Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Secondo semestre
12 CFU
2
Lezione 1
Nota 1
Nota 2
Lezione 2
confino di Ustica, dove trascorse 44 giorni. Gramsci era stato fermato (nono-
stante l’immunità parlamentare) per reati connessi al «sovvertimento delle
istituzioni statali con la violenza». La situazione si aggravò dopo
l’emanazione delle leggi speciali, il 6 dicembre 1926 (in seguito all’attentato
a Mussolini del 31 ottobre attribuito ad Anteo Zamboni), e il trasferimento
della pratica al Tribunale speciale. A quel punto furono emessi tre mandati di
cattura, che giustificarono il rinvio a giudizio del 20 febbraio 1928. Quindi fu
trasferito nel carcere di San Vittore, a Milano (il lungo viaggio inizia il 20
gennaio), in attesa del processo. Lascerà Milano per Roma l’11 maggio 1928.
Il “processone” iniziò il 28 maggio. Come è noto, fu condannato a 20 anni, 4
mesi e 5 giorni di carcere, oltre la multa di 6200 lire. Ricordiamo che a Mila-
no Gramsci poteva leggere, ma non scrivere in cella (solo due lettere a setti-
mana).
Il 19 marzo 1927 (quindi da Milano) Gramsci comunica a Tatiana
l’intenzione di dedicarsi a uno studio disinteressato, für ewig, e fissa 4 argo-
menti di studio: una ricerca sugli intellettuali italiani, uno studio di linguisti-
ca comparata, uno studio sul teatro di Pirandello, un saggio sui romanzi di
appendice e il gusto popolare in letteratura.
La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto più
difficile di quanto non sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto (più
di un volume al giorno, oltre i giornali), ma non è a questo che mi riferisco; intendo altro.
Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che biso-
gnerebbe fare qualcosa «für ewig», secondo una complessa concezione di Goethe, che
ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei secondo un piano pre-
stabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbis-
se e centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo
è un indice che non riesco a raccogliermi e cioè: -1° una ricerca sulla formazione dello
spirito pubblico in Italia nel secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali
italiani, e loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diver-
si modi di pensare ecc. ecc. Argomento suggestivo in sommo grado, che io naturalmente
potrei solo abbozzare nelle grandi linee, data l'assoluta impossibilità di avere a disposi-
zione l'immensa mole di materiale che sarebbe necessaria. Ricordi il rapidissimo e super-
ficialissimo mio scritto sull'Italia meridionale e sulla importanza di B. Croce? Ebbene,
vorrei svolgere ampiamente la tesi che avevo allora abbozzato, da un punto di vista «di-
sinteressato», «fur ewig». - 2° Uno studio di linguistica comparata! Niente meno. Ma che
cosa potrebbe essere più «disinteressato» e für ewig di ciò? […] 3° Uno studio sul teatro
di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappre-
sentato e ha contribuito a determinare. Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho
scoperto e ho contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello,
dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie af-
fermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o
apertamente deriso. - 4° Un saggio sui .... romanzi di appendice e il gusto popolare in let-
teratura.
Che te ne pare di tutto ciò? In fondo, a chi bene osservi, tra questi quattro argomenti
esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo, è
8
alla base di essi in misura uguale. Scrivimi le tue impressioni; io ho molta fiducia nel tuo
buon senso e nella fondatezza dei tuoi giudizi.
Sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il
pensare «disinteressatamente» mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. Solo qualche
volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in un determinato ordine di riflessioni, e di
trovare per dir così, nelle cose in sé l’interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinaria-
mente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non
sento nessuno stimolo intellettuale. Come ti ho detto una volta, non mi piace tirar sassi nel
buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti fami-
liari voglio fare dei dialoghi [Giulia]. Altrimenti mi sembrerebbe di scrivere un romanzo
in forma epistolare, che so io, di fare della cattiva letteratura.
Für ewig
per sempre!
per sempre!
25per sempre!
per sempre!
Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante;
voglio sistematicamente riprendere, dopo il tedesco e il russo, l'inglese, lo spagnolo e il
portoghese che avevo studiacchiato negli anni scorsi; inoltre il rumeno, che avevo studiato
all'università solo nella sua parte neolatina e che ora penso di poter studiare completamen-
te, cioè anche per la parte slava del suo dizionario (che poi è più del 50% del vocabolario
rumeno).
marzo 1929 (che il libro di Bucharin non sia presente nel Fondo Gramsci è
un’altra questione, legata alla decisione di Ambrogio Donini, allora direttore
dell’Istituto Gramsci, di farlo sparire per motivi ideologici, come si evince
dalla lettera che inviò a Togliatti del 18 novembre 1952, dopo il ritorno dei
libri in Italia nel 1950). Gramsci scrisse a Tatiana:
Sulla teoria della storia vorrei avere un volume francese uscito recentemente: Boukha-
rine - Théorie du matérialisme historique, Editions Sociales – Rue Valette 3, Paris (V) e
le Oeuvres philosophiques di Marx, pubblicate dall’ed. Alfred Costes – Paris: Tome I:
Contribution à la critique de la Philosophie du droit de Hegel – Tome II: Critique de la
critique critique, contro Bruno Bauer e consorti. – I libri più importanti di Benedetto Cro-
ce in proposito li ho già.
Qui Gramsci dichiara le tre fonti essenziali della sua riflessione sulla sto-
ria: Marx, Croce, Bucharin.
Il punto 9 è legato alla nuova riflessione che, a partire dal Quaderno 1,
Gramsci dedica all’articolo del 1926 sulla questione meridionale, autentica
base di partenza dei quaderni.
Il punto 11 è connesso invece con il fascicolo della rivista «Die literari-
sche Welt» sulla letteratura americana, che riceve nel 1927 e traduce dal te-
desco nel Quaderno A.
Come vedete, la parola “egemonia” non compare mai. Ma ciascuno di
questi argomenti rappresenta un lato, un aspetto, della questione dell’ege-
monia.
Mi sono fissato su tre o quattro argomenti principali, uno dei quali è quello della fun-
zione cosmopolita che hanno avuto gli intellettuali italiani fino al Settecento, che poi si
scinde in tante sezioni: il Rinascimento e Machiavelli, ecc. Se avessi la possibilità di con-
sultare il materiale necessario, credo che ci sarebbe da fare un libro veramente interessan-
te e che ancora non esiste; dico libro, per dire solo l'introduzione a un certo numero di
lavori monografici, perché la quistione si presenta diversamente nelle diverse epoche e
secondo me bisognerebbe risalire ai tempi dell'Impero Romano. Intanto scrivo delle note,
anche perché la lettura del relativamente poco che ho mi fa ricordare le vecchie letture del
passato.
Come vedete, non si parla più solo della funzione degli intellettuali, della
formazione e dello sviluppo dei gruppi intellettuali, ma è ormai definito con
precisione il centro della questione: il cosmopolitismo come carattere della
storia italiana e il problema delle origini dello spirito nazionale. Il problema
dell’egemonia non riguarda più solo il rapporto Nord-Sud, ma si allarga a
una considerazione generale del cosmopolitismo delle classi dirigenti italiane.
Tenete presente che la questione del cosmopolitismo è tra le più impor-
tanti e difficili dei quaderni. In un primo periodo indica il carattere differen-
ziale della storia degli intellettuali italiani (Impero, Chiesa), dunque un fatto-
re di arretratezza, ma poi arriva a significare il germe di un cosmopolitismo
di tipo nuovo, una risorsa, la possibile base di un nuovo internazionalismo.
Quasi un anno e mezzo fa (precisamente il 3 agosto 1931) ho avuto una crisi un po’
forte, e dopo non sono riuscito più a rimettermi in carreggiata. Mentre prima il tempo mi
passava con una certa facilità, anzi mi pareva a me stesso che passasse senza che me ne
accorgessi, da allora tutto è cambiato: sento le settimane le ore e i minuti e tutto mi grava
e mi pesa come se qualcuno mi limasse i nervi. Questo lo scrivo per te, per spiegarti la
mia vita. Sono come un meccanismo guasto: cause futili producono effetti sproporzionati,
e magari cause che sembrerebbero gravi non producono nessun effetto. Sono diventato
insensibile per tutta una serie di cause e invece mi pare di essere scorticato vivo per le
piccole cose. Se dovessi dire quale sia l’ideale che vagheggio sarebbe questo: di non aver
rapporti con nessuno, di essere dimenticato da tutti e dimenticare tutto e fare la vita di una
bestia nel suo covile. Ma forse se così avvenisse non sarei neppure soddisfatto.
Nella lettera a Tatiana del 3 agosto 1931 Gramsci dichiara di non avere
più un vero programma di studio e di lavoro.
Si può dire che ormai non ho più un vero programma di studi e di lavoro e natural-
mente ciò doveva avvenire. Io mi ero proposto di riflettere su una certa serie di quistioni,
ma doveva avvenire che a un certo punto queste riflessioni avrebbero dovuto passare alla
fase di una documentazione e quindi ad una fase di lavoro e di elaborazione che domanda
grandi biblioteche. Ciò non vuol dire che perda completamente il tempo, ma, ecco, non ho
più delle grandi curiosità in determinate direzioni generali, almeno per ora. Ti voglio dare
un esempio: uno degli argomenti che più mi ha interessato in questi ultimi anni è stato
quello di fissare alcuni aspetti caratteristici nella storia degli intellettuali italiani. Questo
interesse nacque da una parte dal desiderio di approfondire il concetto di Stato e dall'altra
parte di rendermi conto di alcuni aspetti dello sviluppo storico del popolo italiano. Pur
restringendo alle linee essenziali la ricerca, essa rimane tuttavia formidabile. Bisogna ne-
cessariamente risalire all'Impero Romano e alla prima concentrazione di intellettuali «co-
smopoliti» («imperiali») che esso determinò: studiare quindi la formazione dell'organiz-
zazione chiericale cristiano-papale che dà all'eredità del cosmopolitismo intellettuale im-
periale una forma castale europea ecc. ecc. Solo così, secondo me, si spiega che solo dopo
il 700, cioè dopo l'inizio delle prime lotte tra Stato e Chiesa col giurisdizionalismo, si pos-
sa parlare di intellettuali italiani «nazionali»: fino allora, gli intellettuali italiani erano co-
smopoliti, esercitarono una funzione universalistica (o per la Chiesa, o per l'Impero) ana-
zionale, contribuirono a organizzare altri Stati nazionali come tecnici e specialisti, offriro-
no «personale dirigente» a tutta l'Europa, e non si concentrarono come categoria naziona-
le, come gruppo specializzato di classi nazionali. Come vedi questo argomento potrebbe
dar luogo a tutta una serie di saggi, ma per ciò è necessaria tutta una ricerca erudita. Così
avviene per altre ricerche. Bisogna anche tener conto che l'abito di severa disciplina filo-
logica, acquistato durante gli studi universitari, mi ha dato un'eccessiva, forse, provvista
di scrupoli metodici.
Raggruppamenti di materia:
Tra i quaderni “speciali” non sono previsti nel piano i Q10 (Croce), Q22
(Americanismo), Q25 (gruppi subalterni), Q27 (folclore), Q29 (studio della
grammatica).
17
Lezione 3
(Lunedì 16 marzo 2020)
1. I piani di lavoro
2. Le interpretazioni
fia della storia né le aporie interne della filosofia giuridica di Hegel), sia per
la asserita «coincidenza» della società civile di Marx con la base economica.
Egli presupponeva che Gramsci avesse trovato dinanzi a sé questo grande
dilemma e lo avesse sciolto con un taglio netto.
1 Genesi del concetto – Cominciamo dalla genesi. Non c’è dubbio che, al
di là di alcune ricorrenze giovanili in àmbito geopolitico, Gramsci assume il
concetto durante la sua permanenza a Mosca dal giugno 1922 al dicembre
1923, come rappresentante del Partito comunista d’Italia nel Comintern. In
questo periodo, Gramsci poté apprendere direttamente da Lenin, da Zinov’ev
e da Bucharin la teoria dell’egemonia; arrivato a Vienna (3 dicembre 1923-5
maggio 1924), ne seguì tutti gli sviluppi. Il concetto di egemonia sorgeva
come soluzione strategica del problema della rivoluzione russa e, nello stesso
tempo, come strumento della disputa dottrinale contro Trockij. L’egemonia
20
dei e Bordiga era iniziato il 26 maggio) e il 1929. Gli anni del lavoro al Co-
mintern (a Mosca e a Vienna) sono anni di grandi trasformazioni della politi-
ca comunista mondiale, caratterizzati dal succedersi di due Congressi inter-
nazionali a Mosca: il IV Congresso (5 novembre-5 dicembre 1922) e il V
Congresso (17 giugno-8 luglio 1924) del Comintern. Gramsci partecipa al IV
Congresso, che segnerà in maniera permanente la sua visione del comunismo.
Per ricordare gli aspetti principali, questo è il Congresso che approva la linea
del Fronte unico, che discute del fascismo italiano dopo la novità della mar-
cia su Roma (Radek, Zinov’ev, Trockij), che propone la fusione con il Psi.
Soprattutto è il congresso nel quale trova consacrazione la politica della Nep
e Lenin interviene con quel discorso che Gramsci porrà alla base della teoria
della “traducibilità”.
La politica stabilita dal IV Congresso viene stravolta nel V Congresso,
con la “svolta a sinistra” di Zinov’ev (presidente del Comintern), quando
viene avviata la bolscevizzazione dei partiti comunisti, fissati i princìpi del
socialfascismo e della dottrina del marxismo-leninismo. I Princìpi del lenini-
smo di Stalin sono scritti nel febbraio 1924 e chiariscono la base teorica della
nuova politica: come vedremo, si affermano le basi della teoria del sociali-
smo “in un solo paese”: sviluppo ineguale, teoria dell’anello debole, centrali-
tà dell’Urss tra Oriente e Occidente. Ma sarà l’intervento di Bucharin, specie
in relazione alla Nep, a ottenere il maggiore consenso di Gramsci, nel mo-
mento in cui la politica della Nep comincia a essere messa seriamente in di-
scussione.
trova nel programma di Erfurt del 1891 scritto da Kautsky. Ma ancora prima
il termine russo gegemonjia si trova in Plechanov (Our Differences, 1885)
poi nell’esponente menscevico Pavel Axel’rod nel 1898. Da tutti questi pre-
cedenti il lemma arriverò a Lenin.
Possiamo dire che questa è una prima fase della vicenda sovietica
dell’egemonia.
In che cosa consiste la originale politica del bolscevismo, la sua caratteristica princi-
pale? Il bolscevismo è il primo che nella storia internazionale della lotta delle classi ha
sviluppato l’idea di egemonia del proletariato e ha posto praticamente i principali pro-
blemi rivoluzionari che Marx ed Engels avevano prospettato teoricamente. L’idea di
egemonia del proletariato, appunto perché concepita storicamente e concretamente ha
porttato con sé la necessità di ricercare alla classe operaia un alleato: il bolscevismo ha
trovato questo alleato nella massa dei contadini poveri.
Gramsci ricorrerà nel gennaio 1924, nel primo numero dell’Ordine nuovo,
a questo testo di Zinov’ev per il profilo di Lenin scritto in occasione della
sua morte. In un articolo sull’Unità del 24 agosto 1924 lo ripeterà quasi lette-
ralmente, anticipando tutta la lettura di Lenin che poi si leggerà nei quaderni:
Quante volte la rivoluzione nelle città non fu spezzata dei contadini armati dalla rea-
zione? Marx e Engels avevano già accennato alla possibilità di una futura alleanza tra
operai e contadini, ma in un modo non ancora preciso. Il grande merito di aver tradotto in
formula pratica di azione il principio della alleanza operaio-contadina, spetta a Lenin, il
grande teorico e condottiero della rivoluzione russa. Questo concetto di alleanza non è
una formula improvvisa, non è una invenzione, una manovra tattica nel senso che un ge-
nerale di eserciti potrebbe dare a questa parola. Lenin è un grande uomo di azione perché
è un grande teorico. Nei grandi uomini della rivoluzione comunista non possono essere
scisse queste due qualità chi si integrano necessariamente.
Trockij ha trascurato e non compreso, dando perciò luogo a una vera e pro-
pria eresia.
Come vedete, nella lotta tra Zinov’ev e Bucharin si assiste a una specie di
gioco delle parti. Da un lato Zinov’ev ridimensiona il significato della Nep,
che di lì a poco Stalin accantonerà del tutto. D’altro lato Bucharin (primo
teorico del socialismo in un paese solo) difende il carattere “eterno” della
Nep e dell’egemonia (alleanza con i contadini) di cui, non di meno, Stalin si
sbarazzerà negli anni successivi. Perciò Stalin si appoggia a Bucharin contro
Zinov’ev, promuovendolo a capo del Comintern, ma ben presto “il figlio
prediletto del partito” (come era definito nel testamento di Lenin) cadrà in
disgrazia: nel 1928 criticherà la collettivizzazione delle campagne, nel 1929
verrà a sua volta sostituito alla presidenza del Comintern, arrestato nel 1937,
processato e giustiziato nel 1938, riabilitato da Gorbaciov nel 1988. La con-
fessione del 1938, nel processo dei Ventuno, rimane una delle pagine più
impressionanti della storia.
Nonostante il temporaneo prevalere di Bucharin, si andava verso il supe-
ramento della Nep e l’inizio della nuova politica dei piani quinquennali,
inaugurata nel 1929. Stalin, che aveva mantenuto una posizione centrale, su-
però di fatto sia la posizione di Zinov’ev sia quella di Bucharin. Come è stato
dimostrato, con il 1929, insieme alla Nep, anche la dottrina dell’egemonia
venne sostanzialmente abbandonata in Urss. Non si trattava più di una politi-
ca egemonica, ma di industrializzazione forzata e di dominio nei confronti
dei contadini proprietari.
Nello stesso periodo, nel febbraio 1929, Gramsci riprendeva quel filo in-
terrotto, elaborando una nuova teoria dell’egemonia nei Quaderni del carce-
re.
Lezione 4
1. Sintesi
2. La Conferenza di Como
Si può dire che nel convegno ultimo il nostro partito si è posto esplicitamente, per la
prima volta, il problema di diventare il partito delle più larghe masse italiane, di diventare
il partito che realizzi l’egemonia del proletariato nel quadro vasto dell’alleanza tra la clas-
se operaia e la massa dei contadini.
3. L’autocritica di Livorno
scissione, guidata da Bordiga, era stata avversata dallo stesso Lenin e dal
Comintern. Per i sovietici, la minoranza comunista non avrebbe dovuto scin-
dersi dal Psi ma, al contrario, espellere i riformisti di Turati (cosa che i socia-
listi faranno poco tempo dopo per propria iniziativa). La differenza è sottile
ma fondamentale.
La leadership di Bordiga era perfettamente congeniale a questa politica.
Ma tra il 1921 e il 1923 tutta la riflessione di Gramsci passerà per una auto-
critica di Livorno. Questo è il punto essenziale. L’autocritica diventerà espli-
cita in un appunto pubblicato da Togliatti, che dovrebbe essere stato scritto a
Vienna nel luglio 1923. Si legge così:
Valore politico della fusione [tra Pci e Psi]. La reazione si è proposta di ricacciare il
proletariato nelle condizioni in cui si trovava nel periodo iniziale del capitalismo: disperso,
isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere. La scissione
di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale
comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione.
Gramsci mi disse di aver espresso a Lenin il suo profondo dissenso con Bordiga non
soltanto sul problema dei rapporti con il partito socialista, ma sul giudizio del fascismo,
della situazione italiana, delle sue prospettive; e sulla politica del partito, settaria, chiusa,
in definitiva inerte, inadeguata alle esigenze del momento. E mi disse dell’attenzione con
cui Lenin lo aveva ascoltato: Lenin – mi diceva Gramsci – conosce le cose nostre assai
più di quanto supponiamo. E mi riferiva giudizi espressi da Lenin con assoluta precisione
e grande verità sui nostri compagni, su scritti di nostri compagni e di altri esponenti poli-
tici italiani. Con Gramsci, Lenin aveva in particolare parlato del partito socialista, e della
possibilità di una fusione tra il Pci e Psi. Lenin aveva giudicato il modo con cui si era
conclusa la scissione di Livorno «un successo della reazione capitalista»; e non aveva
mai rinunciato alla conquista di Serrati e dei socialisti sinceramente legati all’Interna-
zionale comunista.
re sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la
maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi,
quantunque noi avessimo dalla nostra parte l’autorità e il prestigio dell’Internazionale che
erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una cam-
pagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione
tutti i nuclei degli elementi costitutivi del partito socialista; non avevamo saputo tradurre
in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno
degli avvenimenti italiani degli anni 1919-1920; non abbiamo saputo, dopo Livorno, porre
il problema del perché il congresso avesse avuto quella conclusione; non abbiamo saputo
porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare
la nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del popolo ita-
liano. Fummo – bisogna dirlo – travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un
aspetto della dissoluzione generale della Società italiana.
Gramsci (sulla linea di Radek) legge sempre più come espressione della crisi
della piccola borghesia, piuttosto che come reazione del grande capitale; 2) il
tema della fusione, che egli non approva sul momento, ma svolge successi-
vamente in un senso determinato: costituente, tappe intermedie, e così via.
In questo periodo, insomma, cresce in Gramsci la consapevolezza della
peculiarità della rivoluzione in Europa, specie di fronte alla minaccia del fa-
scismo. Il primo esito di questa riflessione è la lettera che invia, il 9 febbraio
1924, da Vienna, al gruppo dirigente del partito. È un documento fondamen-
tale della sua evoluzione intellettuale. Leggiamone solo il passo più rilevan-
te:
Amadeo [Bordiga] ha tutta una concezione a questo proposito e nel suo sistema tutto è
logicamente coerente e conseguente. Egli pensa che la tattica dell’Internazionale risenta i
riflessi della situazione russa, cioè sia nata sul terreno di una civiltà capitalistica arretrata
e primitiva. Per lui questa tattica è estremamente volontaristica e teatrale, perché solo con
un estremo sforzo di volontà si poteva ottenere dalle masse russe un’attività rivoluzionaria
che non era determinata dalla situazione storica. Egli pensa che per i paesi più sviluppati
dell’Europa centrale ed occidentale questa tattica sia inadeguata o addirittura inutile. In
questi paesi il meccanismo storico funziona secondo tutti i crismi marxistici: c’è la deter-
minazione che mancava in Russia, e perciò il compito assorbente deve essere quello di
organizzare il partito in sé e per sé. Io credo che la situazione sia molto diversa. In primo
luogo perché la concezione politica dei comunisti russi si è formata su un terreno interna-
zionale e non su quello nazionale; in secondo luogo perché nell’Europa centrale ed occi-
dentale lo sviluppo del capitalismo ha determinato non solo la formazione di larghi strati
proletari, ma anche e perciò creato lo strato superiore, l’aristocrazia operaia con i suoi an-
nessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici. La determinazione, che in
Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa
centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal
più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l’azione della massa e
domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più com-
plessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il
marzo ed il novembre 1917. […] Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza in-
ternazionale. Noi dobbiamo porci dal punto di vista di una maggioranza nazionale.
Le parti del testo che ho sottolineato costituiscono una delle prime e più
importanti definizioni del concetto di egemonia, nel contrasto con la conce-
zione di Bordiga e nel confronto differenziale con la situazione russa.
Nella prossima lezione vedremo come questi concetti troveranno una
prima sistemazione nella riflessione di Gramsci nel corso di un anno decisivo
nella sua biografia intellettuale: il 1926. L’anno dell’arresto, ma non solo.
Lezione 5
Noi giungemmo al marxismo per la via seguita da Carlo Marx, cioè partendo dalla fi-
losofia idealistica tedesca, da Hegel. Attendiamo ci si dimostri che questa origine è meno
legittima di una eventuale origine da altri punti di partenza: dalle scienze matematiche, ad
esempio, o dal naturalismo, o dalla filosofia positiva, o dall’umanitarismo, o dalla bella
letteratura o (perché no?) da una fede religiosa. Per conto nostro, la via che abbiamo se-
guito è, rispetto a qualsiasi altra, la via maestra e ha tutti i vantaggi dell’essere tale.
A noi pare che [con il fascismo] si tratti di una partita giocata dalla borghesia in modo
classico. Essa si sviluppa ulteriormente su una linea logica. Non siamo dei metafisici, ma
dei dialettici: nel fascismo e nella generale controffensiva borghese odierna non vediamo
un mutamento di rotta della politica dello Stato italiano, ma la continuazione naturale del
metodo applicato prima e dopo la guerra dalla «democrazia». Non crederemo all’antitesi
tra democrazia e fascismo, più di quello che abbiamo creduto alla antitesi tra democrazia
e militarismo. Non faremo miglior credito, in questa seconda situazione, al naturale manu-
tengolo della democrazia: il riformismo socialdemocratico.
Quando il fascismo sorse e si sviluppò in Italia come bisognava considerarlo? Era sol-
tanto un organo di combattimento della borghesia, oppure era anche un movimento socia-
le? L’estrema sinistra che allora dirigeva il partito non lo considerò che sotto il primo
aspetto, E questo errore ebbe come conseguenza che non si riuscì ad arginare la avanzata
del fascismo come forse sarebbe stato possibile fare. Nessuna azione politica venne com-
piuta per impedire l’avvento al potere del fascismo. La centrale di allora commise l’errore
di pensare che la situazione del 1921-22 potesse protrarsi e consolidarsi, e che non fosse
né necessario né possibile l’avvento al potere di una dittatura militare. Questo errore di
35
valutazione era la conseguenza di un errato sistema di analisi politica, cioè del sistema che
Bordiga oggi oppone a quello sostenuto dal comitato centrale, che è il sistema leninista.
La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debo-
le che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i
contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghe-
sia E porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che
il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire. È certo che si debbono esaminare con
attenzione anche le diverse stratificazioni della classe borghese. Anzi, occorre esaminare
la stratificazione del fascismo stesso perché, dato il sistema totalitario che il fascismo ten-
de a instaurare, saranno nel seno stesso del fascismo che tenderanno a risorgere i conflitti
che non si possono manifestare per altre vie. La tattica del partito nel periodo Matteotti ha
cercato sempre di tenere conto delle stratificazioni della borghesia, e la nostra proposta
dell’antiparlamento fu fatta allo scopo di giungere a prendere contatto con masse arretrate
le quali erano fino ad allora rimaste sotto il controllo di strati della grande e della piccola
borghesia. È certo che vi sono delle masse di contadini del mezzogiorno le quali solo
quando noi facemmo la proposta di Antiparlamento vennero a conoscere la esistenza di un
partito comunista.
Questa analisi trova uno sviluppo più ampio nelle Tesi di Lione, che or-
mai legano il giudizio sul fascismo all’analisi della storia italiana. Si presti
attenzione: l’Italia è un paese di capitalismo debole, e questo è il motivo
dell’analogia con la Russia prerivoluzionaria. La «base dell’economia» è
l’agricoltura; inoltre esiste «una piccola borghesia urbana abbastanza estesa e
che ha una importanza assai grande». È un capitalismo incompiuto, dove la
borghesia può mantenere il suo sistema di potere solo alleandosi con le altre
classi, ma tuttavia esercitando «una egemonia limitata». Questa è l’unica oc-
correnza del lemma “egemonia” nel testo delle Tesi di Lione.
Come non controlla naturalmente tutta la economia così la classe industriale non rie-
sce a organizzare da sola la società intiera e lo Stato. La costruzione di uno Stato naziona-
le non le è resa possibile che dallo sfruttamento di fattori di politica internazionale (cosid-
detto Risorgimento). Per il rafforzamento di esso e per la sua difesa è necessario il com-
promesso con le classi sulle quali la industria esercita una egemonia limitata, particolar-
mente gli agrari e la piccola borghesia. Di qui una eterogeneità e una debolezza di tutta la
struttura sociale e dello Stato che ne è espressione.
L’analisi della storia italiana diventa così un’analisi della potenza egemo-
nica della borghesia. La borghesia può dominare alleandosi, nella forma di
compromessi, con il blocco agrario, con i contadini e con la piccola borghe-
sia. Il capitalismo italiano si regge dunque sul sistema del compromesso. Le
Tesi di Lione distinguono 4 periodi: 1) 1870-1890: alleanza fra borghesia e
intellettuali. Ma lo Stato è debole perché il Vaticano costruisce un blocco
reazionario con i contadini contro lo Stato borghese; 2) 1890-1900: con Cri-
spi si determina l’alleanza fra industriali e agrari, che strappa al Vaticano il
controllo sui contadini. 3) 1900-1910: nel periodo giolittiano la borghesia
usa la democrazia e la corruzione per saldare l’alleanza fra industriali e ri-
formismo operaio.
36
Alla tattica degli accordi e dei compromessi il fascismo sostituisce il proposito di rea-
lizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico
sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo
e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco
rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più deci-
samente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari.
Il fascismo esce dalla logica del compromesso, unifica le forze più rea-
zionarie della borghesia e del blocco agrario, afferma una politica di dominio,
generando l’opposizione della parte meno reazionaria (giolittiana) della bor-
ghesia, che diventa così antifascista.
3 Il partito come parte della classe. La battaglia più aspra (anche se mol-
to sottile) a Lione riguarda la concezione del partito. Il centro di Gramsci e
Togliatti delinea la prospettiva di un partito di massa. La parola massa è for-
se quella che ricorre di più negli interventi. Ma la discussione sul partito di
massa si incentra su due modelli teorici relativi al rapporto fra partito e classe
operaia: partito come organo della classe o partito come parte della classe;
sezioni territoriali o cellule di fabbrica.
Per Gramsci il partito è “parte” della classe. Qui emerge l’anima ordino-
vista della Centrale. Per molti versi, nei quaderni, Gramsci supererà questa
visione del partito. “Parte” significa: «gli organizzatori della classe operaia
sono gli operai stessi». Il soggetto è la classe. Per Bordiga la classe è la “par-
te” di un soggetto politico che è il partito. L’organizzazione del partito per
cellule, secondo la base di produzione, risponde in Gramsci a questa conce-
zione del rapporto classe-partito.
Sarebbe stato sufficiente lanciare delle parole di propaganda e condurre una campa-
gna di critica ideologica e politica tanto contro il fascismo quanto contro l’opposizione
costituzionale (Aventino)? No, questo non sarebbe stato sufficiente. La propaganda e la
critica politica che si svolgono sugli organi del partito hanno una cerchia d’influenza mol-
to ristretta; esse non giungono molto al di là della massa degli iscritti. Era necessario con-
durre un’azione politica, e questa doveva essere diversa nei riguardi del fascismo e delle
37
opposizioni. Infatti, anche la estrema sinistra asserisce che i fattori della situazione in quel
momento erano tre: il fascismo, le opposizioni e il proletariato. Questo vuol dire che tra i
due primi noi dovevamo fare una distinzione e porci, non solo teoricamente, ma pratica-
mente, il problema di disgregare socialmente e quindi politicamente le opposizioni, per
togliere loro le basi che avevano tra le masse. A questo scopo fu rivolta l’azione politica
del partito verso le opposizioni. È certo che, per il proletariato e per noi in quel momento
esisteva un problema fondamentale: quello di rovesciare il fascismo.
È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una si-
tuazione reazionaria, e che, anzi, in una situazione democratica sia più disagevole il lavo-
ro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta
per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organiz-
zare la insurrezione.
lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e quando è imminente e
grave un pericolo reazionario (tattica adottata dai bolscevichi verso Kerenski durante il
colpo di Kornilov). In questi casi il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando
le soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi
sapessero condurre per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la si-
tuazione richiede. Questi partiti, posti così alla prova dei fatti, si smascherano di fronte
alle masse e perdono la loro influenza su di esse.
Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in
ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono conver-
gere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle
masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella
del "governo operaio e contadino". Essa indica anche alle masse più arretrate la necessità
della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce
il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell’avanguardia operaia più evoluta (lotta
per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non
corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni
intermedie di cui al numero precedente. [I corsivi sono miei]
Le forze motrici della rivoluzione italiana, come risulta ormai dalla nostra analisi so-
no, in ordine alla loro importanza, le seguenti:
1) la classe operaia e il proletariato agricolo;
2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altri parti d’Italia.
Lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di
una valutazione di elementi soggettivi: cioè dalla misura in cui la classe operaia riuscirà
ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipenden-
za da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare le sue forze, cioè a
esercitare di fatto un’azione di guida degli altri fattori in prima linea a concretare politi-
camente la sua alleanza con i contadini. Si può affermare in generale, e basandosi del re-
sto sulla esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria si entrerà in
un periodo rivoluzionario "immediato" quando il proletariato industriale e agricolo del
settentrione sarà riuscito a riacquistare, per lo svolgimento della situazione oggettiva e
attraverso una serie di lotte particolari e immediate, un alto grado di organizzazione e di
combattività.
