunta la riva Pia è qui» (84). Di Pia, oltre che
“con lena affannata”, contempla la scrittura, l’Autore racconta il
il mare in tempesta e il pericolo desiderio agreste, di ricreare la
scampato per un soffio» (64). propria vita attraverso un giar-
dino: «Quei microcosmi vegetali
Il senso della scrittura potevano sembrare frammenti,
briciole di un paradiso perduto, e
Amicizia e scrittura si com- invece erano altrettante promesse,
penetrano in una sorta di circo- tenaci segnali del futuro» (101).
«DUE VITE», DI EMANUELE TREVI

La fragile forza della natura si l’elemento che si prenderà cura di


rispecchia nella vitalità di Pia, nel- lei per sempre.
la sua esistenza esposta al sole, al
vento e al susseguirsi delle stagio- Conclusioni
ni. E proprio nella sua traduzione
de Il Giardino segreto di Frances Nelle pagine del romanzo
Hodgson Burnett, la scrittrice Due vite Trevi mostra come la pa-
presenta, quasi impersonandola, rola trasformi il ricordo personale
la rinascita dal male da parte della in una resistenza – resilienza – ai
protagonista Mary, una bambina drammi della vita, al vuoto e al
che ha visto tutta la sua famiglia silenzio provocato dal dolore per
morire a causa del colera, ma che la perdita di amici cari. La paro-
riprende vita grazie alla fioritura la dell’Autore non rende eterno 189
di un giardino. Trevi narra, attra- il ricordo, come possono fare le
verso citazioni letterarie, episodi, epigrafi sepolcrali, ma il suo pro-
paure, ironie, ricordi, il comples- cedere narrativo riempie di vita
so agire di Pia nei confronti della il vuoto generato dalla morte di
sua malattia degenerativa, fino al Rocco e Pia, facendo diventare
punto in cui il giardino diventerà densa di senso l’assenza umana.
RIVISTE DELLA STAMPA

«CITTADINANZA»
Domenico Pizzuti S.I. – Debora Tonelli

Il Dizionario di politica1, cu- «Cittadinanza democratica»


rato da Bobbio, Matteucci e Pa-
squino e pubblicato nel 1976, non Il volume Cittadinanza, di Gio-
conteneva la voce «cittadinanza». vanni Moro2, si presenta come
190 All’epoca essa era, per così dire, un’importante ricerca, frutto di un
una conseguenza dello Stato. Solo quindicennio di insegnamento al
negli anni Novanta gli studiosi Dipartimento di Scienze politiche
iniziarono a occuparsene e a te- dell’Università «La Sapienza» di
matizzarla. Che cosa era cambia- Roma. I diversi capitoli propongo-
to? Il nuovo clima politico destava no, con uno stile quasi didattico, gli
domande sul ruolo dei cittadini e elementi essenziali del paradigma
sul significato stesso della «citta- della «cittadinanza democratica»
dinanza», mettendo in evidenza per l’ambiente accademico e il pub-
che essa non è un accessorio, ma blico interessato a temi connessi
una protagonista inalienabile del- alla democrazia. Denso e agile, lo
lo Stato democratico. I tentativi studio è una riflessione volta a pro-
di definizione mettono in luce la durre un uso consapevole di questo
complessità del concetto, oscil- concetto, confrontandosi con la sua
lando da una concezione legale, genesi, con i suoi nodi irrisolti, con
basata su prerogative e obblighi, le sue sfide.
a una ampia e generica, che in- Scritto nell’estate del 2019 e
clude diverse forme di aggrega- pubblicato all’inizio della pande-
zione, fino a svuotare la parola di mia, il libro ha qualcosa di profeti-
significato. co ed evocativo insieme. Profetico,

1. Cfr N. Bobbio - N. Matteucci - G. Pasquino (edd.), Dizionario di politica,


Torino, Utet, 1976.
2. Cfr G. Moro, Cittadinanza, Milano, Mondadori Università, 2020, 176. I numeri
tra parentesi nel testo fanno riferimento alle pagine di questo libro.

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 190-193 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


«CITTADINANZA», DI GIOVANNI MORO

perché la pandemia ha evidenziato contemporanee e al tempo stesso


molte questioni legate alla cittadi- fattore eziologico della più alta ri-
nanza: l’esercizio delle libertà indi- levanza. Perciò egli precisa che in
viduali, il coinvolgimento dei cit- questo studio utilizza «un approc-
tadini nelle decisioni in un periodo cio fenomenologico, o meglio di
prolungato di emergenza, il loro sociologia empirica: un approccio
senso di appartenenza, l’esercizio cioè che mira a identificare e de-
di doveri e diritti. Accanto a ciò, scrivere un fenomeno esistente
la formazione di una cittadinanza senza pretese di normatività o di
europea e l’integrazione degli im- prescrittività, ovvero di affermare
migrati fanno della cittadinanza come il fenomeno dovrebbe ma-
una cartina di tornasole per com- nifestarsi, ma valorizzando come
prendere le sfide di questi ultimi fonte di conoscenza proprio questo
191
decenni. scarto» (9).
Questioni non facili, con cui Il libro non contiene una storia
l’Autore si confronta senza ce- della cittadinanza, né una rassegna
dere a posizioni ideologiche, né delle maggiori teorie che se ne sono
sottovalutando le problematiche. occupate. In questo approccio la cit-
Si percepisce la maturità di uno tadinanza viene trattata come un
studioso che affronta il tema con congegno che serve a determinate
un bagaglio di esperienza che risale funzioni. Il primato del reale non
alla seconda metà degli anni Set- indulge di fronte alla necessità di
tanta, facendo dell’analisi della real­ tracciare un percorso di riflessione
tà lo strumento con cui interrogare nel quale vengono interpretate le di-
teorie e rappresentazioni della real­ namiche che caratterizzano la fun-
tà stessa, troppo spesso vincolate zione sociale e politica della citta-
alla coerenza del ragionamento e dinanza. L’astrazione dei concetti è
poco disposte a includere le ecce- fondamentale per comprendere l’og-
denze del quotidiano. getto di indagine, disporne, ma an-
Le esperienze precedenti di che per contribuire a dargli forma.
Moro nell’ambito della partecipa- In questo percorso la cittadi-
zione al movimento «Cittadinanza nanza non è qualcosa di ovvio né
attiva» come insostituibile osserva- qualcosa che «accade», ma qualco-
torio della realtà lo hanno condotto sa che i suoi membri costruiscono
a identificare la cittadinanza come giorno per giorno, «un dispositivo
fenomeno empirico, formidabile di inclusione, coesione e sviluppo
strumento di analisi delle società delle società. Accoglie nella co-
RIVISTE DELLA STAMPA

