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L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.

Il rapporto tra potere, arte e scienza


ANPI – Sezione “Ugo Forno” Istituto Superiore di Sanità
31 maggio 2011

Lo spirito dell’art.33 della Costituzione e il riordino del sistema di


ricerca e formazione in Italia
V. F. Polcaro
INAF

Gli articoli 33 e 34 (strettamente collegati tra loro) della nostra Costituzione recitano:

Articolo 33

L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e
gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve
assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli
alunni di scuole statali.

È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione
di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi
nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

Articolo 34

La scuola è aperta a tutti.

L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli
studi.

La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso
Questi articoli sanciscono quindi il diritto inalienabile di ogni cittadino italiano all’istruzione di
base, obbligatoria per almeno otto anni (si noti l’avverbio “almeno”, inserito appositamente per
permettere di aumentare in futuro la durata della scuola dell’obbligo), il diritto dei “capaci e
meritevoli, anche se privi di mezzi” ad accedere all’istruzione fino ai massimi livelli e l’obbligo per
lo Stato di rendere “effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. Essi sanciscono anche il diritto della
società italiana a potere usufruire di una ricerca libera, condotta da istituzioni (università, enti di
ricerca) che, per svolgere il loro compito, hanno il diritto “di darsi ordinamenti autonomi nei limiti
stabiliti dalle leggi dello Stato”.
A mia conoscenza, nessuna altra Costituzione (e meno che mai la deludente bozza di Costituzione
Europea, per altro ormai giustamente accantonata) è così precisa riguardo all’istruzione, alla scienza
ed alla cultura. Ci possiamo quindi chiedere il perché di questa straordinaria differenza.
Certamente, è noto a tutti che la libertà accademica, come ogni libertà di pensiero, aveva subito
pesantissimi condizionamenti durante il fascismo: basti pensare all’obbligo di giuramento di fedeltà
al regime del 1931 ed all’allontanamento dalle scuole e dalle università dei docenti e degli studenti
ebrei a seguito delle “Leggi razziali” del 1938. E’ quindi logico che i Costituenti abbiano voluto
inserire una norma che garantisse l’effettivo esercizio della libertà accademica, anche perché
l’esperienza del passato mostrava chiaramente che scuola, università e ricerca non erano, da sole, in
grado di garantirsi questa libertà. Infatti, solo 12 docenti universitari avevano rifiutato il giuramento
del 1931 (vedi ad esempio, Boatti, 2001) e nell’università pochissime voci si erano, flebilmente,
levate contro le leggi razziali del 1938, mentre invece non pochi cattedratici, anche illustri, le
avevano al momento lodate e giustificate, salvo poi condannarle a Liberazione avvenuta (vedi ad
esempio Israel e Natali, 1998; Israel, 2010). Nel CNR, poi, l’adesione all’ideologia dominante era
stata tale che erano stati gli stessi ricercatori a darsi obiettivi in linea con il programma fascista di
autarchia nazionale, anche in assenza di indicazioni precise su quale dovessero essere il fine e le
attività dell’Ente da parte del governo fascista e della direzione distratta di Marconi (Paoloni &
Simili, 2008). Per inciso, ciò dimostra che sono vecchi vizi da un lato quello dei governi e dei
presidenti quello di considerare gli enti di ricerca solo come fiori all’occhiello e non come strumenti
per lo sviluppo culturale ed economico del Paese e dall’altro quello dei ricercatori a cercare “di
legar l’asino come vuole il padrone”, anche se il padrone di turno non lo chiede esplicitamente.
Tuttavia, il bisogno di evitare per il futuro condizionamenti alla libertà accademica non spiega il
dettaglio nel quale scendono i due articoli, in particolare riguardo alla scuola.
Questo è un effetto di quella straordinaria sintesi del pensiero marxista, cattolico e liberal-
democratico che, dopo il ventennio fascista ed a seguito della Resistenza, ha prodotto la nostra
Legge Fondamentale. Questi due articoli, infatti, sono l’esito di una lunga mediazione che vide da
una parte Marchesi e Togliatti, dall’altra Dossetti e Fanfani.
Per essere precisi, la struttura di base di questi due articoli è di Concetto Marchesi mentre di
Dossetti sono quattro inserimenti: al primo comma dell’Art.33 “e libero ne è l’insegnamento” , il
terzo comma “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di istruzione”, al quale poi
Togliatti aggiunse “senza oneri per lo stato” e il quarto comma, nel quale Marchesi però sostituì il
termine “equipollente” al più forte “uguale”, presente nella versione originale di Dossetti, riguardo
al trattamento dovuto agli alunni delle scuole non statali che chiedono la parità. Il ruolo di Fanfani
