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IL ROMANZO NELL’ESTREMO CONTEMPORANEO – PROPOSTE DI LETTURA

Liceo Scientifico “E. Curiel” - 15 febbraio 2022 - Repertorio di citazioni a cura di Morena Marsilio

NICOLA LAGIOIA, RIPORTANDO TUTTO A CASA

1) C’è un orso nei boschi. Per alcuni è facilmente visibile. Altri non lo vedono affatto. Alcuni dicono
che l’orso è ammaestrato, altri che è cattivo e pericoloso. Giacchè nessuno può sapere chi ha davvero
ragione, non sarebbe bello essere forti quanto l’orso? Ammesso che ci sia, un orso…
[…] compresi a malapena che un attore di film western aveva vinto una battaglia elettorale al di là
dell’oceano, chiusi le pagine del giornale e passai a leggere L’isola del tesoro per la terza volta
consecutiva. (N. Lagioia, Riportando tutto a casa, Torino, Einaudi, 2011, p. 5.)

2) Perché poi arrivava la fine della giornata, le sere di quel 1984, e insieme con la sera scendeva su
di noi un velo, un bagliore azzurro, a metterci d’accordo, a fare giustizia…da gennaio a dicembre
scendeva su mia madre, scendeva su mio padre, sui direttori di banca, sui grossisti orami lontani dai
loro capannoni, scendeva questo bagliore che i tecnici sapevano essere la combinazione dei tre colori
primari – il rosso, il verde, il blu, mischiati tra loro sullo schermo in tutti i possibili colori. Non si
chiamava ancora televisione commerciale. Era, semplicemente, «la Cosa Nuova».
[…] E la vera novità stava nel fatto che, a differenza di ciò che succedeva negli spettacoli televisivi
del passato, i quarantacinque minuti della trasmissione vera e propria non erano la bella copia, il salire
quei due o tre gradini che separavano il rodaggio precedente dal risultato finale, ma una discesa, uno
scientifico abbassarsi sotto le quote dell’intelligenza, della grazia, dell’arguzia, dello spessore
presenti in ogni essere umano coinvolto in quella trasmissione. Per questo il programma funzionò
così bene, per questo fu una rivoluzione. Drive In … (Ivi, pp.25-27)

3) Ridevo io, seduto tra le plastiche lugubri di una sala da pranzo non ancora del tutto fuori dagli
anni Settanta, e rideva mio padre, rideva mia madre dando le spalle alla cucina con una pentola
fumante tra le mani, e superando le strade, i ponti, le piazze vuote della domenica sera, a molte case
di distanza ridevano i grossisti e gli impiegati e gli studenti e i disoccupati... […] era quello il crollo
della diga, bastava una sola scena del genere per capire che Drive in aveva vinto - «si piange con il
cuore ma si ride con il cervello», una frase di Moliére che non sarebbe più stata vera: anche il cervello,
come il cuore, trasformato in un organo del tutto involontario. (Ivi, p. 28)

4) […] ladiga sulle nostre teste davanti ai nostri occhi dappertutto era crollata, e pur mancando più di
un anno all’ora X l’ora X era invece scoccata, e centinaia di migliaia di persone marciavano festanti
da levante a ponente attraverso la porta di Brandeburgo e distruggevano muri e dilagavano da questa
parte come se questa parte fosse l’estuario di ogni umano desiderio e cancellavano confini e
rimboccavano le coltri sui carri armati sugli arsenali atomici intonando davanti alle porte scorrevoli
dei centri commerciali degli aeroporti degli stadi il may-day may-day del nuovo ordine mondiale età
dell’acquario promessa di pace imperitura, e se al di là del mare la Repubblica Socialista Federale di
Jugoslavia continuava a gloriarsi pomposamente dei giochi olimpici del 1984 la Jugoslavia era un
unico bagno di sangue, anche rinchiuso nel carcere di Robben Island Nelson Mandel vinceva le
elezioni per la presidenza del Sudafrica, nonostante sarebbe accaduto soltanto che di qui a poche ore
il nostro amico Giuseppe Rubino era sta già portato in ospedale rendendo attivo e valido e il
tradimento volontario di Vincenzo, il tradimento colposo della mia distrazione e della mia
superficialità (Ivi, pp. 303-304)