munità politica (l’insieme dei cit- condo l’Autore, può aiutare meglio
tadini) e crea alcune condizioni a guardare cosa c’è nell’occhio del
fondamentali perché possa vivere ciclone. Lo scopo di questo studio
in condizioni di sicurezza e svilup- è rivolgere l’attenzione al cittadino
parsi sulla strada di una maggiore reale anziché a quello ideale, cioè
dignità, eguaglianza e benessere alla «cittadinanza vissuta».
per tutti» (8). Il volume è suddiviso in cinque
Questo dispositivo è caratterizza- capitoli. Il primo propone lo sfondo
to da una condizione di «eguaglian- in cui è trattato il tema principale
za civica», secondo la definizione di della ricerca, mettendo in rilievo
Richard Bellamy, ed è estremamente alcuni elementi distintivi di questa
dinamico e in dialogo con le que- invenzione della modernità. Il se-
stioni sensibili del presente. È quindi condo ha per oggetto il paradig-
192
nel contesto democratico che Moro ma della cittadinanza democratica,
individua l’origine dell’interesse de- cioè il modello canonico che si è
gli studiosi per la cittadinanza, ma affermato nelle società democrati-
anche la pienezza del suo significato che. Il contenuto del paradigma è
e della sua funzione sociale e politi- definito nei suoi elementi essenziali,
ca. La vera cittadinanza è quella de- in riferimento alle tre componenti
mocratica, in cui il cittadino è chia- – l’appartenenza; i diritti e i doveri;
mato ad agire con responsabilità. Le e la partecipazione – in cui si con-
norme costituzionali, le disposizioni cretizza il dispositivo della cittadi-
legali, le pratiche sono i luoghi in cui nanza democratica. Il terzo capitolo
è possibile analizzare il fenomeno prende in considerazione le diffi-
della cittadinanza in fieri. coltà che il paradigma incontra nel-
le società contemporanee, optando
«Cittadinanza vissuta» per una considerazione che guardi
alla situazione non in termini di
Il libro intende, dunque, descri- tramonto, ma di trasformazione. Il
vere il fenomeno della cittadinanza quarto capitolo costituisce un inter-
e il suo funzionamento, il suo con- mezzo che ha per oggetto la rela-
solidamento in un paradigma, cioè zione tra gli immigrati e la cittadi-
in un modello canonico, i fenome- nanza italiana, per l’importanza che
ni che lo hanno messo in discus- i fenomeni migratori assumono per
sione e le sue attuali linee di tra- la crisi del paradigma. Il quinto ca-
sformazione. Un approccio legato pitolo è dedicato alle trasformazio-
alla materialità del fenomeno, se- ni che stanno avendo luogo oggi,
«CITTADINANZA», DI GIOVANNI MORO

in particolare alle rivendicazioni di di questo e delle diverse forme di


cittadinanza o «cittadinanze» che cittadinanza che vengono speri-
emergono nella realtà. Nelle con- mentate in altre parti del mondo.
clusioni vengono svolte considera- L’immigrazione impone l’inclu-
zioni sugli sviluppi della ricerca che sione del diverso e il cambio di pa-
è oggetto di questo libro, sulle sfide radigmi, non soltanto in termini
a cui oggi la cittadinanza è chiama- legali, ma anche in termini di ri-
ta a rispondere, sul senso e sull’at- conoscimento e senso di apparte-
tualità della stessa cittadinanza de- nenza che si esprimono in pratiche
mocratica. condivise. Allo stesso modo l’Au-
La riflessione di Moro diventa tore evoca la sfida della diversità
evocativa quando sottolinea che la religiosa, perché, proprio come la
cittadinanza, proprio come la de- cittadinanza, ha a che fare con l’i-
193
mocrazia, è parte di un processo dentità e l’appartenenza.
culturale radicato in Occidente. Occorre infine rilevare che nel
Seppure non direttamente tema- libro si fa riferimento prevalente-
tizzato, il mondo globalizzato è lo mente all’esperienza italiana e che
sfondo di queste riflessioni: univer- il tema dei rapporti tra cittadinanza
sale e particolare si compenetrano e democrazia non è esplicitamente
continuamente, e le sfide della cit- tematizzato; solo nelle conclusioni
tadinanza democratica non posso- si specifica che l’espressione «citta-
no più essere racchiuse nei confini dinanza democratica» circoscrive
di uno Stato o di un Continente. l’attenzione ai regimi in cui la par-
L’esercizio di una cittadinanza tecipazione dei cittadini alla vita
consapevole dovrebbe tener conto pubblica è prevista e garantita.
ABITARE NELLA POSSIBILITÀ
Letteratura documento era di dubbio
ROMANZO valore legale, ma si rivelò
sufficiente per permettere
«I GIUSTI» il viaggio attraverso le di-
stese della Russia siberiana
di Diego Mattei S.I. fino a Vladivostok e, gra-
zie all’azione coordinata
con il console giapponese