fu invece prevalentemente quello di convincere la maggioranza della Democrazia Cristiana ad
accettare la mediazione ottenuta da Dossetti, che il partito giudicava “troppo filo-comunista”.
In questo modo, si risolse l’opposizione ai due articoli dell’ala più conservatrice della Costituente,
che non voleva che la materia fosse oggetto della Legge Fondamentale e voleva che fosse invece
demandata (come in quasi tutte le altre nazioni occidentali) alla legge ordinaria e quindi agli
equilibri politici del momento.
Grazie a questa formulazione perciò l’istruzione e la scienza non sono servizi pubblici, come il
servizio sanitario, ma istituzioni, come la magistratura, e i relativi principi fondamentali, essendo
enunciati in questi articoli della prima parte della Costituzione, che è immodificabile, non possono
essere cambiati, neppure con una Legge Costituzionale.
Tuttavia, questi articoli della Costituzione non hanno avuto quell’impatto sulla società italiana che i
Costituenti desideravano, perché le leggi che ne dovevano dare attuazione sono arrivate con grande
ritardo e spesso hanno dato di questi articoli un’interpretazione quanto meno opinabile.
Certamente, la prima fase della storia repubblicana ha effettivamente visto un effettivo sforzo per lo
sviluppo della scolarizzazione di base e per “istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi”.
Negli anni 60-70, si introdussero inoltre nel nostro sistema formativo alcuni elementi di
democrazia, che ponevano come asse del sistema l'utilità sociale del pensiero critico. In particolare,
il movimento operaio impose nel 1962 la scuola media unica e l'obbligo a 14 anni: queste (insieme
alla nazionalizzazione della produzione di energia elettrica) furono anzi le uniche condizioni
rispettate dell’accordo che, dopo la triste vicenda del governo Tambroni, portò il PSI a partecipare
al governo.
Tuttavia, l’ambiguità del terzo comma dell’Articolo 33, dovuta al fatto che non è evidente se
l’inciso “senza oneri per lo stato” si riferisca solo all’istituzione o anche al funzionamento delle
scuole istituite da “enti e privati”, ha fatto sì che riguardo al finanziamento pubblico alle scuole
private i diversi governi che si sono succeduti dal 1946 in poi abbiano quasi tutti agevolato
finanziariamente, in misura maggiore o minore, le scuole private. Bisogna comunque anche dire che
questi finanziamenti hanno per lungo tempo costituito più un problema ideologico che pratico, dato
che la loro entità, fino agli ’90 del XX secolo, è stata trascurabile rispetto a quella dei finanziamenti
alla scuola pubblica.
Diverso è stato il caso dell’università. E’ ormai passato quasi mezzo secolo dalle prime proposte di
riforma della struttura dell’università italiana, che era nata dalla “Legge Gentile” del 1924.
Certamente, quell’università era una struttura “di eccellenza”, come provano i grandi risultati
ottenuti dalla scienza italiana tra le due guerre prima e negli anni ’50-’60 dopo (basti pensare alla
scuola di Enrico Fermi per la fisica, a quella di Giuseppe Levi per la biologia, di Natta per la
chimica, di Bovet per la farmacologia, di Bianchi Bandinelli per l’archeologia ed a molti altri).
Però, è altrettanto certo che si trattava di una struttura intrinsecamente classista, che riservava la
formazione universitaria solo ad una ristretta élite sociale e che quindi non rispettava certo il
mandato dell’Art. 33 della Costituzione della Repubblica. La stagione delle lotte del ’68-’69 fece
saltare, una volta e per sempre, quella struttura, il cui fondamento era “il barone”, il docente
padrone assoluto del suo ambito disciplinare, non soggetto ad alcuna valutazione né possibilità di
critica del suo operato, capace perciò di ottenere grandi risultati quando si trattava di una personalità
scientifica di alto livello ma anche di produrre disastri quando non lo era. In particolare, il
movimento studentesco del 68-69 impose la liberalizzazione degli accessi all'Università ed il
ringiovanimento del corpo docente, sia scolastico sia universitario con i corsi abilitanti e la L.
382/80. Bisogna notare che la tanto diffamata Legge 382/80 non era una brutta legge, anche se non
era certo un provvedimento definitivo per l’attuazione dell’Art. 33. Infatti, pur senza mutare lo
status dei professori ordinari, inquadrava i professori incaricati (inclusi gli assistenti di ruolo che
svolgevano ufficialmente corsi) nella nuova fascia dei “professori associati” e gli assistenti di ruolo
senza incarico come “ricercatori”, personale che non avrebbe dovuto svolgere funzioni didattiche
ma solo di ricerca, e sanciva la presenza di tutte le fasce della docenza e quella, anche se limitata,
degli studenti e del personale non docente negli organi di governo universitario. La Legge 382/80
prevedeva inoltre concorsi per l’accesso ad ognuna delle tre fascie della docenza, sia per il
personale interno che per gli esterni, da svolgersi ogni due anni: questa norma però non fu mai
rispettata, prima per i ritardi nella prima applicazione della legge (che divenne pienamente operativa