Quanto ai contadini, quelli del Mezzogiorno e delle Isole devono essere posti in prima
linea tra le forze su cui deve contare la insurrezione contro la dittatura industriale-agraria,
per quanto non si debba attribuir loro, all’infuori di un’alleanza col proletariato, una im-
portanza risolutiva. L’alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un processo storico na-
turale e profondo, favorito da tutte le vicende dello Stato italiano. Per i contadini delle
altre parti d’Italia il processo di orientamento verso l’alleanza col proletariato è più lento e
dovrà essere favorito da una attenta azione politica del partito del proletariato. I successi
già ottenuti in Italia in questo campo indicano del resto che il problema di rompere
l’alleanza dei contadini con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in
altri paesi dell’Europa occidentale, come problema di distruggere la influenza della orga-
nizzazione cattolica sulle masse rurali.
39
dare alla piccola borghesia nella difesa dei suoi interessi attraverso il partito fascista come
tale un'intonazione nazionalista contro il vecchio nazionalismo e l'attuale direzione del
partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell'indipendenza politica del
paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocrati. A questo proposito un compito del
nostro partito dev'essere quello di insistere in modo particolare sulla parola d'ordine degli
Stati uniti soviettisti d'Europa come mezzo di iniziativa politica fra le file fasciste.
In generale si può dire che la tendenza Farinacci nel partito fascista manca di unità, di
organizzazione, di princìpi generali. Essa è piú uno stato d'animo diffuso che una tenden-
za vera e propria. Non sarà molto difficile al governo di disgregare i suoi nuclei costituti-
vi. Ciò che importa dal nostro punto di vista è che questa crisi, in quanto rappresenta il
distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese agraria fascista, non può non
essere un elemento di debolezza militare del fascismo.
2 Le tappe intermedie. Gramsci ha ormai chiaro che per uscire dal fasci-
smo servono soluzioni intermedie, un «intermezzo democratico» con
l’alleanza di tutte le forze dell’antifascismo. Scrive che l’intermezzo «deve
essere più breve che sia possibile», ma la politica del socialfascismo (ormai
sancita dal Comintern) appare qui superata. Da queste posizioni del 1926 si
comprendono, insomma, i motivi del successivo isolamento di Gramsci, fino
alle accuse di essere estraneo alla linea del comunismo mondiale.
Sul terzo elemento politico. È evidente che avviene nel campo della democrazia un
certo raggruppamento con carattere piú radicale che nel passato. L'ideologia repubblicana
si rafforza, inteso ciò nello stesso senso che per il fronte unico, cioè negli strati medi dei
partiti democratici e in questo caso anche in buona parte degli strati superiori.
Vecchi capi ex aventiniani hanno rifiutato l'invito a riprendere i contatti con la casa
reale. Si dice che lo stesso Amendola nell'ultimo periodo della sua vita fosse diventato
completamente repubblicano e facesse in questo senso propaganda personale. I popolari
sarebbero diventati anche essi tendenzialmente repubblicani, ecc. È certo che si fa un
grande lavoro per determinare sul terreno repubblicano un raggruppamento neodemocra-
tico che dovrebbe prendere il potere al momento della catastrofe fascista e instaurare un
regime di dittatura contro la destra reazionaria e contro la sinistra comunista. A questo
risveglio democratico repubblicano hanno contribuito gli ultimi avvenimenti europei co-
me l'avventura Pilsudski in Polonia ed i sussulti preagonici del cartello francese. Il nostro
partito deve porsi il problema generale delle prospettive della politica nazionale. Gli ele-
menti possono essere cosí stabiliti: se pur è vero che politicamente il fascismo può avere
come successore una dittatura del proletariato — poiché nessun partito o coalizione in-
termedia è in grado di dare sia pure una minima soddisfazione alle esigenze economiche
delle classi lavoratrici che irromperebbero violentemente nella scena politica al momento
della rottura dei rapporti esistenti — non è però certo e neanche probabile che il passaggio
dal fascismo alla dittatura del proletariato sia immediato. Bisogna tener conto del fatto
che le forze armate esistenti, data la loro composizione, non sono conquistabili immedia-
tamente e che esse saranno l'elemento determinante della situazione. Si possono fare delle
ipotesi alle quali attribuire volta per volta maggiore carattere di probabilità. È possibile
che dal governo attuale si passi a un governo di coalizione, nel quale uomini come Giolit-
ti, Orlando, Di Cesarò, De Gasperi diano una maggiore elasticità immediata. Gli ultimi
avvenimenti parlamentari francesi dimostrano di quale elasticità sia capace la politica
borghese per allontanare la crisi rivoluzionaria, spostare gli avversari, logorarli, disgregar-
li. Una crisi economica improvvisa e fulminea non improbabile in una situazione come
quella italiana potrebbe portare al potere la coalizione democratica repubblicana, dato che
essa si presenterebbe agli ufficiali dell'esercito e a una parte della stessa milizia e ai fun-
41
zionari dello stato in genere (elemento di cui bisogna tener molto conto in situazioni come
quella italiana) come capace di infrenare la rivoluzione. Queste ipotesi hanno per noi solo
un valore generale di prospettiva. Esse ci servono per fissare questi punti:
1) Noi dobbiamo fin da oggi restringere al minimo l'influenza e l'organizzazione dei
partiti che possono costituire la coalizione di sinistra per rendere sempre piú probabile una
caduta rivoluzionaria del fascismo, in quanto gli elementi energici ed attivi della popola-
zione sono sul nostro terreno nel momento della crisi. 2) In ogni caso noi dobbiamo ten-
dere a rendere piú breve che sia possibile l'intermezzo democratico avendo fin da oggi
disposto a nostro favore il maggior numero di condizioni favorevoli.
È da questi elementi che dobbiamo trarre l'indicazione per la nostra attività pratica
immediata. Intensificare l'attività generale del fronte unico e l'organizzazione di sempre
nuovi comitati d'agitazione per centralizzarli almeno su scala regionale e provinciale. Nei
comitati le nostre frazioni devono cercare prima di tutto di ottenere il massimo di rappre-
sentanze delle diverse correnti politiche di sinistra evitando sistematicamente ogni settari-
smo di partito. Le questioni devono essere dalle nostre frazioni impostate oggettivamente
come espressioni degli interessi della classe operaia e dei contadini.
Alcune serie di osservazioni e di criteri devono essere posti alla base di questo esame:
1) L'osservazione che nei paesi a capitalismo avanzato la classe dominante possiede
delle riserve politiche ed organizzative che non possedeva per esempio in Russia. Ciò si-
gnifica che anche le crisi economiche gravissime non hanno immediate ripercussioni nel
campo politico. La politica è sempre in ritardo e in grande ritardo sull'economia. L'appa-
rato statale è molto piú resistente di quanto spesso non si può credere e riesce ad organiz-
zare nei momenti di crisi forze fedeli al regime piú di quanto la profondità della crisi po-
trebbe lasciar supporre. Ciò si riferisce specialmente agli Stati capitalistici piú importanti.
Negli Stati periferici tipo della serie, come l'Italia, la Polonia, la Spagna e il Portogallo, le
forze statali sono meno efficienti. Ma in questi paesi si verifica un fenomeno che deve
essere tenuto nel massimo conto. Il fenomeno a parer mio consiste in ciò: in questi paesi
tra il proletariato e il capitalismo si distende un largo strato di classi intermedie le quali
vogliono e in un certo senso riescono a condurre una propria politica con ideologie che
spesso influenzano larghi strati del proletariato, ma che hanno una particolare suggestione
sulle masse contadine. Anche la Francia, nonostante che occupi una posizione eminente
nel primo gruppo degli Stati capitalistici, partecipa per alcune sue caratteristiche alla si-
tuazione degli Stati periferici.
Ciò che mi pare caratteristico della fase attuale della crisi capitalistica consiste nel fat-
to che, a differenza del '20'21'22, oggi le formazioni politiche e militari delle classi medie
hanno un carattere radicale di sinistra, o almeno si presentano dinanzi alle masse come
radicali di sinistra. Lo sviluppo della situazione italiana, dati i suoi caratteri peculiari, mi
pare possa in un certo senso dare il modello per le diverse fasi attraversate dagli altri pae-
si. Nel '19 e '20 le formazioni militari e politiche delle classi medie erano da noi rappre-
sentate dal fascismo primitivo e da D'Annunzio. È noto che in quegli anni tanto il movi-
mento fascista come il movimento dannunziano erano disposti anche ad allearsi con le
42
forze proletarie rivoluzionarie per rovesciare il governo di Nitti, che appariva come il
mezzano del capitale americano per asservire l'Italia (Nitti è stato in Europa il precursore
di Dawes). La seconda fase del fascismo — '21 e '22 — è nettamente reazionaria. Dal '23
si inizia un processo molecolare per cui gli elementi piú attivi delle classi medie si sposta-
no dal campo reazionario fascista al campo delle opposizioni aventiniane. Questo proces-
so precipita in una cristallizzazione che poteva essere fatale al fascismo nel periodo della
crisi Matteotti. Per la debolezza del nostro movimento, debolezza che d'altronde aveva
essa stessa un significato, il fenomeno è interrotto dal fascismo, e le classi medie sono
respinte in una nuova polverizzazione politica. Oggi il fenomeno molecolare ha ripreso su
una scala di molto superiore a quello iniziatosi nel '23 ed è accompagnato da un fenomeno
parallelo di raggruppamento delle forze rivoluzionarie intorno al nostro partito, ciò che
assicura che una nuova crisi tipo Matteotti difficilmente potrà avere un nuovo 3 gennaio.
Queste fasi attraversate dall'Italia, in una forma che chiamerei classica ed esemplare, le
ritroviamo in quasi tutti i paesi che abbiamo chiamati periferici del capitalismo. La fase
attuale italiana, cioè un raggruppamento a sinistra delle classi medie, la troviamo in Ispa-
gna, in Portogallo, in Polonia, nei Balcani. Solo in due paesi, Cecoslovacchia e Francia,
troviamo una continuità nella permanenza del blocco di sinistra, fatto che dovrebbe essere
secondo me particolarmente studiato. La conclusione di queste osservazioni che natural-
mente dovranno essere perfezionate ed esposte in forma sistematica, mi pare possa essere
questa: realmente noi entriamo in una fase nuova dello sviluppo della crisi capitalistica.
Questa fase si presenta in forme distinte nei paesi della periferia capitalistica e nei paesi di
avanzato capitalismo. Tra queste due serie di Stati la Cecoslovacchia e la Francia rappre-
sentano i due anelli di congiunzione. Nei paesi periferici si pone il problema della fase
che ho chiamata intermedia tra la preparazione politica e la preparazione tecnica della ri-
voluzione. Negli altri paesi, Francia e Cecoslovacchia comprese, mi pare che il problema
sia ancora quello della preparazione politica. Per tutti i paesi capitalistici si pone un pro-
blema fondamentale, quello del passaggio dalla tattica del fronte unico, inteso in senso
generale, a una tattica determinata, che si ponga i problemi concreti della vita nazionale e
operi sulla base delle forze popolari cosí come sono storicamente determinate.
mici nei quali, senza possibilità di dubbio, schiera il partito con la nuova
maggioranza e, in particolare, riprende molte argomentazioni di Bucharin.
Dunque su un punto non possono esserci dubbi: il centro del Pci, vincitore a
Lione, si schiera compatto con la nuova maggioranza del Pcr guidata da Sta-
lin e Bucharin.
Tenete presente che i documenti di questa vicenda sono una acquisizione
recente. Togliatti rese pubblica la lettera di Gramsci in due articoli del 1964
su «Rinascita». Nel 1970 il direttore dell’Istituto Gramsci Franco Ferri pub-
blicò su «Rinascita» l’intero carteggio da lui rinvenuto a Mosca. Solo dopo il
1990 sono stati trovati negli archivi del Pcus i restanti documenti. Oggi si
leggono raccolti nel volume: Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteg-
gio del 1926, a cura di Chiara Daniele, Einaudi, Torino 1999.
Togliatti, rappresentante del Pci a Mosca, invia all’Ufficio Politico rela-
zioni molto precise e circostanziate su quello che accade. Le sue relazioni
sono lucide e informate: in particolare egli prevede i prossimi provvedimenti
disciplinari e la sostituzione di Zinov’ev alla presidenza del Comintern. So-
prattutto, Togliatti ritiene necessario un pronunciamento dei partiti comunisti,
che finora era stato evitato.
Ai primi di agosto si riunisce in Italia il Comitato centrale, che non acco-
glie l’invito di Togliatti a pronunciarsi. In particolare Gramsci è contrario e
nel corso della riunione afferma:
è difficile per le masse degli altri partiti poter discutere sulle questioni così complesse
come sono quelle del PCR. Quindi prima di fare la discussione bisognerà pensarci. Occor-
re invece informare la massa dei compagni della questione mettendo a loro disposizione
tutto il materiale necessario perché se ne servano come elemento di studio.
Ebbene: l’acutezza della crisi attuale e la minaccia di scissione aperta o latente che es-
sa contiene, arresta questo processo di sviluppo e di rielaborazione dei nostri Partiti, cri-
stallizza le deviazioni di destra e di sinistra, allontana ancora una volta il successo
dell’unità organica del Partito mondiale dei lavoratori. È su questo elemento in ispecial
modo che noi crediamo nostro dovere di internazionalisti di richiamare l’attenzione dei
compagni piú responsabili del Partito comunista dell’Urss.
Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l’elemento organiz-
zatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi: la funzione che voi avete
svolto non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la uguagli in ampiezza e
profondità. Ma voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il ri-
schio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell’Urss aveva conqui-
stato per l’impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi fac-
cia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenti-
care che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel
quadro degli interessi del proletariato internazionale.
Poco dopo l’attacco alle tendenze repressive del nuovo gruppo dirigente:
solo una ferma unità e una ferma disciplina nel Partito che governa lo stato operaio
può assicurare l’egemonia proletaria in regime di nep, cioè nel pieno sviluppo della con-
traddizione cui abbiamo accennato. Ma l’unità e la disciplina in questo caso non possono
essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di convinzione e non quelle di un repar-
to nemico imprigionato o assediato che pensa all’evasione o alla sortita di sorpresa.
Questo, carissimi compagni, abbiamo voluto dirvi, con spirito di fratelli e di amici, sia
pure di fratelli minori. I compagni Zinov’ev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito poten-
temente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamen-
te e severamente, sono stati fra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai
maggiori responsabili della attuale situazione, perché vogliamo essere sicuri che la mag-
gioranza del CC dell’Urss non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le
misure eccessive. L’unità del nostro Partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo
e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e inter-
nazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifici. I danni di un errore compiuto
dal Partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata
condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali.
Con saluti comunisti
L’UP del PCI
Carissimo Ercoli, ho ricevuto la tua lettera del 18. Rispondo a titolo personale, quan-
tunque sia persuaso di esprimere l’opinione anche degli altri compagni.
La tua lettera mi pare troppo astratta e troppo schematica nel modo di ragionare. Noi
siamo partiti dal punto di vista che mi pare esatto, che nei nostri paesi non esistono solo i
partiti, intesi come organizzazione tecnica, ma esistono anche le grandi masse lavoratrici,
politicamente stratificate in modo contraddittorio, ma nel loro complesso tendenti
all’unità. Uno degli elementi piú energici di questo processo unitario è l’esistenza
dell’Urss legata all’attività reale del partito comunista dell’Urss e alla persuasione diffusa
che nell’Urss si cammina nella via del socialismo. in quanto i nostri partiti rappresentano
tutto il complesso attivo dell’Urss essi hanno una determinata influenza su tutti gli strati
politici della grande massa, ne rappresentano la tendenza unitaria, si muovono su un ter-
reno storico fondamentalmente favorevole, nonostante le superstrutture contraddittorie.
Ma non bisogna credere che questo elemento che fa del partito comunista dell’Urss
l’organizzatore di masse piú potente che sia mai apparso nella storia, sia ormai acquisito
in forma stabile e decisiva: tutt’altro. Esso è sempre instabile. Cosí non bisogna dimenti-
care che la rivoluzione russa ha già nove anni di esistenza e che la sua attuale attività è un
insieme di azioni parziali e di atti di governo che solo una coscienza teorica e politica
molto sviluppata può cogliere come insieme e nel suo movimento d’insieme verso il so-
cialismo. non solo per le grandi masse lavoratrici, ma anche per una notevole parte degli
iscritti ai partiti occidentali, che si differenziano dalle masse solo per questo passo, radica-
le ma iniziale verso una coscienza sviluppata che è l’ingresso nel partito, il movimento
d’insieme della rivoluzione russa è rappresentato concretamente dal fatto che il partito
russo si muove unitariamente, che insieme operano e si muovono gli uomini rappresenta-
tivi che le nostre masse conoscono e sono abituate a conoscere. la quistione dell’unità,
non solo del partito russo ma anche del nucleo leninista, è pertanto una quistione della
massima importanza nel campo internazionale; è, dal punto di vista di massa, la quistione
piú importante in questo periodo storico di intensificato processo contraddittorio verso
l’unità.
È possibile e probabile che l’unità non possa essere conservata almeno nella forma
che essa ha avuto nel passato. È anche certo che tuttavia non crollerà il mondo e che oc-
corre far di tutto per preparare i compagni e le masse alla nuova situazione. Ciò non toglie
che sia nostro dovere assoluto richiamare alla coscienza politica dei compagni russi e ri-
chiamare energicamente, i pericoli e le debolezze che i loro atteggiamenti stanno per de-
terminare. Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili se lasciassimo passiva-
mente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità.
Che l’adempimento di un tale dovere da parte nostra possa, in via subordinata, giova-
re anche all’opposizione, deve preoccuparci fino ad un certo punto, infatti è nostro scopo
contribuire al mantenimento e alla creazione di un piano unitario nel quale le diverse ten-
denze e le diverse personalità possano riavvicinarsi e fondersi anche ideologicamente. Ma
io non credo che nella nostra lettera, la quale evidentemente deve essere letta nel suo in-
sieme e non già a brani staccati e avulsi, ci sia un qualsiasi pericolo di indebolire la posi-
zione della maggioranza del comitato centrale. In ogni caso, appunto in vista di ciò e della
46
possibilità di una tale apparenza, in una lettera aggiunta ti avevo autorizzato a modificare
la forma: potevi benissimo posporre le due parti e mettere subito nell’inizio la nostra af-
fermazione di «responsabilità» dell’opposizione. Questo tuo modo di ragionare perció mi
ha fatto una impressione penosissima.
E voglio dirti che in noi non c’è ombra alcuna di allarmismo, ma solo ponderata e
fredda riflessione. Siamo sicuri che in nessun caso crollerà il mondo: ma sarebbe stolto
muoversi solo se sta per crollare il mondo, mi pare. Nessuna frase fatta perció ci smuove-
rà dalla persuasione di essere nella linea giusta, nella linea leninista per il modo di consi-
derare le quistioni russe. La linea leninista consiste nel lottare per la unità del partito, e
non solo per la unità esteriore, ma per quella un po’ piú intima che consiste nel non esser-
ci nel partito due linee politiche completamente divergenti in tutte le quistioni. Non solo
nei nostri paesi, per ciò che riguarda la direzione ideologica e politica dell’internazionale,
ma anche in Russia, per ciò che riguarda l’egemonia del proletariato e cioè il contenuto
sociale dello Stato, l’unità del partito è condizione esistenziale.
Tu fai una confusione tra gli aspetti internazionali della quistione russa che sono un ri-
flesso del fatto storico del legame delle masse lavoratrici col primo stato socialista, e i
problemi di organizzazione internazionale nel terreno sindacale e politico. I due ordini di
fatti sono coordinati strettamente ma tuttavia distinti. Le difficoltà che si incontrano e si
sono andate costituendo nel campo piú ristretto organizzativo, sono dipendenti dalle flut-
tuazioni che si verificano nel piú largo campo dell’ideologia diffusa di massa, cioè dal
restringersi dell’influenza e del prestigio del partito russo in alcune zone popolari. Per me-
todo noi abbiamo voluto parlare solo degli aspetti piú generali: abbiamo voluto evitare di
cadere nell’imparaticcio scolastico che purtroppo affiora in alcuni documenti di altri parti-
ti e toglie serietà al loro intervento.
Così non è vero, come tu dici, che noi siamo troppo ottimisti sulla bolscevizzazione
reale dei partiti occidentali. Tutt’altro. Il processo di bolscevizzazione è talmente lento e
difficile che ogni anche piú piccolo inciampo lo arresta e lo ritarda. La discussione russa e
l’ideologia delle opposizioni gioca in questo arresto e ritardo un uffizio tanto piú grande,
in quanto le opposizioni rappresentano in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativi-
smo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e
ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico. la nostra osservazione era tutta rivolta con-
tro le opposizioni. È vero che le crisi dei partiti e anche del partito russo sono legate alla
situazione obiettiva, ma cosa significa ciò? Forse che per ciò dobbiamo cessare di lottare,
dobbiamo cessare di sforzarci per modificare favorevolmente gli elementi soggettivi? Il
bolscevismo consiste precisamente anche nel mantenere la testa a posto e nell’essere ideo-
logicamente e politicamente fermi anche nelle situazioni difficili. La tua osservazione è
dunque inerte e priva di valore, cosí come quella contenuta al punto 5, poiché noi abbia-
mo parlato delle grandi masse e non già dell’avanguardia proletaria. Subordinatamente,
però, la difficoltà esiste anche per questa, la quale non è campata per aria ma unita alla
massa: ed esiste tanto piú, in quanto il riformismo con le sue tendenze al corporativismo
di classe, cioè alla non comprensione del ruolo dirigente dell’avanguardia, ruolo da con-
servarsi anche a costo di sacrifizi, è molto piú radicato nell’occidente di quanto fosse in
russia. Tu dimentichi poi facilmente le condizioni tecniche in cui si svolge il lavoro in
molti partiti, che non permettono la diffusione delle quistioni teoriche piú elevate altro
che in piccole cerchie di operai. tutto il tuo ragionamento è viziato di «burocratismo»:
oggi, dopo nove anni dall’ottobre 1917, non è piú il fatto della presa del potere da parte
dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato sconta-
to ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente e politicamente, la persua-
sione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo.
L’autorità del partito è legata a questa persuasione, che non può essere inculcata nelle
grandi masse con metodi di pedagogia scolastica, ma solo di pedagogia rivoluzionaria,
47
cioè solo dal fatto politico che il partito russo nel suo complesso è persuaso e lotta unita-
riamente.
Mi dispiace sinceramente che la nostra lettera non sia stata capita da te, in primo luo-
go, e che tu, sulla traccia del mio biglietto personale, non abbia in ogni caso cercato di
capir meglio: la nostra lettera era tutta una riquisitoria contro le opposizioni, fatta non in
termini demagogici ma appunto perció piú efficace e piú seria. Ti prego di allegare agli
atti, oltre il testo italiano della lettera e il mio biglietto personale, anche la presente.
Saluti cordiali
Antonio
Lezione 6
La sua [di Gramsci] elaborazione era lenta. Egli soffriva di insonnia e manifestava
esagerate preoccupazioni di non riuscire a esprimere con chiarezza il suo pensiero per
iscritto. Ai compagni che andavano a trovarlo faceva leggere le cartelle già pronte e do-
mandava loro che cosa avessero da osservare. Se i compagni erano, a suo avviso, troppo
generosi nell’ammirare la genialità dell’analisi che egli andava facendo, cercava di procu-
rarsi dei contraddittori, dei probabili critici e li invitava a casa. “Ho da parlarti, vieni oggi
o domani da me”, diceva a qualcuno. E chi andava a trovarlo lo vedeva camminare avanti
e indietro nella sua stanzetta, fumando una sigaretta dopo l’altra, mentre provocava la di-
sputa. Aveva bisogno del contraddittorio, per arricchire di sangue il suo pensiero.
In quel periodo, non fui un suo contraddittore. Restai intere mattinate e interi pome-
riggi a conversare con lui intorno ai grossi problemi delle prospettive e del lavoro ulterio-
re del Pci. I temi su cui lavorava dovevano ampliare la nostra azione politica, darle il do-
vuto largo respiro.
Dopo l’arresto di Gramsci, lo stesso Grieco (che nel frattempo era fuggito
dall’Italia) chiese a Camilla Ravera (che era rimasta in Italia) di contattare
Tatiana Schucht per recuperare il prezioso manoscritto. Camilla Ravera e
Giuseppe Amoretti ritrovarono il testo e lo consegnarono a Togliatti a Parigi.
Per la prima volta venne pubblicato nel gennaio 1930 sullo «Stato operaio»
con il titolo redazionale Alcuni temi della quistione meridionale, che sosti-
tuiva il titolo autentico, dato da Gramsci, che sarà ripristinato solo nel 1990
dalla edizione critica curata da Francesco M. Biscione: Note sul problema
meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socia-
listi e dei democratici. In assenza delle lettere e dei quaderni (pubblicati a
partire dal 1947) lo scritto sulla questione meridionale rappresentò la più im-
portante eredità lasciata dal segretario comunista. Sarà poi ristampato nel
1945 da Togliatti su «Rinascita» e in volume nel 1952.
La scelta del tema indicava con precisione la grande novità del pensiero
di Gramsci. Il concetto di egemonia era stato “tradotto” in italiano
50
Il giovane studioso sardo [Gramsci] – scriveva Dorso – dopo essere stato il primo a
ricercare i veri motivi dialettici della crisi italiana attraverso la teoria dei consigli di fab-
brica, è stato il primo a scoprire il nocciolo del problema italiano attraverso lo sviluppo
dell’azione agraria. [Si tratta di una] revisione programmatica veramente eccezionale.
2. Genesi dell’articolo
fra il 1923 e il 1926 può essere seguito con precisione il deciso affermarsi del
tema-chiave della questione meridionale, che portava con sé una nuova defi-
nizione dell’egemonia e la scoperta della funzione degli intellettuali nella so-
cietà civile europea.
Il punto di partenza può essere indicato nella lettera che Gramsci scrisse
da Mosca al Comitato esecutivo del Pcd’I il 12 settembre 1923 per delineare
i caratteri del nuovo giornale, «L’Unità» (il primo numero uscirà il 12 feb-
braio 1924). Vi si legge infatti:
Io propongo come titolo “L’Unità” puro e semplice, che sarà un significato per gli
operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’ Esec.
[utivo] All.[argato del Comintern] sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare
importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema
dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come problema di rapporto di
classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli
aspetti della questione nazionale. Personalmente io credo che la parola d’ordine “governo
operaio e contadino” debba essere adattata in Italia così: “Repubblica federale degli ope-
rai e dei contadini”. Non so se il momento attuale sia favorevole a ciò, credo però che la
situazione che il fascismo va creando e la politica corporativa e protezionistica dei confe-
derali porterà il nostro partito a questa parola d’ordine. A questo proposito sto preparando
una relazione per voi che discuterete ed esaminerete. Se sarà utile, dopo qualche numero,
si potrà nel giornale iniziare una polemica con pseudonimi e vedere quali ripercussioni
essa avrà nel paese e negli strati di sinistra dei popolari e dei democratici che rappresenta-
no le tendenze reali della classe contadina e hanno sempre avuto nel loro programma la
parola d’ordine dell’autonomia locale e del decentramento (corsivi miei).
Nella lettera del 1923, la centralità della questione meridionale è già af-
fermata con precisione, in relazione alla prospettiva strategica della “Repub-
blica federale degli operai e dei contadini” (che “traduce” in italiano l’indica-
zione del Comintern sul “governo operaio e contadino”). Da questo momen-
to (cioè nel periodo della lotta con Bordiga) il tema del meridionalismo ri-
mane centrale nella riflessione di Gramsci. Per fissare solo i passaggi princi-
pali (il meridionalismo gramsciano meriterebbe un corso specifico e sarebbe
un ottimo argomento di ricerca), mi limiterò a ricordare tre scritti, che via via
preparano quanto si legge nelle Tesi di Lione e nell’articolo del 1926.
La quistione meridionale non può essere risolta dalla borghesia altro che transitoria-
mente, episodicamente, con la corruzione o col ferro e col fuoco. Il fascismo ha esaspera-
52
to la situazione e l'ha in gran parte chiarita. Il non essersi posto con chiarezza il problema,
in tutta la sua estensione e con tutte le sue possibili conseguenze politiche, ha intralciato
l'azione della classe operaia e ha contribuito, in larga parte, al fallimento della rivoluzione
degli anni 1919-'20.
Oggi il problema è ancora piú complicato e difficile che non fosse in quegli anni, ma
esso rimane problema centrale di ogni rivoluzione nel nostro paese e di ogni rivoluzione
che voglia avere un domani, e perciò deve essere posto arditamente e decisamente.
Nell'attuale situazione, con la depressione delle forze proletarie che esiste, le masse con-
tadine meridionali hanno assunto una importanza enorme nel campo rivoluzionario. O il
proletariato, attraverso il suo partito politico, riesce in questo periodo a crearsi un sistema
di alleati nel Mezzogiorno, oppure le masse contadine cercheranno dei dirigenti politici
nella loro stessa zona, cioè si abbandoneranno completamente nelle mani della piccola
borghesia amendoliana, diventando una riserva della controrivoluzione, giungendo fino al
separatismo e all'appello agli eserciti stranieri nel caso di una rivoluzione puramente indu-
striale del nord. La parola d'ordine del governo operaio e contadino deve perciò tenere
speciale conto del Mezzogiorno, non deve confondere la quistione dei contadini meridio-
nali con la quistione in generale dei rapporti tra città e campagna in un tutto economico
organicamente sottomesso al regime capitalistico: la quistione meridionale è anche qui-
stione territoriale ed è da questo punto di vista che deve essere esaminata per stabilire un
programma di governo operaio e contadino che voglia trovare larga ripercussione nelle
masse. (corsivi miei)
Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia
per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolit-
tiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di
stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia set-
tentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la
massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto
successo. Nell'Italia settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese-proletaria
attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperati-
ve; nell'Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri.
(Interruzioni del deputato Greco) Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento
di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l'aristocrazia operaia e i
contadini poveri di tutta Italia. Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del "Cor-
riere della Sera", giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazio-
nale: 800.000 lettori sono anch'essi un partito.
Mussolini. La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una ri-
voluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!
Gramsci. Il "Corriere della Sera" ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici
del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, a Amendola; di fronte alla soluzione
giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzo-
giorno e le isole, e perciò altrettanto pericolosa che l'attuale fascismo per la stessa unità
materiale dello Stato italiano, il "Corriere della Sera" ha sostenuto sempre un'alleanza tra
gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale
sul terreno del libero scambio. L'una e l'altra soluzione tendevano essenzialmente a dare
allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le "con-
quiste" del Risorgimento.
Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge co-
siddetta contro la massoneria; essi dicono di volere cosi conquistare lo Stato. In realtà il
fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in
Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La
"rivoluzione" fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro
personale. (corsivi miei)
3 Nel resoconto dei lavori del III Congresso di Lione, dettato da Gramsci
a Riccardo Ravagnan e pubblicato su «L’Unità» del 24 febbraio 1926, la ri-
flessione sul problema meridionale mostra ormai una quasi piena maturità. È
opportuno leggere con attenzione la parte del documento dedicata alla «que-
stione agraria». Spicca la definizione dei contadini del sud come «l'elemento
sociale più rivoluzionario della società italiana»; e la conseguente analisi per
cui «la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna
di fronte all'Italia del Nord, che funziona come una immensa città». Quello
che manca, e che rappresenterà la novità maggiore dell’articolo del 1926, è il
rilievo che lì sarà assegnato al ruolo degli intellettuali, che (come vedremo)
inaugura un motivo essenziale dei Quaderni del carcere.
La questione agraria
Il partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini, di uscire dalla
sfera della semplice propaganda ideologica tendente a diffondere solo astrattamente i ter-
mini generali della soluzione leninista del problema stesso, per entrare nel terreno pratico
dell'organizzazione e dell'azione politica reale. È evidente che ciò era più facile da otte-
nersi in Italia che negli altri paesi perché nel nostro paese il processo di differenziazione
delle grandi masse della popolazione è per certi aspetti più avanzato che altrove, in conse-
guenza della situazione politica attuale.
D'altronde una tale questione, dato che il proletariato industriale è da noi solo una
minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore intensità che altrove. Il
problema di quali siano le forze motrici della rivoluzione e quello della funzione direttiva
del proletariato si presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare atten-
zione del nostro partito e la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si rias-
sumono nell'espressione: questione agraria.
