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69 –
SETTEMBRE- DICEMBRE 2009
Versione telematica
1
Pubblicazione promossa dal Dipartimento di Filosofia e Scienze
sociali dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di
Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma.
Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R.,
attraverso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del
Salento e dello stesso Dipartimento.
Direttore responsabile: Giovanni Invitto
Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno
(Lecce), Antonio Delogu (Sassari), Giovanni Invitto (Lecce), Aniello Montano
(Salerno), AntonioPonsetto (München), Mario Signore (Lecce).
Responsabile di Redazione: Daniela De Leo.
Redazione: Doris Campa, Raffaele Capone, Maria Lucia Colì, Lucia
De Pascalis, Alessandra Lezzi, Giorgio Rizzo.
Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento
di Filosofia e Scienze sociali, Università del Salento – Via M. Stampacchia –
73100 Lecce – tel. 0832.294627; fax 0832.294626.
E-mail: segniecomprensione@libero.it
Amministrazione, abbonamenti e pubblicità: Piero Manni s.r.l., Via Umberto I,
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annuo: Italia € 15,00, Estero € 30,00, c/c postale 16805731 intestato a Piero
Manni s.r.l., Lecce. L’abbonamento dà diritto al numero “cartaceo” pubblicato 2
ogni anno. Il costo di un fascicolo degli anni precedenti è doppio.
3
INDICE
Saggi
7
Girolamo Cotroneo
LA FAMIGLIA TRA MODERNITÀ E POST-MODERNITÀ
28
Marina Pia Pellegrino
EDITH STEIN. LA COMUNITÀ DI DESTINO
41
Francesco Clemente
POLEMICA ED EREDITÀ PROBLEMATICA DELL’IDEALISMO TEDESCO
NELLA FILOSOFIA DI LUDWIG FEUERBACH
4
56
Giacomo Fronzi
TH. W. ADORNO. L’ESTETICA MUSICALE E LA FORZA DELLA CRITICA
Note
69
Palma Valentina di Nunno
BERGSON, L’ÉVOLUTION CRÉATRICE, E IL PROBLEMA RELIGIOSO
75
Santo Arcoleo
NEL CENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DE L’ÉVOLUTION
CRÉATRICE DI H. BERGSON.
IL COLLOQUIO AL “COLLÈGE DE FRANCE”
90
Maria Cristina Fornari
GUYAU E UNA MORALE SENZA OBBLIGAZIONE NÉ SANZIONE
94
Tommaso Speccher
ALCUNE RIFLESSIONI SU “LINGUAGGIO E PRINCIPIO DI ESCLUSIONE”
5
98
Recensioni
M. Recchi, C. Caputo, A. Camparsi, F. Rega
110
Pubblicazioni ricevute
Anche “Segni e comprensione” si adegua alla rivoluzione informatica
e mass-mediatica. Già da alcuni anni la rivista appare tanto nella versione
cartacea quanto in quella telematica. Anche le ultime vicende, non ancora
concluse, che travagliano l’università pubblica italiana, hanno suggerito al
Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento (che,
insieme al Centro di Ricerche fenomenologiche di Roma, promosse questa
rivista nel 1987) di ridurre l’attività editoriale realizzata con le antiche
metodologie. Così le tre riviste del Dipartimento, di cui due ultraventennali,
dal 2009 hanno una doppia veste: un numero sarà a stampa e avrà carattere
monotematico, e gli altri due numeri, di cui questo è il secondo, appaiono on
line sul sito http://dip-fil.unile.it. I testi che vi appaiono sono in formato “pdf”,
in modo che autori e lettori possano stampare i saggi o tutta la rivista come
se uscisse dalla consueta tipografia. Ciò avviene da tempo, come è noto, per
tanti periodici scientifici nazionali e internazionali.
Abbiamo già pensato al tema del numero monotematico del 2010.
Esso riprende e aggiorna un consuntivo, fatto vent’anni fa, su Fenomenologia
ed esistenzialismo in Italia. Fu il tema di un Convegno organizzato a
Tarquinia dalla Società Filosofica Italiana nel 1981, i cui atti furono curati da
Giovanni Invitto. Quello che “Segni e comprensione” chiede ai suoi Autori
antichi ed a quelli più recenti è di elaborare testi su quell’argomento e ad
inviarli alla rivista entro il 30 ottobre 2009 (segniecomprensione@libero.it). 6
LA FAMIGLIA TRA MODERNITÀ E POST-MODERNITÀ
di Girolamo Cotroneo
SAGGI
per indicare due successivi momenti storici nel corso dei quali sono apparsi
due diversi modi di intendere la famiglia. Se, infatti, come vedremo, la
modernità – intendendo per questo periodo i secoli tra il XVI e il XIX – ha
costruito un’immagine, per così dire, positiva della famiglia, ne ha fissato
alcuni caratteri essenziali, senza dei quali essa non è data, il XX secolo, che
assumo come il secolo post-moderno, ha avviato un’opera di disgregazione
di quell’immagine, nella quale ha ritenuto di individuare la presenza di alcuni
fattori distruttivi della personalità dei suoi componenti. Vediamo. Ha scritto
Umberto Cerroni che
Il mio intervento muove, per così dire, dalle ultime parole di Cerroni,
osservando che nel corso dell’età moderna la famiglia è stata a lungo
riguardata soprattutto sul piano “politico”, come una fondamentale struttura
dello Stato, escludendo il suo momento etico, come dichiarava
esplicitamente «la plus forte tête que l’ancien règine ait vu paraître en
France», il fondatore del pensiero politico moderno, sarebbe a dire Jean
2
Bodin. Nella sua opera più famosa, Les six livres de la Republique,
inaugurando la sezione dedicata alla famiglia, scriveva: «In questa sede noi
intendiamo occuparci, lasciando ai filosofi e ai teologi la trattazione
dell’aspetto morale, solo dell’aspetto politico della questione; e quindi anche
di quel potere del marito sulla moglie ch’è fonte e origine di ogni umana
3
associazione».
Ritornerò sul tema del “potere del marito”. Prima però vorrei
proseguire il discorso sul rapporto tra “famiglia” e “Stato”, essendo la prima
per i filosofi politici dell’età moderna «la vera origine dello Stato», di cui
4
«costituisce parte fondamentale», secondo diceva ancora Bodin, per il quale
era «impossibile che uno Stato valga qualcosa se sono mal fondate le
5
famiglie che ne costituiscono i pilastri»; e, a sostegno, aggiungeva che fu
«da quando, al declino dell’Impero Romano, l’autorità del padre cominciò a
rilassarsi, che anche l’antica virtù e lo splendore di quello Stato vennero
rapidamente a cadere, e in luogo della pietà e dei buoni costumi di un tempo
6
si verificò un’infinità di azioni viziose e malvage». Il medesimo argomento
troveremo qualche secolo dopo nelle pagine di Johann Gustav Droysen, il
quale scriveva che «la virtù nell’antica Roma ha avuto esattamente la stessa
durata della semplicità rigorosa della famiglia»; e, a sostegno, cosa forse più
7
importante, aggiungeva: «La stessa prova vale ancora ai nostri giorni».
Di là di tutto questo, ai fini del mio discorso, la cosa più importante è
adesso sentire quale idea di famiglia il pensiero politico moderno proponeva
o indicava. Prima però vorrei ricordare quanto sostenuto ancora da Umberto
Cerroni per il quale è impossibile «definire il concetto di famiglia prima di una
ricognizione circostanziata dell’istituto storico della famiglia», perché se
scompare la storicità del concetto di famiglia correlata alla storicità dell’istituto
familiare, scompare immantinente la storicità del moderno istituto familiare: al
tempo stesso la teoria costruita senza storia si assolutezza in teoria
refrattaria alla storicità, e la storia, privata di specifici parametri causali
ricavata dall’indagine di vari tipi istituzionali, sfuma in mero antecedente
8
filosofico dell’istituto moderno.
SAGGI
congiungimento) senza contratto precedente, e nemmeno pacto (per un
semplice contratto matrimoniale senza congiungimento ulteriore) ma soltanto
lege, cioè come conseguenza giuridica derivante dall’obbligo di non formare
un’unione sessuale altrimenti che per mezzo del possesso reciproco delle
persone.
SAGGI
Indubbiamente le cose che debbono essere decise ogni giorno, e non
possono aggiustarsi da sé gradualmente o attendere un compromesso,
dovrebbero dipendere da un’unica volontà: una sola persona dovrebbe
averle sotto esclusivo controllo. Ma non ne deriva che questa della essere
sempre la stessa persona. Le cose si aggiustano naturalmente con una
divisione di potere fra i due, dove ciascuno esercita nella propria sfera
d’azione un assoluto controllo e qualsiasi cambiamento di sistema e di
principio esige il consenso di entrambi.19
SAGGI
introducendo il concetto di “amore autocosciente” che supera l’iniziale
attrazione dei sessi – cosa che vietava di poter considerare il matrimonio un
contratto – Hegel faceva compiere al concetto di matrimonio, e quindi di
famiglia, un vero e proprio salto di qualità giungendo a considerarlo, come
del resto abbiamo avuto modo di vedere, un atto “religioso” e “indissolubile”.
Questo però non gli impediva di sottolineare che il matrimonio si presenta
pure come atto giuridico. A quanto abbiamo appena visto, infatti, aggiungeva
che era da respingere quella concezione
I figli hanno il diritto di venire nutriti e educati sulla base del comune
patrimonio familiare. – I figli sono in sé liberi, e la loro vita è soltanto
l’immediato esserci soltanto di questa libertà, essi appartengono perciò né ad
altri né ai genitori come cose. La loro educazione ha la destinazione positiva,
rispetto al rapporto di famiglia, che l’eticità venga in essi portata a sentimento
immediato, ancor privo di opposizione, e che ivi, come in fondamento della
vita etica, l’animo abbia vissuto la sua prima vita in amore fiducia e
obbedienza, – ma poi ha la destinazione negativa rispetto al medesimo
rapporto, di innalzare i figli dall’immediatezza naturale, nella quale essi
originariamente si trovano, all’autonomia e alla libera personalità e con ciò
alla capacità di uscire dall’unità naturale della famiglia.32
SAGGI
una forma che troverà la sua epopea agli inizi del Novecento, precisamente
nel 1901 nel capolavoro del giovane Thomas Mann, I Buddendbrook, che di
quel concetto di famiglia segnalava la forza, ma anche la crisi e la
malinconica decadenza.
la donna deve sbarazzarsi delle catene che l’attuale forma della famiglia,
sorpassata e costrittiva, fa pesare su di lei. […] Le attuali forme della
struttura familiare, stabilite dalla legge e dal costume, fanno sì che la donna
soffra non solo come essere umano ma anche come sposa e madre. Nella
maggior parte dei paesi civili, il codice civile pone la donna in una situazione
di maggiore o minore dipendenza rispetto all’uomo e riconosce al marito non
solo il diritto di disporre dei beni della moglie, ma anche quello di dominarla
moralmente e fisicamente. 35
tuttavia, aggiungeva,
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religiosi conseguenti, che ebbero per scopo il rafforzamento e il
rinnovamento di questa unità, hanno avuto ben chiara l’importanza
fondamentale della famiglia come produttrice del carattere autoritario e si
sono posti come compito il rafforzamento della famiglia con tutti i suoi
presupposti, come la proibizione del rapporto extra-matrimoniale, la
propaganda per la procreazione e l’educazione dei bambini, la relegazione
della donna al focolare domestico. 40
Tra i rapporti che hanno un influsso decisivo sul carattere spirituale della
maggior parte degli individui, tanto attraverso meccanismi coscienti quanto
inconsci, la famiglia ha un’importanza particolare. Ciò che accade in essa
forma il bambino fin dalla più tenera età e svolge un ruolo decisivo nello
sviluppo delle sue capacità. […] La famiglia, in quanto è una delle più
importanti forze educative, provvede alla riproduzione dei caratteri, come
esige la vita sociale e fornisce loro in gran parte l’indispensabile attitudine al
comportamento autoritario di tipo specifico da cui dipende in larga misura la
sussistenza dell’ordinamento borghese. Questa funzione della famiglia [era]
particolarmente sottolineata al tempo della Riforma e dell’assolutismo.41
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forza che il matrimonio ha rappresentato durante la sua storia millenaria nello
sviluppo umano», scriveva, «e per quanto lungo e rilevante sia il futuro che
può essergli riservato ancora in una forma più alta di società, sono
comunque diventate chiare le contraddizioni in esso contenute tra la vita che
si sviluppa e le condizioni date». Di questo erano prova già nell’età del
Rinascimento,
Nella famiglia […] sono coagulate le radici delle istituzioni autoritarie, della
repressione, del conformismo dei comportamenti, della legittimazione del
dominio, della carismaticità dei capi e dei gruppi dirigenti, della paura
inconscia al mutamento, della divisione del lavoro, del lavoro coercitivo, della
proprietà privata e del potere che, spesso, si è creduto di poter trattare come
variabili indipendenti o come fatti di origine strettamente economica. A
questa luce la famiglia appare l’epicentro dei problemi più complessi e degli
impedimenti più gravi alla liberazione degli uomini dai vincoli che li alienano e
li tengono soggetti […] Dunque, l’istituto familiare […] è un nucleo che tende
alla conservazione della proprietà privata, del potere, degli strati, delle classi
e persino della discriminazione razziale e della prostituzione.49
e concludeva che tutto ciò è stato opera di una sorta di “astuzia della
società”, la quale ha imposto «i suoi interessi sostanziali sotto l’apparenza
della protezione alla coppia affettivo-erotica. La coscienza sociale (in gran
52
parte funzionale al potere) ha lavorato sfruttando l’inconscio della coppia».
Credo di avere avuto occasione di dire che di solito i testi relativi alla
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famiglia prodotti dalla “post-modernità”, se riescono spesso a indicare alcuni
aspetti della famiglia “moderna”, il cui ripensamento – alla luce delle nuove
condizioni storiche e sociali – appare senz’altro necessario, non riescono a
indicare, anche se la loro critica sembrerebbe andare proprio in questa
direzione, con che cosa sostituirla. Abbiamo, ad esempio, visto Aleksandra
Kollontaj – che affrontava il problema della famiglia muovendo dalla
53
liberazione della donna e dall’esaltazione del “sesso alato” – limitarsi a
ritenere superata, morta, perché inadatta alla grande rivoluzione politica
seguita alla nascita del primo regime comunista della storia, la “vecchia”
famiglia borghese, fondata su tutt’altri ideali. Da parte sua, Roberto Guiducci
muoveva anch’esso dalla liberalizzazione, per così dire, della sessualità,
come indicano queste sue parole:
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disciplina. Là dove la famiglia è sana è sano anche lo Stato e la religione e tutto ciò
che per gli uomini è salutare». Istorica, Lezioni di enciclopedia e metodologia della
storia (1857), a cura di S. Caianello, Guida, Napoli 1994, p. 424.
6
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., p. 213.
7
J. G. DROYSEN, Istorica, cit., p. 424.
8
U. CERRONI, La libertà dei moderni, cit., p .257.
9
Ivi., p. 261.
10
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., pp. 186-187.
11
«L’elemento etico del matrimonio consiste nella coscienza di questa unità di fine
sostanziale, quindi nell’amore, nella fiducia e nella comunione dell’intera esistenza
individuale, - nella quale disposizione d’animo e realtà, l’impulso naturale viene
abbassato alla modalità di un momento naturale (il quale […] nel suo appagamento è
destinato a estinguersi), il vincolo spirituale nel suo diritto pone sé in rilievo come il
sostanziale, quindi come ciò che è elevato sopra l’accidentalità delle passioni e del
temporaneo libito particolare, come ciò che è in sé indissolubile». Ritroveremo questa
immagine della famiglia come amore, della quale Hegel diceva ancora che nello
“spirito etico“ che la ispira «costituisce ciò in cui risiede il carattere religioso del 23
matrimonio e della famiglia, la pietà». Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G.
Marini, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 142 e 142-143.
12
La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, rivista da N. Merker, Laterza 1999, pp.
98-99 e 97.
13
Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, Laterza, Bari 1954,
p. 347.
14
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., pp.172-173.,
15
J. LOCKE, Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1948, p. 297.
16
Ivi, pp. 294-295.
17
Ivi, p.297.
18
Ivi, p.274.
19
La schiavitù delle donne, tr. di. M. Baccianini e M. Saule, Sugarco, Milano 1992, pp.
75-76 e 77.
20
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., I, p. 200.
21
Ivi, I, p. 205.
22
J. LOCKE , Due trattati sul governo, cit., pp.278 e 282.
23
La metafisica dei costumi, cit., pp.95-96.
24
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p. 141.
25
Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, cit., p.246.
26
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p.141.
27
Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, cit., 346.
28
J. G. DROYSEN, Istorica, cit., pp. 422 e 423.
29
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p. 141.
30
Ivi, p. 147.
31
Ivi, p. 145. La figura di Antigone, quale simbolo della famiglia, o, meglio della “pietà”
familiare trova largo spazio nella prima grande opera sistematica di Hegel, la
Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, voll.2, Firenze 1960, II, pp. 22-36.
32
Ivi, pp. 148 e 149.
33
«Lo scioglimento etico della famiglia della famiglia consiste nel fatto che i figli educati
alla personalità libera, nella maggiore età vengono riconosciuti esser come persone di
diritto e come capaci vuoi di avere propria libera proprietà, vuoi di fondar proprie
famiglie, – i figli come capi, e le figlie come mogli, – una famiglia […] di fronte alla
quale la loro prima famiglia retrocede come soltanto primo fondamento e punto di
partenza». Ivi, p. 150. Da parte sua Droysen scriveva che è già nella “natura” della
famiglia «che essa porti sempre di nuovo al di là di se stessa, che i figli e i nipoti
fondino a loro volta famiglie allo stesso modo, e che gli ambiti si vadano sempre più
distaccando l’uno dall’altro; ma in ogni ambito nuovamente fondato si ripete lo stesso
decorso profondamente significativo, ogni ambito reso più ricco dall’eredità e dalla
benedizione della casa paterna, ciascuno con lo stesso nuovo compito di fondare un
piccolo mondo etico [in sé concluso] di dedizione, abnegazione e lealtà». J. G.
DROYSEN , Istorica, cit., p. 423.
34
Ivi, p.146. Ha osservato Umberto Cerroni che Hegel pur non avendo «riconosciuto il
tessuto storico e sociale dell’istituto familiare», pur avendolo voluto «costruire come
una razionalizzazione puramente speculativa», non ha potuto non «sanzionare la
stretta correlazione fra famiglia e proprietà privata», storicizzando di fatto la famiglia.
La libertà dei moderni, cit., p. 276.
35
A.KOLLONTAJ, La fine del matrimonio monogamico, in Amore, matrimonio, famiglia e 24
comunismo, intr. J. Lussu, il Papiro editrice, Sesto San Giovanni (Mi) 1993, pp. 19-20.
36
Ivi, p.22.
37
«Per rafforzare la solidità della famiglia, per sollevare più in alto il prestigio delle virtù
familiari, il terzo stato ha fatto tutto ciò che da esso dipendeva. Ha fatto intervenire la
religione, che predica l’indissolubilità del sacramento del matrimonio; la legge, che
punisce l’adulterio della moglie; la morale che esalta il carattere “sacro del focolare
domestico”. Quando la borghesia ebbe conquistato una posizione sociale egemone,
quando tutti i fili della produzione mondiale furono riuniti nella sue mani, la sua morale,
le sue regole di condotta e i suoi codici civile, che avevano il fine preciso di proteggere
i suoi interessi di classe, divennero a poco a poco la legge obbligatoria anche per gli
altri strati della popolazione». Ivi, pp. 23-24
38
«La proprietà e la famiglia sono legate troppo strettamente: se uno di questi pilastri
del mondo borghese è stato scosso, la solidità dell’altro diviene incerta. Per questo la
borghesia ha difeso sempre così accuratamente le proprie basi familiari; per questo
essa ha difeso e continua a difendere con tale alacrità le forme vetuste dell’odierna
struttura familiare». Ivi, p. 24. E in altra occasione: «Ma, pur difendendo i diritti di due
“cuori innamorati” ad unirsi, anche a dispetto delle tradizioni familiari, pur irridendo
all’”amore platonico” e all’ascetismo, e proclamando l’amore base del matrimonio, la
morale borghese mantiene sempre l’amore in un ambito strettamente limitato. L’amore
non è legittimo che in vista del matrimonio. Al di fuori del matrimonio legale, l’amore è
immorale. Va da sé che questo ideale era dettato da considerazioni meramente
economiche: la volontà di impedire la dispersione del capitale tra i figli naturali. Tutta la
morale della borghesia era fondata su questa volontà: assicurare la concentrazione del
capitale». Largo all’Eros alato! Lettera alla gioventù lavoratrice, in Amore, matrimonio,
famiglia e comunismo, pp.72-73.
39
Ivi, p.39.
40
M. HORKHEIMER, Studi sull’autorità e la famiglia, con la collaborazione di Eric Fromm,
Herbert Marcuse e altri, intr. F. Ferrarotti, Utet, Torino 1974, pp. 58-59. Altro motivo di
polemica nei confronti della famiglia “borghese” era il ruolo che il patrimonio aveva
nella sua struttura. Scriveva infatti: «L’unità immediata di forza naturale e di pretesa al
rispetto nella famiglia borghese, non è l’unico fattore costitutivo della struttura d’autorità
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che caratterizza questa società; vi agisce un’altra proprietà del padre che appare pur
essa naturale: egli è il signore della casa, perché guadagna il denaro o comunque lo
possiede. […] Il fatto che normalmente nella famiglia borghese l’uomo possiede il
denaro […] e ne stabilisce l’impiego, fa sì che moglie, figli e figlie siano ”suoi” anche
nell’età moderna, dà ampiamente la loro vita nelle sue mani, li costringe a sottomettersi
alla direzione e al comando» E poco oltre: «L’idealizzazione dell’autorità paterna, come
se essa procedesse da un decreto divino, dalla natura delle cose o dalla ragione si
dimostra, ad un esame più approfondito, come trasfigurazione di una istituzione
economicamente condizionata». Ivi, pp. 53 e 68.
41
Ivi, p. 47.
42
Ivi, pp. 48-49.
43
Ivi, p. 72.
44
Ivi, p. 69.
45
Ivi, p. 72.
46
Ivi, pp. 70-71. Aggiungeva però che «nelle eccezioni si conferma […] la regola. In
generale l’autorità domina l’umanità borghese anche nell’amore e determina il suo 25
destino. Nel rispetto per la dote, la posizione e forza lavorativa dei contraenti il
matrimonio, nella speculazione sull’utile e il rispetto che provengono dai figli, nel
rispetto per l’opinione dell’ambiente e, soprattutto, nella dipendenza interiore da
concetti abitudini e convenzioni radicate, in questo empirismo dell’uomo dell’epoca
moderna, inculcato dall’educazione e divenuto una seconda natura, ci sono fortissimi
stimoli ad accettare la forma della famiglia e a perpetuarla nella propria esistenza». Ivi,
p. 71.
47
U. CERRONI, La libertà dei moderni, cit., p. 268.
48
Qui Cerroni citava il seguente testo di Marx: «Dunque, per quanto terribile e
repellente appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico,
cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una forma
superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte decisiva che si
assegna alle donne, agli adolescenti, ai bambini d’ambo i sessi nei processi di
produzione socialmente organizzati di là della sfera domestica». La libertà dei moderni,
cit., p.269. - Queste parole di Marx, inserite nel discorso contro lo sfruttamento del
lavoro minorile, erano immediatamente precedute da alcune considerazioni certamente
interessanti per la comprensione dell’evoluzione dell’organizzazione familiare dopo le
rivoluzioni industriali. Scriveva, infatti, che «ogni regolamentazione del cosiddetto
lavoro domestico si presenta subito come intervento diretto contro la patria potestas,
cioè, traducendo in linguaggio moderno, contro l’autorità dei genitori: passo di fonte al
quale il delicato parlamento inglese ha per lungo affettato reverenziale timore. Tuttavia
la forza dei fatti ha costretto finalmente a riconoscere che la grande industria,
dissolvendo il fondamento economico della vecchia famiglia e del lavoro familiare che
ad esso corrispondeva, dissolve anche i vecchi rapporti familiari». Tuttavia,
proseguiva, «non è stato l’abuso di autorità paterna a creare lo sfruttamento diretto o
indiretto di forze-lavoro immature da parte del capitale; ma è stato viceversa il modo
capitalistico dello sfruttamento a far diventare abuso l’autorità dei genitori, eliminando il
fondamento economico che le corrispondeva». Il Capitale, libro I, tomi 2, a cura di D.
Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1980, II, pp. 535-536.
49
R. GUIDUCCI, La disuguaglianza fra gli uomini, Rizzoli, Milano 1977, pp. 23 e 33. A
puro titolo di curiosità vorrei ricordare che, dimostrando ben altra sensibilità, Johann
Gustav Droysen scriveva che si può senz’altro «parlare di una storia della famiglia;
essa abbraccia le più grandi questioni storico-culturali dacché vi sono incluse le
condizioni della donna, la forma primitiva del lavoro, i rapporti matrimoniali,
l’educazione, nei loro momenti essenziali». Istorica, cit., p. 425.
50
Ivi, pp. 24-25.
51
R. GUIDUCCI , La disuguaglianza fra gli uomini, cit., p. 26.
52
Ivi, p. 37.
53
«L’istinto di riproduzione allo stato puro, che sorge facilmente ma passa con rapidità,
quest’attrazione sessuale senza radici spirituali e morale, questo “eros senza ali”,
assorbe molte meno energie individuali che non l’esigente Eros alato, l’amore che è
intessuto di una sottile trama di svariatissime emozioni d’ordine spirituale e morale.
L’Eros senz’ali non procura notti insonni, non fiacca la volontà, non confonde l’attività
dell’intelletto». Largo all’Eros alato!, cit., p. 61. Mi sembra opportuno ricordare che la
Kollontaj scriveva che negli anni della Rivoluzione non poteva essere consumato altro
che l’”Eros senz’ali”, essendo le menti occupate a costruire la nuova società, raggiunta
la quale soltanto poteva finalmente ricomparire l’”Eros alato”. «Ora che in Russia», 26
scriveva, «il movimento rivoluzionario ha vinto e si è consolidato, ora che l’uomo non è
più interamente assorbito dall’atmosfera del combattimento rivoluzionario, il tenero
Eros alato relegato provvisoriamente fra gli accessori, ricomincia a far valere i suoi
diritti». Ivi, p. 62.
54
R. GUIDUCCI , La disuguaglianza fra gli uomini, cit., p. 46.
55
Ivi, pp.46-47.
56
PLATONE, Opere politiche, a cura di F. Adorno, Utet, Torino 1953, Repubblica, 460b,
p. 328.
57
K. R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, voll. 2, a cura di D. Antiseri, I,
Platone totalitario, Armando Armando, Roma 1973.
58
«Familles! Je vous hais! Foyers clos, portes refermées, possessions jalouses du
bonheur». Les Nourritures terrestres, Gallimard, Paris 1967, p. 78.