solo nel 1986), poi per la riforma del 1989 che, con l’”autonomia finanziaria” (gabellata come
attuativa del principio di autonomia ordinamentale di università ed istituzioni di alta cultura, ma in
realtà il primo passo verso la privatizzazione di queste istituzioni), affidava la gestione dei concorsi
ai singoli atenei. Così, negli ultimi 20 anni il numero totale dei docenti di ruolo è rimasto
sostanzialmente costante, mentre il numero degli studenti si è quasi raddoppiato. Invece, è
enormemente aumentato, soprattutto dopo l’introduzione della autonomia didattica degli atenei
(Riforma “Berlinguer – Zecchino” del 1999) il numero di docenti a contratto annuale1 e soprattutto
quello dei ricercatori che volontariamente accettavano di divenire titolari di un corso 2 (Brandi,
2011). Come conseguenza, il numero medio di studenti per docente di ruolo si è costantemente
mantenuto tra i più bassi tra i paesi più industrializzati: ciò ha generato i “numeri chiusi” e le inutili
lezioni di un singolo docente a platee di centinaia e centinaia di studenti, con i quali non può avere
alcuna interazione diretta e questa è stata probabilmente la più grave violazione della norma
costituzionale che prevedeva il diritto dei “capaci e meritevoli” ad accedere ai livelli più alti
dell’istruzione (Mordenti, 2010).
Il sistema che ha funzionato per gli ultimi venti anni del Novecento è stato quindi un sistema
compromissorio e incompleto, debole per questo motivo intrinseco, e debole per una fondamentale
ragione di ordine storico-sociale. Nonostante alcuni risultati non disprezzabili sul piano della
diffusione della cultura e delle competenze, il movimento di democratizzazione interno a scuola e
università non è infatti riuscito a incontrarsi e a intrecciarsi, in modo sostanziale e irreversibile, con
le forze del lavoro. La classe operaia ha vissuto solo occasionalmente, ad esempio con la forte ma
isolata esperienza delle 150 ore, la democratizzazione della scuola, e soprattutto quella
dell'università, come una cosa propria, come un momento della propria valorizzazione in quanto
forza produttiva e di direzione della società.
E’ questo un motivo non secondario della insufficiente risposta da parte del mondo del lavoro
all’aggressione di stampo liberista che è in atto, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, nei
confronti del sistema formativo. Secondo il paradigma liberista, il sapere va infatti considerato
soltanto come fattore di produzione e l’attribuzione di un contenuto intellettuale al lavoro
rappresenta un costo da ottimizzare. Questo modello però non è solo incostituzionale ed ingiusto ma
anche fondamentalmente sbagliato perché il sapere non è una merce ma un bene comune, che dalla
condivisione accresce e non diminuisce il suo valore (vedi ad es. Polcaro e Martocchia, 2010).
Perciò, intervenire sulle università e sugli Enti di Ricerca per farli diventare "imprese" significa
distruggerli. E’ questo il motivo per il quale le “riforme” degli enti di ricerca degli ultimi venti anni
hanno prodotto quasi esclusivamente guasti ed il “processo di Bologna” mostra la corda in tutte le
nazioni coinvolte: essi vogliono infatti condizionare il processo di sviluppo del sapere e di alta
formazione alle esigenze del "mercato", cioè in pratica alla creazione di risorse e di forza-lavoro
intellettuale finalizzate solo alla struttura economico-sociale esistente, considerata l'unica possibile,
ostacolando quindi qualsiasi prospettiva di progresso.
Tuttavia, mentre i governi di centro-sinistra hanno tentato, anche se con pessimi risultati e molte
contraddizioni, un temperamento fra istanze liberistiche e carattere pubblico del sistema di
produzione e trasmissione del sapere, il governo delle destre ha perseguito, e persegue, invece con
tutta evidenza la distruzione e la privatizzazione di questo sistema. Il progetto è molto chiaro:
smantellare la scuola e l'università pubblica, garantita dalla Costituzione Italiana nata dalla
Resistenza come mezzo per la creazione e la trasmissione della conoscenza come bene comune.
Data la mediocre, non innovativa, natura della grande maggioranza dell’imprenditoria italiana, alle
pretese della quale il governo delle destre è totalmente accondiscendente, l’obiettivo principale
delle cosiddette “riforme” Moratti prima e Gelmini poi della scuola è infatti una sostanziale
riduzione del contenuto intellettuale medio del lavoro, finalizzata a una sostanziale riduzione del
valore medio del lavoro. Una formula non diversa può interpretare le scelte sull’università e sugli
enti di ricerca pubblici, effettuate con la legge 133/08, uno dei primi provvedimenti dell’attuale
governo delle destre. Questa legge prevede infatti per il Fondo di Finanziamento Ordinario delle
scuole, degli enti pubblici di ricerca e delle Università, già abbondantemente ridotto dai precedenti
governi, tagli senza precedenti che stanno producendo un effetto distruttivo: infatti, l’FFO si è