54
3. La “quistione meridionale”
Nell’aprile 1921, 5000 operai rivoluzionari furono licenziati dalla Fiat, i Consigli di
fabbrica furono aboliti, i salari reali furono abbassati. A Reggio Emilia avvenne proba-
bilmente qualcosa di simile. Gli operai cioè furono battuti. Ma il sacrificio che essi ave-
vano fatto, è restato inutile? Non lo crediamo: siamo anzi sicuri che esso non è stato inuti-
le. È certo difficile registrare tutta una fila di grandi avvenimenti di massa che provino
l’efficacia immediata e fulminea di queste azioni.
sotto del suo compito di egemonia. Il proletariato non ha conquistato una po-
sizione nazionale e, per l’influenza del positivismo, ha continuato a pensare
al Sud in termini di vero e proprio razzismo, come a una realtà inferiore da
dominare.
Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve spogliarsi di ogni re-
siduo corporativo, di ogni pregiudizio o incrostazione sindacalista. Cosa significa ciò?
Che non solo devono essere superate le distinzioni che esistono tra professione e profes-
sione, ma che occorre, per conquistarsi la fiducia e il consenso dei contadini e di alcune
categorie semiproletarie della città, superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi che
possono sussistere e sussistono nella classe operaia come tale anche quando nel suo seno
sono spariti i particolarismi di professione. Il metallurgico, il falegname, l’edile, ecc. de-
vono non solo pensare come proletari e non più come metallurgico, falegname, edile, ecc.,
ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una clas-
se che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può
costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi strati
sociali. Se non si ottiene ciò, il proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati,
che in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzio-
ne borghese, danno allo Stato la possibilità di resistere all’impeto proletario e di fiaccarlo.
Tuttavia questo gruppo torinese voleva fare un’affermazione sul nome del Salvemini,
nel senso che al Salvemini stesso fu esposto dal compagno Ottavio Pastore recatosi a Fi-
renze per avere il consenso alla candidatura: “Gli operai di Torino vogliono eleggere un
deputato per i contadini pugliesi”.
Il Salvemini non volle accettare la candidatura, quantunque fosse rimasto scosso e
persino commosso dalla proposta (in quel tempo non si parlava ancora di “perfidia” co-
munista, e i costumi erano onesti e lieti); egli propose Mussolini come candidato e si im-
pegnò a venire a Torino per sostenere il Partito socialista nella lotta elettorale. Tenne in-
fatti due comizi grandiosi alla Camera del lavoro e in piazza Statuto, tra la massa che ve-
deva ed applaudiva in lui il rappresentante dei contadini meridionali oppressi e sfruttati in
forme ancora più odiose e bestiali che il proletariato settentrionale.
4 L’episodio dei 300 carabinieri della legione di Cagliari nel 1922, che
dichiararono la loro solidarietà agli operai torinesi.
Come si vede, sono tutti episodi di una solidarietà di classe tra operai del
Nord e contadini del Sud, cioè di unificazione della frattura fondamentale
della storia nazionale. Comincia a emergere, insomma, il problema della
egemonia come soluzione del problema nazionale.
Ma il corpo del saggio articola questa tesi di fondo in una serie di propo-
ste analitiche che via via pongono al centro la questione degli intellettuali. Il
primo aspetto è l’analisi della situazione italiana pre-fascista in termini di
egemonia e di rapporto Nord-Sud. La politica di Giolitti (ma poi Salandra,
Nitti, Crispi) viene interpretata come costruzione di un blocco tra borghesia
del Nord e, di volta in volta, operai del Nord e contadini del Sud. La borghe-
sia tiene divise le due parti della nazione, generando una alleanza sociale de-
gli uni contro gli altri. Da un lato Giolitti persegue il disegno di una conso-
ciazione nella fabbrica tra borghesia e proletariato per sfruttare il Sud; d’altro
lato (specie con Crispi) la borghesia del Nord si appoggia alle masse conta-
dine del Sud, attraverso la Chiesa, per sconfiggere gli operai del Nord. In so-
stanza, le classi dirigenti dividono la nazione, ne impediscono il compimento
storico, al fine di impedire la saldatura tra Nord e Sud, che significherebbe la
rivoluzione italiana. Rivoluzione proletaria e compimento del Risorgimento
nazionale arrivano qui a unificarsi.
L’altro aspetto centrale riguarda l’analisi della questione meridionale
considerata in se stessa. In se stessa la società meridionale è caratterizzata
dalla disgregazione, dalla frammentazione sociale, quasi dalla anarchia. Ciò
che unifica la massa amorfa è la funzione intellettuale, che realmente domina
59
Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che
costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione
tra loro (si capisce che occorre fare delle eccezioni: la Puglia, la Sardegna, la Sicilia, dove
esistono caratteristiche speciali nel grande quadro della struttura meridionale). La società
meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa con-
tadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi
proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermen-
to, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspi-
razioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le
impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico
e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi,
tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la
centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Be-
nedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un cer-
to senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana.
C’è ancora, in queste pagine, l’idea delle masse contadine come pura di-
sgregazione, che deve essere unificata: il proletariato del Nord può sostituire
la funzione intellettuale della borghesia nell’unificazione egemonica. Gram-
sci ritiene che il blocco agrario sia garantito dalla funzione intermedia degli
intellettuali tra i contadini e il latifondo.
In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato dallo svilup-
po del capitalismo. Il vecchio tipo dell’intellettuale era l’elemento organizzativo di una
società a base contadina e artigiana prevalentemente; per organizzare lo Stato, per orga-
nizzare il commercio la classe dominante allevava un particolare tipo di intellettuali.
L’industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale: l’organizzatore tecnico, lo specia-
lista della scienza applicata. Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate in
senso capitalista, fino ad assorbire la maggior parte dell’attività nazionale, è questo se-
condo tipo di intellettuale che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di ordine e di-
sciplina intellettuale. Nei paesi invece dove l’agricoltura esercita un ruolo ancora notevole
o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che dà la massima
parte del personale statale e che anche localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, eserci-
ta la funzione di intermediario tra il contadino e l’amministrazione in generale. Nell’Italia
meridionale predomina questo tipo con tutte le sue caratteristiche: democratico nella fac-
cia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo,
politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politi-
ci meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale.
Il secondo aspetto riguarda Piero Gobetti e Guido Dorso. Gobetti era stato
assassinato a Parigi il 15 febbraio (Gramsci scrive intorno all’ottobre) e la
frazione bordighiana accusa Gramsci e gli ordinovisti di avere dialogato con
lui, con un intellettuale liberale e borghese. Di qui l’elogio di Gobetti che
conclude il manoscritto, che è però l’indicazione di un blocco intellettuale
che va oltre i confini del marxismo e che rappresenta uno snodo fondamenta-
le della questione dell’egemonia.
Lezione 7
(Mercoledì 25 marzo 2020)
Con l’analisi dello scritto sulla questione meridionale, siamo giunti alle
soglie dei Quaderni del carcere, la cui composizione comincia nel carcere
speciale di Turi l’8 febbraio 1929. Prima di iniziare l’esame di questa opera,
ritengo opportuno proporvi alcune considerazioni introduttive, che riguarda-
no lo studio dei quaderni in generale.
Con queste forti restrizioni, iniziò comunque la stesura dei quaderni l’8
febbraio 1929, scrivendo di suo pugno la data sul primo foglio del Quaderno
1, in capo all’elenco dei 16 Argomenti principali.
I quaderni erano dunque depositati nel magazzino del carcere. Potevano
essere letti, fotografati, trasmessi al Ministero. Molto probabilmente qualco-
sa venne trasmesso a Mussolini, che parlò genericamente, in una dichiara-
zione a Yvon De Begnac, di «quaderni d’appunti dei condannati del tribunale
speciale».
Alla morte di Gramsci Tatiana restò a Roma anzi tutto per seguire il de-
stino dei suoi resti. Il 28 aprile si svolse il funerale in forma privata, alla sola
presenza di Tatiana e del fratello Carlo. Il corpo fu cremato e depositato al
Verano. Solo nel settembre 1938 fu autorizzato il trasferimento dei resti al
cimitero acattolico di Testaccio, dove tuttora si trova la tomba.
Lo stesso giorno della morte di Gramsci, il 27 aprile, Sraffa scrisse a Ta-
tiana esprimendole gratitudine ma soprattutto chiedendole di trasferire il la-
scito di Gramsci in un «luogo sicuro». «Luogo sicuro» significava, senza
possibilità di dubbio, l’ambasciata sovietica a Roma. Tatiana si attivò imme-
diatamente e da una lettera a Giulia del 5 maggio risulta che a quella data i
quaderni erano già trasferiti nella sede dell’ambasciata. Tuttavia fino al 6 lu-
glio non vennero formalmente consegnati all’ambasciatore. Qui si aprono
due importanti problemi: 1) il primo lavoro di Tatiana sui quaderni; 2) il mo-
tivo per cui Tatiana ritardò la consegna dei quaderni all’autorità sovietica.
Soffermiamoci sul primo aspetto. Tra la metà del 1937 e il 1938 (proba-
bilmente il settembre, quando il corpo di Gramsci venne trasferito al Testac-
cio), Tatiana lavorò sui quaderni, compiendo due operazioni di rilievo: 1) in
primo luogo diede la prima numerazione progressiva dei quaderni, in manie-
ra piuttosto casuale, col solo intento di stabilirne un ordine (è il numero ro-
mano che trovate riprodotto nell’edizione critica); 2) in secondo luogo operò
una indicizzazione di alcuni quaderni (probabilmente 2 o 3), allo scopo di
raccogliere le note di argomento affine. Non sappiamo se questa indicazione
era stata data dallo stesso Gramsci, ma certo Tatiana e Sraffa furono i primi a
pensare a un ordinamento “tematico” dei Quaderni.
La seconda questione è molto più complessa. Il centro estero del Partito
comunista, e in primo luogo Togliatti, premeva affinché le carte di Gramsci
fossero trasferite all’archivio del Comintern a Mosca. Fin dalla morte di
Gramsci, Tatiana (in seguito con il consenso delle sorelle Giulia e Genia)
cercò in ogni modo di sottrarre a Togliatti la cura degli scritti gramsciani.
Ciò accadeva per un motivo determinato. La “strana lettera” di Ruggiero
Grieco che aveva allarmato Gramsci, e che probabilmente Tatiana ritrovò fra
le sue carte, divenne l’occasione di un contrasto molto duro con Togliatti;
fino all’inchiesta che il Comintern intentò contro Togliatti nel 1939 e alla let-
tera di denuncia che Giulia e Genia scrissero a Stalin l’8 dicembre 1940.
In ogni caso, consegnati i quaderni all’ambasciata russa di Roma il 6 lu-
glio 1937, essi arrivarono a Mosca, con posta diplomatica, solo nel dicembre
1938, e restarono presso la famiglia Schucht fino all’aprile 1941, quando
vennero consegnati all’Archivio centrale del Comintern. Il Comintern istituì
subito una “Commissione per il patrimonio letterario del compagno Gram-
sci”, che si riunì due volte (in assenza di Togliatti, che era in Spagna), il 25
febbraio e il 7 agosto 1939.
Dopo la liberazione, i quaderni tornarono in Italia il 3 marzo 1945, custo-
diti tra il 1945 e il 1955 in una cassaforte dell’Ufficio amministrativo del Pci,
dal 1955 in una cassetta di sicurezza della Banca Nazionale del Lavoro, infi-
ne affidati all’archivio dell’Istituto Gramsci, dove si trovano tuttora.
66
5. L’edizione critica
2) Numerò le singole note (a cui Gramsci aveva assegnato solo il segno di §),
quaderno per quaderno, rispettando l’ordine del manoscritto o ipotizzando-
nel’ordine di composizione.
4) Costruì, nel quarto volume, un ampio apparato critico, ancora oggi utilis-
simo per lo studio dei quaderni.
68
6. L’edizione nazionale
2) Alcune scelte di Gerratana, relative alle datazioni dei quaderni, sono subi-
to apparse discutibili. In particolare, nei Quaderni 4, 7 e 10 Gerratana aveva
invertito l’ordine del manoscritto, ritenendo che la data di composizione non
corrispondesse alla sequenza delle pagine. Il Quaderno 4 inizia dai fogli 41-
80bis, segue con i fogli 11-40bis e si conclude con i fogli 1-10bis. Il Quader-
no 7 pone dapprima i fogli 51-73bis, poi i fogli 34bis-50bis. Il Quaderno 10
inizia con i fogli 41-50a e prosegue con i fogli 1-40a. Alcune di queste inver-
sioni, a un esame ulteriore, si sono dimostrate discutibili.
3) Infine, Gerratana aveva compiuto uno sforzo notevole per datare l’inizio
della composizione dei singoli quaderni e la loro disposizione interna. Ma
l’esigenza principale è (per le ragioni che dirò tra poco) quella di datare le
singole note. Questo tentativo non ha solo, o tanto, un rilievo editoriale, ma
di studio e interpretativo, nel senso che occorre per ricostruire una “mappa”
attendibile del percorso teorico di Gramsci.
In questo modo, abbiamo una prima “mappa” del contenuto dei quaderni.
Questa “mappa”, seppure corretta sul piano filologico, ha il grave limite di
non fornire indicazioni sui tempi di composizione delle note. Per affrontare
questo problema dobbiamo, in primo luogo, ricostruire la biografia intellet-
tuale di Gramsci in carcere. Per semplificare al massimo, possiamo distin-
guere quattro fasi nella composizione dei quaderni. Questa ripartizione cro-
nologica ci offre una griglia per tentare poi di datare le singole note:
2. Intorno al maggio 1930 c’è una prima svolta nel suo lavoro. Tra il
maggio 1930 e l’aprile 1932, Gramsci raccoglie note di spoglio e note teori-
che nei Quaderni 2-8, lavorando contemporaneamente su più quaderni, ma
per la prima volta introduce sezioni tematiche nei Quaderni 4, 7 e 8: scrive
infatti le tre serie degli Appunti di filosofia, le note sul canto decimo
dell’Inferno di Dante e le note miscellanee sugli intellettuali. Si definisce co-
sì una seconda fase, in cui quasi tutto il materiale della sua riflessione appare
ormai enucleato.
ciò fissare questa terza fase del suo lavoro, dominata dalla composizione dei
primi 4 quaderni “speciali”.
4. Nei mesi che restò a Turi, fino al dicembre 1933, Gramsci riprese il
suo lavoro miscellaneo nei Quaderni 15 e 17. In sostanza, nel periodo di Turi
aveva scritto (anche se non completato) i Quaderni 1-12, 13, 15, 17. Con il
trasferimento a Formia, dove arrivò il 7 dicembre 1933, inizia una fase diver-
sa. Gramsci prosegue alcuni quaderni iniziati a Turi: 13, 14 e 17. Ma soprat-
tutto avvia i Quaderni 16, 18-29, tutti privi di contrassegni carcerari e tutti
“speciali”. Abbiamo dunque una quarta e ultima fase del suo lavoro, che so-
stanzialmente coincide con il periodo di Formia.
8. I criteri di datazione
Con questi criteri, che interagiscono fra loro, non arriviamo a una perfetta
datazione di tutto il lavoro carcerario di Gramsci, ma siamo in grado di co-
struire una “mappa” che ci restituisce, nel suo sviluppo, la riflessione che sta
alla base dei quaderni.
74
Lezione 8
Per iniziare la lettura dei quaderni, dobbiamo anzi tutto tenere presenti le
circostanze della biografia. Gramsci, ricordiamolo ancora, era stato arrestato
la sera dell’8 novembre 1926. In una lettera non datata (allegata agli atti del
processo), ma presumibilmente scritta poco dopo il fermo, chiede alla padro-
na della sua abitazione di Roma, Clara Passarge, l’invio di tre libri, che evi-
dentemente sono al centro dei suoi interessi attuali:
Gentilissima signora, prima di tutto, voglio domandarle scusa per i disturbi e i fastidi
che le ho arrecato, i quali non entravano, in verità, nell’accordo di inquilinato. Sto abba-
stanza bene e sono calmo e tranquillo. Le sarò grato se vorrà preparare un po’ di bianche-
ria e consegnarla a una brava donna, di nome Marietta Bucciarelli, se verrà a domandarla
per me: non posso mandarle l’indirizzo della donna perché l’ho dimenticato. Vorrei avere
questi libri: 1° la Grammatica tedesca che era nello scaffale accanto all’ingresso; 2° il
Breviario di linguistica di Bertoni e Bartoli che era nell’armadio di fronte al letto; 3° gra-
tissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo
avevo imprestato. Se i libri sono rilegati, occorre strappare il cartone, badando che i fogli
non si stacchino. Vorrei avere notizie del bambino che era ammalato di scarlattina. Forse
Marietta saprà qualche cosa. Se la mia permanenza in questo soggiorno durasse a lungo,
credo ella debba ritenere libera la stanza e disporne. I libri può incassarli e gettar via i
giornali quotidiani. Le rinnovo le mie scuse, cara signora, e tutto il mio rincrescimento,
tanto più grande quanto più è stata grande la loro gentilezza.
Altri libri chiede poco tempo dopo dal confino di Ustica, il 9 dicembre, a
Tatiana:
Due giorni dopo, l’11 dicembre, scrive a Piero Sraffa (allora professore di
economia politica a Cagliari), chiedendo aiuto per i libri, con particolare ri-
guardo a «un buon trattato di economia e di finanza» e a «qualche libro e
qualche rivista di cultura generale». Sraffa, come è noto, gli aprì un conto
illimitato presso la libreria Sperling&Kupfer di Milano, da cui arriveranno a
Gramsci le nuove pubblicazioni.
75
Carissimo amico, sono giunto a Ustica il 7 dicembre, dopo un viaggio alquanto disa-
giato (come puoi comprendere), ma molto interessante. Sono in ottime condizioni di salu-
te. Ustica sarà per me un soggiorno abbastanza piacevole dal punto di vista dell’esistenza
animale, perché il clima è ottimo e posso fare passeggiate saluberrime: per le comodità
generali, tu sai che non ho molte pretese e posso vivere con pochissimo. Mi preoccupa un
po’ il problema della noia, che non potrà essere risolto unicamente dalle passeggiate e dal
contatto con gli amici: siamo finora 14 amici, tra i quali Bordiga. Mi rivolgo a te perché
mi faccia la cortesia di inviarmi qualche libro. Desidererei avere un buon trattato di eco-
nomia e di finanza da studiare: un libro fondamentale, che tu potrai scegliere a tuo giudi-
zio. Quando ti sarà possibile mi manderai qualche libro e qualche rivista di cultura gene-
rale che riterrai interessante per me. Carissimo amico, tu conosci le mie condizioni fami-
gliari e sai quanto sia difficile per me ricevere libri altro che da qualche amico personale:
credi che non avrei osato darti un tale fastidio, se non spinto dalla necessità di risolvere
questo problema dell’abbrutimento intellettuale che specialmente mi preoccupa. Ti ab-
braccio affettuosamente
Fin dai primi giorni della reclusione, dunque, Gramsci cerca di organizza-
re le proprie letture e di impostare una attività di studio. Così, il 19 marzo
1927, dal carcere milanese di San Vittore, comunica a Tatiana (e, per mezzo
di Tatiana, a Togliatti e a Sraffa) il suo primo programma di lavoro (lo ab-
biamo già commentato nelle lezioni precedenti):
Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo è un indice che non riesco a racco-
gliermi, e cioè: 1° una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel secolo
scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggrup-
pamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare ecc. ecc. Argo-
mento suggestivo in sommo grado, che io naturalmente potrei solo abbozzare nelle grandi
linee, data l’assoluta impossibilità di avere a disposizione l’immensa mole di materiale
che sarebbe necessaria. Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia
meridionale e sulla importanza di B. Croce? Ebbene, vorrei svolgere ampiamente la tesi
che avevo allora abbozzato, da un punto di vista «disinteressato», «für ewig». - 2° Uno
studio di linguistica comparata! Niente meno. Ma che cosa potrebbe essere più «disinte-
ressato» e für ewig di ciò? Si tratterebbe, naturalmente, di trattare solo la parte metodolo-
gica e puramente teorica dell’argomento, che non è stata mai trattata completamente e
sistematicamente dal nuovo punto di vista dei neolinguisti contro i neogrammatici. (Ti
farò orripilare, cara Tania, con questa mia lettera!) Uno dei maggiori «rimorsi» intellet-
tuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli
dell’Università di Torino il quale era persuaso essere io l’arcangelo destinato a prodigare
definitivamente i «neogrammatici», poiché egli, della stessa generazione e legato da mi-
lioni di fili accademici a questa geldra di infamissimi uomini, non voleva andare, nelle
sue enunciazioni, oltre un certo limite fissato dalle convenienze e dalla deferenza ai vec-
chi monumenti funerari dell’erudizione. - 3° Uno studio sul teatro di Pirandello e sulla
trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappresentato e ha contribui-
to a determinare. Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho scoperto e ho contribuito
a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da
mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie affermazioni erano originali e
senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso. - 4° Un
saggio sui romanzi di appendice e il gusto popolare in letteratura. L’idea m’è venuta leg-
gendo la notizia della morte di Serafino Renzi, capocomico di una compagnia di drammi
da arena, riflesso teatrale dei romanzi d’appendice, e ricordando quanto io mi sia divertito
76
le volte che sono andato ad ascoltarlo, perché la rappresentazione era doppia: l’ansia, le
passioni scatenate, l’intervento del pubblico popolare non era certo la rappresentazione
meno interessante. Che te ne pare di tutto ciò? In fondo, a chi bene osservi, tra questi
quattro argomenti esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e
gradi di sviluppo, è alla base di essi in misura uguale.
Argomenti principali: –
1) Teoria della storia e della storiografia.
2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870.
3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento, atteggiamenti.
4) La letteratura popolare dei «romanzi d’appendice» e le ragioni della sua persistente
fortuna.
5) Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina
Commedia.
6) Origini e svolgimento dell’Azione Cattolica in Italia e in Europa.
7) Il concetto di folklore.
8) Esperienze della vita in carcere.
9) La «quistione meridionale» e la quistione delle isole.
10) Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione
dell’emigrazione.
11) Americanismo e fordismo.
12) La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli.
13) Il «senso comune» (cfr 7).
14) Riviste tipo: teorica, critico-storica, di cultura generale (divulgazione).
15) Neo-grammatici e neo-linguisti («questa tavola rotonda è quadrata»).
16) I nipotini di padre Bresciani.
Sai? Scrivo già in cella. Per adesso faccio solo delle traduzioni, per rifarmi la mano:
intanto metto ordine nei miei pensieri. (Lettera a Tatiana del 9 febbraio 1929)
Io adesso sto abbastanza bene e dormo qualche mezz’ora di più. Poi mi sono ingolfato
in traduzioni dal tedesco e questo lavoro mi calma i nervi e mi fa stare più tranquillo.
Leggo meno, ma lavoro di più. (Lettera a Giulia dell’11 marzo 1929)
2. Il diritto naturale
Nella polemica presente contro il diritto naturale non bisogna cercare una intenzione
scientifica qualunque. Si tratta di esercitazioni giornalistiche non molto brillanti, che si
propongono lo scopo propagandistico di distruggere certi stati d’animo molto diffusi e che
sono ritenuti pericolosi. A questo proposito vedere l’opuscolo del Tilgher su «Storia e An-
tistoria», dal quale apparirebbe che mai come oggi la mentalità illuministica da cui è nata
la teoria del diritto naturale è diffusa. L’opuscolo del Tilgher, a suo modo, è una riprova
di tale diffusione, perché il Tilgher cerca con esso di farsi un posticino al nuovo sole. Mi
pare che chi studi con una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato) le con-
traddizioni psicologiche che nascono sul terreno dello storicismo, come concezione gene-
rale della vita e dell’azione, sia Filippo Burzio. Per lo meno la sua affermazione: «essere
sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli» mi pare ricca di molte conseguenze.
Infatti questo è il nodo della quistione dello «storicismo» che il Tilgher non sfiora neppu-
re: «come si possa essere critici e uomini d’azione nello stesso tempo, in modo non solo
che l’uno aspetto non indebolisca l’altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher scinde molto
meccanicamente i due aspetti di ogni personalità umana (dato che non esiste e non è mai
esistito un uomo tutto critico e uno tutto passionale) invece di cercare di determinare co-
me in diversi periodi storici i due aspetti si combinino in modo che nel mondo della cultu-
ra prevalga una corrente o l’altra. (L’opuscolo del Tilgher lo dovrò ancora rivedere).
Uno degli imparaticci dei teorici di origine nazionalista (es. M. Maraviglia) è quello
di contrapporre la storia al diritto naturale. Ma cosa significa una tale contrapposizione?
Nulla o solo la confusione nel cervello dello scrittore. Intanto il «diritto naturale» è un
elemento della storia, indica un «senso comune politico e sociale» e come tale è un «fer-
mento» di operosità. La quistione potrebbe esser questa: che un teorico spieghi i fatti col
così detto «diritto naturale», ma questo è un problema di carattere individuale, di critica a
opere individuali ecc. e in fondo non è altro che critica al «moralismo» come canone
d’interpretazione storica. Roba che ha la barba. Ma in realtà, al di sotto di questo spropo-
sito c’è un interesse concreto. Quello di voler sostituire un «diritto naturale» a un altro. E
infatti tutta la teoria nazionalista non è basata su «diritti naturali»? Si vuole al modo di
pensare «popolare» sostituire un modo di pensare non popolare, altrettanto mancante di
critica del primo. (p. 1761-1762)
Come vedete, la critica del diritto naturale (di quella posizione che nasce
nel contesto di un discorso religioso e penetra nel giusnaturalismo moderno)
porta Gramsci a una integrale storicizzazione («Intanto il “diritto naturale” è
un elemento della storia») fino alla identificazione del diritto di natura con il
«senso comune politico e sociale». È la storia che fissa in un preteso diritto
naturale, che diventa norma comune, il risultato di conflitti sociali.
L’aspetto veramente significativo di questa storicizzazione del diritto na-
turale riguarda la categoria di senso comune, che esploderà, dopo il maggio
1930, nelle tre serie di Appunti di filosofia. Qui Gramsci parla di «senso co-
mune politico e sociale». Ma in generale il diritto naturale, cioè il valore as-
sunto in una prospettiva religiosa, rappresenta la sfera stessa del senso co-
mune, che non a caso, nelle riflessioni seguenti, sarà decisamente collegato
con la religione cattolica e con la sua visione trascendente della realtà.
Nel Quaderno 27 la questione è svolta ulteriormente con una rielabora-
zione molto radicale, in seconda stesura, della nota del Quaderno 1 che ab-
biamo già esaminato:
Viene esercitata ancora oggi una certa critica, per lo più di carattere giornalistico e
superficiale, non molto brillante contro il così detto diritto naturale (cfr qualche elucubra-
zione di Maurizio Maraviglia e i sarcasmi e le beffe più o meno convenzionali e stantie
dei giornali e delle riviste). Qual è il significato reale di queste esercitazioni?
Per comprendere ciò occorre, mi pare, distinguere alcune delle espressioni che tradi-
zionalmente ha assunto il «diritto naturale»:
1) La espressione cattolica, contro la quale gli attuali polemisti non hanno il coraggio
di prendere una netta posizione, sebbene il concetto di «diritto naturale» sia essenziale ed
integrante della dottrina sociale e politica cattolica. Sarebbe interessante ricordare lo stret-
80
to rapporto che esiste tra la religione cattolica, così come è stata intesa sempre dalle gran-
di masse e gli «immortali principii dell’89». I cattolici stessi della gerarchia ammettono
questo rapporto quando affermano che la rivoluzione francese è stata una «eresia» o che
da essa si è iniziata una nuova eresia, riconoscono cioè che allora è avvenuta una scissio-
ne nella stessa fondamentale mentalità e concezione del mondo e della vita: d’altronde
solo così si può spiegare la storia religiosa della Rivoluzione francese, ché sarebbe altri-
menti inesplicabile l’adesione in massa alle nuove idee e alla politica rivoluzionaria dei
giacobini contro il clero, di una popolazione che era certo ancora profondamente religiosa
e cattolica. Per ciò si può dire che concettualmente non i principii della Rivoluzione fran-
cese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, ma i princi-
pii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) a
quelli della Rivoluzione francese, cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della
forza e della lotta.
2) La espressione di diversi gruppi intellettuali, di diverse tendenze politico-
giuridiche, che è quella sulla quale si è svolta finora la polemica scientifica sul «diritto
naturale». A questo proposito la quistione è stata risolta fondamentalmente dal Croce, col
riconoscimento che si è trattato di correnti politiche e pubblicistiche, che avevano il loro
significato e la loro importanza in quanto esprimevano esigenze reali nella forma dogma-
tica e sistematica della così detta scienza del diritto (cfr la trattazione del Croce). Contro
questa tendenza si svolge la polemica «apparente» degli attuali esercitatori di scienza del
diritto, che in realtà, non distinguendo tra il contenuto reale del «diritto naturale» (riven-
dicazioni concrete di carattere politico-economico-sociale), la forma della teorizzazione e
le giustificazioni mentali che del contenuto reale dà il diritto naturale, sono essi più acriti-
ci e antistorici dei teorici del diritto naturale, cioè sono dei muli bendati del più gretto
conservatorismo (che si riferisce anche alle cose passate e «storicamente» superate e
spazzate via).
3) La polemica in realtà mira ad infrenare l’influsso che specialmente sui giovani in-
tellettuali potrebbero avere (e hanno realmente) le correnti popolari del «diritto naturale»,
cioè quell’insieme di opinioni e di credenze sui «proprii» diritti che circolano ininterrot-
tamente nelle masse popolari, che si rinnovano di continuo sotto la spinta delle condizioni
reali di vita e dello spontaneo confronto tra il modo di essere dei diversi ceti. La religione
ha molto influsso su queste correnti, la religione in tutti i sensi, da quella come è realmen-
te sentita e attuata a quella quale è organizzata e sistematizzata dalla gerarchia, che non
può rinunziare al concetto di diritto popolare. Ma su queste correnti influiscono, per meati
intellettuali incontrollabili e capillari, anche una serie di concetti diffusi dalle correnti lai-
che del diritto naturale e ancora diventano «diritto naturale», per contaminazioni le più
svariate e bizzarre, anche certi programmi e proposizioni affermati dallo «storicismo».
Esiste dunque una massa di opinioni «giuridiche» popolari, che assumono la forma del
«diritto naturale» e sono il «folclore» giuridico. Che tale corrente abbia importanza non
piccola è stato dimostrato dalla organizzazione delle «Corti d’Assisi» e di tutta una serie
di magistrature arbitrali o di conciliazione, in tutti i campi dei rapporti individuali e di
gruppo, che appunto dovrebbero giudicare tenendo conto del «diritto» come è inteso dal
popolo, controllato dal diritto positivo o ufficiale. Né è da pensare che l’importanza di
questa quistione sia sparita con l’abolizione delle giurie popolari, perché nessun magistra-
to può in una qualsiasi misura prescindere dall’opinione: è anzi probabile che la quistione
si ripresenti in altra forma e in misura ben più estesa che nel passato, ciò che non manche-
rà di sollevare pericoli e nuove serie di problemi da risolvere.
la forza e della lotta», cioè che sanno indicare la genesi del diritto naturale
(una specie di alfabeto del senso comune o, come qui si dice, «folclore giuri-
dico») nell’ordine concreto della storia. Ma in questo testo, come avrete os-
servato, la questione assume una straordinaria complessità. Gli «immortali
princìpi dell’89» sono una secolarizzazione del giusnaturalismo cattolico
(una eresia di quel modello originale). Tutta la morale moderna, sanzionata
dall’epoca liberale, deriva da tale opera di secolarizzazione. La filosofia del-
la praxis mira a spezzare questa continuità, riaffermando «la realtà effettuale
della forza e della lotta», cioè opponendo alla morale della trascendenza
quella posizione filosofica che Gramsci definisce come immanenza. Questa è
la “religione dell’uomo moderno”, che la modernità ha per molti versi man-
cato, assumendo dal cattolicesimo le sue categorie costitutive.
Ora il tratto di questa secolarizzazione, sotto il profilo filosofico, è il ca-
rattere speculativo del diritto naturale: come le categorie dell’idealismo, il
diritto di natura è un dato originario, che si sottrae alla genesi dal divenire
della storia. Come il Dio dei cristiani, il diritto di natura ha una struttura tra-
scendente, che sfugge alle mani dell’uomo e alla sua volontà.
3. Brescianesimo e lorianesimo
Accanto al tema del diritto naturale Gramsci imposta, nelle prime note del
Quaderno 1, alcune rubriche caratteristiche dei quaderni: la critica del bre-
scianesimo e del lorianesimo. Il primo aspetto (cfr. § 24) considera lo stesso
problema del diritto naturale a un diverso livello: la penetrazione di un codi-
ce caratteristico della letteratura religiosa nella letteratura laica (laici sono i
nipotini di padre Bresciani, che riproducono o “secolarizzano” il discorso re-
ligioso popolare). La rubrica sul lorianesimo (cfr. § 25) considera invece le
degenerazioni positiviste e deterministiche del marxismo, che sfociano nella
dottrina del marxismo come sociologia: il lorianesimo, scrive, «poi si è “tu-
mefatto” nel campo della “sociologia”» (Q1, § 32). La critica del lorianesimo,
insomma, anticipa quella che, nei quaderni successivi, sarà rivolta a Bucharin.