«L
a riscontro in tutti Chiune Sugihara, anch’e-
i Giusti: la volon- gli di stanza a Kaunas,
tà di fare davvero giungere con un ulteriore
qualcosa. I comuni mortali visto fino al Giappone.
dalla coscienza elastica stan- Quasi 10.000 ebrei ri-
no a guardare con le mani uscirono a fuggire dalla
194 in mano o girano la testa Lituania. Chiune Sugiha-
dall’altra parte». Così scri- ra ricevette in vita il titolo
ve Jan Brokken in I Giusti di Giusto delle Nazioni,
(Iperborea, 2020), in cui ri- nel 1985; Jan Zwartendijk,
costruisce la vicenda di Jan noto anche come The An-
Zwartendijk, console onora- gel of Curacao, fu ricono-
rio olandese a Kaunas, in Li- sciuto Giusto solo nel 1998,
tuania, tra il 1939 e il 1940. a più di 20 anni dalla mor-
«(Mio padre) era un te, avvenuta nel 1976.
uomo riservato. Non gli Il libro di Brokken è
interessava il ruolo di eroe. un affresco imponente di
Aveva paura, come tutti in quegli anni drammatici,
quei giorni. Ma l’odio e la con le storie di vita dei
violenza crescevano sem- familiari di Jan Zwarten-
pre più e a quel punto non dijk, dei colleghi, degli
ha fatto finta di non vedere, ebrei che chiesero un vi-
non ha cercato scuse e ha sto e poi vissero peripezie
preso le decisioni che do- incredibili, in Giappone, a
veva prendere». Divenuto Shangai, nel Sud-est asia-
console onorario, permi- tico. Zwartendijk e molti
se la salvezza di migliaia altri diplomatici morirono
di ebrei polacchi scappati senza saper nulla di quel
dal loro Paese in tempo che era avvenuto degli
di occupazione nazista uomini e delle donne che
e rifugiatisi in Lituania, avevano aiutato a fuggire.
facendoli espatriare nell’i- Emblematico è proprio il
sola di Curacao, colonia caso del console olande-
delle Antille Olandesi. Il se, che ricevette la notizia
ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

dall’Holocaust Research relazione faticosa con la co, capace di usare le per-


Center dello Yad Vashem sua ex compagna e con sone a proprio vantaggio,
che il 95% degli ebrei fatti suo figlio, e un’attività di mettere a tacere le voci
fuggire erano sopravvis- ladro gentiluomo ispirata critiche e compiere le più
suti, quattro giorni dopo al personaggio letterario grandi ingiustizie, mentre
la morte. di Arsène Lupin. Basta- all’esterno mostra il volto
Purtroppo, in mol- no pochi minuti, però, rassicurante del mecenati-
ti casi questi uomini, che per scoprire che dietro il smo e di chi ha a cuore il
avevano corso dei rischi di brillante furto del «col- bene della propria nazione.
vita o professionali, al ter- lier della regina», durante E l’impresa è davvero ar-
mine della guerra vennero un’asta milionaria presso dua, se per ragioni diverse
ripresi o furono oggetto di il Louvre, si nascondono tanto Pellegrini quanto la
investigazioni e critiche, vicende dolorose che at- polizia vogliono mettere
per non essersi comporta- traversano le fibre più pro- la parola fine alla fuga del
ti secondo le regole della fonde del protagonista. «ladro del collier». 195
corretta diplomazia. Come Grazie a una narrazio- Ne è passata di ac-
a dire che chi è Giusto ne ne che intreccia flashback qua sotto i ponti, perché
paga le conseguenze sem- e fatti attuali, la trama si all’inizio della seconda
pre, in guerra e in pace. allarga e si ispessisce fino a serie (giugno 2021) lo
rivelare i motivi dramma- scenario è completa-
tici che contrappongono mente differente e sem-
Diop a Hubert Pellegrini, brano lontani anni luce
Cinema miliardario senza scru- i tempi del colpo magi-
SERIE TV poli, proprietario del col- strale del Louvre. Diop
lier. Nel rievocare questa è l’uomo più ricercato di
LUPIN + LU- Parigi-bene di fine anni Francia, il male sembra
Novanta, spesso emerge fare un salto di qualità e
PIN un forte pregiudizio raz- avvolgere nelle sue spire
ziale contro gli immigrati quanto Assane possiede
di Andrea Bonavita S.I.
dall’Africa, come lo sono di più caro. Cosa spe-
Assane e suo padre. Solo rare quando non c’è più

N
e è passata di ac- la forza dell’amicizia, che nulla da sperare? Come
qua sotto i ponti l’adolescenza può sprigio- ne uscirà Lupin? L’uni-
della Senna ri- nare, farà assaporare affet- co modo per scoprirlo
spetto all’episodio d’e- ti che accompagneranno è quello di immergersi
sordio della serie Lupin, il giovane Diop fino ai nei cinque episodi della
lanciata da Netflix nel giorni nostri. serie, accompagnati da
gennaio 2021. Quella è Ora è la sete di verità una colonna sonora che
stata l’occasione per fare e giustizia ciò che spinge asseconda o fa da con-
la conoscenza di Assane Assane a lottare e a non ar- trappunto alla narra-
Diop, alle prese con i pro- rendersi davanti ai colpi di zione – si veda I can see
blemi quotidiani di una un potere malvagio e cie- clearly now di John Nash
(capitolo 7, il secondo musicale, l’Harlem Cul- stata spedita in Vietnam,
della nuova serie) – in tural Festival, si svolge- o era a casa, costretta ad
un modo davvero accat- va per celebrare il me- avere a che fare con la
tivante. glio della cultura black. disoccupazione, le disu-
È rimasto impresso sul guaglianze, il razzismo
nastro di una cinepresa e la droga. L’eroina uc-
per oltre 50 anni e oggi cideva a ritmi spaventosi
Musica rivive grazie a Summer nell’estate del 1969 e la
MUSICA SOUL of Soul, il documenta- comunità nera a New
rio, da qualche settima- York fu colpita dura-
SUMMER OF na disponibile su Di- mente.
sney Plus. Attraverso Summer
SOUL: LA CE- Il documentario re- of Soul il musicista ci
LEBRAZIONE staura e rimonta le im- fa scoprire le emozioni,
196
DELLA CUL- magini del concerto; i sentimenti, le paure,
TURA BLACK il girato originale non gli amori e le tante al-
aveva ancora trovato una tre intense sinergie che
di Mariano Iacobellis S.I. distribuzione ufficiale, furono provate durante
malgrado i grandi nomi la calda estate del 1969,
coinvolti (da Mahalia piena di scontri ed even-