1
Contratti previsti dal DPR 382/80 solo per assicurare la possibilità di svolgere corsi estremamente specialistici per i
quali non fosse disponibile personale di ruolo
2
Si calcola che nell’anno accademico 2009-10, il 40% dei corsi negli atenei italiani sia stato svolto da ricercatori.
ridotto nel 2010 ad un terzo rispetto a quello del 2008. Inoltre è si è dimezzato il finanziamento del
PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale), l’unico strumento che ormai finanzi la ricerca
libera. Quello però che è più grave è la drastica riduzione delle assunzioni, a fronte del basso
rapporto docenti/studenti, del basso rapporto ricercatori/occupati e dell'elevato numero di precari
che lavorano nelle scuole, nelle università e negli enti di ricerca, e la possibilità di trasformazione
degli Atenei in fondazioni private, con la privatizzazione dei rapporti di lavoro, il conferimento dei
beni dell'Università al nuovo soggetto privato e l'indeterminatezza degli organi di gestione degli
Atenei, senza nessuna garanzia per la libertà di ricerca e di insegnamento. Quasi inutile citare
l'inevitabile, forte aumento delle tasse universitarie se gli Atenei diventassero fondazioni, che
provocherebbe una ulteriore selezione classista ed una sostanziale riduzione del diritto all’accesso
sapere. Tutto ciò è stato mitigato solo in apparenza dal successivo Decreto Legge del 7 ottobre
2008. Il governo infatti ha tentato di smobilitare l’imponente movimento che si era sviluppato nei
mesi precedenti attraverso un provvedimento fantoccio in cui, dietro la parvenza di alcune piccole
concessioni, mantiene solido l’impianto regressivo presente nella legge 133, e non ha risposto alla
domanda espressa dal movimento che si è sviluppato nelle scuole e nelle università nell’autunno
2008.
Passato l’effetto mediatico di questo movimento, forte come partecipazione ma debole come
elaborazione e proposta, dopo una imponente campagna di denigrazione di tutta la scuola, la ricerca
e l’università italiana, l’opera distruttiva è stata poi completata con la Legge Gelmini, approvata il
22 dicembre 2010, che mostra chiaramente il disegno eversivo delle destre. Le novità che il governo
prospetta in materia di governance degli atenei sono chiaramente ispirate esclusivamente a una
logica autoritaria e privatistica, tesa a una marcata verticalizzazione del processo di formazione
delle decisioni a discapito dell’autonomia degli atenei. Quanto previsto per la vasta area del
precariato è profondamente iniquo e irrazionale, tale da mettere a repentaglio la funzionalità di
molti Dipartimenti. I tagli alle finanze degli atenei e la nuova normativa per l’accesso alla docenza
preludono all’espulsione in massa dal sistema universitario di persone meritevoli, stimate anche in
ambito internazionale, che da tempo lavorano nell’Università italiana. Al di là della retorica sul
valore strategico della conoscenza e della ricerca, il governo – ostacolando i nuovi accessi,
conservando le vecchie logiche di sottogoverno, che hanno preso il posto del vecchio “baronato” a
partire dagli anni ’80, e non introducendo alcuna misura preventiva contro il malcostume
accademico – pianifica un enorme spreco di risorse finanziarie, impiegate per la formazione di tanti
studiosi ai quali sarà impedito l’accesso ai ruoli dell’Università, e una perdita secca in termini di
capacità, competenza ed esperienza, che rischia di determinare un incolmabile divario tra l’Italia e i
Paesi più avanzati. In più, la Legge Gelmini umilia gli studenti, integrandoli nei nuovi organi di
governo senza alcun potere decisionale, rendendoli così complici di questo sfacelo, e annulla di
fatto il diritto allo studio introducendo il meccanismo dei prestiti d’onore, cioè una forma
legalizzata di indebitamento delle giovani generazioni, e istituendo un fantomatico fondo per il