(Si ricordi che lorianesimo è un neologismo derivato da Achille Lòria, un
economista che aveva avuto una certa fortuna nel socialismo italiano e che
era stato l’oggetto di critiche e sarcasmi già da parte di Antonio Labriola e
Benedetto Croce).
Nelle prime note del Quaderno 1 (prima di arrivare alla “svolta” del § 44)
ci sono ancora due passaggi di grande rilievo teorico: uno su Machiavelli,
l’altro su Maurras.
Il §10 su Machiavelli introduce indirettamente i grandi nodi della rifles-
sione sull’egemonia: il nesso nazionale-internazionale, il rapporto borghesia-
contadini nella rivoluzione nazionale. Si potrebbe dire che Gramsci sostitui-
82
Si suole troppo considerare Machiavelli come il «politico in generale» buono per tutti
i tempi: ecco già un errore di politica. Machiavelli legato al suo tempo: 1) lotte interne
nella repubblica fiorentina; 2) lotte tra gli stati italiani per un equilibrio reciproco; 3) lotte
degli stati italiani per equilibrio europeo. Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e
della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale. Fa un «paragone ellittico» come
direbbe il Croce e desume le regole per un forte stato in generale e italiano in particolare.
Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua arte politica rappresenta la filosofia del
tempo che tende alla monarchia nazionale assoluta, la forma che può permettere uno svi-
luppo e un’organizzazione borghese. In Machiavelli si trova in nuce la separazione dei
poteri e il parlamentarismo; la sua «ferocia» è contro i residui del feudalismo, non contro
le classi progressive; il principe deve porre fine all’anarchia feudale e ciò fa il Valentino
in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, contadini e mercanti. Dato il carattere
militare del capo dello stato, come si richiede in un periodo di lotta per la formazione e il
consolidamento del potere, l’indicazione di classe contenuta nell’Arte della guerra si deve
intendere per la struttura generale statale: se i borghesi della città vogliono porre fine al
disordine interno e all’anarchia esterna, devono appoggiarsi sui contadini come massa,
costituendo una forza armata sicura e fedele. Si può dire che questa concezione essen-
zialmente politica è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di
carattere militare: egli pensa specialmente alla fanteria, le cui masse possono essere arruo-
late con un’azione politica, e perciò misconosce il valore dell’artiglieria. Insomma deve
essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare in quanto ciò è
necessario per la sua costruzione politica, ma lo fa in modo unilaterale, perché non lì è il
centro del suo pensiero.
In questa breve nota (che sarà rielaborata nel Quaderno 13, su cui ci sof-
fermeremo nelle lezioni seguenti) è già in nuce tutta l’interpretazione di Ma-
chiavelli che verrà sviluppata successivamente. Gramsci utilizza la formula
del “paragone ellittico” che Croce aveva coniato in Materialismo storico ed
economia marxistica per spiegare la teoria del valore di Marx. Per Croce la
teoria del valore era il risultato, appunto, di un “paragone ellittico” tra la real-
tà economica del capitalismo e una società ideale di soli lavoratori. Ma
Gramsci estende il significato della formula, sottolineando come la conce-
zione politica di Machiavelli derivasse dal confronto della situazione italiana
con i punti più alti dello sviluppo storico europeo («l’esempio della Francia e
della Spagna»). È il primo esempio di “traducibilità”, nel senso che Machia-
velli traduce nella realtà dell’Italia lo spirito universale del suo tempo: in una
parola, fonda la sua teoria sul nesso fra dimensione internazionale e sfera na-
zionale, che presto diventerà il nucleo essenziale della teoria dell’egemonia.
Teniamo a mente questo passaggio fondamentale: attraverso l’esempio di
Machiavelli, l’egemonia si configura come capacità del soggetto (il principe,
il moderno principe) di tradurre nella politica nazionale la funzione propul-
siva (così si era espresso nella lettera del 1926 al comitato centrale del Pcr)
che si afferma a livello universale. Solo che, come poi vedremo, mentre
nell’epoca di Machiavelli la funzione propulsiva è esercitata dai grandi Stati
nazionali, nel novecento l’egemonia deve fare i conti con la crisi degli Stati
83
Non so se tu sei riuscita ad afferrare tutta l’importanza storica che il conflitto tra il
Vaticano e i monarchici francesi ha per la Francia: esso corrisponde, entro certi limiti, alla
riconciliazione italiana. È la forma francese di una conciliazione profonda tra Stato e
Chiesa: i cattolici francesi, come massa organizzata nell’Azione Cattolica francese, si
scindono dalla minoranza monarchica, cessano cioè di essere la riserva popolare potenzia-
le per un colpo di stato legittimista e tendono invece a formare un vasto partito di governo
repubblicano cattolico, che vorrebbe assorbire e assorbirà certamente una notevole parte
dell’attuale partito radicale (Herriot e C.i). È stato tipico nel ’26, durante la crisi parla-
mentare francese, mentre l’«Action Française» preannunziava il colpo di forza e pubbli-
cava i nomi dei futuri ministri che dovevano costituire il governo provvisorio che avrebbe
richiamato il pretendente Giovanni IV d’Orléans, il capo dei cattolici accettava di entrare
a far parte di un governo di coalizione repubblicana. La livida rabbia di Daudet e Maurras
contro il cardinal Gasparri e il nunzio pontificio a Parigi è proprio dovuta alla coscienza
acquistata di essere ormai diminuiti politicamente del 90% a dir poco.
Ogni partito si fonda su una classe e il partito monarchico si fonda in Francia sui resi-
dui della vecchia nobiltà terriera e su una piccola parte di intellettuali. Su che sperano i
monarchici per diventare capaci di prendere il potere e restaurare la monarchia? Sperano
sul collasso del regime parlamentare-borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra forza
organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una dittatura militare prevedibile o da
loro stessi preordinata. Le loro forze sociali di classe in nessun modo potrebbero altrimen-
ti giungere al potere.
Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione formale nel
regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie «private» nella società
l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo
col consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa
privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontario», in un modo o
nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini con la legge Chapelier [o il maximum] viene
superato e allargato attraverso un processo complesso, teorico-pratico (giuridico-politico
= economico), per cui si riottiene il consenso politico (si mantiene l’egemonia) allargando
e approfondendo la base economica con lo sviluppo industriale e commerciale fino alla
epoca dell’imperialismo e alla guerra mondiale. […]
L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parla-
mentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibra-
85
no, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso
della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in
certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente).
Maurras grida già allo sfacelo e si prepara alla presa del potere. Maurras passa per un
grande uomo di stato e per un grandissimo realista. In realtà egli è solo un giacobino alla
rovescia. I giacobini usavano un certo linguaggio, seguivano una certa ideologia; nel loro
tempo quel linguaggio e quella ideologia erano ultra-realistici perché ottennero di far
marciare le forze necessarie per ottenere i fini della rivoluzione e dettero alla classe rivo-
luzionaria il potere. Furono poi staccati dal tempo e dal luogo e ridotti in formule: erano
una cosa diversa, uno spettro, delle parole vane e inerti. Il comico è che Maurras a quelle
formule ne contrappose delle altre, in un sistema logico-letterario formalmente impeccabi-
le, ma del più puro illuminismo. Maurras rappresenta il più puro campione dello «stupido
secolo XIX», la concentrazione di tutte le banalità massoniche rovesciate meccanicamente:
la sua relativa popolarità viene appunto da questo, che il suo metodo piace perché è pro-
prio quello della ragione ragionante da cui è sorto l’enciclopedismo, l’illuminismo e tutta
86
la cultura massonica francese. Gli illuministi avevano creato il mito del selvaggio o che so
io, Maurras crea il mito del passato monarchico francese; solo che questo mito è stato
«storia» e le deformazioni intellettualistiche di esso possono essere troppo facilmente cor-
rette.
La formula fondamentale di Maurras è «politique d’abord», ma egli è il primo a non
osservarla. Prima della politica per lui c’è sempre l’«astrazione politica», l’accoglimento
integrale di un programma «ideologico» minuziosissimo, che prevede tutti i particolari,
come nelle utopie, che domanda una determinata concezione non della storia, ma della
storia di Francia e d’Europa, cioè una determinata ermeneutica.
87
Lezione 9
1. Il § 43 e le “riviste-tipo”
Per intellettuali occorre intendere non [solo] quei ceti comunemente intesi con questa
denominazione, ma in generale tutta la massa sociale che esercita funzioni organizzative
in senso lato, sia nel campo della produzione, sia nel campo della cultura, sia nel campo
amministrativo-politico: corrispondono ai sott’ufficiali e agli ufficiali subalterni nell’eser-
cito (e anche a una parte degli ufficiali superiori con esclusione degli stati maggiori nel
senso più ristretto della parola).
Per analizzare le funzioni sociali degli intellettuali occorre ricercare ed esaminare il
loro atteggiamento psicologico verso le grandi classi che essi mettono a contatto nei di-
versi campi: hanno atteggiamento «paternalistico» verso le classi strumentali? o «credo-
no» di esserne una espressione organica? hanno atteggiamento «servile» verso le classi
dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?
Il così detto «trasformismo» è legato a questo fatto: il Partito d’Azione viene incorpo-
rato molecolarmente dai moderati e le masse vengono decapitate, non assorbite
nell’ambito del nuovo stato. […]
La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolve-
re la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento del Papa. Sotto questo riguardo i mo-
derati furono molto più arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono i beni
ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un ceto nuovo di grandi e medi
proprietari legato alla nuova situazione politica, ma almeno non esitarono a mettere le
mani sulle congregazioni. Il P. d’A. era invece paralizzato dalle velleità mazziniane di
[una] riforma religiosa che non solo non toccava le grandi masse, ma le rendeva passibili
di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Francia era lì a dimostrare che i
giacobini, che erano riusciti a schiantare i girondini sulla quistione agraria e non solo a
impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare nelle provincie i loro aderen-
ti, furono invece danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religio-
sa.
Dopo l’analisi del § 43, dobbiamo osservare che al centro di questo qua-
derno (cc. 30recto-42recto) si trova una lunga nota (Direzione politica di
classe prima e dopo l’andata al governo), che Gramsci scrisse tra la fine del
1929 e i primi mesi del 1930. Per la complessità e l’intreccio di temi che vi
compaiono, questa nota divide il quaderno in due parti, introducendo una
porzione significativa dei problemi che saranno considerati nei quaderni suc-
cessivi. Anzi tutto vi troviamo la prima occorrenza del termine “egemonia”,
riportata tra virgole come “egemonia politica”.
Sul piano teorico, Gramsci introduce una distinzione tra due figure in cui
può presentarsi una classe dominante: direzione e dominio. Scrive così:
Il criterio storico-politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una
classe è dominante in due modi, è cioè «dirigente» e «dominante». È dirigente delle classi
alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere
può essere «dirigente» (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma conti-
nua ad essere anche «dirigente».
Tutto il problema delle varie correnti politiche del Risorgimento, dei loro rapporti re-
ciproci e dei loro rapporti con le forze omogenee o subordinate delle varie sezioni (o set-
tori) storiche del territorio nazionale si riduce a questo fondamentale: che i moderati rap-
presentavano una classe relativamente omogenea, per cui la direzione subì oscillazioni
relativamente limitate, mentre il Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nes-
suna classe storica e le oscillazioni che subivano i suoi organi dirigenti in ultima analisi si
componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d’Azione fu
guidato dai moderati (l’affermazione di Vittorio Emanuele II di «avere in tasca», o qual-
cosa di simile, il Partito d’Azione è esatta, e non solo per i suoi contatti personali con Ga-
ribaldi; il Partito d’Azione storicamente fu guidato da Cavour e da Vittorio Emanuele II).
Dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di questo pro-
blema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effet-
tuato di rivoluzione senza rivoluzione [o di rivoluzione passiva secondo l’espressione di
V. Cuoco]. In quali forme i moderati riuscirono a stabilire l’apparato della loro direzione
politica? In forme che si possono chiamare «liberali» cioè attraverso l’iniziativa indivi-
duale, «privata» (non per un programma «ufficiale» di partito, secondo un piano elaborato
e costituito precedentemente all’azione pratica e organizzativa).
Ciò era «normale», data la struttura e la funzione delle classi rappresentate dai mode-
rati, delle quali i moderati erano il ceto dirigente, gli «intellettuali» in senso organico. […]
I moderati erano «intellettuali», «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro
rapporti con le classi di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava
l’identità di rappresentato e rappresentante, di espresso e di espressivo, cioè gli intellettua-
li moderati erano una avanguardia reale, organica delle classi alte perché essi stessi appar-
tenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e in-
sieme capi di azienda, grandi proprietari-amministratori terrieri, imprenditori commerciali
e industriali, ecc.). Data questa «condensazione» o concentrazione organica, i moderati
esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali
92
esistenti nel paese allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elemen-
tarmente soddisfatte, della istruzione pubblica e dell’amministrazione. Si rivela qui la ve-
rità di un criterio di ricerca storico-politico: non esiste una classe indipendente di intellet-
tuali, ma ogni classe ha i suoi intellettuali; però gli intellettuali della classe storicamente
progressiva esercitano un tale potere di attrazione, che finiscono, in ultima analisi, col su-
bordinarsi gli intellettuali delle altre classi e col creare l’ambiente di una solidarietà di
tutti gli intellettuali con legami di carattere psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta
(tecnico-giuridici, corporativi).
§ 〈46〉. Moderati e gli intellettuali. I moderati dovevano avere il sopravvento tra gli
intellettuali. Mazzini e Gioberti. Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che sem-
brava nazionale e originale, tale da porre l’Italia allo stesso livello delle nazioni più pro-
gredite e dare nuova dignità al «pensiero» italiano; Mazzini dava solo degli aforismi e
degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente meridionali, dovevano sem-
brare vuote chiacchiere (il Galiani aveva «sfottuto» quel modo di pensare e di scrivere).
Quistione della scuola. Attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico
dell’«insegnamento reciproco» (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante
Aporti e degli asili, legato anche al pauperismo. Era il solo movimento concreto contro la
scuola «gesuitica» e non poteva non avere efficacia non solo fra i laici, ai quali dava una
personalità propria, ma anche nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità contro Fer-
rante Aporti ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio
del clericalismo e queste iniziative spezzavano il monopolio).
Queste attività scolastiche del Risorgimento di carattere liberale o liberaleggiante
hanno una grande importanza per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati
sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme, an-
che economica, per gli intellettuali di tutti i gradi; l’aveva allora anche maggiore, data la
ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa degli intellettuali (og-
gi: giornalismo, movimento di partiti ecc. hanno allargato moltissimo i quadri intellettua-
li).
L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali ha queste due linee strategiche:
«una concezione generale della vita», una filosofia (Gioberti), che dia agli aderenti una
«dignità» da contrapporre alle ideologie dominanti come principio di lotta; un programma
scolastico che interessi e dia una attività propria nel loro campo tecnico a quella frazione
degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (insegnanti, dai maestri ai pro-
fessori d’Università).
I Congressi degli scienziati che si ripeterono nel Risorgimento ebbero una doppia ef-
ficacia: 1° riunire gli intellettuali del grado più elevato, moltiplicando così la loro influen-
za; 2° ottenere una più rapida concentrazione degli intellettuali dei gradi più bassi, che
sono portati normalmente a seguire gli universitari, i grandi scienziati per spirito di casta.
Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto di questa
egemonia. Un partito come quello moderato offriva alla massa degli intellettuali tutte le
soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un
partito al governo) attraverso i servizi statali (per questa funzione di partito «di governo»
93
servì ottimamente dopo il 48 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mo-
strò in modello ciò che sarebbe stato il futuro Stato unitario).
Il Partito d’Azione non poteva avere questo potere di attrazione ed anzi egli stesso era
attratto […]. Perché il P. d’A. diventasse una forza autonoma e, in ultima analisi, per lo
meno riuscisse a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente po-
polare e democratico (più in là non poteva andare date le premesse fondamentali del moto
stesso) avrebbe dovuto contrapporre all’azione «empirica» dei moderati (che era empirica
solo per modo di dire) un programma organico di governo che abbracciasse le rivendica-
zioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. All’attrazione «spon-
tanea» esercitata dai moderati, doveva cioè contrapporre un’attrazione «organizzata», se-
condo un piano.
Confronto tra giacobini e Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per as-
sicurare il legame tra città e campagna; furono sconfitti perché dovettero soffocare le vel-
leità di classe degli operai; il loro continuatore è Napoleone e sono oggi i radico-socialisti
francesi.
94
di Parigi, cioè i rurali comprendevano che i loro interessi erano legati a quelli della bor-
ghesia). I giacobini dunque forzarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico
reale, perché essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe
«dominante», ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la classe diri-
gente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente.
Che i giacobini siano sempre rimasti sul terreno di classe, è dimostrato dagli avveni-
menti che segnarono la loro fine e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere
agli operai il diritto di coalizione (legge Chapelier [e sue conseguenze nella legge del
«maximum»]) e così spezzarono il blocco urbano di Parigi; le loro forze d’assalto, che si
riunivano nel Comune, si dispersero, deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento: la rivo-
luzione aveva trovato i suoi limiti di classe: la politica degli «alleati» aveva fatto svilup-
pare quistioni nuove che allora non potevano essere risolte.
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica «unitaria ossessionata» di
Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel settentrione per riguardo al mezzogiorno.
La «miseria» del Mezzogiorno era inspiegabile «storicamente» per le masse popolari del
Nord: queste non capivano che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma
come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord
era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud, che l’incremento industriale era di-
pendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Esse invece pensavano che se
il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dagli impacci che allo sviluppo
moderno opponeva il borbonismo, ciò significava che le cause della miseria non erano
esterne ma interne; poiché d’altronde era radicata la persuasione della grande ricchezza
96
naturale del terreno, non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomi-
ni, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaroni-
smo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e teorizzate addirit-
tura dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Ferri, Orano ecc.) assumendo la forza delle
«verità scientifiche» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica
Nord-Sud sulle razze e sulle superiorità e inferiorità del Settentrione e del Mezzogiorno
(libri di Colajanni in difesa del Mezzogiorno e collezione della «Rivista Popolare»). In-
tanto rimase nel Nord la credenza della «palla di piombo» che il Mezzogiorno rappresen-
terebbe per l’Italia, la persuasione dei più grandi progressi che la civiltà moderna indu-
striale del Nord avrebbe fatto senza questa «palla di pionibo» ecc. ecc.
A proposito della parola d’ordine «giacobina» lanciata da Marx alla Germania del 48-
49 è da osservare la sua complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettua-
lizzata dal gruppo Parvus-Bronstein, si manifestò inerte e inefficace nel 1905 e in seguito:
era una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò [Lenin e gli anti-
trockisti del 1924] in questa sua manifestazione intellettualizzata, invece, senza usarla «di
proposito» la impiegò di fatto nella sua forma storica, concreta, vivente, adatta al tempo e
al luogo, come scaturiente da tutti i pori della società che occorreva trasformare, di al-
leanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana.
98
Nell’un caso, temperamento giacobino senza il contenuto politico adeguato, tipo Cri-
spi; nel secondo caso temperamento e contenuto giacobino secondo i nuovi rapporti stori-
ci, e non secondo un’etichetta intellettualistica.
99
Lezione 10
1 Il Quaderno 1 inizia con una serie di note sul “diritto naturale”, scritte
anche sotto l’impressione della firma del Concordato. Gramsci riporta il di-
ritto naturale alla dottrina sociale e politica della Chiesa cattolica, mostrando
come l’intero giusnaturalismo moderno ne rappresenti, in definitiva, un pro-
lungamento nella forma di una secolarizzazione. Ma questa “secolarizzazio-
ne” non supera il presupposto trascendente della posizione cattolica e co-
mincia a delineare una delle categorie più importanti del pensiero di Gram-
sci: quella di senso comune. La critica del senso comune, che sarà svolta nei
quaderni successivi, chiarisce il primo significato della “riforma morale e in-
tellettuale”, intesa come affermazione di una rigorosa immanenza, cioè di
una laicità coerente (la “religione dell’uomo moderno”), che non sia limitata
a una “secolarizzazione” del discorso religioso.
Dunque nei §§ 43-44 Gramsci ha ormai elaborato molti grandi temi della
sua riflessione. Siamo agli inizi del 1930 e, fino al maggio, vi aggiunge nu-
merose altre note, dal § 45 al § 158. Come ora vedremo, proprio qui vengono
inseriti altri tasselli decisivi del concetto di egemonia.
Una svolta ulteriore interviene con il § 47, di stesura unica, scritto
all’inizio del 1930. Qui Gramsci indica il luogo dell’egemonia nella società
civile hegeliana. Leggiamo anzi tutto questo brano:
nella concezione non solo della [scienza] politica, ma in tutta la concezione della vita
culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli
intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pen-
sare più secondo le caste o gli «stati» ma secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono
appunto gli intellettuali. La concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pen-
sare per «caste») è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche
sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli intellet-
102
tuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle
sue radici sociali.
3. Lo Stato
Invece quando la spinta al progresso non è strettamente legata a uno sviluppo econo-
mico locale, ma è riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue
correnti ideologiche [nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più progrediti],
allora la classe portatrice delle nuove idee è la classe degli intellettuali e la concezione
dello Stato muta d’aspetto. Lo Stato è concepito come una cosa a sé, come un assoluto
razionale. Si può dire questo: essendo lo Stato la cornice concreta di un mondo produtti-
vo, ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale che si identifica meglio col personale
governativo, è proprio della funzione degli intellettuali porre lo Stato come un assoluto:
così è concepita come assoluta la loro funzione storica, è razionalizzata la loro esistenza.
Questo motivo è basilare dell’idealismo filosofico ed è legato alla formazione degli Stati
moderni in Europa come «reazione - superamento nazionale» della Rivoluzione francese e
del napoleonismo [rivoluzione passiva].
Si può osservare: che alcuni criteri di valutazione storica e culturale devono essere
capovolti. 1°) Le correnti italiane che vengono «bollate» di razionalismo francese e di «il-
luminismo» sono invece proprio le più aderenti alla realtà empirica italiana, in quanto
concepiscono lo Stato come forma concreta di uno sviluppo economico italiano. A ugual
contenuto conviene uguale forma politica. 2°) Invece sono proprio «giacobine» le correnti
che appaiono più autoctone, in quanto pare sviluppino una corrente tradizionale italiana.
Questa corrente è «italiana», perché essendo stata per molti secoli la «cultura» l’unica
manifestazione italiana nazionale, ciò che è sviluppo di questa manifestazione tradizionale
più antica pare più autoctono. Ma è una illusione storica. Ma dove era la base materiale di
questa cultura italiana? Essa non era in Italia. Questa «cultura italiana» è la continuazione
del «cosmopolitismo» medioevale legato alla Chiesa e all’Impero, concepiti universali.
L’Italia ha una concentrazione intellettuale «internazionale», accoglie ed elabora teorica-
mente i riflessi della più soda e autoctona vita del mondo non italiano. Gli intellettuali
italiani sono «cosmopoliti», non nazionali; anche Machiavelli nel Principe riflette la
Francia, la Spagna ecc. col loro travaglio per la unificazione nazionale, più che l’Italia.
Ecco perché io chiamerei veri «giacobini» i rappresentanti di questa corrente: essi vera-
mente vogliono applicare all’Italia uno schema intellettuale razionale, elaborato
sull’esperienza altrui e non sull’esperienza nazionale. La quistione è molto complessa ed
irta di apparenti contraddizioni, e perciò occorre esaminarla ancora profondamente su una
base storica. In ogni modo gli intellettuali meridionali nel Risorgimento appaiono con
chiarezza essere questi studiosi del «puro» Stato, dello Stato in sé.
104
4. L’americanismo
La novità forse più rilevante del Quaderno 1 irrompe nel § 61 e viene ri-
presa in diverse note successive (soprattutto §§ 135 e 158, con la riflessione
su Gentile nei §§ 87, 92 e 132), per poi essere sistemata nel Quaderno “spe-
ciale” 22 dedicato all’americanismo e al fordismo. Siamo ancora nelle prime
settimane del 1930.
Forse la migliore introduzione alla riflessione sull’americanismo si legge
nel § 76, dedicato alla crisi dell’Occidente. Ne aveva parlato Filippo Burzio
in un articolo sulla “Stampa” di Torino. Per Burzio l’Occidente si reggeva
sulla fusione tra spirito critico e spirito scientifico e capitalistico («industria-
le», specifica Gramsci). Ma lo spirito scientifico (l’azione) ha prevalso e lo
spirito critico ha ceduto, teoria e prassi si sono separate. Come Gramsci os-
serva, questo è il problema stesso dello storicismo. Come vedremo, questo
prevalere dell’azione disegna la traiettoria dell’americanismo.
Cominciamo dal § 61. Il punto di partenza è la domanda sul futuro dell’E-
uropa. Il capitalismo americano rappresenta la forma della società europea di
domani?
L’americanismo può essere una fase intermedia dell’attuale crisi storica? La concen-
trazione plutocratica può determinare una nuova fase dell’industrialismo europeo sul mo-
dello dell’industria americana? Il tentativo probabilmente sarà fatto (razionalizzazione,
sistema Bedaux, taylorismo ecc.). Ma può riuscire?
L’America senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo: questa una
delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i salari relativamente
migliori di quelli europei. La non esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi
storiche passate ha permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e
permette sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività subal-
terna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria stessa
(vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio assorbendoli).
Questa «razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già
esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la produzione, combinando
la forza (— distruzione del sindacalismo —) con la persuasione (— salari e altri benefizi
—); per collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria. L’egemonia nasce dalla
fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. Le «masse» di Romier
sono l’espressione di questo nuovo tipo di società, in cui la «struttura» domina più imme-
diatamente le soprastrutture e queste sono razionalizzate (semplificate e diminuite di nu-
mero).
Il dopoguerra ha avuto una crisi simile, forse la più vasta che si sia mai vista nella sto-
ria; ma la pressione era stata esercitata non per imporre una nuova forma di lavoro, ma per
le necessità di guerra. La vita di trincea è stata l’oggetto principale della pressione. Si so-
no scatenati specialmente gli istinti sessuali, repressi per tanti anni in grandi masse di gio-
vani dei due sessi e resi formidabili dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio dei
sessi. Le istituzioni legate alla riproduzione sono state scosse: matrimonio, famiglia ecc.
ed è nata una nuova forma di «illuminismo» in queste quistioni. La crisi è resa più forte
dal contrasto tra questo contraccolpo della guerra e le necessità del nuovo metodo di lavo-
ro che si va imponendo (taylorismo, razionalizzazione). Il lavoro domanda una rigida di-
sciplina degli istinti sessuali, cioè un rafforzamento della «famiglia» in senso largo (non
di questa o quella forma storica), della regolamentazione [e stabilità] dei rapporti sessuali.
107
«Filosofia che non si pensa, ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le
formule ma con l’azione».
Lezione 11
«Come
dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora?
non fière li occhi suoi il dolce lume?»
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa.
Su questo canto di Dante ho fatto una piccola scoperta che credo interessante e che
verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di B.[enedetto] Croce sulla Divina
Commedia… Nel X canto tutti sono affascinati dalla figura di Farinata e si fermano solo a
esaminre e a sublimare questa… Poi scriverò la mia «nota dantesca»… Dico per ridere,
perché per scrivere una nota di questo genere, dovrei rivedere una certa quantità di mate-
riale (per esempio, la riproduzione delle pitture pompeiane) che si trova solo nelle grandi
biblioteche. Dovrei cioè raccogliere gli elementi storici che provano come,per tradizione,
dall’arte classica al medioevo, i pittori rifiutassero di riprodurre il dolore nelle sue forme
più elementari e profonde (dolore materno): nelle pitture pompeiane, Medea che sgozza i
figli avuti da Giasone è rappresentata con la faccia coperta da un velo, perché il pittore
ritiene sovrumano e inumano dare un’espressione al suo viso.
Come vedete, il 26 agosto 1929 Gramsci aveva già fissato alcuni princìpi
interpretativi. I punti principali sono tre:
3) la chiave per penetrare nel congegno del Canto X è nelle «pitture pom-
peiane», cioè nella tradizione iconografica per cui l’artista rifiuta di rappre-
sentare un dolore estremo e copre con un velo il volto del personaggio. I rife-
rimenti che la memoria gli suggeriva erano per lo più sbagliati, ma
l’indicazione era chiara.
Le lettere non parlano più di Dante fino al febbraio 1931. Qui interviene
un personaggio ulteriore, cioè Umberto Cosmo, lo studioso di Dante che era
stato suo professore a Torino e a cui fa recapitare da Piero Sraffa l’estratto di
una lettera a Tatiana del 23 febbraio 1931. Gramsci ha dunque ripreso gli
studi su Dante e nella lettera del 20 settembre 1931 fornisce un quadro abba-
stanza completo delle sue conclusioni. Anche qui colpiscono alcuni aspetti.
In primo luogo la critica al saggio del 1869 su Il Farinata di Dante di Fran-
cesco De Sanctis: per De Sanctis, scrive Gramsci, «Farinata da poesia diven-
ta struttura», mentre «io sostengo che nel decimo canto sono rappresentati
due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcante e non il solo dramma
di Farinata». In secondo luogo il ricordo sfocato e certamente impreciso delle
lezioni di Pietro Toesca all’Università di Torino, da cui gli sembrava di ri-
cordare la spiegazione del «quadro pompeiano in cui Medea assiste
all’uccisione dei figli avuti da Giasone» «con gli occhi bendati». Infine, di
112
4. La “critica dell’inespresso”
Rimane il fatto che le note sul Canto X non furono solo «comunicate»
nelle lettere, ma vennero elaborate in undici note del Quaderno 4. Al di là
della comunicazione con l’esterno, divennero dunque l’oggetto di una rifles-
sione propriamente filosofica. Gramsci lavorò a queste note quasi sul solo
filo della memoria. Tra i libri del Fondo Gramsci non risulta neanche una
copia dell’Inferno, ma solo una edizione francese del Paradiso. Per il resto i
suoi studi si fondarono su poche letture dirette, che possono essere ricostruite
consultando il Fondo Gramsci e studiando i riferimenti delle lettere e dei
quaderni: anzi tutto il libro di Croce e il saggio di De Sanctis (nell’edizione
Treves del 1924 dei Saggi critici), poi il libro di Vincenzo Morello su Dante,
Farinata, Cavalcante, quindi alcuni articoli di Luigi Russo, di Fedele Roma-
ni e pochissime altre cose. La prima cosa che colpisce è la negazione radicale
dell’interpretazione politica del canto, come era stata riproposta da Vincenzo
Morello (che divenne un po’ il Dühring della situazione), che lo aveva defi-
nito «per eccellenza politico». Per Gramsci il problema del Canto X non era
la politica, ma la poesia. E nella sua lettura la poesia era tutta raccolta nella
drammatica apparizione di Cavalcante nei versi 67-72, cioè nel prorompere
del dolore paterno dinanzi all’«ebbe» usato da Dante. Solo che la poesia
(questo è il tratto specifico della sua lettura, anche rispetto a Croce) non tro-
vava un luogo nei versi espressi dal poeta, nella costruzione letteraria: la
poesia si accende nella struttura, ma rinvia a uno stato d’animo, che non tro-
va espressione nelle parole e che ogni volta unisce il poeta e il lettore.
La conclusione era, in certo modo, paradossale: tutta l’opera letteraria ap-
pariva come struttura, ma la sua unità e il suo senso erano conferiti
dall’accendersi della poesia: da una poesia non espressa nelle parole del poe-
ta, ma inespressa. Gramsci si rese conto dei rischi della sua visione estetica,
che quasi lasciava esplodere il tema crociano dell’intuizione, e perciò dedicò
una nota, la n. 79, alla «obiezione» che la sua teoria avrebbe potuto sollevare.
Scrisse così:
l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circo-
stanze: se lo figuri». Si potrebbe anche qui trattare di cercare di «figurarsi» un dramma,
conoscendone le circostanze.
La pittura pompeiana di Medea che uccide i figli avuti da Giasone: Medea è rappre-
sentata col viso bendato: il pittore non sa o non vuole rappresentare quel viso. (C’è però il
caso di Niobe, ma in opera di scultura: coprire il viso avrebbe significato togliere il conte-
nuto proprio all’opera).