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Liceo Scientifico “E. Curiel” - 15 febbraio 2022 - Repertorio di citazioni a cura di Morena Marsilio

TREVISAN – I QUINDICIMILA PASSI

5) In tutti questi anni, nel corso di tutti gli spostamenti da me effettuati, da casa al tabaccaio (791p),
da casa al municipio (930p), da casa al negozio di alimentari (1851p) eccetera, il computo del numero
dei passi, sempre scrupolosamente contati e successivamente annotati in un apposito taccuino che ho
sempre con me, durante il viaggio di ritorno, non è mai tornato. […] Mai lo stesso numero di passi
all’andata e al ritorno. Sempre dei numeri diversi; tre in più o quattro in meno, addirittura uno in più
o in meno, ma mai lo stesso numero.[…] L’eccezionalità dell’evento accaduto oggi, cioè la
coincidenza del numero dei passi da me conteggiati, prima all’andata e poi al ritorno dallo studio del
notaio Strazzabosco, situato a Vicenza in Piazza Castello, numero di passi superiore non solo al
migliaio, ma addirittura superiore alla decina di migliaia è sconcertante. Questo il motivo che mi
spinge a redigere questo resoconto, il più possibile dettagliato, degli eventi intercorsi durante lo
spostamento e la conversazione avuta con il notaio nel suo studio. (V. Trevisan, I quindicimila passi.
Un resoconto, Torino, Einaudi, 2002, pp.5-6)

6) Ingrandimenti, pensai allora, disse mio fratello, pensavo camminando, non sono che
ingrandimenti di foto, una variante del caso Warhol. […] facce distorte e rovinate portate in giro da
corpi distorti e rovinati, questa è la verità disse mio fratello, pensavo camminando. […] I tre ritratti,
pensai allora, disse mio fratello, pensavo camminando, erano in realtà un solo ritratto, o comunque,
pensai ancora, davano vita a un solo ritratto, perché erano tutti in stretto riferimento allo stesso
soggetto nello stesso presente. . (Ivi, p. 38, p. 45 e p. 48).

7) Quando trovai il suo corpo, immerso nel sangue, straziato dalle coltellate, pensavo che non sarei
potuto sopravvivere a quella vista. Eppure, pensavo, anche di questo mi sono fatto una ragione, e
sono sopravvissuto. […] Che faccio?, pensai allora, rientrando a casa e trovando il cadavere di mia
sorella. Non dovevo lasciarla sola con mio fratello, mi dissi, ma l’avevo lasciata sola. Ormai è tardi,
mi dissi, sorprendendomi della calma che improvvisamente, in modo inaspettato, era calata su di me.
Dovrei essere sconvolto, pensavo, invece son calmo in modo innaturale. […] Lasciai la stanza da
bagno così com’era. Corsi in giro per tutta la casa, alla ricerca di mio fratello. Sapevo che non l’avrei
trovato. Sapevo benissimo che non c’era, ma lo cercai ugualmente, stanza per stanza. (Ivi, p.89)

8) Una logorrea vestiaria, un’isteria calzaturiera tipica della nostra epoca, pensavo camminando per
il corso, un’epoca in cui ci si veste per comunicare qualcosa, indossando vestiti che non hanno più
alcun significato; calzando scarpe e stivali che non hanno alcun senso. Un abbigliamento di facciata,
una moda di facciata inserita in quella prospettiva palladiana di facciata che è la nostra città. […]
Facciate, prospettive e scenografie, vive per un orario a norma di legge e di associazione
commercianti; desolatamente vuote dopo le dieci di sera e alla domenica. (Ivi, p. 139)
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ANDREA BAJANI – OGNI PROMESSA

