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LA SCIENZA NUOVA DI GIAMBATTISTA

VICO
Il pensiero vichiano, accolto con moderato entusiasmo nell’ambiente intellettuale
napoletano, rimane pressoché sconosciuto altrove, perché appare in contraddizione
con la cultura razionalistica dell’epoca, e perché la sua rivalutazione del mondo
fantastico e di una poesia “barbara” contrasta con l’ideale estetico del “buon gusto”
proprio di molti suoi contemporanei (ad esempio, il Muratori). All’inizio
dell’Ottocento il pensiero di Vico filtra all’interno della cultura romantica italiana e
conosce una stagione di grande fortuna critica che apre la strada a numerose
interpretazioni e riletture della Scienza nuova (Foscolo, De Sanctis, Croce).
La Scienza nuova appare in tre edizioni nel 1725, nel 1730 e nel 1744; quella
definitiva è composta da cinque libri, preceduti da una Idea dell’opera, che vuol
essere una breve sintesi chiarificatrice. Il primo libro (Dello stabilimento de’ princìpi)
fissa una cronologia dell’antichità e stabilisce le premesse filosofiche del lavoro; il
secondo (Della sapienza poetica) ha per oggetto la morale, la religione, le concezioni
del mondo e del cosmo dell’età primitiva; il terzo (Della discoverta del vero Omero)
contiene l’interpretazione dell’Iliade e dell’Odissea e tende a dimostrare che la civiltà
greca ha avuto in Omero il cardine e la più alta testimonianza poetica; il quarto (Del
corso che fanno le nazioni) indaga le leggi della storia e spiega il meccanismo con il
quale le varie età si susseguono; infine il quinto (Del ricorso delle cose umane nel
risurgere che fanno le nazioni) illustra la teoria dei “ricorsi storici”. Di particolare
interesse, per le ripercussioni che avranno sulla cultura dell’epoca successiva, sono i
libri dal secondo al quinto.
I princìpi basilari del pensiero vichiano sono svolti in formulazioni sintetiche che
l’autore stesso indica con il termine di “degnità”.
Il Vico pone al centro della sua ricerca e della sua riflessione la storia, coerentemente
all’indirizzo culturale del Settecento che ha un interesse costante e spiccato per
questo tipo di studi. Egli però sviluppa la sua analisi in modo del tutto personale,
poiché non si limita a scrivere di storia, ma la interpreta e parte da essa per giungere
alla filosofia. Il suo studio della storia si basa sull’integrazione tra due discipline: la
filologia, che consente di accertare i fatti particolari seguendo un metodo scientifico;
e la filosofia, che è la ricerca del vero e delle leggi generali alle quali i singoli eventi
possono essere ricondotti.
Partendo dal presupposto che il solo oggetto del quale l’uomo può raggiungere una
conoscenza vera è ciò di cui è artefice, perché solo di ciò possiede la nozione diretta,
egli sostiene che la storia è l’unica scienza possibile; infatti, essa è opera concreta
dell’uomo, anzi, è l’espressione stessa della civiltà umana, e in tal senso va letta e
interpretata. Non ha fondamento, invece, cercare di comprendere la storia ricorrendo
a formule astratte di carattere generale.
Secondo il Vico, la storia procede in base ad una serie di corsi e di ricorsi, che si
ripetono ciclicamente. Lo sviluppo del mondo avviene secondo uno schema suddiviso
in tre fasi, ed è analogo a quello che ha luogo nella vita dei singoli individui.
Nell’uomo si succedono l’infanzia, l’adolescenza e la maturità; nel mondo, l’istinto o
senso, la fantasia e il raziocinio. Ad ognuna di queste fasi corrisponde un’età della
storia: l’età degli dèi, degli eroi e degli uomini. “Gli uomini prima sentono senza
avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente
riflettono con mente pura”. Giunta alla sua maturità, ovvero al raziocinio, la storia ha
compiuto un intero corso. Subentra allora una fase di decadenza, dalla quale poi la
storia risorge seguendo il medesimo schema: si ha dunque il ricorso. Un esempio di
questo andamento ciclico è il Medioevo, che il Vico indica come momento di
“barbarie seconda” o “ritornata”, dopo la barbarie degli uomini primitivi.