In
maniera
più
precisa
vi
tornò
nel
§
80:
Plinio ricorda che Timante di Sicione aveva dipinto la scena del sacrificio di Ifigenia
effigiando Agamennone velato. Il Lessing, nel Laocoonte, per primo (?) riconobbe in que-
sto artificio non l’incapacità del pittore a rappresentare il dolore del padre, ma il sentimen-
to profondo dell’artista che attraverso gli atteggiamenti più strazianti del volto, non
avrebbe saputo dare un’impressione tanto penosa d’infinita mestizia come con questa fi-
gura velata, il cui viso è coperto dalla mano. Anche nella pittura pompeiana del sacrifizio
d’Ifigenia, diversa per la composizione generale dal dipinto di Timante, la figura di Aga-
mennone è velata.
Di queste diverse rappresentazioni del sacrifizio di Ifigenia parla Paolo Enrico Arias
nel «Bollettino dell’Istituto Nazionale del dramma antico di Siracusa», articolo riassunto
dal «Marzocco» del 13 luglio 1930.
Nelle pitture pompeiane esistono altri esempi di figure velate: es. Medea che uccide i
figli. La quistione è stata trattata dopo il Lessing, la cui interpretazione non è completa-
mente soddisfacente?
Possiamo
riassumere
così
le
parole
di
Gramsci:
1)
il
primo
riferimento
è
alla
pittura
pompeiana
di
Medea:
nel
primo
brano
dice
che
«Medea è rappresentata col viso bendato» perché «il pittore non sa o
non vuole rappresentare quel viso».
115
2) Nel secondo brano (dopo la lettura dell’articolo di Arias) scrive che «nella
pittura pompeiana del sacrifizio d’Ifigenia, diversa per la composizione ge-
nerale dal dipinto di Timante, la figura di Agamennone è velata».
di partenza per tutta la filosofia della praxis». Nel Quaderno 10 scrisse infatti
così:
si può impiegare il termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento mera-
mente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione
superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche
il passaggio dall’«oggettivo al soggettivo» e dalla «necessità alla libertà». La struttura da
forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in
mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di
nuove iniziative. La fissazione del momento «catartico» diventa così, mi pare, il punto di
partenza per tutta la filosofia della praxis; il processo catartico coincide con la catena di
sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico.
Lezione 12
queste note occupano i primi fogli del quaderno non significa affatto che fos-
sero le prime scritte. In base al principio di bipartizione (che abbiamo ricor-
dato in una lezione precedente) Gramsci scriveva parallelamente (cioè nello
stesso periodo) dalla carta 41recto, cioè esattamente alla metà del quaderno
di 80 fogli. Proprio alla c. 41recto iniziò, nel maggio 1930, la «prima serie»
di Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo, che portò avanti nel Qua-
derno 4 (prima serie), nel Quaderno 7 (seconda serie) e nel Quaderno 8 (terza
serie). Nel loro insieme, gli Appunti di filosofia vennero scritti fra il maggio
1930 e il maggio 1932: cioè nello stesso arco di tempo delle riflessioni su
Dante. Se ora non consideriamo le importanti “miscellanee” di questo perio-
do, possiamo dire che due anni cruciali del lavoro del prigioniero furono oc-
cupati da questi due argomenti: le note su Dante e gli Appunti di filosofia.
Proviamo a essere più precisi. Gramsci iniziò la prima serie, alla metà del
quarto quaderno (§§ 1-48), nel maggio 1930, negli stessi giorni in cui comin-
ciava a scrivere (nello stesso Quaderno 4, ma occupando i primi fogli) le no-
te sul canto decimo dell’Inferno di Dante; e la concluse tra l’ottobre e il no-
vembre. Subito dopo, nel novembre 1930, avviò la composizione della se-
conda serie nel Quaderno 7 (§§ 1-48), che terminò intorno al novembre 1931.
Quindi, in quello stesso novembre, cominciò a scrivere la terza serie nel
Quaderno 8 (§§ 166-240), che concluse nel maggio 1932. Nell’insieme, ri-
petiamolo, la stesura degli Appunti di filosofia impegnò, in maniera piuttosto
continuativa, due anni di lavoro. Già queste osservazioni di carattere crono-
logico offrono un’indicazione sulla importanza delle tre sezioni di Appunti di
filosofia, che (insieme alle note dantesche, che vi sono strettamente connesse,
e alle note miscellanee sugli intellettuali che si leggono nel Quaderno 4, §§
49-77) segnano un punto di conversione nella ricerca carceraria di Gramsci:
qui si apre una nuova prospettiva di riflessione, basata su una intuizione di
natura filosofica che condurrà, in maniera progressiva ma abbastanza lineare,
all’idea di una filosofia della praxis.
Bisogna chiedersi, naturalmente, perché Gramsci si avventurò in un lavo-
ro stricto sensu filosofico. In fondo non era un filosofo di professione e i
primi quaderni avevano definito questioni storiografiche e politiche (il diritto
naturale, il Risorgimento, l’americanismo ecc.), che in linea di massima po-
tevano essere considerate, in senso tradizionale, anche senza una vera e pro-
pria elaborazione filosofica. Ma è chiaro che a un certo punto della sua ri-
flessione Gramsci avvertì che uno sviluppo rigoroso del concetto di egemo-
nia non poteva essere assicurato senza affrontare il nodo filosofico che vi
stava al fondo. Questo concetto richiedeva una duplice critica: la critica del
materialismo e la critica dell’idealismo. Solo attraverso questa doppia critica
sarebbe nata una filosofia della praxis, cioè il progetto di un marxismo teori-
co profondamente rinnovato, incentrato sul concetto di egemonia.
Vi chiedo di prestare molta attenzione alle categorie che adoperiamo. Co-
sa significa criticare materialismo “e” idealismo? Significa cercare di oltre-
passare le due posizioni fondamentali della tradizione filosofica europea.
Queste posizioni possono essere misurate nella forma in cui hanno concepito
la relazione tra pensiero ed essere e il problema della verità. Proviamo a
120
§ 〈34〉. A proposito del nome di «materialismo storico». Nel «Marzocco» del 2 ot-
tobre 1927, nel capitolo XI dei Bonaparte a Roma di Diego Angeli dedicato alla princi-
pessa Carlotta Napoleone (figlia di Re Giuseppe e moglie di Napoleone Luigi, il fratello
di Napoleone III, morto nell’insurrezione di Romagna del 31) è riportata una lettera di
Pietro Giordani alla principessa Carlotta in cui il Giordani scrive i suoi ricordi personali
su Napoleone I. Napoleone a Bologna si era recato [nel 1805] a visitare l’«Istituto» (Ac-
cademia di Bologna) e conversò a lungo con quegli scienziati (fra cui Volta). Fra l’altro
disse: «... Io credo che quando nelle scienze si trova qualche cosa veramente nuova, biso-
gna appropriargli un vocabolo affatto nuovo, acciocché l’idea rimanga precisa e distinta.
Se date nuovo significato a un vecchio vocabolo, per quanto professiate che l’antica idea
attaccata a quella parola non ha niente di comune coll’idea attribuitagli nuovamente, le
menti umane non possono mai ritenersi affatto che non concepiscano qualche somiglianza
e connessione fra l’antica e la nuova idea; e ciò imbroglia la scienza e produce poi inutili
dispute». Secondo l’Angeli la lettera del Giordani, senza data, si può ritenere che risalga
alla primavera del 1831 (quindi è da pensare che il Giordani ricordasse il contenuto della
conversazione con Napoleone, ma non la forma esatta). [Vedere se il Giordani espone nei
suoi libri sulla lingua suoi concetti su questo argomento].
Osservate che, come è sottolineato nel titolo, qui si parla «del nome di
“materialismo storico”». Dunque, «quando nelle scienze si trova qualche co-
sa veramente nuova, bisogna appropriargli un vocabolo affatto nuovo, ac-
ciocché l’idea rimanga precisa e distinta».
Si può ricordare ancora l’analisi, critica o persino distruttiva, sul termine
«materialismo» condotta nel Quaderno 8 a proposito della storia del materia-
lismo di Lange e poi ripresa nel Quaderno 11:
Sarà da notare come il Marx sempre eviti di chiamare «materialistica» la sua conce-
zione e come ogni volta che parla di filosofie materialistiche le critichi o affermi che sono
criticabili. Marx poi non adopera mai la formula «dialettica materialistica» ma «raziona-
le» in contrapposto a «mistica», ciò che dà al termine «razionale» un significato ben pre-
ciso.
dei quaderni «speciali». Nei nuovi testi di stesura unica e nella rielaborazione
dei testi di prima stesura, il marxismo non si chiamava più «materialismo
storico», ma appunto «filosofia della praxis». Però questa espressione – de-
stinata a indicare il suo nuovo marxismo – non nacque improvvisa, ma fu
lungamente preparata. Negli Appunti di filosofia possiamo seguirne il lento
ma deciso affermarsi. Anche in questo senso, essi sono un testo di decisiva
preparazione della fase più matura del suo pensiero. Di filosofia della praxis
comincia a parlarsi nella prima serie con riferimento a un saggio di Antonino
Lovecchio (Filosofia della prassi e filosofia dello spirito) che attirò
l’attenzione di Gramsci; quindi in una nota miscellanea del Quaderno 5,
composta tra il novembre e il dicembre 1930, dove si afferma che Machia-
velli «ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe
anch’essa chiamare “filosofia della praxis” o “neo-umanesimo” in quanto
non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico)
ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità stori-
che opera e trasforma la realtà». Nel Quaderno 7, in una nota databile tra la
fine del 1930 e i primi mesi del 1931, parlando degli «elementi costitutivi del
marxismo», chiarì che, «nella filosofia», l’unità dialettica fondamentale è da-
ta dalla «prassi», definita come il «rapporto tra la volontà umana (superstrut-
tura) e la struttura economica». Ma il riferimento alla filosofia della praxis
esplode nel Quaderno 8, attraversandolo dall’inizio alla fine. L’espressione
ricorre nuovamente in relazione a Machiavelli in una lunga e importante nota
del febbraio 1932; ma poi appare con continuità in almeno sei note della ter-
za serie di Appunti di filosofia. Tra queste note del Quaderno 8 ha particolare
importanza il § 198, poi rielaborato nel Quaderno 10, dove Gramsci analizza
due testi di Croce (uno tratto dalla prima serie delle Conversazioni critiche,
l’altro da una nota, dedicata a Gentile, di Materialismo storico ed economia
marxistica) e intende mostrare che l’interpretazione crociana del marxismo
arriva a contraddirsi e a essere incoerente proprio per la sostanziale svaluta-
zione della filosofia della praxis:
§ 〈198〉. Filosofia della Praxis. A p. 298 sgg. della Serie Prima delle Conversazio-
ni critiche il Croce analizza alcune proposizioni delle Glosse al Feuerbach per giungere
alla conclusione che non si può parlare di un Marx filosofo e quindi di una filosofia mar-
xista, perché ciò che Marx si proponeva era appunto di «capovolgere» non tanto la filoso-
fia di Hegel, quanto la filosofia in genere, di sostituire il filosofare con l’attività pratica
ecc. Ma non pare che il Croce sia esatto obbiettivamente, né che egli riesca soddisfacente
criticamente. Ammesso che il Marx volesse soppiantare la filosofia con l’attività pratica,
come mai il Croce non ricorre all’argomento perentorio che non si può negare la filosofia
se non filosofando, cioè riaffermando quel che si era voluto negare? È vero che lo stesso
Croce nel volume Materialismo storico ecc., in una nota riconosce esplicitamente come
giustificata l’esigenza di costruire sul marxismo una «filosofia della praxis» posta da An-
tonio Labriola. Se si esamina, in una veduta d’insieme, tutto ciò che il Croce ha scritto sul
marxismo, sia in modo sistematico, sia incidentalmente, si può cogliere quanto egli sia
contradditorio e incoerente da uno scritto all’altro, nei vari periodi della sua attività di
scrittore.
123
E così siamo daccapo nella filosofia della praxis, che è il midollo del materialismo
storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al pensie-
ro, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un cono-
scere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e
quindi dai varii stati interni di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o
insoddisfazione dei bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della natura:
e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per
molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol
dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d'un pensiero per sé stante (- la genera-
124
tio aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensie-
ro è da ultimo un prodotto.
In fine, il materialismo storico? ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto
l'uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d'idealismo, che consideri le
cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione, esempio, conseguen-
za o come altro dicasi, d'un pensiero, come che siasi, presupposto, così è la fine anche del
materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La ri-
voluzione intellettuale, che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i pro-
cessi della storia umana, è coeva e rispondente a quell'altra rivoluzione intellettuale, che è
riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo pensante, un fatto,
che non fu mai in fieri, un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che non pro-
ceda, e molto meno il creato d'una volta sola, che non sia la creazione di continuo in atto.
Proprio nel periodo di Turi, Gramsci tornò a richiamarsi con forza a La-
briola, come all’unico pensatore che aveva posto in maniera corretta, anzi
esemplare, il problema teorico del marxismo:
sofia della praxis, così come era stata elaborata da Labriola: da un lato ne ri-
velò la parentela con la «riforma» della dialettica di Bertrando Spaventa (che
era stato il maestro di Labriola) e, d’altro lato, la legò alle Tesi su Feuerbach
del giovane Marx, di cui offrì la prima traduzione italiana. E dopo di lui, il
tema della filosofia della praxis venne ripreso da Rodolfo Mondolfo, che ne
prospettò un’articolazione diversa, anzi tutto ripensando il rapporto storico
tra Marx e Feuerbach.
Non mi soffermo ulteriormente sulle fonti della filosofia della praxis,
perché nel mio libro (Marxismo e filosofia della praxis) troverete tutti gli ap-
profondimenti necessari.
Lezione 13
Nella ricerca che abbiamo condotto fin qui è emerso un problema fonda-
mentale: quello della costituzione del soggetto politico a partire dalla base
oggettiva della struttura. Nei quaderni questo problema è modulato in molti
modi: per esempio, la conversione della quantità in qualità; o la formazione
delle superstrutture e della coscienza. Nelle lezioni precedenti abbiamo visto
qual è la radice filosofica della questione: nel pensiero moderno (come nella
politica moderna) il soggetto è sempre stato configurato come un presuppo-
sto, in senso trascendentale; per Gramsci il soggetto è invece un risultato,
quindi il marxismo teorico deve illustrarne la genesi, la mediazione dialettica
che lo costituisce. Se ci pensate, proprio qui ci ha portato l’analisi del Qua-
derno 1, cioè il fatto che l’egemonia dei moderati sui democratici nel Risor-
gimento deriva dalla loro omogeneità organica a un gruppo sociale, mentre la
politica dei democratici “oscilla” sul piano politico perché essi non rappre-
sentano alcun gruppo sociale determinato e non hanno radici nella struttura.
Ancora, lo studio delle note del Quaderno 4 sul canto X dell’Inferno ci hanno
posto il problema della catarsi, cioè della conversione della “struttura” nella
coscienza. Infine, parlando degli Appunti di filosofia, abbiamo osservato che
materialismo e idealismo commettono un errore contrario e simmetrico: gli
idealisti (come Croce) nascondono la struttura, si mantengono solo sul terre-
no delle superstrutture; i materialisti (come Bucharin) dimenticano che la
struttura non basta, che occorre spiegare il fatto della coscienza, il passaggio
alle superstrutture, al soggetto politico attivo. Tutte queste linee di riflessione
ci riportano dunque al medesimo punto: come si costituisce il soggetto a par-
tire dal fatto oggettivo della struttura? Qual è il rapporto fra struttura e super-
strutture? È chiaro, ormai, che la relazione fra questi due termini (struttura,
superstrutture) costituisce per Gramsci l’intero della realtà, quello che nelle
filosofie tradizionali si chiama “spirito”.
1) Le Tesi su Feuerbach
2) Due passaggi della Prefazione (Londra, gennaio 1859) a Per la cri-
tica dell’economia politica
3) La Miseria della filosofia
Das Zusammenfallen des Ändern[s] der Umstände und der menschlichen Tätigkeit
oder Selbstveränderung kann nur als revolutionäre Praxis gefaßt und rationell verstanden
werden.
Das Zusammenfallen des Änderns der Umstände und der menschlichen Tätigkeit
kann nur als umwälzende Praxis gefaßt und rationell verstanden werden.
Il coincidere del variar dell’ambiente e dell’attività umana può essere concepito e in-
teso razionalmente soltanto come prassi rovesciata.
Appendice
Proviamo a capire perché questo breve scritto acquistò tanta importanza nel marxismo
italiano e in Gramsci. Cosa c’era nelle undici Tesi su Feuerbach da attirare in tale misura
il marxismo italiano, sino a farne il principio di tutta la filosofia marxista? Le Tesi diven-
nero quasi il manifesto filosofico del marxismo italiano.
Il primo concetto è esposto con chiarezza da Marx nella prima tesi. Esso riguarda il
principio della praxis, considerato come principio della sua concezione filosofica. Marx
inizia con una critica perentoria del materialismo, di tutto il materialismo precedente,
compreso quello di Feuerbach. Il torto del materialismo è di avere concepito «l’oggettività,
la realtà, la sensibilità» solo «sotto la forma dell’oggetto o dell’intuizione». Marx vuole
dire che il materialismo ha concepito l’oggetto come trascendente rispetto al soggetto, nel
segno del realismo. È l’allievo di Hegel che parla qui. Parla anche della forma
131
Il difetto principale di ogni materialismo sino a oggi (compreso quello di Feuerbach) è che
l’oggettività, la realtà, la sensibilità vengono compresi solo sotto la forma dell’oggetto o
dell’intuizione;
Feuerbach, non contento del pensiero astratto, vuole l’intuizione; ma non comprende la sensibi-
lità come attività pratica umano-sensibile. (5a tesi)
non però come attività sensibile umana, come prassi; non soggettivamente.
Feuerbach vuole oggetti sensibili – realmente separati dagli oggetti del pensiero. Ma non conce-
pisce l’attività umana stessa come attività oggettiva (als gegenständliche Tätigkeit). Conseguente-
mente egli, nella Essenza del cristianesimo, considera genuinamente umano l’atteggiamento teoreti-
co, mentre la prassi viene concepita e fissata solo nel suo modo di apparire sordidamente giudaico.
Egli non comprende perciò il significato dell’attività «rivoluzionaria», «pratico-critica».
Stabilito il principio della praxis, nella seconda tesi Marx ne propone lo svolgimento a
proposito dell’idea di verità. È un punto essenziale. La verità non è una questione teorica,
ma una questione pratica. La verità dell’oggetto è nella sua produzione a opera della pra-
xis. Il richiamo a Vico è immediato. Però Marx aggiunge una frase di grande forza:
l’uomo deve provare la verità nella «Diesseitigkeit seines Denkens», nella mondanità del
suo pensiero. E questa mondanità si esprime in due parole: realtà e potenza, Wirklichkeit
und Macht.
La questione se al pensiero umano spetti la verità oggettiva, non è una questione teorica, ma una
questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e la potenza, del carattere
mondano del suo pensiero. La questione sulla realtà o non realtà del pensiero – una volta che il pen-
siero sia isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica.
La terza tesi costituisce il passaggio-chiave del discorso. Qui, come vedremo, si inse-
risce il nodo del rovesciamento della praxis. Nella sua versione originaria, Marx critica il
materialismo perché concepisce l’uomo, in maniera unilaterale, come condizionato
dall’ambiente sociale. Al contrario, l’ambiente sociale non è solo la condizione, ma è il
prodotto della praxis. Il rapporto è circolare. Marx lo scolpisce nella frase celebre: Der
Erzieher selbst erzogen werden muß; anche l’educatore deve essere educato. Uomo e so-
cietà non possono essere divisi: si tratta di una Selbstveränderung, di una autotrasforma-
zione. Questa è la revolutionäre Praxis.
132
A questo punto, nella quarta tesi, Marx chiarisce la critica all’Essenza del cristianesi-
mo di Feuerbach. Per Feuerbach la religione è alienazione, nel senso che l’uomo proietta
oltre sé la propria essenza generica. In questa visione della religione c’è un primo errore.
L’uomo non proietta la terra nel cielo, ma opera questa proiezione perché la sua essenza è
lacerata, è attraversata dalla contraddizione. Il problema della praxis è dunque la con-
traddizione della forma umana. Esso riguarda non solo la religione ma ogni forma ideolo-
gica.
Feuerbach muove dal fatto della autoestraneazione religiosa, della duplicazione del mondo in
mondo religioso e mondano. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nel suo fonda-
mento mondano. Ma che il fondamento mondano si stacchi da se stesso e si fissi nelle nuvole come
un regno indipendente è spiegabile soltanto con l’autodissociazione e con l’autocontraddittorietà di
questo fondamento mondano stesso. Esso deve essere tanto compreso in se stesso nella sua contrad-
dizione, quanto rivoluzionato praticamente. Quindi, dopo che, per esempio, la famiglia terrena è stata
scoperta come il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima a dover essere distrutta.
Nelle tesi successive, dalla 6 alla 10, Marx trae un’altra conseguenza dalla critica a
Feuerbach. Fermo al materialismo, Feuerbach considera l’uomo come individuo singolo, e
dunque è subalterno all’ideale della società borghese. Al contrario, il principio della pra-
xis permette di vedere che l’uomo non è l’individuo, ma l’insieme dei rapporti sociali e
che la religione è un prodotto sociale. Perciò la nuova filosofia non guarda alla società
borghese (giudaica, fatta di individui economici), ma alla società umana o umanità socia-
le.
6.
Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è
un’astrazione che abita nell’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali.
Feuerbach, non penetrando nella critica di questa essenza reale, è pertanto costretto:
1) ad astrarre dallo svolgimento della storia e a fissare il sentimento religioso per se stesso, e a
presupporre un individuo umano astratto-isolato;
2) pertanto l’essenza può essere concepita solo come «genere», come generalità interna, muta,
che colleghi molti individui in modo naturale.
7.
Feuerbach non vede dunque che il «sentimento religioso» è esso stesso un prodotto sociale e che
l’individuo astratto che egli analizza in realtà appartiene a una forma sociale determinata.
8.
Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che inducono la teoria al mistici-
smo, trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi.
9.
Il punto più alto al quale perviene il materialismo intuitivo, cioè il materialismo che non conce-
pisce la sensibilità come attività pratica, è l’intuizione degli individui singoli e della società borghese.
10.
Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese; il punto di vista del nuovo è la
società umana o l’umanità sociale.
133
Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kömmt drauf an, sie zu verän-
dern.
Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo condut-
tore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della
loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla
loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di svi-
luppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione co-
stituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una
sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della co-
scienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il pro-
cesso sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determi-
na il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in
contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che
ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mos-
se. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro cate-
ne. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base eco-
nomica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si
studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento
134
materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la
precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o
filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo
conflitto e di combatterlo.
Poco dopo, Marx indicava due princìpi, che nella riflessione di Gramsci
diventarono i due princìpi fondamentali della formazione delle volontà col-
lettive. Marx aveva scritto così:
[1] Una formazione sociale non perisce finchè non si siano sviluppate tutte le forze
produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano
mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della
loro esistenza.
[2] Ecco perchè l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, per-
chè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le
condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.
una volta che [la ragione] sia pervenuta a porsi come tesi, questa tesi, questo pensiero,
opposto a se stesso, si sdoppia in due pensieri contraddittori, il positivo e il negativo, il sì
e il no. La lotta di questi due elementi antagonistici, racchiusi nella antitesi, costituisce il
movimento dialettico. Il sì diventa no, il no diventa sì, il sì diventa contemporaneamente
sì e no, il no diventa contemporaneamente no e sì: quindi i contrari si equilibrano, si neu-
tralizzano, si paralizzano. La fusione di questi due pensieri contraddittori costituisce un
pensiero nuovo che ne è la sintesi.
136
È chiaro, dunque, che per il Marx della Miseria della filosofia la dialettica
hegeliana ha un difetto “speculativo”, per il quale l’opposizione, convertita
dall’antagonismo storico reale alla sfera astratta della pura ragione, viene
“neutralizzata” e “paralizzata” nella «sintesi», che costuisce non il supera-
mento ma la semplice «fusione» dei termini contrari. Ma in Proudhon questo
movimento dialettico, per sé astratto e insufficiente, viene ulteriormente de-
formato attraverso la separazione degli opposti, per cui «ogni categoria eco-
nomica ha due lati, l’uno buono, l’altro malvagio», facendo dell’uno
«l’antidoto» dell’altro: «al posto della categoria – spiegava Marx – che si
pone e si oppone a se stessa per la sua natura contraddittoria, sta il signor
Proudhon che si infervora, si dibatte, si dimena fra i due lati della categoria».
Perciò, nell’opinione di Marx, Proudhon aveva tradotto la dialettica hegelia-
na in una «serie nell’intelletto», separando astrattamente i contrari, fino a
configurarli in una disputa eterna fra l’eguaglianza e l’ineguaglianza.
In una nota della terza serie degli Appunti di filosofia, composta intorno
all’aprile 1932, Gramsci definì «la posizione del Croce […] come quella di
Proudhon criticata nella Miseria della filosofia: hegelismo addomesticato».
Nella seconda stesura del Quaderno 10, nell’aprile-maggio 1932, parlò più
precisamente di «rivoluzione passiva», collegando la «dialettica “speculativa”
della storia, meccanicismo arbitrario di essa», attribuita a Croce, alla formula
di Cuoco e ancora concludendo: «cfr la posizione del Proudhon criticata nel-
la Miseria della filosofia». È chiaro dunque che in una prima fase Gramsci
considerò la riforma crociana della dialettica come un passo indietro rispetto
a Hegel, attribuendovi gli stessi caratteri di “neutralizzazione” del conflitto
sociale che Marx aveva attribuito a Hegel e che egli, invece, indicò in Proud-
hon. Nelle note sul Risorgimento italiano del Quaderno 9, intorno al maggio
1932, insisté sulle «attinenze con l’Italia» della «critica della Miseria della
filosofia contro la falsificazione della dialettica hegeliana fatta da Proudhon»,
non menzionando però il nome di Croce, ma i principali «movimenti intellet-
tuali» del processo di unificazione («Gioberti, l’hegelismo dei moderati») e,
in maniera pià diretta, le formule di Cuoco e Quinet («rivoluzione passiva,
dialettica di rivoluzione, restaurazione»).
Nello stesso periodo, in effetti, l’analogia fra Croce e Proudhon cominciò
a lasciare spazio all’altra e più pregnante attinenza con Gioberti, sempre più
avvicinato alla posizione criticata da Marx. Nel Quaderno 10 Gramsci mise a
fuoco questa corripondenza in un brano di particolare rilievo:
mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole critica-
mente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito
di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito, perciò i suoi
tentennamenti (così a Milano nel periodo successivo alle cinque giornate e in altre occa-
sioni) e le sue iniziative fuori tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla po-
litica piemontese. È questa una esemplificazione del problema teorico del come doveva
essere compresa la dialettica, impostato nella Miseria della Filosofia: che ogni membro
dell’opposizione dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte
le proprie «risorse» politiche e morali, e che solo così si abbia un superamento reale, non
era capito né da Proudhon né da Mazzini. Si dirà che non era capito neanche da Gioberti e
dai teorici della rivoluzione passiva e «rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cam-
bia: in costoro la «incomprensione» teorica era l’espressione pratica delle necessità della
«tesi» di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte
dell’antitesi stessa, per non lasciarsi «superare», cioè nell’opposizione dialettica solo la
tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i sedicenti rap-
presentanti dell’antitesi: proprio in questo consiste la rivoluzione passiva o rivoluzione-
restaurazione.
Lezione 14
1. Il “blocco storico”
non si può pensare un individuo “scuoiato” come il vero individuo; vero vorrebbe dir
morto, elemento non più attivo e operante ma oggetto da tavolo anatomico» (Quaderno 8,
§ 240).
2) Quaderno 8, §225, rielaborato nel Quaderno 10, nel paragrafo non nume-
rato sui Punti di riferimento.
Cominciamo dal primo testo (pp. 1568-1570). Gramsci inizia con il pro-
blema di Machiavelli, inteso come scopritore dell’autonomia della politica.
Il progresso fatto fare dal Croce, a questo proposito, agli studi sul Machiavelli e sulla
scienza politica, consiste precipuamente (come in altri campi dell’attività critica crociana)
nella dissoluzione di una serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati. Il Croce si è
fondato sulla sua distinzione dei momenti dello Spirito e sull’affermazione di un momen-
to della pratica, di uno spirito pratico, autonomo e indipendente, sebbene legato circolar-
mente all’intera realtà per la dialettica dei distinti.
140
Ora il problema è capire come la tesi di Croce (l’unica, ripeto, in cui può
essere concepita l’autonomia della politica) può essere trascritta nella filoso-
fia della praxis, cioè nel marxismo teorico. Qui Gramsci non ha dubbi: il
rapporto di distinzione tra le forme dello spirito si trascrive nella relazione
reciproca fra le superstrutture. E ciò significa che Croce ha trascurato il fatto
che, oltre le superstrutture, vi è il rapporto che queste hanno con la struttura,
cioè il blocco storico.
In una filosofia della prassi la distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito
assoluto, ma tra i gradi della soprastruttura.
In una filosofia della prassi la distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito
assoluto, ma tra i gradi della soprastruttura e si tratterà pertanto di stabilire la posizione
dialettica dell’attività politica (e della scienza corrispondente) come determinato grado
superstrutturale: si potrà dire, come primo accenno e approssimazione, che l’attività poli-
tica è appunto il primo momento o primo grado, il momento in cui la superstruttura è an-
cora nella fase immediata di mera affermazione volontaria, indistinta ed elementare.
Dunque al centro della filosofia della praxis vi è il «il circolo dei gradi
della superstruttura», di cui la politica rappresenta il momento iniziale.
In che senso si può identificare la politica e la storia e quindi tutta la vita e la politica.
Come perciò tutto il sistema delle superstrutture possa concepirsi come distinzioni della
politica e quindi si giustifichi l’introduzione del concetto di distinzione in una filosofia
della prassi.
Ma si può parlare di dialettica dei distinti e come si può intendere il concetto di circo-
lo fra i gradi della superstruttura? Concetto di «blocco storico», cioè unità tra la natura e
lo spirito (struttura e superstruttura) unità dei contrari e dei distinti.
3. La “dialettica addomesticata”
le forme ideologiche, nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli di questo con-
flitto e lo risolvono.
Qui Gramsci corregge, nel senso della filosofia della praxis, la stessa lo-
gica dialettica hegeliana. Ancora una volta, tra i due testi – quello degli Ap-
punti di filosofia e quello del Quaderno 10 – il più perspicuo è il primo.
Gramsci parla della «dialettica addomesticata», criticando Croce ma certa-
mente anche Hegel.
4. Il lavoratore e la coscienza
L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di
questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua co-
scienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare.
Questo non significa solo un contrasto tra prassi e teoria, tra situazione e
coscienza, ma una contraddizione acuta tra due coscienze che lacerano il pro-
letario. La prima coscienza è l’attualità della sua condizione, la seconda è
l’eredità del passato, la visione del mondo che ha ereditato: il senso comune.
Proseguiamo sul Quaderno 11:
Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria),
una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella
trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha eredi-
tato dal passato e ha accolto senza critica.
Come vedete, siamo arrivati al nucleo essenziale della teoria della ege-
monia. Ma Gramsci ne trae subito tre conseguenze capitali. In primo luogo
in questa concezione è implicita una critica radicale dell’ortodossia, una
chiara indicazione dell’errore di fondo del marxismo della Terza Internazio-
nale. Il difetto fondamentale di questo marxismo è di avere subordinato la
teoria alla prassi, di non avere visto che oltre la situazione del proletariato è
necessaria una filosofia, cioè sviluppare il momento teorico della coscienza.
Tuttavia, nei più recenti sviluppi della filosofia della praxis, l’approfondimento del
concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: riman-
gono ancora dei residui di meccanicismo, poiché si parla di teoria come «complemento»,
«accessorio» della pratica, di teoria come ancella della pratica.
E poco dopo:
L’insistere sull’elemento «pratico» del nesso teoria-pratica, dopo aver scisso, separato
e non solo distinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e conven-
zionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase anco-
ra economico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il quadro generale della
«struttura» e la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora orga-
nicamente formata.
Pare giusto che anche questa quistione debba essere impostata storicamente, e cioè
come un aspetto della quistione politica degli intellettuali.
Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di
intellettuali: una massa umana non si «distingue» e non diventa indipendente «per sé»
senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza
organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distin-
gua concretamente in uno strato di persone «specializzate» nell’elaborazione concettuale
e filosofica. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di
contraddizioni, di avanzate e di ritirate, di sbandamenti e di riaggruppamenti, in cui la
«fedeltà» della massa (e la fedeltà e la disciplina sono inizialmente la forma che assume
l’adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell’intero fenomeno cultura-
le) è messa talvolta a dura prova. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellet-
tuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente,
ma ogni sbalzo verso una nuova «ampiezza» e complessità dello strato degli intellettuali è
legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli supe-
riori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali
o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati.
Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali
(o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi
l’impressione di «accessorio», di complementare, di subordinato.
Lezione 15
Die Arbeiter haben kein Vaterland. Man kann ihnen nicht nehmen, was sie nicht ha-
ben. Indem das Proletariat zunächst sich die politische Herrschaft erobern, sich zur natio-
nalen Klasse erheben, sich selbst als Nation konstituieren muß, ist es selbst noch national,
wenn auch keineswegs im Sinne der Bourgeoisie.
è l’espressione francese della unità della sostanza umana, della coscienza della specie e
dell’agire della specie umana, della pratica identità dell’uomo con l’uomo, cioè, insomma,
del rapporto sociale od umano dell’uomo con l'uomo. Come, perciò, la critica demolitrice
in Germania, prima che fosse assurta in Feuerbach allo studio dell’uomo materiale, aveva
tentato di risolvere tutto il determinato e tutta l’esistenza mercè il principio della “auto-
coscienza„ così del pari la critica demolitrice in Francia l’aveva tentato col principio
dell’uguaglianza.
Nelle prime lezioni (di storia della filosofia) Hegel dice che «la filosofia del Kant, del
Fichte e dello Schelling contiene in forma di pensiero la rivoluzione, alla quale lo spirito
negli ultimi tempi ha progredito in Germania»; in una grande epoca cioè della storia uni-
versale, a cui «solo due popoli hanno preso parte, i Tedeschi e i Francesi, per opposti che
siano tra loro, anzi appunto perché opposti»; sicché, laddove il nuovo principio in Germa-
nia «ha fatto irruzione come spirito e concetto» in Francia invece si è esplicato «come
realtà effettuale» («Vorles. über die Gesch. d. Philos., 2 ed., Berlino, 1844, III, 485). Nel-
le lezioni di filosofia della storia, Hegel spiega che il principio della volontà formale, del-
la libertà astratta, secondo cui «la semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà asso-
lutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali», «rimase presso i
Tedeschi una tranquilla teoria, ma i Francesi vollero eseguirlo praticamente» (Vorles.
über die Philosophie der Gesch., 3 ed., Berlino, 1848, pp. 531-2). (Questo passo di Hegel
mi pare sia appunto il riferimento letterale del Marx, dove nella Sacra Famiglia accenna a
Proudhon contro il Bauer. Ma esso mi pare assai più importante ancora come «fonte» del
pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta
ora di mutarlo, cioè che la filosofia deve diventare «politica», «pratica», per continuare ad
essere filosofia: la «fonte» per la teoria dell’unità di teoria e di pratica). (pp. 1066-1067)
4. La fonte di Lenin
Nel 1921, al terzo congresso, abbiamo votato una risoluzione sulla struttura organiz-
zativa dei partiti comunisti, sui metodi e sul contenuto del loro lavoro. La risoluzione è
eccellente, ma è quasi interamente russa, cioè quasi interamente ispirata alle condizioni
russe. Questo è il suo lato buono, ma anche il suo lato cattivo. Cattivo, perché sono con-
vinto che quasi nessuno straniero potrà leggerla: ho riletto la risoluzione ancora una volta,
prima di dire questo. In primo luogo è troppo lunga: contiene 50 o più paragrafi. Gli stra-
nieri, di solito, non possono leggere cose simili. In secondo luogo, anche se la leggeranno,
nessuno degli stranieri la comprenderà, appunto perché è troppo russa. Non perché sia
scritta in russo, essa è tradotta ottimamente in tutte le lingue, Ma perché è interamente
permeata di spirito russo. In terzo luogo, se, anche in via di eccezione, qualche straniero la
comprenderà, non potrà applicarla. Questo è il suo terzo difetto. Ho parlato con alcuni
delegati che sono venuti qui, e spero, nel corso ulteriore di questo congresso, al quale mi è
purtroppo impossibile partecipare, di poter parlare ampiamente con un gran numero di
delegati dei vari paesi. Ho l’impressione che abbiamo commesso un grande errore con
quella risoluzione, e cioè che ci siamo noi stessi tagliata la tagliata la strada verso ulteriori
successi. Come ho già detto, la risoluzione è stesa molto bene e sono disposto a mettere la
firma sotto i suoi 50 e più paragrafi. Ma noi non abbiamo capito come si deve mettere la
nostra esperienza russa alla portata degli stranieri. Tutto ciò che dice la risoluzione, è ri-
masto lettera morta. Se non comprenderemo questo, non potremo avanzare oltre. Ritengo
che per noi tutti, tanto per i compagni russi che per i compagni stranieri, l’essenziale sia
questo: dopo cinque anni di rivoluzione russa, dobbiamo studiare. Soltanto adesso abbia-
mo la possibilità di studiare. Non so per quanto tempo questa possibilità potrà durare. Non
so per quanto tempo le potenze capitalistiche ci lasceranno la possibilità di studiare tran-
quillamente. Ma ogni momento libero dalla lotta, dalla guerra, dobbiamo utilizzarlo per lo
studio, e per di più cominciando dal principio. Tutto il partito e tutti gli strati della popo-
lazione in Russia lo dimostrano con la loro sete di sapere. Questa aspirazione allo studio
dimostra che oggi il compito più importante per noi è: studiare, e studiare; ma anche i
compagni stranieri debbono studiare; non come studiamo noi, cioè non per imparare a
leggere, a scrivere e a comprendere ciò che si legge, della qualcosa abbiamo ancora biso-
gno. […] La risoluzione è troppo russa: riflette l’esperienza russa e perciò è assolutamente
incomprensibile agli stranieri, i quali non possono accontentarsi di appenderla in un ango-
lo, come un’icona, e di pregare davanti a essa. Così non si può ottenere nulla. I compagni
stranieri debbono digerire un buon pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà, non
so.
151
5. Le fonti italiane
Marx e Lenin sono dunque i punti di partenza per la teoria della traducibi-
lità. Ma certamente Gramsci riempì queste tesi con altri elementi che prove-
nivano soprattutto dalla filosofia italiana. In primo luogo tornò alla teoria
della circolazione del pensiero europeo di Bertrando Spaventa. Spaventa è
probabilmente il filosofo italiano più importante della seconda metà dell’800
per almeno tre ragioni: 1) la riforma della dialettica e l’inserzione dello hege-
lismo in Italia; 2) il confronto con il positivismo, almeno dal 1868 (lettera a
152
6. Antonio Labriola
trovò a Napoli proprio nel 1861, quando Spaventa aveva dettato quella pro-
lusione. Scoperto il socialismo e il marxismo, Labriola tornerà con vigore
alla lezione di Spaventa, per entrambi gli aspetti principali che abbiamo se-
gnalato: la riforma della dialettica (praxis), la circolazione del pensiero euro-
peo. L’idea che il pensiero sia il grande prevaricatore dell’essere diventerà il
ritmo stesso della praxis: il lavoro umano, non più il pensare, sarà concepito
come il prevaricatore dell’essere naturale e come il principio della storicità
umana e del progresso. Ma altrettanto importante è il tema della circolazione,
che Labriola, nel terzo saggio, proverà a rileggere in senso marxista. Nella
riflessione di Labriola il problema della circolazione diventa quello
dell’interdipendenza raggiunta dalla società europea nel secolo XIX e la
“stazione” nazionale italiana viene declinata con le categorie della storia atti-
va e passiva (che in Gramsci diventeranno le rivoluzioni passive). Leggiamo
questo passo del terzo saggio:
In che veramente consiste questo rinascimento d'Italia, e che aspettativa può dar di sé,
a quelli che guardino la generalità del progresso umano, senza pregiudizii e senza precon-
cetti? Per tacere delle grandi difficoltà che c'è a trattare, con intenti obiettivi, e con criterii
non desunti dai soli impulsi della personale opinione, la storia attuale di qualunque paese;
nel caso speciale d'Italia bisognerebbe risalire fino al secolo XVI, quando l'iniziale svi-
luppo dell'epoca capitalistica - che qui avea sede principale - fu spostato dal Mediterra-
neo. Bisognerebbe arrivare, attraverso alla storia della successiva decadenza, alle premes-
se positive e negative, interne ed esterne, delle presenti condizioni d'Italia. Non occorre io
dica che le mie forze sarebbero impari all'impresa; perché non avrei la più lontana tenta-
zione di misurarmici, a proposito e nella occasione di un discorso familiare, come è que-
sto. Chi un simile studio sapesse concretare in un libro, potrebbe dire d'aver concorso ad
esprimere, in forma riflessa, la presente situazione, e l'attuale coscienza degl'italiani.
In questo brano, come poi, in maniera più estesa, nel quarto saggio po-
stumo (Da un secolo all’altro), Labriola ripensava la circolazione di Spaven-
ta come sviluppo interdipendente delle nazioni, in un quadro teorico non più
speculativo ma propriamente marxista.
7. Croce e il pragmatismo
4) Infine c’è il fraintendimento della traduzione, per cui, nel tradurre la me-
desima fase della civiltà, se ne mutano i termini, a seconda della situazione
storica e del genio nazionale. La traduzione è dunque anche principio di pro-
155
gresso, nel senso che ciascuna spinta nazionale aggiunge qualcosa di nuovo,
contribuisce alla formazione di quella «“fondamentalmente identica”
espressione culturale e filosofica».
In secondo luogo, Gramsci indica uno svolgimento della teoria, che ri-
guarda lo stesso Lenin. Nel circolo omogeneo accade che la forma sia impli-
cita in un’altra forma. Facciamo degli esempi. Il politico scrive un trattato di
filosofia, ma la sua vera filosofia (quella che riprende il senso globale della
storia, la «“fondamentalmente identica” espressione culturale e filosofica»
di un’epoca) può essere implicita nella sua azione politica. Così, al contrario,
un filosofo può scrivere un articolo politico, ma il suo pensiero politico è nel-
la sua stessa filosofia. Questo significa che i gradi sono iscritti uno nell’altro.
Da queste proposizioni (che devono essere elaborate), conseguono, per lo storico della
cultura e delle idee, alcuni criteri d’indagine e canoni critici di grande significato. Può
avvenire che una grande personalità esprima il suo pensiero più fecondo non nella sede
che apparentemente dovrebbe essere la più «logica», dal punto di vista classificatorio
esterno, ma in altra parte che apparentemente può essere giudicata estranea. Un uomo po-
litico scrive di filosofia: può darsi che la sua «vera» filosofia sia invece da ricercarsi negli
scritti di politica. In ogni personalità c’è una attività dominante e predominante: è in que-
sta che occorre ricercare il suo pensiero, implicito il più delle volte e talvolta in contraddi-
zione con quello espresso ex professo. È vero che in un tale criterio di giudizio storico
sono contenuti molti pericoli di dilettantismo e che nell’applicazione occorre esser molto
cauti, ma ciò non toglie che il criterio sia fecondo di verità.
Infine Gramsci osserva che il prevalere di un grado rispetto agli altri è le-
gato al livello dello sviluppo storico. Il discorso può essere inteso così: nella
fase corporativa del movimento operaio prevale il grado economico; nella
fase della guerra di movimento (giacobinismo, rivoluzione russa) prevale il
grado politico; nella fase della guerra di posizione prevale il grado filosofico
(teoria, egemonia, visione del mondo). Dal punto di vista «nazionale» il cir-
156
A questo proposito è ancora utile e fecondo il pensiero espresso dalla Luxemburg sul-
la impossibilità di affrontare certe quistioni della filosofia della prassi in quanto esse non
sono ancora divenute attuali per il corso della storia generale o di un dato aggruppamento
sociale. Alla fase economico-corporativa, alla fase di lotta per l’egemonia nella società
civile, alla fase statale corrispondono attività intellettuali determinate che non si possono
arbitrariamente improvvisare o anticipare. Nella fase della lotta per l’egemonia si sviluppa
la scienza della politica; nella fase statale tutte le superstrutture devono svilupparsi, pena
il dissolvimento dello Stato.
Lezione 16
(Mercoledì 29 aprile 2020)
1. I quaderni “speciali”
Quaderno iniziato nel 1933 e scritto senza tener conto delle divisioni di materia e dei
raggruppamenti di note in quaderni speciali. (Corsivo mio)
stesura (testi C) e da note di stesura unica (testi B). Come ricordate, le note di
seconda stesura (testi C nella edizione critica di Valentino Gerratana) sono
rielaborazioni, più o meno ampie e importanti, di testi scritti precedentemen-
te nei quaderni miscellanei, che vengono perciò riutilizzati e variamente mo-
dificati. Quindi lo studio dei quaderni speciali pone un problema nuovo a chi
li legge. Una volta datati i quaderni e le singole note, è anche necessario stu-
diare le varianti rispetto ai testi di prima stesura dove esistono.
Vi aggiungo tra i materiali del corso un mio articolo recente, che vi offre
notizie più dettagliate sull’origine dei quaderni speciali. Ma la domanda
principale è quando e perché Gramsci sentì l’esigenza di cambiare il proprio
metodo di lavoro, cominciando a “raggruppare” per argomento le note pre-
cedenti, aggiungendone ordinatamente di nuove, fino a costruire quaderni
che non sono più “miscellanei” (come i precedenti) né veri e propri saggi
monografici o libri, ma costituiscono un genere intermedio di scrittura unico,
a metà fra lo stile frammentario e l’intenzione sistematica che guida la pro-
gressione dei diversi paragrafi.
Naturalmente una certa sistematicità era presente anche nei quaderni pre-
cedenti, come è testimoniato dall’uso dei titoli di rubrica e dalle sezioni mo-
nografiche che compongono i quaderni misti. Ma qui Gramsci compie il
massimo sforzo di “stringere” i temi maggiori della sua ricerca.
Bisogna tenere presente, inoltre, che i primi quattro quaderni speciali (10,
11, 12, 13) vennero scritti nella massima parte nel carcere speciale di Turi
nel corso del 1932, per lo più parallelamente, e dunque indicano una rifles-
sione “unitaria” e meritano, per molti versi, di non essere separati, di essere
letti insieme.
Ora dobbiamo dire qualcosa sul “quando” e sul “perché” della nascita di
questo nuovo progetto.
Se puoi, mandami dei quaderni, ma non come quelli che mi hai mandato qualche tem-
po fa, che sono incomodi e troppo grandi: dovresti scegliere dei quaderni di formato nor-
male, come quelli scolastici, e di non molte pagine, al massimo 40-50, in modo che neces-
sariamente non si trasformino in zibaldoni miscellanei sempre più farraginosi. Vorrei ave-
re questi piccoli quaderni appunto per riordinare queste note, dividendole per argomento e
così sistemandole; ciò mi farà passare il tempo e mi sarà utile personalmente per raggiun-
gere un certo ordine intellettuale.
159
Ho ricevuto i quaderni: i migliori sono quei due piccoli (per numero di pagine) che
hai mandato nel secondo piego, quello raccomandato. I block-notes non possono essere
utilizzati.
Raggruppamenti di materia:
3. Nella lettera del 12 aprile 1932, Tatiana (dopo essersi consultata con Piero
Sraffa) invitò Gramsci a occuparsi della Storia d’Europa di Benedetto Croce,
uscita in quei giorni per l’editore Laterza. Questo invito incontrava
l’interesse del prigioniero, che proprio in quel periodo aveva scritto, nel
Quaderno 8, una serie di importanti note sulla filosofia di Croce. Tatiana gli
scriveva:
Tu riceverai fra poco un libro di Croce, La storia d'Europa. - Dovresti farne una re-
censione perché a me interessa molto e le tue osservazioni potranno essermi molto utili
per un mio lavoro.
1= Gramsci iniziò il Quaderno 10 dal primo foglio, carta 1recto (fino alla
carta 2recto), scrivendo Alcuni criteri generali metodici per la critica della
filosofia del Croce, come riflessione generale e introduttiva sull’argomento.
3. L’Anti-Croce
Nell’articolo che trovate come “materiale” della lezione e nel libro che
avete in programma potete seguire la storia dei rapporti intellettuali fra
Gramsci e Croce. Qui mi limito a ricordare alcuni punti della critica che ven-
ne elaborata nel Quaderno 10 e che costituisce un aspetto centrale di tutto il
pensiero di Gramsci.
3.1. LA FORMULA DELL’ANTI-CROCE. Per tre volte Gramsci sintetizzò il suo pro-
gramma di ricerca nella formula dell’«Anti-Croce». Conviene anzi tutto te-
nere presenti le tre versioni del concetto:
161
(1) Quaderno 8 = § 〈235〉. Introduzione allo studio della filosofia. Oltre la serie
«trascendenza, teologia, speculazione – filosofia speculativa», l’altra serie «trascendenza,
immanenza, storicismo speculativo – filosofia della praxis». Sono da rivedere e da critica-
re tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Da questo punto di vista bisogne-
rebbe scrivere un nuovo Antidühring, che potrebbe essere un Anticroce, poiché in esso
potrebbe riassumersi non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche, im-
plicitamente, quella contro il positivismo e le teorie meccanicistiche, deteriorazione della
filosofia della praxis.
(2) Quaderno 10 = § <11> Il Croce combatte con troppo accanimento la filosofia del-
la praxis e nella sua lotta ricorre ad alleati paradossali, come il mediocrissimo De Man.
Questo accanimento è sospetto, può rivelarsi un alibi per negare una resa dei conti. Occor-
re invece venire a questa resa di conti, nel modo più ampio e approfondito possibile. Un
lavoro di tal genere, un Anti-Croce che nell’atmosfera culturale moderna potesse avere il
significato e l’importanza che ha avuto l’Anti-Dühring per la generazione precedente la
guerra mondiale, varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni
di attività.
Nota I. Le tracce della filosofia della praxis possono trovarsi specialmente nella solu-
zione che il Croce ha dato di problemi particolari. Un esempio tipico mi pare la dottrina
dell’origine pratica dell’errore. In generale si può dire che la polemica contro la filosofia
dell’atto puro di Giovanni Gentile ha costretto il Croce a un maggior realismo e a provare
un certo fastidio e insofferenza almeno per le esagerazioni del linguaggio speculativo,
divenuto gergo e «apriti, sesamo» dei minori fraticelli attualisti.
Nota II. Ma la filosofia del Croce non può essere tuttavia esaminata indipendentemen-
te da quella del Gentile. Un Anti-Croce deve essere anche un Anti-Gentile; l’attualismo
gentiliano darà gli effetti di chiaroscuro nel quadro che sono necessari per un maggior
rilievo.
3.3. DISTINTI E OPPOSTI. Nelle lezioni dedicate agli Appunti di filosofia ab-
biamo già esaminato questo aspetto. Possiamo riprenderlo brevemente. Nella
sua critica a Hegel, Croce aveva sostenuto che le forme dello spirito (le cate-
gorie; la teoria e la pratica; l’estetica, la logica, l’economia, l’etica) non han-
no un rapporto dialettico, di opposizione, ma di distinzione. Hegel aveva
compiuto un grave errore scambiando i distinti e gli opposti: con la conse-
guenza di svalutare le scienze empiriche secondo i canoni della ragione filo-
sofica, di affermare la “morte dell’arte”, di costruire una improbabile “filoso-
fia della storia”. Il nuovo idealismo doveva perciò superare, su questo punto,
il vecchio idealismo di Hegel, riformulandone la teoria dialettica.
Come sappiamo, Gramsci accoglie questa posizione, ma la limita alla di-
namica delle superstrutture. Le superstrutture hanno una relazione reciproca
ordinata dalla logica dei distinti, non da quella dell’opposizione. La restaura-
zione del valore della realtà empirica (delle scienze, delle arti, della storia)
operata da Croce non deve essere perduta. Ma nella sua giusta “riforma” del-
la dialettica Croce ha compiuto il solito errore speculativo. Non ha visto,
cioè, che oltre il circolo delle superstrutture vi è la realtà oggettiva della
struttura: qui vale la logica degli opposti, come Hegel aveva insegnato.
Da diverse prospettive, la critica di Gramsci a Croce ha una notevole coe-
renza. L’Anti-Croce assume le novità della filosofia di Croce ma, passo dopo
passo, le trascrive nella filosofia della praxis, cioè in un marxismo profon-
damente rinnovato, storicista e umanista.
164
Lezione 17
Q9 Q9 Q9 Q9 Q9 Q9
Q12
Q14
Per ogni sezione, dunque, Gramsci tende a iniziare dalle note più recenti
(il Quaderno 8) e via via risale a quelle più antiche (Quaderno 7, poi Quader-
no 4), aggiungendovi alcune rielaborazioni di note miscellanee (Quaderno 3,
Quaderno 9) e qualche nota di stesura unica.
Osservate il fatto, del tutto straordinario anzi unico, che per la stesura del
§ 12 si serve anche di una nota del Quaderno 10, cioè di un altro quaderno
“speciale”.
per la prima volta da Valentino Gerratana, nel 1975, nell’edizione critica Ei-
naudi. Inoltre, a differenza di altri quaderni (come i Quaderni 4, 7, 10), Ger-
ratana pubblicò il Quaderno 11 nella stessa disposizione del manoscritto.
Un problema particolare riguarda il titolo del quaderno. Come sappiamo,
tutti i quaderni “speciali” hanno un titolo assegnato dallo stesso Gramsci.
Gerratana osservò che nel Quaderno 11 «manca un titolo generale», ma –
aggiunse – «altrove – cfr. Quaderno 10 (XXXIII), parte II, § 60 – questo
Quaderno 11 (XVIII) è citato dallo stesso Gramsci con il titolo Introduzione
allo studio della filosofia». In effetti alla c. 39recto del Quaderno 10 si leg-
gono queste parole:
Questa proposizione [di Labriola], sia nell’impiego fattone da Hegel, sia in quello fat-
tone dalla filosofia della prassi, è da confrontare col parallelo, fatto dallo stesso Hegel e
che ha uno spunto nella Sacra Famiglia, tra il pensiero pratico-giuridico francese e quello
speculativo tedesco (a questo proposito è da vedere il quaderno su «Introduzione allo stu-
dio della filosofia» p. 59).
Oggi sappiamo che non è vero che nel Quaderno 11 manchi un titolo. È
vero che esso non è indicato all’inizio, ma nella c. 11recto con una doppia
sottolineatura: Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio del-
la filosofia e della storia della cultura. Poiché tutti i quaderni “speciali” han-
no un titolo, è plausibile ritenere che questo fosse il titolo assegnato da
Gramsci al quaderno. Ma questa osservazione (insieme ad altre) modifica le
ipotesi sulla composizione. Possiamo infatti ipotizzare che la stesura del
quaderno iniziò proprio dalla c. 11recto, con la scrittura del titolo.
Lezione 18
Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi», de-
finendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo», e
cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e
di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2)
nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il si-
stema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in
quello che generalmente si chiama «folclore».
Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente,
perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il
«linguaggio», è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo
momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè alla quistione: è preferibi-
le «pensare» senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè
171
Ma qui sorge il problema. Perché le visioni del mondo non sono tutte
eguali. Ci sono «tipi» diversi. La visione del mondo può essere passiva, cioè
disgregata e molteplice; oppure attiva, e il suo carattere è la coerenza e la cri-
tica. In quella passiva, l’uomo stesso è disgregato nella sua personalità.
Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coeren-
te e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa
quindi anche criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratifica-
zioni consolidate nella filosofia popolare. L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza
di quello che è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico
172
finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio
d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.
Non si può separare la filosofia dalla storia della filosofia e la cultura dalla storia della
cultura. Nel senso più immediato e aderente, non si può essere filosofi, cioè avere una
concezione del mondo criticamente coerente, senza la consapevolezza della sua storicità,
della fase di sviluppo da essa rappresentata e del fatto che essa è in contraddizione con
altre concezioni o con elementi di altre concezioni. La propria concezione del mondo ri-
sponde a determinati problemi posti dalla realtà, che sono ben determinati e «originali»
nella loro attualità. Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente
con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se
ciò avviene, significa che si è «anacronistici» nel proprio tempo, che si è dei fossili e non
esseri modernamente viventi. O per lo meno che si è «compositi» bizzarramente. E infatti
avviene che gruppi sociali che per certi aspetti esprimono la più sviluppata modernità, per
altri sono in arretrato con la loro posizione sociale e pertanto sono incapaci di completa
autonomia storica.
Se è vero che ogni linguaggio contiene gli elementi di una concezione del mondo e di
una cultura, sarà anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o
minore complessità della sua concezione del mondo. Chi parla solo il dialetto o compren-
de la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del
mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle
grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ri-
stretti, più o meno corporativi o economistici, non universali. Se non sempre è possibile
173
imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre al-
meno imparare bene la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di
un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale, storicamente ricca e complessa,
può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un
dialetto non può fare la stessa cosa.
Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «ori-
ginali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte,
«socializzarle» per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di
coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a
pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è fatto «filosofico» ben più
importante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di
una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali.
A questo punto (carta 12verso) Gramsci lascia una riga bianca, crea uno
stacco, e introduce un discorso in parte diverso, che si chiude nella carta
16recto. L’analisi si complica, o meglio si articola in tre termini che sono ca-
ratteristici del suo pensiero: la filosofia, il senso comune, la religione. Ora la
filosofia si distingue nettamente dalle altre due categorie, come critica e co-
struzione del buon senso, ma anche senso comune e religione non sono lo
stesso.
Relazioni tra scienza ‑ religione ‑ senso comune. La religione e il senso comune non
possono costituire un ordine intellettuale perché non possono ridursi a unità e coerenza
neanche nella coscienza individuale per non parlare della coscienza collettiva: non posso-
no ridursi a unità e coerenza «liberamente» perché «autoritativamente» ciò potrebbe av-
venire come infatti è avvenuto nel passato entro certi limiti. Il problema della religione
intesa non nel senso confessionale ma in quello laico di unità di fede tra una concezione
del mondo e una norma di condotta conforme; ma perché chiamare questa unità di fede
«religione» e non chiamarla «ideologia» o addirittura «politica»?
174
Non esiste infatti la filosofia in generale: esistono diverse filosofie o concezioni del
mondo e si fa sempre una scelta tra di esse. Come avviene questa scelta? È questa scelta
un fatto meramente intellettuale o più complesso? E non avviene spesso che tra il fatto
intellettuale e la norma di condotta ci sia contraddizione? Quale sarà allora la reale conce-
zione del mondo: quella logicamente affermata come fatto intellettuale, o quella che risul-
ta dalla reale attività di ciascuno, che è implicita nel suo operare? E poiché l’operare è
sempre un operare politico, non si può dire che la filosofia reale di ognuno è contenuta
tutta nella sua politica? Questo contrasto tra il pensare e l’operare, cioè la coesistenza di
due concezioni del mondo, una affermata a parole e l’altra esplicantesi nell’effettivo ope-
rare, non è dovuto sempre a malafede. La malafede può essere una spiegazione soddisfa-
cente per alcuni individui singolarmente presi, o anche per gruppi più o meno numerosi,
non è soddisfacente però quando il contrasto si verifica nella manifestazione di vita di lar-
ghe masse: allora esso non può non essere l’espressione di contrasti più profondi di ordine
storico sociale. Significa che un gruppo sociale, che ha una sua propria concezione del
mondo, sia pure embrionale, che si manifesta nell’azione, e quindi saltuariamente, occa-
sionalmente, cioè quando tal gruppo si muove come un insieme organico, ha, per ragioni
di sottomissione e subordinazione intellettuale, preso una concezione non sua a prestito da
un altro gruppo e questa afferma a parole, e questa anche crede di seguire, perché la segue
in «tempi normali», cioè quando la condotta non è indipendente e autonoma, ma appunto
sottomessa e subordinata. Ecco quindi che non si può staccare la filosofia dalla politica e
si può mostrare anzi che la scelta e la critica di una concezione del mondo è fatto politico
anch’essa.
Il rapporto tra filosofia «superiore» e senso comune è assicurato dalla «politica», così
come è assicurato dalla politica il rapporto tra il cattolicismo degli intellettuali e quello
dei «semplici». Le differenze nei due casi sono però fondamentali.
dere come si inserisca nella tramma “filosofica” del Quaderno 11. Qui
l’analisi del rapporto teoria-prassi dischiude la questione dell’egemonia, cioè
la costruzione di una teoria adeguata alla prassi.
L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di
questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua co-
scienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire
che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo
operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica
della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha
accolto senza critica. Tuttavia questa concezione «verbale» non è senza conseguenze: essa
riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo
della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la
contradditorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna
scelta e produce uno stato di passività morale e politica.
La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di «egemonie»
politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per
giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza di
essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima
fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si uni-
ficano. Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un
divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di «distinzione», di
«distacco», di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e com-
pleto di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo
come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filo-
sofico oltre che politico‑pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità
intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso co-
mune ed è diventata, sia pure entro limiti ancora ristretti, critica.
Lezione 19
È evidente che per la filosofia della praxis la «materia» non deve essere intesa né nel
significato quale risulta dalle scienze naturali (fisica, chimica, meccanica ecc., e questi
significati sono da registrare e da studiare nel loro sviluppo storico) né nei suoi significati
quali risultano dalle diverse metafisiche materialistiche. Le diverse proprietà fisiche (chi-
miche, meccaniche ecc.) della materia che nel loro insieme costituiscono la materia stessa
(a meno che non si ricaschi in una concezione del noumeno kantiano) sono considerate,
ma solo in quanto diventano «elemento economico» produttivo. La materia non è quindi
da considerare come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produ-
zione e quindi la scienza naturale come essenzialmente una categoria storica, un rapporto
umano.
E il concetto idealistico che la natura non è altro che la categoria economica, non po-
trebbe, depurato dalle sue superstrutture speculative, essere ridotto in termini di filosofia
della praxis ed essere dimostrato storicamente legato a questa e uno sviluppo di questa?
È da studiare la posizione del prof. Lukacz verso la filosofia della praxis. Pare che il
Lukacz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la
natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo
tra la natura e l’uomo egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria del-
la religione e della filosofia greco-cristiana e anche propria dell’idealismo, che realmente
non riesce a unificare e mettere in rapporto l’uomo e la natura altro che verbalmente. Ma
se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la sto-
ria della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? Forse il Lukacz, per
reazione alle teorie barocche del Saggio popolare, è caduto nell’errore opposto, in una
forma di idealismo. É certo che in Engels (Antidühring) si trovano molti spunti che pos-
sono portare alle deviazioni del Saggio. Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia
lavorato a lungo, ha lasciato scarsi materiali sull’opera promessa per dimostrare la dialet-
tica legge cosmica e si esagera nell’affermare l’identità di pensiero tra i due fondatori del-
la filosofia della praxis.
179
L’insieme delle forze materiali di produzione è l’elemento meno variabile nello svi-
luppo storico, è quello che volta per volta può essere accertato e misurato con esattezza
matematica, che può dar luogo pertanto a osservazioni e a criteri di carattere sperimentale
e quindi alla ricostruzione di un robusto scheletro del divenire storico. La variabilità
dell’insieme delle forze materiali di produzione è anch’essa misurabile e si può stabilire
con una certa precisione quando il suo sviluppo da quantitativo diventa qualitativo.
L’insieme delle forze materiali di produzione è insieme una cristallizzazione di tutta la
storia passata e la base della storia presente e avvenire, è un documento e insieme una for-
za attiva attuale di propulsione. Ma il concetto di attività di queste forze non può essere
confuso e neppure paragonato all’attività nel senso fisico o metafisico.
nasce la quistione: qual è l’origine di questa «credenza» e quale valore critico ha «obbiet-
tivamente»? Infatti questa credenza è di origine religiosa anche se vi partecipa è religio-
samente indifferente. Poiché tutte le religioni hanno insegnato e insegnano che il mondo,
la natura, l’universo è stato creato da dio prima della creazione dell’uomo e quindi l’uomo
ha trovato il mondo già bell’e pronto, catalogato e definito una volta per sempre, questa
credenza è diventata un dato ferreo del «senso comune» e vive con la stessa saldezza an-
che se il sentimento religioso è spento o sopito. Ecco allora che fondarsi su questa espe-
rienza del senso comune per distruggere con la «comicità» la concezione soggettivistica
ha un significato piuttosto «reazionario», di ritorno implicito al sentimento religioso; in-
fatti gli scrittori o gli oratori cattolici ricorrono allo stesso mezzo per ottenere lo stesso
effetto di ridicolo corrosivo.
È certo che la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua
forma compiuta e avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo
storico, che nella teoria delle superstrutture pone in linguaggio realistico e storicistico ciò
che la filosofia tradizionale esprimeva in forma speculativa La dimostrazione di questo
assunto, che qui è appena accennato, avrebbe la più grande portata culturale, perché met-
terebbe fine a una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo
organico della filosofia della praxis, fino a farla diventare l’esponente egemonico dell’alta
cultura.