9) Il padre di mia madre era un uomo a cui il tempo aveva sottratto anche la faccia. L’avevo incontrato
poche volte, e poi non si era visto più. Non era abbastanza per guadagnarsi il titolo di nonno, e però
la sua assenza troppo ingombrante per essere soltanto un signore che passava di lì. Per cui si era
trovata questa via di mezzo per chiamarlo […]. Dire Tuo nonno era solo un desiderio e dire Mio padre
era un fossato tra me e lei, tirare su il ponte levatoio nel mezzo di una frase. […] Guardavo questo
signore e mi faceva paura la sua faccia scavata, le guance strappate a morsi da qualcuno, il cranio
acquattato sotto, le ossa incastonate. E gli occhi, che sembrava non ci fossero, buio al fondo di due
grotte. (A. Bajani, Ogni promessa, Torino, Einaudi, 2010, pp. 22-23)

10) Lo trovavo sempre lì sdraiato tra le pagine […] stare in casa nostra senza farsi scoprire. […]
Quando ero in casa da solo Mario poi lo liberavo, lo tiravo fuori dai libri e gli facevo prendere aria,
mettevo le fotografie sul tavolino di plastica in balcone, disposte le une accanto alle altre. Erano tutte
molto simili, lo stesso rettangolo sporcato dagli anni e questi gruppi di sette o otto ragazzi insieme,
vestiti da soldati. Erano sempre in formazione, sembravano una squadra di calcio travestita […] Su
qualcuna di quelle foto, davanti, c’era scritto a penna Steppa russa. Dietro aveva scritto soltanto le
date, tra il luglio e il dicembre 1942, e poi la solita frase. I puntini indicano i dispersi, la croce i morti,
i non segnati i vivi, Mario. I puntini indicano i dispersi, la croce i morti, i non segnati i vivi, Mario. I
puntini indicano i dispersi, la croce i morti, i non segnati i vivi, Mario. I puntini indicano i dispersi,
la croce i morti, i non segnati i vivi, Mario. I puntini indicano i dispersi, la croce i morti, i non segnati
i vivi, Mario. E come nella prima foto che avevo trovato, anche nelle altre il non segnato era sempre
e solo lui. (Ivi, pp. 37-39)

11) La casa di Olmo intanto stava diventando la Russia, è bastato fargli una domanda e non si è più
fermato. […] La prima cartina l’ha tirata fuori da un armadio e distesa sopra il tavolo della cucina.
Con la punta di una matita mi ha fatto vedere tutta la strada che aveva percorso per tornare, ripeteva
di continuo Che freddo […], nonostante il caldo che faceva in casa. Poi mi ha chiesto di fermarmi a
cena da lui, la cartina che è rimasta aperta sulla tavola, lui che mi ha detto Tanto continuiamo dopo.
Così ci abbiamo apparecchiato sopra, i piatti, i bicchieri e le posate, noi due seduti a mangiare in
mezzo alla steppa, le linee nemiche dall’altra parte del fiume, il Don che ci scorreva in mezzo,
proteggersi e aspettare, pronti a fare fuoco, una sera di quasi settant’anni fa. (Ivi, p. 69)

12) E così siamo arrivati sull’argine, le ruote affondate nel fango […]. Nel fiume ci sono entrato così,
come se fosse l’unica via per passare dall’altra parte. […]. Io continuavo a stare lì indeciso, i piedi
nel fango, addosso un paio di mutande con le righe azzurre […]. Poi ho sentito il suono del mio
telefono […]. E dentro il telefono c’era Olmo, sapeva che sarei venuto sul fiume. […] Olmo non
parlava, e io non gli chiedevo niente, immerso com’ero nell’acqua, solo la mano e il telefono fuori, i
piedi puntati nel fango. E stare lì, il suo fiato dentro il mio orecchio, era come essermelo caricato
sopra le spalle, provare a portarlo dall’altra parte del fiume. Lui stava lì allacciato a me, le braccia al
collo, il suo petto contro la mia schiena, e io che sotto di lui nuotavo, muovere piano le gambe per
non farlo cadere, la paura di disarcionarlo, quando invece lo volevo salvare. (Ivi, pp. 233-236)

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