59
Famiglie, vi amo! Politica e vita privata nell’era della globalizzazione, tr. C. Spinoglio,
Garzanti, Milano 2008, pp. 62-63. Ritengo opportuno segnalare che uno dei più celebri
filosofi politici statunitensi del Novecento, John Rawls, reinterpretando il “principio di
fraternità” – assieme alla “libertà” e all’”uguaglianza”, uno dei tre motivi ispiratori della
Rivoluzione Francese – scriveva che esso corrisponde «all’idea di non desiderare
maggiori vantaggi, a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno
bene», come richiesto dal “principio di differenza”, che costituisce uno dei momenti
essenziali della dottrina di Rawls. E aggiungeva che «la famiglia, in termini ideali, ma
spesso anche in pratica, è uno dei luoghi in cui il principio di massimizzare la somma
dei vantaggi è rifiutato. In generale», concludeva, «i membri di una famiglia non
desiderano avere dei vantaggi, a meno che ciò non promuova gli interessi dei membri
restanti.». Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, tr. U. Santini, Feltrinelli,
Milano 1982, p.101.
SAGGI
27
EDITH STEIN. LA COMUNITÀ DI DESTINO
di Marina Pia Pellegrino
SAGGI
puramente spirituali, la cui rappresentazione non implica di per sé alcuna
contraddizione? È forse impossibile pensare che tra loro non vi sia qualche
relazione? Ci sono stati degli uomini che, in un improvviso cambiamento
della loro persona, hanno creduto di esperire l’influsso della grazia divina;
altri che nelle loro azioni si sentivano guidati da uno spirito protettore. […] Chi
deciderà se qui si tratti di un’esperienza genuina oppure di quella oscurità
sulle proprie motivazioni, che abbiamo trovata nel considerare le Idole der
Selbsterkenntnis? Ma, forse, in quest’ambito non è già data, con le immagini
illusorie di un’esperienza del genere, anche la possibilità eidetica di una vera
esperienza? In ogni modo mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia
4
il miglior mezzo per la risposta a questo problema» . Alcune lettere all’amico
e fenomenologo Roman Ingarden testimoniano che la Stein ha effettivamente
portato avanti questa ricerca, sia sotto il profilo teoretico, come si desume
dalla lettera del 30.8.1921 in cui ella informa l’amico che sta lavorando a una 29
trattazione di filosofia della religione (secondo le ricerche è appunto il saggio
5
che ci interessa) , sia con una riflessione personale che l’avvicina sempre di
6
più “ad un Cristianesimo assolutamente positivo” .
Pertanto il lavoro della Stein qui in esame, benchè sia uno dei testi
dell’autrice forse meno visitati, occupa a nostro avviso un posto rilevante, non
solo nella sua produzione fenomenologica, ma come annuncio di un
completamento della sua ricerca sul piano ontologico-metafisico, piano non
contemplato nel termine husserliano di “ontologie regionali”.
Abbiamo scelto il tema della comunità di destino, come nucleo
pregnante del saggio, poiché proprio nello stesso arco temporale la Stein
sviluppa in altri testi la sua indagine sulla vita associata, che culmina nella
7
comunità , ma ancor più perché l’autrice, per giungervi, attraversa tutto il
terreno che riguarda il problema della libertà personale, che ci sembra
esemplare punto d’innesto proprio tra il piano fenomenologico e quello
ontologico-metafisico. Le riflessioni steiniane in questione fanno emergere
anche la capacità della fenomenologa di muoversi in ambiti diversi, sapendoli
tenere contemporaneamente sempre distinti. Ciò costituisce una prima
messa in forma di quella sua posizione particolare sul rapporto filosofia-
teologia, che rivestirà un ruolo centrale in Essere finito e Essere eterno:
anche là dove la filosofia incontra questioni a cui non può rispondere con i
propri mezzi e accetta di venire integrata dalla dottrina di fede, non per
questo la si deve ritenere teologia. Il suo compito è di riconoscere sé e altro
da sé: essa rimane lo spazio intangibile del riconoscimento.
SAGGI
La fenomenologia dei due “regni” fa emergere livelli diversi di
profondità della struttura antropologica, con le loro diverse gradazioni di
luminosità per la coscienza del soggetto e, di conseguenza, diverse
configurazioni possibili dell’anima e del grado di libertà raggiunto dall’io.
Nella vita propriamente naturale-spontanea, il soggetto è indotto a
reagire alle impressioni che mettono in movimento l’anima dall’esterno,
perciò le sue prese di posizione sono passive, non libere: manca la regia
(Inszenierung) di un ultimo centro interiore. A questa vita se ne contrappone
una essenzialmente diversa: quella in cui l’anima non è più messa
immediatamente in moto dalle impressioni, ma è “guidata dall’alto”, riceve
ancora le impressioni dal mondo, ma le coglie da quel centro profondo per
mezzo del quale è ancorata al regno della grazia.
Vi è, poi, un altro tipo di vita naturale, non caratterizzata da un
meccanismo inconsapevole, ma regolata dalla luce della ragione. E’ chiaro 31
che tra questa forma e la precedente vi è una differenza sostanziale: qui
siamo già in una vita spirituale. «Se il discorso riguardava le reazioni naturali,
non deve per questo limitarsi all’oscura vita psichica, bensì deve riguardare
allo stesso tempo qualcosa che si trova anche nella vita spirituale. Tra le
impressioni e le reazioni esistono rapporti che noi designiamo come legge
della ragione. […] Finché la vita spirituale si svolge nella forma della
motivazione, cioè nella forma della risposta razionale alle impressioni, il
soggetto spirituale sottostà senz’altro alle leggi della ragione, allo stesso
modo in cui, ovviamente, tutti gli eventi naturali obbediscono alle leggi
naturali. Riguardo a quest’ordine naturale possiamo parlare di un secondo
regno della natura o, in maniera più pregnante, di un regno della ragione
naturale. […] Il regno della ragione non è una sfera spirituale che fluisce da
un centro personale che lo qualifica in maniera particolare. Solo in tali sfere
10
l’anima può essere realmente al sicuro ed essere penetrata dalla libertà.»
È proprio in questo tipo di vita che è possibile nient’altro che una
giustizia retributiva, la quale non conduce al regno della grazia, né ad
un’autentica comunità di destino. Lo spirito della luce, lo Spirito Santo, infatti
trasforma, abitando il suo nucleo, le reazioni naturali-psichiche dell’anima:
«Si danno reazioni che attraverso di Lui vengono eliminate anche dove
abbiano origine dalla ragione naturale: odio, desiderio di vendetta, e altre
simili. Si danno anche atti spirituali e stati dell’anima che sono le forme
specifiche della sua vita attuale: amore, misericordia, perdono, beatitudine,
pace. Essi si presentano anche là dove, secondo la ragione naturale, non ve
ne sarebbe alcun motivo. Per questo la pace di Dio è al di sopra di tutte le
ragioni, ed è per questo che, per tutti coloro che ne vivono fuori, il regno di
11
Dio deve essere una follia» Anche il “regno” della ragione naturale non è in
definitiva un autentico regno, poichè non ha uno spirito personale che ne
costituisca il centro. La Stein sottolinea come la parola spirito qui significhi da
un lato una persona spirituale, dall’altro una sfera spirituale, e come i rapporti
che si possono stabilire tra le due si basino sul fatto che, da una parte, ogni
sfera spirituale scaturisce da una persona ed in essa ha il suo centro e che,
dall’altra, una persona può essere al sicuro in una sfera spirituale che non
scaturisca da lei stessa. Il regno della grazia è la sfera spirituale che emana
da Dio.
Dunque la vita psichica guidata dalla conoscenza sembra elevarsi al
di sopra di quella animale, ma è questa una luce che non deve essere
sopravvalutata; quanto più la psiche rimane natura, tanto più risulta vuota e
chiusa a ciò che può animarla e illuminarla in profondità. Anche le operazioni
dell’intelletto, come il soggetto libero preso di per sé, sono vuote e devono i
loro contenuti a sfere che sono da esso indipendenti, perciò pure nel caso
della vita naturale guidata dalla ragione la psiche risulta indifesa. 32
Riguardo l’entrata del soggetto in un regno spirituale e il suo
dedicarsi allo spirito che ne è il signore, esiste l’estrema possibilità di darsi
allo spirito del male e, in questo caso, come si è detto, l’anima cade in una
schiavitù peggiore di quella dello stadio naturale, poiché le sue reazioni non
sono neanche più naturali: se è naturale amare ciò che è amabile e odiare
ciò che è detestabile, odiare ciò che merita amore non è più naturale ma
diabolico.
SAGGI
essere perciò recintata e liberata. È bene soffermarci su ciò che la Stein
evidenzia nel significato del termine liberato con cui si caratterizza l’habitus
del soggetto che è ancorato all’alto, l’habitus interiore dei figli di Dio: «Il
meccanismo della vita naturale dell’anima non raggiunge quel centro che è il
luogo della libertà e dell’origine dell’attività. L’anima guidata è tesa con
questo centro verso l’alto, qui ne riceve le direttive e, obbedendo, si lascia
muovere da esse. L’attività è sospesa al suo punto d’origine; della libertà, nel
14
luogo della libertà non vien fatto alcun uso.» . L’autrice si chiede se il
rinunciare alla libertà e abbandonarsi non sia esso stesso un atto libero: per
poter essere liberati bisogna essere già liberi? L’essere liberato, per un
soggetto che vive imbrigliato nel regno della natura, comporta
necessariamente un atto di libera collaborazione, altrimenti non può esservi
passaggio ad un regno diverso da quello naturale. D’altra parte solo un
essere in cui abitano già il bene e il male può cadere in tentazione, o 33
consentire alla grazia. Ciò viene illuminato attraverso l’esempio di Cristo, al
quale il tentatore viene dal di fuori: Cristo non cade in tentazione e non deve
difendersi da essa, ma comprendendola e dandone risposta adeguata, la
svela e mostra come l’uomo debba comportarsi per vincerla. C’è solo una
tentazione a cui l’uomo integro e l’angelo possono cedere, di fronte alla
quale, quindi, la libertà in quanto tale è esposta: quella di consistere in se
stesso; essa è l’unica che è rivolta contro Dio e nient’altro e da cui il male
stesso scaturisce. Se si fosse riempiti solo da Dio non si potrebbe cadere in
tentazione, come vediamo per Cristo, viceversa se vi fosse in noi soltanto il
male non potremmo resistergli. Nel caso di Cristo la libertà è rivolta del tutto
al bene e a favore delle creature, come l’autrice metterà in luce nella figura
del Mediatore universale.
La Stein si concentra su un’analisi fenomenologica che svolge il
prezioso compito di portare alla luce delle dinamiche interiori, di districarle,
riconoscendo allo stesso tempo che la loro ragione ultima rimane misteriosa
e comporta il passaggio ad una rivelazione altra: «La discesa della Grazia
nell’anima umana è un atto libero dell’amore divino, e non vi sono limiti alla
sua estensione.Quali strade scelga per operare, perché cerchi di entrare in
un’anima e da un’altra si lasci cercare, se, come e perché operi anche
laddove i nostri occhi non scorgono alcun effetto, sono tutte domande che
sfuggono alla comprensione razionale. A noi è dato solo un riconoscimento
delle possibilità in linea di principio e, sul fondamento di esse, una
15
comprensione dei fatti a noi accessibili.»
Nell’ambito dei vissuti, uno in particolare ha un carattere rivelatore:
16
l’angoscia “di cui è piena ogni anima insicura” . Si tratta di un’angoscia
metafisica, che non è legata a qualcosa, non è angoscia per qualcosa, ma in
essa viene sentita la peccaminosità dell’anima. «Infatti, non appena l’anima
avverte veramente l’angoscia e la peccaminosità, non può più liberarsene
[…]. Rimane allora fermamente legata a sé […]. L’essere legata all’indietro,
che non contrasta con l’allontanamento da se stesso, è una caratteristica
17
primaria dell’angoscia.» Il carattere metafisico dell’angoscia sarà ancora
messo in luce in alcune pagine densissime di Potenza e Atto, in riferimento
alla possibilità di peccare mortalmente, stato che si avvicina a quello della
dannazione: si è angosciati per la minaccia di annientamento che si avverte
nel cuore del proprio essere. In questo testo tutta la riflessione sul peccato è
trattata dal punto di vista ontologico-metafisico, poiché decidere contro Dio,
essere assoluto, significa decidersi per il non essere, e si ribadisce, perciò,
che le decisioni sono “vette nella vita della persona”. Approfondendo poi
anche questo non-essere, la Stein riconosce che esso non può equivalere a
un niente, così come non lo è il modo d’essere dei demoni e dei dannati; non
può provenire dal nulla, bensì da un atto originario di negazione da parte di 34
18
un essente.
Quanto più l’anima si svuota di sé, tanto più si apre il varco perché
entri la grazia per cui veramente può realizzarsi l’atto propriamente libero:
l’abbandono (Selbsthingabe), attraverso il quale la persona raccoglie tutto il
suo essere in un punto, dopo essere giunta, libera dal meccanismo psico-
fisico, nel nucleo dell’anima e da qui aver preso in mano tutta se stessa per
darsi. «L’abbandono è l’atto più libero della libertà. Colui che, totalmente
incurante di sé – della propria libertà e individualità – si consegna alla Grazia,
penetra in essa, completamente libero e totalmente se stesso. Si delinea così
l’impossibilità di trovare la strada finchè lo sguardo è fisso su di sé.
L’angoscia può spingere il peccatore tra le braccia della Grazia. L’angoscia
spinge da dietro. Ma se egli si volge completamente alla Grazia, perderà
19
l’angoscia perché la Grazia lo libera dal peccato e dall’angoscia.»
Per quanto riguarda questa fenomenologia della libertà, che apre
parimenti alla conoscenza di livelli diversi di consistenza d’essere, la Stein si
pone anche dal lato della grazia e della sua libertà. Può la grazia operare
senza il concorso della libertà umana? L’autrice risponde negativamente, ma
vuole andare a fondo di questa risposta perché essa implica, da un lato,
ammettere un limite per la libertà di Dio e, dall’altro, ammettere la possibilità
di una resistenza assoluta alla grazia e quindi di un’esclusione dalla
salvezza. Se quest’ultima in linea di principio non si può negare, come si è
visto anche dalla possibilità estrema di darsi al male e alle reazioni che ne
scaturiscono, di fatto può diventare infinitamente improbabile se si guardano
gli effetti che la grazia è in grado di produrre nell’anima. Pertanto, se la libertà
umana non può essere distrutta nemmeno da Dio, può essere da Lui attirata,
non avendo limiti l’amore di Dio e la portata del suo libero agire. Questo
amore viene colto nell’atto di fede, alla cui delucidazione la Stein dedica
SAGGI
l’ultimo paragrafo del saggio. Da un lato l’essere afferrati da Dio è qualcosa a
cui non ci si può sottrarre, dall’altro per passare al vero e proprio atto di fede
bisogna tenersi alla mano che ci afferra. Solo così trovo in quella “potenza
incomparabile” che mi sta dinnanzi, il Dio infinitamente buono che mi
20
sostiene . Dunque se Dio si arresta, per dir così, di fronte alla libertà di
quell’essere che Egli stesso ha creato libero, tuttavia la sua Presenza è
ineludibile e ciò è reso manifesto anche dall’insopprimibilità dell’angoscia,
anche quando l’io cerchi di sfuggirle gettandosi nella vita periferica.
La fede nella sconfinatezza della grazia giustifica poi anche la
speranza nell’universalità della salvezza. Tutto ciò introduce al problema
della mediazione, in cui si scoprono all’opera le due libertà, quella umana e
quella divina ed, altresì, che la possibilità della mediazione implica che la
salvezza sia questione comune a tutti gli uomini.
35
2. La Schicksalsgemeinschaft.
Un mediatore può condurre un altro alla grazia senza un’attività
diretta, per il semplice fatto che da lui emana la luce divina, di cui è riempito,
e attira altri sulla stessa via. Ma quando il mediatore collabora attivamente
alla salvezza di un altro, si rende evidente un duplice limite di questa attività:
non si può costringere nessuno a salvarsi, né pretendere che la grazia lo
faccia. Tuttavia questo limite s’incontra per l’appunto con un amore infinito e,
giusta l’affermazione della Stein, il fatto che la libertà divina si sottometta, per
dir così, alla preghiera di uno per la salvezza di un altro, è la “realtà più
21
stupenda della vita religiosa”, anche se eccedente ogni comprensione.
Anche a questo proposito un’ulteriore chiarificazione va ricercata nelle pieghe
del complessivo pensiero della Stein: il rispetto della libertà altrui non è limite
formale, ma è la sostanza intrinseca della relazione di entropatia, che
proviene dal riconoscimento dell’alterità come reale alter ego, tale perciò da
produrre non solo una relazione legalisticamente intesa, ma il nucleo su cui
può sorgere una comunità di persone che reciprocamente si riconoscono nel
22
loro essere .
La responsabilità per la salvezza propria e altrui e la libertà vanno
di pari passo: «È singolare come proprio ciò che isola totalmente l’uomo e lo
pone totalmente su se stesso – e questo fa la libertà – lo lega, allo stesso
tempo, indissolubilmente a tutti gli altri e fonda una vera comunità unita dal
medesimo destino (Schicksalsgemeinschaft). Egli è responsabile della
propria salvezza perché essa non è raggiungibile senza la sua
collaborazione […] . E allo stesso tempo egli è responsabile della salvezza di
23
tutti gli altri e tutti gli altri della sua» . Questa reciproca responsabilità è
appunto nel più alto grado formatrice di comunità e su di essa si fonda la
Chiesa, che si costituisce per null’altro che per questo stare dinnanzi a Dio
uno per tutti e tutti per uno. Cristo è l’unico sostituto di tutti davanti a Dio
perché la pienezza dell’amore di Dio si è incarnata in Lui ed è, quindi, vero
capo della comunità, la Chiesa. Accanto a questa sostituzione universale e
sulla base di essa hanno senso i legami di patrocinio spirituale per il
prossimo ed anche la possibilità di stare dinnanzi a Dio al posto di un altro,
prendendo su di sé, la sofferenza per la punizione che questi si è meritato
per una colpa. La Stein si rifà qui a questioni la cui trattazione ha svolto nella
24
sua indagine sullo stato, elaborata negli stessi anni di questo saggio : si
tratta in particolare dell’esame di colpa/pena il cui nesso richiama quello
peccato/punizione. Anche in questo scritto l’autrice si era resa ben conto
dell’intersezione di ambiti diversi, giuridico-etico-religioso, e della necessità di
mantenerli rigorosamente distinti. Ella aveva trovato ispirazione nella sfera
25
del diritto puro, indicata per la prima volta da Adolf Reinach , in cui appare
evidente che ci sono stati-di-cose riguardanti il diritto, che sono indipendenti 36
dall’arbitrio e dal fatto di essere riconosciuti dal diritto positivo. Nel diritto puro
entrano quei momenti essenziali che Husserl aveva ben evidenziato come
momenti costitutivi. Bisogna sempre partire dagli atti liberi attraverso i quali si
introducono nel mondo stati-di-cose negativi, o ingiusti e allora si ha una
colpa che richiede una punizione, o stati-di-cose positivi per cui si ha un
merito che richiede una ricompensa. Ma mentre la pena di per sé non è
adatta alla sostituzione, lo è la sofferenza, nei confronti della quale è
possibile un atto libero, cioè assumersela. In questa assunzione volontaria è
possibile che al colpevole si sostituisca un altro. Sulla base del fatto che solo
alla figura del giudice compete la punizione, anche per la sostituzione la sua
autorizzazione sarebbe necessaria; questo non si trova nel diritto positivo,
ma se il giudice è Dio, unico Signore del mondo, a cui spetta di mantenere
l’ordine attraverso l’equilibrio tra colpa-pena, merito-ricompensa, Egli può a
suo gradimento accettare la sostituzione e solo a Lui si può rivolgere la
preghiera che la accetti. La Stein sottolinea che in questo caso emerge come
i rapporti giuridici puri si riempiano di senso religioso; dall’ontologia si apre la
strada per considerazioni metafisiche, le quali incontrano la teologia e il dato
rivelato e l’autrice percorre tutti questi ambiti. Al tempo stesso non va
dimenticato ciò che nell’opera sullo stato ella parimenti sottolinea, che anche
il rimando della punizione nel suo senso proprio a Dio, come supremo
giudice, non la relega in un ambito soltanto etico. Stein ribadisce con forza la
diversità delle sfere rispettive del diritto puro, del diritto positivo, della morale
e insieme ne coglie l’intersezione nella persona come soggetto capace di atti
26
liberi .
Come si può chiedere nella preghiera di assumersi la sofferenza per
la colpa di un altro, così si possono offrire i meriti, insiti nelle opere buone
compiute, e chiedere che venga data ad un altro la ricompensa per questi
SAGGI
dovuta. Questo non vuol dire, però, che ci si possa richiamare ai propri meriti
dinnanzi a Dio, sia perché non si può mai essere certi di averne qualcuno, sia
27
perché non si possono fare affari (Geschäfte machen) con Dio . Che si
rivolga la propria supplica per un altro, questo è gradito a Dio, perciò non
solo il santo può essere intermediario o sostituto dinnanzi al Signore, ma
anche il peccatore, che ha il diritto di pregare per un altro e chiedere per lui la
grazia: «Prima di tutto perché il Signore non è solo giusto, ma anche
misericordioso. E poi perché non ci può essere opera più gradita a Dio che
28
una preghiera devota.» Nessuno si deve sentire escluso dalla misericordia
divina e dalla corresponsabilità per l’estensione della grazia ad ogni altro; per
di più la responsabilità vale anche per altre forme di vita. Per quanto riguarda
il mondo animale, l’essere umano liberato è capace, come si è detto, di
comprendere l’inquietudine cupa dell’animale perché si è sollevato sul mondo
della natura, anche se la responsabilità per la redenzione del mondo animale 37
è assolutamente diversa dalla corresponsabilità per gli altri essere umani.
Per ciò che riguarda le creature inanimate, non toccate da alcun tipo di
angoscia metafisica, nemmeno quella inconsapevole e oscura dell’animale, è
in gioco una qualche responsabilità dell’uomo? In queste creature è posto un
senso originario, la loro forma, che si manifesta nel loro dispiegamento nello
spazio, ma poiché esse non si muovono come gli esseri animati, non
essendo formate a partire dall’interno, non sono capaci di sentire, non
possono evitare le aggressioni esterne e non sono capaci di conservarsi, ma
devono essere conservate. «Il dominio della natura fondato sulla conoscenza
fa sì che l’uomo conservi le creature nel senso ontologico inscritto in loro. La
tecnica moderna, nella misura in cui vede il proprio compito nel sottomettere
la natura all’uomo e nel metterla al servizio dei suoi desideri naturali, senza
preoccuparsi del pensiero creatore e in contrasto stridente con esso,
rappresenta una caduta radicale dal servizio originariamente ad essa
prescritto. L’uomo è responsabile di tutto ciò che, nella natura, non è come
dovrebbe essere; l’allontanamento della natura dal progetto del creatore è a
lui imputabile. Ricordiamo ancora che, secondo la sua struttura, l’uomo è
29
capace di portare una simile responsabilità.»
Abbandono e preghiera ci sono apparsi come atti fondamentali da
parte del soggetto per l’incontro della libertà umana con la grazia divina. Ma
c’è qualcosa di più originario ancora dell’atto, libero per eccellenza,
dell’abbandono di sè? Se l’abbandono richiede la fatica di un cammino,
l’attraversamento della propria interiorità e la progressiva presa di coscienza
delle sue pieghe anche più interne per potersi “prendere in mano” e
consegnarsi, c’è un punto che prelude al cammino, che si pone tra attività e
passività del soggetto? Proprio in Psicologia e scienze dello spirito, la Stein
parla di un Erlebnis, lo “stato di riposo in Dio”, un abbandono di maggior
passività, si potrebbe dire, consistente in una semplice recettività: «Esiste
uno stato di riposo in Dio, di totale rilassamento di ogni attività spirituale, in
cui non si fanno piani, non si prendono decisioni e non solo non si agisce, ma
si rimette ogni cosa futura alla volontà divina e ci si “abbandona”
completamente al “destino”. Si riceve questo stato dopo che un vissuto, che
ha superato le mie forze, ha completamente consumato la forza vitale
spirituale e ha privato la persona di ogni attività. Il riposo in Dio, rispetto al
venir meno dell’attività per la mancanza di forza vitale, è qualcosa di
completamente nuovo e particolare. Il venir meno era caratterizzato da un
silenzio di morte, al suo posto si presenta ora un senso di sicurezza, della
liberazione da ogni preoccupazione e da ogni responsabilità e impegno ad
agire. […] Questo flusso vivente appare come l’afflusso di un’attività e di una
forza che non è mia e che diventa attiva in me senza alcuna mia richiesta 38
personale. L’unico presupposto per una tale rinascita spirituale è una
particolare capacità ricettiva come quella che si fonda sulla struttura della
30
persona che si è liberata dal meccanismo psichico.» L’esempio che la Stein
adopera per illuminare questo afflusso, si rifà alla relazione interpersonale: il
rapporto con persone che hanno un’intensa vitalità può esercitare un’azione
vitale su chi è stanco e non presuppone alcuna attività da parte del soggetto.
Siamo risospinti alle questioni centrali del saggio preso in considerazione: la
ricettività del soggetto richiede una struttura ontica non solo corporeo-
psichica, ma anche psichico-spirituale e un io che in sé è relazione.
Vogliamo mettere in evidenza, a conclusione della nostra lettura del
saggio della Stein, come saltino subito agli occhi quei termini, ad esempio
quello di angoscia, che ci rinviano ad altri autori; se un confronto può
31
senz’altro essere fatto e accompagnare la lettura , tuttavia il significato
proprio dell’analisi steiniana rimane immutato: ella si muove autonomamente,
in aderenza a ciò che vuole esaminare, così come si manifesta, ben sapendo
che anche altri hanno trattato le stesse questioni, ma che è l’appello
intrinseco alla cosa stessa che sollecita anzitutto la risposta di un pensatore
e che proprio per questo il suo cammino non si compie mai in solitudine.
1
E. STEIN, Die ontische Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische
Problematik in Welt und Person. Beitrag zum christlichen Wahrheitsstreben, Werke VI,
Editions Nauwelaerts - Verlag Herder, Louvain-Freiburg 1962; tr. it. di M. D’Ambra, La
struttura ontica della persona e la problematica della sua conoscenza in : E. STEIN,
Natura Persona Mistica – Per una ricerca cristiana della verità, a cura di A. Ales Bello,
ed. Città Nuova, Roma 1997.
2
E. STEIN, Potenz und Akt – Studien zu einer Philosophie des Seins, Werke XVIII,
Verlag Herder, Freiburg 1998, tr.it. Potenza e atto – Studi per una filosofia dell’essere
di A. Caputo, a cura di Hans Rainer Sepp, prefaz. di A. Ales Bello, ed. Città Nuova,
SAGGI
Roma 2003.