4. Cosa è l’oggettività?
Oggettivo significa sempre «umanamente oggettivo», ciò che può corrispondere esat-
tamente a «storicamente soggettivo», cioè oggettivo significherebbe «universale soggetti-
vo». L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere
umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di uni-
181
ficazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la
società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della
nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente
dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi
dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale
del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano «spirito» non è un punto di partenza, ma
di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e ogget-
tivamente universale e non già un presupposto unitario ecc.
La scienza sperimentale è stata (ha offerto) finora il terreno in cui una tale unità cultu-
rale ha raggiunto il massimo di estensione: essa è stata l’elemento di conoscenza che ha
più contribuito a unificare lo «spirito», a farlo diventare più universale; essa è la soggetti-
vità più oggettivata e universalizzata concretamente.
Il concetto di «oggettivo» del materialismo metafisico pare voglia significare una og-
gettività che esiste anche all’infuori dell’uomo, ma quando si afferma che una realtà esi-
sterebbe anche se non esistesse l’uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di mi-
sticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire
storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire
ecc. (§17)
5. La previsione è prassi
6. La filologia vivente
L’esperienza su cui si basa la filosofia della praxis non può essere schematizzata; essa
è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità il cui studio può dar luogo alla
nascita della «filologia» come metodo dell’erudizione nell’accertamento dei fatti partico-
lari e alla nascita della filosofia intesa come metodologia generale della storia. Questo
forse volevano dire quegli scrittori che, come accenna molto affrettatamente il saggio nel
primo capitolo, negano si possa costruire una sociologia dalla filosofia della praxis e af-
fermano che la filosofia della praxis vive solo nei saggi storici particolari (l’affermazione,
così nuda e cruda, è certamente erronea e sarebbe una nuova curiosa forma di nominali-
smo e di scetticismo filosofico).
Negare che si possa costruire una sociologia, intesa come scienza della società, cioè
come scienza della storia e della politica, che non sia la stessa filosofia della praxis, non
significa che non si possa costruire una compilazione empirica di osservazioni pratiche
che allarghino la sfera della filologia come è intesa tradizionalmente. Se la filologia è
l’espressione metodologica dell’importanza che i fatti particolari siano accertati e precisa-
ti nella loro inconfondibile «individualità», non si può escludere l’utilità pratica di identi-
ficare certe «leggi di tendenza» più generali che corrispondono nella politica alle leggi
statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali.
Ma non è stato messo in rilievo che la legge statistica può essere impiegata nella scienza e
nell’arte politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono essen-
zialmente passive – per rispetto alle quistioni che interessano lo storico e il politico – o si
suppone rimangano passive. D’altronde l’estensione della legge statistica alla scienza e
all’arte politica può avere conseguenze molto gravi in quanto si assume per costruire pro-
spettive e programmi d’azione; se nelle scienze naturali la legge può solo determinare
spropositi e strafalcioni, che potranno essere facilmente corretti da nuove ricerche e in
ogni modo rendono solo ridicolo il singolo scienziato che ne ha fatto uso, nella scienza e
nell’arte politica può avere come risultato delle vere catastrofi, i cui danni «secchi» non
potranno mai essere risarciti. Infatti nella politica l’assunzione della legge statistica come
legge essenziale, fatalmente operante, non è solo errore scientifico, ma diventa errore pra-
tico in atto; essa inoltre favorisce la pigrizia mentale e la superficialità programmatica.
(§25)
Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più inti-
ma (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei senti-
menti popolari da meccanico e casuale (cioè prodotto dall’esistenza ambiente di condizio-
ni e di pressioni simili) diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di im-
portanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione sorretta dalla
identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fal-
lace, – che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza – ma avviene da parte
dell’organismo collettivo per «compartecipazione attiva e consapevole», per «con-
passionalità», per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire
di «filologia vivente». Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo
dirigente e tutto il complesso, bene articolato, si può muovere come un «uo-
mo‑collettivo».
Arriviamo così alla parte costruttiva del discorso di Gramsci, che possia-
mo sintetizzare in due punti: il nuovo concetto di ortodossia e il metodo spe-
rimentale.
Al nuovo concetto di ortodossia è dedicato il § 27. Il principio della nuo-
va ortodossia è quello (derivato da Labriola) per cui il marxismo basta a sé
stesso, è autosufficiente.
L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei seguaci della filosofia
della praxis, in questa o quella tendenza legata a correnti estranee alla dottrina originale,
ma nel concetto fondamentale che la filosofia della praxis «basta a se stessa», contiene in
sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del
mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivifica-
re una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integra-
le civiltà. Questo concetto così rinnovato di ortodossia, serve a precisare meglio
l’attributo di «rivoluzionario» che si suole con tanta facilità applicare a diverse concezioni
del mondo, teorie, filosofie.
Il cerchio si chiude nel § 34, dove Gramsci torna sul tema della oggettivi-
tà del mondo esterno. Il problema della scienza si stringe nell’«attività prati-
co-sperimentale», che costituisce la «cellula storica elementare», cioè la rela-
zione originaria di uomo e natura, in quanto «unità perfetta di teoria e prati-
ca».
L’espressione di Engels che «la materialità del mondo è dimostrata dal lungo e labo-
rioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali» dovrebbe essere analizzata e preci-
sata. S’intende per scienza l’attività teorica o l’attività pratico‑sperimentale degli scien-
ziati? o la sintesi delle due attività? Si potrebbe dire che in ciò si avrebbe il processo uni-
tario tipico del reale, nell’attività sperimentale dello scienziato che è il primo modello di
mediazione dialettica tra l’uomo e la natura, la cellula storica elementare per cui l’uomo,
ponendosi in rapporto con la natura attraverso la tecnologia, la conosce e la domina. È
184
indubbio che l’affermarsi del metodo sperimentale separa due mondi della storia, due
epoche e inizia il processo di dissoluzione della teologia e della metafisica, e di sviluppo
del pensiero moderno, il cui coronamento è nella filosofia della praxis. L’esperienza
scientifica è la prima cellula del nuovo metodo di produzione, della nuova forma di unio-
ne attiva tra l’uomo e la natura. Lo scienziato‑sperimentatore è anche un operaio, non un
puro pensatore e il suo pensare è continuamente controllato dalla pratica e viceversa, fin-
ché si forma l’unità perfetta di teoria e pratica.
185
Lezione 20
2= In alcuni passi del saggio sulla questione merdionale, però, Gramsci al-
largava lo sguardo allo «sviluppo del capitalismo», alle tendenze di fondo
186
In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato dallo svilup-
po del capitalismo. Il vecchio tipo dell’intellettuale era l’elemento organizzativo di una
società a base contadina e artigiana prevalentemente; per organizzare lo Stato, per orga-
nizzare il commercio la classe dominante allevava un particolare tipo di intellettuali.
L’industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale: l’organizzatore tecnico, lo specia-
lista della scienza applicata. Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate in
senso capitalista, fino ad assorbire la maggior parte dell’attività nazionale, è questo se-
condo tipo di intellettuale che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di ordine e di-
sciplina intellettuale. Nei paesi invece dove l’agricoltura esercita un ruolo ancora notevole
o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che dà la massima
parte del personale statale e che anche localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, eserci-
ta la funzione di intermediario tra il contadino e l’amministrazione in generale. Nell’Italia
meridionale predomina questo tipo con tutte le sue caratteristiche: democratico nella fac-
cia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo,
politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politi-
ci meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale.
li come massa, e forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente,
nonostante tutti gli onesti sforzi che essi fanno e vogliono fare.
Il proletariato, come classe, è povero di elementi organizzativi, non ha e non può for-
marsi un proprio strato di intellettuali che molto lentamente, molto faticosamente e solo
dopo la conquista del potere statale. Ma è anche importante e utile che nella massa degli
intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata; che
si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra, nel significato moderno del-
la parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato e
masse contadine esige questa formazione; tanto più la esige l’alleanza tra il proletariato e
le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridio-
nale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni au-
tonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in mi-
sura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua
capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima
del blocco agrario
Fin dalle prime note dei Quaderni del carcere Gramsci elaborò queste
prime intuizioni, collocando la questione degli intellettuali al centro della sua
teoria dell’egemonia. L’intero Quaderno 1 è, in definitiva, una riflessione su-
gli intellettuali, considerati sotto diverse prospettive: la formazione del senso
comune (che è appunto opera della funzione intellettuale), il meccanismo di
educazione scolastica e universitaria, le tendenze degli intellettuali italiani
(lorianesimo e brescianesimo), la funzione dei ceti intellettuali nel Risorgi-
mento italiano. Sono tutte linee di riflessione che, nel § 47 (un testo di stesu-
ra unica), trovano una espressione teorica nel rilievo assegnato al concetto
hegeliano di “società civile”. È la società civile, infatti, il luogo in cui, attra-
verso la funzione degli intellettuali, si costituisce il discorso egemonico.
Inoltre, nel nostro studio del Quaderno 8 e del Quaderno 11, abbiamo già
incontrato un testo nel quale l’opera dell’intellettuale assume un ruolo fon-
damentale nella costruzione del discorso rivoluzionario. È il passo (cu cui ci
siamo soffermati a lungo) dove Gramsci parla del “lavoratore medio” o “uo-
mo attivo di massa”. Come abbiamo visto, la coscienza del lavoratore è il
luogo di una contraddizione fra teoria e prassi, fra il senso comune ereditato
dal passato e trasmesso dall’educazione e, d’altra parte, l’attività produttiva
svolta nel rapporto con la natura e con gli altri operai. Perché questa contrad-
dizione sia superata, e il lavoratore venga sollevato al compito di una sogget-
tività progressiva, è necessario il lavoro collettivo dell’intellettuale: è cioè
necessaria l’elaborazione di una teoria unificata con la prassi, serve la co-
struzione di una visione del mondo adeguata al tempo presente. Senza
l’opera intellettuale, il processo politico incontrerebbe una strada sbarrata.
2. Marxismo e intellettuali
Questo ruolo centrale degli intellettuali (e della loro storia) è forse la ca-
ratteristica principale del marxismo di Gramsci. Nessun pensatore marxista
(con l’eccezione del precedente di Antonio Labriola) aveva parlato così degli
intellettuali, come di soggetti attivi nel processo di riproduzione sociale e di
188
3. Il Quaderno 12
giro di soli due mesi, tra il maggio e il giugno del 1932, scrisse i 12 fogli del
Quaderno 12, intitolato Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla
storia degli intellettuali, dove rielaborò, in seconda stesura (aggregandoli in
tre soli paragrafi), alcuni testi del Quaderno 4. In questo piccolo ma inportan-
te quaderno troviamo perciò il condensato di tutta la sua riflessione sugli in-
tellettuali.
4. L’intellettuale “democratico”
La funzione dei grandi intellettuali, se permane intatta, trova però un ambiente molto
più difficile per affermarsi e svilupparsi: il grande intellettuale deve anch’egli tuffarsi nel-
la vita pratica, diventare un organizzatore degli aspetti pratici della cultura, se vuole con-
tinuare a dirigere; deve democratizzarsi, essere più attuale: l’uomo del Rinascimento non
è più possibile nel mondo moderno, quando alla storia partecipano attivamente e diretta-
mente masse umane sempre più ingenti.
Gramsci vuole dire che nella società di massa, ormai globale e cosmopo-
litica, come si è affermata dopo il 1870 e soprattutto dopo il 1918, non è più
possibile l’intellettuale tradizionale, separato dalla società civile: la funzione
190
Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motri-
ce esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente
alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché
non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-
lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si
rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico).
5. Oriente e Occidente
191
la determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto
rivoluzionario, nell’Europa centrale e occidentale si complica per tutte queste soprastrut-
ture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più pru-
dente l’azione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e
una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie al bolscevi-
smo nel periodo tra il marzo e il novembre 1917.
Mi pare che Ilici [Lenin] aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra
manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la
sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti po-
tevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé
ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del
«fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell’Intesa sotto il co-
mando unico di Foch. Solo che Ilici [Lenin] non ebbe il tempo di approfondire la sua for-
mula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il com-
pito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fis-
sazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile
ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa;
nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato
si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea
avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da
Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carat-
tere nazionale.
l’estinzione dello Stato si farà non attraverso l’indebolimento del potere statale, ma at-
traverso il suo rafforzamento massimo (Stalin, Questioni del leninismo).
Lezione 21
zia “organizzata”. Non solo non ha invertito il rapporto fra società e Stato,
ma ha saputo indicare nella società civile la struttura costitutiva della demo-
crazia, oltre il limite liberale di un consenso “occasionale”. Dunque Hegel è,
a pieno titolo, il teorico della politica moderna e anche il precursore della
dottrina dell’egemonia e delle funzioni intelelttuali.
Lo spunto depositato nel Quaderno 1 è ripreso e svolto nel Quaderno 8, §
187, altro testo di stesura unica (non ripreso nei quaderni “speciali”). Ora
Gramsci dice qualcosa di più. Hegel non solo ha indicato nella società civile
il luogo della democrazia moderna, ma ha riconosciuto la vera natura dello
Stato, assegnando agli intellettuali la posizione di «aristocrazia», di principio
motore della politica. Con la polemica contro Haller, Hegel ha superato la
visione «patrimoniale», corporativa, dello Stato, mettendo il discorso politico
nella dimensione di una schietta universalità. Ancora una volta non può
sfuggire la netta differenza rispetto al giudizio che, su questo aspetto, aveva
dato il giovane Marx (in un testo, ricordiamolo, che Gramsci non poteva co-
noscere). Scrive così:
nella concezione non solo della [scienza] politica, ma in tutta la concezione della vita
culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli
intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pen-
sare più secondo le caste o gli «stati» ma secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono
appunto gli intellettuali. La concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pen-
sare per «caste») è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche
sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli intellet-
tuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle
sue radici sociali.
Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la
società civile, e questa deve essere radicalmente trasformata in concreto e non solo sulla
carta della legge e dei libri degli scienziati; lo Stato è lo strumento per adeguare la società
civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato «voglia» far ciò, che cioè a guida-
re lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica.
In altri luoghi dei quaderni esprimerà una tesi ancora più radicale. Lo Sta-
to politico non è oltre la società civile (come aveva pensato Hegel) ma è una
funzione della società civile. È un potere diffuso, che ha radici nazionali e
soprattutto internazionali.
196
2. Democrazia proletaria?
3. L’intellettuale organico
Gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo
sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso
per le varie forme che ha assunto finora il processo storico reale di formazione delle di-
verse categorie intellettuali.
La risposta non può essere dubbia, gli intellettuali sono organici, nel sen-
so che rappresentano un prolungamento e uno sviluppo della funzione intel-
lettuale già implicita (ma solo implicita) nell’ordine della struttura. Come è
facile comprendere, questa nozione di organicità – per cui l’intellettuale è
sempre espressione di un gruppo sociale (di un “gruppo sociale”, si osservi,
non di una “classe”) – ha sia una funzione analitica sia una funzione pratica:
analitica perché permette di decifrare la storia dei gruppi intellettuali (per
esempio le élites risorgimentali), pratica perché prefigura la costruzione di
un nuovo intellettuale organico, espressione delle forze sociali di progresso e
della loro capacità egemonica.
Il primo esempio di intelelttuale organico è quindi l’imprenditore, che
unisce in sé la capacità della produzione di beni e «di organizzatore della so-
cietà in generale». Ma questa capacità dell’imprenditore si prolunga in una
classe di intellettuali, che provvede, in maniera più specifica, a quel compito
di «organizzatore della società in generale» secondo gli interessi di un grup-
po sociale determinato. In altri termini: affinché l’imprenditore eserciti la
propria funzione di produttore di beni, è necessaria una forma sociale ade-
guata, che è costituita non solo di rapporti economici (per esempio lo sfrut-
tamento, in senso marxiano) ma anche, e soprattutto, di rapporti intellettuali,
cioè esige una visione del mondo corrispettiva. Ma leggiamo il passo in cui
Gramsci affronta questo aspetto:
gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo
sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso
per le varie forme che ha assunto finora il processo storico reale di formazione delle di-
verse categorie intellettuali. Le più importanti di queste forme sono due:
1) Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel
mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di in-
tellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel
campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea
con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una
nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l’imprenditore rap-
presenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità diri-
gente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che
198
nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno
in quelle più vicine alla produzione economica (deve essere un organizzatore di masse
d’uomini, deve essere un organizzatore della «fiducia» dei risparmiatori nella sua azienda,
dei compratori della sua merce ecc.).
Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di orga-
nizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino
all’organismo statale, per la necessità di creare le condizioni più favorevoli all’espansione
della propria classe; o deve possedere per lo meno la capacità di scegliere i «commessi»
(impiegati specializzati) cui affidare questa attività organizzatrice dei rapporti generali
esterni all’azienda.
Si può osservare che gli intellettuali «organici» che ogni nuova classe crea con se
stessa ed elabora nel suo sviluppo progressivo, sono per lo più «specializzazioni» di
aspetti parziali dell’attività primitiva del tipo sociale nuovo che la nuova classe ha messo
in luce.
1) le masse contadine;
2) il rapporto con la tradizione, che porta gli intellettuali a porre se stessi co-
me autonomi e indipendenti;
Sulle masse contadine, Gramsci avverte subito che esse, in linea di prin-
cipio, non esprimono propri intellettuali organici, ma al tempo stesso sono
dominate attraverso l’opera degli intellettuali. Questa, come sappiamo, è la
radice della questione meridionale, già individuata nell’articolo del 1926.
Così è da notare che la massa dei contadini, quantunque svolga una funzione essenzia-
le nel mondo della produzione, non elabora proprii intellettuali «organici» e non «assimi-
la» nessun ceto di intellettuali «tradizionali», quantunque dalla massa dei contadini altri
gruppi sociali tolgano molti dei loro intellettuali e gran parte degli intellettuali tradizionali
siano di origine contadina.
Il secondo punto è molto più complesso. Gli intellettuali non hanno solo
un rapporto organico e verticale con il gruppo sociale, non sono soltanto una
espressione lineare del gruppo sociale, ma hanno un rapporto orizzontale con
la tradizione. Cioè proseguono uno specifico discorso specialistico, tecnico.
Per fare un esempio, il filosofo non si riferisce solo al proprio gruppo sociale,
ma anche alla storia della filosofia, alla continuità della propria tradizione
disciplinare. Questo rapporto tende perciò a staccarli dal gruppo sociale, a
conferire a essi una spiccata autonomia. L’intellettuale, oltre che organico,
199
Ma ogni gruppo sociale «essenziale» emergendo alla storia dalla precedente struttura
economica e come espressione di un suo sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno
nella storia finora svoltasi, categorie sociali preesistenti e che anzi apparivano come rap-
presentanti una continuità storica ininterrotta anche dai più complicati e radicali muta-
menti delle forme sociali e politiche. La più tipica di queste categorie intellettuali è quella
degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo (per un’intera fase storica che anzi da
questo monopolio è in parte caratterizzata) di alcuni servizi importanti: l’ideologia reli-
giosa cioè la filosofia e la scienza dell’epoca, con la scuola, l’istruzione, la morale, la giu-
stizia, la beneficenza, l’assistenza ecc.
La categoria degli ecclesiastici può essere considerata essere la categoria intellettuale
organicamente legata all’aristocrazia fondiaria: era equiparata giuridicamente
all’aristocrazia, con cui divideva l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei
privilegi-statali legati alla proprietà. Ma il monopolio delle superstrutture da parte degli
ecclesiastici (da esso è nata l’accezione generale di «intellettuale» – o di «specialista» –
della parola «chierico», in molte lingue di origine neolatina o influenzate fortemente, at-
traverso il latino chiesastico, dalle lingue neolatine, col suo correlativo di «laico» nel sen-
so di profano – non specialista) non è stato esercitato senza lotta e limitazioni, e quindi si
è avuto il nascere, in varie forme (da ricercare e studiare concretamente) di altre categorie,
favorite e ingrandite dal rafforzarsi del potere centrale del monarca, fino all’assolutismo.
Così si viene formando l’aristocrazia della toga, con suoi propri privilegi; un ceto di am-
ministratori ecc., scienziati, teorici, filosofi non ecclesiastici ecc.
Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con «spirito di cor-
po» la loro ininterrotta continuità storica e la loro «qualifica», così essi pongono se stessi
come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante; questa auto-posizione non è
senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata (tutta la
filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso
sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gli
intellettuali si credono «indipendenti», autonomi, rivestiti di caratteri loro proprii ecc. Da
notare però che se il papa e l’alta gerarchia della Chiesa si credono più legati a Cristo e
agli apostoli di quanto non siano ai senatori Agnelli e Benni, lo stesso non è per Gentile e
Croce, per esempio; il Croce, specialmente, si sente legato fortemente ad Aristotile e a
Platone, ma egli non nasconde, anzi, di essere legato ai senatori Agnelli e Benni e in ciò
appunto è da ricercare il carattere più rilevato della filosofia del Croce).
In alcuni casi sono attività creative, in altri casi appaiono piuttosto come di-
vulgazione «della ricchezza intellettuale già esistente, tradizionale, accumu-
lata». In analogia con «l’organismo militare», dove ci sono generali e «gra-
duati di truppa», la società civile appare come una catena ininterrotta di tra-
smissione ideologica, dove le visioni del mondo vengono continuamente
create ma soprattutto ripetute, diffuse, amplificate. Con gli strumenti di co-
municazione, con la scuola, entrano nelle case e condizionano l’immagine
culturale dei cittadini. Questo è il meccanismo dell’egemonia, nel quale dun-
que gli intellettuali, a tutti i livelli, hanno un ruolo costitutivo.
In una linea di riflessione che tornerà nel tema dell’americanismo (ce ne
occuperemo nelle prossime lezioni), questo significa anche che nella società
civile cresce la quota di lavoro improduttivo, di rendita: nel senso che, a una
società di tipo fordista, dove l’occupazione era concentrata nella frabbrica e
nelle campagne, segue una società diversa, dove il lavoro tende a non pro-
durre direttamente beni e merci di consumo immediato, ma immaginario col-
lettivo. Gramsci scrive che,
nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, così intesa, si è ampliata in modo
inaudito. Sono state elaborate dal sistema sociale democratico-burocratico masse impo-
nenti, non tutte giustificate dalle necessità sociali della produzione, anche se giustificate
dalle necessità politiche del gruppo fondamentale dominante. Quindi la concezione loria-
na del «lavoratore» improduttivo (ma improduttivo per riferimento a chi e a quale modo
di produzione?), che potrebbe in parte giustificarsi se si tiene conto che queste masse
sfruttano la loro posizione per farsi assegnare taglie ingenti sul reddito nazionale. La for-
mazione di massa ha standardizzato gli individui e come qualifica individuale e come psi-
cologia, determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: con-
correnza che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazio-
ne, superproduzione scolastica, emigrazione ecc.
è quello che riguarda, se considerato da questo punto di vista, il partito politico mo-
derno, le sue origini reali, i suoi sviluppi, le sue forme. Cosa diventa il partito politico in
ordine al problema degli intellettuali? […]
il partito politico, per tutti i gruppi, è appunto il meccanismo che nella società civile
compie la stessa funzione che compie lo Stato in misura più vasta e più sinteticamente,
nella società politica, cioè procura la saldatura tra intellettuali organici di un dato gruppo,
quello dominante, e intellettuali tradizionali, e questa funzione il partito compie appunto
in dipendenza della sua funzione fondamentale che è quella di elaborare i proprii compo-
nenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come «economico», fino a farli
diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le
funzioni inerenti all’organico sviluppo di una società integrale, civile e politica.
Si può dire anzi che nel suo ambito il partito politico compia la sua funzione molto
più compiutamente e organicamente di quanto lo Stato compia la sua in ambito più vasto:
un intellettuale che entra a far parte del partito politico di un determinato gruppo sociale,
si confonde con gli intellettuali organici del gruppo stesso, si lega strettamente al gruppo,
ciò che non avviene attraverso la partecipazione alla vita statale che mediocremente e tal-
volta affatto. […]
Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali,
ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette,
niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi, un partito potrà avere una maggiore
o minore composizione del grado più alto o di quello più basso, non è ciò che importa:
importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale. Un
commerciante non entra a far parte di un partito politico per fare del commercio, né un
industriale per produrre di più e a costi diminuiti, né un contadino per apprendere nuovi
metodi di coltivare la terra, anche se alcuni aspetti di queste esigenze del commerciante,
dell’industriale, del contadino possono trovare soddisfazione nel partito politico
(l’opinione generale contraddice a ciò, affermando che il commerciante, l’industriale, il
contadino «politicanti» perdono invece di guadagnare, e sono i peggiori della loro catego-
ria, ciò che può essere discusso). Per questi scopi, entro certi limiti, esiste il sindacato pro-
fessionale in cui l’attività economico-corporativa del commerciante, dell’industriale, del
contadino, trova il suo quadro più adatto.
Nel partito politico gli elementi di un gruppo sociale economico superano questo
momento del loro sviluppo storico e diventano agenti di attività generali, di carattere na-
zionale e internazionale. Questa funzione del partito politico dovrebbe apparire molto più
202
chiara da un’analisi storica concreta del come si sono sviluppate le categorie organiche
degli intellettuali e quelle tradizionali sia nel terreno delle varie storie nazionali sia in
quello dello sviluppo dei vari gruppi sociali più importanti nel quadro delle diverse nazio-
ni, specialmente di quei gruppi la cui attività economica è stata prevalentemente strumen-
tale.
203
Lezione 22
1. Il Quaderno 13
Nello stesso periodo della stesura dei Quaderni 10, 11, 12 (di cui abbiamo
parlato nelle lezioni precedenti), presumibilmente nel maggio 1932, Gramsci
iniziò il Quaderno 13, intitolato Noterelle sulla politica del Machiavelli (il
titolo è scritto in capo alla carta 1recto con doppia sottolineatura). Il quader-
no è composto di 40 note, che rielaborano precedenti note di prima stesura
dei Quaderni 1, 4, 7, 8, 9, con l’eccezione di un paragrafo, il § 25 («Doppiez-
za» e «ingenuità» del Machiavelli), che è nuovo e di stesura unica. È molto
probabile che la composizione di questo quaderno si prolungò fino al no-
vembre 1933, poco tempo prima il trasferimento a Civitavecchia e quindi
nella clinica Cusumano di Formia (dove i quaderni arrivarono nascosti den-
tro un baule di effetti personali).
Quindi Gramsci lavorò a lungo (maggio 1932-novembre 1933) e in ma-
niera abbastanza lineare alla scrittura di questo quaderno, che si presenta
grande, in formato registro, per un totale di 60 facciate. Attraverso la rifles-
sione su Machiavelli, tutta la teoria dell’egemonia venne qui sistemata nei
punti essenziali. I grandi temi che vi emergono – l’egemonia, il moderno
principe, il concetto di grande potenza, i rapporti di forza, i partiti politici, il
cesarismo, la guerra di posizione, le volontà collettive – rappresentano i tas-
selli di un discorso organico, che segna un primo approdo consistente delle
riflessioni carcerarie.
In un periodo successivo, verso la metà del 1934, Gramsci tornerà su Ma-
chiavelli nel Quaderno 18, intitolato Niccolò Machiavelli. II, composto di
sole 3 note, che non va oltre la composizione del secondo foglio. Questo
quaderno, dunque, aggiunge poco alla potente interpretazione tratteggiata nel
Quaderno 13.
2. Il Machiavelli di Gramsci
§ 〈13〉. Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica» derivata dal Croce, oc-
corre segnalare anche le «esagerazioni» e le deviazioni cui ha dato luogo. Si è formata
l’abitudine di considerare troppo il Machiavelli come il «politico in generale», come lo
«scienziato della politica», attuale in tutti i tempi. Bisogna considerare maggiormente il
Machiavelli come espressione necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle
condizioni e alle esigenze del tempo suo che risultano: 1) dalle lotte interne della repub-
blica fiorentina e dalla particolare struttura dello Stato che non sapeva liberarsi dai residui
comunali-municipali, cioè da una forma divenuta inceppante di feudalismo; 2) dalle lotte
tra gli Stati italiani per un equilibrio nell’ambito italiano, che era ostacolato dall’esistenza
del papato e dagli altri residui feudali, municipalistici della forma statale cittadina e non
territoriale; 3) dalle lotte degli Stati italiani più o meno solidali per un equilibrio europeo,
ossia dalle contraddizioni tra le necessità di un equilibrio interno italiano e le esigenze
degli Stati europei in lotta per l’egemonia. Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e
della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale territoriale; il Machiavelli fa un
«paragone ellittico» (per usare l’espressione crociana) e desume le regole per uno Stato
forte in generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la
sua scienza politica rappresenta la filosofia del tempo che tende all’organizzazione delle
monarchie nazionali assolute, la forma politica che permette e facilita un ulteriore svilup-
po delle forze produttive borghesi.
La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia della praxis nella scienza della
politica e della storia è la dimostrazione che non esiste una astratta «natura umana» fissa e
immutabile (concetto che deriva certo dal pensiero religioso e dalla trascendenza) ma che
la natura umana è l’insieme dei rapporti sociali storicamente determinati, cioè un fatto
storico accertabile, entro certi limiti, coi metodi della filologia e della critica. Pertanto la
scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche nella sua for-
mulazione logica) come un organismo in sviluppo.
È da osservare tuttavia che l’impostazione data dal Machiavelli alla quistione della
politica (e cioè l’affermazione implicita nei suoi scritti che la politica è una attività auto-
noma che 〈ha〉 suoi principii e leggi diversi da quelli della morale e della religione,
proposizione che ha una grande portata filosofica perché implicitamente innova la conce-
zione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo) è ancora
206
discussa e contraddetta oggi, non è riuscita a diventare «senso comune». Cosa significa
ciò? Significa solo che la rivoluzione intellettuale e morale i cui elementi sono contenuti
in nuce nel pensiero del Machiavelli non si è ancora attuata, non è diventata forma pub-
blica e manifesta della cultura nazionale?
Questa posizione della politica del Machiavelli si ripete per la filosofia della praxis: si
ripete la necessità di essere «antimachiavellici», sviluppando una teoria e una tecnica del-
la politica che possono servire alle due parti in lotta, quantunque esse si pensa finiranno
col servire specialmente alla parte che «non sapeva», perché in essa è ritenuta esistere la
forza progressiva della storia e infatti si ottiene subito un risultato: di spezzare l’unità ba-
sata sull’ideologia tradizionale, senza la cui rottura la forza nuova non potrebbe acquistare
coscienza della propria personalità indipendente. Il machiavellismo è servito a migliorare
la tecnica politica tradizionale dei gruppi dirigenti conservatori, così come la politica della
filosofia della praxis; ciò non deve mascherare il suo carattere essenzialmente rivoluzio-
nario, che è sentito anche oggi e spiega tutto l’antimachiavellismo, da quello dei gesuiti a
quello pietistico di P. Villari.
Quel grande
che temprando lo scettro a' regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue.
Si può quindi supporre che il Machiavelli abbia in vista «chi non sa», che egli intenda
fare l’educazione politica di «chi non sa», educazione politica non negativa, di odiatori di
tiranni, come parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere necessari
determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini. Chi è nato
nella tradizione degli uomini di governo, per tutto il complesso dell’educazione che as-
sorbe dall’ambiente famigliare, in cui predominano gli interessi dinastici o patrimoniali,
acquista quasi automaticamente i caratteri del politico realista. Chi dunque «non sa»? La
classe rivoluzionaria del tempo, il «popolo» e la «nazione» italiana, la democrazia cittadi-
na che esprime dal suo seno i Savonarola e i Pier Soderini e non i Castruccio e i Valenti-
207
no. Si può ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste forze della necessità di
avere un «capo» che sappia ciò che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di accettarlo
con entusiasmo anche se le sue azioni possono essere o parere in contrasto con l’ideologia
diffusa del tempo, la religione.
3. Il mito vivente
Lo sviluppo di questo tema è fissato nel § 1, che rielabora note del Qua-
derno 8. Il Principe viene interpretato da Gramsci come un modello metodi-
co di pensiero politico, perché opera una fusione della politica come scienza
e della politica come utopia, di teoria e prassi. In questo senso il Principe è
un’opera politica perfetta: non è una fredda trattazione sociologica, ma è
opera militante, che conosce la realtà per modificarla profondamente. Essere
e dover esser (come vedremo fra poco) sono iscritti l’uno nell’altro. Questa
unificazione ha il carattere del mito, cioè accade in «una forma fantastica e
artistica», impersonata nella figura del condottiero (del principe, appunto).
Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistemati-
ca ma un libro «vivente», in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella
forma drammatica del «mito». Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scien-
za politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma
fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condot-
tiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà
collettiva».
Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica
del «mito» sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda uto-
pia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera
su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il
carattere utopistico del Principe è nel fatto che il «principe» non esisteva nella realtà sto-
rica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era
una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elemen-
ti passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande ef-
fetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe,
«realmente esistente». Nell’intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il
Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è con-
208
dotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si
fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col
popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa
e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logi-
co» non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella
coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La
passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d’azione.