B
ethel, piccola Jackson a Stevie Won- ti importanti. «Il potere
contea rura- der, da Mavis Staples a della musica», sottolinea
le nello Stato di Nina Simone), condan- nel film Lin-Manuel
New York. Il luogo scel- nando l’intera rassegna Miranda, «sta nel rac-
to per ospitare dal 15 al all’oblio. L’importanza contare le nostre storie».
18 agosto 1969 un even- di questo film è legata al Ed è proprio questa la
to musicale passato alla racconto di un momento caratteristica di Summer
storia come Woodstock. molto importante per la of Soul, dove una can-
Tre giorni di «pace e storia degli Stati Uniti: zone riesce a far rivive-
musica rock», diventati «È l’istantanea di un’A- re, ad esempio, l’imma-
leggenda, con tanto di merica in trasformazio- gine di Martin Luther
film e documentari de- ne, il racconto dell’anno King, ucciso a Memphis
dicati all’evento hippie in cui noi neri abbiamo nell’aprile del 1968. In
per antonomasia. iniziato ad amarci e a un momento che è eufo-
Ma a soli 160 km pensare: nero è bello». rico e toccante in eguale
di distanza, al Mount Il documentario in- misura, Mahalia Jackson
Morris Park (oggi ri- serisce testimonianze e Mavis Staples duettano
battezzato Marcus Gar- di chi c’era, con un’a- nel brano preferito dal
vey Park), nel cuore di nalisi di quell’anno così reverendo King, Take
Harlem, in quello stesso particolare per la storia My Hand, Precious Lord,
anno e in quegli stessi d’America, in cui parte davanti a un pubblico
giorni, un altro evento della comunità nera era visibilmente commosso.
ABITARE NELLA POSSIBILITÀ

Un documento sto- lezza con un volto de- più significativo in rap-


rico, unico, emozio- vastato dal dolore. Già porto all’azione: «Die-
nante e profondamen- l’antichità aveva abban- tro a questo stato non
te attuale nelle parole donato Laocoonte alle esiste più niente, e pre-
pronunciate da Nina «orrende grida», come sentare all’occhio la fase
Simone sul finire di un toro che «sfugge al estrema significherebbe
Summer of Soul: «Come colpo della scure incer- tagliare le ali dell’im-
puoi essere un artista e ta» (Virgilio, Eneide). maginazione». Nella
non parlare di ciò che Molti giudicarono stessa linea, Goe­the e
accade?». carente la comprensione Schopenhauer mostra-
virgiliana; tra essi anche rono che la morsa fatale
Winckelmann, il quale a sfregiare la coscia di
si ostinava a considerare Laocoonte doveva aver
A rte il gruppo come perfetto provocato a livello fisio-
SCULTURA esempio di bellezza nel- logico il ritiro dell’ad- 197
le condizioni date dal dome, e conseguen-
LAOCOONTE: dolore fisico. Di fatto, si temente il grido era
puntava così a correg- fisicamente impossibile.
UN SOLO gere una tendenza anti- Alla nostra gene-
GRIDO E classica percepibile nella razione, avvezza ormai
TANTE produzione artistica. al Grido di Munch e ai
ORECCHIE Tiziano, ad esempio, in Cerberi danteschi, la
una delle sue incisioni storia di come è stato
di Lucian Lechintan S.I. aveva offerto un’inter- accolto il gruppo sta-
pretazione inaspettata tuario fa forse sorridere.
del gruppo, nella quale Tuttavia, dietro a questi

Q uando, nel 1506,


a Roma fu rin-
venuto,
Grotta di Sperlonga,
nella
i protagonisti diventa-
vano scimmie; mentre
El Greco trattava l’epi-
sodio in una prospetti-
sforzi permane l’aspira-
zione a restituire l’opera
d’arte a quell’orizzonte
che la fa parlare al di là
il gruppo statuario del va rocambolesca, senza delle analisi e delle im-
Laocoonte, nelle orec- drammaticità alcuna. pressioni fugaci. Finché
chie di tutti risuonaro- Quando Lessing gli sviluppi della me-
no le parole di Plinio, iniziò a guardare la co- dicina legale ci lasce-
che mettevano l’arte- erenza interna dell’o- ranno godere in pace
fatto sul piedestallo più pera, i termini del pro- questo capolavoro, nel
alto della statuaria an- blema furono capovolti. cortile del Belvedere
tica. A breve, però, gli L’orizzonte classico fu vaticano si capirà che
ammiratori si trovaro- messo tra parentesi e alcune opere d’arte non
no perplessi davanti alla venne elogiata la ca- sono create per pro-
difficoltà di conciliare pacità dello scultore di porre consensi, ma per
l’ideale classico di bel- rappresentare l’istante aprire universi.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

GERHARD LOHFINK

198 L A FEDE CRISTIANA


SPIEGATA IN 50 LETTERE
Brescia, Queriniana, 2020, 288, € 29,00.

In quest’opera Gerhard Lohfink, già professore di esegesi neotestamen-


taria all’Università di Tubinga, introduce i non cristiani alla fede attraverso
un dialogo epistolare con una coppia immaginaria di coniugi che desiderano
capire che cosa significhi essere cristiani. Il volume si presenta pertanto come
una raccolta di lettere di risposta dell’A., nelle quali egli cerca di far compren-
dere quali siano gli elementi della fede, adattando il linguaggio teologico a
contesti di vita quotidiana.
Lohfink è al tempo stesso l’autore, il narratore e il protagonista dell’o-
pera, e dalle sue lettere veniamo a conoscenza degli interrogativi fonda-
mentali che la fittizia coppia si pone riguardo alla fede, a partire dalla loro
vita quotidiana familiare e sociale. La coppia rappresenta quel sorprenden-
te numero di persone che attualmente ricercano informazioni sulla fede
cristiana e che contrastano quell’atteggiamento di trascuratezza che ha ca-
ratterizzato i nostri ultimi tempi.
Le domande che i coniugi Westerkamp presentano all’A. hanno
origine dalle vicende della loro vita, ma seguono un preciso ordine
logico di argomentazione, che permette al lettore di intraprendere un
puntuale e coerente percorso conoscitivo sulla fede. Ciò si evince già
nello scorrere i titoli dei capitoli nell’Indice, che mostrano un progressi-
vo approfondimento dei contenuti della rivelazione divina. L’A. rispon-
de ai più frequenti pregiudizi o malintesi a cui la fede cristiana viene
sottoposta da atteggiamenti culturali poco inclini allo studio degli ar-
gomenti e alla loro analisi.
Nelle lettere è possibile incontrare interrogativi sulla fede che potrebbero
essere posti anche da un credente e che denotano l’odierna necessità di chia-

© La Civiltà Cattolica 2021 IV 198-206 | 4112 (16 ott/6 nov 2021)