3
Si confronti la ricostruzione particolare di questo saggio di Edith Stein, il cui titolo
originale sarebbe “Natur, Freiheit und Gnade”, nello studio di Claudia Mariele Wulf:
“Rekonstruktion und Neudatierung einiger früher Werke Edith Steins” in: Beckmann
Beate / Gerl-Falkovitz, Hanna-Barbara (Hg.): Edith Stein. Themen, Bezüge,
Dokumente. Orbis phänomenologicus, Perspektiven 1,Verlag Königshausen §
Neumann, Würzburg 2003, S. 249-267.
4
Cfr. E. STEIN, Zum Problem der Einfühlung, Buchdruckerei des Waisenhauses, Halle
1917, S. 131-132; tr. it. Il problema dell’empatia, di E. e E. Costantini, prefaz. di A. Ales
Bello, Studium, Roma 1998², pp. 229-230.
5
E. STEIN, Briefe an Roman Ingarden 1917-1938, Werke XIV, Verlag Herder, Freiburg
1991, Br. 76 , S.139 ff., tr. it. Lettere a Roman Ingarden 1917-1931 di E. ed E.
Costantini, revisione di Anna Maria Pezzella, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2001, p.183 ss.
6
E. STEIN, Ebd., Br. 53, 10.10.1918, S.106 ff., tr. it. p. 132 ss.
Come testimonianza del cammino che portò la Stein ad occuparsi sempre più di 39
questioni religiose e del Cristianesimo in particolare, sono preziose anche quelle lettere
in cui ella parla del lascito di Adolf Reinach che, dopo la sua la morte, avvenuta nella
prima guerra mondiale, ha avuto l’incarico di riordinare. Non solo appare assai
significativa, proprio sotto il profilo religioso, la ripercussione nell’animo della Stein
della tragica morte dell’amico, ma anche il riferimento ad alcuni dei suoi ultimi scritti
riguardanti questioni di filosofia della religione, (si confronti Br. 27, 12.2.1918, S. 70 ff.,
p.78 ss. nella tr. it. citata).
7
Cfr. E. STEIN, Individuum und Gemeinschaft in Beiträge zur philosophischen
Begründung der Psychologie und der Geisteswissenschaften, in «Jahrbuch für
Philosophie und phänomenologische Forschung», V, Halle 1922; ristampa Max
Niemeyer Verlag, Tübingen 1970²; tr. it. Individuo e comunità in Psicologia e scienze
dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, di A. Maria Pezzella, Città Nuova,
Roma 1999².
8
Cfr. E. STEIN, Die ontische Struktur der Person…cit. , S. 140; tr. it. cit., p.55.
9
Ivi,, S. 169; tr. it., p. 84.
10
Ivi , S. 148-149; tr. it., pp. 64-65.
11
Ivi, S. 151-152; tr.it., p. 67.
12
Si tratta dei già citati Beiträge…
13
Ivi, S. 46; tr.it., p. 84.
14
E. STEIN, Die ontische…, S. 138 ; tr. it., p. 53.
15
Ivi, S. 159; tr. it., p.75.
16
Ivi, S. 155; p.70.
17
Ivi, S. 155; p. 71.
18
E. STEIN , Potenz und Akt cit., S. 139 ff. ; p. 212 ss.
19
ID., Die ontische… cit, S. 156; p. 72.
20
Ivi, si confronti S. 192; pp. 108-109
21
Ivi, S.161; p.77.
22
Si confronti a questo proposito, L. AVITABILE, Il ruolo della comunità nella vita sociale,
politica e religiosa in: A. ALES BELLO – A. MARIA PEZZELLA, Edith Stein. Comunità e
mondo della vita. Società Diritto Religione. Lateran University Press, Città del
Vaticano, 2008.
23
E. STEIN, Die ontische…, S. 162-163; tr. it., p.78.
24
Si confronti a questo proposito la lettera di Edith Stein a Roman Ingarden già citata,
tr. it. p. 184. E. STEIN, Eine Untersuchung über den Staat in Jahrbuch fürPhilosophie
und phänomenologische Forschung, vol. VII, Halle 1925. E’ stato ripubblicato insieme
al saggio Beiträge… cit. dall’editore M. Niemeyer, Tübingen 1970; tr. it. Una ricerca
sullo Stato di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1999².
25
A. REINACH, Die apriorischen Grundlagendes bürgerlichen Rechts in Gesammelten
Schriften, Halle, 1921, tr.it. I fondamenti a priori del diritto civile, di Daniela Falcioni,
Giuffrè Editore, Milano, 1990.
26
Si confronti Eine Untersuchung über den Staat cit., S. 102 ff. ; tr.it. p. 142 ss.
27
Cfr. E. STEIN, Die ontische…S. 167-168; tr. it. p. 83.
28
Ibidem.
29
Ivi, S. 171; tr.it. p.86-87.
30
Cfr. Beiträge… cit. S. 76; tr. it. pp.115-116.
31
Si ricorda che nello stesso vol. delle Opere della Stein in cui è stato pubblicato il
presente saggio, appare anche lo studio più importante dell’autrice su Heidegger: E. 40
STEIN, Martin Heideggers Existentialphilosophie in Welt und Person. Beitrag zum
christlichen Wahrheitsstreben, Werke VI, Editions Nauwelaerts-Verlag Herder,
Louvain-Freiburg 1962, S. 69-135; tr. it. La filosofia esistenziale di Martin Heidegger di
A. Maria Pezzella in La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana,
a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1993, pp. 153-226.
POLEMICA ED EREDITÀ PROBLEMATICA
DELL’IDEALISMO TEDESCO
NELLA FILOSOFIA DI LUDWIG FEUERBACH
di Francesco Clemente
SAGGI
accettare il dato di fatto, a testimonianza della sua natura articolata e per
nulla riducibile a formule precostituite, che essa è intimamente animata da
un’evoluzione concettuale, strutturata di fasi differenti, ognuna con una sua
peculiarità, pertanto esigenti chiavi di lettura specifiche al fine di delucidarne
le questioni salienti. Appare, a tal fine, doveroso estendere la valenza di
questa considerazione introduttiva anche per quanto concerne il confronto
che Feuerbach stesso ha instaurato con l’idealismo tedesco del XIX secolo,
cercando di contribuire a dissolvere un’immagine storiografica, fin troppo
abusata, di netta cesura polemica fra Feuerbach e le massime sintesi
teoriche di questa filosofia, conseguenza ovvia di certe vulgate
ermeneutiche, eccessivamente dimentiche della gradualità dei passaggi,
delle trasformazioni concettuali, anche e soprattutto tipiche di quei filosofi
vittime, loro malgrado, per diversi motivi e a prescindere dai loro stessi
intendimenti, di facili ed esiziali etichettature. 41
Da qui la forte esigenza, innanzitutto, di ripercorrere la linea
evolutiva del pensiero di Feurbach in merito ai suoi giudizi espressi su Hegel
e su Fichte, constatando l’iniziale ammirazione per l’idealismo, seguita da
una critica centrata soprattutto su Hegel, culminante in una personale
elaborazione categoriale del “Gattung”, fino all’ultima fase in cui si evince con
una certa chiarezza la radicalizzazione della critica all’idealismo nei termini di
un’accentuata enfatizzazione materialistica. L’esclusione di una trattazione
specifica della critica feurbachiana a Schelling trova la sua giustificazione nei
contorni piuttosto definiti di tale critica, pertanto, non appare suscettibile di
successivi chiarimenti bensì di una succinta ricostruzione. La critica a
Schelling prende corpo intorno al 1830, in particolare, è la prospettiva della
filosofia positiva a costituire il bersaglio polemico di Feuerbach, che contesta
la possibilità di conciliare cristianesimo, filosofia e scienza.
La radicalizzazione di questa polemica inizia intorno al 1838, in
occasione della pubblicazione del Boyle, all’epoca della collaborazione con
Ruge e Echtermeyer e assume una certa articolazione argomentativa nel X
capitolo de L’Essenza del Cristianesimo, in cui Schelling è accostato a
Bohme, essendo considerato l’artefice di una bislacca teoria
teocosmogonica, in cui da Dio, puro spirito e luminosa autocoscienza, si
deduce la natura, che è al contrario, confusa, oscura, priva di ordine,
giustificando tale derivazione con l’assunzione l’esistenza di un elemento
impuro in Dio stesso. L’esplicito riferimento è quello concernente le
schellinghiane Ricerche sull’essenza della libertà. In secondo luogo,
all’interno di questa ricostruzione far emergere il più possibile quali aspetti
della filosofia di Feurbach sono stati espressamente finalizzati al confronto e
alle polemiche con Hegel e con Fichte. Il difficile punto di partenza è: Che
cosa intende Feuerbach per idealismo? Per avere un quadro dell’evoluzione
di giudizio che Feuerbach ha compiuto dell’idealismo tedesco è opportuno
considerare in prima battuta il De Communitate, Infinitate, Unitate atque
rationis, lo scritto del 1828 con cui il filosofo consegue il diploma in filosofia
all’università di Erlagen. L’interesse dell’opera consiste nella polemica con la
filosofia critica poiché “l’impulso alla conoscenza infinita dimostra la necessità
e la possibilità di conoscere l’assoluto contro la filosofia critica, così come la
forza di gravità dimostra la sua esistenza attraverso la propria capacità
1
astrattiva”. Più specificatamente la polemica con il criticismo è incardinata
sul rifiuto dell’ipotesi di stabilire la limitatezza della ragione, poiché non si può
percepire un limite che non sia pensabile, per cui “la dissertazione conclude
affermando che l’impossibilità della ragione possa essere intesa in qualche
2
modo come limitata”. In questa cornice teorica spicca il giudizio sulla filosofia
fichtiana. Fichte è additato come filosofo di profonda originalità, l’artefice di
un’autentica impronta idealistica in ambito speculativo, il “Messia della 42
3
ragione speculativa”, il “Genio idealistico” , promotore di soluzioni reali per il
4
superamento della “contrapposizione fra soggetto e oggetto” , riuscendo a
svecchiare l’immagine stessa della speculazione attraverso l’idea del
pensiero in termini di fungenza e attività. Al contrario l’osservazione per cui
“l’Ascheri e il Cesa hanno fatto notare come la prospettiva della
dissertazione, con la condanna del finito e del sensibile, sia stata
successivamente rovesciata nella concezione antropologica a tinte
5
naturalistiche degli anni maturi” , sembra suggerire l’ipotesi che i giudizi di
Feuerbach sull’idealismo risentano di un’evoluzione, che costituisce di fatto
un indicatore dei mutamenti concettuali all’interno della stessa filosofia
feuerbachiana. L’incidenza dell’apparato concettuale hegeliano sulla filosofia
genetico - critica, anche nelle sue fasi intermedie di sviluppo, è tangibile nel
momento in cui è sufficiente riferirsi alla nota categoria del “Gattung” di
matrice hegeliana.
La formulazione feurbachiana della categoria di “genere” matura
grazie agli apporti della Fenomenologia dello Spirito, della Scienza della
Logica, e dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio,
assumendo probabilmente una dignità razionale neanche rinvenibile in Hegel
stesso. Tuttavia in tale ripresa emerge il ruolo influente dell’ermeneutica
religiosa di Strass, che avrebbe consentito a Feuerbach di conferire a questa
categoria una curvatura spiccatamente antropologica: “L’interpretazione
cristologia di Strass aveva infatti ripreso tale termine hegeliano, interpretando
die Idee der Gattung come sinonimo di Menscheit, prosegue lo sforzo di
‘realizzare’ l’hegelismo, di tradurre cioè in chiave antropologica la filosofia
6
hegeliana.”
L’enfatizzazione della categoria del “Gattung” non è il mero residuo
concettuale della lezione appresa da un allievo da un suo maestro, perché
SAGGI
essa è funzionale all’instaurazione della strategia di della riappropriazione di
quell’umanità andata smarrita nei fumi alienanti della religione. Il “Gattung” è
lo scrigno categoriale che custodisce in sé quell’essenza infinita, ma di
natura umana, che l’aberrazione proiettiva ha relegato oltre l’umano. Esso è
“quell’al di qua” che costituisce il tesoro perduto dell’uomo.
A dimostrazione della rilevanza di tale categoria, non è casuale che
anche gli ultimi approdi della Feuerbach-forschung abbiano riaffermato la
portata filosofica della critica feurbachiana alla filosofia hegeliana in termini
rielaborativi, poiché il riconoscimento che la “filosofia di Hegel è costruita in
modo sbagliato” anticiperebbe una più matura “visione antropologica e
materialistica” e che pertanto, le stesse celebri ricerche feuerbachiane sul
7
fenomeno religioso anticiperebbero la “riforma della filosofia” . La rottura che
Feuerbach ha compiuto con la filosofia hegeliana è espressamente sancita
per la prima volta, nello scritto del 1839 intitolato Per la critica della filosofia 43
hegeliana, in un processo di accentuazione della dimensione empirica a
svantaggio di quella astrattamente speculativa. Si avverte, così, l’esigenza di
ricordare all’uomo fedele alla speculazione astratta, eccessivamente incline
ad avallare la pretesa tutta teoreticistica di aggirare i vincoli della realtà. È
questo lo spirito che anima lo scritto Per la critica della filosofia hegeliana,
non trascurando la specificità della prospettiva hegeliana, nella sua aperta
divaricazione con quella schellinghiana. La filosofia speculativa tedesca, così
distante dalla saggezza salomonica, è inequivocabilmente identificata con
l’idealismo di Hegel, che, a sua volta, si oppone all’orientalismo di Schelling,
secondo uno schema di contrapposizione concettuale riassumibile nella
dicotomia fra filosofia dell’identità e filosofia della differenza: “La filosofia
speculativa tedesca costituisce la diretta antitesi dell’antica saggezza
salomonica. Mentre quest’ultima non vede nulla di nuovo sotto il sole,quella
vede soltanto del nuovo; mentre l’uomo dell’oriente perde di vista, per l’unità,
la differenza, l’uomo dell’Occidente dimentica, per la differenza, l’unità;
mentre il primo spinge la sua indifferenza per l’eterna uniformità sino
all’apatia della stupidità, il secondo esalta la sua sensibilità per l’alterità e la
diversità sino all’ardore febbrile della imaginatio luxurians. E quando io dico:
la filosofia speculativa tedesca, intendo, in specie […] quella hegeliana;
perché la filosofia di Schelling fu, a voler essere precisi, una pianta esotica -
la vecchia identità orientale su suolo germanico -per cui la propensione della
scuola schellinghiana per l’Oriente è un tratto carattersistico essenziale di
essa, mentre al contrario la propensione per l’Occidente e la svalutazione
dell’Oriente è un segno distintivo specifico della scuola hegeliana. Di contro
all’orientalismo della filosofia dell’identità l’elemento caratteristico di Hegel è
8
quello della differenza.”
Nell’illustrazione del metodo hegeliano Feuerbach osserva che esso
è solo pretenziosamente orientato a riprodurre il corso naturale,ma in realtà
l’elemento fondamentale è la circolarità, che ne rappresenta la cifra, nonché il
motivo di superiorità rispetto alla filosofia di Fichte: “Per sistema si intende un
cerchio chiuso in se stesso, ciò che non continua, in linea retta, sino
all’infinito, ma , alla fine, torna al suo inizio. La filosofia hegeliana è anche, di
fatto, il sistema più compiuto che ci sia mai stato. Hegel ha fatto davvero ciò
che Fichte voleva ma non riuscì a fare, perché Fichte conclude soltanto con
9
un dover-essere, e non con una fina identica all’inizio.”
L’elemento caratteristico della logica filosofica di Hegel è
argomentato in stretta relazione con la tradizione filosofica moderna,
individuando come comun denominatore, la rottura, il divorzio dalla
dimensione della sensibilità: “Alla filosofia hegeliana può quindi essere rivolta
la stressa critica che investe tutta la filosofia moderna, a partire da Cartesio e
da Spinoza: di aver operato una insanabile rottura con l’intuizione sensibile di 44
10
aver immediatamente presupposto la filosofia.”
Nell'ambito di queste considerazioni Feurbach non accetta la replica
che farebbe valere il carattere fondamentalmente propedeutico della
Fenomenologia dello Spirito sulla Scienza della logica, perché se è vero che
la Logica ha la Fenomenologia dietro di sé, è anche vero che la realtà
effettuale, che rappresenta il contrario dell’essere logico gode di una sua
ineliminabile indipendenza. Piuttosto, è proprio la Fenomenologia a essere
vagliata criticamente, soprattutto nelle parti che accamperebbero la legittimità
di spiegare, in chiave schiettamente dialettico-idealistica, il passaggio dalla
certezza sensibile alla percezione, all’intelletto e così via, ovvero di tutto quel
pacchetto di argomentazioni hegeliane che pone al centro dell’indagine il
superamento progressivo dello stadio della conoscenza sensibile, e che si
risolve nell’esito finale di includere l’oggetto nel soggetto. Secondo Feurbach
le argomentazioni hegeliane in tal senso, non rivelando neanche una certa
originalità dimostrativa, non riuscirebbero a dimostrare quell’universalità che
si pretenderebbe di aver raggiunto. Il nucleo della polemica è il tentativo
hegeliano di mostrare che nel momento fenomenologico della coscienza
sensibile il particolare, che si mostra come verità, in realtà è
autocontraddittorio perché per comprendere il particolare bisogna passare
all’universale. Secondo Hegel, infatti, la certezza sensibile crede che sia vero
il “qui” spazialmente determinato e l’ “ora” temporalmente specificato. Ma, in
realtà, il ‘qui’ indicato come verità dalla certezza sensibile è tale solo
presupponendo un “qui” universale che non è più particolare. Dicendo: il “qui”
è l’albero che vedo si pensa di affermare una verità; ma un altro vede una
casa più lontana è afferma che il “qui” non è l’albero bensì la casa. Il capitolo
vorrebbe dimostrare che l’essere sensibile e individuale è invece universale:
“Per la coscienza sensibile il primo capitolo della Fenomenologia non è
SAGGI
quindi altro che l’argomento fritto e rifritto di Stilpone di Megera, -che qui però
è rivolto nella direzione opposta -;non è altro che un gioco di parole che il
pensiero-già ben certo di essere la verità-vuole imporre alla coscienza
11
naturale.”
L’obiettivo della critica feurbachiana è il ruolo giocato dall’universalità
del linguaggio nell’argomentazione hegeliana. Non è un caso che la
trattazione fenomenologia sia incardinata sul riconoscimento dell’indicibilità
dell’individuale e sul fatto che l’universale espresso dal linguaggio, è, in
ultima analisi, la verità della certezza sensibile: “Il primo capitolo ha come
contenuto: La certezza sensibile, o il questo e l’opinione. Esso indica il grado
della coscienza in cui questa considera come l’essere vero e reale e l’essere
sensibile e individuale, che però più tardi, con un cammino sotterraneo, si
dimostra come un essere universale. ‘Il questo è un albero’; ma io vado oltre
e dico: ‘il questo è una casa’. La prima verità si è dileguata. ‘L’ora è notte’; 45
ma non dura a lungo, ed eccomi a dire ‘L’ora è giorno’. La prima pretesa
verità è ora diventata ‘stantia’. L'ora si dimostra dunque come un ora
universale, come un molteplice sensibile (negativo). E lo stesso accade con il
qui. Anche il qui non dilegua, ma è costantemente nel dileguare della casa,
dell’albero, ecc. e gli è indifferente di essere casa o albero. Di nuovo, il
‘questo’ si mostra dunque come semplicità mediata o come universalità.
L’individuale che noi opiniamo nella certezza sensibile, non può quindi
nemmeno essere espresso da noi. ‘Il più verace è il linguaggio: in esso
confutiamo immediatamente perfino la nostra opinione; e poiché l’universale
è il vero della certezza sensibile, e il linguaggio esprime solo questo, così è
12
escluso che si possa dire quell’essere sensibile che noi opiniamo”.
Feuerbach rigetta quest' argomentazione evidenziando che il ‘qui’ e
l’‘ora’ della certezza sensibile non possono mai essere universali, ma sono
sempre di valenza singolare. Secondo la critica che egli conduce, Hegel
confuterebbe non il ‘qui’ oggetto della conoscenza sensibile, bensì il ‘qui’
logico. In questo senso per Feurbach la fenomenologia si scopre essere, in
definitiva, logica fenomenologia: “Il qui fenomenologico non si differenzia in
nulla da un altro qui che io fisso; esso si mostra quindi anche come un qui
universale, perché di fatto è già un universale; ma il qui reale è distinto, e
proprio in un modo reale, da un altro qui: è un qui esclusivo. ‘Per es. il qui è
l’albero. Io mi volto, e questa verità è dileguata’. Si sarà dileguata nella
Fenomenologia, dove voltarsi costa soltanto una parolina; ma nella realtà,
nella quale io devo fare una conversione al mio corpo pesante, il qui, anche
se dietro le mie spalle, mi si mostra come un’esistenza assai reale. L’albero
limita le mie spalle; mi'impedisce di essere nel luogo che esso già occupa.
Hegel confuta non il qui che è oggetto della coscienza sensibile, e che noi
consideriamo oggetto differenziandolo dal puro pensare, ma il qui logico, lo
ora logico […]. La fenomenologia non è altro che la logica fenomenologia.
Solo da questa prospettiva si può scusare il capitolo sulla certezza
13
sensibile.”
Nel rifiuto del ragionamento hegeliano gioca con una certa evidenza
un certo ruolo lo scarto, la differenza sussistente fra la realtà sensibilmente
avvertibile e l’astrattezza abilmente azionata nella dimensione linguistica.
Feuerbach mantiene saldo lo iato incolmabile fra la dimensione del pensiero
e quella dell’essere, ricalcata su quella esistente fra il piano logico e quello
ontologico. D’altronde è già nelle prime battute dello scritto che si evince in
forma stringata un giudizio complessivo sul pensiero di Hegel, identificato
come filosofia dell’”idea presupposta”, laddove l’unica filosofia che parte
senza presupposti è quella capace di mettere in discussione se stessa. In
questo senso è evidente la sintonia fra Hegel e le filosofie moderne che
hanno presupposto come “verità la loro filosofia”. Emerge, così, abbastanza 46
nettamente la configurazione del rapporto fra la filosofia hegeliana e la
filosofia genetico-critica. La prospettiva genetico-critica non si risolve in esiti
dimostrativi, né in approdi concettuali inamovibilmente dogmatici, bensì
nell’intenzione di distinguere nettamente fra ambito soggettivo e ambito
oggettivo. Ne consegue che la filosofia genetico-critica sta a quella
dell’assoluto come la concezione puramente naturalistica della natura sta a
quella puramente teologica della stessa: “Filosofia genetico-critica non è
quella che dimostra o comprende dogmaticamente un oggetto dato
attraverso la rappresentazione-per gli oggetti meramente reali, dati
immediatamente, cioè attraverso la natura, è perfettamente valido ciò che
Hegel dice - ma quella che ricava l’origine di esso, che pone in discussione
se l’oggetto sia reale o soltanto una rappresentazione, o in generale un
fenomeno psicologico, quella che, insomma,distingue nel modo più rigoroso
tra il soggettivo e l’oggettivo […] per chiarire con un paragone il rapporto che
c’è tra lei e la filosofia assoluta […]. Si può dire che essa sta alla seconda
come la concezione puramente fisica o naturalistica sta alla concezione
14
teologica della natura.”
Alla “mistica razionale”, come è in via definitiva etichettata la filosofia
hegeliana, alla teo-filosofia, Feurbach oppone la filosofia concepita
espressamente come scienza della natura. La natura, pertanto, si studia
nella sua naturalità, rifuggendo le fantasticherie della filosofia speculativa: “La
filosofia è la scienza della realtà nella sua verità e totalità; ma la sostanza
della realtà è la natura (nel senso più universale del termine). I segreti più
reconditi sono contenuti nelle più semplici cose naturali, quelle che calpesta il
filosofo speculativo che brama fantasticamente un aldilà. L’unica fonte di
15
salvezza è il ritorno alla natura.”
Anche nei Frammenti per il mio curriculum filosofico campeggia in
SAGGI
maniera rilevante la critica ad Hegel. Nel frammento intitolato Lezioni di
logica e metafisica tenute ad Erlagen (sit venia verbo!) (1829-1831-1832),
Feurbach concepisce la logica come metafisica in quanto risultato necessario
della stessa storia della filosofia, ribadendo il suo rifiuto della definizione
hegeliana come filosofia assoluta, ultima e suprema: “Signori! Voglio parlarvi
di logica, ma non nel modo con cui essa viene comunemente insegnata,
benché, per completezza, debba esporvi anche questa, sia pure da un punto
di vista storico; voglio parlarvi della teoria del pensare come teoria della
conoscenza, come metafisica […] come Hegel l’ha intesa e l’ha esposta, […]
ma insieme non ne parlo come Hegel dandole il significato di filosofia
assoluta, ultima e suprema, ma soltanto nel significato di organo della
16
filosofia.”
Nel frammento intitolato Dubbio del 1827-1828, Feuerbach affronta
Uno dei problemi eterni della filosofia: il tipo di relazione che intercorre fra 47
pensiero ed essere, fra logica e natura all’interno della costruzione teorica
hegeliana. Negando la possibilità di un passaggio fra pensiero ed essere,
Feuerbach evidenzia che la logica, per se stessa, si rivela autoreferenziale e
tautologica, di conseguenza non è diretta a una conoscenza diversa da
quella che ha di se stessa, non può dunque conoscere o far conoscere la
natura: “Che rapporto c’è tra pensiero ed essere, tra logica e natura? È
fondato il passaggio dal primo al secondo termine? Dov’è la necessità, dov’è
il principio di questo passaggio […] la logica da se stessa, non sa altro che se
stessa, il pensare[…]. Se non ci fosse una natura, la logica, vergine
17
immacolata, non sarebbe in grado di generarne una, mai e poi mai.”
Una riflessione, quest’ultima, che si riallaccia all’Essenza del
cristianesimo dove si evince una critica che riteniamo di un certo rilievo,
anche storiografico, per quella che costituisce una rivalutazione di riflesso, se
non proprio occasionale, di Kant, al cui trascendentalismo Feuerbach non
aveva risparmiato riserve. Nel contesto argomentativo del XX capitolo
dell’opera, in cui si affronta il tema dell’esistenza di Dio, con l’intenzione di
farne emergere le contraddizioni, Feurbach nota che lo scopo ultimo di
dimostrare Dio è quello di esteriorizzare l’interiorità dell’uomo. Dio diviene
sensibile. Limitatamente a questa circostanza Feuerbach dimostra di
rivalutare Kant su Hegel, compiendo un’eccezione anche verso se stesso,
verso le sue stesse riserve intellettuali verso il trascendentalismo kantiano,
poiché dimostra di condividerne la soluzione dell’indeducibilità dell’esistenza
di Dio dalla sua mera pensabilità logica, secondo quanto lo stesso Kant si è
premurato di argomentare nei celebri passi di cui si compone la dialettica
trascendentale, quelli appunto incardinati sulla trattazione della reale portata
gnoseologica da riconoscere alla teologia razionale, così pregna della
tradizionale prova ontologica anselmiana, che tenta la legittimazione del
passaggio dalla sfera logica a quella ontologica: “Com’è noto, Kant, nella sua
critica delle prove sull’esistenza di Dio, ha affermato che l’esistenza di Dio
non si può provare con la ragione. Kant perciò non meritava il biasimo che
ricevette da Hegel. Kant, invece, ha completamente ragione: da un concetto
io non posso dedurre l’esistenza […]. La ragione non può fare a meno di un
18
suo oggetto dei sensi.”