Ecco perché l’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato»
dall’esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera,
anzi come quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa come un
«manifesto politico».
Qui si colloca la doppia critica che Gramsci rivolge a Sorel e a Croce. So-
rel ha concepito il mito come espressione immediata della classe: sindacali-
smo, sciopero generale, spirito di scissione. Ha presupposto un meccanici-
smo e un determinismo, uno svolgimento della storia senza la soggettività di
una volontà collettiva.
Si può studiare come il Sorel, dalla concezione dell’ideologia‑mito non sia giunto al-
la comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla concezione del sindacato pro-
fessionale. È vero che per il Sorel il «mito» non trovava la sua espressione maggiore nel
sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva, ma nell’azione pratica del sin-
dacato e di una volontà collettiva già operante, azione pratica, la cui realizzazione massi-
ma avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè un’«attività passiva» per così dire, di
carattere cioè negativo e preliminare (il carattere positivo è dato solo dall’accordo rag-
giunto nelle volontà associate) di una attività che non prevede una propria fase «attiva e
costruttiva». Nel Sorel dunque si combattevano due necessità: quella del mito e quella
della critica del mito in quanto «ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario». La
soluzione era abbandonata all’impulso dell’irrazionale, dell’«arbitrario» (nel senso berg-
soniano di «impulso vitale») ossia della «spontaneità». […]
Può un mito però essere «non-costruttivo», può immaginarsi, nell’ordine di intuizioni
del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva
nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per «scis-
sione») sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti? Ma
questa volontà collettiva, così formata elementarmente, non cesserà subito di esistere,
sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che per la fase positiva seguono direzio-
ni diverse e contrastanti? Oltre alla quistione che non può esistere distruzione, negazione
senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso «metafisico», ma pratica-
mente, cioè politicamente, come programma di partito. In questo caso si vede che si sup-
pone dietro la spontaneità un puro meccanicismo, dietro la libertà (arbitrio ‑ slancio vita-
le) un massimo di determinismo, dietro l’idealismo un materialismo assoluto.
Un discorso diverso deve essere fatto per Croce, il quale, negando la fun-
zione dei partiti politici, ha di fatto rescisso il legame tra prassi e volontà
collettiva.
Sarebbe da notare qui una contraddizione implicita nel modo con cui il Croce pone il
suo problema di storia e antistoria con altri modi di pensare del Croce: la sua avversione
dei «partiti politici» e il suo modo di porre la quistione della «prevedibilità» dei fatti so-
ciali, cfr Conversazioni Critiche, Serie prima, pp. 150-52, recensione del libro di Ludovi-
209
co Limentani, La previsione dei fatti sociali, Torino, Bocca, 1907; se i fatti sociali sono
imprevedibili e lo stesso concetto di previsione è un puro suono, l’irrazionale non può non
dominare e ogni organizzazione di uomini è antistoria, è un «pregiudizio»: non resta che
risolvere volta per volta, e con criteri immediati, i singoli problemi pratici posti dallo
svolgimento storico – cfr articolo di Croce, Il partito come giudizio e come pregiudizio in
Cultura e Vita morale – e l’opportunismo è la sola linea politica possibile
Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo
concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già
abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente
nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la
prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire
universali e totali. Nel mondo moderno solo un’azione storico-politica immediata e immi-
nente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi
miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un
grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente
l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività
ironica che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è avve-
nuto nell’avventura di Boulanger). Ma un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa
natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo
restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e
nuove strutture nazionali.
aspetti fu creazione ex novo, originale. E occorre che sia definita la volontà collettiva e la
volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della
necessità storica, come protagonista di un reale ed effettuale dramma storico.
Una delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà collettiva», im-
postando così la quistione: quando si può dire che esistano le condizioni perché possa su-
scitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionale-popolare?
Una parte importante del moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una
riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa o di una concezione del mondo.
Anche in questo campo troviamo nella tradizione assenza di giacobinismo e paura del
giacobinismo (l’ultima espressione filosofica di tale paura è l’atteggiamento maltusiano di
B. Croce verso la religione). Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e
l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno
per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento
di una forma superiore e totale di civiltà moderna.
Può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della socie-
tà, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel
mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a
un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto
il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale.
Si tratta ora di capire cosa significa «dover essere». È una legge di natu-
ra? È un imperativo della pura ragione? Oppure una prescrizione religiosa?
Nella visione di Gramsci il dover essere è volontà concreta, cioè prospettiva
storica, spinta di emancipazione che sorge dallo sviluppo stesso della realtà e
si incardina nella forza «progressiva». Dunque: l’imperativo categorico (di
cui si parlava nella nota citata in precedenza) non è l’ordine del partito, ma il
dover essere che scaturisce concretamente dalla dinamica delle forze stori-
che:
La quistione non è quindi da porre in questi termini, è più complessa: si tratta cioè di
vedere se il «dover essere» è un atto arbitrario o necessario, è volontà concreta, o velleità,
desiderio, amore con le nuvole. Il politico in atto è un creatore, un suscitatore, ma né crea
dal nulla, né si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda sulla realtà ef-
212
fettuale, ma cos’è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o non
piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio? Applica-
re la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti ed ope-
ranti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola
per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e
superarla (o contribuire a ciò). Il «dover essere» è quindi concretezza, anzi è la sola inter-
pretazione realistica e storicistica della realtà, è sola storia in atto e filosofia in atto, sola
politica.
Questo discorso vale, in sede storica, per l’interpretazione del rapporto fra
Machiavelli e Savonarola. Non è vero che Machiavelli è il teorico della realtà
effettuale e Savonarola del dover essere. Entrambi sono espressione del do-
ver essere, ma concepito diversamente. Nel caso di Savonarola il dover esse-
re è ancora intriso di astrazione religiosa e di utopia; in Machiavelli il dover
essere è «realistico» e fonda la prospettiva futura su una analisi concreta dei
rapporti di forza.
Lezione 23
1. La critica dell’economismo
In varie occasioni è affermato in queste note che la filosofia della praxis è molto più
diffusa di quanto non si voglia concedere. L’affermazione è esatta se si intende che è dif-
fuso l’economismo storico, come il prof. Loria chiama ora le sue concezioni più o meno
sgangherate, e che pertanto l’ambiente culturale è completamente mutato dal tempo in cui
la filosofia della praxis iniziò le sue lotte; si potrebbe dire, con terminologia crociana, che
la più grande eresia sorta nel seno della «religione della libertà» ha anch’essa, come la
religione ortodossa, subito una degenerazione, si è diffusa come «superstizione» cioè è
entrata in combinazione col liberismo e ha prodotto l’economismo. È da vedere però se,
mentre la religione ortodossa si è ormai imbozzacchita, la superstizione eretica non abbia
sempre mantenuto un fermento che la farà rinascere come religione superiore, se cioè le
scorie di superstizione non siano facilmente liquidabili.
L’impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico di cui
non è difficile identificare l’origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e so-
cietà civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distin-
zione organica. Così si afferma che l’attività economica è propria della società civile e che
lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effet-
tuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una «rego-
lamentazione» di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è
un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l’espressione spontanea, automatica
del fatto economico.
Quando l’«errore teorico» del liberismo penetra nel marxismo, esso gene-
ra diverse figure. La prima è il sindacalismo (Georges Sorel, ma per altri ver-
si Rosa Luxembourg), che riduce l’azione politica al momento economico-
corporativo, al sindacato e allo sciopero generale, e perciò nega il fondamen-
to stesso del concetto di egemonia. In questo caso l’economismo si risolve
nella spontaneità della classe, nella logica della insurrezione immediata.
Mentre la teoria dell’egemonia richiede l’elaborazione della classe in un
soggetto politico generale, nella forma specifica dei partiti politici.
Nel movimento del sindacalismo teorico la quistione si presenta più complessa: è in-
negabile che in esso l’indipendenza e l’autonomia del gruppo subalterno che si dice di
esprimere sono invece sacrificate all’egemonia intellettuale del gruppo dominante, poiché
appunto il sindacalismo teorico non è che un aspetto del liberismo, giustificato con alcune
affermazioni mutilate, e pertanto banalizzate, della filosofia della praxis. Perché e come
avviene questo «sacrifizio»? Si esclude la trasformazione del gruppo subordinato in do-
minante, o perché il problema non è neppure prospettato (fabianesimo, De Man, parte no-
tevole del laburismo) o perché è presentato in forme incongrue e inefficienti (tendenze
socialdemocratiche in generale) o perché si afferma il salto immediato dal regime dei
gruppi a quello della perfetta eguaglianza e dell’econornia sindacale.
L’economismo si presenta sotto molte altre forme oltre che il liberismo e il sindacali-
smo teorico. Gli appartengono tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio tipico
l’astensionismo dei clericali italiani dopo il 1870, dopo il 1900 sempre più attenuato, fino
al 1919 e alla formazione del Partito popolare: la distinzione organica che i clericali face-
vano tra Italia reale e Italia legale era una riproduzione della distinzione tra mondo eco-
nomico e mondo politico-legale), che sono molte, nel senso che può esserci semi-
astensionismo, un quarto ecc. All’astensionismo è legata la formula del «tanto peggio,
tanto meglio» e anche la formula della così detta «intransigenza» parlamentare di alcune
215
Nella sua forma più diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis
perde una gran parte della sua espansività culturale nella sfera superiore del gruppo intel-
lettuale, per quanta ne acquista tra le masse popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca,
che non intendono affaticarsi il cervello ma vogliono apparire furbissimi ecc. Come scris-
se Engels, fa molto comodo a molti credere di poter avere, a poco prezzo e con nessuna
fatica, in saccoccia, tutta la storia e tutta la sapienza politica e filosofica concentrata in
qualche formuletta. Avendo dimenticato che la tesi secondo cui gli uomini acquistano co-
scienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie non è di carattere psicologico
o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico, si è creata la forma mentis di
considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di
illusionismi e di prestidigitazione. L’attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a susci-
tare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi.
Si è così dimenticato che essendo o presumendo di essere anche l’«economismo» un
canone obbiettivo di interpretazione (obbiettivo-scientifico), la ricerca nel senso degli in-
teressi immediati dovrebbe esser valida per tutti gli aspetti della storia, per gli uomini che
rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l’«antitesi». Si è dimenticato
inoltre un’altra proposizione della filosofia della praxis: quella che le «credenze popolari»
o le credenze del tipo delle credenze popolari hanno la validità delle forze materiali.
Gli errori di interpretazione nel senso delle ricerche degli interessi «sordidamente
giudaici» sono stati talvolta grossolani e comici e hanno così reagito negativamente sul
prestigio della dottrina originaria. Occorre perciò combattere l’economismo non solo nella
teoria della storiografia, ma anche e specialmente nella teoria e nella pratica politica. In
questo campo la lotta può e deve essere condotta sviluppando il concetto di egemonia,
così come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e
nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici (la lotta contro la teoria della
così detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il concetto di dittatura democrati-
co-rivoluzionaria, importanza avuta dal sostegno dato alle ideologie costituentiste ecc.).
È il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esatta-
mente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di
un determinato periodo e determinare il loro rapporto. Occorre muoversi nell’ambito di
due principii: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non
esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di appari-
zione e di sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se
prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti (controllare
l’esatta enunciazione di questi principii).
«Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze
produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione non
ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi
siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l’umanità si pone sempre
solo quei compiti che essa può risolvere; se si osserva con più accuratezza si troverà sem-
pre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esi-
stono già o almeno sono nel processo del loro divenire» (Introduzione a Critica
dell’Economia Politica).
Dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una se-
rie di altri principii di metodologia storica. Intanto nello studio di una struttura occorre
distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) da i movimenti che si posso-
no chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidenta-
li). I fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch’essi da movimenti organici, ma
il loro significato non è di vasta portata storica: essi danno luogo a una critica politica
spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità re-
sponsabili immediatamente del potere. I fenomeni organici danno luogo alla critica stori-
co-sociale, che investe i grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente re-
sponsabili e di là dal personale dirigente. Nello studiare un periodo storico appare la gran-
de importanza di questa distinzione. Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per de-
cine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono
venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente
alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi
limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale
vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’«occasionale» sul quale si
organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare (dimostrazione che in ulti-
ma analisi riesce solo ed è «vera» se diventa nuova realtà, se le forze antagonistiche trion-
fano, ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideologiche, religiose, filo-
sofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui rie-
scono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali) che esistono
già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi
debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico
aumenta il disordine necessario e prepara più gravi catastrofi).
L’errore in cui si cade spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper tro-
vare il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è occasionale: si riesce così o ad
esporre come immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente, o
ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell’un caso si ha
l’eccesso di «economismo» o di dottrinarismo pedantesco, dall’altro l’eccesso di «ideolo-
gismo», nell’un caso si sopravalutano le cause meccaniche; nell’altro si esalta l’elemento
volontaristico e individuale. (La distinzione tra «movimenti» e fatti organici e movimenti
e fatti di «congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di situazione, non
solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma a quelle in
cui si verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a quelle in cui si verifica una
stagnazione delle forze produttive). Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e
quindi di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e se l’errore è grave nella sto-
riografia, ancor più grave diventa nell’arte politica, quando si tratta non di ricostruire la
storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie
passioni deteriori e immediate sono la causa dell’errore, in quanto essi sostituiscono
l’analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come «mezzo» consapevole per stimo-
lare all’azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano
ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.
iniziatosi nel 1789 e dimostra così di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto
al nuovissimo. Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l’insieme di principii di strategia e
tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al 48
(quelli che si riassumono nella formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe interes-
sante studiare quanto di tale formula è passata nella strategia mazziniana – per es. per
l’insurrezione di Milano del 1853 – e se è avvenuto consapevolmente o meno). Un ele-
mento che mostra la giustezza di questo punto di vista è il fatto che gli storici non sono
per nulla concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di av-
venimenti che costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per es. il Salvemini) la rivo-
luzione è compiuta a Valmy: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha saputo organizzare
la forza politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la
Rivoluzione continua fino al Termidoro, anzi essi parlano di più rivoluzioni (il 10 agosto
sarebbe una rivoluzione a sé ecc.; cfr la Rivoluzione francese di A. Mathiez nella colle-
zione Colin). Il modo di interpretare il Termidoro e l’opera di Napoleone offre le più
aspre contradizioni: si tratta di rivoluzione o di controrivoluzione? ecc. Per altri la storia
della Rivoluzione continua fino al 1830, 1848, 1870 e persino fino alla guerra mondiale
del 1914.
3. I rapporti di forza
Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi cor-
porativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo
meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordi-
nati. Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttu-
ra alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate prece-
dentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una
sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a dif-
fondersi su tutta l’area sociale, determinando oltre che l’unicità dei fini economici e poli-
tici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la
lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando così l’egemonia di
un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati. Lo Stato è concepito sì
come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla
massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono con-
cepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di
tutte le energie «nazionali», cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con
gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un con-
tinuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del
gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibrii in cui gli interessi del
gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse
economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si implicano reciprocamente,
per così dire orizzontalmente e verticalmente, cioè secondo le attività economico-sociali
(orizzontali) e secondo i territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente:
ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione orga-
nizzata economica e politica.
Ancora bisogna tener conto che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si in-
trecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente
concrete. Una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno svilup-
pati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata
una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la re-
ligione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la di-
plomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li
fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che
opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, mas-
222
soneria, Rotary, ebrei ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali»,
la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di «socializzare» i
ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi
e vie d’uscita tra le soluzioni estreme). Questo rapporto tra forze internazionali e forze
nazionali è ancora complicato dall’esistenza nell’interno di ogni Stato di parecchie sezioni
territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in tutti i gradi (così la Vandea
era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell’unità
territoriale francese; così Lione nella Rivoluzione Francese rappresentava un nodo parti-
colare di rapporti ecc.).
Altra quistione connessa alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche fonda-
mentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche. La risposta alla qui-
stione è contenuta implicitamente nei paragrafi precedenti, dove sono trattate quistioni
che sono un altro modo di presentare quella ora trattata, tuttavia è sempre necessario, per
ragioni didattiche, dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una
stessa quistione come fosse un problema indipendente e nuovo. Si può escludere che, di
per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono
creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e
risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale. Del re-
sto, tutte le affermazioni che riguardano i periodi di crisi o di prosperità possono dar luo-
go a giudizi unilaterali. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese (ed. Co-
lin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, che aprioristicamente «trova»
una crisi in coincidenza con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789
la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che
la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento (cfr
l’affermazione esatta del Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mor-
tale crisi finanziaria e si poneva la quistione su quale dei tre ordini sociali privilegiati do-
vevano cadere i sacrifizi e i pesi per rimettere in sesto le finanze statali e regali. Inoltre: se
la posizione economica della borghesia era florida, certamente non era buona la situazione
delle classi popolari delle città e delle campagne, specialmente di queste, tormentate da
miseria endemica. In ogni caso, la rottura dell’equilibrio delle forze non avvenne per cau-
se meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a
rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al
mondo economico immediato, connessi al «prestigio» di classe (interessi economici av-
venire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere.
La quistione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà
storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi.
223
Lezione 24
2. Il 18 brumaio di Marx
Io spero che il mio scritto contribuirà a liberarci della frase scolastica, ora così corren-
te specie in Germania, circa il cosiddetto cesarismo. Con questa superficiale analogia sto-
rica si viene a dimenticare il fatto essenziale che, specialmente nell'antica Roma, la lotta
di classe si svolgeva soltanto all'interno di una minoranza privilegiata, tra i ricchi e i pove-
ri che erano liberi cittadini, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli
schiavi, costituiva soltanto il piedistallo passivo dei combattenti. Si dimentica la profonda
espressione di Sismondi:"il proletariato romano viveva a spese della società, mentre, la
società moderna vive a spese del proletariato". Data una differenza così completa tra le
condizioni materiali ed economiche della lotta di classe nel mondo antico e nel mondo
moderno, anche i prodotti politici di essa non possono avere in comune niente più di quel-
lo che l'arcivescovo di Canterbury non abbia in comune con il gran sacerdote Samuele.
Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze
scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé,
determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse
pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a
trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di
crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro
servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per
rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a
prestito la nuova scena della storia. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzio-
ne del 1789-1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell’Impero
romano; e la rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789,
ora della tradizione. rivoluzionaria del 1793-1795. Così il principiante che ha imparato
una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna ma non riesce a
226
Su questo aspetto, Gramsci non seguì Marx e, come vedremo (nella pros-
sima lezione), il cesarismo diventò una categoria fondamentale per illustrare
il meccanismo delle crisi organiche.
3. La crisi organica
Le pagine sulle crisi organiche del Quaderno 13 vennero scritte poco do-
po l’ascesa al potere di Hitler in Germania e, senza dubbio, ne serbano la for-
te impressione. Ma in generale Gramsci cerca di rendere ragione della grande
crisi del capitalismo mondiale, che ha ormai condotto a soluzioni reazionarie
in tutta l’Europa, a un nuovo tipo di “americanismo” e alla costruzione del
primo Stato socialista in Unione Sovietica. Il problema è dunque quello di
trovare un pensiero adeguato allo stravolgimento inaudito dell’ordine mon-
diale. Teniamo sempre presente questo sfondo storico, che Gramsci non per-
de mai di vista.
Nel § 23 Gramsci ripensa compiutamente la teoria della crisi come crisi
egemonica, cioè come distacco tra dirigenti e diretti, tra partiti e popolo-
nazione, tra rappresentanti e rappresentati. Come aveva insegnato Marx nel
18 brumaio (ma Gramsci generalizza questo aspetto, trasformandolo nel
principio stesso della crisi della forma democratica), il primo segno, la radice,
della crisi egemonica è la divaricazione tra partiti e gruppi sociali:
A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tra-
dizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determina-
ti uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti co-
me loro espressione dalla loro classe o frazione di classe.
4. Le soluzioni reazionarie
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione
non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stes-
228
Ma la classe dirigente può non avere la forza per imporre questa soluzio-
ne. Può determinarsi una situazione di equilibrio tendenzialmente catastrofi-
co, in cui nessuna delle forze fondamentali riesce a prevalere. Qui si afferma
il potere del capo carismatico, che tra poco Gramsci svolgerà in termini di
cesarismo. Come vedete, c’è una differenza fondamentale tra il dominio e il
capo carismatico: nel primo caso il gruppo sociale dominante serra i ranghi
ed esce dal terreno della democrazia per conservare il proprio potere; nel se-
condo caso il gruppo dominante non riesce a prevalere ma deve accettare una
soluzione arbitrale. Il potere passa nelle mani di un individuo, «di un padro-
ne», che non possiede egemonia o rappresenta (come nel caso di Luigi Bo-
naparte) gruppi sociali emarginati (contadini e sottoproletariato):
Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico,
significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui
prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo
né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservati-
vo ha bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).
leggi obbiettive dello stesso carattere delle leggi naturali, con in più la persuasione di un
finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso: poiché le condizioni favorevoli
dovranno fatalmente verificarsi e da esse saranno determinati, in modo alquanto misterio-
so, avvenimenti palingenetici, risulta l’inutilità non solo, ma il danno di ogni iniziativa
volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano. Accanto a queste
convinzioni fatalistiche sta tuttavia la tendenza ad affidarsi «in seguito» ciecamente e scri-
teriatamente alla virtù regolatrice delle armi, ciò che però non è completamente senza una
logica e una coerenza, poiché si pensa che l’intervento della volontà è utile per la distru-
zione, non per la ricostruzione (già in atto nel momento stesso della distruzione). La di-
struzione viene concepita meccanicamente non come distruzione-ricostruzione. In tali
modi di pensare non si tiene conto del fattore «Tempo» e non si tiene conto, in ultima
analisi, della stessa «economia» nel senso che non si capisce come i fatti ideologici di
massa sono sempre in arretrato sui fenomeni economici di massa e come pertanto in certi
momenti la spinta automatica dovuta al fattore economico è rallentata, impastoiata o an-
che spezzata momentaneamente da elementi ideologici tradizionali, che perciò deve es-
serci lotta cosciente e predisposta per far «comprendere» le esigenze della posizione eco-
nomica di massa che possono essere in contrasto con le direttive dei capi tradizionali. Una
iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle
pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è
necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne,
blocco storico economico-politico, e poiché due forze «simili» non possono fondersi in
organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi, al-
leandole su un piano di alleanza o subordinando l’una all’altra con la coercizione, la qui-
stione è se si ha questa forza e se sia «produttivo» impiegarla. Se l’unione di due forze è
necessaria per vincere un terza, il ricorso alle armi e alla coercizione (dato che se ne abbia
la disponibilità) è una pura ipotesi metodica e l’unica possibilità concreta è il compromes-
so, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi
che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la «buona volontà» e l’entusiasmo.
5. La guerra di posizione
Abbiamo visto le conseguenze della teoria delle crisi sul piano storico-
politico, fino alle soluzioni del dominio e del capo carismatico. Come teoria
della rivoluzione, però, la questione della crisi organica apre la prospettiva
della guerra di posizione, indicata da Gramsci con questa metafora militare
ma che rappresenta, in ultima istanza, il compito egemonico del movimento
operaio nei paesi europei, dove (a differenza dell’Oriente) esiste «una robu-
sta struttura della società civile». Il concetto di guerra di posizione compare
già nel Quaderno 1 (§§ 134-135) e indica, in generale, il nuovo livello della
tattica rivoluzionaria dopo l’epoca della guerra di movimento o di assedio,
culminata e conclusa nella rivoluzione sovietica del 1917. Come Gramsci si
esprime, la rivoluzione russa è l’ultimo episodio della guerra di movimento.
Nella realtà complessa dell’Occidente il movimento operaio deve entrare nel
terreno democratico della lotta per l’egemonia, fatta di continui e mai con-
clusivi avanzamenti e arretramenti sul terreno della società civile. Prima del
Quaderno 13 (e di alcuni svolgimenti nei quaderni successivi), i testi più im-
portanti si leggono nei Quaderni 6 e 7. Nel § 138 del Quaderno 6 Gramsci
definisce la guerra di posizione come «la quistione di teoria politica la più
230
importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere ri-
solta giustamente», perché definisce la forma di lotta politica attuale.
Mi pare che Ilici [Lenin] aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra
manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la
sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti po-
tevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé
ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del
«fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell’Intesa sotto il co-
mando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur
tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fonda-
mentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli
elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc. In
Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra
Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito
una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui
stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capi-
sce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale.
La stessa riduzione deve avvenire nell’arte e nella scienza politica, almeno per ciò che
riguarda gli Stati più avanzati, dove la «società civile» è diventata una struttura molto
complessa e resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell’elemento economico immediato
231
(crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle
trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco
d’artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo
invece distrutto la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assali-
tori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica
durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si orga-
nizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito
aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur
tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Le cose
certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a mancare l’elemento della rapidità,
del tempo accelerato, della marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli stra-
teghi del cadornismo politico. L’ultimo fatto del genere nella storia della politica sono
stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell’arte
e della scienza della politica. Si tratta dunque di studiare con «profondità» quali sono gli
elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizio-
ne. Si dice con «profondità» a disegno, perché essi sono stati studiati, ma da punti di vista
superficiali e banali, come certi storici del costume studiano le stranezze della moda
femminile, o da un punto di vista «razionalistico» cioè con la persuasione che certi feno-
meni sono distrutti appena spiegati «realisticamente», come se fossero superstizioni popo-
lari (che del resto anch’esse non si distruggono con lo spiegarle).
A questo nesso di problemi è da riattaccare la quistione dello scarso successo ottenuto
da nuove correnti nel movimento sindacale.
Un tentativo di iniziare una revisione dei metodi tattici avrebbe dovuto essere quello
esposto da L. Davidovic Bronstein [Trotzky ndc] alla quarta riunione quando fece un con-
fronto tra il fronte orientale e quello occidentale, quello cadde subito ma fu seguito da lot-
te inaudite: in questo le lotte si verificherebbero «prima». Si tratterebbe cioè se la società
civile resiste prima o dopo l’assalto, dove questo avviene ecc. La quistione però è stata
esposta solo in forma letteraria brillante, ma senza indicazioni di carattere pratico.
232
Lezione 25
(1 giugno 2020)
2. Il Quaderno 22
1933, verso il luglio-agosto 1934 e lo portò avanti nella seconda metà del
1934. Il quaderno è composto di 16 note: con l’eccezione del § 1, di stesura
unica, Gramsci vi rielaborò in seconda stesura le note sull’argomento scritte
nei Quaderni 1, 3, 4, 9.
La struttura del quaderno è molto caratteristica. Nelle prime due pagine
Gramsci scrisse un paragrafo introduttivo, con un elenco di temi da conside-
rare, interrompendosi al 10°. È utile avere presente questo indice:
A questo punto, Gramsci lasciò bianche tutte le pagine 3-10, con la evi-
dente intenzione di proseguire successivamente questa scrittura. Continuò,
invece, dalla pagina 11, utilizzando il quaderno fino alla pagina 54 per riela-
borare in seconda stesura le 15 note sull’americanismo individuate nei qua-
derni “miscellanei” 1, 3, 4, 9. Quando questo lavorò terminò, intorno alla fi-
ne del 1934, le sue forze fisiche non gli consentirono di continuare la compo-
sizione del quaderno, riprendendola, come aveva progettato, dalla pagina 2.
Si tratta, dunque, di un quaderno incompiuto, dove Gramsci non ebbe il
tempo di rielaborare e affinare ulteriormente i temi che via via aveva enu-
cleato.
3. La tendenza fondamentale
pare di poter rispondere che il metodo Ford è «razionale», cioè deve generalizzarsi,
ma che perciò sia necessario un processo lungo, in cui avvenga un mutamento delle con-
dizioni sociali e un mutamento dei costumi e delle abitudini individuali, ciò che non può
avvenire con la sola «coercizione», ma solo con un contemperamento della coazione (au-
235
todisciplina) e della persuasione, sotto forma anche di alti salari, cioè di possibilità di mi-
glior tenore di vita, o forse, più esattamente, di possibilità di realizzare il tenore di vita
adeguato ai nuovi modi di produzione e di lavoro, che domandano un particolare dispen-
dio di energie muscolari e nervose.
5. Usa ed Europa
Per intendere questo aspetto, è però necessario osservare con più atten-
zione il giudizio sugli Stati Uniti e sull’Europa. Questi sono i due poli prin-
cipali del ragionamento di Gramsci. Gli Stati Uniti sono i portatori di una
nuova forma di organizzazione produttiva, che guarda effettivamente al futu-
ro. Gramsci scrive che il taylorismo «è anche il maggior sforzo collettivo ve-
rificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine
mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo». È dunque il
principio di un’autentica rivoluzione, resa possibile dal fatto che gli Stati
Uniti sono una nazione giovane, priva di una lunga tradizione. Tuttavia, nelle
note finali del quaderno Gramsci considera la tendenza americana solo come
un sintomo dei processi mondiali, non come «un nuovo tipo di civiltà», ma
come «un prolungamento organico e una intensificazione della civiltà euro-
pea». Il carattere ancora limitato della “razionalità” fordista è indicato, da un
lato, nella crisi morale delle “classi alte” del capitalismo americano, che
sempre di più abbandonano il puritanesimo originario, e d’altro lato nella
stessa politica degli alti salari, che egli considera un «fenomeno transitorio»,
dovuto in larga parte al più intenso sfruttamento del lavoro, mirato a creare
un’aristocrazia operaia ma destinato a scomparire con la generalizzazione del
sistema. Il modello americano, dunque, permette di leggere in trasparenza le
tendenze dell’avvenire («allo stato di “faro”»), ma non rappresenta, come ta-
le, una forma stabile di “razionalità” del sistema produttivo. Per questo, con-
clude, il problema principale non è l’“imitazione” dell’americanismo, ma la
creazione di un sistema “razionale” che parta dalle classi lavoratrici, dai pro-
236
duttori, che non sia «di marca americana», ma che sappia convertire la dura
«necessità» del taylorismo in una «libertà»:
non è dai gruppi sociali «condannati» dal nuovo ordine che si può attendere la rico-
struzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le
basi materiali di questo nuovo ordine: essi «devono» trovare il sistema di vita «originale»
e non di marca americana, per far diventare «libertà» ciò che oggi è «necessità».
La storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accen-
tuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento «animalità» dell’uomo, un processo
ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè
animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di or-
dine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di
vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo.
Questa lotta è imposta dall’esterno e finora i risultati ottenuti, sebbene di grande valore
pratico immediato, sono puramente meccanici in gran parte, non sono diventati una «se-
conda natura». Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone la lotta contro
il vecchio, non è sempre stato per un certo tempo il risultato di una compressione mecca-
nica? Anche gli istinti che oggi sono da superare come ancora troppo «animaleschi» in
realtà sono stati un progresso notevole su quelli anteriori, ancor più primitivi: chi potrebbe
descrivere il «costo», in vite umane e in dolorosi soggiogamenti degli istinti, del passag-
gio dal nomadismo alla vita stanziale e agricola? Ci rientrano le prime forme di schiavitù
della gleba e del mestiere ecc. Finora tutti i mutamenti del modo di essere e di vivere sono
avvenuti per coercizione brutale, cioè attraverso il dominio di un gruppo sociale su tutte le
forze produttive della società: la selezione o «educazione» dell’uomo adatto ai nuovi tipi
di civiltà, cioè alle nuove forme di produzione e di lavoro, è avvenuta con l’impiego di
brutalità inaudite, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli e i refrattari o eliminan-
doli del tutto.
creati da alcune aziende per controllare la «moralità» degli operai sono necessità del nuo-
vo metodo di lavoro. Chi irridesse a queste iniziative (anche se andate fallite) e vedesse in
esse solo una manifestazione ipocrita di «puritanismo», si negherebbe ogni possibilità di
capire l’importanza, il significato e la portata obbiettiva del fenomeno americano, che è
anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con
una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo. La
espressione «coscienza del fine» può sembrare per lo meno spiritosa a chi ricorda la frase
del Taylor sul «gorilla ammaestrato». Il Taylor infatti esprime con cinismo brutale il fine
della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti
macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale
qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia,
dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico mac-
chinale. Ma in realtà non si tratta di novità originali: si tratta solo della fase più recente di
un lungo processo che si è iniziato col nascere dello stesso industrialismo, fase che è solo
più intensa delle precedenti e si manifesta in forme più brutali, ma che essa pure verrà
superata con la creazione di un nuovo nesso psico-fisico di un tipo differente da quelli
precedenti e indubbiamente di un tipo superiore. Avverrà ineluttabilmente una selezione
forzata, una parte della vecchia classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo
del lavoro e forse dal mondo tout court.