Nell’evoluzione della storia, il Vico attribuisce un valore determinante al momento
fantastico o poetico. Secondo l’autore, fantasia e poesia tendono a coincidere; la
poesia infatti è una forma importantissima di conoscenza attraverso l’immaginazione.
Prima di pensare scientificamente, l’uomo pensa grazie alla fantasia, attraverso
immagini che, pur non essendo più soltanto sensazioni, non sono ancora concetti. La
fantasia infatti è formata da “sensi di passioni e d’affetti”, diversamente dalla
filosofia, che nasce dalla “riflessione con raziocinii”. Il sentire fantastico è presente
nella storia come nel singolo individuo; infatti è sia una facoltà propria della
fanciullezza, sia un’espressione spontanea degli uomini primitivi, che sono “i
fanciulli del genere umano”.
Quando distingue in modo limpido e netto l’attività fantastica e poetica dal
ragionamento logico, il Vico nega implicitamente la teoria che assegna all’arte una
funzione di insegnamento morale, filosofico o religioso, sia pure in forma piacevole;
e insieme respinge l’idea che la poesia rappresenti un’attività secondaria, se non
inutile, affermando l’intrinseca necessità della sua esistenza, perché il mondo della
ragione non sarebbe mai nato se le intuizioni prelogiche della poesia non lo avessero
preceduto. Il riconoscimento di questa prima tappa fondamentale nella storia degli
esseri umani porta il Vico a dare un senso nuovissimo al patrimonio delle favole e
alla mitologia – che per lui è storia vera, l’unica forma di storia che i popoli primitivi
hanno saputo tramandare di sé – e a rivalutare quindi la poesia omerica e dantesca
come trionfo dell’istinto e della fantasia.
La “barbarie” di Omero e di Dante non è un elemento negativo, bensì il frutto di quel
momento fantastico che non può essere né sottomesso né spiegato dalle leggi della
ragione. Le pagine che il Vico dedica ai due poeti, ricche di osservazioni penetranti,
vibrano di un entusiasmo per la loro opera che da secoli era affievolito, se non
scomparso.
Anche per quanto concerne il linguaggio, il Vico espone un’ipotesi di grande novità.
Egli ritiene infatti che il linguaggio sia un’espressione naturale, sorta come risposta
all’esigenza degli uomini, originariamente muti, di comunicare tra loro in modo più
ampio e articolato di quanto consentissero i cenni e i gesti. Ogni linguaggio ha
caratteri specifici; essi mutano da luogo a luogo e da popolo a popolo, poiché ogni
popolo ha necessità diverse e attribuisce valori diversi alle cose. Ma in ogni parte del
mondo il linguaggio e la poesia sono elementi affini, che tendono a identificarsi,
poiché nascono ambedue dalla fantasia. Con questa ipotesi, il Vico respinge
contemporaneamente e la teoria che la lingua sia di origine divina, e quella cosiddetta
convenzionalistica, secondo la quale gli uomini avrebbero stipulato fra loro una
specie di patto, accettando di usare, per convenzione appunto, parole create e
proposte da persone dotte o alle quali fosse riconosciuta una qualche autorità. Nelle
argomentazioni del Vico sembra di sentire l’eco di un altro grande pensatore e poeta,
quel Lucrezio che ha esercitato su di lui una fortissima influenza, e che aveva
espresso sulla questione posizioni molto simili.
Le teorie vichiane vengono diffuse a Milano sul finire del Settecento grazie ai
napoletani Vincenzo Cuoco (1770-1823) e Francesco Lomonaco (1772-1810), che si
erano rifugiati nella città lombarda dopo il fallimento della congiura antiborbonica
del 1799. Tali teorie si intrecciano con alcuni elementi della cultura illuministica,
ancora forte in Lombardia, e influenzano il Romanticismo nascente, che sente
congeniali alle proprie idee le intuizioni sul carattere autonomo della fantasia e della
poesia e il recupero del patrimonio culturale passato e della tradizione popolare.