La fecondità del tema del “Gattung” in Feurbach deve essere notata
non solo nell’originale e personale riformulazione della categoria di “Genere”,
bensì nelle implicazioni non sempre lineari, e quindi problematiche, che esso
stesso pone. Nell’assunzione che la riduzione della filosofia di Feuerbach
risponde, in via definitiva, all’esigenza di cogliere i fondamenti reali dell’uomo,
le fondamenta del suo essere sensibile e concreto, non si può certo negare
che il tema della “soggettività”, in quest’ottica di privilegiamento della
categoria di “genere”, si complessifichi, per cui si apre un duplice problema: 48
“1) Si mostra che il discorso dell’essenza del genere dell’uomo presuppone
l’accettazione della presenza della comunità nella realtà. Quindi Feurbach
insiste sul fatto che […]” l’universale spetti al singolo ‘come unità di pensiero,
che ha luogo nella rappresentazione, ma non esiste nella realtà o che vi
partecipa’. 2) D’altro canto è concesso di aver chiarito che Feuerbach in
alcun modo vi rinuncia a parlare di universalità, rapporti reali, […] a parlare
19
della sensibilità.”
In altre parole ne L’Essenza del cristianesimo emergerebbe una
dialettica problematica fra ‘genere’ e ‘singolo’, fra ‘universale’ e ‘particolare’,
schiudendo un’aporia piuttosto difficile, che in termini classici si annuncia
come il ‘problema dell’individuazione’. Se e solo se il ‘Gattung’ costituisce
l’essenza dell’uomo, ovvero l’universale in cui però i singoli trovano un solido
radicamento ontologico, rimane il fatto che fra la dimensione originaria e
quella secondaria sussiste sempre una distanza, un solco differenziale. Non
è un caso, né tanto meno secondario il fatto che tale differenza emerga nella
circostanza della riflessione sui limiti umani, che non devono essere riferiti
all’uomo universale, ma sempre e comunque al singolo uomo: “Ogni
limitazione della ragione o dell’essenza dell’uomo in generale si basa su un
inganno, su un errore. Certamente, l’individuo umano può, e addirittura deve
sentire e conoscere se stesso come limitato - e in ciò consiste la sua
differenza dall’animale. Può, però, prendere coscienza dei suoi limiti, della
sua finitezza, soltanto perché la perfezione, l’infinità del genere gli è oggetto,
indipendentemente dal fatto che sia oggetto del sentimento, o della
coscienza morale, o della coscienza pensante. Se, tuttavia, fa dei suoi limiti i
limiti del genere umano, ciò è dovuto all’inganno di sentirsi una cosa sola con
il genere - un inganno che è intimamente connesso con l’indolenza, la
pigrizia, la vanità e l’egoismo dell’individuo. Infatti, un limite che conosco
SAGGI
come limite esclusivamente mio, mi umilia, mi fa vergogna e mi rende
inquieto. Perciò per liberarmi da questo senso di vergogna, da questa
inquietudine, trasformo i limiti della mia individualità in limiti dell’essenza
20
umana stessa.”
Mentre ne L’Essenza del Cristianesimo il problema rimarrebbe
aperto, nei Principi della filosofia dell’avvenire, troverebbe una chiara
soluzione poiché con “‘genere’ Feuerbach intende non qualcosa di astratto
ma una concreta realizzazione dell’essere-uomo negli individui […]. ‘Gattung’
non è un concetto diventato illusione o un’astrazione della realtà, ma la
21
concreta realtà dell’universale.” Nonostante questa precisazione, tuttavia è
difficile non notare che l’universalità del genere umano rimane distante dalle
sue individuali e singole realizzazioni, quasi un’ipostasi che mostra tutta la
sua divaricazione con gli uomini concreti. Proprio il recupero della
concretezza segna il confronto con l’idealismo di Fichte. In Spiritualismo e 49
22
materialismo Feuerbach radicalizza , com’è noto, la critica all’idealismo,
rivolgendo la polemica non solo verso Hegel ma anche e soprattutto verso
Fichte. Certamente Feuerbach dimostra che non gli sfugge l’ impostazione
teorica dell’idealismo, per cui non vi è un aprioristico rifiuto della ragion
d’essere del soggetto, assumendo così dell’ idealismo l’istanza di partire dal
soggetto, dall’io, dato che l’essenza del mondo dipende evidentemente solo
dalla mia soggettività; piuttosto egli contesta la pretesa dell’attività nullificante
dell’io che tenderebbe a neutralizzare dell’esteriorità. Alla pretesa di
inghiottire astrattamente nell’io il “tu” oggettuale, Feuerbach oppone una
concezione correlativa del polo soggettivo e di quello oggettivo, nella ferma
convinzione che l’io che toglie l’esistenza delle cose sensibili, non ha esso
stesso alcuna esistenza, è un io soltanto pensato e non reale. L’io reale è
soltanto quello a cui si contrappone un tu, un oggetto. Nell’ottica idealistica
non esisterebbe nessun tu, come non esiste nessun oggetto in generale. Al
trascendentalismo idealistico e alla sua arzigogolata operazione
soggettivistica di dissoluzione dell’oggetto si oppone la fedeltà alla realtà
esterna, all’umana, ineliminabile dipendenza da essa, rifiutandone
l’assunzione di fondo circa la modalità dell’indagine della realtà esterna, del
mondo, che nell’ottica idealistica si risolverebbe ad una mera faccenda di
ordine teorico. Tuttavia il mondo e tutti gli enti che lo compongono, prima di
configurarsi come oggetto del conoscere, quindi della speculazione teoretica,
costituiscono un oggetto del volere, cioè rientra originariamente nella sfera
pratica. Alla visione freddamente teoreticistica del mondo se ne oppone una
passionalmente volontaristica, nel suo slancio appropriativi dell’oggetto. Per
sostenere questa tesi Feuerbach insiste sul potere del desiderio, sul potere di
spinta appropriativa verso gli oggetti del mondo, rivelativi della fungenza della
volontà, ma anche della costitutiva dipendenza del soggetto dagli oggetti
esterni: “Il difetto fondamentale dell’idealismo è appunto questo, che esso si
pone e risolve la questione della oggettività e della soggettività. Della realtà o
dell’irrealtà del mondo solo da un punto di vista teorico, laddove invece il
mondo originariamente, da principio, è oggetto dell’intelletto solo perché è
oggetto del volere, della volontà di essere e di avere […]. Comunque, la
potenza del desiderio con cui mi approprio dell’oggetto, e lo consumo, non è
forse insieme un’espressione del potere che esso esercita sopra di me, della
mia dipendenza da lui? Non è forse un’espressione del fatto che esso mi è
indispensabile ed essenziale, che io vivo e sussisto soltanto mercé sua […],
in un rapporto non esclusivamente negativo, ma anche positivo, non solo di
23
dominio, ma anche di soggezione e di doverosa riconoscenza.”
Tutto ciò costituisce la necessaria premessa a tutta la costruzione
fichtiana di marca intellettualistica di derivazione, deduzione, dell’oggetto dal
soggetto: “Io sono e penso, anzi sento solo in quanto ‘soggetto-oggetto’, ma 50
non nel senso identico - o analitico, per usare l’espressione kantiana - di
Fichte, per cui, il pensante e il pensato sono una cosa sola con l’oggetto,
bensì nel senso per cui l’uomo, o la donna, è un concetto sintetico, difatti io
non posso sentirmi e pensarmi come uomo o come donna senza
oltrepassare me stesso, senza collegare al sentimento o al concetto di me
24
stesso il concetto di un altro essere diverso, ma insieme analogo a me.”
Già nell’ottica ermeneutica di Schmidt è stato evidenziata il fatto che
la potenzialità filosofica di Feuerbach risiede in primo luogo nello sviluppo in
chiave anti-idealistica dell’astrattismo gnoseologico, che ha affettato la
filosofia occidentale, dalla modernità fino ad Hegel. Il rifiuto della deducibilità
del mondo dalla dimensione tautologica dell’Io (Io=Io), nel ribadire
l’impossibilità di una soggettività chiusa in se stessa, si articola in via
definitiva in una gnoseologia definibile come “esistenzialismo della
corporeità”, in cui si sostanzia “una triplicità di elementi che sono soggettività,
25
corpo e mondo che formano un’unità concreta” . La contrapposizione a
Fichte trova nutrimento nella divergenza che Feurbach dimostra di avere
circa la considerazione assai differente della vera, autentica natura da
riconoscere all’io. In tal senso, assume rilevanza l’insieme di riflessioni
feurbachiane espresse nel recensire uno scritto del fichtiano J.F. Reiff,
sostanziatesi nel rigetto “di ogni posizione trascendentalista mettendo con
26
chiarezza l’accento sulla corporeità dell’io” . Alla posizione di Reiff Feurbach
oppone l’ineludibile apporto della dimensione empirica nel rinvenimento
dell’oggetto di conoscenza,giungendo a scorgere nel sodalizio fra riflessione
ed esperienza il terreno da cui emerge lo spirito: “Reiff poneva la differenza
essenziale tra la filosofia e le scienze nell’essere la filosofia - a differenza
delle seconde - priva di presupposti e di un oggetto determinato. A questo
Feurbach opponeva che l’oggetto sensibile come oggetto di scienza non è
SAGGI
precostituito, ma è trovato nell’empiria; quindi non è un prius per le scienze, è
un posterius. D’altro canto merito della filosofia moderna è di aver riunificato
‘l’attività empirica’ con ‘l’attività pensante’ […]. In questa fusione di empiria-
filosofia, sensi-pensiero, l’empiria e i sensi appaiono come ciò da cui deve
scaturire poi il pensiero, lo ‘spirito’. È quindi dai sensi, dalla corporeità che
27
nasce lo spirito.”
Alla divergenza di vedute sulla vera natura dell’io si aggiungono le
riserve all’indirizzo delle specifiche soluzioni argomentative fichtiane volte a
fornire una spiegazione esauriente della ricettività, della passività dell’io, dello
stesso molteplice sensibile, della natura stessa, in definitiva a tutto quel
pacchetto di questioni attinenti al processo di deduzione che Fichte
concepisce per delucidare la derivazione dell’io empirico dall’Io assoluto,
nella fase in cui è il non-io ad agire sull’io. Sotto accusa è la nota
considerazione fichtiana secondo cui la stessa passività dell’io è, in realtà, un 51
aspetto particolare della stessa attività, nel senso che nella passività l’io non
è soggiacente a qualcosa che patisce, ma il patire stesso rientra nell’essere
attivo dell’io, per cui Feurbach sostiene, di contro, che la passività dell’io
rivela l’attività dell’oggetto.
Facendo valere la forza propria dell’oggetto sul soggetto,
enfatizzandone il potere vincolante sull’io, Feuerbach dimostra non solo di
approdare ad una sorta di realismo gnoseologico, ma appare suggerire una
prospettiva più ampia in cui l’io corporeo è il canale diretto e privilegiato ai fini
dell’instaurazione del rapporto con la dimensione mondana, nei termini della
maturazione di “una sorta di concezione ‘esistenziale’ del corpo, che
trascende ogni significato puramente conoscitivo per porsi come illimitata
28
apertura al mondo da parte della soggettività.”
La riconfigurazione concettuale feurbachiana operata sull’io, così
distante dal conferimento di un’assolutezza che gli consentirebbe uno
svincolo totale dall’umiliazione dei limiti impostigli dal mondo, bensì, al
contrario, concepita in termini di uno strutturale radicamento corporeo, nella
consapevolezza della non esauribilità della questione dell’io in termini
teoricamente gnoseologistici, quindi della necessità di un’integrazione della
dimensione umana dei bisogni e dei desideri, conosce come esito finale
anche un serio ripensamento dei tradizionali rapporti circa il riconoscimento
della priorità da stabilirsi fra processo razionale ed eruttività istintuale, per cui
si ribalta tale consolidata gerarchia, anteponendo l’originarietà dell’istinto
sullo stesso processo e sulla stessa attività razionale: “Forse che la luce non
è anch’essa un oggetto di desiderio e di piacere per l’occhio, e quel che è
toccabile non è un oggetto di piacere e di desiderio per il tatto?
E la mano è forse per noi soltanto ‘l’invitante compagna di dolci
galanterie’ nei confronti dell’altro sesso? Non accarezziamo con piacere
animali, cani, gatti, cavalli e persino oggetti inanimati esterni a noi? Il
bambino non vuole forse ciò che vede? Per lui l’oggetto dell’occhio idealistico
29
non è insieme anche oggetto della cupidigia realistica o materialistica?”
Emerge con una certa evidenza che le critiche dell’ultimo Feuerbach
alla filosofia fichtiana sono dichiaratamente funzionali ad un recupero della
dignità esistenziale dell’esteriorità, cioè della realtà, dell’oggettività-mondo,
unitamente e conseguentemente ad una riconosciuta centralità filosofica del
ruolo gnoseologico, e non solo, riconosciuto alla corporeità, ma anche alla
sensibilità in generale, quale canale principale di accesso al mondo,
rivalutando così tutta la sfera dei bisogni e dei desideri dell’uomo
singolarmente e concretamente inteso.
La portata di quest' approdo feurbachiano la si comprende appieno
se si considera l’osservazione effettuata in sede critica, secondo la quale
proprio “la ricezione della filosofia della sensibilità di Feuerbach” da parte del 52
giovane Marx abbia contribuito alla elaborazione di una visione politica sui
“Sistemi dei bisogni” combinata con un “processo di assimilazione della
30
filsofia di Hegel”.
Diversamente nel confronto con Hegel, al di là della tesaurizzazione
della categoria del “Gattung”, si può riconoscere la cifra polemica di
Feuerbach nella valutazione che ne ha fatto Pareyson nei suoi celebri Studi
sull’esistenzialismo, in cui, in ultima analisi, il filosofo della risoluzione della
teologia in antropologia è accomunato a Kierkegaard, riconoscendogli il
merito di aver espresso una filosofia per un verso emergente dallo
sfaldamento dell’hegelismo, per un altro verso sviluppo e implicazione dello
stesso idealismo assoluto: “Kierkegaard e Feuerbach hanno dunque svolto
dall’hegelismo due possibilità tipiche in esso implicite: il finito di fronte
all’infinito e il finito come infinito; l’uomo davanti a Dio e l’uomo-Dio; la
soggettività della verità e l’umanizzazione di Dio; il teismo e l’ateismo, il
31
teandrismo e l’umanismo.”
In conclusione, senza la tentazione della non rivedibilità
ermeneutica, il confronto feuerbachiano con le filosofie di Hegel e di Fichte
traccia due direzioni di pensiero, che, differenziandosi, in realtà si
completano, strutturando così una linea concettuale coerente e organica. Da
un lato, infatti, la ripresa della categoria hegeliana del “Gattung”, come si è
cercato di evidenziare, sfocia nel riconoscimento cioè del riconoscimento
dell’infinitudine del genere umano, che si complica nel quadro della
concepibilità dei rapporti fra l’Uomo e gli uomini, fra Universale e particolare,
tema su cui Leonardo Casini ha ribadito le sue perplessità circa l’esito reale
della filosofia feurbachiana nel suo sforzo di conferire al “gattung” una
32
“concreta realizzazione” .
Dall’altro, la polemica sviluppata all’indirizzo di Fichte sviluppa
SAGGI
potentemente l’esigenza del recupero della concretezza umana dentro la
cornice di una visione sensistica e corporea, testualmente tangibile
nell’evoluzione della sua filosofia, che appare suggerire la tacita concezione
di una sorta di umanesimo della finitudine, una vera e propria ≪negazione di
un entusiastico antropocentrismo, che svincola l’uomo dalla natura e dalle
33
vicissitudini della storia del mondo≫ , ma che, al contrario, considera le
limitazioni e i patimenti a cui è costitutivamente esposto.
53
1
L. CASINI, Storia e umanesimo in Feuerbach, Il Mulino, Bologna 1974, p. 374.
2
Ivi, p. 38.
3
J. MADER, Fichte Feuerbach Marx, Leib dialog Gesellschaft, Verlag Herrder, Wien
1968, p. 93.
4
L. CASINI, op. cit., p. 40.
5
Iibidem.
6
U. PERONE, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Torino 1972, p.
147.
7
J. GRANDT, Ludwig Feuerbach und Die Welt des Glaubens, Verlag Westfalisches
Dampfboot 2006, p. 25.
8
L. FEUERBACH, Zur Kritik der Hegelschen philosophie, Gesammelte Werke, Akademie
Verlag-Berlin-1970, vol. 9, 1839-1846, pp.16-17, trad. it. Per la critica della filosofia
hegeliana, in Opere, a cura di Claudio Cesa, Laterza, Bari 1965, p. 109.
9
L. FEUERBACH, Zur Kritik der hegelschen philosophie, Gesammelte Werke, cit., vol. 9,
p. 25, trad. italiana, Per la critica della filosofia hegeliana, in Opere, cit.,p. 177.
10
Ivi, p. 42, e trad. p. 134.
11
Ivi, p. 44 e trad, p. 136.
12
Ivi, pp.42-43 e trad. p. 135.
13
Ivi, p.44 e trad. p. 137.
14
Ivi, 52-53 e trad. p. 145.
15
Ivi, p. 61 e trad. p. 154.
16
Ivi v..10, p. 158 e trad. p. 351.
17
Ivi, pp.155-156 e trad. p. 348.
18
Ivi, vol. 5, pp. 341-342 e trad. p. 249.
19
M. BYKOVA, Subjektivitat und Gattung, “Internationale Feuerbachforschung”,
Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 122.
20
Ibidem.
21
L. FEUERBACH, Das Wesen des Christentum, cit., v..5, pp.37-38; trad. it. cit, pp. 69-70.
22
M. BYKOVA, op. cit., p. 124.
23
In un’ottica che si apre al ripensamento del materialismo di Feurbach riteniamo
importante non dare per scontato questo aspetto, considerato che proprio in
Spiritualismo e materialismo è degna di nota la ricezione feurbachiana del pensiero di
Molescott nelle motivazioni al rifiuto dell’esito ultimo dell’idealismo, cioè la 54
soggettivizzazione dell’oggettivo, della definitiva spiritualizzazione dell’oggetto:
“Quando Feuerbach nei suoi scritti più maturi affrontò Molescott e la sua teoria
dell’alimentazione,lo fece nello spazio di una critica all’idealismo […]. La riduzione
dell’oggetto - sia in virtù dell’idealismo o della Religione - a mera manifestazione
fenomenica […], risulta nella prospettiva di Feuerbach falsa ed è duramente attaccata
in conformità dei suoi scritti di cultura scientifica sul nutrimento.” J. HYMERS,
Verteidigung von Feuerbach Molescott-Rezeption:Feurbachs offene dialektik,
“Internazionale Feuerbach Forschung”; Ludwig Feuerbach (1804-1872), Wax Mann,
Münster 2006, p. 134.
24
L. FEUERBACH, Spiritualismus und Materialismus, Gesammelte Werke, cit.,v. 4; trad.
it. Spiritualismo e materialismo, a cura di F. Andolfi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 186-
187.
25
Ivi, p. 172 e trad. p. 184.
26
C. SCHMIDT, Il Materialismo antropologico di Ludwig Feuerbach, De Donato editore,
Bari 1973, pp. 129-130.
27
L. CASINI, La riscoperta del corpo, cit., p. 154.
28
Ibidem.
29
L. FEUERBACH, Spiritualismus und Materialismus, cit., v.4, p. 173 e trad. p. 186.
30 J. KANDA, Die Feuerbach-Rezeption des jungen Marx im Licht der
Junghegelialismus-Forschung, in “Internationale Feuerbachforschung”, Waxmann
Verlag, Münster 2006, p. 115.
31
L. PAREYSON, Studi sull’esistenzialismo, Sansoni editore, Firenze 1950, p. 72.
32
L. CASINI, Die Globalisierung: Eine verwirklichung ode rein dementi des
feuerbachschen universalen Humanismus, “Internationale Feuerbachforschung”,
Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 230.
33
L. M. ARROYO, War Feuerbach ein “Verkenner des Bosen”? “Internationale
Feuerbachforschung”, Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 65.
55
TH. W. ADORNO. L’ESTETICA MUSICALE E LA FORZA DELLA CRITICA
di Giacomo Fronzi
SAGGI
ipotetico, con «la natura dell’uomo o del mondo in cui l’uomo è condannato a
2
vivere» . Enrico Fubini rileva come la musica degli anni Cinquanta vivesse di
questa grande e nobile utopia, condivisa da molte ideologie del tempo
passato, e che proclamava l’insensatezza della musica come «ideale
supremo» al quale ispirarsi. E’ in questo Zeitgeist che si muove Adorno, nel
tentativo di sostenere e attribuire un senso, per un verso storico e per altro
verso sovrastorico, a questi movimenti tellurici della musica occidentale. Ma
essendo noi così lontani da quello spirito e da quei profondi scontri ideologici,
possiamo ipotizzare un’estetica musicale post-adorniana? Tanto Fubini
quanto Cappelletto convengono sul fatto che Adorno può, a ragione, essere
considerato l’ultimo filosofo della musica e la sua può essere considerata
l’ultima forte teoria della musica. Sebbene ad Adorno sia stato spesso
rimproverato da parte dei musicologi di essere eccessivamente “filosofo” e, 57
da parte dei filosofi, di essere troppo “tecnico” nelle sue analisi (come non
ripensare alla frase di Friedrich Schlegel che Adorno avrebbe voluto inserire
in epigrafe alla sua Teoria estetica, secondo la quale in ciò che viene
chiamato filosofia dell’arte manca sempre una della due: o la filosofia o
l’arte), egli è riuscito ad elaborare un pensiero che, come nessun altro dopo
di lui, è giunto alle soglie del suo obiettivo più intimo, vale a dire alla «sintesi
tra i due “campi visivi”», sintesi che nessuno è riuscito a replicare, il che
significa che quel che incuteva timore e perplessità, «“preoccupante” e
3
“singolare”, oggi risulta perduto» . La potenza critica e teorica dell’impianto
adorniano ha lasciato il posto ad una neutra attività di descrizione, molto più
attenta ad evitare valutazioni e giudizi che possano smascherare, con la
forza del concetto e del pensiero, la banalità e l’equivalenza della maggior
parte dei prodotti della musica d’arte.
Il vero problema, dunque, è che il nostro momento storico non è più
un campo di forze all’interno del quale gruppi di artisti o singoli artisti si
fronteggiano con irriducibile vigore creativo, bensì un campo di battaglia
deserto, «in cui non solo non c’è più un pensiero forte ma non c’è più
4
neppure una realtà forte» , ragion per cui non è storicamente possibile
formulare «una teoria estetica capace di fornire un’interpretazione univoca
5
della realtà» . È, pertanto, la stessa realtà, presentandosi così differenziata
ma, al contempo, così indifferente ad impedire il sorgere di una filosofia della
musica forte, che riesca, come ci è riuscita quella adorniana, ad interpretare
e valutare la realtà musicale di oggi. Se, per un verso, questo
depotenziamento generale del pensiero ha prodotto una riduzione delle
derive estremistiche e totalitarie, è anche vero che la rinuncia ad un pensiero
forte, nel campo estetico, «può portare, come in effetti avviene, alla rinuncia
a distinguere tra valore e disvalore estetico, favorendo una forma di
giustificazione e accettazione dello stato di fatto, dell’esistente in quanto
6
esistente» . È evidente il grado di inefficacia e di dannosità proprie di un
atteggiamento di questo genere, autenticamente irresponsabile e votato alla
reiterazione della neutralizzazione delle differenze, delle qualità e, da un
punto di vista strettamente filosofico, del contenuto di verità delle opere
d’arte, ma anche alla graduale cancellazione del passato. Il paradigma
contemporaneo è centrato sul mito del “nuovo”, di un novum senza radici e
senza passato. Nel migliore dei casi esso non è che un «cumulo di detriti su
cui si può liberamente operare un saccheggio, come gli sciacalli dopo le
7
alluvioni o i terremoti» . I compositori di oggi sono davvero «più lucidi, più
8
aperti e più liberi come ci piace credere?» oppure rivisitano il passato
mancando di realizzarne il messaggio, sopprimendo le tensioni storiche e le
differenze?
Tanto la critica quanto l’arte odierne – sebbene le eccezioni non 58
siano poche ed irrilevanti – sembrano orientate, più che dal desiderio di
incidere sul progressivo miglioramento dello status quo, dalla passiva
accettazione dell’emergere caotico ed incontrollato di realtà spesso
inconsistenti. «In un mondo del ‘tutto è possibile’, ‘nulla è vietato’, in un
mondo in cui tende a scomparire il confine tra la libertà come scelta e la
libertà come indifferenza alla scelta, la filosofia della musica non trova un
9
terreno propizio al suo sviluppo» . Ed ecco che quella di Adorno finisce per
rappresentare «l’estrema frontiera, il canto del cigno per la filosofia della
10
musica» , in un presente in cui si sente la mancanza di un pensiero critico
forte, capace di intrecciare, nell’analisi della realtà musicale, il movimento
storico con quello socio-antropologico, individuandone e chiarendone tanto
gli elementi positivi quanto quelli negativi, producendo, in definitiva, delle
distinzioni e delle differenze.
Detto ciò, si pone il problema, di natura metodologico-procedurale,
circa i parametri ed i criteri che un pensiero critico dovrebbe utilizzare e
mettere in campo per poter produrre delle valutazioni. Restando all’interno
dell’orizzonte adorniano, ci pare di una certa utilità richiamare l’attenzione su
una particolare ed enigmatica categoria, del tutto centrale nell’estetica
musicale di Adorno, quella di «materiale musicale». Tale nozione, alla quale
ci si è riferiti molto di frequente ma senza mai analizzarne fino in fondo la
portata e le implicazioni, può giustamente essere considerata come uno dei
possibili strumenti di valutazione, dal momento che essa, nella prospettiva
adorniana, è strettamente connessa con il processo di Aufklärung in musica.
Il materiale musicale è una funzione del progresso e un compositore potrà
dirsi progressista soltanto quando riuscirà a cogliere il materiale al livello più
avanzato della sua dialettica storica.