merito gestito dal Ministero del tesoro ed organizzato “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica”, una porta aperta al progetto nefasto di abolizione del valore legale del titolo di studio.
Queste scelte, per di più operate in un Paese ove il numero di diplomati e laureati fra i più bassi
d’Europa e dove i ricercatori sono spesso costretti ad emigrare, perseguono un preciso disegno
politico: smantellare la scuola la ricerca e l’università pubbliche e statali privandole dei
finanziamenti indispensabili per la loro esistenza, privatizzarle consentendo l’accesso ad
un’istruzione qualificata solo ad una parte minoritaria e più abbiente della popolazione e dare così
basi stabili e durature ad una società senza democrazia, basata sul privilegio, l’ignoranza, la
disuguaglianza.
Esse sono quindi in palese contrasto con la Costituzione.
Alle “riforme” del governo delle destre, l’intero mondo del sapere, studenti, docenti, ricercatori,
precari, si è opposto con forza. Tuttavia, nonostante le grandi mobilitazioni, animate da un diffuso
malessere sociale e da un’angoscia esistenziale di una generazione a cui è stato negato tutto, a
partire dal diritto al futuro sempre più caratterizzato da incertezza, precarietà e disoccupazione, non
possiamo non prendere atto della sconfitta, non essendo stati raggiunti i due principali obbiettivi
che il movimento si era posto: bloccare il ddl Gelmini e mandare a casa il governo. D’altro canto,
non poteva essere altrimenti, dati i rapporti di forza in Parlamento. Tuttavia quel grande movimento
qualcosa di importante ha prodotto, se si considera la grande simpatia che ha suscitato presso
l’opinione pubblica, simpatia che significa una sola cosa: consapevolezza dell’importanza della
scuola, dell’Università e della ricerca pubbliche per il futuro dei giovani, che è poi il futuro del
paese. Quel movimento è arrivato ad un passo dalla vittoria ed ha costretto a rinviare l’approvazione
definitiva della controriforma fino alla vigilia di Natale, sebbene sull’impostazione di fondo del ddl
Gelmini vi fossero convergenze trasversali in Parlamento: sono stati infatti gli studenti, i precari, i
ricercatori ed i docenti ad imporre all’opposizione parlamentare che fino all’esplosione delle
mobilitazioni si era mostrata dialogante con il governo e sostanzialmente concorde con il
provvedimento, ad assumere una posizione di netta opposizione, se non di ostruzionismo.
Ma, quel movimento, più di ogni altra cosa, ha lanciato un messaggio forte e chiaro, quello per cui
la battaglia in difesa dell’istruzione pubblica è battaglia in difesa della Costituzione, non solo di
suoi singoli articoli, come il 33 e 34, ma del suo senso più profondo, e cioè quello per cui tutti i
cittadini partecipino consapevolmente e democraticamente a determinare la politica del Paese.
Alla luce delle considerazioni che precedono, in una fase come l’attuale, in cui il movimento si è
sostanzialmente esaurito a livello di partecipazione di massa, dobbiamo però porci il tema del
rilancio di una forte mobilitazione in difesa della conoscenza come bene comune, che è dovere
morale prima ancora che politico, che parta in ogni singola istituzione che produce e trasmette
sapere, e affinché ciò si realizzi l’unica proposta possibile è quella di lanciare una grande ed unitaria
campagna per ottenere l’abrogazione della Legge Gelmini, utilizzando ogni mezzo che permetta
di concretizzare quel grande consenso di cui il movimento ha goduto, anche per rendere più
difficile ad un futuro governo (anche di centro-sinistra o, più probabilmente, centrista) di intervenire
sulla Legge Gelmini solo con modifiche secondarie, rischio che sappiamo essere molto reale.
Va inoltre data la massima priorità all’immissione in ruolo del precariato, senza assurde
discriminazioni tra le varie categorie nelle quali decenni di politiche sbagliate sono riuscite a