Il primo grande poeta italiano che si accosta al Vico è Ugo Foscolo, che in particolare
nei Sepolcri si riallaccia alle sue osservazioni sull’origine della società civile e
riprende l’idea dei corsi e dei ricorsi storici. In seguito la conoscenza e
l’apprezzamento del Vico si ampliano e si diffondono in tutta Europa, mentre in Italia
Francesco De Sanctis lo considera un precursore delle più moderne chiavi di lettura
della storia. Ma la definitiva consacrazione del Vico si ha nel Novecento, con
Benedetto Croce, che esalta soprattutto la portata rivoluzionaria dell’interpretazione
vichiana della poesia e dell’arte. Secondo il Croce, infatti, Giambattista Vico ha
liberato l’idea di poesia da qualunque funzione pratica, logica o morale, restituendole
una piena autonomia rispetto alla filosofia e alla religione.
Il pensiero vichiano ha sempre offerto agli studiosi motivi di confronto e discussione,
per la presenza di aspetti contraddittori, che giustificano interpretazioni diverse.
Infatti, il Vico accompagna alcune intuizioni geniali, che anticipano gli orientamenti
del pensiero moderno, a elementi di conservazione e di vera e propria arretratezza. La
sua cultura classica e umanistica, per lo più da autodidatta, è in contrasto con il gusto
dominante della sua epoca, che tende al nuovo; del resto l’autore non condivide
neppure i presupposti filosofici razionali dei suoi contemporanei, come confermano
le osservazioni polemiche nei confronti del razionalismo cartesiano e della sua
fiducia di poter trovare la verità attraverso procedimenti astratti e dimostrazioni
matematiche. Tuttavia, molte scelte del Vico non si spiegherebbero senza tener conto
proprio dell’ambiente dal quale egli prende dichiaratamente le distanze.
Un primo esempio di contraddizione è il modo in cui il Vico analizza la storia. Il
richiamo al valore della storia come unico possibile oggetto di vera conoscenza,
l’integrazione costante tra questa e la filosofia, il ricorso alla nozione di filologia
come metodo di indagine scientifica sono tutti elementi di grande originalità; grazie
ad essi il Vico è davvero il creatore di quella “nuova scienza”, ossia la storia, alla
quale allude il titolo dell’opera. Essa è “nuova” perché per la prima volta si ritiene
che possa e debba essere oggetto di uno studio concreto, come concreta è la sua
natura di opera compiuta dagli uomini. Ma questo geniale pensatore, che sa cogliere
con singolare lucidità lo stretto legame tra la storia e l’uomo, ha però anche la
convinzione che la realtà dipenda direttamente da Dio, che la governa con il criterio
di una Provvidenza superiore e imperscrutabile.
Analogamente, egli riscatta e nobilita l’elemento fantastico, non razionale, e gli
attribuisce un ruolo essenziale nello sviluppo della civiltà; tuttavia, anche nella
fantasia egli vede un’espressione del volere divino e quindi della Provvidenza, e in
ciò ha un’affinità ormai anacronistica con le dottrine della Controriforma e dei
pensatori cattolici del Seicento.
Anche l’interpretazione della storia della civiltà umana come un continuo succedersi
di corsi e ricorsi ha un fondo di ambiguità: essa implica l’idea che l’uomo sia
protagonista di un processo di conoscenza e di affinamento costante, faticoso e quasi
eroico, che lo conduce a trasformarsi da “bestione tutto stupore e ferocia” in
individuo dell’età della “ragione tutta spiegata”. D’altra parte il processo è destinato a
interrompersi, a ricominciare e a ripetersi ciclicamente, il che equivale ad ammettere
che ogni conquista della ragione umana contiene le premesse della propria fine,
poiché non può superare un certo limite. L’uomo infatti non possiede i mezzi per
raggiungere la perfezione, che è propria solo di Dio.
Sembra invece da escludere che il Vico consideri il momento poetico una forma di
conoscenza inferiore rispetto a quella filosofica, come fanno, ad esempio, altri
pensatori del Settecento, tra i quali il Gravina. Infatti, lo studioso napoletano assegna
alla conoscenza poetica un ruolo insostituibile, anche se essa costituisce la prima fase
nello sviluppo della civiltà.

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