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

rire i presupposti conoscitivi che introducono al sapere naturale di ciò che si


intende per vero e per bene, per poi accedere alla sapienza della rivelazione
divina. Per questo Lohfink mostra quanto sia importante illustrare i concet-
ti che derivano dalla stessa rivelazione, come ad esempio: peccato, perdono,
misericordia e risurrezione dei morti. L’A. si pone l’obiettivo di spiegare il
nesso di tali concetti, perché possa avvenire un’autentica comunicazione e
trasmissione della fede.
Ciò che emerge dalla lettura di questa opera è la necessità di saper trovare
la via comunicativa per l’evangelizzazione del nostro tempo. Il lavoro che
oggi spetta al teologo è molto impegnativo, in quanto egli deve conoscere
il linguaggio, la formazione psicologica e culturale dell’uomo e della donna
che vivono nell’attuale società, caratterizzata da correnti di pensiero contra-
stanti e fortemente influenzate dallo scetticismo nella sua forma relativisti-
ca. Per questo il teologo deve saper prima creare un sostrato comunicativo
che predisponga la possibilità dell’ascolto, stabilendo in tal modo un canale
199
di trasmissione che gli permetta successivamente di introdurre e guidare le
persone all’annuncio della Buona Notizia del regno dei cieli, affinché esse
possano accogliere nella propria vita la verità dell’amore salvifico di Dio per
tutta l’umanità.

Valentina Pelliccia

ANDREA RICCARDI

L A CHIESA BRUCIA.
CRISI E FUTURO DEL CRISTIANESIMO
Bari - Roma, Laterza, 2021, 256, € 20,00.

Questo volume di Riccardi ha suscitato un dibattito sulla Chiesa: tante


persone, non solo cattoliche, ne hanno tratto un motivo per riflettere sullo
stato attuale della Chiesa nel proprio Paese e nel mondo, sulla sua «crisi», che
l’A. considera come «passaggio», occasione da cogliere per le diverse genera-
zioni e culture del nostro tempo.
Si tratta di un libro pieno di domande, a partire dallo stesso titolo apparso
in copertina, che ha suscitato due diverse interpretazioni: il puntale di un pa-
storale medievaleggiante, presente a destra, che sembra quasi fuori contesto,
è un punto interrogativo o fa da cornice nel ricordare, simbolicamente, il
primato del vescovo di Roma? E qual è il messaggio di Riccardi?
L’A. non sfugge la complessità della nostra società del XXI secolo;
al contrario, la affronta, con il desiderio di instaurare un dialogo grazie
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

al quale tutti possiamo aprire una finestra su questo mondo e capirne


un po’ di più.
Tante le pagine che contengono un’analisi precisa, e molte le cifre che
parlano di una crisi che è sotto gli occhi di tutti: da quella delle vocazioni e
della pratica religiosa fino alla scarsa incidenza di molte Chiese nei Paesi in
cui sono presenti. Ne emerge la profonda conoscenza che l’A. ha di tante di-
verse situazioni e Paesi: un giro del mondo e della Chiesa nel mondo, portato
avanti con passione, anche quando l’oggettività dei numeri può indurre allo
scoraggiamento. Al tempo stesso, in tante pagine emerge l’evidenza di ciò
che ha creato lo Spirito dall’inizio del Novecento fino ai nostri giorni, dei se-
gni sui quali in primo luogo i credenti, ma in qualche modo tutti gli uomini,
possono lavorare per uscire dalla crisi.
Ne sono testimonianza le ultime pagine del libro, che raccontano di una
Chiesa appassionata del mondo e che può continuare a suscitare simpatia,
nella scia dei grandi pontificati della seconda metà del secolo scorso. Riccardi
200
propone un cristianesimo che è nella storia, ma non è della storia: opposizio-
ne, profezia, inattualità sono espressioni che indicano l’alterità del messaggio
cristiano, che pure si fa prossimo alla vita quotidiana attraverso la comunità
dei credenti, l’evangelizzazione e il dialogo.
Per rispondere alla «Chiesa che brucia» – il libro trae spunto dall’in-
cendio di Notre Dame, che lasciò un sentimento di orfanità anche in tanti
non credenti –, non si tratta di ricorrere a sofisticati piani pastorali, a nuovi
programmi per il futuro, ma bisogna avere il coraggio di liberare energie
costruttive e creative, non avere paura, e incoraggiare le comunità cri-
stiane ad andare verso il futuro. L’iniziativa non dovrà provenire dall’alto,
ma saranno i soggetti stessi a incamminarsi sulle vie del mondo al di là di
confini ritenuti invalicabili.
È vero, abbiamo forse dimenticato che ogni lotta della Chiesa è un com-
battimento per il mondo e nel mondo. E il tessuto da rammendare sarà – lo
è già – la prossimità gratuita ai poveri e ai feriti della vita, agli «scarti» di cui
parla papa Francesco: qui si gioca il futuro di una comunità, di una Chiesa,
delle donne e degli uomini del nostro tempo.
Riccardi lascia la parola, infine, a padre Alexsander Men’, vittima del Kgb
nel 1990, il quale scriveva: «Solo uomini limitati possono immaginare che
il cristianesimo è compiuto […]. In realtà, il cristianesimo non ha fatto che i
suoi primi passi, passi umili nella storia del genere umano […]. La storia del
cristianesimo non fa che cominciare, perché c’è tanto da vivere, da capire, da
realizzare nel suo messaggio» (p. 238).

Francesco Dante
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

GERALDINA BONI

L A RECENTE ATTIVITÀ NORMATIVA


ECCLESIALE: «FINIS TERRAE» PER LO
«IUS CANONICUM»?
Modena, Mucchi, 2021, 330, € 20,00.