La nozione di “materiale”, dicevamo, è particolarmente enigmatica,
tanto sfuggente quanto sempre presente nella produzione adorniana, fin
SAGGI
dagli anni Trenta. Tale concetto si offre, proprio in virtù di questa sua
costante presenza, ad essere utilizzato come fil rouge dell’estetica musicale
del Francofortese, anzi, sarebbe il «concetto cardine» di un’estetica musicale
che va ricondotta, secondo la Zurletti, «a una visione più articolata e meno
11
schierata della musica» e che, tra i vari risultati positivi, consentirebbe di
individuare al suo interno «una mai sospettata matrice “strutturalista”»,
nonché «una soggiacente teoria della comunicazione musicale che Adorno
12
ha lasciato non tematizzata» .
Un concetto dal «carattere inafferrabile», quello di “materiale
musicale”, e la cui mancata definizione, da parte di Adorno, «ha il peso di
una scelta teoretica: il materiale non può e non deve essere definito
positivamente perché è non-concreto, entità astratta, dispositivo
13
condizionante situato al cuore dell’esperienza musicale» . La nebulosità 59
della nozione di cui stiamo parlando, in via preliminare, può essere ricondotta
in qualche modo all’oscurità dello stile della scrittura di Adorno, uno stile che
14
rivela una vera e propria «valenza estetica» dell’argomentare , il che solleva
il problema dei criteri di riferimento da applicare al pensiero adorniano.
L’oscillazione di questi criteri di riferimento si verifica tra due poli, tra «due
15
piattaforme metalinguistiche» : modo tecnico-scientifico e modo poetico-
letterario. Dall’utilizzo di queste due modalità di senso, che si alternano, si
sovrappongono, si sostengono reciprocamente, avvalendosi delle rispettive
connotazioni tecniche e stilistiche, scaturisce un andamento del discorso che
oscilla tra rigore analitico e «pirotecnica verbale», tra fluire lineare e
spostamento violento ed improvviso del peso dell’argomentazione. Ma,
continua la Zurletti, c’è «un’altra possibilità, quella che si verifica quando
Adorno fa in modo da spostare il peso del discorso da una piattaforma
metalinguistica all’altra in modo che tale spostamento risulti praticamente
16
impercettibile al lettore» .
Spesso si ha la sensazione di essere respinti da questo particolare
intrico di stile, forma letteraria e organizzazione linguistica, un intrico
respingente che rinvia, però, ad una più accurata e attenta analisi, dal
momento che, adornianamente, quel che è è più di quel che è. Nei testi
adorniani, l’estenuante ricerca della più giusta forma linguistica ed espressiva
da adottare finisce per «oscurare il suo pensiero più di quanto non riescano a
17
chiarirlo e a comunicarlo» .
Il riferimento al problema stilistico in Adorno, comunque, non va
considerato sic et simpliciter come una quasi doverosa premessa alla
trattazione successiva, bensì come un ulteriore elemento a sostegno della
tesi per la quale il concetto di “materiale musicale” non viene definito una
volta per tutte da Adorno. Il sapiente gioco tra piattaforme linguistiche che il
filosofo di Francoforte mette in scena spesso produce una disarticolazione tra
premesse e conclusioni, laddove le prime e le seconde le si trovano su piani
differenti se non addirittura in opere differenti. Ciò accade anche per la
nozione di materiale musicale, il che implica una difficile e problematica
ricostruzione, analisi ed interpretazione delle pagine adorniane, rispetto alle
quali bisognerebbe porsi come un «ascoltatore responsabile», considerando
che «ogni volta che elementi apparentemente estranei, che non stanno in
una relazione reciproca, configurazioni fraseologiche a prima vista
inesplicabili, se ascoltate attentamente si rivelano invariabilmente come parte
di uno stesso contesto di senso, di una «costellazione» che può estendersi
18
su un’intera opera o addirittura attraverso più opere» .
Ma cerchiamo di entrare nello specifico delle questioni teoriche che
il concetto di materiale musicale richiama. Innanzitutto: cosa dobbiamo
intendere per materiale musicale? Esso «non deve essere concepito come 60
l’insieme delle opzioni tecnico-formali che si offrono al di fuori del tempo.
Esso deve essere inserito al contrario in un sistema di coordinate dove è
funzione del progresso della storia musicale, e del rapporto di questa con la
19
«struttura» e le dinamiche primarie del sociale» . Emerge immediatamente il
carattere storico e sociale di tale nozione. Rifondando il rapporto tra
«possibilità di decisione» del compositore e «stato del materiale», Adorno
concepisce l’azione compositiva non come una risposta automatica e
meccanica alle esigenze che esprime un’epoca. La libertà di tale azione,
ricorda l’Autrice, non poggia sull’idea del compositore come colui che agisce
su di un terreno privilegiato, lontano dalla cruda e lacerata realtà, in una
dimensione quasi incantata. La libertà del compositore è circoscritta al suo
modus operandi, per così dire, alla sua sensibilità, alla sua poetica, alla
tecnica (sebbene anch’essa sia storicamente determinata), ma ha,
purtuttavia, una delimitazione: se, ad esempio, per Krenek l’opera deve
rispondere prioritariamente alle esigenze espressive individuali, per Adorno il
compositore deve comprendere cosa va fatto, in relazione a quel dato
momento storico-sociale. Compositore progressista sarà, allora, colui che
riuscirà a cogliere ogni volta il materiale al livello più avanzato della sua
dialettica storica. «La libertà del compositore, secondo la rivelazione di
questa nuova concezione di materiale musicale, si fermerebbe dove
20
comincia la libertà dell’opera» .
Il materiale musicale, dunque, è un’istanza esterna e che agisce
sull’opera in maniera condizionante, ma dall’esterno. Esso è imposto al
soggetto «in quanto “storia sedimentata”, “spirito sedimentato”». A questo
punto, però, va richiamato il rapporto che intercorre tra materiale e tradizione,
dal momento che il materiale non è che «l’insieme di tutte le “Stoffe” e
“Techniken” testimoniate dalla tradizione, più tutte quelle che la futura pratica
SAGGI
21
compositiva sia suscettibile di testimoniare» . Da queste affermazioni
emerge un altro aspetto del materiale: la sua fondamentale apertura;
apertura che è creatività ma anche finalità. Esso, se colto al massimo grado
della sua dialettica storica, traduce in musica la storia sedimentata e lo spirito
sedimentato; questo significa che il materiale, essendo un’istanza anonima e
astratta, si contrappone, in qualche modo, all’individuale e concreta opera
d’arte nella quale, ciononostante, esso si manifesta. Riferirsi all’individualità e
concretezza dell’opera significa fare riferimento al concetto di «forma», altra
nozione cardine dell’estetica adorniana.
Detto in estrema sintesi, «il termine forma indica il condensato della
razionalità propria dell’arte, l’organizzazione di ogni singolo elemento
dell’opera, in modo che esso «parli» coerentemente col tutto ma resti
22
individuato» . La forma rappresenta, dunque, la coerenza interna dell’opera
d’arte, essa funziona come un «magnete» che attrae elementi empirici dalla 61
realtà, riorganizzandoli coerentemente, «li estrania al contesto della loro
esistenza extraestetica e solo così essi possono diventare padroni
23
dell’essenza extraestetica» . Ciò vuol dire che la forma per un verso
garantisce coerenza all’opera e, per altro verso, separa l’oggetto dal
«puramente esistente», compiendo il passaggio dall’oggetto empirico
all’oggetto estetico. Questo meccanismo, per il quale l’oggetto artistico viene
separato dall’esistente e si determina, anche attraverso il processo di
costruzione, come contenuto, «non ha niente a che vedere con un dispositivo
astratto e anonimo come il materiale, la cui distinzione dall’attualità dell’opera
24
è ben puntualizzata da Adorno» . L’analisi del concetto di materiale
musicale ha indotto la Zurletti ad individuarne quattro qualità: arbitrarietà,
carattere sociale, carattere storico, carattere di costrizione. Tale partizione,
passa attraverso un’antinomia presente in Teoria estetica, per la quale il
materiale è un «patrimonio passivo» che giunge agli artisti sotto la pressione
della tradizione e, contemporaneamente, fonte di una «costrizione attiva»
sugli stessi artisti per indurli ad una «standardizzazione del comportamento
25
espressivo» . La soluzione dell’antinomia, già accennata in precedenza, è
l’idea adorniana di una sorta di libertà espressiva condizionata dal materiale,
26
che «detta e garantisce le condizioni del senso musicale» . Ma
ripercorriamo i quattro caratteri che possono consentire di meglio definire la
sfuggente nozione di materiale musicale.
SAGGI
individuate, e scientificamente ormai acquisite, dalla Gestalttheorie. Alla luce
di ciò andrebbe rivista la posizione di Adorno il quale, per rispondere alla
critica di intellettualismo frequentemente mossa alla nuova musica, afferma
che coloro i quali muovono tale “rimprovero” ragionano «come se l’idioma
tonale degli ultimi trecentocinquant’anni fosse “natura”, e come se fosse
33
contro natura il superare ciò che ha ristagnato col tempo» . Sulla stessa
linea si pone anche Arnold Schönberg, affermando che «la tonalità si è
rivelata non un postulato di condizioni naturali […] Poiché la tonalità non è
una condizione imposta da natura, è privo di senso insistere nel conservarla
34
in base ad una legge naturale» . Anton Webern, dal canto suo, si
preoccupava di sottolineare la comune ascendenza della tonalità e
dell’atonalità: durante delle lezioni tenute a Vienna nel 1932 sosteneva la
“nuova causa”, rilevando come «quanto adesso viene denigrato ci è stato
dato dalla natura allo stesso modo di ciò che si è praticato fino ad oggi». 63
Webern risolve, dunque, la questione riconducendo a “natura” tanto la
tonalità quanto l’atonalità.
Dal punto di vista di Adorno, invece, «la tonalità è il codice che la
società occidentale si è data per esprimere musica durante quattro secoli:
dunque semplicemente un dispositivo convenzionale, un codice
35
completamente arbitrario» , esattamente come quelli linguistici. Dunque, il
materiale non è naturale, ma sociale e storico.
SAGGI
razionalizzazione di tutte le dimensioni legate alla prassi compositiva e che
non è difficile leggere come la specificazione in musica del generale, radicale
ed universale processo di Aufklärung distintivo del cammino dell’Occidente.
Razionalizzazione, in musica, va intesa come «la rottura delle frontiere che
limitavano l’espressività musicale soltanto alle configurazioni tonali, e
l’allargamento del materiale a elementi che prima restavano esterni al
42
codice» , offrendo così alla musica, come ebbe a dire Anton Webern, «un
mare di suoni mai uditi». È questa la chiave di volta per comprendere la
funzione ed il senso che Adorno attribuisce al Progresso musicale e alla
dialettica storica del materiale che, in ultima analisi, sembra terminare nel
suo rovesciamento: il materiale, sostiene Zurletti, una volta reso dalla Nuova
Musica totalmente razionalizzato «sembra fruire di una posizione
metastorica: qualunque combinazione si voglia istituire fra i suoni, da questo
momento in poi, è valida come qualunque altra visto che sono tutti 65
43
fisicamente possibili» .
SAGGI
9
Ivi, p. 112.
10
Ivi, p. 113.
11
A. FINKIELKRAUT, L’ingratitudine. Conversazione sul nostro tempo con Antoine
Robitaille, trad. it. di R. Bentsik, Excelsior 1881, Milano 2007; questa citazione è tratta
dalla quarta di copertina.
12
E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento, p. 114.
13
Ibidem.
14
S. ZURLETTI, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, il Mulino,
Bologna 2006, p. xi.
15
Ivi, pp. x-xi.
16
Ivi, p. 16.
17
Ivi, p. 4.
18
Ivi, p. 8.
19
Ivi, p. 9.
20
S. PETRUCCIANI, Adorno, ovvero del pensare aperto, Introduzione a Th.W.
Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, trad. it. di L. Garzone, Einaudi, Torino 2006,
pp. ix-x.
21
67
S. ZURLETTi, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno,, pp. 14-5; corsivo
dell’autrice.
22
Ivi, p. 18.
23
Ivi, p. 19.
24
Ivi, p. 22, corsivo dell’autrice.
25
P. PELLEGRINO, Teoria critica e teoria estetica in Th.W. Adorno, Argo editrice,
Lecce 20042, p. 116.
26
TH.W. ADORNO, Teoria estetica, trad. it. a cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino
1975, p. 202.
27
S. ZURLETTI, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, cit., pp. 32-3.
28
Ivi, p. 33.
29
Ivi, p. 39.
30
Ivi, p. 41.
31
Ivi, p. 43.
32
TH.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, trad. it. di G. Manzoni, Einaudi,
Torino 1959, p. 89.
33
Ivi, p. 14.
34
Ivi, p. 109.
35
Arnold Schönberg era convinto che il tempo e l’educazione (sebbene
considerasse “la conoscenza teorica non la condizione più essenziale”) avrebbero
modellato l’orecchio all’ascolto e alla comprensione della musica dissonante e
dodecafonica. Nel 1926 scriveva: «L’orecchio dell’ascoltatore deve venire educato
ancora per lungo tempo, prima che i suoni dissonanti gli appaiano ovvi e i procedimenti
basati su essi gli diventino comprensibili» (A. Schönberg, Partito preso o convinzione?,
in L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, Einaudi,
Torino 1966, p. 406). Cosa egli intendesse per “lungo tempo” non ci è dato di saperlo,
quel che è certo è che Schönberg aveva colto il problema della difficile ricezione della
nuova musica da parte del pubblico.
36
TH.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, cit., p. 17.
37
A. SCHÖNBERG, Partito preso o convinzione?, cit., p. 424.
38
S. Zurletti, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, cit., p. 44.
39
Ivi, p. 46.
40
Ivi, p. 49.
41
Ibidem.
42
Ivi, p. 52.
43
Ivi, p. 53.
44
Ivi, p. 55.
45
Ivi, p. 56.
46
Ivi, p. 58. Sul rapporto tra materiale musicale e Aufklärung in musica cfr. S.
ZURLETTI, Il concetto di “materiale musicale” in Adorno: Aufklärung in musica, in
Theodor W. Adorno. Musica, filosofia, letteratura, cit., pp. 15-30.
47
Ivi, p. 59.
48
Ivi, p. 60.
49
Ivi, p. 61.
50
Ivi, p. 62; corsivo dell’autrice.
68
BERGSON, L’ÉVOLUTION CRÉATRICE, E IL PROBLEMA RELIGIOSO
di Palma Valentina di Nunno
NOTE
filosofo francese – che, nonostante sia difficile oggi farsene una chiara idea,
tanto spazio occupava nella filosofia francese dell’inizio del secolo scorso ha
riconquistato l’interesse che gli spetta. Nel contesto di questo rinnovato
fermento, si colloca il libro Bergson, L’évolution créatrice e il problema
religioso, curato da Giovanni Invitto ed edito dalla casa editrice milanese
Mimesis (2700, pp. 13). Il volume raccoglie i contributi del Convegno
internazionale su L’évolution créatrice e il problema religioso, svoltosi a
Lecce, presso l’Università del Salento, il 5 maggio 2007, e organizzato dal
Centre internationale de la philosophie française contemporaine de l’École
Normale Supérieure e dall’Association des amis de Bergson, entrambi
presieduti da Frédéric Worms.
Tali contributi rendono esplicita nel loro insieme la complessità
dell’itinerario filosofico-religioso di Bergson, che dalle problematiche de 69
L’évolution créatrice conduce a quelle de Les deux sources de la morale et
de la religion, ridando voce, sotto nuovi punti di vista, al dibattito sul presunto
irrazionalismo bergsoniano, su monismo e panteismo, sul posto da attribuire
nel suo pensiero alla presenza di un Dio personale e, di conseguenza e non
in ultimo, sul rapporto in cui pensare metafisica e scienza.
Nel primo intervento Santo Arcoleo si concentra sui Quaderni E.
Cotton, redatti dall’allievo di Bergson, da cui gli stessi prendono il nome, al
liceo di Clérmont-Ferrand. In possesso della versione dattiloscritta di questi
corsi inediti, Arcoleo mette in luce la presenza di alcuni temi che troveranno
una definitiva trattazione nelle opere della maturità del filosofo: il dialogo con
la psicologia sperimentale, la critica al materialismo, il problema della libertà
e quello di Dio.
L’intervento successivo, firmato da Marisa Forcina, è incentrato sul
rapporto Bergson-Péguy dal punto di vista delle tematiche politiche. Dopo
aver fornito una bibliografia essenziale sull’argomento, l’accento è posto sul
carattere «veramente innovativo in politica» di questo binomio. In primo
luogo, si sottolinea l’eco bergsoniana del concetto di società aperta nella
progetto peguyano di città armoniosa, di cui il nuovo concetto di cittadinanza
è «ri-descrizione e rappresentazione». In seconda battuta, si mettono in
evidenza gli echi bergsoniani nell’opera De la cité socialiste, da cercare
innanzitutto nel linguaggio e nel carattere antististematico, e anche, a livello
di contenuti, nel porre a fondamento della democrazia l’«importanza della
differenza di qualità, intensità e durata che si manifestano nelle comunità
umane».
La parziale apertura dell’Archivio della Congregazione per la
Dottrina della Fede è per Jean-Robert Armogathe – autore del terzo
intervento riportato dal volume – l’occasione di approfondire la messa
all’Indice, nel 1914, di tre opere di Bergson: l’Essai sur les données
immédiates de la conscience, Matière et mémoire e L’évolution créatrice. L’8
marzo del 1913 – questo emerge dal dossier infine a disposizione dei
ricercatori – il domenicano padre Edouard Hugon denuncia le tre opere
suddette al suo confratello padre Esser, segretario della Congregazione
dell’Indice. Seguendo le tracce di questo affascinante affaire – affascinante
non solo per lo storico e lo studioso di filosofia – attraverso lettere, articoli ed
interviste, se ne ricostruisce il contesto politico e dottrinale, sullo sfondo di
uno scenario che ha per protagonisti tra gli altri Mgr Albert Farges e il
giovane Maritain.
Frédéric Worms propone un approfondimento che parte da due
definizioni di Dio presenti nell’opera bergsoniana («Dieu, ainsi défini, n’a rien
de tout fait, il est vie incessante, action, liberté», L’évolution créatrice, 1907,
PUF, Paris 2007, p.249; «Cette nature de “Dieu”, le philosophe aurait vite fait 70
de la définir s’il voulait mettre le mysticisme en formule. Dieu est amour, et il
est objet d’amour; tout l’apport du mysticisme est là», Les deux sources de la
morale et de la religion,1932, PUF, Paris 2007, p.267). Tali definizioni hanno
in comune il fatto di mettere a dialogo, in modo opposto, filosofia e mistica;
non solo: in entrambi i casi la definizione viene proposta come se fosse già
stata data in precedenza nel testo, e come se l’esperienza di Dio (filosofica in
un caso, mistica nell’altro) avesse preceduto la definizione e il problema
stesso. In breve, «tout se passe comme si le rôle de la définition était dans
les deux cas […] médiateur», come se la definizione si situasse a metà
strada tra l’esperienza di Dio e la posizione del problema. Worms osserva
che è proprio questo movimento dall’esperienza al problema a servire da
metodo per le opere di Bergson da cui le due definizioni sono tratte.
Un’ultima considerazione completa i presupposti interpretativi dell’autore: c’è
qualcosa ne Les deux sources de la morale et de la religion che,
contrariamente a quanto accade ne L’évolution créatrice, precede
fondamentalmente l’esperienza positiva di Dio. Per l’uomo, prima del Dio dei
mistici e di quello della religione dinamica e aperta – Dio di cui, a diverso
titolo, si fa esperienza – viene il Dio, o piuttosto, gli dèi del “pantheon” della
religione statica e chiusa, gli dèi della superstizione e della città, della paura
e della guerra. L’approfondimento di Worms, alla ricerca del significato di Dio
nella filosofia di Bergson, segue esattamente questo percorso: si apre con
l’analisi del doppio movimento dell’esperienza e del problema ne L’évolution
créatrice e si conclude mettendo a tema il nuovo ostacolo, appena evocato,
che il tema incontra ne Les deux sources de la morale et de la religion. Il
contributo di Giulia Belgioioso è dedicato al Bergson di H. Gouhier; non sono
i richiami a Bergson da parte di Gouhier che si mettono a tema – numerosi e
sufficientemente indagati – ma, in un’ottica più specifica, il ruolo che Bergson
ricopre nell’Histoire philosophique du sentiment religieux en France,
NOTE
progettato da Gouhier nel 1926 come versante filosofico del progetto che
Bremond stava conducendo sul terreno letterario. Ciò a partire da un testo,
pubblicato postumo nel 2005, dal titolo Henri Gouhier se souvient… ou
comment on devient historien des idées, che comprende cinque entretiens,
fra cui uno dedicato a Bergson et Gilson. Dopo aver messo in evidenza il
carattere profondamente bergsoniano del metodo d’indagine di Gouhier –
alla ricerca dell’intuizione originaria del bergsonismo – si chiarisce come
Gouhier individui tale intuizione nella nozione di creazione. Quest’ultima,
offerta a Bergson dalla tradizione giudaico-cristiana e affrancata dal suo
significato religioso per essere trapiantata nella tradizione greco-latina
diventa l’asse portante della sua riflessione filosofica. Così si esprime
Belgioioso: «In questa trasposizione, il concetto di creazione smette di
essere una teoria religiosa, e diventa la teoria filosofica che spiega il 71
“pensiero” di Bergson». Inoltre si mostra come «Gouhier reinterpreti gli scritti
bergsoniani a partire da questa scoperta dell’intuizione originaria che è loro
sottesa», già riconoscendo la nozione di creazione nella teoria della doppia
causalità (fisica e psicologica) esposta nell’Essai. In seguito, il discorso si
concentra su altri due testi per guadagnare ulteriori conferme a questa
interpretazione:l’Entretien avec Henri Gouhier. Histoire personelle de la
philosophie. A quoi pensent les philosophes, intervista rilasciata da Gouhier a
Jacques Message e Etienne Tassin, e il libretto che contiene i Trois essais
sur Etienne Gilson: Bergson, la philosophie chretienne, l’art, pubblicati a cura
di Gouhier e di Belgioioso presso la casa editrice Vrin.
Rimandando allo studio di M. Barthélemy-Madaule per un esaustivo
e insuperato confronto tra il pensiero di Bergson e quello di Teilhard de
Chardin, Franco Meschini dedica il suo intervento alla ricostruzione di un
momento preciso della vita e della formazione del giovane Teilhard, vale a
dire quello in cui quest’ultimo, ad Hastings, per la prima volta prende in mano
L’évolution créatrice. L’intervento si articola sulla lettura parallela di una
pagina de La pensée et le mouvant e una del Contre Saint-Beuve di Proust,
indagando le ricchezze e i pericoli del biografismo. Nell’ottica di
un’ermeneutica che metta in dialogo l’interprete e il vissuto filosofico che si
cela dietro le opere di un autore, il contributo di Meschini individua nel
concetto di intuizione la nozione chiave – per quanto non esplicitamente
tematizzata in Teilhard – che più di ogni altra lo avvicina Bergson.
L’intervento di Giovanni Invitto, dedicato al rapporto Merleau-Ponty-
Bergson, indaga questo confronto filosofico attraverso l’analisi di due scritti
merleaupontyani: l’Éloge de la Philosophie del 1953 e Bergson se faisant del
1959. L’autore introduce l’analisi con alcune premesse. Innanzitutto è
opportuno chiarire che dal punto di vista metodologico – come è manifesto
nel caso della lettura merleaupontyana di Husserl e Descartes – non è con lo
sguardo di uno storico della filosofia che Merleau-Ponty legge Bergson, ma,
piuttosto, con l’intenzione di condividere uno spazio «intermediario, ove il
filosofo del quale si parla e colui che parla sono presenti insieme». In
secondo luogo, si chiarisce «la posizione di Merleau-Ponty nei confronti della
religione in generale e del cristianesimo in particolare e, quindi, della filosofia
che nei secoli si è richiamata al messaggio cristiano» nei termini di un
fondamentale e dichiarato presupposto: «i temi cristiani sono “des fermentes,
non des reliques”». Chiariti questi presupposti, l’approfondimento ruota
intorno ai due scritti citati, nei quali Merleau-Ponty mostra interesse e
ammirazione in particolare per la riflessione sull’intuizione e la percezione,
dimensioni di una coscienza che, alquanto problematicamente, apre alle
novità del discorso teologico bergsoniano. Invitto fa notare, tra l’altro, che
Merleau-Ponty non riscontri in Bergson alcuna significativa svolta teoretica 72
determinata dalla conversione al Cristianesimo: come per Simone Weil – con
cui Bergson condivide l’origine ebraica e le motivazioni di una mancata
conversione – è innanzitutto alla verità che bisogna essere fedeli. Tuttavia,
come Maritain, anche Merleau-Ponty riconosce un Bergson “reale” e uno
“latente” altrettanto degno di considerazione.
Il Convegno si chiude, con un approfondimento di Leo Lestigni sul
misticismo e Les deux sources de la morale et de la religion, quasi a voler
indicare la necessità imprescindibile di allargare l’orizzonte di riflessione sul
tema religioso in Bergson anche a quest’opera. L’intervento prende in
considerazione il rapporto tra sapere teologico e sapere filosofico, ritenendo
un pregiudizio interpretativo il rifiuto bergsoniano, per ciò che concerne Les
deux sources de la morale et de la religion, di un confronto con la teologia.
L’ipotesi piuttosto è che, nel contesto di un ascolto attento alla teologia
rivelata, Bergson mantenga ad ogni passo la consapevolezza di dover
salvaguardare l’autonomia della filosofia, la quale, quand’anche si occupi di
religione, deve rimanere entro i suoi limiti speculativi.
Nota bibliografica
NOTE
sources de la morale et de la religion. Previsti per il 2009 Durée et simultanéité, La
pensée et le mouvant e gli Écrits philosophiques; per il 2011 l’Énergie spirituelle e
Cours et correspondances.
NOTE
centenario della pubblicazione de L’évolution créatrice - ci spinge a
richiamare l’attenzione su alcuni temi dibattuti nella più attesa fra le
numerose manifestazioni che, svoltesi in varie parti del mondo, hanno trovato
nella grande assiste del Collège de France, l’istituzione nella quale Bergson
1
ha esercitato la quasi totalità della sua attività accademica. , il loro momento
più intenso e significativo.
Considerando sia le polemiche che gli apprezzamenti che questo
testo di Bergson ha suscitato nella cultura del primo ‘900, un numeroso
gruppo di interpreti e di studiosi del suo pensiero ha ritenuto opportuno
riproporre la trattazione di alcuni nodi essenziali sul significato e sugli sviluppi
del ruolo di quest’opera emblematica che illumina non solo il percorso della
ricerca del filosofo ma l’ intera attività filosofico-scientifica della prima metà
2
del XX secolo.
Anche se nella maggior parte dei suoi contemporanei ha suscitato 75
un certo entusiasmo, L’évolution créatrice, non esente da critiche e da
3
condanne” , ha contribuito a rinnovare l’interesse per la scienza, e in
generale per il “conoscere”, all’interno e contro una “diffusa tradizione
evoluzionistica” che da cinquant’anni dominava la cultura e la società
europea, promuovendo un ininterrotto dibattito sul significato e sul ruolo della
scienza.