frazionarlo, ed alla riapertura delle assunzioni anche nella scuola, dove la chiusura di percorsi
formativi nelle superiori di fatto forza l’allievo ad iscriversi all’istituto superiore disponibile
territorialmente e non a quello che vorrebbe frequentare, e nella ricerca, dove già ora interi filoni
scientifici, spesso della massima importanza, si stanno chiudendo perché non c’è più nessuno che li
porti avanti.
E’ poi evidente che si debbono riportare i fondi di finanziamento ordinario di scuola, università
e ricerca a valori che ne permettano la sopravvivenza: questo comporta non solo che il livello di
tali fondi sia sufficiente a coprire le spese fisse, ma che sia garantita la possibilità di svolgere
attività didattica e di ricerca “normale” (nel senso dato a questo aggettivo da Khun, 1962), senza la
necessità di dover competere su fondi “a bando”, perché solo così si può garantire che il livello
generale del sistema di produzione e trasmissione del sapere si mantenga sufficientemente alto da
permettere che da esso emergano anche le “eccellenze” o comunque le risposte ai nuovi bisogni
della società.
Se questi sono gli obiettivi irrinunciabili a breve termine, bisogna però anche chiedersi come
dovrebbe essere un’università ed un sistema di ricerca pubblico che rispettino effettivamente lo
spirito degli Articoli 33 e 34 della Costituzione.
A nostro avviso, una vera riforma dell’università deve mettere al centro il diritto al sapere,
come diritto al futuro per l’intera società italiana e si traduce in poche richieste, semplici e
immediatamente praticabili, ove ce ne fosse la volontà politica:
 Se si riconosce che la società ha diritto alla conoscenza, è necessario che al sistema che la
produce e la trasmette siano garantite risorse adeguate, almeno al livello della media europea, sia
come finanziamento che come personale. Investire massicciamente sull’università e la ricerca è
vitale per l’Italia
 Va garantito un effettivo sostegno al diritto allo studio, non solo tramite un consistente
numero di borse di livello economico sufficiente, ma soprattutto tramite l’effettiva disponibilità per
tutti gli studenti di adeguate infrastrutture logistiche (alloggi, mense, trasporti, ecc.) e didattiche
(biblioteche, laboratori, aule, ecc.) e di un accettabile rapporto docenti/studenti. Deve inoltre essere
ristabilito l’accesso aperto alle Università pubbliche, senza prove di ammissione che sempre più
spesso sono state gestite come vere e proprie barriere al diritto allo studio.
 Occorre introdurre per legge il principio del tempo pieno per i docenti a tutti i livelli,
affinché si possano dedicare esclusivamente alla ricerca ed alla didattica, rinunciando quindi ad
attività professionali ed ad altri incarichi continuativi, lasciando l’interazione, certamente
necessaria, degli studenti con il mondo delle professioni a complementi didattici svolti da
professionisti esterni al corpo docente.
 Al contempo, va garantita ai docenti la libertà di insegnamento e di ricerca, sancita dalla
Costituzione, non solo tramite l’esclusione di ogni condizionamento politico, confessionale e
burocratico, ma anche attraverso la effettiva disponibilità di strutture, finanziamenti e tempo per
dedicarsi a queste funzioni.
 La cronica carenza di docenti e l’ormai intollerabile peso del precariato nelle università e
negli enti di ricerca italiani dimostra che deve essere profondamente trasformato il meccanismo del
reclutamento, passando a forme più trasparenti che, salvaguardando le competenze acquisite da
quanti sono stati per anni costretti a lavorare in condizioni spesso inaccettabili per mantenere
l’attuale alto livello scientifico e didattico del sistema accademico nazionale, vi permettano un
costante afflusso di giovani per il futuro.
 La persistenza di alcune fasce di parassitismo, anche se prevalentemente concentrate in