Due aspetti, in particolare, sono da evidenziare per comprendere la lettera


e lo spirito di questo approfondito studio. Prima di tutto la passione dell’A. per
il diritto e la giustizia, manifestazioni di una più ben profonda passione per
la persona, per la Chiesa e per Cristo. In secondo luogo, la sua competenza
giuridica a livello internazionale: qualità per la quale è annoverata tra i «con-
sultori» del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.
Inoltre, come dichiara l’A. stessa, «il presente libro è nato ed è stato passo
a passo elaborato anche attraverso un continuo confronto con il professor
Giuseppe Dalla Torre: come del resto tutti i miei scritti, ma questo in modo
201
particolare, attesa la delicatezza di molti temi trattati» (p. 12). In effetti, il
compianto prof. Dalla Torre, maestro dell’A. fin dal 1989, è stato unanime-
mente riconosciuto come un competente, equilibrato e fedele collaboratore
della Santa Sede, ragione per cui la sua supervisione è una garanzia unica per
quanto riguarda la scientificità e le finalità di questo lavoro.
L’indagine della Boni sulla produzione normativa canonica recente, per
verificarne la validità e le criticità, in riferimento in particolare ai diritti fon-
damentali dei fedeli in tutti gli ambiti – da quello sacramentale a quello pena-
le e della vita consacrata –, è stata svolta con acribia e nello stesso tempo «con
quella fedeltà al magistero e al successore di Pietro sulla cattedra romana che
non si oppone alla libertà della ricerca scientifica ed anzi con essa può fecon-
damente coniugarsi: ché anzi il munus della ricerca è aspirare ad una diaconia
quanto più proficua possibile» (p. 9).
Il volume comprende quattro capitoli. Nel primo si ricorda la storia –
fatta, come tutte le realtà di questo mondo, di luci e di ombre – del Consi-
glio per i Testi Legislativi. Nel secondo capitolo l’A. coglie, paradossalmente,
proprio dal registrare il sempre minore utilizzo di detto dicastero negli ulti-
mi anni la spinta a esigere una sua più piena valorizzazione per conseguire
concretamente la salus animarum. Nel terzo capitolo si chiarisce che que-
sto dicastero trova il suo senso innanzitutto nell’aiuto prestato al Romano
Pontefice in quanto supremo legislatore, ma anche nell’assistenza agli altri
dicasteri della Curia romana. Nel quarto capitolo – intitolato significativa-
mente «Per uno statuto del dicastero “promotore, garante e interprete del
Diritto della Chiesa”. La vocazione della canonistica» – l’A. presenta una
serie di interessanti proposte, concrete e ricche di buon senso e di amore per
la Chiesa e per il suo diritto, che ha come cuore pulsante l’aequitas canonica,
la misericordia.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

La Boni afferma: «Non mi stancherò mai di proclamare, contro deni-


gratori o epigoni di un giuspositivismo di ritorno, che lo ius Ecclesiae non è
algida sovrastruttura vessatoria, non è un monstrum legalistico. E l’ineccepi-
bile formulazione tecnica delle norme non è paludato nominalismo, esibi-
zione o, peggio, asservimento ad un gergo esoterico, occulto ed elitario: ma
presidio della iustitia che in esse, con recta ratio, va trasfusa e ne deve brillare.
[…]. Del pari occorre reagire con sdegno allo stravolgimento delle parole di
Papa Francesco da parte di chi vorrebbe – davvero, e incredibilmente, per
l’ennesima volta – contrapporre schizofrenicamente la pastorale al diritto, la
caritas alla giustizia» (p. 272).
Questo libro è un testo sul quale, in modo particolare, ogni giurista-
canonista dovrebbe riflettere, al fine di riscoprire l’originalità del diritto ca-
nonico, superando così l’attuale tentazione di sudditanza a princìpi, a esso
estranei, di «autoasfaltamento», che vanificano una fruttuosa tradizione bi-
millenaria, che ha dato molto anche al diritto secolare.
202

Bruno Esposito

VIRGINIE RIVA

C ONVERTITE
a cura di DANIELA MARIN - ELEONORA SALVADORI
Pisa, ETS, 2020, 188, € 17,00.

Virginie Riva, giornalista per Europe 1, corrispondente a Roma dal


2014 al 2017, ci offre 11 ritratti di donne francesi convertite all’islam
o, secondo la corretta terminologia religiosa, «ritornate» all’islam. Sono
donne tra i 26 e i 38 anni, tutte esercitanti una professione, per lo più
socio-sanitaria. I percorsi sono inevitabilmente diversi, originali, persino
divergenti tra loro.
Per Assia (laurea magistrale e conversione per amore), la posizione della
donna nell’islam è non solo protetta, ma addirittura privilegiata. C’è chi vive
problemi di integrazione a causa del proprio nubilato. Perrine, sposata con
un convertito, ha interiorizzato le norme (non mangia halal), perché secon-
do lei nell’islam è l’intenzione che conta: occorre essere umili di fronte a Dio
e alla propria fede. Cécile Naima, insegnante di musica, è diventata sufi in
nome di un islam interiore, pacifico e mistico. Claire, psicologa e femmini-
sta, non ha cambiato il suo nome natale con un altro da convertita.
Molteplici sono gli elementi di fascinazione che hanno condotto le pro-
tagoniste, spesso provenienti da una regolare educazione cattolica, alla sha-
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

hadah, la professione di fede ufficiale, sobria nel rito ed essenziale nell’enun-


ciazione (un solo Dio e Mohammed come profeta). Si tratta a volte della
preferenza per un monoteismo conciso rispetto al dogma trinitario, oppure
vi è l’esigenza di una convivialità più stretta, partecipata, affettuosa, scandita
dalle cinque preghiere giornaliere, la prosternazione, le abluzioni, l’impe-
gnativo ma coinvolgente ramadan, le prescrizioni igienico-alimentari.
Talora la conversione si innesta in una sofferta ricerca esistenziale –
spesso conseguente a un lutto –, che oppone valori spirituali alla domi-
nante mentalità materialistica. Un peso importante hanno le esperienze
sentimentali con partner nati in Paesi musulmani e la comprensibile cu-
riosità verso abitudini comportamentali e strutture familiari allargate e
affollate prima sconosciute. Altre volte la spinta decisiva viene dalla soli-
darietà alla causa palestinese, dalla diffidenza verso la tradizione ebraica,
percepita come autoreferenziale, e verso quella cattolica, di cui si lamen-
tano tratti esteriormente clericali. Scatta spesso una reazione orgogliosa
203
verso la semplicistica, scorretta identificazione dell’islam con movimenti
radicali, estremisti o addirittura eversivi.
Nello Stato francese, che difende un rigoroso principio di laicità ed
espunge i simboli religiosi comunitari, la questione del velo (hijab) assu-
me connotati simbolici dipendenti dal contesto. Nascondere il volto non
costituirebbe segno di arretratezza, paura, imposizione servile, deriva spi-
ritualistica o subordinazione al genere maschile, ma coraggiosa figura di
resistenza a una cultura dell’ostentazione pubblicitaria, al voyeurismo im-
pudico, al cedimento conformista delle mode.
Queste donne hanno accettato di essere intervistate e di esporre dif-
ficoltà e gioie della loro vocazione, che è tuttora in evoluzione. La donna
che pratica una delle religioni del Libro non ha alcun obbligo di conver-
tirsi per sposarsi con matrimonio religioso, e forse ciò propizia un per-
corso spirituale più sincero, in cui la tradizione del diritto occidentale non
è affatto demonizzata o censurata, ma si integra con l’istanza islamica di
un nuovo stile di vita. La difesa della laicità statale è motivata anche dalla
consapevolezza che numerosi convertiti al cattolicesimo in terre musul-
mane non possono vivere pacificamente la propria fede.
«Forse alcune abbandoneranno un giorno l’islam, in modo particolare
a causa del loro isolamento, altre progrediranno nella fede e nell’impegno
politico» (p. 22). Per ora queste donne, che vivono difficoltà di integrazione
sia in ambito musulmano sia francese, hanno trovato nell’islam due cose:
una comunità e una spiritualità.