All’origine del positivismo, le opere di Darwin - l’Evoluzione della
specie, l’’Evoluzione dell’uomo - avevano indirizzato la cultura scientifico-
filosofica europea alla ricerca di nuove vie del sapere, sviluppando e
rinnovando la metodologia e la ricerca scientifica, indispensabili per
estendere i confini della scienza, nonostante lo scontro assai duro con una
dogmatica religiosa che vedeva nel creazionismo l’unica dottrina valida a
spiegare le origini delle specie e dell’uomo. L’opera di Darwin aveva
contribuito a rendere di maggiore attualità i temi capaci di giustificare i
fondamenti di una dottrina dell’evoluzione, già enunciata – nelle sue linee
generali - da A. Comte, che nella matematica e nella fisica aveva trovato i
modelli necessari per la conoscenza oggettiva.
4
La filosofia di Bergson non era nata all’improvviso, come una
meteora imprevedibile: era il risultato di una formazione particolarmente
efficace, radicata nella tradizione della filosofia francese che Egli, in un
articolo del 1915, presentava come sapere caratterizzato da una profonda
adesione alla realtà comune nella quale gli uomini vivono ed operano. “Che
[la filosofia] si sia sempre costretta a parlare la lingua di tutti non è stato il
privilegio di una specie di casta filosofica; essa è rimasta sottoposta al
controllo di tutti e non ha mai rotto con il senso comune. Praticata da uomini
che furono psicologi, biologi, fisici, matematici, si è costantemente tenuta in
contatto sia con la scienza che con la vita. Il suo contatto permanente con la
vita, con la scienza, con il senso comune, l’ha fecondata costantemente e
nello stesso tempo le ha impedito di giocherellare con se stessa, di
ricomporre artificialmente le cose servendosi delle astrazioni”.
Bergson diventa l’interprete del realismo della filosofia francese e,
secondo A. Fagot-Largeault, primo relatore alle assise bergsoniane del
Collège de France, cerca di caratterizzare il proprio pensiero con la
medesima precisione che contraddistingue la scienza positiva; in lui il
modello scientifico coincide con la sua attitudine più personale con cui misura
la sua dottrina filosofica, che caratterizza la scienza positiva come la vera
scienza, la quale “constata i fatti, li studia e li collega fra loro per mezzo delle
leggi”. A. Fagot–Largeault si sofferma sulla “attitudine di rispetto”, tipica
dell’uomo Bergson che è lo sforzo costante di mettersi al corrente con i lavori
scientifici e con i risultati ottenuti dagli scienziati, opposto all’atteggiamento di
Cournot, che sosteneva che bisognava sottoporre alla speculazione filosofica 76
i dati offerti dalle scienze. “Se pretendiamo di andare oltre la scienza, nella
stessa direzione nella quale la scienza si incammina, dovremo accontentarci
di possibilità, o tutt’al più di probabilità; a noi dovrà essere sufficiente il
plausibile. Ma il plausibile non ci basterà. Noi vogliamo la certezza- la
certezza per la filosofia come anche per la scienza. Ed è questo il motivo per
il quale non esitiamo a tracciare una linea di demarcazione netta tra la
scienza e la filosofia”, enunciava Bergson. A. Fagot-Largeault ha evidenziato
il valore ed il significato della metodologia bergsoniana, della dottrina della
5
“intuizione”, che ha prodotto la grande rivoluzione culturale del 1889 - che
“insieme alla scienza” ricerca la “certezza”, proprio come fa la scienza. La
relatrice si è soffermata anche sul modo con cui Bergson ha messo in pratica
il suo rapporto con la scienza, in particolare con la scienza psichica, della
quale, a conclusione dell’opera Les deux sources de la morale et de la
religion, ha ricordato che sia pure presente fin dalle sue prime opere, essa
resta una terra incognita la cui esplorazione, in quelle opere, è solo all’inizio.
6
La successiva relazione di J. Gayon , proseguendo nell’ analisi del
problema della scienza, ha illustrato i momenti fondamentali della dottrina
della evoluzione.
Secondo lui la dizione “filosofia della scienza” poco s’addice al
pensiero di Bergson il quale se, per un verso, vuole evitare ogni tipo di
sovrapposizione della scienza alla filosofia, per l’altro rivendica a quest’ultima
una concretezza che, intesa come “metafisica positiva”, diventa il
fondamento di una conoscenza positiva. “Apertamente spiritualista, questa
metafisica positiva ha rivolto la propria attenzione agli aspetti della realtà in
cui il problema dell’interpretazione della materia e dello spirito è oscuro: la
sensazione (Données immédiates de la conscience), la patologia della
NOTE
memoria (Matière et mémoire), e, punto culminante di questo programma di
ricerca- l’evoluzione biologica (L’évolution créatrice). Bergson affermerà
successivamente di aver ”fatto scendere lo spirito il più vicino possibile alla
materia” e questo spiega il suo privilegio per le scienze biologiche. Queste
forniscono le prove empiriche dell’esistenza di un certo grado di
“indeterminazione”, di “contingenza”, di “capacità di scelta” presenti nei
fenomeni e negli esseri lontani dal livello di organizzazione dello psichismo
umano. Dall’evoluzione biologica Bergson ricava il materiale empirico,
necessario per offrire la più ampia estensione alle sue tesi indeterministe e
alla sua visione dello spirito. Dagli aspetti della patologia della memoria
emergono indizi che rendono “interessante” un elemento di grande rilevanza:
la incredibile forza dell’azione delle forze occultiste - dottrine all’epoca diffuse
e popolari - accanto al riproporsi dell’”indeterminismo“, sul quale si andavano
concentrando gli interessi degli scienziati dell’epoca, soprattutto dei biologi 77
evoluzionisti.
Gayon presenta un ampio panorama nel quale mette in evidenza il
ruolo di quanti hanno considerato con attenzione il ruolo dell’Evolution
créatrice considerata come momento originario della “teoria sintetica
dell’evoluzione”; fra essi i genetisti Julien Huxley, Theodosius Dobzhansky,
Sewall Wright, che hanno fatto di quest’opera lo strumento di un dialogo
ininterrotto e di un confronto continuo con il proprio credo filosofico
evoluzionistico; contro si è schierato Ronald Fisher, che ha giudicato
negativamente la concezione bergsoniana dell’indeterminismo,mentre gli
zoologi, i botanici, i paleontologi sono stati estremamente critici o indifferenti.
Si può ipotizzare, allora, la lettura di quest’opera bergsoniana come
precorritrice dell’epistemologia evoluzionista?
7
E’ il tema sul quale si è soffermato Dong-Hyun-Son , muovendo
dall’ipotesi di una presupposta complementarietà fra filosofia
“trascendentale”, di marca germanica, e filosofia “empiristica”, propria dei
paesi anglofoni, a cui aggiunge una terza via “sintetica”, ove la ragione è
detta “trascendentale” non in quanto principio sovrannaturale, ma perché si
presenta come lo sforzo di non perdere il legame reale con l’esperienza del
mondo; non si tratta dunque di una esperienza psicologica personale, ma
piuttosto di“ una esperienza biologica di evoluzione ben più estesa”, quella
dell’homo sapiens. Il nuovo corso di una “epistemologia evoluzionista”, che
negli anni ’70 ha cominciato a svilupparsi con D. Campbell, ha coinvolto i
paesi di lingua e cultura tedesca e quelli di lingua e cultura inglese, secondo
il relatore è cominciato con Bergson ed i fondamenti dell’epistemologia
evoluzionistica che caratterizzano la filosofia bergsoniana, si possono
riassumere in poche tesi.: le attività cognitive dipendono dal
corpo;l’evoluzione della vita è un processo dello sviluppo cognitivo; le diverse
forme di conoscenza derivano dalla evoluzione biologica, e perciò sono
relative ed incompiute. Se ne può dedurre che la percezione sensibile ed il
pensiero razionale abbiano avuto la medesima origine e che le forme del
ragionamento logico nascano dalla relazione spaziale delle cose.
8
F. Azouvi , ha invece trattato del magistero bergsoniano e del
successo de “l’élan vital”,sviluppato in un percorso che comprende tre
momenti:la determinazione del concetto di élan vital, il suo ruolo
nell’insegnamento, i suoi limiti, nel periodo che precede la pubblicazione
dell’Evolution créatrice, che ne determinerà la notorietà ed il favore del
pubblico. L’analisi del concetto di élan vital procede a “cerchi concentrici”,
che abbracciano gli ambienti universitari dei filosofi e dei biologi e,
successivamente, suscitano una attenta analisi nel mondo cattolico, che non
si esprime in modo omogeneo ma evidenzia grandi differenze di valutazione:
esso è accolto favorevolmente nella destra cattolica nazionalista, con 78
l’eccezione della destra maurrassiana. Nella prima il bergsonismo dell’ élan
vital confluisce nel niccianesimo della volontà di potenza e seduce un
pubblico desideroso di fondare una morale ed una politica dello sforzo,
antidemocratica e talora antirepubblicana ; in questo l’ambito l’interesse è
rivolto alle figure emblematiche delle tradizione intellettuale e politica del
momento.
I cattolici tomisti hanno considerato l’élan vital come una
fantapolitica, assai pericolosa perché offre la possibilità di fare a meno di Dio
e spinge tutto in un “mobilismo” disastroso: si tratta delle tesi grazie alle quali
essi, con i maurrassiani, otterranno la condanna di Bergson e la messa
all’indice delle sue opere. La ricezione de l’élan vital fra le avanguardie
estetiche è stata invece molto più felice: il futurismo, il cubismo e alcuni
circoli letterari ne hanno messo in luce l’apologia della vita, proponendo
anche di metterla al centro delle composizioni poetiche. Un ultimo aspetto ha
messo in luce la ricezione de l’élan vital all’interno dell’ estremismo
anarchico- sindacalista della sinistra.
Circa l’influenza delle fonti della biologia che hanno alimentato le
9
ricerche bergsoniane , A. François ha individuato tre momenti, a cominciare
dal problema del meccanicismo e del vitalismo, il primo rappresentato da
Haeckel e da Spencer, quest’ultimo considerato come suo avversario nella
Evolution créatrice.
Il relatore ha richiamato le esperienze di Roux e di Bütschli,
ricordando che quelle di quest’ultimo , dedicate a sottolineare la somiglianza
tra la struttura del protoplasma e quella di alcuni muschi alveolari, avevano
suscitato la condanna di Bergson di quella varietà di meccanicismo , il “ neo-
vitalismo”, criticato in ragione della sua teleologia.
NOTE
Il rigore meccanicista era generalmente considerato come un criterio
che consentiva di apprezzare il valore e la pertinenza di una teoria della
ereditarietà (problema ereditato come uno dei principali obiettivi del primo
capitolo de l’évolution créatrice). Nella polemica di Haeckel contro Weismann
, relativa alla trasmissione dei caratteri acquisiti , contrapponendo la vecchia
dottrina della “preformazione” e quella della “epigenesi”, la soluzione di
Haeckel era ritenuta l’unica sola in grado di rendere conto dell’evoluzione,
escludendone principi teleologici inutili. Bergson si schiera a favore di
Weismann, ma non aderisce al neo-darwinismo, al quale rimprovera di non
essere in grado di spiegare le cause delle “Variazioni”, e mostra invece una
certa simpatia per i neo-lamarckiani, gli unici in grado di ricorrere ad un
principio interno alla evoluzione - nella versione americana datane da Cope,
opposta alla versione francese di Delage o di Le Dantec - entrambi citati da
Bergson, il quale fa riferimento anche all’ortogenesi di Eimer, che secondo lui
obbedisce ad un principio esterno; conclude affermando che l’evoluzione 79
procede secondo una direzione ben definita. Un aspetto importante della
discussione bergsoniana, relativa alla dottrina della ereditarietà, riguarda la
trattazione del mutazionismo, base per la teoria genetica. Bergson lo include
nella stessa obiezione che aveva rivolto al neo- darwinismo, convinto di
mettere in luce i tratti profondamente innovatori di una dottrina, di cui
conosceva bene i primi sviluppi e cita,oltre ai lavori del De Vries, ricopritore
delle leggi di Mendel, quelli di Batson,Wilson, Morgan. Sono aspetti che
occorre riconsiderare per comprendere a fondo la teoria dell’evoluzione di e
in Bergson, necessari anche per chiarire l’annoso problema della
individualità, che - sottolinea il relatore - è l’unico problema biologico che
ricompare nel terzo capitolo de l’Evolution créatrice, consacrato alla fisica e,
10
infine, alla metafisica.
Gli anni della fine del XIX secolo hanno visto la sostituzione di una
concezione associazionista e polizoica dell’essere vivente ,ispirata alla teoria
cellulare, alla quale Bergson dedica un grande spazio, riproponendo però la
teoria dissociazionista. A questa sostituzione che si collega una delle più
profonde ispirazioni del bergsonismo e della stessa Evolution créatrice.
Cosa rimane di quest’opera? Essa ha contribuito – ma in che modo -
a chiarire fino in fondo la filosofia di Bergson? A questi interrogativi ha
11
cercato di rispondere Armand de Ricqlès sostenendo che il filosofo
dell’évolution créatrice si presenta come un evoluzionista autentico, che
considera tutti gli esseri viventi derivati da un ceppo originario comune, la cui
origine risale a l’élan vital, il quale, contro ogni forma di finalismo o di
vitalismo della tradizione, non è di natura meccanica, ma si situa in una
prospettiva metafisica ed astratta. Bergson fa una scelta che lo spinge ad
uscire dalla scienza positivista ed è per questo che la sua teoria
dell’evoluzione propone elementi attuali ancora oggi - insieme ad altri ormai
superati - quali un antropocentrismo esplicito e filosoficamente rivendicato.
Perciò oggi siamo condotti, sfidando l’anacronismo, a chiederci, in
un contesto materialistico, in quale misura l’élan vital potrebbe prefigurare o
se fosse in grado di superare le concezioni moderne della evoluzione
biologica, soluzione che non è del tutto sterile ma che porta pochi frutti.
Bergson ha approvato ed accettato le indagini di Weismann, ma non è
riuscito a cogliere né il significato “innovativo” delle leggi di Mendel né a far
propri gli elementi innovativi della teoria della “ereditarietà”: il motivo va
ricercato nella permanenza del lamarckismo nella biologia francese. Può
sembrare più strana la sua comprensione del significato evolutivo generale
dei dati citologici del suo tempo, che riguardano la meiosi e la fecondazione
profonda e resta da approfondire come, dopo la pubblicazione di
quest’opera, il pensiero di Bergson si sia evoluto grazie al progressivo
intensificarsi delle sue conoscenze biologiche degli anni venti e trenta. 80
L’Evolution créatrice è un indice della svolta che caratterizza la
cultura francese grazie allo sviluppo della filosofia e della biologia operato
dalla “crisi del Trasformismo”, una crisi che durerà quattro decenni e le cui
conseguenze sono state durature, soprattutto per la biologia naturalista ed
evoluzionista. Se ci si chiede se esistono delle analogie fra selezione ed
evoluzione in Bergson e Darwin, non si può che rispondere che quella più
famosa si trova nel primo capitolo dell’Evolution créatrice: “la vita è
invenzione come l’attività cosciente”. Grazie ad essa e attraverso di essa,
l’“intuizione” non è più una semplice “ visione diretta” della durata vissuta, ma
diventa “simpatia con la vita” e con lo stesso universo della materia. Si tratta
di una analogia che funziona in un significato “comprensivo”, del tutto
opposto a quello “esplicativo” con il quale Darwin aveva avanzato l’ipotesi
della selezione naturale, fondandola e comparandola con la selezione
12 13
artificiale. P. A. Miquel , che approfondisce questo tema, ritiene che più
che a Darwin Bergson si oppone al neo-darwinismo: in una delle sue tesi
fondamentali sostiene che l’ereditarietà si trasmette grazie alla diffusione
dell’energia genetica - così la chiama, collegandosi alla ereditarietà ed alla
continuità del “plasma germinativo”, la nota tesi di Weismann. È possibile
tuttavia trovare un punto in cui convergono le tesi di Darwin e quelle di
Bergson: per il primo la selezione naturale ha senso solo se riferita alla
differenza dei caratteri, per Bergson l’evoluzione procede per dissociazione,
biforcazioni e divergenze successive, mai per aggregazione.
Abbiamo ascoltato degli interventi che hanno esposto interessanti
considerazioni sul clima e le contrapposizioni scientifiche operanti nell’epoca
14
di Bergson: in questa direzione H. J. Han ha messo l’accento sull’euristica
NOTE
del vitalismo, indispensabile per chiarire il concetto di élan vital. Secondo
l’oratore è indispensabile un confronto fra la teoria bergsoniana e quella di P.
J. Barthez. sulla dottrina del vitalismo, verso il quale Bergson ha adottato una
doppia euristica, una negativa e modesta, l’altra positiva ed audace. La prima
presenta i limiti della biologia come è intesa dal meccanicismo, dal
riduzionismo fisico-chimico, e più ampiamente dallo scientismo e
dall’intellettualismo ottimista, mentre la seconda enuncia delle ipotesi - i
concetti occulti - ad esempio il principio vitale di Barthez e l’élan vital di
Bergson,- nel tentativo di definire le nuove caratteristiche vitali. Ci si può
riferire ai Nouveaux éléments de la science de l’homme, l’opera in cui
Barthez adopera il principio vitale come causa sperimentale dei fenomeni
vitali, ove per “causa sperimentale”, nella fisiologia, si intende la causa
ancora sconosciuta. L’euristica bartheziana ammette l’esistenza di un
principio ipotetico ed unificante: in questo senso si nota une somiglianza
assai stretta tra il suo principio vitale e l’élan vital de Bergson. Ma sulla
possibilità di conoscere questo principio occulto le due dottrine divergono: 81
Barthez resta scettico, Bergson ritiene di non potere rigettare a priori i metodi
che servono a comprendere la materialità della vita, anche se poi ne richiama
la priorità dell’aspetto soggettivo nei confronti dell’aspetto oggettivo.
L’élan vital, attributo essenziale della vita, non è che la durata reale;
in questo modo Bergson invita a riflettere ,per comprendere il significato della
vita, su di un elemento psicologico: il tempo vissuto che di fatto è soggettivo.
Non spetta dunque alla scienza interrogarsi su l’élan vital, perché solo la
metafisica è in grado di conoscerlo, grazie alla intuizione.
Possiamo comprende allora come sia importante l’esame del
significato e del ruolo delle percezioni , il che ci introduce al grande capitolo
15
sul ruolo della psicologia. A questo s’interessa A. Berthoz ,sia pure
giustificando la propria incompetenza di un “non filosofo”; ma un fisiologo
della percezione e dell’azione, alla ricerca di una filosofia dell’azione, non
può che essere completamente d’accordo con le tesi di Bergson che radica
la percezione, la coscienza e le numerose facoltà del cervello dell’uomo nel
movimento e nell’azione, l’aspetto grazie al quale il saggio di Bergson è
certamente attuale; per coglierne però più profondamente i motivi occorre
esaminare la svolta del XX secolo che ha messo in forse le tesi formaliste ,
dominanti nel secolo precedente, che riposavano essenzialmente sul
linguaggio e la logica teorica.
Bergson denuncia la creazione, originata da tutti i formalismi, di una
ostacolo frapposto tra il vissuto del soggetto ed il flusso continuo degli eventi
del mondo, causa del “progressus”, del procedere e dell’avanzare nelle cose,
del vissuto nelle sue molteplici manifestazioni, compresa anche l’ipotesi che
la percezione sia una azione simulata, secondo la recente dimostrazione dei
neuroni-specchio. Il contributo fondamentale di Bergson è consistito nel
reintegrare la tesi “del corpo in atto” nel pensiero, secondo la quale si pensa
con il proprio corpo, con i propri movimenti, con i propri gesti. Già Poincaré e
Einstein avevano affermato che i fondamenti della geometria si trovano
nell’azione. La tesi di Bergson mostra una interessante consonanza con
l’opera famosa Penser avec les mains del letterato-filosofo Denis de
Rougemont, una opera filosofica ma anche applicabile alla vita, nell’arco
16
delle sue manifestazioni della realtà del XX secolo.
Fra il “continuo”, che egli esalta, e la “frammentazione”, di cui sono
responsabili il linguaggio ed i vari formalismi, a partire da Matière et mémoire
Bergson aveva cercato di trovare un compromesso, simile a quello fra
materialismo e idealismo, per cercare di eliminare ogni forma di dualismo che
avrebbe potuto danneggiare il suo pensiero. Così aveva pensato di conciliare
teorie opposte sull’attività del cervello, come oggi ce le propongono le neuro-
scienze, solidali nella tesi secondo la quale si può considerare il cervello 82
come una serie in coppia di oscillatori. Ne risulta che il problema del tempo
del movimento,del tempo discreto o del tempo continuo, è mal posto, poiché
il tempo, la durata, sono in qualche modo iscritti nella frequenza degli
oscillatori. Lo spazio stesso può essere creato da interazioni degli oscillatori,
come afferma il recente modello di Burgess.
Non si possono dunque separare lo spazio ed il tempo nella
dinamica del processo cognitivo, anzi occorre tener presente ,ad
esempio,che il gesto è nello stesso tempo una traiettoria et un cammino che
viene vissuto lungo il suo svolgersi. Bergson insiste anche nel ritenere che le
scelte di vita sono più “comode” per alcune specie , nello stesso spirito con
cui Poincaré affermava che era maggiormente “comoda” la geometria
euclidea. L’evoluzione ha consentito di scoprire mezzi di semplificazione
nell’immensa complessità dei meccanismi biologici e delle funzioni del corpo
e del cervello, ma a Bergson sembra che sfugga una delle ragioni più
importanti di questa semplificazione: la necessità di “fare” in fretta.
Nelle opere di Bergson si trovano certamente importanti intuizioni:
così, dal fatto che il cervello utilizza molti referenti spaziali. Egli deduce il
ruolo della inibizione,l’importanza della nozione di affordance, le molte forme
di memoria, per cui riconoscere un oggetto significa giocarselo, ossia
immaginare quello che se ne può fare. E ci spinge ad andare oltre quando
considera che il vissuto del soggetto consiste nella durata: è il fine che
perseguono oggi le scienze cognitive, senza risolvere il problema. E sono
indubbiamente interessanti le comparazioni che si possono cogliere fra le
teorie bergsoniane del ridere ed i dati moderni della Neurologia e delle
Neuroscienze sulle basi neuronali della risata.
Come si collega la dottrina della “invenzione” alla teoria
NOTE
17
dell’”intuizione”? È questo l’interrogativo che si è proposto H. Hude , che
sottolinea come nella filosofia intera di Bergson - non solo nelle Opere, ma
anche nei Corsi - il problema dell’invenzione è strettamente connesso con
quello della “intuizione” perché l’immediatezza con cui ci salta agli occhi è più
il frutto dell’invenzione che dell’intuizione., la quale è una forma di vita
intellettuale, non di routine ed è coestensiva alla vita dello spirito intuitivo. Se
con l’intuizione cogliamo la durata, con l’invenzione possiamo comprendere
intuitivamente cosa sia l’invenzione in sé, e la conoscenza in quanto
intuizione è il risultato di due invenzioni e dell’invenzione della loro stessa
unione. Bergson segue un processo già proposto da Descartes e da
Kant.:l’intuizione è un metodo che presuppone i risultati dell’analisi
trascendentale, proprio perché l’immediato non si dà in maniera capricciosa,
ma lo si inventa metodicamente; l’intuizione è un elemento in questo metodo
d’invenzione. L’invenzione bergsoniana consiste nell’intuizione della durata,
resa possibile dalla distinzione fra simbolo spaziale della durata( il tempo per 83
Bergson) e la durata in sé. L’intuizione della durata rende possibile inventare
una sintesi universale, non a-priori né a posteriori, ma di organizzazione
vivente, nella quale s’inscrivono i meccanismi dell’invenzione: un circuito
mentale che va da uno “ schema dinamico” alle immagini
L’intuizione, momento cognitivo fondamentale , nasce nella
emozione ed ha come oggetto la totalità, pluralità di durata all’interno del
tempo universale, sullo sfondo dell’eternità della vita.
Il colloquio al Collège de France si è concluso con la relazione di A.
18
Prochiantz , che ha esposto i criteri con cui procedere sulla possibilità e la
validità di una lettura bergsoniana da parte di un biologo. Secondo lui, grazie
alla nozione di durata Bergson ha sperimentato la possibilità di mettere
insieme sviluppo ed evoluzione, che assegnano un ruolo più importante
all’intervento della storia caratterizza le strutture biologiche. “Ovunque ci sia
una forma di vita,esiste, aperta qualche parte, un registro in cui il tempo
s’inscrive”. Il relatore si richiama alla sua esperienza personale sottolineando
che è sorprendente la soddisfazione che dà ,ad un biologo materialista, la
lettura della Evoluzione creatrice; inoltre, almeno secondo lui, è necessaria
per correggere quell’etichetta di “filosofo spiritualista”, di cui spesso si è
abusato per comunicare il lato peggiore di Bergson.
Quest’ultimo, attraverso l’ analisi dell’evoluzionismo che continuava il
dibattito tra Claude Bernard e i fisiologi meccanicisti, ha saputo individuare
ciò che appartiene all’ essenza dell’essere vivente. L’oratore non esclude
che, strada facendo, la separazione fra intelligenza ed istinto - esprit de
géométrie ed esprit de finesse-, come fondamento del conoscere, faccia lo
scherzo ai biologi di ricollocarli fra i meccanicisti. Ma quella che si può
considerare la parte “nobile” della vita,ossia l’istinto, l’intuizione, l’esprit de
finesse andrebbe a finire nella “ borsa” filosofica? Non si può certamente
accettare e tutto questo spinge ad interrogarsi su una filosofia della
conoscenza adatta all’essere vivente.
Il mattino del giorno successivo (24 novembre) il Congresso è stato
dedicato al momento propositivo ed alla discussione, in ben quattro “ateliers”.
Di essi, il primo ha preso in esame le fonti e la ricezione dell’Evolution
créatrice nella storia della filosofia (coordinato da F. Worms), il secondo ha
seguito il percorso bergsoniano da l’Evolution créatrice a Les deux sources
de la morale et de la religione (ordinato da J.L.Vieillard- Baron), il terzo ha
approfondito il tema della metafisica: Le statut du negatif de l’Evolution
créatrice (coordinatrice Fl. Cayemaex), mentre il quarto ha indagato il
problema della materia ne l’Evolution créatrice. Gli “ ateliers” si sono svolti
all’ENS, ove,nello stesso pomeriggio, sono state pronunciate le conferenze
19
plenarie, affidate a Pete A. Y. Gunter , Bergson‘s New Concept of Analysis,
cui è seguita l’esposizione: Bergson et l’idée de loi scientifique, pronunziata 84
20 21
da J. L. Vieillard-Baron , mentre J. Mullarkey ha illustrato il tema: Breaking
22
the Circe: Elan Vital as Performative Metaphysics. Roi Tchoe ha offerto una
interessante analisi, che analizza. Une interprétation metaphysique de
Bergson: l’âme du Phèdre de Platon et la durée bergsonienne, mentre A.