settori e situazioni particolari, rende necessario che si metta in opera un efficiente sistema di
autovalutazione da parte della comunità scientifica, che garantisca la continuità della produzione di
sapere di ogni docente, premiando comportamenti virtuosi e penalizzando quelli viziosi; questo
processo deve però basarsi su regole certe e condivise dalla comunità scientifica nelle sue diverse
articolazioni.
 Ciò comporta anche la necessità di una razionalizzazione dell’esistente, ponendo fine ad
esperienze fallimentari di micro-atenei e sedi distaccate prive di ogni struttura didattica e scientifica
e di centri di ricerca fantasma, nati solo per soddisfare pretese localistiche ed interessi di lobbies,
garantendo al tempo stesso le necessità ed i diritti degli studenti, dei precari e dei docenti che vi
studiano e lavorano, solitamente non per scelta ma per ineluttabile necessità.
 Va garantita anche l’unitarietà del sapere, intrinseca nell’origine stessa del nome
“Università” e resa oggi inevitabile dalla crescente necessità di studio e ricerca interdisciplinare
indispensabili per rispondere ai sempre più complessi bisogni, materiali e culturali, della società
moderna: assurda appare quindi la scelta di delocalizzare e separare spazialmente tra loro le diverse
facoltà e dipartimenti di un ateneo.
 E’ infine indispensabile, fissando con chiarezza i criteri minimi comuni che ogni corso di
laurea deve garantire agli studenti che lo frequentano, effettuare una drastica inversione di tendenza
nella autonomia selvaggia dei singoli atenei che, sotto la spinta ad una innaturale concorrenza di
tipo mercantilistico, sta compromettendo nei fatti il valore legale del titolo di studio, unico
strumento che ha garantito, nel nostro Paese, il principio costituzionale dell’eguaglianza sostanziale
per tutti.
Anche per gli Enti Pubblici di Ricerca (EPR), basterebbe la definizione di pochi elementi, interrelati
e vitali per la sopravvivenza del sistema:
i) un adeguato status giuridico per i ricercatori e tecnologi che ne valorizzi l'effettiva
attività scientifica e/o tecnologica, basato sulla “Carta dei diritti della Ricerca” ed una
politica di assunzioni a tempo indeterminato di giovani ricercatori, invertendo anche
in questi Enti la tendenza alla precarizzazione del lavoro;
ii) una chiara missione scientifica per gli EPR definita anche attraverso forme di
partecipazione effettive dei ricercatori e dell’altro personale che vi opera alla
gestione degli enti; a questo riguardo sarà importante stabilire un metodo che coinvolga
anche il personale nella nomina dei vertici degli enti e, soprattutto, degli organi di
ricerca, accompagnato da un sistema rigoroso di incompatibilità dei vertici con altre
posizioni;
iii) individuazione (ex-novo o riformando quelle esistenti) di adeguate istituzioni e
procedure, nelle quali sia coinvolta in modo adeguato la comunità scientifica, per
definire in modo chiaro gli obiettivi della politica per la ricerca, dando così anche
risposta alla domanda sociale di maggior trasparenza e democrazia nelle scelte
strategiche in questo settore; a questo scopo, sembra importante realizzare un
coordinamento più esplicito con le numerose politiche (e corrispondenti istituzioni) che
interagiscono con la politica per la ricerca - tra le altre, industriali, della concorrenza,
dello sviluppo delle aree depresse, dell’istruzione, della formazione, di riequilibrio
finanziario, sociali e ambientali.
iv) Garantire finanziamenti pubblici adeguati per gli EPR, perché un ente di ricerca può
dirsi tale se riesce a finanziare autonomamente la propria attività. La garanzia di un
fondo pubblico per la ricerca comporta l’autonomia della ricerca stessa dai
condizionamenti politici e di mercato che attualmente vincolano le scelte operate dai
ricercatori degli EPR, spinti insistentemente alla ricerca dei finanziamenti esterni.