Paolo Cattorini
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

FABRIZIO MANDREOLI

G IUSEPPE DOSSETTI
Bologna, EDB, 2020,
152, € 13,50.

La letteratura su don Giuseppe Dossetti (1913-96) – quella prodotta


da storici e studiosi e quella di rilievo divulgativo – è ampia e di gran
pregio, e uno sguardo alla «Bibliografia essenziale» lo conferma. Fabrizio
Mandreoli, presbitero, docente di Teologia fondamentale alla Facoltà Te-
ologica dell’Emilia Romagna, traccia un profilo limpido dell’uomo e del
cristiano, una sintesi ragionata del suo pensiero e della sua opera.
Il giurista (professore e cultore appassionato di diritto canonico), il
politico (costituente, deputato, vicesegretario della Dc, ispiratore di un
gruppo di cattolici democratici, ricchi di entusiasmo: si pensi ai «pro-
fessorini», alla «comunità del porcellino» di via della Chiesa Nuova in
204
Roma, a La Pira, Fanfani, Lazzati ecc.), l’antifascista (impegnato nella
Resistenza), l’intellettuale e il promotore di straordinarie iniziative cul-
turali, il sacerdote, il religioso (fondatore della Piccola Famiglia dell’An-
nunziata), tutti questi sono aspetti di una vita che si intrecciano in una
tensione incessante alla trascendenza e alla giustizia.
Dossetti lascia la politica e vi ritorna quando il card. Lercaro lo invita
a candidarsi come capolista della Dc nelle elezioni comunali del 1956.
Vive a lungo in Terra Santa, assorto nella preghiera e negli studi (sul
dialogo tra le religioni, sull’ecumenismo, su pace e guerra, sulla povertà,
sui segni dei tempi). È di nuovo presente sulla scena pubblica italiana
quando, in seguito alle elezioni politiche del marzo 1994, si accorge che
la Costituzione potrebbe correre qualche pericolo. Avverte altresì con
intima sofferenza l’attacco alla stessa unità dello Stato insito in ambigue
proposte della Lega Nord.
Nelle pagine di questo libro si coglie il respiro ampio di una storia
fatta di molteplici eventi e aneliti, soprattutto di vita interiore, di aspira-
zione alla coerenza e alla solidarietà, di dialogo (nella società, nella lotta
politica, nella Chiesa). Lo stesso difficile rapporto con De Gasperi nasce
e si sviluppa sul piano di un cattolicesimo non clericale, che precorre il
Concilio e lo spirito delle sue conquiste: è il suo cattolicesimo, ma anche
quello di politici, pensatori e militanti che, in piena consonanza con l’in-
segnamento biblico, mettono al centro della propria azione la persona,
immagine di Dio.

Francesco Pistoia
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

DIETMAR MIETH

S CEGLIERE LA PROPRIA FINE?


LA VOLONTÀ E LA DIGNITÀ DEI MORENTI
Brescia, Queriniana, 2020, 208, € 23,00.

Dietmar Mieth, oltre ad aver insegnato a lungo teologia morale a Fribur-


go e a Tubinga, è stato anche membro della Commissione etica dell’Unione
Europea e ha partecipato in qualità di esperto ai lavori della Commissione del
Parlamento tedesco su «Etica e diritto nella medicina moderna». In questo
libro affronta il tema delicato e complesso del fine vita, prendendo in consi-
derazione le molteplici prospettive in gioco (giuridiche, mediche, filosofiche
e teologiche) e cercando, come recita il sottotitolo, di chiarificare i termini
della questione: dignità, volontà, autodeterminazione, qualità della vita, ruolo
del medico, decisione dei familiari, liceità legislativa.
A questi termini se ne affiancano altri altrettanto importanti (come ad
205
esempio, suicidio medicalmente assistito, eutanasia attiva e passiva, medi-
cina palliativa, accompagnamento alla morte del paziente), che richiedono
un’attenta chiarificazione per non incorrere in pericolosi equivoci, soprat-
tutto nel momento in cui uno di essi viene isolato dagli altri e assolutizzato
per porsi a norma esclusiva.
«Un sofferente, un morente è in grado di prendere decisioni nette – non si
pentirà della sua risoluzione, nel momento in cui l’iter risulti ormai irreversi-
bile? La prognosi del medico è certa nel senso di una sicurezza matematica? E
come ci si può cautelare, anche dal punto di vista legale, rispetto al passaggio
da un omicidio su richiesta a un omicidio senza richiesta?» (p. 106). Oltre a un
impoverimento delle possibilità in gioco in queste situazioni estreme, emerge
il grave rischio di prestare il fianco a derive autoritarie che fanno di un caso
una regola impositiva per altri.
La dimensione teologica dell’essere umano è un criterio fondamentale
per la giustificazione della sua dignità. L’A. la rilegge in funzione a quell’es-
sere «immagine» che lo caratterizza in maniera indelebile: un’immagine che
rimanda ad altre immagini chiamate a svelarne la ricchezza di significati,
guardandosi da ogni tentativo di reificazione. Degne di nota sono anche le
osservazioni circa la distinzione tra eutanasia attiva e passiva, la possibile co-
dificazione etico-giuridica di tali situazioni e l’apporto medico e dei familiari
in tali drammatiche situazioni.
Al termine di tale excursus, l’A. ribadisce, in sede filosofica, la distinzione,
posta da Max Scheler, tra valore e urgenza di valore; per questo «l’urgenza
della conservazione in vita deve sopravanzare il ruolo superiore di una libertà
manifestata in una disposizione anticipata» (p. 195). Riafferma il principio che
il valore della persona non dipende dall’efficienza delle sue prestazioni.
L’etica professionale medica non può essere intesa come un «meccani-
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