23
Bouaniche ha trattato il tema: De la surprise devant le temps à la surprise
24
devant la création. Fl. Caemayeux ha svolto una originale relazione sul
tema: Positivité et indétermination: la question du négatif dans la philosophie
de Bergson. Ha concluso il colloquio Fr. Worms con l’analisi di “Ce qui est
vital dans l’Evolution créatrice”.
Riteniamo che questa nostra semplice enunciazione delle tesi e
delle problematiche presentate nei due giorni del congresso sia sufficiente a
giustificare l’interesse suscitato dagli interventi e a formulare la richiesta che
al più resto vengano pubblicati gli atti.
All’interno della linea storiografica, perseguita in questi ultimi venti
anni da Frédéric Worms - anima della ripresa degli studi bergsoniani e della
riedizione delle sue opere,alla luce di un assoluto rigore filologico e filosofico
- scorgiamo un nuovo “destino”, capace di restituirci un pensatore tanto
amato quanto “inconsiderato”, grazie ad una più puntuale conoscenza e ad
una valutazione più oggettiva, anche alla luce del non sempre lineare
svolgimento della filosofia francese del secolo XX. Ripubblicare tutte le opere
di Bergson, dare alle stampe i suoi corsi al Collège de France, scegliere fra la
sua corrispondenza anche quelle lettere da Lui destinate all’incenerimento
significa ripristinare tempi, luoghi, sensazioni, senza i quali è impossibile
cogliere il clima in cui è maturata la filosofia bergsoniana.
Nella seconda metà del XIX secolo si era organizzato un insieme di
NOTE
conoscenze che avevano trovato nella scienza il modello ideale alimentare
una vera, definitiva,liberazione dell’uomo.
Il rinnovamento radicale del pensiero scientifico è stato avviato
grazie alle ricerche intraprese da nuovi indirizzi per la matematica, alimentati
dalla scoperta delle geometrie non-euclidee e dai risultati innovatori sulle
ipotesi sulla natura dell’universo. L’antropologia, che si apriva ai contributi
della psicologia, ormai scienza autonoma dalla filosofia, della psichiatria, che
trovava nelle prospettive sperimentate da Charcot le motivazioni per
innovazioni radicali della disciplina, i primi orientamenti della ricerca
psicoanalitica di Freud, che , diventati dominanti nella prima metà del secolo
XX, daranno dei contributi fondamentali anche alle scienze
umane,spalancavano orizzonti insospettati negli anni precedenti.
Le scienze hanno vissuto dunque un eccezionale momento di
rinnovamento, presupposto per una dinamica riflessione filosofica sull’uomo
e sulle sue attività conoscitive.
Per un caso, tanto felice quanto non comune, Bergson è il primo 85
filosofo dell’età moderna nel quale il sapere filosofico e quello delle scienze
sperimentali sono coltivati con grande intelligenza.
Nella filosofia della natura di Bergson, che influenza in maniere
radicale la scienza nel passaggio dal XIX al XX secolo, influiscono anche
diverse componenti: dalla tradizione ebraica, che si ispira alla Bibbia, alla
cultura filosofica greca, medievale, moderna e contemporanea, nella quale é
presente l’influenza della tradizione della medicina, quella della scienza del
Positivismo, che Bergson riprende, corregge ed integra con gli appassionanti
studi con cui approfondisce i problemi della biologia, da quella vegetale- la
più difficile- a quella animale ed umana.
Ci sembra però che non si debba dimenticare l’influenza
dell’insegnamento di F. Ravaisson, il maestro che lo ha avviato a questo
genere di studi e il ruolo significativo che hanno avuto le sue opera, dal De
25
l’habitude al Testament philosophique - ultima opera pubblicata postuma
Ravaisson precorre ed anticipa molti aspetti del pensiero bergsoniano,
insistendo sul pensiero antico-da Platone al neo-platonismo- su quello
moderno- da Descartes a Pascal- su quello contemporaneo, con particolare
attenzione alla biologia ed alle figure di Claude Bernard e William James. La
“nota di generosità e di amore”- con la quale Bergson commemorerà il
maestro e la sua “ filosofia eroica”- sono i chiari aspetti di una eredità
spirituale destinata a rafforzarsi nel proseguo degli anni della vita del filosofo.
1
Le manifestazioni, coordinate dalla Società des amis de Bergson e dal Centre
international d’ètude de la philosophie française contemporaine, hanno preso il via il 9
marzo 2007 con l’apertura dell’ “anno Bergson “ all’ENS ( Ecole Normale Superiore),
cui é seguita une giornata di studio( 15 marzo) alla Fondation Singer- Polignac. Il 19-
21 marzo si sono aperti a Toulouse gli “Ateliers internationaux sur l’Evolution créatrice
de Bergson. Nature et subjectivité”, mentre il 4-5 maggio successivi nelle università di
Bari e di Lecce oggetto del dibattito è stato il tema: L’évolution créatrice e il problema
religioso, G. Invitto, organizzatore dell’incontro di Lecce, ha curato il volume degli atti
del colloquio svoltosi a Lecce: Bergson: L’évolution creatrice e il problema religioso,
Mimesis, Milano 2007). Il 4- 5 luglio a Mayence un incontro è stato dedicato a :Bergson
et l’Allemagne: la question de la philosophie de la vie, mentre a Londra (Institut
Français) il 19 settembre si è discusso su : Bergson Today .Nello stesso mese, 1 19,
l’Institut de France ha commemorato il “Centenarie de la parution de l’Evolution
créatrice de Henri Bergson”. Un congruo numero di incontri si sono svolti
,successivamente,nei mesi di ottobre e novembre: il 4-5 ottobre à Poitiers il tema 86
verteva su: Sujet et totalité, mentre dal 15-20 ottobre le università giapponesi di Tokio,
Kyoto ,Fukuoka, hanno approfondito il tema :Disséminations de l’Evolution créatrice.
Histoire(s) de la réception. A Seul, il 22-23 ottobre si è trattato di Réception et actualité
de Bergson en Corée: monisme ou dualisme? mentre il 30 ottobre l’università di Lille
ha organizzato un incontro di studio: En quoi l’évolution est-elle créatrice?, seguito , il
giorno successivo, da un dibattito su La création. Nel mese di novembre, il 10, a
Barwick il tema prescelto è stato: Creative Evolution, One Hundred Years. On.Biology,
Ecology, Complexity, ed il 15-16 l’università di Buenos Aires ha proposto di discutere
:¿ Inactualidad del Bergsonismo?. Il convegno promosso dal Collège de France,
dall’ENS e dalla Société des amis de Bergson, si è svolto nei giorni 23-24 novembre
ed è stato dedicato a L’Evolution créatrice de Bergson cent ans après. Epistémologie
et Métaphysique. A questo evento abbiamo dedicato questo articolo. Le celebrazioni si
sono concluse con il colloquio del 12-14 dicembre a S. Paulo del Brasile con
l’argomento: ”Le statut du négatif et la nouvelle ontologie dans la philosophie de la
durée .Bergson et sa postérité”.
2
Ci sembra opportuno ricordare il rinnovamento che F. Worms ed i suoi collaboratori
hanno impresso alla pubblicazione critica dell’intera opera bergsoniana, già accessibile
“en poche”, nella collezione “Quadrige- Grands teste”. Il nuovo piano editoriale si
sviluppa in tre tappe: 2007, 2009, 2011, e riguarda tutte le opere pubblicate da
Bergson, completate da note esplicative e dalle eventuali varianti del testo, cui
s’aggiunge una tavola analitica dell’opera, una sequenza di indici, unitamente ad una
“lettura” e ad una bibliografia ragionata. Alla edizione delle opere seguirà quella della
corrispondenza e dei corsi tenuti al Collège de France. Sono già stati pubblicati anche i
primi quattro tomi degli Annales Bergsonniennes (a cura di F. Worms) e, per le edizioni
PUF, i volumi: Essai sur les données immédiates de la con science ( 1889) - a cura di
A. Botaniche -; Le rire (1900) -, a cura di G. Sibertin- Blanche; L’évolution créatrice, a
cura di A. François. La rinascita di Bergson nella cultura contemporanea non è
imputabile al caso: il dibattere oggi sul significato della psicologia - e della psicoanalisi
-, della filosofia della scienza e della stessa metafisica trova nel pensatore francese un
vigore ed una attualità non scalfiti dal tempo e mette in crisi un vecchio pregiudizio
secondo il quale la filosofia di Bergson sarebbe obsoleta ed in più la conclusione di
NOTE
una stagione della filosofia anteriore alla prima guerra mondiale, incapace di aprire
nuove prospettive che possano far progredire le esigenze teoretiche del pensiero
contemporaneo. Il dibattito sul bergsonismo è stato lungo e doloroso, liquidato da
Sartre con l’epigrafe “il bergsonismo rappresenta una grande corrente del pensiero
d’ante-guerra” (L’imagination, p.112). Riteniamo di poter dire, con F. Worms, che è
grazie all’impegno per i problemi comuni e alle soluzioni di interesse generale che
Bergson merita di essere riletto non solo per se stesso ma in rapporto ai vari Jaurès,
Brunschvicg, Alain, Nietzsche, Husserl, Freud, James, Russel, Whithead e molti altri,
di cui conosciamo il valore e l’importanza.
3
Cfr., fra gli altri, J .R. ARMOGATHE, La mise à l’index de l’Evolution créatrice, in (a cura
di G. Invitto), Bergson . L’Evolution créatrice e il problema religioso, cit., pp. 41-50.
4
Ci riferiamo alla relazione La philosophie et la science, selon Bergson, pronunciata
come discorso di apertura al congresso su Bergson da Anne Fagot-Largeault ,
professore di filosofia delle scienze biologiche e mediche al Collège de France.
5
Così l’ha considerata il presidente poeta Senghor sostenendo la tesi che il ritorno alla
intuizione in Europa significava per lui una reintegrazione nella dimensione dell’uomo.
6
87
É docente all’università Paris I-Panthéon Sorbonne.
7
Docente all’università di Seul.
8
Direttore di ricerche al CSNS, egli ha pubblicato di recente uno dei più bei saggi critici
su Bergson di questi ultimi anni, La gloire de Bergson. Essai sur le magistère
philosophique, Gallimard, Paris 2007.
9
A. François, segretario della associazione Amis de Bergson ha curato la edizione
critica de L’évolution créatrice ed è autore di studi dedicati a Schopenhauer, Nietzsche
e Bergson.
10
Il capitolo III de L’évolution créatrice è, senza dubbio, uno dei più interessanti
dell’intera opera; di esso vogliamo richiamare questa pagina. “A prima vista può
sembrare prudente lasciare considerare i fatti alla scienza positiva. La fisica e la
chimica si occuperanno della materia bruta, le scienze biologiche e psicologiche
studieranno le manifestazioni della vita. Il compito del filosofo è dunque chiaramente
delimitato. Questi riceve, dalle mani dello scienziato, i fatti e le leggi, e, sia che cerchi
di superarle per comprenderne le cause profonde, sia che ritenga impossibile andare
più lontano e provi questo con l’analisi stessa della conoscenza scientifica, in entrambi
i casi mantiene, per i fatti e le relazioni che la scienza gli trasmette, il rispetto che si
deve alla cosa che è stata giudicata. A questa conoscenza sovrapporrà una critica
della facoltà di conoscere, ed anche, quando è necessario, una metafisica: per quanto
concerne la conoscenza stessa, nella sua materialità, egli la considera come un
problema di scienza, non di filosofia” (E. BERGSON, L’évolution créatrice,- édition
critique par Fr. Worms, PUF, Paris 2007, p.195 - Traduzione del brano in italiano a
cura di S.Arcoleo)
11
Professore al Collège de France, dove insegna biologia storica e Evoluzionismo
12
Del Centro di ricerche e di Storia delle Idee (Università di Nizza) e del Centro
Cavailles, dell’ENS di Parigi, studioso della filosofia francese contemporanea ha
pubblicato,fra le altre, le seguenti opere: Bergson ou l’imagination métaphysique,
Kimé, Paris 2007 e “From an immanentist to an emergentist approach to Evolution:
Between Bergson and Darwin,”SubStance, Wisconsin Un. Pr., 114, vol. 36,3 , 2007,
pp. 42- 56.
13
Questo studioso ha pubblicato un pregevole articolo: Bergson et Darwin, nel volume:
Bergson la durée et la nature, coordinato da J. L. Viellard- Baron, pubblicato da PUF-
Débats, Paris 2004, pp. 119- 135. L’edizione-all’apparenza un volumetto di dimensioni
modeste- ha anticipato molte teorie che sono state esposte, con maggiore ricchezza di
particolari, nel colloquio presso il Collège de France. Presenta i contributi rilevanti di
J.L.Vieillard- Baron,A. Panero, J.F.Marquet, M. Le Moine,P.A. Miquel, P. Montebello,
F.Worms
14
Hee-Jan Han è professore al Collège de France e al Centre Cavaillès, dell’ENS di
Parigi.
15
Alain Berthoz, professore al collège de France, direttore del laboratorio di Fisiologia
della Percezione e dell’azione. Fra le sue opere ricordiamo: A. BERTHOZ et J.L. PETIT,
Phénoménologie et Physiologie de l’action, O. Jacob, Paris 2006; A. Berthoz, Le sens
du mouvement, Jacob, Paris 2007.
16
Cfr. G. VALBÉRT, Un précurseur de l’engagement. Entretien avec Denis de
Rougemont, Magazine littéraire, 161, 1980, pp. 54-56.
17
Henri Hude, maître de conférences, è un apprezzato studioso di Bergson, sul quale 88
ha pubblicato ben due tomi, Bergson I, 1989, Bergson II, 1990 (premiate dalla
Académie française) e del quale ha curato quattro volumi dei Cours al Collège de
France.
18
Alain Prochiantz, del CNR, dell’ENS, e del Collège de France.
19
P.A.Y.Gunter è professore a Denton-Texas al dipartimento di Filosofia e studi
religiosi. E’ autore di una importante bibliografia su Bergson- Henri Bergson:A
Bibliography, 2 ed. 1986- e di una monografia dedicata a Bergson and the Modern
Thought, 1989
20
Professore all’università di Poitiers.
21
Lettore di filosofia all’università di Dundee-Scozia, UK. Studioso di Bergson ha
pubblicato, fra gli altri, gli studi: Bergson and Religion, in History of the Philosophy of
Religion,vol.5, edited by Graham Oppy and Nick Trakakis, Acumen Press 2007; The
very Life of Things: Reversing Thought and Thinking Objects in Bergsonian
Metaphysics- Introduction to Henri Bergson, Introduction to Metaphysics, edited by J.
Mullarkey, Palgrave-Macmillan, 2007.
22
Roi Tchoe è professore di filosofia all’università di Kyung Hee, di Seul Corea del
sud.. Ha tradotto in coreano Il Saggio sui dati immediati della coscienza di Bergson ed
ha dedicato molti studi alla tradizione filosofica ed alle dottrine di Bergson. Ricordiamo
il suo “Bergson et Bachelard:la durée et l’instant”, in “Le monde de la philosophie
ancienne”, 1995 e “ Bergson et Heidegger”,in “ Heidegger et les Philosophies, 1999.
23
De l’Université de Lille.
24
Chercheur de l’Université de Liège. Ha pubblicato un saggio molto ben documentato
e di singolare importanza.:Sartre, Merleau–Ponty, Bergson. Les phénoménologies
existentialistes et leur héritage bergsonien, Olms Verlag 2005.
25
F. Ravaisson, Testament philosophique, presenté par Claire Marin, Allia, Paris 2008.
NOTE
89
GUYAU E UNA MORALE SENZA OBBLIGAZIONE NÉ SANZIONE
di Maria Cristina Fornari
NOTE
nell’immortalità dell’anima o con l’indicazione di principi eudemonistici quali il
piacere o la felicità; né il pessimismo, con le sue conseguenze nichilistiche;
né l’indifferenza della natura, ipotesi allettante ma insoddisfacente. Il principio
della moralità va chiesto alla vita stessa, e non ad una legge che la preceda
o la sottometta: la guida principale di tutti i valori umani (etici, artistici,
religiosi) non può che essere l’impulso vitale, unica base possibile per una
morale libera dai pregiudizi e dalle pressioni esterne.
La vita incarna una forza naturale di carattere espansivo, fecondo e
generoso; come la fiamma, essa non può conservarsi se non comunicandosi.
Orientata dunque verso gli altri per naturale prodigalità, è essa stessa fonte
di moralità e dà a se stessa il nome di dovere. Guyau può così attuare la sua
rivoluzione copernicana, l’inversione dell’imperativo categorico kantiano:
devo perché posso, non esiste obbligazione né sanzione capace di
eguagliare o sostituire questa potente forza impulsiva. Di conseguenza, 91
l’etica non deve essere un insieme di prescrizioni e di divieti, ma deve
semplicemente limitarsi a riconoscere e favorire la naturale tendenza
dell’uomo verso la socializzazione, in un progresso morale naturale in cui le
ingiunzioni di imperativi categorici e di dogmi religiosi non avranno più
ragione di esistere. «Una morale positiva e scientifica [...] non può dare
all’individuo che questo comandamento: sviluppa la tua vita in tutte le
direzioni, sii un individuo ricco il più possibile in energia intensiva ed
estensiva; perciò, sii l’essere più sociale e più socievole», laddove Nietzsche
dirà invece, significativamente: «Sviluppa tutte le tue forze – ma ciò vuol dire:
26
sviluppa l’anarchia! Perisci!» .
Nietzsche conosceva la Esquisse d’une morale sans obligation ni
sanction (Félix Alcan, Paris 1885) per averla acquistata presso il libraio
Lorentz di Lipsia, e non presso la libreria Visconti di Nizza, come ci informa
erroneamente Fouillée (al Goethe-und-Schiller Archiv di Weimar si conserva
27
la ricevuta d’acquisto del 7 novembre 1884 ). Il suo interesse per
quest’opera è testimoniato dalle numerose glosse a margine apposte al
volume – oggi perduto – fortunatamente riportate da Fouillée già nel 1909 e
che del libro di Andolfi costituiscono un’appendice fondamentale (dobbiamo
all’edizione Paravia del 1999 la loro prima pubblicazione in traduzione
italiana). L’altra opera che Nietzsche conosceva, L’irreligion de l’avenir, non è
affatto andata perduta ma è conservata tra i suoi volumi personali presso
l’Anna-Amalia-Bibliothek di Weimar (coll. C 268), anch’essa con numerose
glosse a margine.
Come spesso accade con autori che egli considera, per vicinanza o
per opposizione, suoi interlocutori, Nietzsche intreccia con Guyau un dialogo
virtuale. Se Guyau sembra legittimare la socialità à la Fouillée, il vitalismo
altruista à la Spencer, e si inserisce dunque nel filone che Nietzsche
stigmatizza come “culto malcelato dell’ideale cristiano” (si veda ad esempio il
28
frammento 10[170] dell’autunno 1887) , tuttavia non poteva non interessare
al filosofo tedesco l’idea-chiave della vita come movimento espansivo, come
dépense, al di là di ogni finalismo prefissato e di ogni consapevole teleologia.
Le glosse riportate da Andolfi, e che costituiscono, se analizzate alla luce
della filosofia nietzscheana, uno studio nello studio, mostrano diversi segni di
consenso (“moi”, “gut”, “ja”) coi quali Nietzsche riconosce a Guyau delle felici
intuizioni. Ad esempio, la critica al finalismo troppo angusto della morale
utilitaria, che Nietzsche condivideva fermamente: «Gli utilitaristi o gli edonisti
si sono troppo compiaciuti a considerare la prima specie di piacere [legato ad
una forma particolare di attività; ma] non si agisce sempre con lo scopo di
perseguire un piacere particolare, determinato ed esterno all’azione stessa;
talvolta si agisce per il piacere di agire, si vive per vivere, si pensa per
pensare. C’è in noi della forza accumulata che chiede di essere spesa; 92
quando il dispendio è impedito da qualche ostacolo, questa forza diventa
desiderio o avversione: quando il desiderio è soddisfatto, c’è piacere; quando
è contrariato c’è pena; ma non ne risulta che l’attività accumulata si manifesti
unicamente in vista di un piacere, con un piacere per motivo; la vita si
manifesta e si esercita perché è la vita. Il piacere accompagna in tutti gli
esseri la ricerca della vita, molto più di quanto non la provochi; bisogna
innanzitutto vivere, poi godere» (Nietzsche sottolinea e scrive “gut” a margine
29
del suo testo) . Ma se Guyau legge quest’impeto vitale ancora come
“mantenersi in vita”, come «tendenza dell’essere a perseverare nell’essere»,
che costituisce per lui il «fondo di ogni desiderio» – non si tratta di un puro
dominio dell’attività in tutte le sue forme, non è affatto energia vitale che
vuole scaricarsi, ma ancora “brama di vita” –, Nietzsche ne prenderà le
distanze, ribadendo il suo concetto di vita: «Io non insegno che il fatto che
ogni essere vuole persistere nel suo essere sia il fondo di ogni desiderio: lo è
invece la volontà di potenza» (glossa a margine del suo testo; sottolineature
30
di Nietzsche) . «Qui si nasconde l’errore», commenta ancora Nietzsche
all’affermazione di Guyau che «l’essere ha sempre bisogno di accumulare un
surplus di forza, anche per avere il necessario; il risparmio è la legge stessa
31
della natura» : per il Nietzsche che stava riflettendo, all’opposto, sulla natura
persino “assurdamente prodiga” della vita come volontà di potenza, l’incontro
32
con Guyau non poteva che essere stimolante .
Oggi l’interesse per questo “Nietzsche francese” – come qualcuno,
33
con non troppa precisione, ha voluto definirlo – è pressoché scemato ,
complici forse l’ingombrante presenza di Nietzsche o la massiccia influenza
di Bergson, al quale non furono estranee le considerazioni sul tempo
sviluppate da Guayu in La Genèse de l’idée de temps (1890, postumo). Per
alcuni pioniere e precursore di Durkheim, “sociologo interdisciplinare”, storico
34
NOTE
della filosofia del quale non si sono ancora indagate a fondo le influenze , la
sua riscoperta potrebbe essere senz’altro “assai preziosa per la riflessione
morale contemporanea” (p. 7): la ristampa dell’Esquisse da parte di Andolfi
riaccende l’appetito nei confronti di questo pensatore tipicamente
ottocentesco, ma al quale non si possono negare rigore metodologico e una
certa originalità teoretica.
1
Frammento postumo 6[159] autunno 1880, KSA 9, 237.
2
Le date non devono stupire: era infatti consuetudine che i volumi uscissero a fine
anno con la data dell’anno successivo.
3
«NB. Forme più celate del culto DELL’IDEALE MORALE CRISTIANO. Il concetto effeminato
e vile di “UOMO” alla Comte, possibilmente addirittura oggetto di culto… È sempre di 93
nuovo il culto della morale cristiana sotto un nuovo nome… I liberi pensatori, per
esempio Guyau […]. E poi addirittura tutto l’ideale socialista: nient’altro che un balordo
fraintendimento dell’ideale morale cristiano» (KSA 12, 558).
4
Ed. Andolfi p. 217.
5
Ed. Andolfi p. 218.
6
Ed. Andolfi p. 218.
7
Se ne vedano alcuni interessanti aspetti in F. ANDOLFI, Nietzsche e Guyau. Consensi,
dissonanze, silenzi, “La società degli individui”, n. 15, 2002/3, pp. 37-48. Su Nietzsche
e Guyau anche D. PÉCAUD, Ce brave Guyau, “Nietzsche-Studien”, n. 25, 1996, pp.
239-54.
8
Felice eccezione in Italia gli studi di Annamaria Contini.
9
Cfr. H. HALBLITZEL, Jean-Marie Guyau: penseur interdisciplinaire et sociologue,
“Corpus”, 46, 2004, pp. 17-23.
ALCUNE RIFLESSIONI SU
“LINGUAGGIO E PRINCIPIO DI ESCLUSIONE”
di Tommaso Speccher
NOTE
il nazismo, non certo in nome del revisionismo ma, anzi, per affrontare una
volta per tutte questa prossimità» allora sembra porsi come necessario
proseguire su di una messa in luce comprensiva di quella medesima
prossimità, liberando i discorsi attorno al non dicibile attraverso cui sembra
definirsi la riflessione sull’Olocausto.
I quattro studi contenuti in La lingua malata. Linguaggio e violenza
nella filosofia contemporanea, (Bologna, Clueb, 2007) di Federico Dal Bo,
risentono della necessità di confrontarsi con una contemporaneità filosofica
impegnata nell’approfondimento di quelle riflessioni, nel tentativo di affinare
nuovi strumenti e prospettive. Il Novecento sembra avere tracciato una
fenditura di ampia portata non solo per quella che è stata la incidenza
effettiva dell’esperienza dell’Olocausto ma per avere messo a nudo
meccanismi che vanno oltre l’insieme di quella esperienza. Il nazismo ha
posto lo spirito europeo dinanzi alla radicalità di questioni che non sembrano 95
essere risolvibili e che richiedono lo spostamento di strategie prospettiche.
L’interrogazione heideggeriana friburghese del 1934-35 riguardante il
rapporto tra situazione fattizia e compito storico nel rapporto fra il nazionale o
proprio (das Nationelle o das Eigene) e l’estraneo (das Fremde), come del
resto le analisi freudiane de L’uomo Mosé non sono semplici indagini attorno
ad aspetti di cultura ontologica o di carattere psicoanalitico ma definiscono
paradigmi essenziali dentro cui riversa costantemente la condizione del
soggetto europeo contemporaneo. Il problema di “una vocazione storica” (a
quanto pare sempre al di là dal venire) “di trasformare il già dato, il nazionale,
in un dato-in-compito”, problema ontologico di cui parla Heidegger a
Friburgo, ripropone problematicamente la propria centralità nel gioco
perverso e coevo della riflessione freudiana sul nazismo ripresa da Dal Bo
ovvero di quella «visione di una lingua dell’inferno, di un accanito necrofilo e
di un distruttore che hanno prodotto il male fingendo di ricercare un progetto,
un’impresa politica, una rivoluzione». La psicoanalisi come l’ontologia
rappresentano la possibilità di ricucire lo squarcio di senso da cui sembra
essere costitutito il magma nazionalsocialista. Non c’è una unicità di quella
esperienza bensì una pluralità di rimandi a nessi riguardanti la modernità e i
suoi assi portanti come il rapporto tra natura e cultura, biologia e filosofia,
metafisica e storia.
Attraverso questo gioco di specchi, La lingua malata di Dal Bo si
produce in un contributo eclettico e innovativo del come può essere pensata
la fenditura rappresentata da quel male radicale. Il nazismo come fatto
storico racchiude una serie di nodi di ordine psicologico e linguistico che
sembrano essere prefigurati dal clima culturale dentro cui verrà a definirsi.