Infine, il sistema di valutazione di scuola, università e ricerca non può essere usato come
meccanismo per ottenere risparmi: se infatti è relativamente semplice in questi settori operare
una valutazione, con sistemi oggettivi, condivisi e chiaramente codificati (certo non quelli previsti
ed attuati dal governo delle destre), che suddivida istituzioni ed individui che vi operano in una
fascia sulla media, in una sopra ed in una sotto la media, è poi stato dimostrato che operare una
graduatoria all’interno di queste tre fasce è statisticamente impossibile (Pearce, 2004). Se quindi
non saranno disponibili fondi adeguati per garantire la premialità associata a questa valutazione
almeno a tutti coloro che appartengono alla fascia al di sopra della media (ma sarebbe più giusto
assicurarla, anche se in misura minore, anche a quanti si trovano nella media), l’esito del processo
di valutazione sarà inevitabilmente ingiusto, genererà rivalità distruttive per i gruppi di lavoro ed
avrà gravi conseguenze negative sulla motivazione e sulla creatività degli operatori.

Solo in questo modo si potrebbe garantire lo spirito della nostra meravigliosa Costituzione, l’unica
al mondo che riconosce il fatto che sia garantito a tutti i cittadini, senza distinzioni di reddito, il
raggiungimento dei più elevati livelli di istruzione e che la libertà di ricerca e di insegnamento non è
una prerogativa di ricercatori e docenti ma è un diritto dei cittadini, perché è solo la cultura che
fornisce senso critico e capacità di discernimento, unici veri antidoti contro il buio della ragione,
foriero di tante sventure per l’umanità, è lo studente che ha diritto a insegnanti liberi, è la società
che ha diritto a una ricerca libera.

Bibliografia
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