smo esecutivo di una volontà che non si manifesta in forma attuale» (p. 196),
ma piuttosto dev’essere sempre attenta a comprendere la volontà del malato,
anche quando questa non si manifesta verbalmente. Nello stesso tempo va
tenuto presente che il principio di autodeterminazione non esime il personale
medico dalle proprie responsabilità: il rapporto medico-paziente è sempre
un incontro tra due volontà, e rimane oggetto di una considerazione etica
che non può mai perdere il suo carattere di unicità e irriducibilità alla mera
applicazione di una norma.
Una visione di fede cristiana fornisce ulteriori criteri e pone la questione
vita-morte in un contesto di relazione che «non può essere semplicemente
modellato secondo “volontà e rappresentazione” [...]. L’essere nelle mani di
Dio non si realizza solo attraverso la propria volontà, ma anche attraverso il
poter fare di altri esseri umani» (p. 199). Una forma di collaborazione che non
rinnega la propria impotenza può diventare un aiuto prezioso a chi affronta
il momento così difficile, e insieme prezioso, della preparazione all’incontro
206
con l’Autore della vita.
L’edizione italiana presenta una corposa prefazione (pp. 5-39) di Luciano
Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università cattolica del Sacro Cuore di
Milano, che mostra in maniera accurata la legislazione italiana in merito alle
possibili opzioni e risvolti in sede etica e penale circa il momento terminale
della vita.

Betty Varghese
OPERE PERVENUTE

ARTE SANTORO F. - ZAVATTARO F.,


Consumare la suola delle scarpe. Libro intervista,
Italian (The) Legacy in the Dominican Republic. Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2021, 192,
History, Architecture, Economics and Society € 18,00.
(A. CANEPARI), Philadelphia, PA, Saint Joseph’s
University Press, 2021, 538, $ 50,00.
VITORIA M. A., Michelangelo. L’uomo & POLITICA
l’artista fuori del cliché, Milano, Ares, 2021, 248, CAMPANINI G., Guido Gonella. La
€ 18,00. passione per la libertà, Roma, Studium, 2021, 128,
€ 13,00.
ECCLESIOLOGIA MURMURA A., Un galateo per la politica.
Interventi parlamentari, articoli, saggi e altri scritti
MARCHETTO A., Ancora sul Vaticano II. (1954-2014) (F. CAMPENNÌ), Roma, Edizioni
Studi storici ed ermeneutici in tempo di lockdown, Progetto Cultura, 2020, 890, € 39,00.
Venezia, Marcianum, 2021, 160, € 16,00.
MURRI R., De Regimine Ecclesiae
(P. PETRUZZI), Fermo, Andrea Livi, 2021, 82, SOCIOLOGIA
€ 16,00. FERRARESI M., Solitudine. Il male oscuro
delle società occidentali, Torino, Einaudi, 2020,
LETTERATURA 228, € 17,00.
RIPAMONTI C., La trappola del virus.
BURCKHARDT C. J., Hugo von Diritti, emarginazione e migranti ai tempi della
Hofmannsthal. Ricordi & Incontri, Roma, Apeiron, pandemia, Milano, Edizioni Terra Santa, 2021,
2021, 128, € 9,50. 112, 13,00.
GIORDANO A., Mio Giudice, Milano,
Mursia, 2021, 308, € 17,00.
RICORDI F., Filosofia della Commedia di SPIRITUALITÀ
Dante. La luce moderna e contemporanea del nostro BARNES M., Ignatian Spirituality &
più grande Poeta, 3 voll., Milano, Mimesis, 2021, Interreligious Dialogue. Reading Love’s Mystery,
494; 494; 574, € 28,00 (ciascun volume). Dublino, Messenger, 2021, 280, € 24,95.
ZONTINI A., La bella indifferenza, Firenze, MAGNO V., Pensieri ai bordi della notte.
Bompiani, 2021, 254, € 17,00. Meditazioni dal programma «Ascolta si fa sera» di Rai
Radio Uno, Cantalupa (To), Effatà, 2021, 128,
MASS MEDIA € 12,00.
MESSORI V., Dicono che è risorto.
BENANTI P., La grande invenzione. Il Un’indagine sul sepolcro vuoto di Gesù, Milano,
linguaggio come tecnologia dalle pitture rupestri al Ares, 2021, 416, € 19,90.
GPT-3, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2021, VANHOYE A., Il sangue dell’alleanza.
256, € 19,00. Esercizi spirituali sulla vita eucaristica, Cini-
sello Balsamo (Mi), San Paolo, 2021, 208,
€ 18,00.
PASTORALE
FAURE E., Sinfonia dell’umiltà. La vita
spirituale con i monaci dei primi secoli, Magnano
VARIE
(Bi), Qiqajon, 2021, 176, € 18,00. BENAZZI N., Guida ai miracoli d’Italia. Da
JOACHIN A., La pédophilie: le scandale Nord a Sud, alla scoperta dei luoghi e dei protagonisti
d’une paternité brisée, Paris, Cerf, 2021, 330, dei miracoli del nostro Paese, Milano, Rizzoli, 2021,
€ 26,00. 320, € 15,90.
MANCONI L. - PAGLIA V., Il senso CASTO L., Storia della Santità in Piemonte e
della vita. Conversazioni tra un religioso e un poco Valle d’Aosta, Cantalupa (To), Effatà, 2021, 416,
credente, Torino, Einaudi, 2021, 192, € 16,50. € 25,00.

NOTA. Non è possibile dar conto delle molte opere che ci pervengono. Ne diamo intanto un annuncio
sommario, che non comporta alcun giudizio, e ci riserviamo di tornarvi sopra secondo le possibilità e lo
spazio disponibile.
BEATUS POPULUS, CUIUS DOMINUS DEUS EIUS

RIV ISTA INTERNAZIONALE DEI GESUITI

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