Nel secondo studio del suo testo, La teoria freudiana dell’aggressività:
nazionalsocialismo e uso demagogico della lingua, Dal Bo riflette con
abbondanza di riferimenti, sulla considerazione freudiana del rapporto tra
natura e cultura e attorno alla radicalità semantico-politica di quella
essenziale tensione in rapporto al fenomeno nazionalsocialista. Quando Dal
Bo sottolinea «come ricorda di passaggio lo stesso Freud, il nazismo è uno
oscuro grido di rivolta dell’inconscio dell’umanità contro le istanze morali
rappresentate dall’intera Bildung europea» non sta semplicemente
riprendendo il filo dell’interpretazione psicoanalitica della figura di Hitler
dunque del sistema-nazismo come “incesto” bensì cerca di individuarne
aspetti costitutivi in relazione alla contemporaneità novecentesca.
La nascita e il ruolo stesso della psicoanalisi, come la crisi generale
presente in altri ambiti scientifici, rimandano secondo Dal Bo, a delle costanti
della storia sociale e simbolica europea di inizio Novecento: una di queste è
l’accessibilità ad una comprensione generale del presente storico a cui anche 96
il nazismo sembra anelare e che coincide con la possibilità di realizzare
pienamente una trasformazione positiva del dato “naturale” in quello
“culturale”. A questo livello Dal Bo determina la centralità critica del
linguaggio che è capace di «intessere nuovamente questo legame che
permetta all’uomo perlomeno di elaborare una strategia di uscita dal muto
mondo della natura» ma che al tempo stesso è esposto al rischio di “potersi
porre al di fuori di ciò che chiamiamo morale, buono e giusto”. Non è un caso
che il ruolo performativo del linguaggio torni dirompente nella riflessione
attorno al dibattito tra “diritto positivo” e “rivoluzione” con cui si confronta Dal
Bo nel quarto capitolo de La lingua malata dedicato a Benjamin e Sorel: «la
lingua è, ancora, lo strumento privilegiato per questa ricerca: dalla
determinazione dell’essenza del linguaggio dipende la direzione del processo
rivoluzionario. Coloro che tra i teorici della rivoluzione hanno compreso il
ruolo decisivo del linguaggio, senza degradarlo a propaganda oppure a
semplice instrumentum regni, hanno dovuto affrontare la questione decisiva
se la violenza sia essenzialmente estranea alla lingua, alla riflessione e alla
teoria – ovvero, se la lingua sia essenzialmente e interamente al servizio di
ciò che chiamiamo morale, buono e giusto». Dietro questa riflessione sul
linguaggio si nasconde quella del rapporto tra la “positività” ed il “significato”
della storia politica moderna, già espressa sull’asse Benjamin-Schmitt-
Derrida: in gioco non sono tanto le categorie del politico quanto il compito di
una filosofia della storia nel collocare il ruolo del linguaggio come impegno
politico, sociale, educativo. Nelle pagine dedicate ai lapsus heideggeriani,
così come nella riflessione sulla comunanza tra i pensieri greco-latino ed
ebraico attorno all’origine di un vocabolo come barbar, Dal Bo si muove sull’
impervio crinale di chi cerca di “salvare” il linguaggio proprio nel momento in
cui esso sembra esporsi ad una caduta verso il basso, ad una degradazione.
NOTE
Ma perché lavorare sul linguaggio, perché “salvare il linguaggio”?
Perché pensare che il linguaggio «riesca a riprendersi, a sfuggire alla
violenza e, al pari della Parola divina, che possa tornare a cadere lieve come
rugiada»? Verrebbe da chiedersi se, ancora una volta, non sia la riflessione
di Hannah Arendt a sgombrare il campo dall’equivoco di una gradualità
presente nel rapporto tra il linguaggio e i totalitarismi, tra il linguaggio e la
violenza. La violenza forse non porta misura, come forse non la portano i
“linguaggi dell’esclusione”: «quello che ora penso è che il male non è mai
“radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una
dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero,
perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” il
pensiero, perché il pensiero cerca di andare alle radici, e nel momento in cui
cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità.
Solo il bene è profondo e può essere radicale». 97
La Democrazia nell’età moderna, a cura di C. Vasale e P. Armellini, Soveria
Mannelli, Rubbettino 2008, pp. 566.
RECENSIONI
richiede un fondamento costituzionale per le libertà civili, nonché sui legami
tra morale e politica teorizzati da Shaftesbury, Mandeville e Smith.
La terza parte, presenta le principali dottrine filosofico-politiche sorte
tra il XVI e il XIX secolo. Lorella Cedroni rinviene, nella Seconda Scolastica
(Vitoria, Suarez, Molina, Mariana, Bellarmino), una visione “egualitaria” del
“diritto delle genti”, che informa il moderno diritto internazionale. Poi, Paolo
Pastori penetra nello svolgimento illuministico dell’idea democratica: colta sia
la centralità di Montesquieu, che “media” tra la prospettiva “etnica” di
Boulainvilliers e le suggestioni egualitario-universalistiche dei giacobini, sia le
peculiarità dell’«altro illuminismo», elaborato da Hume, egli si sofferma
sull’individuo di Rousseau, diviso tra incerti “ritorni alle origini” e l’arduo
“progresso” di una società civile retta dalla virtù, nonché sulle pregiudiziali
filo-assolutistiche di Voltaire, fonti di realistiche svalutazioni della democrazia
(riprese nell’Encyclopèdie), sui dubbi dell’ultimo Diderot, tra repubblica e
“monarchia limitata”, sull’ambiguo sistema democratico dell’Abbé de Mably,
nato dagli antagonismi ma perfezionato dalla concordia, e sul
costituzionalismo federalista dei patrioti americani. Invece, Rocco Pezzimenti
analizza i concetti di storia e politica in Vico, Montesquieu e Cuoco, come 99
Maria Cristina Laurenti analizza quelli di idealismo e democrazia in Fichte,
Hegel e Schelling, mentre Paolo Armellini, confrontando dottrine
democratiche e liberali, esamina lo “Stato di diritto” kantiano, la “libertà dei
moderni” di Constant, il «garantismo dottrinario» di Guizot, e le concezioni
della libertà e della differenza formulate, rispettivamente, da Tocqueville e
John Stuart Mill.
Nella quarta e ultima parte, dedicata agli sviluppi ottocenteschi,
Salvo Mastellone colloca Mazzini tra i padri della democrazia europea,
mentre Eugenio Guccione, tramite la “Matrona selvaggia” di Gioacchino
Ventura, l’«approdo ideologico» di Gioberti e le aperture costituzionali di
Rosmini, indica nel neoguelfismo italiano un liberalismo aperto alle istanze
sociali propugnate da Lamennais. Poi, Vincenzo Scaloni raffronta il
socialismo francese, quello inglese e quello del “Marx giovane”, mentre
Claudia Giurintano cerca le origini della democrazia d’ispirazione cristiana in
Francia, colte nella scuola di Buchez, e Rosanna Marsala ricostruisce i
princìpi teorici dell’ala democratica del Risorgimento italiano, colti nel
federalismo repubblicano di Cattaneo, nel «socialismo atipico» di Ferrari, e
nella «democrazia sostanziale» di Pisacane. Infine, Maria Pia Paternò riflette
sui problemi della cittadinanza femminile nel mondo occidentale,
tratteggiando le origini giusnaturalistiche della idea di eguaglianza, le tesi
“pre-giacobine” della pedagogia rousseauiana, nonché la figura della donna
in Kant, Fichte ed Hegel, per mostrare come i mutamenti semantici subiti
dalle nozioni di “natura” e “cultura”, transitino da un ambito liberal-
democratico (Olympe de Gouge, Mary Wollstonecraft, John Stuart Mill,
Harriet Taylor) a uno socialista (Fourier, Marx, Engels, Bebel), e confluiscano
poi nel concetto di «disuguaglianza di genere» coniato dalle contemporanee
“filosofie femministe”.
Nel complesso, dunque, l’opera può leggersi come una storia del
concetto di democrazia, o meglio, di “Stato democratico”. Tale storia, infatti,
parte dalla fine del Medioevo, perché solo allora, come nota Claudio Vasale
nella sua preziosa Introduzione, «si prepara l’incontro delle grandi tradizioni
politiche dell’antichità, quella democratica ellenica e quella repubblicana
romana». A partire da quel momento, in cui le categorie filosofiche
giusnaturalistiche e contrattualistiche, pur con le loro reciproche differenze,
alimentarono la riscoperta rinascimentale del “governo misto”, inizia il lungo
cammino verso la democrazia odierna, sia poi quella costituzionalistico-
liberale, o quella giacobino-radicale. Tale cammino, attraversa la guerra
contadina seguita allo scisma luterano, la guerra civile puritana
nell’Inghilterra seicentesca, la rivoluzione americana e quella francese, i moti
nazionalisti e socialisti scaturiti dall’idealismo tedesco, sino alle
problematiche dell’accesso femminile ai diritti di cittadinanza, ancora irrisolte. 100
Emerge così il tratto essenziale della prassi democratica, dato sia da una
specifica forma di governo, o modalità d’esercizio del potere, sia più in
generale dalla titolarità di quest’ultimo, che si trasmette in virtù di una
legittimazione ascendente, “dal basso in alto”.
Tale prassi implica un consenso diffuso, maggioritario, ma dotato
pure di concrete capacità “costituenti”, per realizzare un’organizzazione della
convivenza ove l’oggettivazione della funzione “giuridica”, dello “jus dicere”,
non si affidi alla “discrezionalità” della società pre-politica, né al mero “diritto
del più forte”. Implica dunque, forse più di ogni altra forma di governo, una
tangibile traduzione istituzionale, perché non può garantirsi l’effettivo
controllo popolare su chi esercita il potere, senza garantire l’effettività di tale
esercizio – al riguardo, si può osservare, con Paolo Armellini, come il
concetto di sovranità riceva da Locke, contrariamente a quanto si è soliti
ritenere, un ruolo non inferiore a quello ricevuto da Hobbes, pur con le debite
differenze.
Del resto, se la democrazia, sorta nella dimensione classica
(politeista) della polis ateniese, si è poi riprodotta nella realtà politica
(monoteista) del XX secolo, è grazie alla validità del suo principio di fondo: la
meno peggiore tra le forme governative, per gli uomini, è quella da loro stessi
legittimata, selezionando i governanti e controllandone l’operato. Infatti, il
“governo degli uomini” può tendere al “governo delle leggi”, e allontanarsi dal
“governo sugli uomini”, solo se si mantiene “governo sotto le leggi”, ossia se
queste ultime sono approvate e applicate, se non da tutti gli uomini, almeno
RECENSIONI
da tutti i cittadini. Tuttavia, nella trasposizione storica della sovranità, dallo
Stato, quale “persona collettiva”, al popolo, quale totalità dei “cittadini”,
aumenta la necessità di formalizzare i criteri di attribuzione della cittadinanza.
E tale iato, tra i componenti della comunità e i detentori dei diritti politici,
costituisce una «perdurante incompletezza» (Vasale). Il rischio, serio, è che
la democrazia, necessitando di regolamentazioni formali, vincolanti con
normative procedurali la partecipazione popolare alla vita istituzionale,
divenga meramente formalistica, sì da rescindere i legami ai valori
“sostanziali”, e tradire così la stessa prassi consensuale. Certo, esso pare
scongiurabile, o almeno affrontabile, tutelando il vero fondamento della
“sovranità popolare”, dato dai diritti fondamentali, preesistenti, dell’individuo.
Eppure, Maria Pia Paternò ci mostra come il sistema democratico, nella sua
evoluzione storica, abbia a lungo conciliato i nuovi postulati individualistici, al
tradizionale modello familiare patriarcale, ove la diversità (tra i sessi) è una
fonte di disparità (sociale, politica, economica).
Da ultimo, allora, forse il lettore potrà pure dubitare, tra il serio e il
faceto, che davvero si tratti solo d’un “rischio”, nella misura in cui l’importanza
spettante alle “regole del gioco”, per non esaurire il “gioco” nelle sue “regole”, 101
richiede che l’individuo, in quanto tale, si erga a fonte di “valori”, ma che al
contempo “valga”, o si valorizzi, principalmente in quanto “giocatore”.
L’opera ci accompagna così ad approfondire un filone vitale del
pensiero politico, ricostruendone la travagliata “gestazione”, teorica e pratica,
per comprenderne i più recenti sviluppi, sì da offrire un valido contributo alla
formazione, individuale e collettiva, di una coscienza civica democratica.
Marco Recchi.
B. Groys, Post scriptum comunista, a cura di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma
2008, pp. 95.
RECENSIONI
guerra, crescono grazie alla nuova domanda» (p. 41). Ma qui il paradosso,
che si esprime come conflitto economico, può essere «risolto entro il medium
del denaro», contrariamente al paradosso innescato dal linguaggio (p. 65).
Il potere sovietico, appropriandosi della contraddizione che pensa
simultaneamente gli opposti, è il «tentativo di instaurare un governo dei
filosofi», come teorizzato da Platone (p. 44). Il paradosso arriva al potere.
Secondo Groys, nel modo di pensare contraddittorio del
materialismo dialettico il rimprovero di unilateralità gioca lo stesso ruolo di
quello di contraddittorietà interna nella logica formale. Una tesi classificata
come unilaterale, e di conseguenza adialettica, veniva respinta e il suo
sostenitore squalificato (e non solo sul piano teorico, come è ben tristemente
noto); e una posizione era considerata deviante «non per ciò che i suoi
rappresentanti sostenevano ma per il fatto che essi si rifiutavano di accettare
come affermazione vera anche il contrario di ciò che essi avevano
sostenuto» (cfr. pp. 48-49). Essi negavano la contraddittorietà del tutto, che è
la caratteristica della vita. A differenza delle macchine che di fronte a un
paradosso si inceppano, l’uomo può vivere nel paradosso e per mezzo di
esso (cfr. p. 49). 103
Il punto più alto della «verbalizzazione» del corpo dottrinario del
potere sovietico, ovvero del governare attraverso il linguaggio, viene
individuato da Groys nel famoso intervento di Stalin per negare la tesi del
carattere sovrastrutturale e classista della lingua sostenuta da Nickolaj Ja.
Marr. Secondo Stalin, come è noto, la lingua è comune all’intero popolo,
anteriore all’uso di classe che se ne fa; essa è connessa non solo con
l’attività produttiva, come le macchine e gli altri strumenti di lavoro, ma anche
con tutte le altre attività umane, ivi comprese quelle considerate
sovrastrutturali. In questa presa di posizione staliniana – dice Groys - «viene
riflessa con qualche ritardo la linguistic turn rivoluzionaria, che il partito
comunista sovietico aveva già portato a termine molto tempo prima» (p. 56).
«Non disturba affatto Stalin che con ciò il linguaggio ottenga una definizione
in sé contraddittoria e paradossale» (p. 60).
Viene così confermato che la realtà vivente è una totalità in sé
contraddittoria e paradossale che va vissuta come tale, agendo, in altri
termini, in nodo contraddittorio. Ciò porta a dire Groys che l’evento della
pacifica abolizione del comunismo su iniziativa e sotto la guida dei suoi
dirigenti viene sovente volgarizzato come disfatta nell’ambito della Guerra
Fredda, o come risultato della lotta per la libertà dei popoli soggiogati. Si
tratta di spiegazioni inesatte, che non tengono conto della specifica natura
del potere sovietico (cfr. p. 88). I dirigenti comunisti russi, ma anche quelli
cinesi, hanno dato seguito a quello che era il loro compito, basato sulla
convinzione «di dare forma alla storia in modo dialettico e non di sopportarla
passivamente. I marxisti hanno sempre creduto che il capitalismo
rappresentasse la migliore macchina per l’accelerazione economica. Marx lo
ha sempre sottolineato e ha usato questo argomento contro il “comunismo
utopico”. Già dalle giornate della Rivoluzione d’Ottobre era all’ordine del
giorno la proposta di imbrigliare il capitalismo, di strumentalizzarlo e di
metterlo al lavoro nel contesto di un ordine socialista e sotto il controllo del
Partito comunista per promuovere la vittoria del comunismo» (p. 89).
Dopo la fase della statalizzazione, la «ri-privatizzazione ha conferito
definitivamente all’evento del comunismo la sua forma storica. Così il
comunismo non è di fatto più un’utopia – la sua incarnazione storica è
compiuta», dice Groys (p. 93), che immediatamente aggiunge (ed è qui
condensata la proposta provocatoria del libro): «Compiuta significa qui
conclusa e pronta per una ripetizione [cors. ns.]. Di sicuro tale ripetizione non
può costituire un ritorno al comunismo sovietico, che è un fenomeno
storicamente unico e definitivamente concluso. Ma sono molto probabili e, in
realtà, inevitabili ulteriori tentativi di fondare un governo [Herrschaft] per
mezzo del linguaggio, cioè affermare un governo dei filosofi. Il linguaggio è
più universale e democratico del denaro. Su questa base è più efficace come 104
medium, […] è il medium dell’uguaglianza. […] Evidentemente l’uguaglianza
del linguaggio si rompe e si distrugge, se a tutti i parlanti viene chiesto di
argomentare correttamente sul piano logico formale. Il compito della filosofia
consiste proprio nel liberare gli uomini dall’oppressione del linguaggio
logicamente e formalmente corretto. […] La filosofia è un’istituzione che offre
agli uomini la chance di vivere in contraddizione con se stessi, senza doverla
tenere nascosta. Perciò non si può completamente reprimere la speranza
che questa istituzione si espanda a tutta la società» (pp. 93-94).
Si tratta, ci pare di poter dire, di un ritorno della politica come luogo
della costruzione o della progettazione sociale e della decisione, che oggi
avvengono altrove, nell’economia che ha ridotto la politica a un teatrino dove
ha luogo la “rappresentazione democratica” di interessi che operano dietro la
scena e lontano dagli schermi. Ma – insistendo sulla centralità del linguaggio
posta da Groys e probabilmente spostandone un poco la pertinenza - si tratta
anche di focalizzare la capacità formativa, di scrittura e ri-scrittura del mondo,
del linguaggio stesso, prima ancora della sua capacità comunicativa.
Gli esseri umani, specificamente dotati di linguaggio e in quanto tali
animali progettuali, si distinguono dagli altri animali per la loro capacità di
sfuggire al condizionamento della storia che stanno effettivamente vivendo.
Attraverso il sogno, l’abbandono della mente al gioco delle libere
associazioni, che Peirce chiamava play of musement (gioco del fantasticare),
essi sono in grado di prefigurare scenari alternativi, di collegare storie o
esperienze che andrebbero tenute logicamente distinte per amalgamarle in
RECENSIONI
un nuovo progetto, così come sono in grado di ricostruzioni alternative o in
conflitto fra loro di una certa situazione. La logica del linguaggio si manifesta
così come “logica poetica” (Vico).
Cosimo Caputo
RECENSIONI
dedicata al rapporto che la rivelazione istaura tra religione e filosofia con la
finalità di consolidare la tesi, secondo la quale, il rapporto tra finito e assoluto,
mai risolventesi in una sintesi di sapore hegeliano, illustra la filosofia di
Solger come un intreccio tra due punti di vista distinti e in tensione tra loro. Il
primo, di carattere gnoseologico, è ravvisabile nell’istanza idealistica di Dio
che si rivela per conoscersi; il secondo, di carattere ontologico, è la visione
luterana del Dio che annulla il proprio essere per redimere l’uomo dal
peccato.
La riflessione fin qui maturata consente a Ghisleri di indirizzare la
parte rimanente del lavoro verso una conclusione che, chiarendo il significato
del titolo, darà spazio alla tarda riflessione solgeriana dedicata alla vera
mistica e alla relativa concezione «puntuale del nesso di identità e differenza
tra Dio e la sua rivelazione nell’autocoscienza umana» (p. 133), ovvero l’unità
dell’assoluto nella dualità del finito. Ciò è giustamente introdotto da un’attenta
analisi dei Dialoghi filosofici su essere, non essere e conoscere che, dopo
un’introduzione storiografica inerente l’incerta data di composizione, mostra
l’originalità della speculazione solgeriana, contraria sia alla filosofia
dell’identità schellinghiana sia all’infinita espansione dell’Io del “primo” Fichte. 107
Da quest’ultimo eredita l’autolimitazione dell’assoluto mentre da Schelling la
priorità dell’essere rispetto all’Io per fondare, secondo la definizione di
Ghisleri, un “monismo dialettico e dinamico” (p. 95) mai statico ma
perpetuamente ripetuto nella puntualità dell’attimo della rivelazione, che si
conosce attraverso la riflessione filosofica.
Il rapporto tra filosofia e religione è il tema che interessa il
commento allo scritto programmatico Sul vero significato e sulla destinazione
della filosofia, specialmente nel nostro tempo, analizzato da tre differenti
angolature. Dal punto di vista gnoseologico, Ghisleri evidenzia la tensione
circolare e insieme dialogica tra la percezione immediata del «fatto assoluto»
della fede e la mediazione della coscienza filosofica, che pensando l’assoluto
sostanzia se stessa. Il secondo punto di vista, di carattere ontologico,
presenta la rivelazione della «eterna legge del mondo» (p. 115), incarnata da
Cristo, che Solger non considera storicamente, ma speculativamente come
«modello eterno di struttura della realtà, […], rivelazione continua
dell’universale nel particolare, che mantiene la differenza tra immanenza e
trascendenza» (p. 116). La differenza dialettica è il perno attorno al quale
Ghisleri presenta il terzo motivo di lettura del saggio solgeriano, nel quale
sono sinteticamente messe a confronto natura ed etica. Entrambe sono lette
alla luce della rivelazione e riunite dall’autocoscienza umana in cui si rivela la
verità della natura dove l’agire umano diviene compiuta immagine oggettiva
del bene.
Concludiamo ribadendo come la sproporzione ontologica e la
trascendenza divina, conosciuta attraverso una rivelazione istantanea ed
eternamente ripetuta, spiegano il messaggio dell’unità nella dualità
divenendo i punti focali di questo lavoro che apporta un ulteriore sviluppo agli
studi italiani dedicati a Karl Wilhelm Ferdinand Solger.
Andrea Camparsi
108
Paflasmós. Il battito del Mar Egeo è l’ultimo lavoro di Cesare
Padovani. Il titolo, chiaramente onomatopeico, riproduce il rumore del mare,
quel mare che racconta la Grecia e la “grecità”, intesa più che altro come una
condizione intima e personale. Il libro è una raccolta di umori, sensazioni,
emozioni che raccontano di viaggi per le isole della Grecia, la terra “del
domani, la terra dell’attesa che qualcosa possa accadere”, come scrive lo
stesso Padovani, e la culla del mito che è “un dire povero perché privo di
retorica”, comunque sempre attuale. Perché l’uomo si evolve, costruisce
grattacieli, butta giù muri, monta la fiera della scienza, ma, al di là di tutto, il
suo alfabeto intimo è fatto di poche lettere, sempre le stesse nei secoli.
Così il mito diventa patrimonio dal quale attingere insegnamenti e in
cui riconoscersi e ritrovarsi. Qualcosa che sopravvive tutt’oggi anche se con
alcune varianti.
Questo è, dunque, il racconto di “spostamenti” fisici che, come
bussola, si avvalgono del mito, della cultura classica, dei filosofi; è la storia di
un uomo, Padovani, che si accetta per quello che è, per “ il mio tutto” come
egli stesso dice, “che è anche il mio bastone, la mia mancanza di equilibrio”.
Ma “tutto scorre” - diceva Eraclito - e allora il viaggio, da sintesi di ciò che
siamo, diventa esperienza catartica che volge lo sguardo verso l’Altro da sé.
Ecco che il viaggio in Grecia, “che colma il vuoto dell’esistenza”, diventa
un’anànke, una necessità di crescita, di maturazione, un percorso obbligato
costellato di volti, visioni e presenze: Aristotele, Parmenide, Eraclito. Tuttavia
i riferimenti culturali non sono pedanti, il lettore si siede accanto allo scrittore
e guarda, diventa testimone del suo vissuto e lo condivide anche. Ogni luogo
RECENSIONI
evoca una storia, una leggenda, un intrigo, una tragedia. Padovani, ad un
certo punto, scorge l’antica acropoli di Kòrintos, dove la Medea di Euripide
giunge per seguire il suo Giasone: Medea, simbolo dell’amore disperato e
tradito, che sceglie di morire con i figli e, al “perché lo fai” di Giasone,
risponde: “Così tu non potrai più ridere di me”.
Un itinerario di conoscenze, letture, incontri oltre le coordinate
geografiche, forse l’esperienza della presa di coscienza di una vita, con i suoi
dolori e l’orgoglio delle sue scoperte.
La traduzione in parole di tutto ciò è possibile perché è la maturità
che lo concede, difatti si tratta di un’avventura solida, supportata com’è dalla
conoscenza, ma non per questo priva di voli. Una serie di riflessioni su Atene
“che non è più quella di una volta”, sul silenzio, sull’abitudine e, a tal
proposito, Padovani cita di nuovo Eraclito per dire che “l’abitudine è la
peggiore calamità per l’uomo ma pure la sua genialità”. Quindi una ricerca
interiore, una ricerca della propria “grecità”, come Itaca per Kavàfis, cosi la
Grecia tutta per Padovani è la terra del ritorno, di un ritorno a sé, più pieno.
109
Federica Rega
PUBBLICAZIONI RICEVUTE
DA “SEGNI E COMPRENSIONE”
Volumi:
M. CASELLA, Gli ambasciatori d’Italia presso la Santa Sede dal 1929 al 1943, Congelo,
Galatina 2009, pp. 648;
C. CESA, Individuazione e libertà nel “Sistema dell’idealismo trascendentale” di
Schelling, bibl. A c. di C. Tatasciore, ETS, Pisa 2009, pp. 140;
D. COFRANCESCO, Debiti. Percorsi tra Storia e Memoria, Sapere, Padova 2009, pp. 80;
G. FRONZI, Etica ed estetica della relazione, pref. di P. Pellegrino, Mimesis, Milano
2009, pp. 286;
A. LAGANÀ, Precarietà e Fondamento, Falzea, Reggio Calabria 2008, pp. 68;
A. LAGANÀ, Linee di teoria sociale, Falzea, Reggio Calabria 2008, pp. 70;
La persona come paradigma di senso. Dibattito sull’eredità di Mounier, a c. di S.
Sorrentino e G. Limone, Città aperta, Troina 2009, pp. 224;
G. LOBUONO, Tragico samba, Palomar, Bari 2009, pp. 210;
M. MAZZOTTA, Nonostante tutto, Pernice, Bergamo 2008, pp. 190;
PH. PORTIER, L’ossessione dell’Illuminismo. Giovanni Paolo II e il mondo moderno,
Manni, San Cesario di Lecce 2009, pp. 238;
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C.I.S.d.E., Palermo;
Aesthetica Preprint. Supplementa, n. 23, aprile 2009: Premio Nuova Estetica;
C.I.S.d.E., Palermo;
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letterario G. P. Vieusseux, Firenze;
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